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Sunday, March 10, 2024

GRICE ITALICO A/Z B

 

Grice e Bacchin – anypotheton haploustaton; overo, i fondamenti della filosofia del linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Belluno). Filosofo. Grice: “I like Bacchin; as an Italian he is allows to speak pompously as we at Oxford cannot! But he is basically saying the commonplace that ‘intersoggetivita’ has a ‘dialectical dimension’ (interoggetivita come dimensione dialettica) in the sense that the ego (or ‘l’io’) presupposes the ‘altro’ (as he puts it: ‘a cui’) – therefore; it is a presupposition of the schema, as Collingwood would have it, alla Cook Wilson – and thus only transcendentally justified. Bacchin has noted that the operator ~ is basic in that ‘inter-rogo’ invites a ‘risposta’ whose ‘motivation’ may be ‘implicita’ – the ad-firmatum is motivated by the domanda – which can be another dimanda: why do you think so? “Why do you ask why I think so?” --  Bacchin is alla Heidegger and other phenomenologists, with the ‘essere’ versus appare on which my impicata in ‘Causal Theory of Perception’ depend (‘if A seems B, A is not B. Note that there is no way to express this implicata without a ~. It might be argued that it can express with some of the strokes or with some expression that would flout ‘be brief, rather than the simplest” – and which would involve, as Parmenide has it, the idea of, precisely –altro’ (other than). Note that Bacchin equivocates on the ‘altro’ – in the dialectical dimension of intersubjectivity he obviously means ‘tu,’ not ‘altro.’ In the negation or contradiction (in dialectical terms) of an affirmation – which is involved in every ‘dialogue’ that Bacchin calls ‘socratico’ or euristico rather than sofistico (based on equivocation) – the ‘altro’ is the other, A is not B, impying A is other than B (cf. my ‘Negation and Privation’). This does not need have us multiply the sense of ‘ne,’ in old Roman!” -- Giovanni Romano Bacchin (Belluno), filosofo. Dopo aver conseguito la laurea ottenne la libera docenza in filosofia della storia. Insegnò filosofia della storia e filosofia della scienza presso l'Perugia. Occupò anche la cattedra di filosofia della scienza presso l'Lecce. Fu docente presso la facoltà di lettere e filosofia dell'Padova, tenendo la cattedra di filosofia teoretica.  Fu membro della "Società Filosofica Italiana". Morì sulla spiaggia di Rimini.  Pensiero Cresciuto filosoficamente nella scuola metafisica padovana di Marino Gentile, intorno agli anni sessanta, Bacchin presto sviluppò una propria originalità di approccio e di ricerca filosofica, che lo rendono difficilmente assimilabile ad una qualche corrente o "famiglia" filosofica se non quella della libera e inesausta teoresi.  A testimonianza della specificità del suo approccio metafisico si può citare questa sua affermazione.  «V'è un senso metafisico che può andare perduto. Né basta parlare di metafisica e considerarsi metafisici per possederlo. La perdita del senso metafisico è anche trionfo del condizionale e quindi dell'ipocrisia: "direi", "avanzerei la proposta", "mi si passi l'espressione", "vorrei che il lettore ricavasse l'impressione..'", "anche se siamo, il lettore ed io,certo ioimmensamente piccoli", "a mio sommesso avviso" e così via in un continuo spostare l'attenzione su di sé e in un continuo, inutile, domandare scusa al lettore della propriascontatapochezza, rivelando che non è poi così scontata da non parlarne. Nudo e indifeso alla presenza della verità, il metafisico non lo può essere di meno di fronte agli uomini, i qualidi certo- non sono la verità. »  Riferimento costante dell'incessante dialogo filosofico di Bacchin fu senz'altro l'attualismo gentiliano.  Altre opere: “Su le implicazioni teoretiche della struttura formale” (Roma, Jandi Sapi); “Originarietà e mediazione del discorso metafisico” (Roma, Jandi Sapi); Sull'autentico nel filosofare” (Roma, Jandi Sapi); “L'originario come implesso esperienza-discorso” (Roma, Jandi Sapi); “Il concetto di meditazione e la teoremi del fondamento” (Roma, Jandi Sapi); “I fondamenti della filosofia del linguaggio” (Assisi); “L'immediato e la sua negazione, Perugia, Grafica); “Anypotheton” Saggio di filosofia teoretica” (Roma, Bulzoni); “Teoresi metafisica” (Padova, Nuova Vita); “Haploustaton” (Firenze, Arnaud); “La struttura teorematica del problema metafisico”;  “Classicità e originarietà della metafisica, scritti scelti” (Milano, Franco Angeli); “La metafisica agevola o impedisce l'unità culturale europea?”in ‘Il contributo della cultura all'unità europea', Danilo Castellano, Edizioni scientifiche italiane, Napoli); “L'attualismo nel pensiero di Marino Gentile, in Annali, Roma, Fondazione Ugo Spirito. Informazioni biografiche reperibili anche in G.R. Bacchin, Haploustaton, Arnaud, Firenze 1Giovanni Romano Bacchin in Teoresi metafisica, 1984  Berti, Enrico Ricordo di Giovanni Romano Bacchin, "Bollettino della Società Filosofica Italiana", 1Scilironi, Carlo Tra opposte ragioni: nota in ricordo di Giovanni Romano Bacchin a dieci anni dalla morte. in Studia patavina: Rivista di scienze religiose. Filosofia Filosofo Professore Belluno Rimini. Metafisica del principio. Si comincia dopo avere cominciato. L’innegabile è innegabilmente. Negare è escludere un’inclusione indebita. Non v’è limite del sapere. Il luogo del filosofare è la domanda del luogo per filosofare. Ciò che v’è di originario nell’esperienza. La filosofia non ha oggetto e nessun oggetto si sottrae alla filosofia. La riappropriazione metafisica. L’esperienza praticabile è conversione fattuale in fatto. Funzione della parantesi nell’asserzione e l’aporia del dogmatico. L’autorità del dogmatico si presenta come critica di ogni autorità. L’ideale dell’autorità è di essere indiscutibile. Autorità e intelletto si fronteggiano. Ciò che l’intelletto impone all’autorità è di essere ciò che pretende di essere. Il luogo della domanda è l’insufficienza di ciò che si presenta a ciò che, presentan- dosi, non è interamente. L’identità tra inevitabile e necessario è solo co- struita. Il senso in cui non si può domandare tutto. Ciò da cui dipendono le valutazioni del domandare. Il senso in cui non si può non domandare tutto. Domandare tutto è negare di poter asserire. Paradigma del dottrinario in filosofia. Una richiesta che preceda la domanda di verità non può essere vera. Il prefilosofico oltrepassa il sapere di non sapere credendo di superarlo. L’impossibilità di oltrepassare quel ‘limite’ che è la stessa impossibilità di oltrepassarlo. La costante esistenziale dell’esperienza e gli equivoci della sua valorazione. La domanda universale investe il linguaggio come luogo della possibilità dell’errore. Digressione. La base del filologismo in filosofia. Dell’ingenuità storiografica in filosofia. Le due direzioni dell’ingenuità storiografica. L’equivoco storico in filosofia. Equivoco di coscienza storica e conoscenza storica. Le storie della filosofia rendono la filosofia accessibile al senso comune prefilosofico. L’ideale sistematico del prefilosofico si prolunga nella storiografia. Filosofare nonostante la storia della filosofia. Inattualità teoretica dello storicismo. La nozione dogmatica di storia. Il carattere fideistico della tradizione e il circolo del riconoscimento. Due figure dell’accoglimento della tradizione: integralismo e progressismo. La ragione formale come unica ragione delle due figure. L’ideale immanente del credere è coincidere con il vivere. La ragione. Indice. Indice formale presiede nel suo uso ciò che la determina nei suoi contenuti. Se ogni fede è cosmica, ogni cosmo è creduto. La valenza sperimentale è già nella protomatematica, come si esemplifica in Galilei. Il carattere ipotetico di ogni riferimento assertorio all’esperienza. Il rischio erme- neutico è considerare effettivo ciò che è interpretazione, come si esemplifica in Galilei. Il senso in cui la scienza è alienazione. Ingenuità del ten- tativo di fondare scienza e filosofia sull’esperienza immediata. Il campo in cui si discute è ciò che intanto permane indiscusso. Credere di conoscere è non sapere di credere. Il rapporto tra intendere e pretendere è struttura del conoscere. Il rapporto strutturale di compreso e comprendente tra universi. Il rapporto di compreso e comprendente è struttura del contenuto di osservazione. Costanti del progetto d’esperienza e il vettore di interesse. Il progetto fondamentale e Kant. Il progetto di filosofare è il modo filosofico di progettare: miraggio del ritorno all’immediato, Controllabilità e statuto dell’individuale. Ambiguità del sapersi orientare nel mondo. L’intenzione conoscitiva del fenomeno individuale. Progetto del conoscere come adeguazione progressiva. Il co- noscere rappresentato come rappresentazione. Il presupporre è limite presupposto all’operare. La scienza ignora di essere una fede. La scienza non può sapere ciò che essa implica, dovendo postulare ciò di cui abbisogna. La considerazione pensante. La conoscenza scientifica ipotizza la realtà che le consente di ipotizzare. Tentativo della distinzione tra ‘visione naturale’ e ‘visione scientifica’ del mondo. Esame della struttura del ‘punto di vista’ nella configurazione dei sistemi di riferimento. Dopo l’intermezzo ludico, che cosa si intende per ‘considerazione logica’. La logica formale è il modo formale di considerare la logica. Il formalismo della logica è il nihilismo della verità. La conciliazione tra storia mondana e filosofare non può avvenire nella storia mondana. Ciò che si presenta con la divisione pone la richiesta della connessione. Il pensiero si affida al linguaggio per essere riconosciuto come indipendente dal linguaggio. Si esemplifica con l’espressione hegeliana “movimento dell’essenza”. Si insiste con l’esemplificazione hegeliana. Ancora esemplificazione hegeliana: la “cosa stessa” non può venire utilizzata. Il senso della cura–custodia. Il senso in cui il pensare penetra. Il pragmatico è fittiziamente teoretico. La verità mette in questione ogni discorso intorno alla verità. Il nesso tra tecnica logica e configurazione funzionale del concetto. La conoscenza scientifica considera astratto ciò che essa non può considerare. Rischio dell’equivoco tra mera domanda e domanda pura. L’imporsi della verità è l’asse delle pseudofilosofie. Volontà di coerenza e volontà di dominio. Coerenza è fedeltà alla logica di un sistema. Sistema ed esistenza. Esistenza e chiarificazione. Esistenza e coscienza. Coscienza e punto di vista. Il punto di vista fondamentale non è un punto di vista. La nozione comune di esistenza e l’istituzione. Ciò che esiste non è assoluto. Differenza tra teoresi e teoria e l’impossibilità di scegliere la teoresi. La teoresi, che non è teoria, appare in una qualche teoria. Poiché l’intero non può essere oggetto, nessun og- getto è intero. La scienza che escluda la filosofia diventa “filosofia della  natura”. Il mondo della vita impone l’astrazione. La filosofia non vincola a se stessa le scienze. Ricorso alla formula. La “formula” e l’aporia del metodo ideale. Il metodo di filosofare è filosofare, ossia domandare. Inevitabilità dell’astratto. Necessità e cogenza. Il carattere divino della matematica è l’essenza matematica di Dio anche se Galilei non lo vuole. L’ordine astratto si esemplifica in Wolff, ma esso è la logica interna della formulazione del principio di non contraddizione. La “proposizione” è la figura minima del sistema, la forma del quale è l’equazione. L’ideale del conoscere esclude dal conoscere l’operare. Le condizioni del conoscere sono riconosciute nella loro indipendenza dal conoscere, nel conoscere di cui sono condizioni. La relazione, che è esperienza, non può essere relazione dell’esperienza con altro da essa. La conoscenza dell’incono- scibilità dello in sé è conoscenza in sé. L’astratto è inevitabile, ma non necessario. Per dire con che cosa si comincia, si comincia con la domanda intorno a come si comincia. Affermare la totalità è dimostrare che es- sa non può venire negata e, dunque, non abbisogna di venire affermata. La condizione apriori è trovata analiticamente, perché è contraddittorio che, nel no- stro conoscere, tutto derivi dall’esperienza. L’uso è unicamente empirico ed è riconosciuto trascendentalmente. L’analisi è la presenza operante del “principio di non contraddizione”. La struttura sintetica del giudizio è l’infinitezza dell’analisi. Il giudizio è domanda infinita di venire fondato. Tra esperienza e giudizio non sussiste rapporto, perché l’esperienza non può essere un giudicato. La prima forma di mediazione è l’immediatezza fenomenologica, o medialità. Il contessere infinito del dato non è dato. Ogni ordinamento di oggetti è teorico. L’oggetto è pluralità di oggetti. Se è astratto l’oggetto, è astratto il suo contesto. L’intuizione astrae dal contessere infinito. Ciò che è dato per primo è risultato di un processo astrattivo: l’intuizione non è originaria. Differenza tra teorica dei giudizi e teoresi del giudizio. Impostazione. L’interpretazione empirica dell’oggetto “come tale” quale “oggetto in generale”: trascrizione generalizzata degli oggetti. La sintesi precede ogni analisi e la condiziona. Il conoscere presenta un duplice livello: quello del suo fungere che costituisce l’oggetto, quello della consapevolezza di tale fungere. Il conoscere muove dalla fiducia nello essere in sé del conosciuto, con base esclusiva- mente pratica. Può venire formulata anche la contraddizione, dunque la forma proposizionale non è struttura del giudicare. L’analisi come pre- senza dell’incontraddittorietà formulata come “principio di non contraddizione”. Un giudizio media la posizione di altro giudizio: medialità posizionale o fe- nomenologica. Di volta in volta un giudizio può valere come analitico o come sintetico. Si intende di sapere con necessità. Se v’è un modo empirico di conoscere, v’è un modo non empirico di riconoscerlo. Kant conosce analiticamente che la conoscenza umana è sintetica. Nessun giudizio matematico è conoscitivo. La ragione dell’aritmetica è un fatto, perché le risulta possibile ciò che le risulta fattibile. Le categorie. Indice. Indice trovate dall’analitica sono usate dalla stessa analitica. L’esperienza è condizione del darsi delle sue condizioni. “Cosa” ha significato operativo. Il tempo è essenzialmente prassi. Spazio e tempo provengono dalla sintesi dell’intelletto, ma operano nella sensibilità. L’oggettivazione dell’esperienza è matematizzazione, di cui il trascendente è negazione. Il trascendentale è, ma non appare. La sintesi è negazione di se stessa come negarsi reciproco dei suoi termini. Tempo e durata. La presenza fungente dell’apriori è analiticamente reperibile nel dato e non lo eccede. La differenza tra conoscere e sapere è conosciuta e saputa. Conoscere non è sapere e l’oggetto è matematico perché è oggetto. Esemplificazione con Kant di ambiguità fra matematica e conoscenza. Il conoscere della matematica, essendo matematico come conoscere, non è conoscere. La volontà di potenza è l’impotenza dell’io nei confronti delle sue rappresentazioni. L’io si riferisce a se stesso come dato all’io. Non vi può essere una ragione pura. Teoresi e finitezza della ragione. Il senso teoretico dell’inconoscibilità dello “in sé” è quello dell’inoggettivabilità del vero. La ragione è strumentale per se stessa. Il carattere filosofico della pricerca.   Il carattere dialettico, o negatorio della filosofia.  La dialettica dell identico livello.  La dia-letticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio.  I limiti di validità dell analisi nella filosofia del linguaggio.  Limiti di validità e valore.  Come è possibile una filosofia del linguaggio.  Concetto di  "teoria" e sua riduzione. La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica dell intellettualismo.  La nozione ateoretica dello  "in generale" come base della teoria. Riduzione del procedimento analitico all inde terminato, cioè al contraddittorio. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato.  La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico sulla totalità. La domanda totale e la totalità domandata. L intero della domanda totale e della totalità domandata. La conversione dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare.  La domanda come riferirsi in atto alla risposta.  La problematicità della  "definizione"  concettuale.  L intersoggettività come dimensione dialettica.  La struttura dialettica dell'implicazione.  L'insignificanza teoretica del disaccordo.  La preoccupazione di raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua. Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune.  La superfluità del problema del  "solipsismo". Presenza e coscienza.  La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione. L'attualismo come attualismo  puro. La realizzazione come negazione e come posizione. L'attualismo monistico come naturalismo. La presenza pura. La coscienza della presenza pura. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra presenza e pre-sentificazione.  Importo teoretico dell'espressione "Verum et esse convertuntur".  La metaforicità intrinseca delia parola. La "cosa stessa" come l'intero di se stessa. L identità pensare-essere.  Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola "cosa". La duplice funzione della parola  "cosa". Le condizioni ad un indagine critica. L atto critico o negatorio come atto di pensiero nella coscienza.  La ricerca del mezzo logico adeguato e l interrogazione. I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi. La riduzione pretesa del  "sapere" al  "potere" e il concetto ateoretico di  "teoria". L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti.  La teoria come formulazione generale.  La radice dell'interpretazione matematicistica.  Le condizioni imposte dal concetto d interpretazione.  Il carattere teoretico del controllo sull esperienza.  Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni.  La determinazione come ritorno dell atto: totalità di definizione e totalità di esaustione.  La totalità di definizione come "essenza". L' atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale.  Il modo indiretto dì dire l'essenza. Originarietà e mediazione nel discorso metafisico (Il "Tema"; Svolgimento delle indicazioni teoretiche del "Tema". L'originario come implesso esperienza-discorso. L'"Esperito" e l'"Esperienza integrale". Il significato dell'"Implesso"; Il senso dell'"Originarietà" dell'"Implesso". Il concetto di meditazione e la teoresi del fondamento (L'impostazione; La "sospensione" degli enti dall'essere). Giovanni Romano Bacchin. Keywords: anypotheton, haploustaton; ovvero, i fondamenti della filosofia del linguaggio, il discorso metafisico – a new discourse on metaphysics, from genesis to revelations, etymologia di ‘autentico’, l’esperienza e il disscorso, implesso esperienza-discorso;  anypotheton, haploustaton, anypotheton hypotheton, supponibile, insupponibile, haplloustaton, superlative di haplous, simplex, simplicior, simplicissum, simplicissmo, complesso, simplice/complesso, simpliccismo, simplicissimo, complessissimo, complesso proposizionale, semplice sub-proposizionale – implesso, analisi del concetto d’impicazione – senso e significato – senso e segno – proposizione – funzione proposizionale – Whitehead. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacchin” – The Swimming-Pool Library.

 

Bacchio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Bacchius. He was a member of the Accademia. Antonino attended his lectures. He was the adopted son of Gaius.

 

Grice e Bacci – I bagni dei romani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sant’Elpidio al Mare). Filosofo Italiano.  Grice: “You’ve got to love Bacci; he was born in the Italian equivalent of Weston-super-Mare, and therefore, he dedicated his philosophy to swimming!” – Studia a Matelica, Siena, e Roma. Scrive “Del Tevere, della natura...”. Pubblica il “De Thermis”, un saggio sulle acque, la loro storia e le qualità terapeutiche che venne accolto con entusiasmo. Dopo aver ottenuto la cattedra alla Sapienza e l'iscrizione all'albo dei cittadini romani, e nominato Archiatra pontificio. I saggi “Delle acque albule di Tivoli”, “Delle acque acetose presso Roma e delle acque d'Anticoli”, “Delle acque della terra bergamasca”, “Tabula semplicim medicamentorum”, “De venenis et antidotis”, “Della gran bestia detta alce e delle sue proprietà e virtù”; “Delle dodici pietre preziose della loro forza ed uso”, “L'Alicorno”. Il monumentale trattato “De naturali vinorum historia”, un compendio in sette libri su tutti i vini conosciuti. Tratta temi relativi alla vinificazione e conservazione dei vini; Consumo dei vini in rapporto alle condizioni di salute; Caratteristiche peculiari dei vini; Uso dei vini nell'antichità classica, Vini delle varie parti d'Italia, Vini importati a Roma, Vini stranieri. Note  DBI.  Andrea Bacci la figura le opere, Atti della giornata di studi tenutasi il 25 novembre 2000 a Sant'Elpidio a Mare. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Andrea Bacci Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Bacci  Mario Crespi, Andrea Bacci, in Dizionario biografico degli italiani,  5, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. De Naturali Vinorum Historia De Vinis ItalEae et de Conuiuijs Antiquorum Libri Septem Andreae BacciI Traduzione del libro Quinto nella parte dedicata ai vini delle Marche, Gianni Brandozzi, Associazione culturale Giovane Europa, Filosofi italiani del XVI secolo Medici italiani Scrittori italiani Professore Sant'Elpidio a Mare Roma Enologi italiani. In quo agitur de balneis artificialibus, penes instituta recæperit, hoc tempus non esta deo compertum, nisi quantum legitur fuisse antiquissimum. Nam ex omnibus monumentis quæad notitiam hominum peruenerunt, vetustissima huncritum lavationum, perinde necessarium ad communem vitam commemorant. Balnearum enim mentionem invenio non modo ante ROMANORUM IMPERIUM. Sed ante asiaticos etiam et chaldæos extitisse. Imòsiiactatis, antequam ulla extitissetliterarumin ventio, dicterija credamus; extat apud Pisandrum id circo Calida balnea fuif fe natura bal. cognominata Herculea, quòd Minerva olim fesso Herculi calida parasset. Vel  veterum et Galeni in Thermis primus la tascoengerit quodammodo ad lauacra homines. Quippe ean ecessitas, quæ uationumv a primordio rerum monstrauerat mortalibus ex agresti vita victum quærere, sus. Tecta construere,abæstu& frigoresetueri:eadem & fordesabluere,mun ditiæquecultum monftrauit.primo quidem quantum vitæsatisfaceret,donec paulatima liqua industriaadhibita, laffata corpora mollia quarum foturecrea reedocuit. Verum quando id inftitutum locum aliquem in REPUBLICA HABE ROMANORUM, VANTA fuerit naturæ solertiaincumulandis gratijsaquarum spontemanantium et quæ differentiæsinttùm simplicis Elementi, tùm consequentes ex misturi. Et quisvsusearumin balneis. Hactenus proeoac potuimus explicauimus. Quis enim pro dignitate naturæ, speciales proprietatescunctarum aquarum sermonem consequi audeat? In hisautem quæ ad thermarum vsum dicendarestant, sirectèquis thermarum ARTIFICIALIUM magisteriaconsi dignitas. deret, summum artis cum natura certamen videri poterit. Ut tnesciam anadeo sciuerit natura elargiri mortalibus tota diumentorum materiam, torqueadeo diuinæ dispositionis ostentare miracula inaquis. Quanto maiora funt, quæ arsaddiditornamentain Thermissuis. Præsertimfubila ROMANI IMPERII maiestate. Inquarum monumentis,quæ exeispartimvidentur et partimle gunturapud varios authores, nons atisconstatapudme vtra fuerit maior, an magnificentia operis ad illorum temporum instituta, an commoditas popu. larisadvtilitatemlauationum.Principiononeftdubium fiprima quasiin cunabula cæterarum rerum coniectemus, quin ipsa vitæ, ac naturæ necessi quia   quia eidem (vtAthenæus est author)vulcanusmuneris vice feruida suppo fuisset. Etlivera credimusre tulisse Platonem tamspectatæfapientiæautho rem,superatomnium seculorummemoriam, quamipsetraditexantiquissi mis monumentis, de Atlantica maxim a olim insula nun c Oceano ipso occupant aextram Columnas; quam Neptunimunere cùmomni delitiarum genere Thermar r o n clarssima, habuisse refert ipse etiam balneas quæ omni cultu ornatæ partim usus, quidem subdiuopaterent, partim verò subtecto calentia haberent lauacrahy Είμαζα, τ'έξιμοιρα, λοιπάτε θερμα,καιανα cus Sexcenti sautem post Homerum annis,Hippocratesprimusmedicinæau derat. thor, Thermarumvsum curandarum ægritudinum causa, tanquamreiiam in Græciacommunitervsitate commemorat, ac damnauit aliqua. Floruitau tem (ut ratio temporum habeatur) natus primo octogesimæ Olympiadis ut Hippocrates Soranus tradidit circam Peloponnesiacum bellum:quod teste Plinio gestu estàtricentesimovrbisRoniæannoexactisanteàRegibusannos circitersexa ginta,& ArtaxersePersarumRegemagnam Græciæ partem, & Hellespontú occupante. Poftquæ temporadum Græciaindies Sapientiffimorum virorú scriptis venirent illustrior, perpetua habemus de Balneis testimonia, Socratis, Platonis, Aristotelis, cæterorum quesuccessu temporum authorum,qui& Aliam, & PersiamnonfolùmGręciambalnearumvsumhabuissefamiliarem LaconesTber testantur. Laconesinter Græcos antiquiores, primamlaudem Thermarum marimiznitanquam suuminuentumsibivendicare videntur, Dioneauthore: ac abeis tores. pofteà huncmorem reliquas nations didicisse. Quod confirmatpartium nomina in Thermis Romanis, quæ omnes græcæ suntvoces,laconicum,Hypo cauftum,Miliarium,& Thermæ ipfæ, nedicam cætera. Ex quibusconstat vsumThermarumapud Romanos fuise posteriorem, aceasinæmulationem græcorum constructastestanturMarcus Varroin librode antiquis nomini bus,& item Vitruuius.VeruntamensubilaRomaniimperijmaiestate, sicut omnes artes floruere, ac inuenta prius ab alijs meliora cuasére, vnde meri to Roma QUASI ALTER A MVNDI PARENS dictaest: itaomnium maxi mè Thermarumi nftituta incredibiles, & supraquàm exprimivnquam pof sit,habuêreprogressus,eatamen obliterataferèad hancætatem,necliteris mandata, multisforsanèdoctishæcmeliusscientibus.Quamobrem nos, volentes ad noftrarum lauationum regulam, antiquum Thermarum vsum rcuocarein lucem; operæ precium eftRomanarum institutaprosequi:inqui bus quæ prima ipsarum introducendarum ratio fuerit, quisordopartium,& quisvsus,& quæ tandem ineis medicinæ pars extiterit,percurremus. In Critia, berno tempore, atque feorsumaliaregibuspriuata,alia viris,aliamulieri bus,aliaitem equis, cæterişúeiumentis. Posterisveròseculispater Home rus, cuiusscriptisnullumconstatapud Græcos testimonium antiquius,mul toties calidaruin lauationum mentionem fecit. Præcipuè verò in Odysseæ lib. 8.vbi Poëtaomnium fermèrituum memoriadignorum obseruátissimus, Thermas indeliciiscommemorat illisversibus. vic. Homeri lo Aid δωμϊνδαίς τεφίλη, κιθαρίςτε, χοροίτε, De  affiduis primùm venatibus deditos,necminusagrestibus operibusedu catos, nonaliaferè industriatùm amplificandæ Reipublicę, tùmdefen dendæquùm opusfuit, præualuiffe, quàm quoddurataiampacislaboribus corpora,facilèquodcunquemilitiæonussustineredidicerant.Inquo perce lebremhabemus Quintium Cincinnatum, abaratroaddictaturamvocatum. Itemque C. Fabritium et Curium Dentatum, qui rure ac militiæ laudatissimi, omni Spicula contorquent, cursuque, ictuquelacescunt, Abhisergoexercitijs, vterant frequentes, harena, puluereque conspersi, ac fudoreprofusiatqueoleo,vtseminudi acexertisbrachijs,cruribusque,vel liberosaltemhabitu, quo degebant, vt effent admunia propriores, necessario lauationes pofcebant. Qua dere, dum adhuc nouitiavrbs inhis studijs Patres campum Martium vicinum Tyberi, in quo iuventus post exercitium Lib.1. c.10 armorum, ludorem, pulueremque dilueret, aclassitudinem,cursusquela borem natandodeponeret. Qui mos vt paulatim èreipsa, & quasi nemine Lauationes instituentese in ciuitatem ingessit (quem ve plurimum soletese nouo rūrituum in Tyberi, introductio)itatandem crescente indiesiuuentute,armorumquefimulac exercitiorumaffiduostudio,viamtamfrugiinstitutiaperuit. Sanèin ciuile videri nobilem ciuitatem in luculentis Auminis aquis quotidielauari;aclaua craid circo Asiaticorum, & Græcorum moreparandaesse,quæpostexercitia non ad munditiam facerentsolùm, verumetiam recrearent, maiusque robur laffatis membrisadiungerent.Quod tamenpropositumlongissimèdistulêre: nonquideminscitia,autvecordiatamgenerosæciuitatis, sed propter  Antevrbempueri, & priinęuofore iuventus. Exercenturequis, domitant que in puluerecurrus. Aut acres tendunt arcus, aut lenta lacertis 7. Aeneid. Lauationum Deprimis Thermarum institutis in vrbe Roma. Aris quidem constar Romanos illos Quirites,antiquosque Sabinos, satissuntexemplonobis, hæcfuisseilliusseculiftudia. Non pecuniapræua lere, non forma, nõ ambitiofo hominum comitatu, non stemmatis dignitate certare: fed totamvimin proprijanimiexcellentia,viribuscorporis,acexa etacura Rei pub. collocare. Feruebant honestælaudisemulatione ingenia, vt quosarma,& propria virtus ad prim s ciuitatis honores euexerant, studio, ac laboreæ quarent. Quare vbi militiæ in externosceffasset occasio, ROMANORUM quasi natiuo instinctu dediti ad labores, autrurese agrestibus exercebantope-studia. ribus, autaddisciplinamac roburcorporis, ciuilibus,ijsquevarijs exercita mentis vtebantur: cursu,disco,faltu, lucta,& pugilatu,natatione, atque armis. Quem more man t è urbem conditam fuiffe quoue. APUD LATINO antiquissimum, planèilis versibusrepresentauitVergilius. necessitas. 36 strenuè adolesceret, præclarum habemus Vegetij testimonium,constituisse gruentem,au&taque fpatio temporis,spectatævrbisinfinitimasterrasautho Aquaríper ducen.decre ritate; deaquistandem èvicinis montibus, Auuijsquein vrbem perducen- tum. 1 (vtegoreor) potissimascauffas:Tùm quiaprimiili Patresnontamfrugifu turumolimhuncritum existimauêre, quàm luxui, ac mollicieiforelenoci nium; id quod accidisse, posteà declarabitur. Deinde ob aquarum incom moditatem,quarum incolles,vbitunchabitabantdifficiliserat,& nonsine maximaimpensa,perductio. Verùmhoc laucitiædesideriovniuersimin dis, duas   dis, decreto S. P. Q. R. publico ftatutum est: quæ & potuum fimul,& laua tionumritui suppeterent.Quod factum est primùm M. Valerio Max. P. De cio Mure Coss. (authore Plinio) aqua Tyberinarī Appia ex Tusculano per ducta, Censore Appio Claudio curante. Aquibusté. porusdimif. poribus, Tyberinarum aquarum vsus,adeam vsque ætatem tàm potu, quá sus. lauacrofrequentiffimus, exolescerepaulatimincepit:aclauationum simul, atque exercitationis gratia (ut tradit Festus Pompeius) Piscina publica ad cli Piscina Pub.uium Capitolinum iuxtàTyberimestconstituta.Pofteà Thermæconstructę. stitut& uationumduntaxat,conftitutæ fuerant,haudmagnum habuêre progressum. Visicùm auctaciuitate, simul atquecrescenteindiesineisiuuentutisapplau. fu; semper maiorisearum capacitates ratiofuit habenda.& præsertim vbime dicorum consensu incurationem quoque ægritudinum suscipicæperunt.Ve rumtamenpostinitiadiuadmodum consuetum fuitangustasfieri,actenebri cosas;nonenimcalidævidebanturnisiobscuræ;quem admodum fcribitSe necaadLucillum,fuissebalneum Scipionis Aphricani ad Linternum. Causa verò amplificationis Thermarum præcipua, fuit Palæstrarum adiunctio. Quippe cùm apud Romanos veteres, ferèvfquead Augustum,nonadeo multa extiterit architecturæ dignitas, nec adeo fuerit consuetudinis Italicæ. (vt desuotemporescripsitVitruuius,& multoetiampost)cumPalęstrisLa uationes habere coniunctas;contentus quisque ruralibus exercitationibus, ThermeadvelCampo ipfoMartio,& harenaPlatearum;solasin Thermisobibantla exercitia có uationes. Quo ritu ad imperium vsque Principum perseuerante (vnde planè stitute. constarepoteritThermas exercitiorum cauffa fuiffeinstructas)vbicunqueali qua fierent publica edificia, ac populi celebritas,iuxtà constituebantur & Thermæ.Exemplo primùm Agrippæ clarissimo;qui ob celebritatem admira bilistempli Pantheon,atque Campi Martij; iuxtà,Thermas suas extruxit. SicNeroposteàNeronianassuasiuxtà Agonalem circum, ob Ludos,quiibi fiebant celebres,constituit. Necfecus authore Suetonio TitusVespasianus dedicato Amphitheatro,Thermas celeriterextruiiussit: nimirùm ad Amphi Palestrari theatri,& exercitiorum, quæineofiebantcommoditatem. Donectandem cum Ther.illustratacuniImperijmaiestateArchitecturæperitia,moreGræcorum Palæ mis coniun-ftræcum Thermis fuêre coniunctæ,vbinimirùm generosa iuuentus,relictis iamruribus,atqueharenis,simul& exercitationesobirentomnisgeneris,ac lauarentur. AtquehincnonsolumoperaThermarum fueruntelegantiùsdi. sposita,atque admodum amplificata, sedtantam etiam promeruerunt o m niumgratiam,vttotaciuitaspaulatim hancsusceperitconsuetudinem,fre quentare singulis diebus Thermas, & tàm Senes,quàm consulares,atque amplissimiordinisviri,necnonartifices,& matronæ.Proveteriinstituto, acftudiovirium,promunditia,& prosanitate,atqueomnicuracorporum. Romanarum Thermarum cenfura, atque Magnificentia,  Quæ quoniamfrugiinprimis,obeam, quam dixi causam et ad ritum la.10 Etæ 40 čtio. A e c ergo initia, atque hæc incrementa fuerunt thermaru m Romanorum. Primò quidem institutæob ritum laudabilem,quem exer citium,& vitæratioillorum temporum inuexerat. Deinde au Therme con Therma auCtæobcommunemvtilitatem,& magnificatæcumpalestris. Eradfum mam tandem amplitudinem, acmagnificentiamperductęobdelicias.quem ad modum à nobis ex earum aliqua descriptionem on f trabitur. Quan quam id quidem, prorei, atq;vrbis magnitudine, haudnostroindigeret testimonio,descriptio quiMedicinęduntaxatineisinstitutaprofiteremur: nisiminusplenèomnes,curnecela quide Architecturaconscripserunt, earummaiestatem expreffiffent. Nam ria. quidde Vitruuijlibriseliciemus,nisinudaquædam lineamenta,atqueeaqui Invitruvio dem nonadmodum explicata,paucaquelocabalnearumsuitemporis,quan-censura. doperangusta,& blactariafiebantbalnea(vtpauloantèex Senecætestimo niodiximus) quæeiusætate,& poftcà maximè, locuminter primasædificio rum vrbismagnificentiashabuêre?Minusàiuniorum scriptis,quimutatis rebusposttotsecula,acminus concordibus, quifparfimdeeismeminerunt authoribus; fatissibi,atquelegentibus fecisseratisunt,sivastamduntaxat Thermarum dixerintmolem, acDedaleioperisinstaradmirarentur, cùm ta men Romanarum rerum magnitudo cunctarum nationum miracula supera- Medicorum. uerit, non in Thermis folum. Minimè omnium à medicis. Quos turpe h o dieadrectam lauandiægros institutionem videri deberet hæcignorasse; indi gnissimumveròproea,quam profitentur Galeniimitationem,quæ vixvlla essepotestsinehorumrituum notitia, inquibus ferètotaeius doĉtrina versa 20tur. Quam obremoperæ preciumest, advniuersam instituti nostril rationé, Therme an aliquam ThermarumVrbanarum,partiumq;ipfarúcensuramfacere.Princi-publicę,an pioThermas fuissedecreto publico constitutas, (vt eftdictü)non eft dubitan priuata. dum.Nam idmultæ declarantauthoritatesscriptorum,acmarmoreæ tabu læ,inquibus vel Senatusconsultaleguntur, vellegespositæinThermis,ve! munera. Quę exmultispofteàritibusdeclarandavenient,vtpotè,inaliquo publicogaudiosinemercedepræstarisolitas;veloleum gratuitodari.incom muni veròluctupublicè Thermarum vsum interdicisolitum. Imò in priua tispęnisexéplum legimus apud Valerium Max. lib.2.Titio pręfectoobigno miniofam deditionem Calpurnium Cor. Conuictum hominum, & balnearu vsuminterdixisse. Verùm quinegantThermasoperafuiffepublica,memi sedinThermis:quarumhodieamplitudinem,accelebritatem,hac sancta religioneintroducta, templanostra, ac pia xenodochia immittantur. Quare & Thermæ Xeniædicte, quæitaapudgræco scognominarifolebant, quasi hospitales,& gratuitæ, quo cognomina Thermarum publicarum vtitur manı  Thermarum nissedebent magnificos in eis Imperatorum titulos, qui æternitate nomi- Thermarum nissui, tantioperismagnitudine affectassevidenturacRomanis suis, vel Po- magnitudi Oo pulo gratuito constitutasindicant.Quo planum fitetiam,easfierioportuis secapacissimas. Non enim in templistuncconsueuit populus congregari, quæidcirco angustafiebant, acsuisquisqueindigetisacpenatibuseratcon tentus, Tuniorum, nis ratio. Therma xea 40. Vnde perperam inhistorijsretulit Volaterranus, quiblice. M.Tulliuspro Cælio legitproSenensibus, cùm nus Francisci Patritij imitatus, Senias primas verò scripta subSenarummenioria.Inter quam balneainantiquislegantur, quarummeminititem palatine.,credo fuiffe Palatinas, atquehas xenias per acpublicas,ademissaria Aque Claudiæ adeaspofteå Cicero,vbiSex.Rosciusoccisus,authoreeodemSene,earum cura erat publici muneris Max. ductæ. Necminus ætatem, quails & Cato, & Fabius ca, nobilissimos Aediles antesuam, acsuaetiam & alij, populum inthermis exigend imunditias gratia receptare niæ dop H. 2   manutemperare folitos. Balneatorestamenin Plautolegimus, & pofteain Balneatores M. Tullio pro Celio, quieiministerioaderant. EtIureconsulcus.Instru et Balneato me nto inquit balneatorio legato, balneatores continentur, quoniam sinerium lega ti. his balneæ vsum suum præber e non possunt. Producto autem seutis annis instituto ipso ad luxuriam Principum, non solùm capacitatitantæ vrbis con sultum eft, fed citrà vllam mensuram aut modum, & vt Ammianus aflimi Thermarunlat potiusprouinciaruminftar,quàmvlliusædificijforma Thermascæpe numerus Ther.Impe runtextruere. Extatinterprimamonumenta,M.Agrippam,inAedilitatis munere;quodpostconsulatum gessit,gratuitapræbuiffebalneaquæ'po steasub Nerone,vt testator Plinius, ad infinitum auxêre numerum. Sextus autem Aurelius victorin censu partium vrbis, Thermas, amplissima opera Imperatori axii. nominauit. Priuatarum verò balnearú, quasad priuatosvsus Ther. Priua qui lautè viuerētsibiinproprijs domibus compararunt, numerum exeodem ta. fubducimusferèdcccLx.quassuccinctèperregioneshicrecensebimus. Prima s ergo ha r u m duo deci m n o n eft dubitandum, fuisse Agrippę  Thermas, qui Ther. Agripeo dé authore Plinio, imperáte Augusto eiussocero, multa & egregiainvrbe perfecitopera, ac Thermas fuaslytostrato,acencaustopinxit,& pauimétaex Neroniana. vitropofuit. ErantautemvltràCampum Martium adfiniftram templiPan theon,vbinunclocusvulgòCiambelladicitur,vtquæin Campo & inAgo nali Circo exercitaretur iuventus, hinc Tyberisnaturalem aquam, hincverò calentiuminThermisaquarumhaberetcommoditatem,vbilauaretur.Ineis verocùm neque capacitati, nequeadeodelicijs consultumfuisset, eodem au. thore, successitquadragesimocirciterpofteàanno Nero profusiffimusImpe. rator, quiad Agonalem ipsum CircumsecundasThermassuonomineextru. xit.Inquibus,vtscribitLampridius,syluasdeputauit;& nonfolùmdulces, Alexandri. sedvelmarinasaquasinterdum,velalbulasperAquæductusAnienisadduci Hadriani Traiana. eum fecissememinitSuetonius.PonitidēLampridiusAlexandrinas,abAle xandro Seuero extructas in C a m p o Martio, quas quidam easdem esse N e r o nianas putant, quam tanto imperio fastuo- 30 sam,par erathacquoquenoncareresuperbia.InIli& SerapideMoneta Regione, c ù m Titus Amphitheatrum dedicasser, Thermas iuxtà celerite rex truxit, Suetonio;quæ tertiæfueruntImperatoriæ,nimirùm inAmphitheatri celebritatem& commode (vti diximus) & id circo breues. Quartæiuxtàhas Traianę, quas Traianusobhonorem Suræ, cuiusstudioad imperium perue nerat,erexit,acTitiThermismaiores,vbiquæextantmiraAquarum rece ptaculaseptem Salasvulgo appellant. Priuatæveròintotahac Regione Bal cömodianæneę xxx.I n Regione ad Portam Capenam, quintæinordinefuerunt Com & Seueria-modianę,quarum &Alexandrum Seuerum affectassenomen videtur: etiamsi nę. Antoniana. interpriores, acnoftrosantiquarios, aliquafitdelocis, & temporibus,& cognominumassignationevarietas.Inquapræterhas,extantalicuiusnomi nisapud authoresciuium balnea,Torquati,Vettij Bolani, Mamertini, Aba s c antiani, Antiochiani, & priuatæ aliæ Balneæ Lxxxv. Sextæ in Circo Maximo Antonianæ, quasmaximas verè dixeris, Spartianoauthore,quieasm e minitadradices AuentinicollisAntoninumImperatoremcognomento Caracalla minchoasse,perfeciffeveròeundem Seuerum:mirahodie architectu ra,   ratoria. pa. na. Agrippina. Titi. instauratas. Adhæc P.Victor Hadriani Thermas. Et ex priuatis Balneisintotahac RegioneLxu11.Eodemtemporeerexitquoq;suasTher-: mas iuxtàExquilias Agrippina Neronismater ra,necimitabili,cumPalęstrisconiuncto.Inhac& Varianæ,& Decianępo sterioresnumeranturaP.Victore,necnon Syriacæaliæcognominatę, & Pri uatæaliæLXIIII. Seueriquoque nominef uêrein TranītyberinaRegione Scueriane. Thermæ, eode in Spartiano teste. Necnon Aurelianz,Vopisco. Balneuitem Aureliane. Ampelidis, Balneum Priscilianæ, & Priuatæ aliæ 1xxxvi. Inter Esquilias &Montem Celium, apud Titi & Traiani Thermas, PhilippiImp. Thermas Gordiani. amplifl. ac pofitum estadperpetuamreimemoriaminipsabasylicadistichuin,deAngelis. Quodlicànobisest restitutum. QuæfuerantThermæ,nunctemplum estVirginis,auctor El Pivs ipsePater,cediteDeliciz. ruptèdicuntur,&PriuatæintotahacRegione 1xxv.Porròrecenseturinli. EsquilijsRegioneOlimpiadisLauacrum,vbisummo colliculoSanctiLau Vltimæ Cæsarum nomine, Constantinæleguntur ThermæinCliuoMontis Quirinalis. Quas non reparatas, non d e integro ex tructas à Constantin o e x i ftimo, cùmvetuftofatis appareant opére. Necnonmarmoreæ tabulætestimo nio,quodlegitur: HAS CIVILI BELLO DEVAST ATAS QVANT VM PVBLICÆ PATIEBANTUR ANGVSTIÆ PETRONIVS PERPENNA RE STITVIT. Propèhas L.quoq; PauliBalnea,quæ vulgò Balnca Napolicor- Balnea Pau rentijinPanisperna,monialium ecclesiahodiecelebratur. Adcliuumcollisà Olympiadis. Suburra Agrippinæ Neronis,quod diximus Balneum, & infrà Nouati ciuis alix balneæ, vbi S. Pudentianæ est ecclesia. Et Priuatæ aliæ in totum lxxv. Subinde vede Priuatisreliquisbreuiteragam: erantinquartaRegione,vbi& Templum Pacis, Priuatæ BalnexLxxv.cum Daphnidisbalneo. InCeli montio xx. InviaLataLXXV. InForoRomano iXVI.InPiscinaPubli. caxlinn. InP alatioxxvi. PluresinMartialesparsimlegunturThermæ, Tuccæ,Hetrusci,Grilli,Lupi, Fortunati, Pontij, Seueri, Fausti, Peti,Ti ti, Tigillini, quarum locanon assignantur. PorròextraVrbem nonminor Thermarum cultusessedebuit, vtexquarundam preclariscolligimusm onu, Constantina. mentis. Erantad Hostiam P. Tacij Thermæ, centum Numidicis columnis Thermeer Ooij adscribit Pomponius Lçtus. Necprocul Gordianorum Domus, quam descri psitIul.Capitolinusadmirandam,ducentascolumnasvnostilohabentem,& cum Therinisadeolautis,vtprætervrbanas,vixaliæfimileshaberenturin toto orbe terraru m. In a lta Semita Regione, Viminali colle, Diocletianæ ex - Diocleti.1 1.. tant Thermæ, quasincçperatquidem Diocletianus Imp. cuni ordine exactif simo, atque amplissimoPalestrarú omnium generum,inquarum opus quadra gintamilliaChristianorumeum addixisseaccepimus. Ob magnitudinem tamen (v tin Marmorea tabula legitur)CONSTANTIVS ET MAXIMIANVS OMNICVLTV PERFECTASROMANIS SVIS DEDICAR.Hę,cùm in fermè ædificio admirandæ permanerent, hodieCartusiensium Mona tegro sterio Sacræ, Pio Iu11.Pont. Max.subtitulo Sanctæ Mariæ de Angelis magnificèrestaurantur: Curante M. ANTONIO AMV110.S.R.E.CARD. S. Maria exornatæ. Arpini suas instituitThermas Cicero,scribens ex Asia ad Q. Fra trem. Erantin Lucullano, quænunc Frascati vulgò dicitur, Luculli Thermæ, vbi nos integra vidimus Hypocausti vestigia. Ad Baias autem Thermæ Baians. erantprætervrbanas,supraquàm quisoptarepotuissetvoluptuofiffimæ,na turaipsaibia quasvberriinè fuppeditante,gelidas,calidas,& plurifariâfalu bres,quasfatisinsuishistorijscelebrauimus.Quid verò hìc cęteras Italię pro sequar Philippi. Trarbem L.  haberet? Quinetiam Rusticanas, inquibusfamilia (vt inquit Columella,& Rusticana. exeoPalladius) ferijssaltemdiebuslauaretur: nequeenimfrequenteniearū vsum robori corporis operariorum conuenire. Similiterhunc morem acce Aquarum maris, & portuumcommoditate, aquarumduntaxatsustineretpe-': nuriam;hacinpartevenisseincertamenquodam modo cum naturavisaest, vtaquarum quoque essetabundantissima. Itaquecumhocdesiderio, crescen teindiesinstituto Thermarum, & modò aliaatquealiaadducta multo spatio temporis in tantam aquæ venêre copiam, vt Augustiætate, Strabone teste, pervrbem, atquecloacasomnesinundareviderentur, & vni uersæpropemodum ędessubterraneos meatus, syphones, acfistulasvndo sashaberent.Quo temporeM.AgrippaAugustiipliusgener,quem complura invrbefecisseconstatopera,cultu,atqueedificiomagnifica;aquarum Cu ratorperpetuus,authorePlinio,alijscorriuatisatqueemendatis,& alijs nouiter adductis,septingentos lacus fecit.Pręterea fontes c v,Castella Lacusintelligoex Frontino, alueosbreuimuro,inquibusaquæ reciperen tur,& aliaexalia,vtfiuntapudnos Fontane,Lauacra,Fullonum stagna, jumentorumaquagia,& huiusmodipublicacommoda. Fontes, quiprimas ac fyn ceras ex Castello funderent aquas, pauciores id circo quàm lacus. C a stella,certaAquæductuum receptacula, ad MęniaVitruuio,&inviarumdi uortijs, vbi aquarum facienda esset distributio.Quale etiam num visitur in E r quilijs Castellum aquæ Claudiæ, indiuortio ad portam Maiorein nunc dictá et adpisse reliquas Provincias, quibus Romani imperassent, in transcursu diversarum lectionum obseruauimus. Prætermultas, quaslegimus Romanis anti  Lacus in vr sequar Thermas, cùmeatempestate vulgò vilaquæ libetdiuitumfuas balneas quiores, vtquasprimasinGreciadiximus, in Asia,inSicilia,& apudPersas Hebræorum DarijThermas, quasPlutarchusdescribitditiffimas, & lautiffimas. EtIose Hifpanorum phus Hebrçorum Thermas ad Ascalonem, ad Tripolim, ad Damascum, ad Ptolemaidam. Hispaniaqua calidalauari poftfecundum bellum Punicum à 10 Romanisdidicêre,anteànon consueueruntnisiinfrigidalauari,authorIu stinusHistoricus.Multæ occurrunt apud authores Thermarum memoriæ,in Germania,inGallia,inBritannia,aclongè pluraipfarumvestigiavisuntur in Italia, in quibus vidi sępius per inscitiam etiam doctos virosobstupescere, alij Theatra,alij Labirinthos, alijmemorandas moles alicuius sepulchri ia ctantes.Quarum tamenritum legimusvenisseadeocommunem, vtnonco lonias, & municipia solum,sednemo dignè tùm Romanam militiam profi terivisusesset,quinon haberetsuabalnea,& gymnasia, inquibuscommi litonessuiexercerentur. Quod de CleandroTribuno equitum Commodi Cęs.meminit Herodianus. Indomesticisveròvsibusbalneum eratviainci-20 bum,vtnotauit Arthemidorus. Cuiusreipassimhabentur exempla,quùm ex itinere,labore,acexercitio quopiam balneum primò ingredi consueue rint,& pofteamolliaquarumfotu recreatiaccumberent. De aquis vrbanisad vsum Thermarumadductis. Externe. aqua;haud copiaivrbe bequid. Fontes V Ros autem Roma,cùmprætercæterasgratias,quibuseamaltissi musdecorauit,salubritateaëris,situagriadimperium opportuno, zo adportam SanctiLaurentij,quod pofteà C.Marijtrophæisinsignitum, adhuc illius retinet n o m e n. Porrò fingulis castellis aquaruin erant propositi Trophça suiCastellarij,vtpræclaroquod Romæ legitur epitaphiocostat. D. M. Clemen Aquarum propria commoda. Mirariveròlicet inprimis ipsarum ductuum fabricam, duétuumma dignam planècùm magnitudine operis, tùm certè publicaipsavtilitate, quęgnitudo. Pluribus mundispectaculisproponendaessevideatur.Molesingens,àdimi dioferèItaliæquædam perducta,partimexcisisac perforatismontibus, par 30timascendens, partim abimis vallibus perimmensosarcussublata, quibus Aufeia,& 20 fue xit. Etanteà lib. 31. cap. 3. Clarissima inquit Aqua ruinomniumintotoorbefri goris, falubritatisquepalmapræconio vrbis Martiaest, inter reliquadeûn damlociscentum& nouempedesaltitudinismensurantur.Vniuersamverò omnium censuramitahabuitFrontinus.AltissimusAnioestnouus,Proxima Claudia,Tertiumlocum tenetIulia,quartum Tepula,dehinc Martia,quæ capiteetiam Claudiælibramæquat,deindeAppia,omnibus humiliorAllie tina. Primaverò,vtpropinquior,& maximècommoda,Appiaadducta co ftarexTusculano:Cenfore vtfupradiximus Appio Claudio, annovrbisAppiaaqua quæ perportam Capenam,nuncSanctiSebastiani,inocto vr munera vrbitributa.Vocabaturhæc quondam Aufeia.Fons autem ipfePico nia. OriturinvltimismontibusPelignorum.TransitMarsos,& Fucinum La piconia tempus addu tiCæsarum N.Seruo CASTELLARIO Aquæ Claudiæ fecit Claudia Saba tis& fibi& fuis. Extat Senatus consultum apud Iul. Frontinum,quoaquam non eratpermissum nisiexcastelloadducere,ne autriui, autfiftulæ publicæ lacerarentur. Publicisidcirco Thermis, propriacastella videnturfuissecon ftituta: qualiavidemusintegraadDiocletianasThermas,& adTraianas,mul tipliciopereconcameratas.In Priuatisautemprima Censorum,aut Aedi liumeratauthoritas,quorum arbitratupermodulos, digiti, velvncięnomi necertoannuosolutovectigaliconcedebatur. Legequecautum codem te fte,ne quispriuatus aliam duceret,quàm quæ exlacuredundaret,quam ca ducam vocabant: & hancipsam non in alium vsum quàm balnearum, aut fullonicarumdariessesolitam. Omnem aquaminpublicosvsuserogari debere.Cæterùmquotnumeroessenthæaquæ,quæ,quonomine,& quo tempore,& vnde adducerentur,breuiterpercurrendumest. ScribitPro copiusIustinianiCæs.fcriba,Romæ quatuordecim fuisse aquarum ductus, excocto latere,ealatitudine,acprofunditate, vtferèequesteripsocúequo pereosposseteuadere. Nos Frontinum imitati, qui Nerva imperante pręfuit hisceoperibus curator perpetuus, & fcriptis cuncta sid elitermandauit, octo aut nouem suo emissario per ductas dicimus. Quę fuerunt ex ordine, Appia, Anienisvetus, Martia,Tepula,Claudia,Anienisnouus,Iulia,Allietina,& virgo: etiamsi pofteàduplici, acplurinomine, vtvsueuenit,fuerintcogno minatæ. Nam poft Frontiniætatem, non aliamlegitur, prętereasfuiss ead ductam, nisieasdem àdiuersis Imperatoribusautinstauratas, autseductasad bi sRegiones exviginti caftellis distribuebatur. Quadraginta veròannispo- tus. fteà, exmanubijs PyrrhiRegisEpiri,SpurioGarbilio,L.PapirioCoff.prima Anienisadductafuit,vtetiamcommodavrbi,& altæoriginissupraTybur.Martiaquę. Tertia fuit adducta Martia, dicente Plinio lib. 36.c.15.Q.Martius iussusà Se natu Aquarum Appiæ, & Anienistegulaductusreficere, nouamànomine suo appellatam, cuniculispermontes actis intràpræturæ cum, Marü. Anienis ve Oo i 1  Triana. cum, Romam non du biè p e t e n s. M o x specum e r s a in Tiburtina s e a p e r i t n o. uem millibus passuumfornicibusftructis perducta. Primuseam invrbem per ducereauspicatusestAncusMartius,vnus exregibus.Poftea Q.MartiusRex inprętura, rursus querestituit M. Agrippa. Hæc Plinius. Hancdemum& Traia namnuncupatam aseritFrontinus,àTraianoinAuentinumvsq; protracta. QuartafuitTepula,quaabagroLuculli,quéinTusculanoexvarrone legimus Tepula,. Gn. Seruilius Cepio, L.CasiusLonginusCollin Capitolium perduxêre, via, quæ PortaMaiorhodie appellatur,claristitulis Cæsarum, Claudij, Claudiaque VespasianiT, iti,& M.Aurelij. Eamquidemdestinaueratprius Caligula,per & Curiadaduxitveró Claudiusabvsque xxxvi. lapide, viaTiburtina, èfontibus Cæ Cerulean ruleo,Curtio,atque Albudino collectam,quibusfæpènominibusscribitur. Adduxithiç & alteram Anienem, cuiductuiaddifferentiamveteris,Nouus Aniocognomentumfuitinditum, Frontino authore, qui& ipfumpofteàre Fons Albu ftituit.Concipiturautemperagrum Tyburtinumxx, milliario,operealtili-. Moad Portam Esquilinamadducto.AquamveròIuliamadmiscuitcum Tepu laM.Agrippa, viaLatina,quæab Aurelianoiterurmeftituta, eiuscognomen Juliaquęegassumplit. Ållietinam,quam & Augustam, miratur Frontinus Augustumpro Aureliana, uidentiffimum Principem per ducere curasse nullius gratiæ, imò & parum sa Alietina, lubrem,nisi fortecùm opusNaumachiæ aggredereturtransTyberim. Qui dam ob hoc eam intervrbanas aquas non numerant. DE AQVA VIRGIN E,QVAM duxitAgrippa,vtPlin,meminitlib.31.c.3.& deinde Claud. Cęs.Pri mum veròauthorêCaium Cęs. fuisseindicantmarmoreæinscriptiones,quarú 30 vnaineiusaquæductuitalegitur. Tit.CLAVDIVS DrusifiliusCesarAug. Nominisra-ductusaquæ Virginis destinatosper Cæs.àfundamétisrefecit, acrestituit.Vir ginis porrò nomen (vt Frontinus scribitnobilis author de aquis vrbanis ) ad cafum fuithuicaquæ inditum:nam quærentibusa quammilitibus, puellam virgunculam quasdam venas præmonstrasse, ac il as sequut o s in gentem a q u ç moduminueniffe.AediculaidcircoVirginisfontiapposita.Quod nomen posteavidenturadsciuiffe Dianæ, ac Triuiænuncupaffe, quasi Dianæfonsdi Fons Diane triplex habere dicebatur numen, celebrarisolita, necnon à triplicifonte,qui- 40 bushæcaquaconcipitur. Vel (vtquibusdamplacetantiquarijs) virginisno futurna menindicasseIuturnam,quam Nymphamsic dictam (testeVarrone) quòd Nympha. iuuaret, invotisfuisehabitaminfirmis, quiexeaaquabiberent, facramque in via. simulat que puteum, qui extat, dive Mariæ  Virgini fuisse consecratum, vt r a n In Triuia. libetquiseiusnominisinterpretationem accipiat,verumtamen eofit magis verisimilisnoftrafententia huncfontemfuisse virginéàDiana,& Triuianun Meuiæ,quæ dinus, Anio nouns 20 vocant Şaloniam, tio. Vel Triuię. & aqua Diançsacra,quęveteribusvirgohabitaest,& in Triuijs, vt AQVA autem Virgincquoniamsolahæcadnostramhancætatem Romam perducitur, altioraliquantosermohabendusest. Eam per cupa Primus aute D thor, ceretur, 10 Latina dextrorsus,longex1, milliapaff. subterraprius, deinde arcuato opere. Quinta, ac fausti nominis fuit aqua Claudia,vtinfrontispiciolegiturPortæ id circo hanc ædemei fuisse constitutamasseruntiuxtaipsum fontem,quam Sinct.Mar.posteàReligioneintroducta,insuperstitionempræteritiseculiabolendam,  JO est Herculaneus riuus, quem refugiens, virginis nomen obtinuit. Hactenus Ductus lon Plinius. Habetautemductus longitudinesàcapiteadipsum Triuijfontem,girudo. spatio a bestàvia Prænestina, dicente Plinio.Marcus Agripa & virginéaddu ” xitaquamaboctauilapidisdiuerticuloduomillia pafsuú Prænestinavia:iuxtà (vt Frontinus dimensus est) milliariorum XIIII.n a m vbi fpecus subit montių, vbicircuitcolles,velvallesæquatarcuatoopere, multoshabetflexus. Pro greditur Anienemfuuium,acintersectaTyburtinavia, & exinde Nomenta na, & proximè Salariavia; tandeminter Collatinam Portamque estsalaria, & Puteus Po. Pincianam sub colle Hortulorú, qui est hodie Sanctæ Trinitatis, ad Trivium litianus vicum exilit fonte. Subitautemeum collempro fundiffimnospecu,cuiusho die puteus altissimus repertus estin medio viridario, quod magnifico, ac con spicuointotāvrbem ædificio ibi constituit Cardinalisamplish. POLITIA. 20NVS, & vtrinqueduæ eiusaquæ marmoreæ inscriptiones.Tı.CLAVDII nomine. Etquo digno tum fuit magnisilis Romanorum Architectis, erita; omni futuro seculo memorabile Camilli Agripæ Architecti inventum, salientemsuaptes ponte facit aqua (impulsam tamen in æreum tubum rotis ræ, primam fanèlaudem promerentur Sanctiffimi D.nostriPivs IIII.& qui - statim ei successit Pivs V. Pont. Max. quivirginem ipsam aquam ad Virginisper pristina mantiquorum formam perducerecurauêre. Quippe lapsu temporum hæcaqua varias subijt mutationes,& quodmirum eft, vsqueà Plinijtem lutem. Pofte àc raffantibus in Italiam,& invrbemipsamtotbellis,acvaria rumgentium incursionibus: plana in historijs monumenta habentur, quæ ductio. Refert Platina, Adrianum patria Romanum Pont. Max.d omitisiamaf. Adrianiin fi&isque Longobardis, anno falutisnoftræcirciter Virginis Stauratio. Aquæductum dirutum, cumalijsvrbisaquæ ductibus restituisse. Donecite rumnonmulto poftdirutus, protantarerum,quæsuccessitcalamitate, nuf quam prætdr e a videtur fuisse restitutus. Nam quod in ipso Trivii fonte legi Nicolai. tur, Nicholaumv. annoabhinccxII. Virginem fontem restituiffe, planevi detur is Pontifex haud vllam antiqui ductus huius aquæ partem instauraffe; sedconfluentesduntaxatèviciniavenascitràpontem Salarium prorefugio vrbis collegiffe, quæeftminimapars; virgoigitur aqua octauo (vt diximus) est Salonia. Milliario concipitur,vbi nunc locusà Salone dicitur: Quæcunque fuerithu ius nominis significatio apud vulgus, quod,vt consueuit huiusinodi aqua run conceptaculafalasdicere,forsan & hoc obamplitudinem areę Salonem nunc uparit, dicente præsertimFrontino,hunclocumvnde virgo aqua con- Riuusnúad iicitur, palustrem fuiffe, & vt scaturigines contineret, lignin operecom-mititur.  40 cupatum, quod nomen ipsum ædis Sancta Maria invia, vulgari (vt videtur) vocem utila dicitur,  pro Sancta Maria in Trivia, vbi multa cum devotione Beatæ Mariæ Virginis etiam num ea aqua ab infirmis bibitur. De Fonte ergo ipso quia d huc in Triviæ vico celebris est, non est dubitandum. De origin e a u - Origo. tem, Pliniusa pertèdicit concipivia Prenestina. FrontinusautemCollatina ad milliariumoctauum, quæ vtquidam putant,duorumcircitermilliariorü pore(vtipsememinit )cæpithuius aquæ fimulatque Martiæpenuria: Ambitione (inquit) ac auaritia in vilas,acsuburbanadetorquentibus publicamsa Artificium per Usurpatio.  Herculews ipsam aquam volubilibus, & machinis) quæ eximo puteoads ummam planiciem. paffusexilitfonte, actantavbertate, vt non hortosfolùm,fed & totam quoque subiectam vrbis partem reddat irriguam. Cuiustam frugiope Agrippe. mu 4 OO 111)   munitum, quod nunc quoque visitur aliqua parte. Iuxtà estriuus Herculaneus. quemtamen non admittit, tùm quia locus palustris humilisque est, ac v l i g i n e totus obsitus; nec aquæ est satis vtilis: tùm qui a  satis fupe r q; adeam formam aquæductus Salonia est. Neceum riuum admisisse antiquos,satis apertè de clarantea Plinij verbaiam allegata. Iuxtàest Herculaneus riuusqué A Salinis refugiens Virginis nomen obtinuit. Nec secusdimittendaeorum sententia aqua. est,qui ad Salinas vocatas à Frontino aquas pro Salonia acceperint: cùm hæ longiusinfluantà Salone, sinistrorsusàvia Præneftina, vcidem Frontinus inquit,passuum septingentorumoctogintaquævelAppiaaqua,velAppix Appi&origo carestudeat, piètamen & public vtilitati consulens, opus tàm frugiprofequu Vltimaper tusest, aquamqueVirginem, adeototseculisdesideratam, hocanno,acmen se MDLxx. decimoseptimo Calen.Septembris, cummaximo totiusvrbis applausu, ac gaudio perduxit in totum. Consultistamen prius (vt Sapientissimum decet Principem) Medicis, àquibus & bonitatem aquæ, et vtilitatem, quam præbere posset huic almæ vrbì re latam comprobauit. Qua dere Naturaem hæc mea eft sententia: Sanè magnum argumentum bonitatis huius aquæ hoc Qualitates esseexistimo, quòd hæcaquafueritinvsu, vt nunc quoqueeft, longiffimis seculis. Quippe hæc primas sempermeruit laudes simulcum aqua Martiain tercæteras vrbisaquas. Authore Pliniolib.eodem 31.cap.3.d.Quantum vir gotactu(hocestfrigore)tantumpræstatMartia haustu:alternantehocbo tactusintfrigidæ, easnonperinde(laudabiles) & haustuesse. Hæcs uccinctè Plin. Hác aquam Martialis cognominatcrudam, ilisuerlibus. Ritussi placeanttibi Laconum, Contentus potesaridovapore 30 te influentium, & tepidarum, & frigidarum aquarum; hanc specialiter vsu Ab experi- balnei comprobat frigore, & profrigida, metri causa dixitcrudam. Velcru mentis. Dam intelligas eum dixisse in comparatione aquæ Martiæ, quæ (vt dictúest) vtilior haultuerat, virgo tactu. In experimentis, tardius hæccoquit legu mina, accibariareliquaque Tyberisaquęlimpidę,& Cisternalesaliquę.nimi rum quia fluuialeseiusmodi, inrespectu fontium, omni exutæsuntcrudita te,ac pluuiales magis aëreæ. Cæterùm hęcaquanullis fontium aquis vide- 40 turmeritò postponenda. Cætera veròquælegunturaquarumvrbisnomina, autvariæduntaxatipso nomin e sunt, sicut iam plura ali c u i a quę adduximus nomina:a u t externę sunt Crabra. Sabatina Lacus Saba saporem, inter vrbanas non adnumerant. Nec Crabram,quæ erataliaaqua, aquæ,nonvrbanæ. Quomodo quidam Alfietinam, itavocatamobingratū tis.Amnis Tusculanis, vndeaduehebatur, relicta. NecSabatinam,quamàLacuSa Larus. batis, qui hodie est amnis Larus, nouissima momnium aquarum breuimo. Io ductio. Martialis.  pars per Capenam portam, nunc Sancti Sebastiani ducebatur in vrbem. Tota ergo virgo aqua Saloniaeft, multisvenarum, & riuulorum acquisitionibus (vt Frontini verbisvtar) obitervsqueinviam Salariamaucta'. Quam Pivs IIII. Pont. Max. vt delectabatur vrbem suam æternis monumentis, publi cisq; idgenus operibus adornare,destinauerat.Pivs verò V. Pont. Max.cũ fanèprimùm orthodoxamfidemnoftramàtotseculihuiuserroribusvendi no, vtquæ CrudaVirgineMartiaquemergi. Quo nomine haud quidem cruditatisvitioeāhic Poëta damnare voluit. Sed mirisex tollens laudibus Hetrusci balneum, blandicie præsertim, & varieta dulo   20 qua q u a n ı diversæ à prædictis aquæ. Quod vsu cuenit in eternis id gen us operibus, perpetuams ibiquisque memoriamcomparare.ItaqueprimaTherma structuræ exemplo, nulloque integrèscriptoremandata literis, nisi obiteràmultis,& controuersè. Etquæobfitaadeovetustissimisiacetruinis, vt quanquàm peritissimi multi hacętate antiquarij conquisitiffimè studuerint easinali quamlucem reuocare:nonminortamenadhucrelictafit, magnis etiamingenijsconfusio, vtquęsparsim dehislegunturauthoritatesscripto rum,cum paucisquæipsarumapparentreliquijs concordentur. Inprimis describendaessetixvoypapíce, basisquetantiedificij,quam noftriadverbúPlan tamrectè appellant: at hæc diuersissima habeturabe aquam tradit Vitruuius, neceadem dispositioin omnibus Thermis.Porrò, præterfpatiaplatearum, m i n a esse tantum aut instauratorum, aut insigniu meor u n d e m constat, h a u d ac additos lucos, hortosque immensos, ac Lacus, distinguenda effentloca exercitationum àbalneis.Acloca propriacuique exercitijgeneriassignanda, vbicominus, acbreuicirco, vbieminusfierent, sub Diuo, subtecto, in Xi stis. Et quæratio fuisset exercitiorum in Palestris, & quali aexercitia.Quis vsus præter e a totali a r ú partiu m: & quæ dispositio, Corycęi E, p h e b ç i, E l ç o thefij, Conisterij, Exhedrarum, Spheristerij, Xistorum. Etdebalneis, fi singulæ Thermæ plura habebant balnea, at dubiumnonest,quæ naniratio 30 distinctionis, ancommoditati, an loco, an ordini, vtcunctis legitur fuisse consultum. An omnibus vnum essetcommune hypocaustum:& feu vnum commune omnibus, seu commune vni partitioni, vt verisimile fit, quo loco maximècommodo.Anbinæ& ternæ, quælegunturlauationes,eodem fie rentbalneo, andiuerso.Etsidiuerso,aneadem pluribusferuiebat,ansin gulisnouaaqua.Velquæ ratiotàmmiriartificijcalefaciendivna hora tantam aquæ quantitatem, quæ innumerabili populo sufficeret? Vnde & quo certo ductutantæ aquæ copia? Quæ ratio erat Pensilium Balnearum, quastantocú applause Vrbis, & totius Italiæ quosdamintroduxisselegitur? Quibusadid valibus, aut balneis, aut alueisvtebantur? Etsilabrislapideis(vt quidam pu t a n t) quæ videmus per Vrbem maximis: q u æ e o r u m e r a n t i n balneis dispositiones, & quo situ ad aquas accipiendas? Etdebalnearijsrebus,quæ fanis expedirent,& quæęgris. Quiddicamdelauandirituperordines;perætates, perleges,peranni tempora, peripsaexercitia;acde innumerisdenique id genuscircunstantijs,quasvelnon scriptasabantiquarijs,velper coniectu ramduntax attentatasà iunioribus, merispotiùserroribus obscuratas, quàm explicatas invenimus? Quar e n o s d u m h e c aliqua ex parte revocare in lucem intendimus, & quævsuimaximè medico opportunasunt, exponere,nullam Fos Veneris  1 rum instituta, atquemomenta Aquarum ductuum habemus. is fchnographia Thermarum, &dehisquetractandafunt. Cap.v. Hermas verò per partesliterisinstaurare, haudquaquàm presentis muneris est. Nec facile esset, pro tantæ molis magnitudine,  non vnius dulorestituit  Hadrianus I. Pont. Max.quam & Ciminam interim appellariin uenio, àCiminoipsomonteinFaliscis, fonteVenerisdeducta.Drusaauté, Ciminaaqui Annia,Traiana,Antoniana,Seueriana,Alexandrina,& idgenusaliæ,no. ferè Dubia in Ther. 2 Oov   ferèiuniorum positionemfequemur: sedquátum exrationeillorumrituum,  Spacia Thersimulatque locorum ipsorum diligenti consideratione colligerepotuimus, percurremus. Spatia in primis Thermarum videmus amplissima: atque ad eo vt quasdam vndeciesmilliespedumtotaarea continere constet,authore Baptista Alberto in libris de Architectura. In Diocletianis, quæ inipsaareaappa rentvestigia,præterspatiavndiqueplatearum,& prætermembra,quæinfe riusacsuperiusvarijsThermarum ministerijsferuiebant,centum continent partitiones, vario ac nobiliffim oordine. Nec mirum, siconsidereturpublici çdificijmagnitudo,inquocommunis fueritratiomaximæciuitatisadexer 10 Magnitudo. citia corporis, ad balneas, ad disciplinas. In  i s enim communia er nt  studia, tamanimi quàm corporis, necaliaerantartium gymnasia, vndefæpè apud authores Gymnasia legimus pro balneis. Necminus addelicias: Nam ratio Gymnasia acresipsaostendit, nonfolùmvsuiinpartibus Thermarumfuiffe consultum, verumetiamvtiuuentus faciliùsadea studiatraheretur, & delicijsmaximè, & ornamento cunctarum rerum. Propterea Thermæ neque digniores occupa bantvrbis locos, nequeintervilioresfiebantvicos, sed vbilocicapacitas, at Forma Ther marum, ac partitið. Queoperis maiestas requireret.Vitruuijtamenętatenon videturfuissecon suetudinis Italicæ (vtipsescribit)magnificareadeo palæstrasac Gymnasia in Thermis: vtquibus satisad exercitiafacerenttùm Campus ipfeMartius,tùm Agonalis, totCirci,totplatex,totaliaexercitationumlocapublica, & priuata. Sed per angustas fieri, & paruas quales Agrippæ Thermas meminit Pli nius.Pofteà veroperductoimperiovrbisad luxuriam Principum,non modò Græcorum more constitutæ, sed dilatatæfuêreamplius,distinctaquem e liusloca exercitationum, acGynınaliaàbalneis. QualesAntonianæ, acDio cletianæde maioribusextant,acmeliusdispositis:quarum sinunc præsumná describere magnitudinem, non tam describere, quàm maiorem partem di gnitatis earum mihi videbor minuere: sedharum m a x i m è,ad notitiam tanti ritus, fequarvestigia. In his edificationis eratvaria forma, ac varia dispositio partium: sed a r e a amplissima, q u æ i n quadrum c l a u s a, tribu s v e l u t i perpetuis circuitionibusdiuisaesset. In primovndiq;ambitu,quæ męnioruminftar lib.s. 6. 11. totum edificium claudebant, errant gymnasia exercitationum, varioordine, quædicemus. In secundo, longèlat eque spatia platearum, Xista, acPlatano nes, ad exercitiasub diuo. In medio,totaipfamoles Thermarum,quæ sunt membra balnearum,Atria,simul atq; Xifti, & Palęstrarum amplissimæ porti cus,vbi (authoreVitruuio) Athletæ perhyberna tempora intectisstadijsexer cerentur, actranfirentstatim ad balneas, vtdelineataprimùmipfarumbasi, distinctèmagissingulaexplanabimus,  4marum. Thermæ. Ther. Diocl. 1 Oo vj   Hexedra Lalitudopal. 200 choricen Calidaria FO х NAT  MC) V R a THERMARVM DIOCLE Longitudo Platego Atriolum Die Scola riú BВ Spheriferti H Tostring 71 Apod TOD  Schola Longitudo Ρ Ι Α ΤΑ Laconica Hexedra Basilica Fngida Topida n uนี" Agaagiâetlume ORIINS Hexedma Hephebri ATRIVM nPoarttaitciuosnis la карэхэн Spheristerium 200 Hacera Lpatlitudo. 2  Hemicyclus Condste platego Porucus Tres Stadiate Theatric SET   VN M M HT NONES Hexedra A triolum sperifleriâ Laconicü Coniste Hephebell Hexedra pal. Kesedara LongituPdloa. odyterium Hypocau Dico Engda Hexedra 'Jių rium Porticus Staduatę Aquagiấetlume pal. OCCIDENS OS Tres salo ирэхэн ATIOTES TIANARVM ICON. ATRIVM n Paotrattiicounsis Spenfterum I O O O. Basilica Tepida Frigidai Calidariú Tõstrina A 5oC Hemicjclus sefala ridium PTENTRIO Scola 1    Departibus Thermarum, acexercitationumlocis. N PRIMA ergo facie, quæestadmeridiem,tertiamferèpartemmediamoc cupabat Theatridium. Quæparseratprincipalis,& tang caputtotiushuius ædificij: vndeduplicem (vt quibusdam videtur) habebatvsum;alterum extrinsecus, alterum intrinsecus. Ambitum enim exterioré ponunt fuisse arcuato opere distinctum,& apertum,quo exéplo patet, circūcolumnium poftbafilicam Posticã. ecclesiæ Lateranen.Vnde. f.ingrederenturquafiper Posticum, fiuedextrâverte rentur, fiuefiniftrâ per porticus, apertèvenirentinampliffimam plateam,ac exindè quò vellent, fiue in palæstras, fiue in balneas. In conspectu verò interiori ergaplateas, eratTheatrispeciedistinctumcũsedibus,vbi.f.populus,& maximè nobiles subvmbrameridiei sederetadludorū spectacula, quiinplateisexercitij causa fierent. Partes verò quæ vt rinqueà Theatri d i o plures sunt, aliqui balnea putant. Ná quodrotundaformaestvtrinqueinversurisvnum,pinguntessecali darium, & consequenterponunt vnú Tepidarium,vnum Frigidarium,& vnum lib.5.c.1 Apodyterium. Nec equidem nega uerim debuisse quæ d ã balnea s e o r f u m, & quali extra palestras constitui: partimmulieribus,partim artificibus, &hisquivenien tesàciuitate,statimintrarent, & quasiextràconspectumpopularemlauarétur, & abirent. Verütamenhæcnonfuiflebalnea,hauddubièvidetur:nam iuxtàeá ria Sacella. appictionem,nullus hicvidetur Hypocaufti locus: quoddebuite ffeinmedio, & communevtriqueordinibalnearum,tefteVitruuio,atinmediohiceftThea tridiummaximum.Nec eratconsentaneum,vtmébraspectaculieffentStuphæ. Deest & laconicum,nisifortasse hæc opinio confundat laconicum cũ calidario. Saterat& vnum Apodyterium comune,vtpotevnum vestibulum balnearum: hicduo ponuntur. EtprætereaTepidariaduo,cùm tamenidemfitTepidarium, quodApodyterium. Meliusergomihivideturdicendū,hæc fuiffepartimipfius Theatridij membra, & partimlocaadvsumAthletarum.i.eorum,quiexercendi essentcoram Theatridio, vtpote Conisteria, Elçotesia,& quædam apertè in pla team, forsane quorum carceres. Duo pofthæc Peristiliaquadracaoblonga, hinc (vt scribit Plin. Lunior de villa sua) exercitationú generibus.Vel Sacella, vt nota turperædiculasæquisvndiquespatiisstaruarum. hæceratprimæfacieipartitio. Porròinalterafacie,quæabaquiloneeodemcomensuhuic refpondet, videntur Gymna fuiffe maiori ex parte Gymnasia, philosophis dicata, ac Rhetoribus, reliquisq; q studiis literarum de dissent operam.Vtpot epars magis remota àftrepituAthle tarum,& litucômodiffimo, tùm propteramenitatévnibrarum (erant.n.inhac plareaPlatanones,vtdicemus)tùm proptergratafontium murmuria, inNataa tionéipsamcadentiū. Quaproptervisum estpluribusantiquariis, inmediohoc Vestibulu. Spatioå Septétrione fuifleprincipale vestibule totius huiusæ dificij. Exquoper40 Hexedre medios Platanones patebat aditus ad Natationem, & hinc, & hinc in porticus, in & Hemi-basilicas, Diętas, & atria, quæ pofteà dicemus. Primùm verò àd extra vestibuli, cycli. & àsinistraerant Ex hedræ pluresclausæ ante plateam, &cusedibus Hemicycli forma, vt disputantes, & tam loquentes, quàm audientes sese omnes afpicerent: & aliquæpatentes, cellscholænoftræad leuiora studia. Maioremverò citer  10 Peristilia fia. atq; hincvnum àTheatridiq,quasipalestræbreues,veldeābulationes.Acinver Spheriste surisvtrinque,vnum Sphærifterium,quod diximus rotunda forma,cum plurib. 30 Schola. exercitationum. Gymnasticarum continebant partem duæ vtrinque facies laterales, hinc, atquehinchabebantpartitiones.Ac fuisseeasadexerci quæ conformes tiadicatas videtur: tùmquia platexhælateraleserant liberæ,& amplæmillecir,  citer pedum spatio. Tùm quia membr a ipsa partim erant Hemicycli aperti cũ sedibus,acvarioornamento,quod apparet,lignorum,acpicturarum:& partimconisteria, Elæothesia,aliaquemembra advsumAthletarum oppor tuna. Totam hanc autem primam circunferentiam circundabant continua porticus,ducentiscolumnisvnostylo. Subinde erantPlatex,amplæ,&.Nam siædificiorum perfectioproportionibushumani corporis responderedebet,vtVitruuiustradit,perfectisfimèresponder in Thermis Diocletianis, ac melius quàm constituat ex Græcis Vitruvius. Ex Lib. 3. 20 eniminhis Theatridium, vbieratvestibulum, tanquàmcaput: Apodyteriū, pectus: Hyppocaustum, Stomachus: vmbilicus, maxima, acregalisbasili-Diocletiana cainmedio: venter, Natatio. Membrorum veròvtrinque, quæfuntbalnea, rummirifica atria, palæstræ, porticus, Diętæ, basilicæ; æquaratio, ac mensura eft, vt braars et de chiorum, acfæmorum. itavtquæ exvnatradeturparte,cadem ex alterapa basilicaameniffima, vbiconuenirentomnes, quivelinpalæstrasventuriBasilica. essent,velinbalneas. Idcircosatisampla,ornatuplastices,acpicturis adhucnitetantiquiflimis. Hinc rectâ in Diętam, quæerateadem capacitate, fed latiortamen basilica, duplici columnarum stylotripartita: nam media par teceuatriolum,erataditusinatriummaximum, & inpalestras: capitaverò hincatquehincdeunebantinhemicyclis, vbifortasseAthletarum ferrentur iudicia Circuncolí - liberæ, vt dixi, t à m q u æ a n t è Theatr i d i u m Stadium, nia.,erant xistum, Platanones, & autem,quæeratanteNatationem enim Xista (authoreVi maximè estiuas idonea. Fiebant adexercitationes Platani, virentesqueidgenusXista,&Syl )interduasporticusSylux,quæerant caperentre-ua. truuio situantèNatationem,vndeaquarum arboresconfitæ,aptissimo autemStadium,itafiguratum,inquit Vitruuius,vtpof frigeria. PoftXiftum, Athletarum cursus, variaque alia sent hominum copiæ fine impedimento hæ omneserantpartitionesquoquo latere,&  gym: spectarecertamina.Atque veròoperismaiestas,erattotamolesinme Stadium nasiorum,& platearum. Summa,acmultimodisearúmē dio,quæ communes habebatpalæstrascum balneis bris,acmiriartificij,quàm vtræquelaterales. Inea Porticus riterintelligendafit. Incipiemusautem àNatatione, quæpatentiffimapars aspiciebatAquilonem:& exeaàlatereperbasilicas,acdiệtasveniemusin atria, exindein palæstrasinteriores, acmaximam bafilicam,& demum ad balnearum membra. Erat in quam Natatio in recessum e dio ab aquilone, lon Natatio. Gitudinedu centorum pedum, latitudinedimidiominus, ponte, acarcubus bipartitaadinteriores aditus, vbinunc factaestmaiorisaltaris basilica. Habe batautemàcastelloproximo Aquæ Martiæ emiffarium, quod per occultos tubos ferebatad Natationem ipfam aquas.Habebat& supernèadlongitudi-Emissarium nem fontesvariaspecie,acMusxa,quæ teftePlinio,expumicibus, acero-aqua Mar fisvetustatefaxisextructa (vt hodie quoque Romæ sunt in vsu) specusima-tię. g i n e m referebant, ac fiftulis modò apertis, m o d ò clausis, vario, blandisli moque salientium aquarumlusu, recentessemperaquasinnatationéipfam Fontes,ac fundebant. Miriscircùmadhibitisornamentis,quorum etiamnumapparetMufaa ædiculæfignorum,& statuarum, fontiumquevestigia, & columnarum bases. A Natatione plura, ac nobilissimamembra: primùmabvtroquecapiteerantPorticusna amplissimæ porticus conformes, nimirùm & adspectaculaNatationum,& tationis. adrefrigeriaconstitutæ. Etaliæadaltiorem prospectumporticuspensiles,mi noristylo.Exeuntibusveròàporticu,tamdextrâ,quam sinistra,eratprimùm fcriptio. 30 Platanones. Dięta.  iudicia. I n Atriis era nt Peristilia, hoc est circü columnia, quæ facie ba n t a t r i u m oblongum trecentis pedibus, latitudine dimidiominus. vbiin Porticu, orie simacum sedibus, quæ tertiaitem parte longior quàm lata, eratad exercitia Corticum. iuuenumdicata. Sub dextra Ephebei erat Corticeum, seu Coryceum à Co. Coryceum. ryco, quod videtur pilæ genus in Galeno 11. de San. tuenda. Seu Choriceum Choriceum dictum, Choreisnimirùm, ac saltationibus locus proprius. Proximè Frigidarium, locus ventis per flatus, feneftris amplis. Ab eoqueiterin Spheristeriú ro oblongum, & fimplex, ad pilæ ludum aptissimum. Adsinistram Elçothesium, Spherifleritquæeratad vnctiones faciendascellaolearia. SubhocConisterium, vbificcó Elçothelium.puluere, velharenaluctaturiseseconspergerent. Ab eoqueiterinPropni. Conisteriú. geum, vbi erat in ver  u r a porticus Laconicum, quod referemus suo loco p o Propnigeú. iteà. A Peristilioautem, atrioqueintrantibus ad interiores Palæstras, erant Talastre in Porticus tres stadiatæ,quas hodie occupat longitudo ecclesiæ.Ex quibus m e teriores. diaparsamplissima, centumpedumlatitudine, superingentescolumnas,al Porticusftatissima prominettestudine, cæterùmitafactasecundum Vitruuium, vtilate Frigidariit. diate. Xistus. ra, quæ suntvtrinqueadcolumnasmargineshaberent,& qualeshabethodie via ab Hadriani mole adVaticanumsemitas,nonminuspedum denûm,re liquaqueplaniciesoctogintapedúm.Itaquivestitiambularentcircùminmar 20 ginibus, non impediebanturàcunctisfeexercentibus. Hæc autemPorticus ziso'sapud Gręcos vocitatur,in quo Athletæ in tectis stadijs exercerentur.Quę quoniamexacteeratinmedio,& velutiincordetotiusedificij,vbimaximè conuenire solebat nobilitas ad exercitia hyberna, ad ambulationes, & adspe ctacula; cæterasmeritò exceditpartes, tùm magnitudine, tùmregalimaie stateoperis, altiffimisfuperbiffimisqueprominenscolumnis,& patentissima vndiqueinperistilia, inbalneas,in Hypocaustum,inNatationein,acfuper nè feneftris illustrator latissimis. præualereassuesceret: deinde ad sanitatemtuendam,quiduofuerant fines præcipui:& demumaddelicias. In quibus omnibus mutua Balnearum,atq; Exercitationum errant beneficia. Nam quantum conferebant balnea lassatis rumque similiter coniunctaeratvtilitas, acmutuaerantinuicembe Thermarumneficia. Nempe Thermarum ratioduos, imòtreshabebatfines: primum ad instituta,  ac disciplinam iuuentutis, quæfic viribus corporis, honestis que vitæ conatibus fines et Exercita exercitatione, aclabore corporibus ad robur virium reparandum, & admuntionum muditiam. Tantundem rependebant vtilitatis exercitia, fine quibus balnea non tuo beneficia possuntesse vtilia, maximèsanis. Itaque Galenusinlibrisdetuenda San.mo Non p i l a, non sollis, non t e paganica Thermis Prz.   tali parte, eranthæcmembra,situaliquantifperdiuerfoabeo,quem assignat €phębeum Vitruuius.PrimòEphæbeum, in medio, hoc autem erat Hexædraamplif Balnearum 1 Bal. Recurel Atria. De exercitatio num generibus, ac preparationibus ad balnea. Cap. vir. CONSTAT ergo hactenus,balnearum locainThermis,atqueExer citationumfuisseconiuncta. Idqueoptimaratione,quoniam vtro dobalneaRecuratoriaviriumessedixit;modò Exercitia Præparatoriaadbal toria. Exerci nea.Quod frequenter inalijs authoribuslegimus,& succinctèeoEpigram tatio,Prapa ratoria. mate colligiturMartialis vnde dieta existimat D. Augustinusin confessionibus, quòd Bénestaisdivíes,idestquòdan xietatestollat. Ergo vtpro veteriinstitutogenerosæ Ciuitatis,quam diximus inlaboribusnatam& educatam, magnaeratomniuminThermiscelebritas; itapro tempore, & pro conditionibus personarum,Exercitationeserantva- Exercitatio riæ,& invarijslocis. Quippealiæin Palestrisfiebant, aliæinXistis, aliæinnumloca. Hexedris, subdioalię,instadio,& platearumlibero fpatio; alięinpluribus fiebantlocis. Necsecus quædam eran tcommunes exercitationes,pueris, senibus,& iuuenibus, vteo carminenotaturà Martiale. tereolusuum genera,quorum (vt cætera rumrerum viciffitudincs sunt) vix nomi. Iuuenum  De fatu.  Præparat, aut nudis tipitisictushebes. Vara nec iniecto ceromate brachia tendis, Folle decet pueros ludere, follesenes. Quædam propriæ. Iunioresautlucta, autcursu, autfaltu, autpilaludicriss; Personarum 20 idgenus exercitijscepissentafsuescereinEphebęis.Quemplanèmoremre exercitatio- presentauit Plautusin Bacchidibus, vbi in personam seuerisenisindicatpue-nes. Rosprimis vigintianniscum Pedagogo in Palestramantè Solem exorientem veniffefolitos, d. Βαλανέα Romanorum Puerorum Non harpaftamanu puluerulentarapis. Vidiffesigiturtum frequentem civitatem,nonfecusatq; hodienossolemus Vite ratio facrasEcclefiasfestissolennibus, frequentare Thermas. Alios quidem adho nestos, quos primo instituto proposuimus vitæ conatus.Alios ad sanitatem Ther. tuendam. Et alios ad oblectamenta tam animi,quàm corporis capienda, pro celebritate illa populi, pro variarum rerum, ac ludorum spectaculis. Et denique pro amænitate loci deliciosissimi: vnde barevéesidcirco dictas græca voce Ibi cursu, luctando, hasta, disco, pugilatu, pila, Saliendo se exercebant, magis q uam scorto, aut fauijs. Fortiori autemiuuentaiis dem quidemexercebantur, velacrioribusetiáple runqueludis,halteribus,harpafto,& aliquandocęstu.Velarmorum varijs g e n e ribus in Palestris. Vel in Hippodromis cursu equì, vel agitatu. Athle - Caftus. tæ vel stadium spectante populo de cusrrissent, vela c r i pugilatu dimicassent,  Halteres. cum cęstibusplumbeis,acbaltheis implicatismanibus,quo grauiùs percu terent. Alijsaltusimul et halteribus, item plumbeis globulis. Alijinsphę risterijslusifsent pila, vel foliinplateis, vel Harpasto, pilamaxima. Senio-Harpastum. resquidam, quorum erat ad sanitatem præcipuastudia,vtrecensuitGalenus, ambulatione duntaxatantèbalneumcontentierant. Alijclaralectione, vel Senumexer disputatione in Hemicyclis, velde clamatione oratoria, vel cantumusico. Alijcitationes. modòvnovtebantur, modòalioperoccasionem, exercitij genere. Id circos. Defa. tu. nec mirum septies quosdam aliquadielauari solitos, quod apud Plinium le gitur. Alexander Seuerus, vt  meminit Lampridiuspostlectionemoperam Palęftræ, aut Sphæristerio, aut cursui,aut luctaminibus mollioribus dabat, m o x venieba t in balneum. Aliis supplebant diurni operris labores, quia d r e Operari j. creandum lassatum viriumr oburvsuriessent balneo. Cæterùm lenis exercitationis modus erat ambulatio,quam Senes, & Virigraues, & imbecilles potiffimùmobibant. Dignior adl audem, acdisciplinam,eratexercitatioin Palestris & armiseorum, quirobustisess entviribus. Etquam oriquazíar, hoc 2. Desa.cu. est vmbra t i l e m pugnam, vt interpretatur Gellius, Græci appellant, divodepce T e u Tirl, ob salubritatem a gymnasticis dictam,Galeno teste. Innumera præ Рp   nomina ad posteras ætates transiêre. Nec nostræ professionis est exercitatio Nostrisecunum singulosmodos,aut genera:quibusiliveteresvterentur, recensê. livita dif ferensaban tiquis. re, quam partemà Hieronymo Mercuriali, Medico atque Philosopho scientissimo elucubratam, propediem in luce meditam videbimus.Verùm exco rum exercitiorum censu, quem fecimus, hanc præcipuam habebimus vtili tatem, considerantes quàm longè differathic præsens nostri seculi viuendi modus,& maximèPrincipum,necopportuno pofteros destituemusconfi lio. Sanèvbiillorumtemporum vitaaffiduisdeditaeratexercitijs,vtpote 10 quæ & fanitatem conseruarent,& promptiores redderentviresad singula, tàm animi, quam corporis munera o b e unda; è contra hodie in continuo ocio degitur. Età Principibus maximè, quiob decorum, ac ampliffimi ordinis maiestatem, semotam à communi consuetudine degentes vitam;aut curis animi grauibus iugiter tenentur. Aut siad ludicra aliqui tranfire foleant, ea Exercitianoinertiasunt, tabellæ, alex, vel Trochinouus modus hàc illuc supermensam stritemporisagitati: inquovitægeneretandemobdefidiain,& anxietatem,totam breui inertia, cursu vitædeficiant. Quapropter generalisfimum hoc ac saluberrimum sibi 20 Exercitijnequisqueproponeredebet institutum,exercitiumnecessariumessead susten cesitas ad vitationem vitæ: inquire omnes sapientes, variorum quenationum ritussum moconsensu conueniunt. Verùin quoniam hoc tempore non solùm pluri maveterum exercitiorum generanon funtinvsu, imòvelipsorum nomina (ut diximus) sunt obscura; necadeoilisvtiessetpoffibile,quinec Palestras habemus, nec Thermas, proptereàingratiamnoftrorun Principum,aliquot particularium exercitation numgeneraproponemusexGaleno, atq;alijsan tiquisauthoribus, quarum multas si non in campis et plateisobirepoterit; licebitfaltem et incameris et inatrijs,acviridarijsfuis,seruataetiainperso nægrauitate,percommodèexerceri.Exercitationum (inquitGalenus)com Exercitatio-pluresdifferentiæinueniuntur. Aliærobustæsunt, & violentę, fiuevehemen num dife-tes; aliæmediocres,&lenes. Aliæ singulares, aliæcumalio fiunt. Etaliæ rētiæex Gavni uersas simul corporis exercent partes, aliæ vnam magis,& aliæalteram. le.2.desan.Vehemens exercitatiodicitur,quę& robusta,& celerissit:atquehæcmul tergrauequoduistelum iaculari,& continuatisia&tibusoneremaximo subla  tame, pervertere temperaturam coguntur. Vnde non mirum est, qui præ properam accelerentsenectam, incurrantque facileautinmorbosrenales,autinpoda gram,autinHemicraniam,aliosqueidgenus affectus,medioquevelutiin fum tuen to, tash abet differentias. Quædam enim fiuntocylimèagitatis, quædamrobore, acnixu, quædamfinehis, quædam cum roborepariter & celeritate, & quæ Exercitatio-damlente.Fodererobustaest,& singularis exercitatio,remigare,discum nugenera. mittere,mouericeleriter,saltare;idquefineintermissionemaximè. Simili et ac clivis ambulare.Grauiarmaturatectumceleriteragitari.Continua tusdiucursus.Et iterfacere.Perfunem manibus apprehensum scandere, modo in Palestris quo solitum erat puerosexerceri.Velèfune,velperticama nuapprehensa sublimenpendere,acdiutenere.Manibusinpugnum redu: &tis, iisdemqueprolatis, velinaltumsublatis. Halteribus,feuglobisplus minusgrauibusleorsumpositis,vtraqueseinflectensmanu attollere.Quæ robustior erit exercitatio, si qui ad sinistram manum fuerit dextrâ coneturat tollere, & sinistrà qui ad dexteram. Diuq;,acsępiusidentidem facere.Potest & foliscruribuserectusacvnolococõsistensceleriterexerceri, modò retrora suminsiliens, modóinanterioravicifsim crurumvtrunquereferens.Solus fimiliterexerceriest,summispedibusingredi,tensasqueinsublimemanus, hancantrorsum, illamretrorsumcelerrimèmouere.Sehumi celeritercir cumuoluere, velsolum,velcumalijs.Cum alijsverò& citràrobur, & violen tiammultæexercitationesperaguntur. Vtcursusadmetam constitutam.Vel vibratilisar morum meditatio. Summisinuicem manibusconcertare.Co nes cú alijs. ryco,& paruapilaludere. Stare, nec finereseloco dimoueri;quo exercitij genereMilo Crotoniatescelebratur.Velseerectum,& circumactum 10astantemmutare. Complecti quempiam manibus,digitisquepectinatimiun ctis,isque diuellere seadnitens. Medium appræhendere,ac sublatum ceù magnumonusprotendere,&reducere. Luctaytriusqueluctatorisrobur maximèvtipoteruntSeniores,& quiadmotumsuntimbecilles. Ambula.Vltimò Fri &tiones suppleant. His omnibus ex ercitationum generibus,imòinfinitis alijs (vtGalenusinquit)docebant Pædotribæexercendumesse:& velinPa læstris, velextrà, velinaltopuluere, velconculcato, & firmosolo, & omni noantèbalneum. Quibus & nosiuxtàpræsentemviuendimodum,siuepro præparatione, fiquis velit ad balneum,feusinebalneo,vtpleriquehodiefa tecdicere,quæ situborealifrigidas,acpurasstatimàfontibusadmittebat aquas.EratenimNatatio (vtidiximus) separataà partibus balnearum: citationes, le  cimus, percommodè vtipoterimus. Sed de exercitationum emolumentis 40 alio loco occurretdicere: nunc ad describendas balnearum partesin Thermis redibimụs, acaliaineisrequisitaexplicabimus. De Natatione. Ne i principes autemThermarum partes, primùm de Natatione opor Cap. vii. Рp ij nimi. Exercitatio. prope rium mem brorum.exercet. Luctaricum roboreest, ambobus cruribus alter alteriu scrus com plecti, minibus intersesecollatis, & collo. Manua lteratanquamfunecol loalteriusiniecta,ipsumqueretrorsumtrahere, acreuellere.Pectoribusex aduers o i n n i x i, magn o se co n a t u i n uicem retrudere. Ad singulares porrò universalis, attinet electionem, qua parte corporis quis vtivelit, aut indigeat exerci- particula tatione. Aliæ enim vniuersas simul exercent corporis partes;quo nomine ludusparuæpilæà Galenoprætercæteracommendatur. Aliæ vnam magis, aliæalteram exercentpartem, lumbos, crura,brachia, spinam,pulmonē, Deparuepi thoracem. Itatio, cursusquecrurum exercitationes sunt. Acrocorisini, hoclxludo. Est festiuæs altationes & Sciamachiæ, crurum, brachiorum,& manuum pro pria. Lumborum autem, affiduèse inclinare,autpondusaliquod àterra tollere,autassiduèmanibus sustinere, Spinam transuersim exercet, atollere vt dictum est alternatimhalteres. Thoracis vero et pulmonis suntpro priæ, maximæ Respirationes. Cor. Celsus inter exercitationes imbecillisto lib.2. c.8. macho conferentes,claramcommendatlectionem. Maximaveròvoxvocis quoque instrumentaomniapermouet, dilatatque:naturalemexcitatcalo-Clarale&tio. rem, & quomagisfitafsidua, eomagisvniuersis corporis partibus communicatur, vtinnostris concionatoribus experimur et in libro de voceà Gale noestproditum. Hoc genere exercitationum per vocem, quælenessunt, Lenesexer Lufta. Etio,& amo tioneetiam quimagis validi. Velequitationessufficiantur, gestationesquebulatio. seucurru, seuproægrotantibusin Scimpodio,& Sellaportatili Cap. 18.   Nimirùmquia singularis eiuserat, acpropriusvsus, non tàm quidemadlaua Varzac efttionem,quàm ad exercitium. Eftenim Natare laboriosum, quòd itaiacta quoddam e rerectè Aristoteles in Probleumatibus, Natationem, oblaborem, cursuico parat, aquarum periculaexercerentur. Et Galenus testator de suo tempore, pue 1, Defa.tu,rosin aquis qumasina's Feudasfacere consueuiffe,idest, quòd prima fiebantin of Pifcina, Piscina P u aquis pueritiæ rudimenta. Itaque præter Tyberis commoditatem,propria adhuncritumlocaconstituta fuisseinvrbediximus,quæ diuersisexplicata nominibusinuenimus, Natationes, Piscinas, Stagna, atque etiam naumachias, Piscinædi&tæ, quòd & pisces hauddubiècontinerent, nontamenad vsum piscium, nam ad hoc propriaerantviuaria,sed ad munditiam seruanda aquarum,& amoenitatem. Videturautem exercitatio numhuiusmodi causa, primùm constituta fuiffe Piscina publica dieta sub cliuo Capitolino, ad veniebat populus. Exca& piscinæaliquandofuntdictæparticularesNata tiones,& labra lapidea, qualia Romæ videmus maxima, nec non portatilia, ac lignea advsum etiam calidarum aquarum. Quod authoritate constatM. 08 Tullijad Q.Fratrem desuisbalneis,Latiorem (inquit)piscinamvoluissem, vbiiactatabrachianon offenderentur. Hasà Galeno,acalijsGræcisautho x a n u p u s o ' n ga ribus, modò x o d u a k r í z s a s, mod ò Bari i su p o e edicta s legimus. Parva autem Solia, Capesupulco peluesquequercus; quam differentiam planamfaciuot Galeni verba lib.7. Mé πυελοι. Stagna. thodi, vbi ad ventriculis iccitatem curandam, quæ Hecticamminetur, nata tioneminbalneo factam consulitivteīsno numerisus, id eft in piscinis natandocó stitutis, quàmivtotspixpsīsavenoīs. Memorantur porrò & Neronis Stagna,vbi Amphitheatrumà Martiale poniturinprimis Epigrammatis d. Hic, vbiconspicuivenerabilisAmphitheatri Erigitur moles Stagna Neronis erant. Quod tamen stagnumnon plane constatanad natationis usum, anpro Nau stagno circumpofuit, conseuiffe. Stagnihuiusin Vaticano Naumachiæno Navale Sta minememinit Egelippus Græcus author, in D. Petri & Pauli martyrologijs. Cæterùm NaumachiapostNatationes& balneas,altiorisfuitinstitutiquàm Naumachia adnatationem,nec, nifipoftimperiaprincipuminuenta. Nempe inqua nautici certaminis fieret spectaculum, vel ad disciplinam militarem, q u ò faci of Finis duplex liùsmilites pericula Aluminum, vel naualis belli, cùın opus fuisset, possent Naumachię euadere. Sic Polybius refert Romanos primo bello Punico, quod aduersus Chartaginienses gesturierant, militessuosinnaualidisciplina exercuisse. Et SuetoniusAugustumcúm effetcótrà Pompeiumiturus, inportuIulioapud Baias milites in nauali exercitatione tota vna hieme detinuiffe. Vel erat N a u jucundunfpe Etaculum. machiævsusaddelectationempopuli,vtcæteraspectacula.Pluraenimerãt q u æ præberent animo delectationem:primò aluei magnitudo, ac Cyrci c u   1 vivarium. blica. Quam (ut Festus Pompeius est author) & natatum et exercitationis caussas duo. rat, gnum. xercitium, tismanibus, accruribusaffiduè, vniuerfæcorporis exercentur partes.Qua Et Oribasiuseaminteraliaexercitationum generaadnumerat. Imò Natationis in vrbe fuitprimus,acantiquissimus vsus ante balnea:quando scilicet conftitutæ fuerunt exercitationes in Campo Martio,vbiiuuenes (te ste Vegetio)  puluerem, sudoremque detergerent, simulatque ad obennda machiafuerità Nerone constitutum.Vsumtamen vtrunquepræftarepote Neronis no- sicut& de altero eius nominis meminit Tacitus,claufifle Neronem in mine stagna valle Vaticani spatium, in quo equos regeret, apud quenemus, quod navali iusdam OZ jusdamamplissimiforma, editaadcommoditatem tantiludi,inconspectu maximæciuitatis. Deinde classisineam, etiammagnarumnauiumintrodu Etio, & ludusipsecertaminis. Etdemum populicelebritas, & velipsaaqua r u m copia, atque amænitas, maris instar tranquillissimi. Et quæ apertis eu ripistantamvimaquarun vnohaustureciperet,laxaretquefinitospectaculo.Martialis inquo mouet admirationem aduenæ Martialis,dum sicadulatur Domitiano.locus. Cui lux primas acrimunerisipsafuit. Ne tedecipiatratibus naualis Enyo (Paruamora est) dices, hicmodò Pontuserat. Ex quo plane authoritate colligitur, in Cyrcotammarisquàm terræcelebra In Cyrco rispectaculadebuisse: vbimodòterra (inquit) modòPontuserat. Quod Naumachia. Cyrci Maximisitus confirmatinterAuentinnm montem,& Palatinum de pressus, inquem Gabiusæaquæriuus,quemMarianam posteridixerunt,per Gabiusaa petuòinfluit na. na aqua,vtFrontinuseftauthor, quæ fapore,& crafficiemarinamaquam AugustiNa 2 0 æmulabatur, in q u a faciliùs natat r, t e f t e quo que Aristotele in Problemati - u m achia: sub colle Hortulorum, ademiffarium aquæ Virginis. Authore Sueto Domitiani. nio,quiasseritDomitianum circunstructoiuxtà Tyberinilacu (inter Cain pum Martium scilicet& ipsum collem Hortulorum, vbi nunc iuxtà Sanctito pluresessentqui exercerentur et quifrequentarent Thermas adca,quă Bal spectaculaquàm quilauarentur.Eteodemtemporemagnahominum co-nearum. piaexercebatur, &quivno,& quialioexercitiigenere. Atadbalneasin trantiumcontinuaficbatsuccessio, nam cùm priores occupassentloca, reli qui (vt scribit Vitruuius) circunstabant,dum lauarentur. Pleriquesani,ac robusti, poftquàm in exercitijs incaluissent, nullisferè alijsvtebantur bal neis vtinfràmonftrabitur nisinatatione. Quæ parsidcircoeratamplissi ma, & exercitationibustamsubdialibus; quàm interniscommodissima. Vel Balnearum transiffentdunt axat ad balneas calidas, atque illicoegrelliinsiliebantinfrigisitus. dam. Summa ergo artificijin balneishæc fuissevidetur, vt in locoessentquả commodo omnibus seseexercentibus;acmirandiplanè artificijministerijs totaquarum,calidarum simul,& tepidarum,quæcontinụèexsefunderen turin balneas. Pro commoditate, ac ratione lauationum, erant omnes ad Рpij meri  Et parvndafreti, hic modò terrafuit. Non credis?spectes dum laxent æquora Martem. ropriè verò ad vsum naualis certaminis, duæ fuerunt certiffi-qua Maria inæ Naumachiæ. Priina Augustitrans Tyberim, adductâobidineam Alfieti Sylueftriædesapparentvestigia naualespugnasineo, penè iustarum Claf fiume didisse. Luxuosissimus Heliogabalus, euripis vino plenis, naumachia Heliogabali. exhibuisse. Tradit Lampridius. Sed nuncad partes balnearum proprias acMilanius. De partibus balnearum, esde Milliariis vafisin Hyppocausto. BÀLNEARVM veròin Thermisnoneam videmuscopiam, quamde BВ exercitationum locis iam diximus. Ex quo planè videtur, quod mulnum pluralo Exercitatio Siquisades longis serus spectatoraboris, bus. Alteraverò et magis celebris, fuit naumachia, quam Domitianidixi. mus Apodyteriú seu Tepidarium. meridiem,vndefolissemperillustrarentur, acfouerenturaspectu. Nam tó: taeafaciesanteriorerat distincta in duos ordines balnearum, vnusàdextris Hypocausti,&alteràfiniftris. Etvterqueordo distinguebaturinquatuor Cameras, conformes vtrinque, ac ita collocatas, vt ex una in aliam Etuplatearum àsitumeridionaliproposuimus,progressuferèad media pla eratceùvestibulum regaleApodyterium,seu Tepidarium. Quem lo mirabilem, meritò alterum noftræ ætatis Trimegistum dixerim. Hinc fini Hypocaustús tror sumn modicus introitus in Hypocaustum. Sive (vt meliusdicam) super Hypocaustilocum, quirotundaforma, cumopportunishincatquehincmē Cryptoportibris, nuncprimisNouæEcclesiæfacelisdicatuseft.Totaeniminfràmoles res. Aftuaria. darum, aliæ frigidarum aquarum ductus, alię calorum æstuaria, aliægrandes tores vt vocabulo vtar Iure consulti curam succédendi ignem habebant in Thermis. Eratautem vnicum, teste etiam Vitruuio: collocatum tamenin medio,vtcommuniseiusessetvsusvtrisquecaldarijs,exvnapartevirilibus, 30 exaltera muliebribus. Idqueperopportunaæstuaria,quierantmeatus ab Hypocausto perpetui, vndecalores occulti in cameras caldariorumipsorum penetrabant. Quod tetigit in primo Syluarum Papinius Statiusd. Vbilanguidusignisinerrat dioplacet æneatamenpatinasubiecta. Quorum idemeratnomencum ca meris prædictis,vnum caldarium, alterum tepidarium, tertium frigidarių. Legitur item Milliaria, a magna fortasse capacitate, quali plus millelibrarú aquæ caperent. Quippeidgenusvasa, teste Vitruuio,maximi aheni inftar, actestudinataadcircinum,itaerantcollocata, utex tepidarioin caldarium quantum quæ calidæ exisset, infueret, de frigidario in tepidarium adeundem modum. Atque hinc planum artificium est, in quotant opere laborauimus, quomodo ad communeinvsumtantaaquarum copia exvafisfuppedi tareturinbalneas. Quod restituo in lucem ex Seneca, quidum ad Lucillum miradeliciaruminuentasuitemporisdetrectat, hocafferitobiter. Construiteam, huiusædificij, concameratainuenitur,acdistinctaaddiuerfosvsus. Aliæ Fornacato. Criptoporticus erant patentes ad refrigeria in magnis caloribus. Aliä сali 40 IO CUS. 20 cum laxum, & hilaremdescribit PliniusadApollinarem, hocest,amænum, acmollisteporis, tùm solaribusradijsàmeridie illustratum;tùm proximi Hypocausti vapore laxum:vbi nimirùm ingressuri ad balneas exuebát vestes. Qux quoniamprimaerat, acnobiliffima Thermarum pars, nobilissimietiá numapparetartificij. Figura inquadrumoblonga,achemicyclisquaquefa ciedistinctum,cum aditisvndiqueintercolumniorum,columnisquesuper nætestudinisaltissimis, quætàmauthoris,quàmoperissummam maiestate ostendunt. Vnde sapienter hæc pars, proposita est pro prima porticu Ecclesiæà Michaele Angelo Bonaroto, quem pictura, sculptura et rchitectura cloacæ vnde lauationes exonerarentur, & aliadenique Hypocaustum,atq; Lib.s.c.10 Hypocaustimembra.EratergoHypocaustum fornaxinferior, vbifornaca Aedibus,& tenuem voluunt hypocaustavaporem. Vasariatria Super Hypocaustotriaerant compositavasariaænea, velplumbea (ut Palla Mincepice Græcis hæc Mirsapíe, Latinis (vt apud Catonem, Senecam, atque Palladium folitum aditus.Inmedio quidemerat Hypocaustum, vtrinqueveròinversuris La conicum, deinde consequenter Calidarium,Frigidarium,& tepidarium,vt planèsingula explicabimus. Principio contram Theatridium, quodinprospe pateret solitumin ipsis milliarijs dracones, quæerant fistulatavasatubæ instarære tenui, perdecliuemilliariocircundata,vtaquadum ados draconis con lis canales occultos, quorum aliquæ visæ sunt reliquię in eruendis ad nouam 2 0 ecclesiam m a c e r i j s: atque ex hinc aquas de duci solitas in Natationes, in Fonsicis organis n o n absimiles. Quia d firmitatem quidem, ac robur faciebant Tubi etepi ipsis v a l ibus: simulatque artificio ferès i miliquonos hodie Romæ nymph e i s s t o m i a. acviridarijsdamus velarcemusaquas, habebantfiftulasinfra parietes occul tas, q u æ in cameras balnearum,vbi opportunis locis essent epistomia, infundebant aquas. Quod ex eodem Seneca non est dubium, d u m n i miæ la uti ti æ adscribit, quod continue aqua calida ex sefunderetur in balneas,acrecens semper, veluti ex calido fonte per cameras transcurreret. Et ex Galeno, vë iam decamerarum dispositionibus dicemus. De Laconico, esde Solis Balnearum. RDINES quidembalnearumin Thermisduosdiximus,vtrinque scilicetabhypocausto vnum testeVitruuio,alterumvirilium,alte Balnea viri. rum muliebrium. Nam vtscribit Gelliuslib.io.cap.3.authoritateVar ronis2.deAnalogia,Pudornon patiebaturvtrunquesexum simullauari,sed do liadoMu aquarкт epis t o m i j s, fundebantur. Vbi nota harum ductuum in Balneas alterum arti 30fícium. Eranttubięne ierecti, tresàdextera et tresàsinistra milliarijs, m u 40 glomerati specie plurieseundem ignemambiret, pertantumfueretspatij, vasis. quantum acquirendocalorisatisesset. Quare triplex semper aqua invalis, acinfinitæcopiæ, calida, tepida,frigida, nam successiuas vasexvase Caldarium piebataquas.primum quidem,quod caldarium dicebatur,superprimavas. hypocaustistraturacollocatum, tanquam omnium vasorumvalis, calfa tes, Dracones i 10 са. Etasperdraconisinuo lucra fundebat aquas. Secundumsuperhoc erat tepidarium, quod a primi vasis vaporibus modicè incalescebat. Tertium Fri- Frigidariú. gidarium: vtpotequod frigidass tatimab emissario aquas capiebat et quan tum subiecta vasa vacuabantur, tantum hoc nouarum aquarum infunde- batfinefine. Emissarij verò huius obscura quoque ratio est. Nam vide-Emisariaa mus quidemad Thermas ipsas propria aquarum Castella constituta: qualequarum· extatin Diocletianis poft palestras orientali parte. Etin Antonianisàt ergo Theatridij admeridiein. Horum tamen altitude nullibi excedit planiciem bal nearum. Nec vllus est modus, neque artificij vllius vestigium, insummis Thermarum testudinibus, vndetam altè deduci potuissent aquæ.Videturita que mihià proximis iliscaftellis cóstructosfuiffeinfràpauimentatotiusm o Tepidarium lib.io.administris balnearijs veletiam iumento alligato, subleuatæ aquæinsu ipsihypocausto piscinam infundebantur, quæs ponteposteàinsubie pernamn rursusin Tepidarium,& conse ĉtumFrigidariumcaderent,& exFrigidario, quenterinCaldarium,velutidiximus. Vnde plenas emper vasa suis aquis imumcalida, medium temperata, supremum frigida, quæ per fistulasencas hinc atque hinc in quolibet vase compactas, versis ad vnum quenque actum Tympana Fistulę aqua ac alias piscinas. Hinc, tanquam a communi fonte, per rotas ac tymparo t e a c na, ac id genus alias machinas aquæ hau storias, quas describit Vitruuius commoditas coniungi desiderabat. Quanquam in hisque post Varronis et post Vitruvi j ętátem f a &t æ sunt, hæc distinctio non sit mihi ve risimili. Q a n rum. liebria.   do auctoritu exercitationum,ac lautitia inThermis,vix publicas potuisse virorum frequentiæ sufficere videtur.Itaquepromiscuas potius ex eo tempo refuissereor,achonestismulieribussatisfecissepriuatas,velquasprincipes Matronas constituisse iam scripsimus, Agrippinæ Neronis matris balneas, terke inbal Olympiadis,atquealias. Cameræ in quoque ordine quaternæ, Laconicum, Calidarium, Frigidarium et Tepidarium. Velternæ adminus:hoc enim non videturdubitandum,non fuisseThermas vno stylo vbique,nequevno ordinepartium et tam in publicis quam in priuatis. Et hinc in authoribus Celsus. Tanta earum inuenitur varietas. Quaternas point Celsus lib. 1. cap. 4. dum scribit, Sub veste primùm paululumin Tepidario sudare folitos: tùmtranfi- Galenus. re ad Calidarium, vbi sudabatur largiùs, quod ponitpro Laconico: tumque aut in calidamd efcendere,autinTepidam;deinde in Frigidam. Easdem C.i72ero qua λουτρόν Pyriateriit. Hypocaustü point Galenus lib.10..Methodi, a Laconico incipiens: Primùm enim inquit ingredientis inaë reversantur calido:hinc secundò in aquam Calidam defcé dunt,quod propriè aoutcovait appellari. Ab hac mox in tertiam Frigida ibár: & tandem in quarta sudoren detergebant, quod erat tepidarium, seu Apo dyterium græce dictum. Inquo& Celsusdicit,fenouissimèquiselauissent abstergere,& vngereconsueuisse. Quem planèordinem & inhis Thermis, quarum videmus vestigia, seruatum inuenimus. Extat Laconicum adsuda tiones inquoqueprimæfacieiangulo vnum, idquenonadeomagnum,hu- 200 iusenim partis noneratvsus communis, nequeadeo necessariusomnibus, vtquibus fatis ad sudandum exercitiafeciffent. Sed imbecillis proprius et quiminus validiadexercitia,sudoreshocloco excitabant:subindeintrabát adcæterasbalneas. Nomen autemdeduxità Laconibus: quos huncritum rium, Laconicum veròc ommuniter omnibus, & Ciceroni quodam loco ad Sphærifte- Atticum. Suetoniusin Vespasiani Cæs. Vita Sphærifterium hanc partemap- 30 rium. pellat à figuræ rotunditate. Locus quippe concameratus ac rotunda fpecie, Lib.5.c.10.habens,authore Vitruuio, inhemisphæriolumen,exeoqueclypeumæneú cathenispendens,percuiusreductiones,acdemissiones perficeretur Suda Clypeus Lationum temperatura, vaporibusnimirùm ficretentis,veldifflatis. Erat autem huius institutiratio, vtfcribit Dion in Annalibus, vtfus è intrantesinhac par vfus: t e sudaret et sub i n d e unctione ad hibita, statim descenderent in frigida. Quod planè clarius ex Galeno fiet pofteà, ac à Martiali obiter tangitur in Hetrusci Thermis, ad Oppianuin tribus versibus. tepidum tamen aquarum vaporem potuisse suscipere. Proinde Celsusineo, affus dixit sudationes lib.z. cap.27. alibi exiccari dixit corpora: Seneca exani tos  .primò instituise, Plutarchusin Alcybiadis Lacedemonijvitaeftteftis. Græ Calidarium. cialiquando Ilupice Supo's,& nonnullisuTorw50sdictum,ob igneum ineova Sudatorium.porem:Latinis modo Calidarium,inodò Cella calidaria,Senecæ Sudato Laconici coni, ncis. mari, ritus si placeant tibi Laconum Contentus potes arido vapore CrudaVirgine, Martiaquemergi. Vaporíqua Virginem dixit, & Martiaminhisbalneis Romanasaquas, blandissimifrigo litas in Laco ris. Videtur autem Laconici aërem,siccum quidem fuisse, atque igneum, Bico. Galenus & alijmediciinterdum elixari, Oribafius planè aëreferuidu dixit, ac præhumidum i n Laconico. Quod rationi consonum sit. Nam ex æstuarijs, partim quidem siccis, ex quibusiaindiximusabhypocaustooccul   10 su  tenui calore, diceba t Galenus x. Methodi, reservatis vniquem eatibus, liquatisque per totum corpus superfluis,sudores, vtilesquemadores clicere, quæ inęqualias untęquare, cutimlaxare et multa quæsubhac detenta erant, vacuare. Ex Laconico patet aditus i n Calidarium, quod proprie Calidum So aoutpór, hocestlauacruindicitur, eodemteste,& calidum Solium. Patetau-lium. tem hæc pars,duplex magnitudine ad cęteras cameras:vt cuius in balreis maior erat necessitas, longior in e o f i ebat mora, ac usus frequentior, præsertim minusvalidis ac imbecillis. Vbi meminisse oportetex Celli verbis, quæ pau Halat & immodicosextaNeronecalet. Mox tertiolocoeratFrigidarium,seuFrigidumSoliuminquo aquaexquisi. acviresdensatacutifirmarentur. Qui enim, subdit, hoc modo àcalidislaua- Vlus. tionibus, sudationibus que laconicis ftatim in frigidam non descendissent, Paulo post transpirato immoderatius calido innato,totum corpus frigidius euafiffe sentiebant. Quodfanè frigidælauatiofieri prohibebat,totum semel corpusconftringendo,&constipando,nonsecusatqueaccideresoletcalen tiferro,quod quùm infrigidammittitur, & refrigeratur,& induratur. Atque huius rei causa potissimum constatinuenta fuisse balna, pro imbecilliu vm i delicetcorporumrobore: hoceftvtimbecilla corporapræcalfacerent, itaque ad frigidum Soliumpræpararent. Adeoquepræualuit semperfrigidarũvsus, Frigidarum 40vtvixquidam alijsbalneis vterentur. Carmis Maffiliensis Medicus, etate Neronis prerogativa, scribit Plinius lib. 29. cap. 1. damnatis prioribus Medicis, ac balneis, frigidalauarihybernis etiam algoribuspersuasit. Merficęgrosin Lacus.Vide bamussenes consularesin ostentationem vsquerigentes. Ex frigido tandem Solio erat exitus in Tepidarium, tepidiscilicetaëris,q uod diximus apodyterium, sive spoliatorium. Etcratfinisinbalnco.Ancè Tepidarium tamen Cella olearia in Diocletianis commodè est ut videtur Cella Olearia, eademque Tonstrinæ na.  tôs penetrare ignes in cameras, partim aqueis per suostubos ac spiracula, v a pores misti ad hemisperium Laconicipetentes,sub curuatura magni clypei intenuiffimas conuertebanturaspergines,quæimbrium modò super capita Facultates. corum,qui morabantur in Laconico depluebant. Potest autem hæc prima pars lo ante retulimus,vel in calidam fieridescensum, vel in tepidam, & quali ad uno, tenore vtentis arbitrium potuisse temperari. Et Galenus in 3. de  an, t u e n d a idem videtur asserere, nimirùmquòd in Calido Solioaqua, exvafisquæ diximus Miliariorum calidis, tepidis,ac frigidis, poteratadvsum trifariam tèfrigida, ad hunc videlicet vsu minquit Galenusx.Methodi;vtquæ fuerantFrigidum.So fòexcalfacta fiue'in lium., anterioribus Solijs, fiucin exercitijs, hicrefrigerarentur, An balnea calida. fieri, tepidam, aciusto calidiorem. Quam tamenva ri, nempè temperatam lauationibus, sed in priuatis,vel non videopotuissefieriinpublicis rietatem, parabatur à Balneatore aqua advsum pu adpriuatosvsus. Nam in Thermis compara LO Aeftiuo serues vbi piscem tempore quæris. fortas selocus,vbinimirùmoleaseruarentur,atquevnguenta do Tonstri,aliique odo blicum,vnotenorecalidaomnibus. Quod declarant authoritates scripto-frigidæ, alia rum, quialias Thermas appellant frigidas, alias blandas, alias fervidas. Vei frigidas significauit Martialisinprimo Epigrammatum. In Thermisferua Cecilianetuis. Idem inx. Neronianas indicat fuisse calidiffimas, eo epigrammate. Temperat hæc Termas nimios priorhoravapores res cal d a Therme alię   resad opportunosvsus,& quivellentbarbæ,& capillorum cultuivacarent. Unetiones in Eratautem hæc pars vn ade necessarijs, acessentialibus (ut ita loquuntur) in Thermis, toto ritu Thermarum, quandohiçmoseratcommunissimus,vtquisque lo tus,simplicis faltem oleivnctionevteretur,tùmvtsudoresinhiberet,tùm vtfeabextrinsecùsambientisiniuriavendicarepofset. Hunc enim tenorem in omnibus ferè,quę hùc sparsim adductæ sunt,authoritatibus obseruabis: primùmlegiturexercitium, deindebalneum, vbifrictiofiebat,& detersio, inoxstatim frigidæ lauatio, pofteavnctio,posteacibus& potus,vltimòso mnus. Proinderecolome legissepluriesinvitisPrincipum, ficuti ntermu..10 Oleimunus nerapublica erat Congiarium,erat Recta, erat Sportula,itaoleum aliquan publicum. do publicè donatum, quoin communi velutigaudio,quisque frueretur in balneis.Nimirùm vel Thermis cùmprimùmdicatis,velfaftualiquoPrinci pis.vnctionum verò,quasquisquesibipriuatimdeferebatadbalneum,luxus legiturinestimabilis. Quidelicatèviuerent, velimbecilles, odoratisvnguen Balnea contis refouebant spiritus. Quosdam legimus iuffisse spargi parietes unguento. spersa vn-Vtfimul (equidem puto) & lauarentur, proiectisinalueositaimbutosaquis ipfis, & vngerentur, fic penetrante exactiùs vnguento, & odorem, virtu temquesuam diutiusseruante in corpore. Atqueita Caium Principemsoli tum lauari, testisest Suetonius. Scribit Lampridius Heliogabalum nunquá inPiscinislauarisolitum,nisiillæcroco, aliisúepreciosisvnguentisperfusæ fuissent. Velplanè conspersiseo modoadluxum parietibus vtebantur,vedu quis se parieti confricaret (quod aliqui facere folebant, vt apud Spartianum in Hadrianoleginus)sineministris,acetiam proprijsmanibusperungilice Balneton ret. Neroautem profusissimus non folùm calidis balneass pargebatodorib. guentipre-sed & frigidis quoque vnguentislauabatur, fcribitPlinius.'Recensenturau ciosi. tem hoc in generepræciolamulta,quæ (Galeno teste) Romanorum lauritia Olea, etvn- inueniffevidetur: vt Mendelium, Cyprinum, Narcissinum, Susinum, M e guenta pre- galium factum ex balsamo, Regale apud Reges Parthos primò comparatum. ciofa. Nardinumquoque,quod& Foliatumdicebatur, Plinio:& alterum Spicatú, QuodidemNardipisticæpræciosivnguentum legiturinEuangelio.Etitem30 Iasminum oleum,quododoriscaufla(vtteftiseftDioscorides)non inbal neissolùm,verumetiaminterepulandum apud Persas, vsurpari consueue. Unguenta in r a t. Dono, equidem opinor, et in Xenijs. Quem morem d i u Spartanos, at conuiuijs. Quelonasretin uiffe narrat Valerius quę, Plinio teste, Diapasmata,quasi conspersoria dixeris, Cyprini pulueris instar, quohodievtimurodoratissimi; dequoebriam,putidamq;Felceniam illuditMartialis in primo Epigrammatum, eo carmine. Quid?quod oletgrauiusmiftumdiapasmatevirus? Apodyterií Vt redeamus ergo ad cameras, Apodyteriumerat principium, & finisinbal gues. 40 M a x.lib.2. vnguenti, coronarumq uein conuiuio dandarum, secundismensis.Erat& Oenanthinuminter præciosa. Quorum similia aliqua apud Paul. Aeginetam legimusvnguenta, atqueolea. Multaquei d genu salia apud Plinium lib.13. inalabastrisferuari solita:nunc omnia rarissima, aut que dam subdititi a, vel adulterata, tantæ verò e a tempestate copiæ, vevsuscorum ad vulgares quoquede fuxerit, quodserioarguit Iuuenalis. Moechis Foliataparantur. Diapasmara Ad sudores autem propri  cohibendos, quæda m ficcis constabnt odoribu, neo;  eôdem nimirùm reuertentes, vbiantèbalnearum vestimentacõsignal sent.Idemqueex Galeniverbisplanèintelligiturx. Methodi: hicenim dum cunctarentur, actergerentur, corpusadhucpersudorem,innoxiè,accitrà refrigerationem vacuabatur,acinnaturalem redibatmediocritatem. Porrò vana quorundam controuersia est, ponere Auicen.trescasas(itaenim interpretantur) in balneo, easque long è aliter dispositas, quam diximus. Cui bil. cnim dubium non fuisse balneas vnost ylovbiquenequevno ordine? Defijf setamen pariterapud Arabes hunc ritum, testator Auerroes in Canticis, acBalnearum nonmirùm imperfectastùmeoshabuiffebalneas, Nequein antiquiffimisa nidemsły 10exempliseadistinctioquærendaeft: quando Hippocratisætatenon adeori tè balneaparabantur, quod & ipseinnuit 3. De ratione victus in morbis acutis. Neque in priuatis multo minus, quas Galenus aliquando perinde damnat, acincommodas, Depensilibus balneis, ac balneariis rebus. Uenire potuirationem. Nam si Pensiles balncas intellexeris sublime salueos, Pensile quid & quæ fu per solario locatæessent, idmagnuninoneft: ficut & Hortospensi lesvidemus, atquehorrea, acmaiusopus, Thębas Aegyptias pensiles fcribit Plinius. Audiuiqui id artificiumattribuant Laconico, ècuiussuspensura  lusvbique. ENSILIVM veròbalnearum, celebreduntaxatnomenperuenitad nos, fuis se eas inter maiora illius seculi blandimenta: cæterùm Cap. xi. namearum fuerit ratio, non facilè ex aut ho r i b u s colligitur. Ponit Valerius Max,interluxuriæexemplalib.9. CaiumSergium OratamPensiliabal quæ Auicenna neaprimum facereinstituiffe. Idquet radit Plinius lib.9.cap: Pensilibal 54.L. Crafsi Ora- neurum inui torisetate,parum anterempub.occupatam.Queminteraliasvoluptates,& torSergius Ostrearum afferitinueniffe viuaria, nec tamgulæ causaa, quàm auaritiæ, vt Orata. Quiitamangonizatas vendebat villas. Eadem testator Macrobius 3. Saturna lium cap.15. Porrò venisse eas in gratiam popularem planè oftendit Plinius lib.26. cap.3.Asclepiadis Neronis Mediciçtate: vrbe, inquit, imòveròtota Italia imperatrice, tum primùm vsu balnearum pensiliadinfinitumblandien te. Extat & Annei Senecę censura ad Lucillum,dePensilibusbalneis:qua vapores conuersosintenues aspergines, imbriummodo Aqua pensi supercapitacorum, lis. q u i lauabantur, depluere diximu s. Vel quem ad modum Aqua Pensilis dicitur z Fluvius p e n & Auuius Pensilis, ita id balneum Pensile fortasse intelligendum, exquodi-filis. ximus authore Seneca, atque Galeno calidas perpetuò aquas, vel quales quisquevellet & tepidas & frigidas, velut ex calido fonte depluere, actran {currerepercameras. Verùm nihililliusblandimentivideoinhis,quam ob rem populus eascum tanto applausu receperit, & quæ ad authorem adscri: bantur voluptuosiffimum. Pensiles ergo balneę haud publici videntur fuisse vera balnea instituti, sed in priuatis extitiffe. Vtquæ priuatum habuêre authorem, & pri-rum Pensi uatamc aussam,nempèinuentæaddelicias. Necvllumvestigium,nulladeliurnrutio. Hisin Thermispublicismentiohabetur, Earumveròrationem, inquatanto. perehesitaui,elicioexeodem Plinio, cuidererumantiquarummemoriapri ma laussupercæterosscriptores, meritòtribuendaest.Pensileenim dicitur rum inqnit suspensura inuentaest,vtnequid deesset adlautitiam. Hæc ha 3 benturde inuentione, atquedelicijs Pensilium, quarum tamen non facilèin 40 P suspen   suspenfum,& mobile: qualesipfememinit lib. 19. cap. 5. Tyberij Cesaris hortos Pensilesmiræ voluptatis,quoshaudquaquam ponitsupersolariolocatos, sedsuspensos,& mobiles, quos inquit singulis diebuspromouerentadso lemrotisolitores. Quod idem clarainbalneis authoritate exposuit lib.26. сар.3.dum Cleophantum Medicum commemorat, authore M. Varrone, alia quoque blandimenta ex cogitaffe, iam inquit suspendendo lectulos, quo rum iactatuautmorbosextenuaret,autsomnosalliceret. Iambalneasaui disfima hominum cupiditate instituendo: easdemscilicet,&suspensas,vtdi xitlectulos.Quam fententiam confirmantquæmoxpaulòsubiunxitverba, quæ allegauimus; Anxiam nimis fuisse Asclepiadis, & quorundam eum se." quentium curan,tum primùm Pensili balnearum vsu ad infinitum blandien te. Easdem & balnearum suspensurasdixitSeneca. Et ValeriusMax.impen faleuibusinitijscępta,suspensis calidæaquæ balneis. Vnde fiiam mente co cipiasvidere hominem inbalneo Pensili,velęgritudine debilem,vel volu ptuofævitæ,çuiusdulcitepore,acleniiactaræ,& nęnijs,& dulciconcentu tibiarum,somno& quietiindulgeretur, iamnihilpoterisexcogitaresuauius. Leftuli non Ex quibus intelligitur, neque lectulorum ritum in publicisextitisse: sed ho erấtin Therrumquoq;, vt Pensilium balnearum, priuataratio effedebuit, maximèegris. mis. Vtensilia in Neque particulariumquorundam vtensilium,quorum in balneis aliquando xandrinusPedagogij lib.3. cap.5. consueuiffe nobilesante ferreadbalneasva sainnumerabilia, aurea,atqueargentea, quorum hęcquidem adlauandum, illa ad vescendum, alia ad propinandum. Quin etiam carbonum craticulas, Syndones. &cathedras. Syndonestergendosudoripræparatas, maximèægris,memi-. nusfitpedesdenos, vtgradusinferiorindeauferat,& puluinusduospedes. Labrainvr-Hactenus Vitruuius. Quare, vtarbitror, labraistalapidea, quæmultavide bemarmo-muspervrbemmaxima, vicenos& ampliuspedeslongitudine, erantfortaf-40 s e i n priuatis balne s. Vel aliqua fort af f e in Thermis ad magnificentiam potius operis, ac ornamentum, quàm advsum. Alioquia d publicum vsum nó videolocum,nequeadeofuiffevidenturcapaciapopulo. Pofteàvitroquæ dam extructafuiffeconftat. Pauimentorumautem, ac Lythoftrotorum, quibus alveos, atque ipsas cameras adornabant, luxus erat inæstimabilis. Quod certe inuentum Agrippæ tefte Plinio lib. 36. cap. 25. In Thermis, inquit, quas Romæ fecit Agrippa, figlinum opus encaustopinxit, in reliquis albarioador  Sufpenfabal nea, Thermis. mentio fit, quæ pueris voquisque domino ad balneum ante ferebant. Ut de strigili, quo sudore in detergebant;meminit Persius eocarmineIronico. Strigiles Ipuer,& Strigiles Crispiniadbalneadefer. Inęgristamen prostrigilibus,quierantvelofsei,velferrei,velargentei,spon giavtebantur,Galeno testex.Metho. Idgenuserat& Guttus,quodLe cythumquoquelegitur, inquoferuabanturoleuni,velaliavnguenta præ 20 30 rea, ciosa ad balneum. Hydriæ, pelues, alabastri, aliaqueid genusvasa, exau Vasaaurea.ro,argento, ferro, velinterdum lapidibusquibusdam. Refert Clemens Ale Labra, nit Galenusx. Methodi. Labraautem ex Vitruuio,& vestigijsipsorumal ueorum videntur fuiffe extructa in cameris signino opere, atque albario: sic enimlegiturlib.5.cap.1o. Labrumsubluminefaciendum videtur, nestan tes circumsuisvmbriso bscurentlucem. Scholasautem labrorumitafieri oportetspaciosas, vtcùm prioresoccupauerintloca, circumspectantes reli quirectèftare poffint. Aluei autem latitude inter parieten & pluteumnemi nauit.  O nauit. Non dubi èvitreas facturus cameras, fipriusi dinuentum fuisset. Libro autem3.cap.12.visasolimscribitBalineasgemmis,acargentostraras,vtnevitres ca vestigio quidem locus esset. Argento fæminas lauari solitas, argenteis folijs, meræge m Afiaticori sum missem perin delicijs fuisse apud omnes nationes oftenditur, hanc par mirans, hydrias, pelues, vnguentorum odores, & alabastros, cunctaauromaditißimg 20 lita, ac miro ornamento instructa; ad socios conuersus, & quasi nimiunı il DeritibusantiquisinThermisvrbis. Primis ergoThermarum,ac Palæstrarum institutis,jam partium earum principalium distinctiones,necnon requisitaad earum vsum magis necessaria tetigimus. De Ritibus verò in eis, atque ordine publicaemolumentum, quoniam per hæc oblectamenta, assiduafiebatin gymnasijs frequentia,acvarijs,quasdiximuscorporisexercitationibus af suefiebat iuuentusad armorum industriam,vnde faciliùs posset militiæ labo res,quando hæc erantprimailliusfeculiftudia, sustinere. Hûc accesserat& alia causa, quoniam qui tepidescere quodammodo ab honeftis conatibus cepiffent,perhas delicias retrahebaturà vitijsanimi, sicqueocium, quod eftomnium malorum fomes, tollebantur, feditionesarcebantur, & omnes populares corruptelæ. Ex quibus triainter communes ritus videnturesse manifesta. Primùm si vetustam illam verecundiam, ac Romanum decusrespicias, summam inThermishonestatemfuisseferuatam. Simaiestatempopu li,omnia ineis fuisse magnifica & splendida, velutidiximus, & quæ nolentes allicerent, atque etiam traherent. Sid enique communem causam. Communem, ac liberum earum vnicuique fuiffe usum. Erat autem hæc balnea- Thermecó. Rum condition communissima, vt singuli balneum ingressuri Quadrantem solmunes. Uerent balneatori. Quod planèali quæpræclaræ declarant authoritates: pri Quadrantis mùm M. Tullii pro Cælio, vbi quadrantariam vocat permutationem balnea em concludam. Asiaticos durante suo imperio luxuofiflimos fuisse, acexeis Thermalu A Fines, etvti &, probrisseruisse. Pauper fibiquisquevide eandeinque materiam & cibis seexercentium,aclauationum,haudmirum est hæc instituta semper maioré mis,acar litatesprin habuisseprogressum;siconsideremus non folùm hincvitæ cip.iles Ther 30 seruare consueuiffe, fanitatem elegantiam eos, & roburcorporis;sedquod maius eftinre ز gëtostratę. Baturacsordidus (scribit Seneca ad Lucillum) nisiparietes balnearūmagnis, a c preciocis orbibus refulsissent. Alexandrina marmor a Numidicis crustis distincta, operose vndique, & picturæmodo variataçircunlitio, Vitroconditæ cameræ. Aquainper argenteaeffundebantepistomia, & adhuc (inquit) ple beiasfiftulasloquor. Relinquocum hisstatuasillicęternitatidestinatas, operatectoria,picturas, speculariorumlapidumluxus, quiantècameras præbe bantlumina, & columnarn mingentium numerum, alia quetantioperisor namentasinefine. Atque hocvnotantùm Plutarchiexemplo,quobalneas primùm ad Gręcos, & exindeadRomanos huncmorem balnearumema nafse,apud veterum historiarummonumenta clarum est. Cùm ergo Alexa der Magnusdeuicto Dariorerumtandem Persię, ac imperijeius potitusesset, balneumque, vt sudorem pugnæ leuaret, ingrederetur; aquarum ductusad-Darij Ther ludens luxum, Hoccine (inquit) imperare erat. Torifieri solitam. Indicat & cocarmine Horatius, folutio. 1. Saty.3. Qq dum xuofiffima.  Nuditas in Redde pilam,sonatæs Thermarum,luderepergis? Verecundi ase nudum quisque in balneas exhibere,& etiamin exercitationes. Cuiusreiinteraliafidem faciuntstatuæ, præsertimvirotum,inqui bus videtur minuere potuisse corporis gratiam, ac venustatem, si non pudenda etiam fimpliciterenudataessent. Nonnullitameninterexercitationes, autfuccinctafibulaprodiresolebant,autsubligaculis,quæ & subligariavo nihil foluiffe videntur:teste Iuuenali Satir.2.d. Nec pueri credunt, nisiquinondum ærelauantur. Quorum tamen priuatafieret lauatio, hora extraordinariaquæeratpoftde cimā, ij pluri precio lauabant, quod indicate o carmine Martialis lib. 10. Balneapostdecimanılafo, centumq; petuntur Quadrantes, &c. incommunitamen gaudio, erataliquandohocmunus interalia Principum, ut gratis lavaretur. Antonini Pij exemplo, quem balneum sinemercede prestitisse, meminitIul. Capitolinus. Sive ergo proveter iinstituto, fiueproso Sub ligaculo cabant. AuthoreM.Tullio1.offi.Scenicorum mostantamhabetveterisdi rumvfus. Sciplinæ verecundiam, vtin Scenasinesubligaculo prodeat nemo. 40 Tecta tamen non hac,qua debes partelauaris..promi-Cæterùm cum haclicentiabalnei,videturdiuadmodum perdurassemulie. Eal. Mulierum verecundiam,quænon promiscuècumvirisintrarentinbalneas,nisi perabusum.Hinctotpriuatarum balnearumnumerus.Etquædam viden  uerecunda. Subligar. E.. dum tuquadrante lauatum 14.annum, Lauari. Cædere Syluano porcum, & quadrantelauari. Pueri tamen antè Fibula. Bal Rexibis,&c. Vituperanseum Principem, quivtvnusdemultisqua drāte lauaretur. Idem Iuuen.authoritate confirmatur in 6.ybi mulieres quas damarguit impudentiæ, quæ communiter cum viris auderent, inquit ips e, lutamercede,hocmanifestumest,commune,acperpetuum fuissein Ther Locai Thermis indultum,vtlocus inbalneo, cuicunque tam primati,quàm plebeio co mis commu munis esset, atque indifferens. Ex quo intelligitur Tertulliani similitudo nia. aduersusMarchionem, QUASI LOCVS IN BALNEIS: quiavidelicetnul li e x merito datur, nectollitur locus in balneis, iam gratuito constitutis, & T intinnabu - ad usum publicum. Erant autem tintinnabula in Thermis summo quo p i a m fasti gi oposita, fære factitio conflata, quorum sonitu populum, sicut i h o d i e adfacra; conuocari lauandihoraeratsolitum.Tintinnabuluminter Xenias exhibuit Martialis, eo disticho. Virgine visfolalotusabire domum? Facitadeandem licentiam Suetonijauthoritas, D. Titum Cæs. admissaple Secum plebebenonnunquamin Thermissuis lavisse. Et Aelij Spartianialia, Hadrianum Cæs. tamprobatævitæ, publicè frequenterselauiconsueuiffecum multis, verecundia etiam priuatis. Inuafiffe enim consuetudo videtur,ex affiduis il lisexercitijs, inbalneis. vndefolutohabitu, acseminudiplerunquehominesdegebant,vtnonesset Idem affirmatquodamloco Clemens Alexandrinus de athletis et martialis si pudor est, transfer subl igar in faciem. 10 la. Reges lauif. invil. bres. uaret.d. Dum ludit media populospectantepalæstra Delapsa est misero fibula verpus erat. Et lib.3. Chionemnotat verecundiæ, quæmuliebriainbalneis contectala tur  publicæ fuisse muliebres, ut Agrippinæ Augustæ Neronis matris. Olym piadisitem balneæ in Suburra. EtquastransTyberim, quasiextràconspe čtum hominum habuisse Ampelidem,& Priscilianam ex P.Victorerecensui mus. Conqueritur hac de caussa insuis Amatorijs Propertiusnon eam esse tum Romanis virginibusin balneis libertatem, quibuscum more Spartano publice liceretcertare, & lauari, hisversibus. Sed magè virgine itot bona gymnasij. Quòd noninfamesexercetcorporelaudes cepsbeneinstitutę Reip.lapsus) totossingulisdiebuslauaricepisse.Invniuer 20sum, qui cunquein exercitijsfuis, autlaboribusdefatigatieffent,vixfanam vitam putassent, nisibalneasstatimintrarent, vbisudoré,fordespulueremq; detergerent,acintotum semolliaquarumfoturecrearent. Quoplanèfit, ve Septiesquos dam lauari. mirumessenondebeat, nequeluxuiadscribendum,quodquidamsepties eadem dietum lauari consueu erint, quod Plinius in primis refert. Ac posteri scriprores Commodum Cęf. et Gordianum idasseruntfactitasse. Sicenim intelle xêrequotienscunqueexercerentur,laffitudinisacrefrictionisvitarepericula, obstructionestollere,cutis afperitateinlenire, faciei,manuum,ac vniuersi corporis decorem conciliare. Erant tamen lauandi horæ constitutæ. Scribit Lauandiho I ul. Capitolinus antem Alexandri Severi tempora numquam Therinasantèau 30 roram apertas fuisse, & semper antè solis occasum claudi consueuiffe. Communiterv erò lauandihora erat a meridie ad vesperum, quando, inquit Vitruvius, maxime calidæ auræ a spirare incipiunt. Cuiomnesaliæ authoritates consentiunt. Hadrianus Cęs. (inquit Aelius Spartianus) ante horam octauam inpublico neminem, nisiçgrum, lauaripassus est: quod erat duashoras poftmeridiem.Vbi operæ præciumest Horarum apudantiquosHorologiri rationemhabere,quidiemartificialem quolibetannitemporedistinguebanttusapudan horisduodecim, &no&tenipervigilias. Horæergoerantinęquales, maiorestiquos. estate, quialongiorestuncdies; minoreshieme, & proportionecæteristem poribus.Haud tamen intelligendumest cosà prandiovsosbalneis fuise: Prădijetcę Nam communiter vir Romanus impransus, autientaculo tantùm primoma-navfus. nerefectus,bonam dieipartemimpendissetnegocijs:mox àmeridie,àsexta nimirùm ad decimam horam,exercitijs & balneo;à balneo autem,circa vi gesimamscilicet& secundamhoram,cenabatopiparè.Quam dieiatqueho rarum partitionemconquisitèin eo Martialis epigrammate comprehensam habemus. Primasalutantes, atquealteracontinethora, Exercet raucos tertiacausidicos. Martialis  ma 10 CO, Multa tuæ Spartemiramur iura Palæstræ, Inter luctantes n uda puella viros. Refert Plutarc husinterlaudabiles Catonisillius Cenforij mores,hocsum- verecundiă ma:laudiilicefliffe, quodcùmfilionunquàmlauisset. Imò Val. Max. fcribitinterafines. Deinstitutis antiquis, necpatercum filiopubere, necsočercum generis lauabatur. Quia interista fancta Vincula, non magis quàm in aliquo sacra tolo nudaresenefasessecredebatur. Sed transeamusiamadeosritus, qui com inunivsuretinebanturin Thermis. Perinitia institutihuius, narratSenecaad Lucillum consueuifseveteresquotidiebrachia,& cruralauare, totosnundi nisfolùm. Cæterùm poft Magni Pompei ętatē (cuiusmemoria notatur præ ra. Qa ij Ad quintam variosextendit Roma labores, Sexta quieslafis,septimafiniserit. Sufficitinnonam nitidisoctaua palæstris, Imperat extructos frangerenonatoros. Hora libellorum decimaest Euphememeorum, Temperatambrosias cùm tuacuradapes. Octavam verò dieihoram fuisselauationibus propriam,tùm publica,tùm pri M. Tullius, uata testantur exempla. M. Tullius scribit ad Atticum de Cesare: Ambulavit inquitinlittore,pofthoram octauamin balneum, vnctusest, accubuit,edit, bibitq;opiparè. Horam & distinctionem temporum aliquamadnotamusex Galenus, Galeno v.deSa.tuen.d. Antoninus Imp. cognomento Pius, ad curam corporis promptifsimus, subbrumabreuibus, f.diebus, sole Occidente in palestram ingressus, sub indeole operun & tus lauarierat solitus: in Solstitio autemhora Thermehie-nona, autfummumdecima. Porrò quod legitur apud aliquos authores,Ther males, eteftimasaliquasfuise Hiemales, aliquasAestiuas;hæcnoneratcommunisom niumdistinctio,sedquarundam àcertocoelisitu dispositio. QualesHiema lesfecissetraditVopiscusAurelianum Cæs.in Transtyberina regione; nimi rum ad meridiem expositæ,apertè solis fouebantur aspectu, itaq; ad hie males exercitationes aptissimæ. A e quaratione A estivas in Gordiano Iunior e meminitIul. Capitolinus, quæ in opaco fit uinter montem Celium & Esqui Bal.vfuspe-lias,gratas estate exercitationibus præftabant vmbras. Alioquî penes anni nesannitem tempora, vix vllaeratlauandidistinctio, sedbenèpersonarum. Nam qui cun que lavabantura d exercitium, in differentert am hiem e, quam estate lauissent, quando cunquescilicetexercerentur.Sanitatisverò& mundicieicauf sa:quandocunque opusfuisset,velad priuatamcuique consuetudinem, vt de Telep o Grammaticom e m i n i t Galen. v. de San. t u. qui lauari consueverat hieme bis mense, estate quater,medijs verò temporibus ter. Et de Primigene quodam philosopho, quiquadienonlauisset, febricitabatomnino. Adde liciasautemac voluptates,velme tacente, priuataquoqueratio essedebuit, 30 & citràvllamaut regulam, autmensuram. Vnde Meridianælauaționes le Lychniinguntur, atqueetiam antemeridianę,& vespertinæ. Necnon Medicine introductio. xi,trimixi,polymixi, idest angulorum & luminum,vnius, duorum,trium, plurium, Devrilitatibus Balnearum esquandoprimum Dalnceinvfum Medicinavenêre. seruatur;nonaliam legimusfuiffeRome Medicinamsexcentisannis, quàm balnea. Quod teftatur Pliniuslib. 29.cap.1. Receptos primùm è Græcia Medicos L.Aemilio, M.Licinio Coff.vxxxv.VrbisRomæ anno. Quádoqui dempetrarierant, nisiquiob cæliinclementiam crassarenturmorbi.Nam quæ exmalovitæregimine, acextermis causiseuenirep. Andrea Baccius. Andrea Bacci. Keywords: i bagni dei romani, De thermis – thermal baths – philosophy of thermal baths – implicatura ginnastica – le xii pietro pretiose – storia naturale del vino, bacco – terme romane – il vino e la filosofia, bacco ed Apollo, le xii pietre pretiose per ordine di dio I sardio II topatio III smeraldo IV barconchio IV saphhiro VI diaspro VII lingurio VIII agata IX amethisto X berillo XI chrisolito XII onice – tevere, le tibre au louvre, i vini. Thermopolium romanum – illustrazione – incisione terme romanae – natatio – piscina – ginnasio, mercurial, arte ginnastica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Badaloni – colloquenza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Livorno). Filosofo Italiano. Grice: “I like Badaloni; he never took the ROMAN story of philosophy – I say story since history, as every Italian knows, is too pretentious! – seriously until he had to teach it! “Storia del pensiero filosofico – l’antichita’ is my favourite – because he does his best to understand Plato’s pragmatics of dialogue as misunderstood by Cicero!” --  Nicola Badaloni, Sindaco di Livorno Durata mandato19541966 PredecessoreFurio Diaz SuccessoreDino Raugi Nicola Badaloni (detto Marco) (Livorno). filosofo. Di spiccate convinzioni marxiste, è stato uno studioso di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giambattista Vico, Karl Marx, Antonio Gramsci.  All'attività di ricerca e di docenza presso l'Pisa, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e ha occupato dal 1966 e per molti lustri la cattedra di Storia della filosofia, Badaloni ha affiancato un'imponente attività politica nelle file del movimento operaio, ricoprendo per molti anni la carica di sindaco di Livorno (dal 1954 al 1966), di presidente dell'Istituto Gramsci, nonché di membro del Comitato centrale del PCI. I suoi contributi storiografici, salutati fin dall'esordio dall'apprezzamento di Benedetto Croce hanno messo in luce autori considerati minori e pensatori inattuali (Niccolò Franco, Gerolamo Fracastoro, Giovanni Battista Della Porta, Herbert di Cherbury, Antonio Conti) rinnovando radicalmente, attraverso una collocazione nel contesto storico, grandi figure viste dalla storiografia idealistica precedente come immerse in una «solitudine metastorica».  Storicismo e filosofia Nella presentazione dell'ultima pubblicazione di Badaloni nel 2005, Remo Bodei ha sostenuto che il marxismo, lontano da ogni vulgata, conserva, per lo storico della filosofia toscano, la sua capacità di strumento di comprensione del mondo, di erogatore di energie di cambiamento, di guida per lo sviluppo di una prassi razionale, ancora validi dopo le esperienze del cosiddetto "socialismo realizzato". Badaloni ha incessantemente ricercato un legame, nella storia, tra pensiero e azione sociale e sviluppato uno storicismo di impronta marxista che raccordasse autori lontani nel tempo (come Giordano Bruno, Gian Battista Vico, Antonio Labriola), ma accomunati dalla tensione al rinnovamento e alla trasformazione progressiva degli assetti sociali in una data situazione storica determinata. Così come c'è alterità profonda, ma non rottura senza legame, tra Hegel e Marx e similmente tra Croce e Gramsci.  Altre opere: “Retorica e storicità in Vico” -- “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano” (ETS, Pisa); “Appunti intorno alla fama del Bruno”; “Introduzione a Giambattista Vico, Feltrinelli); “Marxismo come storicismo, Feltrinelli); “Tommaso Campanella” (Feltrinelli, 'Istituto Poligrafico dello Stato); “Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire” (Feltrinelli); “Il marxismo italiano degli anni Sessanta” (Editori Riuniti); “Labriola politico e filosofo, sta in Critica marxista, Roma); “Per il comunismo. Questioni di teoria, Einaudi); “Fermenti di vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del 600, sta in  Storia di Napoli, Società Editrice Storia di Napoli); “Cultura e vita civile tra Riforma e Controriforma” (Laterza); “La storia della cultura, sta in Storia d'Italia, III -(Dal primo Settecento all'Unità), Einaudi); “Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi); “Libertà individuale e uomo collettivo in Gramsci, in Politica e storia in Gramsci, F. Ferri,  1, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci); “Labriola, Croce e Gentile” (Laterza); “Dialettica del capitale, Editori Riuniti); “Gramsci: la filosofia della prassi, sta in Antonio Gramsci. La filosofia della prassi come previsione, in Hobsbawm, E. H., Storia del marxismo” (Torino, Einaudi); “Teoria della società e dell'economia in A. Labriola, I e II, in Dimensioni”; Forme della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche” (ETS); Movimento operaio e lotta politica a Livorno”; “Democratici e socialisti in Livorno” (Nuova Fortezza); “Filosofia della praxis, sta in  Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Editrice l'Unità); “Labriola nella cultura europea dell'Ottocento, Lacaita); “Il problema dell'immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci, Quaderni della Fondazione Istituto Gramsci Veneto, Venezia, Arsenale); “Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica, De Donato); “Laici credenti all'alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier-Mondadori); “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Edizioni ETS, Pisa, Nicola Badaloni è inoltre coautore di due importanti manuali:  Storia della pedagogia, (Laterza); “Il pensiero filosofico. Storia. Testi. Per le Scuole superiori” (Signorelli Editore). Notizia della morte sul settimanale Macchianera, su macchianera.  Giuliano Campioni, Addio a Nicola Badaloni, uomo politico e maestro di filosofia, Athenet, Sistema bibliotecario di ateneo, Pisa. La lezione di Nicola Badaloni di Giuliano Campioni, professore del Dipartimento di Filosofia dell'Pisa, 20 gennaio,, in Pisanotizie. Nicola Badaloni, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Predecessore Sindaco di LivornoSuccessoreLivorno-Stemma.svg Furio Diazdal 1954 al 1966Dino Raugi90637957 Filosofia Politica  Politica Categorie: Politici italiani del XX secoloPolitici italiani del XXI secoloFilosofi italiani del XX secoloFilosofi. Nicola Badaloni. Keywords: colloquenza, la retorica di Vico. La storia di Vico, storia e storicita, campanella, lingua utopica. Bruno, Campanella, Gentile, Croce, Labriola, Gramsci. badaloni — implicatura vichiana — libero — biologia filosofica  telesio — vallisneri — lingua utopica di campanella — “retorica e storicità” — laico — bruno — comune — comunismo — marchetti — vignoli —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Badaloni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Baglietto – dialettica – filosofia italiana – filosofia ligure – Luigi Speranza (Varazze). Filosofo italiano. Grice: “I like Baglietto; unlike me, he was a consceinious objector, but then we were fighting on different camps! I love the fact that his first tract is on ‘il problema del linguaggio’ in Mazzoni – but then he turned from ‘la bella lingua’ to Dutch! And specialized in Kant, but most notably Heidegger – ‘mitsein und sprache.’ But he also wrote on ‘eros’ and ‘love,’ – which is very Platonic of him! And of me, since the ground for my theory of conversation is on the balance between what I call a principle of conversational self-LOVE (or egoism, if you mustn’t) and a corresponding principle of conversational OTHER-love (or altruism, if you must, since I prefer tu-ism – ‘thou-ism’).” Claudio Baglietto (Varazze), filosofo.   Di origini modeste, dopo gli studi liceali presso il Liceo "Chiabrera"di Savona, studiò Filosofia all'Pisa e si perfezionò presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, allora diretta da Giovanni Gentile. Baglietto fu assistente del filosofo Armando Carlini. Negli anni pisani sviluppò idee di riforma religiosa e morale, in contrapposizione al Cattolicesimo e al Fascismo. Insieme ad Aldo Capitini, Baglietto organizzava riunioni serali in una camera della Normale, cui partecipavano giovani studenti, divenuti in seguito affermati intellettuali, come Walter Binni, Giuseppe Dessì, Carlo Ragghianti, Claudio Varese.  Così Capitini ricordava l'amico nel suo saggio Antifascismo tra i giovani (Trapani, 1966): "era una mente limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con un'evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo Gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell'uso di diffondere pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche in una camera della stessa Normale [...]".  Ottenuta nel 1932 una borsa per perfezionarsi presso l'Friburgo in Germania, dove allora insegnava Heidegger, in coerenza con i suoi ideali di nonviolenza incompatibili col Fascismo, Baglietto decise di non rientrare più in Italia e rinunciò alla borsa, cosa che scandalizza Gentile (che aveva garantito per lui presso le autorità per il visto). Anche Delio Cantimori criticò animatamente la scelta di Baglietto, in particolare nel suo carteggio con Aldo Capitini e con Claudio Varese, accusando i colleghi normalisti dissidenti dal Fascismo di mancanza di senso di realismo politico, nonché di senso dello Stato (fu poi lo stesso Cantimori ad avvisare Gentile della morte di Baglietto).  Lasciata Friburgo, Baglietto si trasfere quindi a Basilea, dove visse da esule, proseguendo gli studi e dando lezioni private.  Morì nel 1940: è sepolto nel cimitero di Basilea.   Il cammino della filosofia tedesca dell'Ottocento, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Scritti religiosi. Antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); "Kant e l'antifascismo", in Claudio Fontanari e Maria Chiara Pievatolo, Bollettino italiano di filosofia politica, Pisa, Ospitato su archiviomarini.sp.unipi. (Saggio inedito di Baglietto, composto a Basilea e da anni depositato nell'Archivio Marini dell'Pisa) Note. A. Capitini, L'antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); Chiantera Stutte, Delio Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Carocci, Roma, che rinvia soprattutto a Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso; Franco Angeli, Milano); Scritto pubblicato postumo Aldo Capitini.  Aldo Capitini Mahatma Gandhi Nonviolenza  Claudio Baglietto e la questione morale --  "Phenomology Lab", 2 giugno,. Claudio Baglietto, Kant e l'antifascismo di Claudio Fontanari, nel sito "Archivio Marini". Filosofia Università  Università Filosofo Professore1908 1940 Varazze Basilea Nonviolenza Antifascisti italiani Studenti dell'Pisa. Claudio Baglietto. Keywords.  dialettica, filosofia ligure, baglietto — il kantismo di heidegger — manzoni — filosofia dell’amore — dialettica — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baglietto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Balbillo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Tiberio Claudio Balbillo. A man of learning, he was much admired by Seneca. He was the personal philosopher of Nero and wrote a long book on astrology.

 

Grice e Balbo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Lucio Lucilio Balbo. L. Lucilio Balbo, scolaro di Q. Mucio Scevola Pontefice, e soprattutto un giurista.   I shall say but little of some other Balbus's, mentioned by ancient Authors.   Lucius Lucilius Balbus, disciple of Mucius Scavola, and preceptor of Servius Sulpitius, was an excellent Lawyer.   Cicero says, that Servius Sulpitius did exceed his master, who, by the addition of a mature judgment to his learning, was fomething slow, whereas his disciple was quick and expeditious.   Balbus's writings are lost, to which perhaps his disciple Servius Sulpitius did not a little contribute, by inserting most of them in his own.

 

Grice e Balbo – Roma – filosofa italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Cornelio Balbo. Member of the Porch. Consul. Friend of Cicero, who successfully defended him in a legal action. Comments made by Cicero suggest he was a member of the Garden.

 

Grice e Balbo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Lucilio Balbo. Q. Lucilio Balbo è chiamato stoico da Cicerone, che nel "De natura Deorum," gli assegna l’esposizione delle dottrine teologiche stoiche.   Ivi Q. Lucilio Balbo dichiara di avere familiarità con Posidonio.   Antioco d'Ascalona dedica a Q. Lucilio Balco un’opera.  Secondo Cicerone, L. Lucilio Balbo e pari ai più insigni stoici.  Quintus Lucilius Balbus (fl. 100 BC) was a Stoic philosopher and a pupil of Panaetius.  Balbus appeared to Cicero as comparable to the best Greek philosophers. He is introduced by Cicero in his dialogue On the Nature of the Gods as the expositor of the opinions of the Stoics on that subject, and his arguments are represented as of considerable weight.[2] His name appears in the extant fragments of Cicero's Hortensius, but it is no longer thought that Balbus was a speaker in the dialogue. Cicero, De Natura Deorum, i. 6.  Cicero, De Natura Deorum, iii. 40, De Divinatione, i. 5.  Griffin, Miriam (1997). "Composition of the Academica". In Inwood, Brad; Mansfield, Jaap (eds.). Assent and Argument: Studies in Cicero's Academic Books. Brill. This article incorporates text from a publication now in the public domain: Smith, William, ed. (1870). "Balbus, Q. Lucilius". Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology. This ancient Roman biographical article is a stub. You can help Wikipedia by expanding it.  This biography of a philosopher from Ancient Greece is a stub. You can help Wikipedia by expanding it.  Categories: 1st-century BC philosophersPhilosophers of Roman ItalyRoman-era Stoic philosophersLuciliiAncient Roman people stubsGreek philosopher stubsAncient Greek people stubs  GRICE E BALBO We must not, as Glandorpius has done, confound this Balbus with *Quintus* Lucilius BALBUS, the philosopher, and one of Cicero's interlocutors in the books de Natura Deor. A member of the Portch. Cicero uses him as a spokesmn for the Porch in De natura deorum.

 

Grice e Baldini – il linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Greve). Filosofo Italiano. Grice: “I like Baldini, but more so does Austin! In his collection of ‘lessons’ (lezioni) on ‘filosofia del linguaggio’ (not just ‘sematnica’ or ‘semiotica’) for the distinguished Firenze-based publisher Nardini, he deals with Austin, but not me!” Grice: “Baldini fails to realise that I refuted Austdin – when Baldini opposes ‘filosofese,’ I am reminded of my non-conventional non-conversational implicata – and Austin’s less happy idea of a felicity condition for a perlocutionary effect!” Grice: “But what I like about Baldini is that being Italian, he refers to ‘amore’ in his ‘natural’ history of AMicizia – which is all that my conversational pragmatics is about: Achilles and Ayax must share a lot of common ground to be able to play the game of conversation, and they do!” -- Massimo Baldini (Greve in Chianti), filosofo. Si è dedicato in particolare alla filosofia della scienza e alla filosofia del linguaggio. Figlio dello storico Carlo Baldini, laureato in Pedagogia presso l'Università degli Studi di Firenze nel 1969, nel 1970 è stato nominato assistente incaricato di Filosofia; l'insegnamento era tenuto da Dario Antiseri) presso la Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Siena. Nel 1975 è diventato professore incaricato di “Storia del pensiero scientifico” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Perugia. Nel 1980 ha vinto il concorso di professore di prima fascia di “Filosofia del linguaggio” ed è stato chiamato dall'Bari alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Ha insegnato anche presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nella Facoltà di Medicina. È stato direttore del Dipartimento di Filosofia e dell'Istituto di Filosofia presso la Facoltà di Scienze della formazione all'Università degli Studi di Perugia e direttore della sezione di Storia della medicina del Dipartimento di Patologia presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.  Nel 1999 è stato chiamato dalla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli di Roma per coprire la cattedra di "Semiotica". Qui ha insegnato anche “Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico e radiotelevisivo”, “Semiotica dei linguaggi specialistici”. Presso la LUISS ha inoltre rivestito numerosi incarichi accademici: preside della Facoltà di Scienze Politiche (da giugno 2007); coordinatore del corso di laurea magistrale in “Comunicazione politica, economica e istituzionale”, direttore della Scuola superiore di giornalismo, e direttore del Master di primo livello in “Economia, gestione e marketing dei turismi e dei beni culturali” (dal 2004). In precedenza, è stato vice preside della Facoltà di Scienze Politiche, direttore del Dipartimento di Scienze storiche e socio-politiche, direttore del Centro di ricerche sulla comunicazione. Tre sono stati gli ambiti di ricerca che più di altri Massimo Baldini ha coltivato: la filosofia della scienza (con una particolare attenzione al pensiero dell'epistemologo Karl R. Popper, di cui ha curato anche alcune opere in edizione italiana), la filosofia del linguaggio, la semiotica della moda. A partire dagli anni Settanta, Massimo Baldini ha dedicato numerosi lavori all'epistemologia contemporanea, cogliendone le possibili applicazioni alla medicina, alla storia della scienza, alla pedagogia e, infine, alla filosofia politica. Parallelamente, ha rivolto i suoi interessi anche alla storia della scienza e, in particolare, alla storia della medicina. Un'attenzione particolare è stata dedicata ai nessi che intercorrono tra l'epistemologia e la filosofia della politica: sulla scorta delle riflessioni popperiane, ha riletto il pensiero utopico sia nella sua dimensione storica che in quella teorica.  L'altro grande interesse filosofico di Massimo Baldini è stata la filosofia del linguaggio. In particolare ha studiato le tesi dei semanticisti generali, un movimento nato negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali e di cui si era occupato per primo in Italia negli anni Cinquanta Francesco Barone. L'interesse per la filosofia del linguaggio si è declinato anche in chiave storica: e alla storia della comunicazione Massimo Baldini ha dedicato numerose opere. Inoltre, gli studi sulla filosofia del linguaggio si sono incentrati sull'analisi di alcuni linguaggi specialistici: quello della pubblicità, quello dei mistici, quello della pubblica amministrazione, quello dei giornalisti, nonché il tema correlato del silenzio. Tutti questi linguaggi, sono stati studiati nelle prospettive dell'oscurità e della chiarezza, e dell'oggettività (soprattutto con riferimento al contesto dell'informazione).   La biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini" di Greve in Chianti A partire dalla fine degli anni Novanta, infine, gli interessi di Massimo Baldini si sono incentrati sul tema della moda, che egli ha studiato dal punto di vista storico e semiotico, e nelle diverse componenti della moda vestimentaria e della moda capelli. Tutta l'attività di ricerca di Massimo Baldini è confluita in numerose opere individuali e collettive, curatele, introduzioni e prefazioni a testi italiani e stranieri, traduzioni, nonché nella collaborazione stabile con alcune case editrici e riviste scientifiche. In particolare, presso l'editore Armando (Roma) ha diretto le collane Temi del nostro tempo, I maestri del liberalismo, Moda e mode, I linguaggi della comunicazione; presso l'editore Rubbettino (Soveria Mannelli) la collana Biblioteca austriaca (con Dario Antiseri, Lorenzo Infantino e Sergio Ricossa).  Menzione a parte merita poi il ricordare che Baldini è stato ed è rimasto nel corso dei decenni un grande estimatore e diffusore dell'opera del concittadino grevigiano Domenico Giuliotti, il "poeta-mistico" o "profeta" Giuliotti, del quale il nostro ha riedito alcune delle sue maggiori opere per lo più per conto delle edizioni Logos di Roma, oltre a dedicare al medesimo alcune raccolte di saggi come "Il più santo dei ribelli. Scritti su Domenico Giuliotti" oppure "Giuliotti. Cristiano controcorrente" (ed. EMP, 1996), senza contare i volumetti preparati per conto della preziosa casa editrice La Locusta di Vicenza, a partire dal 1977, in consonanza agli interessi espressisi e sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni ottanta, quelli che afferivano ai connotati e alle 'modalità' del linguaggio dei mistici, o alle relazioni intercorrenti fra le dimensioni del silenzio-parola-Parola di Dio-ascolto.  È stato altresì membro del Comitato Nazionale per la Bioetica; membro del comitato scientifico delle riviste L'Arco di Giano, 'Nuova civiltà delle macchine, Desk.  Morì a causa di un infarto mentre si trovava a cena con alcuni colleghi universitari. Nel  per la casa editrice Rubbettino è uscito il libro La responsabilità del filosofo. Studi in onore di Massimo Baldini Dario Antiseri con saggi di amici, colleghi, collaboratori e studenti per ricordare la figura intellettuale e morale di Massimo Baldini a quattro anni dalla scomparsa. Partecipano all'antologia Tullio De Mauro e Derrick de Kerckhove. Il primo maggio  è stata inaugurata a Greve in Chianti la Biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini".  Sulla filosofia del linguaggio «È chiaro che devo preoccuparmi di essere inteso da tutti perché penso che la chiarezza sia la cortesia del filosofo»  (José Ortega y Gasset, Cos'è la filosofia?) Secondo Baldini scopo del filosofo e della sua filosofia è essere chiari: scrisse infatti «l'accusa che più frequentemente viene rivolta alle opere dei filosofi è quella dell'illegibilità». I filosofi come dimostra nel suo Contro il filosofese e nel Elogio dell'oscurità e della chiarezza non seguono sempre questa missione ed in alcuni casi sembra usino volutamente un linguaggio oscuro ed incomprensibile. Tre dei filosofi più oscuri secondo Baldini, che ricalca in questo anche il giudizio di Schopenhauer, sono stati Fichte, Hegel e Schelling. Parlando di Hegel, Baldini riporta il giudizio di uno scritto di Alexandre Koyré che definisce la lingua di Hegel "incomprensibile e intraducibile".  Citando inoltre il giudizio di Popper scrive: «Troppo spesso, secondo Popper, i filosofi vengono meno alla virtù della chiarezza. Con l'oscurità sovente mascherano le tautologie e le banalità che infiorettano i loro discorsi». Henri Bergson cita l'esempio di Cartesio, di Nicolas Malebranche e di molti altri filosofi francesi mostrando che idee molto raffinate e profonde possono essere espresse nel linguaggio ordinario anziché con circonlocuzioni e ridondanze e termini che sono causa di equivoci. Baldini afferma che «l'oscurità in filosofia è, dunque, il modo migliore per fingere di spacciare pensieri, mentre si sta solo spacciando parole, è una maschera che cela spesso il vuoto di pensiero o la banalità dei pensieri». Nonostante tutto secondo Baldini, non bisogna giudicare frettolosamente un filosofo, definendolo "oscuro", a volte può essere una carenza della nostra conoscenza che ci porta a respingere come vuoto suono, parole che invece, hanno il loro preciso significato.  Scrivere la filosofia in maniera chiara può avere le sue difficoltà, Nietzsche infatti afferma che «ci vuole meno tempo ad imparare a scrivere nobilmente che chiaramente» e Ludwig Wittgenstein che celebra a più riprese la chiarezza, fa autocritica ammettendo in una sua lettera a Russell che il suo Tractatus logico-philosophicus «è tremendamente oscuro». Quanti celebrano la chiarezza in filosofia, sanno bene che ogni lettore di testi filosofici deve fare proprio il consiglio che Wittgenstein dava a Bertrand Russell, quando questi si lamentava con lui dell'oscurità del trattato, gli scrisse: «Non credere che tutto ciò in cui tu sei capace di capire consista di stupidaggini». Invece, un personaggio che volutamente, secondo Baldini, tendeva a non farsi capire e a sopraffare linguisticamente («fra gli applausi di ammirazione») i suoi ascoltatori, è stato Armando Verdiglione.  Chi si avventurava nelle sue opere, fa rilevare il filosofo, si imbatteva in frasi tipo questa: «Sono tratto da un demone a dire, a fare, a scrivere sempre fra oriente e occidente e fra nord e sud. Senza luogo della parola. Questo demone è il colore del punto, dello specchio, dello sguardo, della voce: la moneta stessa. Punto, sembiante, oggetto scientifico, è indotto dalla pulsione, dall'instaurazione della domanda, dove l'offerta è il pleonasmo», ed ancora: «Ecco questo primo rinascimento. Primo in quanto procede dal secondo, ovvero dall'originario. Secondo dunque non in senso ordinale, non in nome del nome. Non è neppure nuovo, perché non parte dalla corruzione per arrivare all'utopia». "Oscuro superlinguaggio" e "gargarismi linguistici e semantici" sono secondo Baldini il risultato della "verdiglionite" ovvero di chi si muove "sui sentieri del filosofese". Secondo Baldini quindi la difficoltà di esprimere alcuni profondi pensieri filosofici non dovrebbe essere amplificata, è vero che ci sono pensieri filosofici difficili da esprimere in modo semplice, ma è pur vero che il filosofo che desidera trasmettere la propria filosofia, dovrebbe fare un onesto sforzo affinché essa sia quanto più possibile comprensibile al proprio uditorio.  Note  Sociologi: è morto Massimo Baldini, semiologo e filosofo, Adnkronos, 11 dicembre 2008  Contro il filosofeseI filosofi e l'abuso delle parolepag. 43-49  Contro il filosofeseFichte, Schelling, ed Hegel: i professionisti dell'oscuritàpag. 50-56  Alexandre Koyré, Note sulla lingua e la terminologia hegeliana, Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia, Firenze 1980, pag.43  Bertrand Russel. L'autobiografia Longanesi, Milano Armando Verdiglione, Manifesto del secondo rinascimento, Rizzoli, Milano 198323. Altre opere: “Epistemologia e storia della scienza” (Ed. Città di vita, Firenze); “Campanella ed il linguaggio dell’utopia” – “Utopia e ideologia: una rilettura epistemologica” Ed. Studium, Roma); “Epistemologia contemporanea e clinica medica” (Ed. Città di vita, Firenze); “Teoria e storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “I fondamenti epistemologici dell'educazione scientifica” (Armando Editore, Roma); “La semantica generale” (Ed. Città nuova, Roma); “Gli scienziati ipocriti sinceri: metodologia e storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “La tirannia e il potere delle parole: saggi sulla semantica generale” (Armando Editore, Roma); “Congetture sull'epistemologia e sulla storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “Epistemologia e pedagogia dell'errore” (Ed. La Scuola, Brescia); “Il linguaggio dei mistici” (Ed.Queriniana, Brescia); “Il linguaggio della pubblicità” “La fantaparola” (Armando Editore, Roma); “Educare all'ascolto, Ed. La Scuola, Brescia); “Parlar chiaro, parlar oscuro” (Ed. Laterza, Roma Bari); “Lezioni di filosofia del linguaggio” (Ed. Nardini, Firenze); “Antologia filosofica, Ed. La Scuola, Brescia); “Contro il filosofese” (Ed. Laterza, Roma-Bari); “Storia della comunicazione, Newton & Compton, Roma); “La storia delle utopie, Armando Editore, Roma); “Il proverbi italiano” (Newton & Compton editori s.r.l., Milano); “Karl Popper e Sherlock Holmes: l'epistemologo, il detective, il medico, lo storico e lo scienziato” (Armando Editore, Roma); “La medicina: gli uomini e le teorie, Ed. CLUEB, Bologna); “Il liberalismo, Dio e il mercato” (Armando Editore, Roma); “L’amicizia” (Armando Editore, Roma); “Introduzione a Karl R. Popper, Armando Editore, Roma); “Capelli: moda, seduzione, simbologia” (Ed. Peliti, Roma); “Popper e Benetton: epistemologia per gli imprenditori e gli economisti” (Armando Editore, Roma); “Elogio dell'oscurità e della chiarezza, LUISS University Press e Armando Editore, Roma); “Elogio del silenzio e della parola: i filosofi, i mistici, i poeti, Rubettino Editore, Soveria Mannelli); “I filosofi, le bionde e le rosse, Armando Editore, Roma); “L'invenzione della moda: le teorie, gli stilisti, la storia. Armando Editore, Roma); “L'arte della coiffure: i parrucchieri, la moda e i pittori, Armando Editore, Roma); Popper, Ottone, Scalfari, LUISS University Press, Roma 2009. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Massimo Baldini  Scheda dell'Università LUISS, su docenti.luiss. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1947 2008 18 giugno 10 dicembre Greve in Chianti RomaProfessori della Libera università internazionale degli studi sociali Guido CarliProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PerugiaProfessori dell'Università degli Studi di SienaProfessori dell'BariStudenti dell'Università degli Studi di Firenze.  In questo contributo intendo concentrarmi su alcuni aspetti della teoria aristotelica dell’amicizia: il metodo di indagine attraverso cui è articolata e acquisita, e il suo significato dialettico e teorico.  Il processo conoscitivo, per Aristotele, è una transizione da ciò che è “primo per noi” a ciò che è “primo per sé”[1], e l’indagine sull’amicizia non fa eccezione. Il “primo per noi” contempla la nostra esperienza della cosa intesa in senso ampio, tale da includere: le prassi linguistiche e ascrittive diffuse[2], le opinioni notevoli (ἔνδοξα) condivise da tutti o dai più o dai sapienti o da alcuni di essi[3], i topoi o luoghi comuni consegnati dalla tradizione, i fenomeni intesi come “fatti della vita”, ovverosia le ordinarie prassi umane, i comportamenti concreti implicati nelle relazioni di amicizia[4]. Si tratta di un materiale eterogeneo, variegato, opaco, bisognoso di sintesi e di articolazione concettuale: il suo trattamento dialettico preliminare sarà orientato anzitutto a evidenziare le contraddizioni che tale materiale ospita, per poi cercare di superarle entro una sintesi superiore la quale, attraverso una teorizzazione positiva ˗ materiata di distinzioni semantiche e concettuali, argomenti, definizioni ˗ ne salvi gli elementi genuini nella misura del possibile, mostri l’apparenza delle contraddizioni, e produca così una sorta di “equilibrio riflettuto” fra il “primo per noi”, da cui pure si sono prese le mosse, e il “primo per sé”, punto d’arrivo dell’indagine. Una buona teoria dovrà fare giustizia dei caratteri manifesti dell’oggetto, renderli cioè intellegibili e inferibili[5]; invece una teoria che negasse questi caratteri, sarebbe ipso facto una teoria deficitaria, insoddisfacente: non ci riconcilierebbe coi φαινόμενα, che pure sono il suo originario explanandum.  Questa cifra metodologica va tenuta presente, se si vuole apprezzare in modo non superficiale la trattazione aristotelica dell’amicizia nelle due Etiche. Perciò è opportuno partire non da Aristotele, bensì dall’orizzonte teorico-culturale cui egli si rapporta dialetticamente, nonché dai suoi obbiettivi polemici. Il significato ordinario di «φιλία» ha un’estensione ben più ampia della nostra nozione di «amicizia»: oltre all’amicizia propriamente intesa, può denotare anche l’alleanza politica[6], la vasta gamma dei rapporti sociali, dalle relazioni parentali e matrimoniali a quelle commerciali, quelle cameratistiche, quelle amorose ed erotiche; insomma, qualunque interazione umana positiva e non ostile, fra individui o fra gruppi – ma anche fra uomini e dei[7] – è denotabile come φιλία. Nella caratterizzazione preliminare che ne offre, Aristotele attinge ai grandi modelli omerico ed esiodeo, così come ai Sette Savi, ai tragici, nonché al sapere filosofico dei predecessori (Empedocle, Eraclito, etc.); ma il punto di riferimento dialettico che, sottotraccia, orienta l’intera trattazione, è il Liside platonico, la prima indagine filosofica sistematica dedicata alla φιλία[8], nelle cui note aporie sono peraltro condensate e portate a tematizzazione le contraddizioni insite nelle istanze della tradizione pre-filosofica globalmente intesa. Il Liside dunque, fra gli ἔνδοξα e i λεγόμενα, riveste un ruolo dialettico-polemico primario, anche se non se ne fa alcun riferimento esplicito. È impossibile in questa sede tentarne anche solo una cursoria sintesi, ma è necessario individuare perlomeno quelle aporie di fondo intorno alla φιλία che Aristotele riprende in maniera puntuale[9].  Una importante aporia (210e-213c), radicata nella dicotomia attivo/passivo, è articolata intorno alla questione: chi dei due, in una relazione amicale, è l’amico? Chi ama o chi è amato[10]? Si sonda tutto lo spazio logico delle possibilità, producendo esiti paradossali (di qui, appunto, lo status di aporia): se 1) è chi ama, ad essere amico di chi è amato, allora nel caso che chi è amato odiasse chi lo ama, uno sarebbe amico di chi lo odia! 2) se è chi è amato, ad essere amico, sarà anche il caso che chi è odiato è nemico, dunque se qualcuno ama qualcuno che lo odia, allora sarà nemico di un suo amico! 3) se sono amici o chi ama o chi è amato, indifferentemente, resta fermo che uno potrebbe essere amico di chi lo odia 4) se sono amici necessariamente entrambi, allora non potremmo essere “amici” di entità che non ci amano, come la scienza, o il vino, o i cavalli. L’aporia presuppone l’ampia estensione semantica di φιλία e di φίλος, che da un lato può avere significato passivo (esser caro a qualcuno), attivo (essere amico di) o reciproco[11], dall’altro come prefisso (φίλο-) può comporre termini denotanti amore, passione o apprezzamento per entità impersonali, che non reciprocano. Ma l’aporia è filosofica, non meramente linguistica[12].  Una seconda aporia (213d-223b) muove dalla questione se l’amicizia si dia fra simili o fra dissimili. Se 1) si dà fra simili, allora anche i malvagi sarebbero amici, ma fra malvagi non si dà vera amicizia (assunzione qui data per vera)[13]; 2) se si dà non fra simili simpliciter ma fra simili nell’esser buoni, sorge il problema di come il buono – il quale basta a se stesso[14] – possa trarre utilità da un altro buono, e viceversa, quando si era precedentemente stabilito che nessun amico è inutile all’amico (210c6-8); 3) se si dà fra dissimili contrari, come povero/ricco, sapiente/ignorante etc., allora, daccapo, l’amico sarà amico del nemico, il malvagio del buono etc.: amico/nemico e malvagio/buono sono contrari; 4) forse si dà fra certi dissimili non contrari: chi è intermedio fra buono e cattivo può amare il buono in virtù della presenza in sé di un “male”, cioè della privazione di bene di cui è conscio e che lo rende intermedio[15]; così l’amicizia diventa un caso particolare del desiderio[16], volto strutturalmente a ciò di cui si è privi. Ma anche qui si ricadrebbe nel caso 1 della Prima aporia: pare che l’amare unidirezionale e non ricambiato non sia sufficiente all’amicizia, inoltre il buono sarebbe amato senza amare a sua volta (infatti l’altro gli è inutile giacché egli ha già il bene presso di sé).  A questo punto viene introdotta l’idea che, se noi cerchiamo nell’amico il bene ma nessun amico può avere il bene pienamente presso di sé, allora ciò che cerchiamo negli amici è il «Primo Amico», qualcosa che trascende sia noi che gli amici stessi, di cui questi ultimi sono apparenze (εἰδώλα)[17]. Le relazioni amicali sono da ultimo orientate verso qualcosa che trascende entrambi i relati, secondo una dinamica “ascensionale” segnatamente platonica: ma così l’amico in carne e ossa parrebbe ridotto a mero luogo di transito di una tensione desiderante che ascende in direzione di un assoluto ideale. Riesaminando poi la relazione “orizzontale”, si introduce la nozione di «affine» (οἰκεῖος): forse la φιλία è rapporto col simile in quanto affine, o familiare; ma l’affinità pare essere reciproca (se A è affine a B, B è affine ad A), dunque il buono risulta inservibile a chi è già affine al buono; inoltre, sono affini anche i malvagi.  Anche se la trattazione appare un poco schematica e talora verbalistica, essa tocca problemi speculativi genuini. Come ci si aspetta da un dialogo “socratico” di Platone, le aporie non trovano uno scioglimento, se non la paradossale acquisizione che né amanti né amati, né simili né dissimili né contrari, né affini, né buoni, possono essere amici[18]! Teniamo dunque a mente questi nodi problematici. L’amicizia è studiata nel libro VII dell’Etica Eudemia, e nei libri VIII-IX dell’Etica Nicomachea[19]. Mentre la trattazione dell’Etica Eudemia risulta più logica e astratta, quella dell’Etica Nicomachea è più orientata a salvare i fenomeni, è più empirica e inclusiva: per cogliere i nuclei teorici di fondo, è sensato muovere dalla prima, e valutare criticamente quando e perché la seconda propone integrazioni o discostamenti teorici da quella. Sia la Eudemia precedente alla Nicomachea o meno[20], in essa appare più nitidamente come la trattazione aristotelica costituisca una sorta di virtuale controcanto filosofico del Liside platonico[21].  Etica Eudemia VII introduce il soggetto come specialmente degno di essere indagato: gli ἔνδοξα universalmente diffusi pongono la φιλία come il fine stesso della politica, come antidoto all’ingiustizia, come habitus caratteriale rivolto ai buoni, pongono l’amico come il più grande dei beni esterni (anche in quanto volontariamente scelto) e l’assenza di amici come il male più terribile[22]. La φιλία è aspetto centrale dell’etica – soprattutto entro un’etica eudemonistica imperniata sul bene e sulla felicità – dunque non sorprende che la sua trattazione occupi quasi un quinto degli scritti etici aristotelici.  Ma altre opinioni notevoli non sono universalmente condivise: per alcuni il simile è amico del simile (Omero, Empedocle), per altri lo è il contrario del contrario (Esiodo, Euripide, Eraclito)[23]: sono le opzioni 1 e 3 della Seconda Aporia del Liside, che pure non viene citato. Si ricordano poi altre opinioni, topoi tradizionali già ripresi dal Liside: per alcuni non c’è amicizia fra malvagi ma solo fra buoni (cfr. opzione 1 della Prima Aporia), per altri solo chi è utile può essere amico (cfr. opzione 2 della Seconda Aporia).  Prima di passare alla pars construens, Aristotele enuncia candidamente il criterio metodologico e lo scopo dell’indagine:    Occorre trovare un’argomentazione che insieme renda conto (ἀποδώσει) al massimo grado delle opinioni (τά δοκοῦντα) intorno a queste cose, e anche che sciolga le aporie e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora appaia che le opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: una tale argomentazione sarà nel massimo accordo coi fenomeni. E le tesi in contraddizione risultano mantenersi, se quel che affermano è vero in un senso, ma in un altro no. (Et. Eud.).  Le opinioni diffuse e notevoli non vanno accolte in modo supino e acritico, ma comprese nelle loro buone ragioni e, nella misura del possibile, salvate entro una sintesi teorica che superi le aporie e mostri che le affermazioni apparentemente incompatibili possano essere vere entrambe, in sensi diversi; così vi sarà anche il massimo accordo coi φαινόμενα. Questi, i desiderata da soddisfare.  Se l’amicizia è desiderio (altra acquisizione del Liside[25]), il desiderio può essere del piacevole (appetito) o del buono (volontà)[26], dunque ciascuno di essi ci è «amico» o caro (φίλον); comunque il piacere si presenta come un bene (o appare tale o è creduto tale[27]): la prima distinzione da fare è perciò fra bene e bene apparente (φαινόμενον ἀγαθόν), oggetti del desiderio[28]. La seconda è quella fra bene incondizionato (ἁπλῶς) e bene per qualcuno[29]: ciò che è buono simpliciter lo è per l’essere umano in generale, ciò che è tale «per qualcuno» lo è per certi individui particolari in certe circostanze (per esempio, un’operazione per un malato); parimenti, vi è un piacevole incondizionato e un piacevole «per qualcuno» (per esempio, in condizioni fisiche o morali alterate); Aristotele sostiene che il piacevole incondizionato coincida col buono incondizionato[30]: ciò che è buono per l’uomo in generale, è anche piacevole per l’uomo in generale, invece un individuo malato o corrotto troverà piacevoli cose non oggettivamente buone; né coincideranno il piacevole «per lui» e il buono «per lui». Un uomo saggio e virtuoso troverà piacevole ciò che è buono, dunque nel suo caso si identificano bene apparente e bene reale (è buono ciò che gli appare tale), bene «per lui» e bene incondizionato (ciò che è bene per lui è buono in generale per l’uomo), nonché bene e piacere: egli è norma rispetto a ciò che per l’uomo in generale è e deve essere buono e piacevole, in quanto esprime l’eccellenza della stessa natura umana. A ogni modo, ciò che motiva un soggetto S deve apparire un bene a S (che lo sia o meno), e apparire a S un bene per lui (che sia o meno anche un bene in senso incondizionato)[31].  Ci sono cose per noi buone in quanto le riteniamo dotate di valore intrinseco, cose per noi buone in quanto le riteniamo utili, e cose per noi buone in quanto le troviamo piacevoli. Poiché l’amico è un bene scelto e desiderato ˗ il φιλεῖν è un caso particolare di desiderio ˗ potrà esserlo per questi tre motivi: come bene in sé, e cioè in quanto è ciò che è e «per la virtù», o in quanto è ci è utile, o in quanto sia piacevole, «per il piacere»[32]. Chiariremo successivamente perché il buono in quanto buono, quando il bene sia l’amico stesso, si identifichi con la sua virtù.  Colui che è amato in base a uno dei tre aspetti suddetti (bene-virtù, utilità, piacevolezza) diventa un amico ˗ si aggiunge ˗ quando contraccambia l’affetto: dunque la reciprocità diviene un tratto essenziale dell’amicizia, una sua condizione necessaria; Aristotele sceglie l’opzione 4 della Prima Aporia del Liside, ma replica all’obiezione ivi contenuta, secondo cui cose amate come il vino, i cavalli e la scienza non possono ricambiare, mediante la distinzione fra φιλία e φίλησις[33]: la seconda è un affetto/desiderio per le cose inanimate, la prima implica un simile affetto come componente, ma include necessariamente la reciprocità. Talvolta, una nozione vaga può essere disambiguata mediante una distinzione semantica, in modo da sciogliere apparenti contraddizioni e insieme “salvare i fenomeni”. Tuttavia, l’affetto reciproco sulla base di uno dei tre amabili non è ancora sufficiente perché ci sia φιλία; tale reciprocità deve essere esplicita, non celata, nota ai due amici: se amo qualcuno che non lo sa, non siamo amici, nemmeno nel caso lui ami me e io lo sappia; entrambi devono amarsi l’un l’altro, ed entrambi lo devono fare in modo manifesto, tale che sia noto all’uno e all’altro. La coscienza di essere amici è essenziale all’essere amici: qualcuno può credere di essere amico senza esserlo[34], però nessuno può essere amico di qualcuno senza credere di esserlo. Se manca la reciprocità, non si ha amicizia ma «benevolenza» (εὔνοια), cioè desiderio del bene dell’altro; quando quest’ultima è reciproca e non è celata, allora può divenire amicizia[35].  Le tre forme di amicizia, rispettivamente basate su virtù, utilità, piacere, secondo l’Eudemia intrattengono la relazione asimmetrica che Aristotele chiama πρὸς ἓν, in cui vi è un significato primario o focal meaning cui gli altri, secondari e derivati, rimandano[36]: l’amicizia a causa della virtù e fondata sul bene è posta come πρώτη φιλία, «prima amicizia», da cui le altre dipendono dal punto di vista definitorio. Quindi «φιλία» non denota tre specie di un unico genere, né è un termine equivoco che denota realtà completamente diverse; è termine “multivoco”, giacché l’amicizia si dice in molti modi ma in riferimento a un senso che illumina tutti gli altri, e a cui gli altri si rapportano necessariamente. Molti critici ritengono che, siccome l’amicizia “utilitaristica” e quella “edonistica” possono darsi indipendentemente da quella “virtuosa”, l’idea che esse rimandino necessariamente a quella “virtuosa” non sarebbe convincente, e proprio per questo sarebbe poi abbandonata nella Nicomachea[37]. Ma la gerarchizzazione πρὸς ἓν è anzitutto definitoria: il piacere è un bene apparente (dunque, una declinazione del bene), l’utile è tale in quanto foriero di bene[38] o di piacere (che, daccapo, è un bene apparente); dunque i tre amabili sono un bene, un modo di apparire del bene, una via che porta al bene. Al modo in cui il piacere e l’utilità si definiscono in rapporto al bene[39] (ma, per Aristotele, non viceversa), così le amicizie basate sul piacere e l’utile si definiscono in rapporto a quella basata sul bene come tale: e infatti, come vedremo, ne sono forme imperfette e difettive.  Si noti la pur generica assonanza fra la πρώτη φιλία e il πρῶτον φίλον, il Primo Amico del Liside: se Platone radica il senso delle relazioni amicali in un anelito a qualcosa che trascende le amicizie e gli amici stessi illuminandole, per così dire, dall’alto, Aristotele immanentizza il bene entro gli amici stessi e le loro relazioni; c’è una amicizia prima, ma non un Amico primo che si distingua dagli amici empirici e concreti. Il bene che è in gioco nell’amicizia è ubicato negli amici stessi, è immanente.  Qual è la ragione profonda di questa tripartizione? Si può mostrare in modo puntuale che si tratta di una risposta alle aporie platoniche: se i platonici pongono come amicizia solo quella virtuosa, «non riescono a dare conto dei fenomeni»[40], ove per fenomeni si devono intendere non solo le prassi umane, ma anche gli ἔνδοξα e i λεγόμενα. Se vi sono tre forme di amicizia, può darsi che alcune opinioni notevoli e intuizioni siano vere dell’una ma false dell’altra, altre siano vere dell’altra ma false dell’una, come afferma il passo metodologico succitato. Se poi a partire da ciascuna delle tre caratterizzazioni si potessero inferire o congetturare dei rispettivi propria, che coincidano coi rispettivi tratti manifesti dell’amicizia che parevano aporetici in quanto incompatibili, allora grazie a questa tassonomia tricotomica le aporie potrebbero essere sciolte, poiché alcuni di questi tratti caratterizzeranno un tipo di amicizia, alcuni altri un altro tipo di amicizia.  L’amicizia virtuosa, fondata sul bene, è fra simili in quanto buoni[41]: essa cattura l’opzione 2 della Seconda Aporia del Liside, nonché l’ideale arcaico, omerico ma anche teognideo e in generale aristocratico, della φιλία come sodalizio elettivo fra ἀγαθοί; a questo topos tradizionale, il Socrate del Liside replica che esso è incompatibile con un’altra idea ben radicata (basata su altri due topoi tradizionali): il buono è autosufficiente, e un amico gli sarebbe inutile, ma l’amicizia è fondata proprio sull’utilità reciproca; quest’ultima idea, di matrice esiodea[42] ma anche un luogo comune confermato dalle prassi umane, non può essere negata, per Aristotele: sono gli stessi φαινόμενα a mostrare che coloro che intrattengono relazioni continuative di utilità e soccorso reciproco, si chiamano amici  e si ritengono tali, e così sono dagli altri chiamati e ritenuti. La contraddizione è apparente, se si postula che l’utilità reciproca è un prerequisito di una forma di amicizia (quella basata sull’utile) e non dell’altra (quella basata sul bene). Le relazioni utilitaristiche sono amicizia, sebbene di un certo tipo; sia queste che quelle fondate sul piacere, possono sussistere anche fra individui non buoni, persino fra malvagi, sebbene in forma estremamente labile e instabile: l’opzione 1 della Seconda Aporia del Liside è anch’essa percorribile, in quanto due individui non “buoni” possono essere amici sulla base del piacere, e sono simili nella misura in cui condividono certi tipi di piacere; inoltre, l’intuizione per cui l’amicizia si dà fra contrari come povero/ricco, sapiente/ignorante etc. ˗ opzione 3 della Seconda Aporia del Liside ˗ è anch’essa fatta salva, in quanto viene posta come peculiare all’amicizia utilitaristica, che tipicamente è intrattenuta da individui in qualche senso contrari (l’uno ha qualcosa che l’altro non ha). Aristotele riesce a salvare i fenomeni attraverso una distinzione tassonomica fondamentale, che deve conciliare certe apparenti incompatibilità ma al tempo stesso preservare una certa unitarietà dell’oggetto: quella di amicizia è una nozione originariamente ospitale, plurale e polivoca, tanto internamente differenziata da implicare una demarcazione netta fra l’amicizia virtuosa e le altre, ma non tanto monolitica da implicare che si escludano dal novero delle amicizie quelle forme di relazione (utilitaria, edonistica) ordinariamente denominate così: altrimenti si farebbe violenza al linguaggio e alle “cose stesse”[43]: a quel “primo per noi” che è lo stesso explanandum originario.  Una delle ragioni per cui l’amicizia virtuosa è detta «prima» nella Eudemia e poi «perfetta» (τέλεια) nella Nicomachea[44], è che essa è costitutivamente piacevole, benché non sia fondata sul piacere, e implica la disposizione alla mutua utilità quando serva, benché non sia fondata sull’utile: dunque contiene in sé, in certo modo, le altre due. Tuttavia, il piacere che consegue al bene ed è persino costitutivo di esso, non è lo stesso piacere che fonda le amicizie edonistiche; il primo è inseparabile dal bene cui consegue[45], quindi l’integrazione di piacere e utilità nell’amicizia virtuosa non è da concepirsi come una somma estrinseca o giustapposizione di aspetti positivi (bene + utilità + piacere). La perfezione di questa amicizia non è una somma di amicizie imperfette, è originaria completezza.  Nella Nicomachea non vi è traccia della relazione πρὸς ἓν, e la πρώτη φιλία diventa τέλεια φιλία[46]. Le altre amicizie qui sono dette tali «secondo somiglianza» a quella perfetta[47]: a mio avviso, al netto della differenza di linguaggio, la posizione di Aristotele non muta in modo sensibile fra le due opere; la somiglianza delle amicizie edonistica e utilitaristica a quella perfetta consiste anche qui nel fatto che quest’ultima è, per entrambi gli amici, utile e piacevole, dunque contiene quegli aspetti che fondano le amicizie imperfette, ma non ne è simmetricamente contenuta. Infatti, ciò che è buono è anche utile e piacevole, mentre ciò che è utile può non essere piacevole e può non essere buono (né simpliciter, né per l’individuo) – per esempio, se l’individuo è corrotto e trova per sé utile qualcosa che lo approssima a ciò che non è il suo bene (anche se egli magari crede che sia il suo bene[48]) – e ciò che è piacevole può essere inutile o persino dannoso. Questo vale in generale, e a fortiori vale per gli amici buoni, utili, piacevoli. In realtà, lo stesso “compito” etico implicitamente affidato all’uomo, gli è affidato anche in rapporto all’amicizia: l’ideale umano, incarnato dal saggio che ne è norma ed esempio, è quello di far coincidere ciò che è bene per sé con ciò che è bene in generale, e ciò che è piacevole per sé con ciò che lo è in generale; si realizza così anche la coincidenza di bene e piacere, visto che il buono in generale e il piacevole in generale si identificano per natura[49]. Ciò importa che occorra anzitutto essere buoni (saggi e virtuosi) e, essendolo, prediligere le amicizie virtuose (che sono appannaggio dei buoni): esse non ospitano conflitti strutturali, soprattutto il bene e il piacere – il confliggere dei quali sopraffà l’acratico – sono adeguati ab origine, nell’amicizia perfetta, giacché essa è piacevole proprio in quanto buona. Ma ciò non esclude che i buoni possano intrattenere anche amicizie fondate sul piacere, o sull’utile[50]: esse però, nell’economia della loro vita, risulteranno marginali, sia nella quantità che nella qualità.  Può sorprenderci il fatto che alla forma di amicizia più rara e più “inarrivabile” delle tre (i buoni sono pochi, gli amici a causa del bene ancora meno) venga ascritta una priorità definitoria, sia essa del tipo πρὸς ἓν o «per somiglianza». Ma per Aristotele qualunque capacità umana – l’amicizia è una virtù, le virtù sono capacità acquisite – viene individuata e definita sulla base della sua eccellenza: è il caso eccellente, in cui un tratto umano è più pienamente realizzato, che funge da essenza normativa rispetto ai casi difettivi, deficitari, degradati, imperfetti; per definire, occorre guardare ai casi migliori, alla modalità in cui una potenzialità è dispiegata ed espressa più compiutamente, e che misura gli altri casi quasi costituendone un virtuale dover-essere rispetto a cui essi mostrano la loro manchevolezza. Perciò la teoria aristotelica presenta al contempo una dimensione descrittiva e una normativa, fra le quali sussiste una sorta di tensione dialettica. E in effetti le amicizie fondate sul piacere e sull’utile sono incomplete: vengono caratterizzate addirittura come amicizie per accidens[51], il che sembra sulle prime vanificare l’atteggiamento inclusivo adottato da Aristotele come cifra metodologica, non solo praticata ma persino esplicitata in modo programmatico[52]. È come se in sede di definizione generale Aristotele fosse interessato a preservare l’unità della nozione di amicizia nonostante le differenze, ma in sede di caratterizzazione sinottico-comparativa dei diversi tipi, ponesse invece l’enfasi sullo iato che separa l’amicizia prima o perfetta dalle altre, fino a trattare le altre come solo accidentalmente tali. Perché esse sono caratterizzate come «accidentali»?  Chi si ama per l’utile o per il piacere lo fa «non perché l’individuo amato sia quello che è, ma in quanto è utile o in quanto è piacevole»[53]: l’utilità e la piacevolezza sono proprietà relazionali esterne all’essenza dell’amico amato, determinate dagli effetti che esso ha su chi lo ama, «perché gli uni ne traggono un qualche bene, gli altri un piacere»[54]; invece l’amicizia basata sulla virtù e la bontà dell’amico amato, è basata su proprietà intrinseche all’amato, su ciò che da ultimo l’amato è[55]. Noi siamo il nostro carattere, il nostro carattere è l’insieme unificato delle nostre virtù, una seconda natura che è frutto prima dell’educazione e poi delle nostre scelte: noi siamo un sé che sceglie, e i nostri pensieri, discorsi e azioni manifestano il nostro “sé”. Pertanto, nell’amicizia perfetta il bene che è in gioco è l’amico stesso che è amato, per ciò che egli essenzialmente è, mentre il bene che è in gioco nelle altre amicizie è il bene – nella forma dell’utile o del piacevole – dell’amico che ama. Anche se l’amicizia è sempre reciproca, resta fermo che nell’amicizia perfetta il fondamento è, per ciascuno degli amici, l’altro come buono, nelle altre è invece il proprio bene in quanto utilità o piacere[56]. Nelle amicizie imperfette la ragione per cui si vuole e persegue il bene dell’altro, resta radicata nell’interesse proprio come diverso dal bene elargito all’altro e diverso dall’altro stesso come dotato di valore intrinseco. È questa differenza radicale a rendere le amicizie imperfette amicizie per accidens: ciò non implica, si badi, che non siano amicizie[57], bensì che lo sono solo in virtù del loro somigliare all’amicizia perfetta, seppure in modo difettivo.  Ma l’amicizia fondata sul bene dell’amico non rischia così di risultare “disinteressata” in un modo psicologicamente implausibile? Solo in apparenza, in quanto il bene di chi ama è in gioco, ma lo è in quanto coincide col bene dell’amico: se siamo amici perfetti, siamo entrambi buoni e virtuosi, e il nostro bene individuale coincide col bene simpliciter: noi, come amici perfetti, cooperiamo per realizzare il bene in generale[58]; il bene mio e dell’amico sono voluti – rispettivamente, dall’amico e da me – in conseguenza del fatto che anzitutto io e l’amico siamo dei beni: se lo siamo l’uno per l’altro, è perché siamo buoni, siamo dotati di valore intrinseco, e lo riconosciamo reciprocamente. Non si tratta di una implausibile relazione puramente altruistica e disinteressata, perché non si fonda – ribadiamolo – solo sul volere il bene dell’altro, ma anzitutto sull’altro come bene in sé: voglio e perseguo il bene dell’altro non per altruismo astratto, ma perché l’altro è un bene. Una nozione comune con cui forse potremmo rendere più chiaro questo aspetto, è quella di stima. L’amicizia perfetta è fondata sulla stima reciproca: un amico che stimo per ciò che è e per come è, esemplifica in sé ciò che è buono, a prescindere da ciò che io posso trarre da lei/lui: «se uno non gioisce perché l’altro è buono, non c’è la prima amicizia» (1237b4-5). La stima reciproca presuppone una consonanza di valori, un’intesa su ciò che vale e ciò che è degno: e visto che i due amici sono virtuosi e buoni, essi valgono e sanno di valere, per questo valgono anche l’uno per l’altro. Si tratta di una amicizia in cui coltivare il proprio bene coincide col coltivare l’altro e il suo bene, e questo coincidere non è accidentale – come accade nelle altre amicizie – bensì è costitutivo. Invece posso trarre vantaggio da un amico utile senza stimarlo affatto, così come posso trarre piacere – per esempio, divertendomici insieme – da qualcuno che non stimo, che non ritengo una persona buona, degna, valida.  L’accidentalità delle amicizie non perfette si rende perspicua nella loro strutturale instabilità: un rapporto fondato sull’utilità non avrà più ragion d’essere, qualora uno dei due amici smetta di essere utile all’altro; i bisogni umani sono cangianti, e tali sono le risorse altrui per farvi fronte, cosicché anche le relazioni utilitarie sono essenzialmente mutevoli; lo stesso accade per gli amici secondo il piacere: cambiano, nel tempo, le fonti del piacere, i “gusti”, e cambiano anche le capacità altrui di procurarci piacere; l’amicizia piacevole, poi, è precaria anche perché riguarda tipicamente i giovani, i quali sono di per sé in continuo cambiamento[59].  Invece la virtù del carattere è cosa stabile: le amicizie complete sono stabili perché sono fondate sul bene come virtù, che è costante e non facile a mutare[60]. Il tempo può rendere inutile un amico che prima era utile, o non più piacevole un amico che lo era, ma difficilmente può sottrarre a un carattere le virtù, far diventare malvagi i buoni, stolti i saggi, e dunque minare le basi su cui le relazioni virtuose fra buoni sono costruite. Per questo l’amicizia completa è specialmente solida, quasi incrollabile[61], e l’amico virtuoso è un amico «al massimo grado»[62], un amico «vero»[63]. Un tale amico si renderà utile se può e quando sia necessario, ma sarà utile perché è un amico, piuttosto che essere amico perché è utile; e sarà piacevole all’amico, giacché ci risulta tendenzialmente piacevole frequentare chi stimiamo[64].  Così Aristotele, forte della sua tassonomia tripartita, deriva dei propria (dei caratteri distintivi) di ciascuna amicizia, spiegando i fenomeni e riconciliandoci con le comuni pratiche ascrittive: alcune intuizioni, luoghi comuni e opinioni notevoli sono vere di un’amicizia, alcune dell’altra. Parlando coi giovani Liside e Menesseno, Socrate nel Liside si dice desideroso di amicizia più di ogni cosa al mondo – con una Priamel che restituisce in modo icastico l’idea dell’amicizia come il più grande dei beni esterni, fatta anch’essa propria da Aristotele – e invidia ironicamente la loro felicità, visto che sono giovani e sono diventati amici «in modo facile e rapido»[65]. Si tratta di caustica ironia, visto che la φιλία che ha a cuore Socrate non è né facile né rapida: ciò che è dissimulato, è che quella non è verace amicizia, ma altro. Qui c’è un’aporia in nuce, visto che i giovani che si frequentano, pur con una certa leggerezza e una conoscenza reciproca non profonda, paiono amici e sono detti tali, eppure non soddisfano i requisiti della “vera” amicizia non solo secondo l’idea socratica, ma anche secondo l’opinione diffusa per cui la vera amicizia è durevole, lenta e difficile a darsi. Aristotele distingue i soggetti delle attribuzioni incompatibili, salvando la verità di entrambe: l’amicizia giovanile (per esempio, quella di Liside e Menesseno) è fondata sul piacere, e ha certi tratti distintivi quali la facilità a prodursi e a decadere, l’intensità emotiva, e così via; l’amicizia perfetta, tipica degli uomini maturi (è quella per cui Socrate dice di ardere di desiderio), necessita di una lunga consuetudine e di una conoscenza reciproca profonda[66], è rara e appannaggio di pochi, è difficilissima a nascere ma altrettanto difficile a morire, fondandosi su ciò che in noi vi è di più stabile. Invece, quella utile caratterizza tipicamente gli anziani, particolarmente bisognosi d’aiuto e sensibili, per debolezza, al beneficio che può arrecare il mutuo soccorso[67]; inoltre, essa si riscontra nei più, nelle masse, le quali sono più preoccupate dei benefici personali che del bene e del bello. Fra le amicizie incomplete, Aristotele ascrive una superiore nobiltà a quella fondata sul piacere, mentre quella fondata sull’utile è «da bottegai»[68]. In effetti, la condivisione del piacere è qualcosa di meno strumentale rispetto al trarre vantaggi da qualcuno: perlomeno il piacere è un fine, non un mezzo; inoltre, il piacere appartiene alla frequentazione stessa dell’amico, mentre l’utile è a questa completamente estrinseco: dunque il fondamento dell’amicizia utile è più esteriore e più contingente di quello dell’amicizia piacevole.  Un altro aspetto problematico del Liside emerge in particolare nella Prima Aporia rispetto alla polarità attivo/passivo (amante/amato), ma soggiace implicitamente anche ad altre aporie: l’amicizia sembra implicare uguaglianza e comunanza da un lato, e differenza e asimmetria dall’altro; si mescolano aspetti tipici del rapporto pederastico-erotico (amante e amato non sono intercambiabili), aspetti del rapporto genitoriale, anch’essi per definizione asimmetrici, e relazioni “fra buoni” simili, potenzialmente simmetriche. Aristotele cerca di articolare queste istanze entro un quadro più sistematico: la tassonomia delle tre amicizie si arricchisce di una distinzione trasversale, fra amicizie simmetriche e amicizie asimmetriche in cui uno è superiore e l’altro inferiore[69]; la φιλία deve essere reciproca, ma tale reciprocità può essere simmetrica o asimmetrica (fra superiore e inferiore). I tipi di amicizia sono dunque sei, giacché si può essere superiori quanto a virtù, a utilità, e a piacevolezza.  La ulteriore distinzione fra amicizie simmetriche e asimmetriche consente ad Aristotele una esplorazione straordinariamente ricca dei legami sociali più eterogenei, che assimila alla φιλία e alle sue declinazioni i rapporti familiari (padre-figlio, marito-moglie, figlio-figlio), i rapporti politici fra città (in vista dell’utile)[70], gli stessi rapporti fra i cittadini in rapporto alla loro comunità, i rapporti fra governanti e governati, le relazioni commerciali, e così via, e indaga le relazioni profonde fra amicizia, giustizia, concordia, comunità. Non è possibile restituire nemmeno sommariamente la ricchezza di tali analisi in questo contributo, il quale si focalizza piuttosto sul significato filosofico e dialettico della tripartizione in generale: ma fa d’uopo rilevare che le applicazioni di questa teoria generale sono molteplici e fecondissime.     3. Amicizia e autosufficienza    La tripartizione (con ulteriore dicotomia trasversale) non scioglie di per sé un nodo aporetico concernente la stessa amicizia perfetta fra buoni: è l’idea espressa entro il punto 2 della Seconda Aporia del Liside, per cui chi ha il bene presso di sé è autosufficiente e non ha bisogno di nulla, dunque l’amicizia di chicchessia gli sarebbe inutile. È vero che Aristotele ha distinto l’amicizia perfetta da quella utile, ma resta il problema di comprendere come mai colui che è saggio, virtuoso e buono, bastando a sé stesso, abbia una qualche motivazione a coltivare un amico, foss’anche un amico perfetto: «se è felice chi ha la virtù, che bisogno avrà di un amico?»[71]. L’idea dell’autosufficienza di chi è saggio, virtuoso, felice e beato, ripresa dal Liside, è un topos tradizionale, quindi ha lo status di ἔνδοξον ben radicato, di cui va dato conto e di cui va mostrata la compatibilità con la teoria positiva proposta nonché con altri ἔνδοξα altrettanto ben attestati.  Il problema è affrontato in Etica Eudemia VII 12 e in Etica Nicomachea IX 9, in maniere parzialmente differenti. L’Eudemia muove dall’analogia con la condizione divina, paradigma dell’autosufficienza. Ma la condizione umana può assurgere all’autosufficienza solo nella misura in cui lo consente la natura dell’uomo, che è animale sociale-politico[72] e può/deve realizzare questa natura, non quella divina[73]: il bene umano contempla sempre il rapporto a un’alterità – è καθ’ ἕτερον[74] ˗ quello divino è assoluto rapporto a sé[75]. L’autosufficienza divina funge da “idea regolativa”, da norma ideale: l’uomo felice minimizzerà il numero degli amici e si limiterà a quelli virtuosi, degni di accompagnarsi a lui; proprio il caso di chi non è obnubilato da bisogni e mancanze, evidenzia il valore intrinseco dell’amicizia perfetta, perseguita non già per ricevere benefici bensì per fare, dare e condividere il bene che si possiede. Ma l’argomento successivo – che è molto complesso e possiamo solo sintetizzare[76] – chiarisce che non si tratta di un altruismo generico e astratto, in quanto l’amicizia è ingrediente essenziale, non accessorio, della felicità individuale.  Vivere, per l’uomo, è percepire e conoscere[77], e – prosegue Aristotele ˗ l’aspirazione massima di ciascuno di noi è, da ultimo, quella di conoscere noi stessi (tesi che rivisita il celebre monito delfico-socratico); la felicità è costituita dalla conoscenza di sé in quanto attivi come buoni e virtuosi[78], e la conoscenza di sé passa per la conoscenza reciproca fra amici: l’amico è «un altro sé»[79], «percepire l’amico necessariamente è percepire in certo modo sé stesso e conoscere in certo modo sé stesso»[80]. Condividendo con l’amico i beni, i piaceri e le attività della vita felice, incrementiamo dunque la conoscenza di noi stessi e della nostra stessa felicità. La Nicomachea chiarisce la relazione fra il riconoscimento reciproco degli amici virtuosi e la loro felicità, soprattutto in un passo speculativamente densissimo:    Se l’essere felici consiste nel vivere e nell’agire, e l’attività dell’uomo dabbene ed eccellente è per sé virtuosa [..], se poi anche ciò che è familiare/affine (οἰκεῖον) a qualcuno è tra le cose che lui trova piacevoli, se noi possiamo osservare il nostro prossimo meglio di noi stessi, e le sue azioni più che le nostre, se le azioni degli uomini superiori, che siano anche amici, sono fonte di piacere per i buoni, dato che hanno tutte e due le caratteristiche piacevoli per natura, allora l’uomo beato avrà bisogno di amici simili a lui, posto che davvero preferisca osservare azioni buone, e che gli sono proprie, come lo sono le azioni dell’amico, quando è buono. (Et. Nic. IX 9 1169b31-1170a4)[81] Le attività di un’esistenza virtuosa e felice sono obbiettivamente piacevoli agli occhi di un uomo buono, virtuoso e felice a sua volta: vi si rispecchia, sentendocisi “a casa propria”, e la familiarità determinata da affinità e prossimità, gli è in sé piacevole. Come si evincerà, la nozione platonica di οἰκεῖον, introdotta sul finire del Liside come cifra stessa della φιλία, trova una ripresa puntuale e una valorizzazione speculativa nella teoria aristotelica. Il prossimo si offre alla nostra conoscenza in modo più trasparente che noi stessi, giacché la sua distanza da noi lo rende meglio oggettivabile. I due tratti umani piacevoli per natura sono da un lato la felicità di cui la virtù è costitutiva, dall’altro la familiarità, che chi è felice è virtuoso riscontra ed esperisce nel contemplare e cooperare con un’altra esistenza felice e virtuosa. Le azioni di un nostro amico “perfetto” sono buone e nel contempo ci sono proprie, cosicché contemplarle è come trovare in esse lo stesso bene che noi siamo. Potrebbe stupire il riferimento reiterato al tema del piacevole, quasi che si trattasse di una delle due amicizie non perfette: ma occorre tenere a mente che il piacevole per natura o ἁπλῶς coincide col bene ἁπλῶς, e che si tratta di un piacere costitutivo del bene e inseparabile da esso, piuttosto che di un piacere addizionale ed esteriore rispetto al bene cui consegue. Se l’altro è sufficientemente prossimo a me, posso de-situarmi e oggettivarmi riconoscendomi nelle sue azioni, secondo una dialettica complessa e chiastica di riconoscimento reciproco. «Se l’uomo eccellente si comporta verso l’amico come si comporta verso di sé, dato che l’amico è un altro se stesso, allora, così come è desiderabile per ciascuno il suo proprio esserci, così è desiderabile l’esserci dell’amico, o quasi» (EN IX 9, 1170b5-8). In questo gioco speculare di identificazioni reciproche, il mio rapporto con l’altro è mediato del mio rapporto con me stesso[82], l’altro è un «altro me» e perseguo il suo bene in maniera pressoché equivalente a come perseguo il mio (quel «quasi» è una concessione al realismo empirico, da cui questa idealizzazione non vuole disancorarsi); ma è altrettanto vero che il mio rapporto con me stesso è a sua volta mediato dal mio rapporto con l’altro, giacché conosco genuinamente me stesso non già con un qualche misterioso atto introspettivo[83], bensì conoscendo persone simili a me che a loro volta mi riconoscono simili a sé: questa è la ragione perché v’è bisogno di amici buoni e virtuosi entro relazioni di amicizia “perfetta”; se la felicità implica autosufficienza, si tratta di un’autosufficienza umana e non divina, che passa per l’inclusione del prossimo nella nostra esistenza, e per la cooperazione con chi scegliamo come degno incarnare il bene e la virtù[84]. Come l’essere amici non si dà senza il sapere di esserlo anche se si può credere di essere amici senza esserlo, così l’essere felici (in quanto buoni e virtuosi in attività) non si dà senza la coscienza di essere felici (in quanto buoni e virtuosi), anche se è possibile credere di essere felici senza esserlo davvero. E per sapere chi sono, devo rispecchiarmi in amici simili a me[85]. Ciò importa che l’uomo beato non avrà bisogno di amici “meramente utili” e “meramente piacevoli”, invece dovrà avere amici buoni e virtuosi: il topos tradizionale è riscattato nella sua verità profonda, ma anche oltrepassato in virtù della tripartizione; in un senso è vero, in un altro no. Essere felici insieme è diverso dal semplice divertirsi insieme, anche se lo include, ed è diverso dal semplice aiutarsi l’un l’altro, anche se può includerlo.  L’amico perfetto ˗ come ogni altro autentico bene ˗ è oggetto di scelta razionale[86]. Anche per questo la teoria aristotelica si distanzia da quella platonica[87]: la φιλία erotica, già ben presente nel Liside sin dalla sua ambientazione scenica – una palestra, ove Liside è il «bello del momento» di cui Ippotale è innamorato – viene relegata da Aristotele a una delle tante forme di φιλία, degna di pochi accenni espliciti, mentre nel Simposio e nel Fedro, dialoghi ben più elaborati e costruttivi del Liside, l’eros è la forma di φιλία che viene eletta a oggetto di indagine paradigmatico. Ma le componenti mistico-estatiche della φιλία erotica come «follia divina» e frutto di invasamento[88], risultano completamente marginalizzate entro la teoria aristotelica. L’amicizia più degna e verace è attività derivante da scelta come desiderio razionale; se la felicità è attività e i beni che la materiano sono oggetto di scelta, allora anche l’amicizia, ingrediente costitutivo della vita felice, sarà espressione di attività, piuttosto che passivo invasamento consistente nell’esser “posseduti” da uomini o dèi. Il primato etico, fisico e metafisico dell’azione sulla passione, è anche il primato di un certo tipo d’amore su un cert’altro. L’amicizia è riportata fra gli amici, e la sua declinazione più eccellente, normante rispetto alle altre, è caratterizzata secondo la dimensione eticamente più elevata dell’umano: la ragione che sceglie e governa il desiderio, piuttosto che esserne governata. L’eros platonico, così bellamente ed enfaticamente rappresentato nel Simposio e nel Fedro, diventa per Aristotele solo una delle tante declinazioni possibili di un tipo di amicizia – quella fondata sul piacere – che è già di per sé incompleta e deficitaria[89].  Secondo l’aporetico excipit del Liside, né amanti né amati, né simili né dissimili, né contrari né affini, né buoni, possono essere amici[90]; le Etiche aristoteliche presentano una teoria la quale non solo consente ma anche prevede che amanti, amati, simili, dissimili, contrari, affini, buoni, e perfino malvagi possano essere amici; inoltre tale teoria offre le risorse concettuali per chiarire quali coppie di amici possano e/o debbano avere questo o quel carattere distintivo, e perché.  Spero di avere almeno approssimato il duplice obbiettivo prefissatomi: mostrare in modo dettagliato e sistematico la dipendenza polemico-dialettica della teoria aristotelica dal Liside platonico, e mettere in luce il significato filosofico generale della tripartizione della φιλία in Aristotele. Adkins, ‘Friendship’ and ‘Self-sufficiency’ in Homer and Aristotle, «Classical Quarterly», Annas, Plato and Aristotle on Friendship and Altruism, «Mind»: 532-554. 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I 1, 100 b 21-23; intendo questa definizione di ἔνδοξον come una disgiunzione inclusiva: se un’opinione è condivisa almeno da uno degli insiemi indicati (tutti, i più, i sapienti, qualcuno di essi), è un ἔνδοξον, e ciò che lo rende tale può essere quantitativo, o qualitativo, o entrambi: per esempio, se è condiviso da tutti, lo sarà anche dai sapienti. [4] Sulla intima connessione fra δοκοῦντα, λεγόμενα e φαινόμενα, cfr. Owen (1967), Nussbaum (1986b). [5] Cfr. De An. I 1, 402b 16-403a8. [6] Cfr. Herod. III 82, 35 e Tucid. I 137, 4, in cui si trova l’endiadi «συμμαχίᾳ καὶ φιλία». [7] Nei poemi omerici non vi è il termine φιλία – le prime occorrenze si trovano in Teognide (Teog. I, 31-38, 53-60, 323-28) – ma termini analoghi come φιλότης, φίλος sono utilizzati sia a proposito del rapporto fra uomini che di quello fra uomini e dèi. Sulla φιλία nel mondo antico, cfr. Pizzolato (1993), Fraisse (1974). [8] Nel Fedro platonico (228a-e), Socrate confuta un discorso di Lisia sulla φιλία, che Fedro custodiva sotto il mantello: quindi è verosimile che anche prima della data di composizione del Liside la φιλία fosse importante oggetto di dibattito e di riflessione critica. Del resto Giamblico (De Pythagorica Vita, 229-30) e Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum, VIII, 10) attribuiscono già a Pitagora la prima trattazione filosofica della φιλία. [9] Anche il Fedro e il Simposio si occupano lungamente della φιλία – l’eros è una forma della φιλία, per Platone quella più significativa – ma, come cercherò di mostrare, l’indagine aristotelica dipende sistematicamente dal Liside: per così dire, essa articola una differente risposta a quelle aporie, rispetto a quella che propone Platone nel Simposio e nel Fedro. [10] Meglio: se qualcuno sia amico di qualcun altro in quanto ami o, piuttosto, in quanto sia amato. [11] φίλος + dativo significa “caro a qualcuno”, φίλος + genitivo indica colui a cui qualcuno è caro, due individui sono φίλοι, quando sono l’uno “caro” all’altro. [12] Alcuni interpreti leggono il Liside come un esercizio dialettico, filosoficamente debole [Versenyi (1975)] o più retorico-sofistico che filosofico [Bordt (1988)], o dal significato prolettico-introduttivo rispetto ai maturi Simposio e Fedro [Kahn (1996), ma già Gomperz (2013), Auslage 5, e Willamovitz (1959)]; benché questi due dialoghi successivi ne possano a buon diritto adombrare il valore intrinseco, tuttavia i temi sollevati dal Liside sono nodi aporetici sostanziali, e non deve fuorviare il fatto che Socrate mutui il linguaggio e lo stile argomentativo dal tipo di interlocutore che affronta (per esempio, “facendo” il sofista col sofista Menesseno, e così via). Per una interpretazione non riduttiva del Liside e del suo valore speculativo, è illuminante Trabattoni (2004). [13] Un altro topos tradizionale – per cui la vera amicizia è fra ἀγαθοί – ricorrente in Platone: per restare all’esempio più noto, in Resp. I, 351a-e Socrate replica a Trasimaco che fra malvagi e ingiusti non può esserci alcuna cooperazione né amicizia; era comunque un tema essenziale per Socrate (cfr. Senofonte, Mem., 2.6 1-7). [14] Sull’ascendenza omerica di questo topos tradizionale, e sulla sua importanza per Aristotele (cfr. infra: Par. III), cfr. Adkins (1963). [15] La coscienza del male come tale è sintomo del fatto che il male è relativo e non assoluto. [16] Qui nel Liside si tratta di ἐπιθυμία (cfr. 217c). [17] Tralascio qui la questione della possibile identificazione del Primo Amico col Bene: ciò che rileva, qui, è il fatto che esso trascenda gli amici concreti, i quali sono tali solo «a parole» e stanno al Primo amico – che è tale «in realtà» (τῷ ὄντι) – come i mezzi al fine (cfr. Lys. 220b1-4). [18] Lys 222e1-7. [19] La letteratura sull’amicizia in Aristotele è sterminata: in luogo di proporre una lunga lista di studi che comunque sarebbe tutt’altro che esaustiva, nel seguito mi limiterò a citare alcuni contributi che sono particolarmente pertinenti agli aspetti che tratterò. Un commento sintetico e preciso a Et. Nic. VIII e IX è Pakaluk (1998). [20] È il giudizio nettamente prevalente, anche se non unanime. [21] Sul rapporto fra il Liside e le Etiche aristoteliche riguardo l’amicizia, buoni spunti si trovano in Annas (1986). [22] Et. Eud. VII 1, 1234b18-1235a4; cfr. anche Et. Nic. VIII 1. [23] Et. Eud. VII 1, 1155a33-b7. [24] Trad. it. modificata. [25] Cfr. supra: nota 16. [26] Et. Eud. VII 2, 1235b22-23. [27] C’è chi crede che il piacere sia un bene, ma c’è anche chi crede che non lo sia eppure gli appare – porto dalla φαντασία – come se lo fosse. Nell’acratico la forza della φαντασία sopravanza, nelle scelte pratiche, quella della δόξα. [28] Il «bene apparente» è qualcosa che appare come bene; ma può anche non esserlo: tuttavia, anche il bene reale motiva il desiderio solo apparendo come bene. Dunque «apparente» qui non va affatto interpretato come falsa apparenza. [29] Et. Eud. VII 2, 1235b30-1236a1. [30] Il piacevole non è l’immediato, ma anche ciò che non procura dispiacere futuro; Aristotele sa bene che molte cose dannose possono procurare del piacere immediato. Ma chi non è acratico, conscio delle conseguenze negative, accorderà il suo desiderio con la sua ragione, e la motivazione data dall’ipotetico piacere immediato sarà soverchiata dalla motivazione a evitare danni futuri. [31] Questo punto è più chiaro per come è presentato in Et. Nic. VIII 2, 1155b23-27. [32]  Nelle espressioni δι’ ἀρετὴν, διὰ τὸ χρήσιμον, δι’ ἡδονήν, la preposizione significa a un tempo «in base a», «a causa di», «al fine di»: il rispettivo amabile è ciò che causa quell’amicizia, ciò che ne costituisce il fondamento o ragion d’essere, ciò che ne rappresenta il fine [su un’idea analoga, cfr. Nussbaum (1986a)]; nei termini della nota teoria delle quattro cause (dei quattro sensi del διὰ τί, cfr. Phys. II 3), potremmo plausibilmente intendere il tipo di amabile come causa efficiente, formale e finale della rispettiva relazione amicale. [33] Cfr. Et. Nic. VIII 2, 1155b26-31. Mentre la φίλησις è una passione o affezione (πάθος), la φιλία è uno stato abituale (ἕξις, 1557b28-29). [34] Cfr. Et. Eud. VII 2, 1237b17-23; Et. Nic. VIII 4, 1156b30-33. [35] Vi è discussione sul fatto che questa caratterizzazione definitoria offra condizioni sufficienti perché qualcosa sia amicizia, oppure solo condizioni necessarie; propenderei per la seconda opzione: per esempio, Aristotele ritiene che per diventare amici deve passare del tempo, e molti scambiano il desiderio di essere amici con l’amicizia stessa (Et. Eud. VII 2, 1237b12-22); ma se il desiderio è reciproco, sussiste già benevolenza reciproca non celata, che non è ancora amicizia. [36] Sul focal meaning cfr. Owen (1963), Ferejohn (1980). L’exemplum princeps è quello della Metafisica: la sostanza è il focal meaning dell’essere, tutto ciò che è o è sostanza o rimanda a una sostanza, al modo in cui tutto ciò che è «sano» rimanda alla salute e tutto ciò che è «medico» alla medicina (cfr. Met. IV 2, 1003a32-1003b11). [37] Cfr. Fortenbaugh (1975). [38] Può esserlo in modo mediato, come foriero di un altro utile, al modo in cui qualcosa è mezzo di un altro mezzo, ma in ultima istanza l’utile è tale perché porta al bene e i mezzi sono tali perché portano al fine. [39] Per esempio, in De An. III 7, 431a10-13 il piacere è definito come l’essere percettivamente attivi nei confronti del bene in quanto bene; l’utilità è indefinibile se non come capacità di avvicinarci a un qualche bene; l’utile sta al bene come il mezzo al fine, e non vi è modo di definire cosa sia un mezzo, senza chiamare in causa la nozione di fine. [40] Et. Eud. VII 2, 1236a25-26. [41] Et. Eud. VII 2, 1236b1-2; Et. Nic. VIII 4, 1156b7-8. [42] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 342-360; 707-723. [43] Chiamare amicizia solo quella prima, equivarrebbe a «violentare i fenomeni» (βιάζεσθαι τὰ φαινόμενα, Et. Eud. VII 2, 1236b 22). [44] Et. Nic. VIII 4, 1156b7. [45] La prima amicizia, infatti è quella «secondo virtù e a causa del piacere della virtù» (EE VII 1238a31-32). [46] Secondo Aspasio (164.3-11), Owen (1960) e Dirlmeier (1967) vi sarebbe comunque focal meaning e relazione πρὸς ἓν, ancorché non esplicitata. [47] Et. Nic. VIII 5, 1157a32. [48] Se poi l’individuo è acratico, potrebbe anche non credere che qualcosa sia il suo bene, ma perseguirlo perché gli “appare” bene e frequentare individui utili a qualcosa che egli cerca di procurarsi pur sapendo che non è il suo bene: come uno che frequentasse un pusher in modo costante per procurarsi della droga, sapendo di farsi del male ma perseverando nel suo comportamento autodistruttivo (e nelle frequentazioni relative) per debolezza. [49] Sulla rilevanza della distinzione fra «bene per qualcuno» e «bene incondizionato» in rapporto alla teoria delle tre amicizie, insiste doverosamente O’Connor (1990). [50] Et. Nic. IX 10,1170b20-29. [51] Così, nella Nicomachea (Et. Nic. VIII 2, 1156a17), non nella Eudemia. [52] Cfr. supra: Par. II, 3. [53] EN VIII 3, 1156 a 16-17. [54] EN VIII 3, 1156a18-19 [55] Cooper (1977) sostiene che le amicizie accidentali siano tali perché dipendano da tratti accidentali del carattere dell’amico amato; Payne (2000) replica che anche i tratti in virtù di cui qualcuno risulta piacevole o utile possono essere altrettanto essenziali di quelli che lo rendono virtuoso: gli amici perfetti sarebbero scelti «per sé stessi» in quanto i loro caratteri virtuosi sono scelti come fine e non come mezzo (per altro). Ma le letture sono forse componibili: l’esser utile o piacevole, anche se sopravviene a tratti essenziali del carattere altrui, restano esterni all’altro, in quanto relazionali in un senso diverso dalla virtù; l’esser buono è sia essenziale e intrinseco all’amico, che scelto per sé stesso e non per altro, e rende anche l’amico stesso, che ha quel carattere virtuoso, scelto per sé stesso e non per altro. Cfr. supra: nota 31. [56] In Et. Eud. VII 7, 1241a5-7 si afferma che «se uno vuole per un altro i beni perché costui gli è utile, li vorrebbe allora non per quello ma per sé stesso; mentre invece la benevolenza, proprio come l’amicizia, si ritiene che sia rivolta non a quello che la prova, ma a colui per il quale la si prova. Pertanto, è chiaro che la benevolenza è in relazione con l’amicizia etica». Qui pare che solo l’amicizia etica (=virtuosa) implichi la benevolenza, che però è un costituente della definizione generale di amicizia. Da passi di questo tenore pare che le amicizie incomplete non siano amicizie in senso proprio, visto che non soddisfano la definizione; Aristotele è oscillante, è innegabile che vi sia una tensione irrisolta fra la sua vocazione inclusiva e lo sforzo di enucleazione della “vera” amicizia come tipologia normante e assiologicamente sovraordinata, che non è semplicemente una delle tre amicizie ma quella par excellence, di cui le altre sono approssimazioni manchevoli. Si può accogliere la lettura di Walker (1979), per cui l’amicizia perfetta soddisfa criteri più severi, le altre criteri più laschi. [57] Si pensi alla percezione per accidente (De An. II 6, III 1): essa è comunque studiata come una modalità genuina di percezione: le ragioni per cui essa è percezione per accidente non inficiano il fatto di essere genuinamente un tipo di percezione. [58] I due amici perfetti, in quanto buoni e virtuosi, realizzano l’eccellenza della natura umana, sono esempi del bene incondizionato e del piacere incondizionato. [59] Et. Nic. VIII 3, 1156a31-1156b1. [60] Et. Eud. VII 2, 1238a11-30; Et. Nic. VIII 3, 1156b17-32. [61] Può succedere che l’altro cambi, peggiori, o impazzisca, ma non accade per lo più. Cfr. Et. Nic. IX 3. [62] Et. Nic. VIII 4, 1156b10. [63] Et. Eud. VII 2, 1236b31. [64] La sventura, poi, può rivelare che un’amicizia che pareva perfetta era in realtà in vista dell’utile (Et. Eud. VII 2, 1238a19-21). [65] Lys. 211e-212a. [66] Et. Eud. VII 2, 1237b13-27. [67] Et. Nic. VIII 3, 1156a24-31. [68] Et. Nic. VIII 7, 1158a21. [69] Et. Eud. VII 4; Et. Nic. VIII 8. [70] Et. Eud. VII 9-11, Et. Nic. VIII 12-14. [71] Et. Eud. VII 12, 1244b4-5. [72] Cfr. Pol. I 1, 1253a10-12; Et. Nic. IX 12, 1169b18-19. [73] Et. Eud. VII 12, 1245b15-16. [74] Et. Nic. 1245b18. [75] Et. Eud. VII 12, 1245b18-19. [76] Si tratta di una complessità anche filologica, dovuta a corruzioni del testo. Su ciò, cfr. Kosman (2004). [77] Delle tre anime – nutritivo-riproduttiva, percettiva, razionale – la percettiva e la razionale sono quelle che discriminano la realtà (cfr. De An. III 3, 427a17-23); la percettiva, poi, è intimamente connessa col desiderio e, quindi, con l’azione (cfr. De An. III 9-11). Vivere significa realizzare le proprie capacità naturali e acquisite, il che per l’uomo implica anzitutto l’esercizio di percezione e pensiero (ove entrambe vanno concepite come connesse all’azione, in quanto coinvolgono anche desiderio e intelletto pratico). Su ciò, mi permetto di rimandare a Zucca (2015), Capp. II e VI. [78] La felicità è «una certa attività dell’anima secondo virtù completa» (Et. Nic. II 13, 1102a5-6). [79] Et. Eud. VII 12, 1245a30; Et. Nic. IX 9, 1166 a 32, 1170 b 6. [80] Et. Eud. VII 12, 1245a35-7. [81] Trad. it. modificata. [82] In Et. Eud. VII 6 e in Et. Nic. IX 4 si argomenta che i tipi di relazione che si hanno con gli altri dipendono dal rapporto che si ha con sé stessi: chi è buono e virtuoso sarà anche amico di sé stesso in modo armonico e costante – sebbene si possa parlare di amicizia solo κατὰ ἀναλογίαν (1240a13), nel caso dell’auto-rapporto – chi è malvagio sarà incostante e in conflitto con sé stesso, e in senso analogico sarà nemico di sé stesso. Questa idea non contraddice l’idea per cui la conoscenza di sé passa per la conoscenza dell’altro (Et. Nic. IX 9), ma anzi la completa: il buono e virtuoso è felice anzitutto in quanto ha un “sano” rapporto con sé, ma si conosce e realizza come felice solo in quanto ha un rapporto di riconoscimento reciproco con amici che hanno, a loro volta, un altrettanto “sano” rapporto con sé stessi. [83] L’idea di un accesso introspettivo infallibile ed essenzialmente privato ai nostri propri atti mentali, così tipicamente moderna, è affatto estranea ad Aristotele. [84] Come è naturale porre l’enfasi sul valore speculativo intrinseco della teoria, così è altrettanto opportuno ricordare che l’amicizia perfetta aristotelica resta prerogativa di un sottoinsieme dei maschi adulti liberi; tuttavia, questa tara storica affetta la teoria dell’amicizia, per così dire, mediatamente: in quanto restringe a quel sottoinsieme la capacità di realizzare l’eccellenza morale, precondizione della relazione d’amicizia perfetta. [85] Non uso la locuzione «sapere chi sono», anacronisticamente, come il coglimento di me stesso in quanto individualità irriducibile, magari ineffabile e inaccessibile ad altri – non è certo questa sorta di soggettività “novecentesca”, che secondo Aristotele giungerebbe alla coscienza di sé nell’amicizia – bensì come il venire a conoscenza di che tipo di persona sono. [86] Come bene intrinseco che trascende il livello del piacevole, è un amabile oggetto di volontà piuttosto che di appetito (Et. Eud. VII 2, 1235b22-23), e la volontà è desiderio razionale di beni scelti. [87] Un’analisi sistematica e comparativa delle nozioni di amicizia e amore in Platone e Aristotele, è Price (1989). Cfr. anche Kahn (1981). [88] Cfr. Phaedr. 265b-c. [89] La relazione erotica amante/amato, peraltro, è anche meno significativa e più instabile di altre relazioni fondate sul piacere – dunque, già di per sé instabili – in quanto in questo caso il piacere «non deriva dalla stessa fonte» (l’uno gode nell’esser corteggiato, l’altro nel contemplare l’altro, Et. Nic. VIII 5, 1157a2-10). [90] Lys. 222a3-7. Proverbi, impicatura proverbiale. A Errare humanum est.jpg Ab amico reconciliato cave. Guardati da un amico riconciliato.[1] Absit reverentia vero. Bando ai pudori di fronte alla verità. (Ovidio) Abusus non tollit usum. L'abuso non esclude l'uso.[2] Accidere ex una scintilla incendia passim. A volte da una sola scintilla scoppia un incendio.[3] Ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è obbligato a fare l'impossibile.[4] Adulator propriis commodis tantum suadet L'adulatore tiene di mira solo i suoi interessi.[5] (Giulio Cesare) Amantis ius iurandum poenam non habet. Il giuramento dell'innamorato non si può punire.[6] Amicus certus in re incerta cernitur. Il vero amico si rivela nelle situazioni difficili.[7] (Quinto Ennio) Amicus omnibus, amicus nemini. Amico di tutti, amico di nessuno.[8] Amicus Plato, sed magis amica veritas. Amo Platone, ma amo di più la verità.[9] (Aristotele) Amor arma ministrat. L'amore procura le armi [agli amanti perché possano essere grati alla persona amata].[10] (proverbio medievale) Amor caecus. L'amore è cieco.[11] Amor gignit amorem.[10] Amore genera amore. Amor tussisque non celatur. L'amore e la tosse non si possono nascondere.[12] Amoris vulnus sanat idem qui facit. La ferita d'amore la risana chi la fa.[12] Anceps fortuna belli. Le sorti della guerra sono incerte.[9] (Cicerone) Aquila non captat muscas. L'aquila non prende mosche.[13] Athenas noctuas mittere.[14] Mandare nottole ad Atene. Fare cosa inutile e superflua. Ars est celare artem.[15] La perfezione dell'arte sta nel celarla. Audi, vide, tace, si vis vivere in pace.[16] Ascolta, guarda e taci, se vuoi vivere in pace. B Barba virile decus, et sine barba pecus.[17] La barba è decoro dell'uomo e chi è senza barba è pecoro. Bene qui latuit, bene vixit. Ben visse chi seppe vivere nell'oscurità.[18] (Ovidio) Beati monoculi in terra caecorum. Beati i monòcoli nel paese dei ciechi. Bis dat qui cito dat. Dà due volte chi dà presto.[19] Bis peccat qui crimen negat.[20] È due volte colpevole chi nega la propria colpa. Bis pueris senes.[21] Il vecchio è due volte fanciullo. Bonis nocet qui malis parcet. Chi risparmia i malvagi danneggia i buoni.[22] Bonum nomen, bonum omen.[23] Buon nome, buon augurio. C Caecus non judicat de colore.[24] Il cieco non giudica i colori. Non si può giudicare ciò che si sottrae alle nostre attitudini. Caesar non supra grammaticos.[25] Cesare non (ha autorità) sopra i grammatici. Le persone più altolocate non possono avere autorità se non su quelle cose di cui s'intendono. Canis caninam non est.[26] Cane non mangia cane. Carpe diem. Cogli il giorno. (Quinto Orazio Flacco) Caseus est sanus, quem dat avara manus. Fa bene quel formaggio servito da una mano avara.[27] Causa patrocinio non bona peior erit. La causa cattiva diventa peggiore col volerla difendere.[28] (Ovidio) Causa perit iusta, si dextera non sit onusta.[29] La giusta causa soccombe se la destra non è piena [di denaro]. Cave a signatis. Guàrdati dai segnati.[28] Antico adagio in odio a coloro che sono affetti da qualche imperfezione fisica: guerci, zoppi, ecc. Cave tibi ab acquis silentibus. Guàrdati dalle acque chete.[28] Cavendo tutus.[30] Se sarai cauto, sarai sicuro. Cogito ergo sum. Penso dunque sono. (Cartesio) Commendatoria verba non obligant.[31] Le parole di raccomandazione non obbligano. Commune periculum concordiam paret.[32] Il comune pericolo prepari la concordia. Consuetudo est altera natura. L'abitudine è una seconda natura.[33] D De gustibus non est disputandum. Sui gusti non si discute.[34] Difficilis in otio quies. È difficile esser tranquilli nell'ozio.[35] Dulce bellum inexpertis, expertus metuit. La guerra è dolce per chi non ne ha esperienza, l'esperto la teme.[36] (proverbio medievale) Dum caput dolet, caetera membra languent. Quando duole il capo, tutte le membra languono.[37] Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si delibera, Sagunto è espugnata.[38] Dum vinum intrat exit sapientia.[39] Mentre il vino entra, esce la sapienza. Duo cum faciunt idem, non est idem.[35] Quando due fanno la stessa cosa, non è più la stessa cosa. E Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.[40] L'errare è cosa umana, il perseverare nella colpa invece è diabolico. Error hesternus sit tibi doctor hodiernus.[41] L'errore di ieri ti sia maestro oggi. Est in canitie ridicula Venus. È ridicolo l'amore di un vecchio.[42] (Proverbio medievale) Est modus in rebus, sunt certi denique fines | quos ultra citraque nequit consistere rectum. C'è una giusta misura nelle cose, ci sono giusti confini | al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta. (Quinto Orazio Flacco) Ex ungue leonem.[43] Dall'unghia si conosce il leone. Da un atto compiuto si rivela la forza dell'autore, morale o materiale. Excusatio non petita fit accusatio manifesta (proverbio medievale)[44] Chi si scusa senza esserne richiesto s'accusa. F Fabas indulcat fames.[45] La fame addolcisce le fave. Facile est inventis addere.[46] È facile aggiungere a ciò che è stato inventato. Facile perit amicitia coacta.[47] Facilmente muore un'amicizia forzata. Facit experientia cautos.[48] L'esperienza rende cauti. Fac sapias et liber eris.[49] Fa' di sapere e sarai libero. Felicium omnes sunt cognati. Tutti sono parenti dei fortunati.[8] Fiat iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo. Frangitur ira gravis cum sit responsio suavis.[50] Una dolce risposta infrange l'ira. Frustra sapiens qui sibi non sapet.[51] Inutilmente sa chi non sa per sé. G Gutta cavat lapidem. La goccia scava la pietra. H Homo longus raro sapiens; sed si sapiens, sapientissimus. Un uomo lungo (ossia alto) di rado è sapiente; ma se è sapiente, è sapientissimo.[52] Homo sine pecunia, imago mortis. L'uomo senza danaro è l'immagine della morte.[53] I Ianuensis ergo mercator. Genovese quindi mercante.[54] Imperare sibi maximum imperium est. Comandare a sé stessi è la forma più grande di comando. (Seneca, Lettere a Lucilio, CXIII.30) In magno mari capiuntur flumine pisces.[55] Nei grandi fiumi si pescano i grandi pesci. Nei grandi affari si fanno i grossi guadagni. In medio stat virtus. La virtù sta nel mezzo. (Orazio) In vino veritas. Nel vino c'è la verità. L M Magnum vectigal parsimonia.[56] La parsimonia è un gran capitale. (Cicerone) Major e longiquo reverentia.[56] La riverenza è maggiore da lontano. (Tacito) Mala gallina, malum ovum.[57] Gallina cattiva, uovo cattivo. Mea mihi conscientia pluris est quam omnium sermo.[58] Per me val più la mia coscienza che il discorso di tutti. (Cicerone) Medicus curat, natura sanat. Il medico cura ma è la natura che guarisce.[59] Melius est abundare quam deficere. Meglio abbondare che trovarsi in scarsezza.[60] Mors tua vita mea.[56] La tua morte è la mia vita. Mortui non mordent. I morti non mordono[61] [truismo] Mortuo leoni et lepores insultant. Anche le lepri insultano un leone morto.[62] Multi multa, nemo omnia novit. Molti sanno molto, nessuno sa tutto.[63] N Natura non facit saltus. La natura non procede per salti.[64] Naturalia non sunt turpia.[65] Le cose naturali non sono turpi. Nemo non formosus filius matri. Nessun figlio non è bello per sua madre.[66] Ne pulsato portam alterius, nisi velis pulsetur et tua.[67] Non bussare alla porta altrui se non vuoi che bussino alla tua. Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu. Nulla è nell'intelligenza che prima non fosse nel senso[68] Non omne quod licet honestum est.[69] Non tutto ciò che è lecito è onesto. Non omnibus dormio. Non dormo per tutti.[70] Nomen omen Il nome è un presagio (v. anche nomina sunt consequentia rerum e conveniunt rebus nomina saepe suis) (Plauto, Persa, 625) Nomina sunt consequentia rerum. I nomi sono corrispondenti alle cose. (Giustiniano, Institutiones, 2, 7, 3) O Omne animal post coitum triste. Tutti gli animali sono mesti dopo il coito.[71] Omne ignotum pro terribili.[72] Tutto ciò che è ignoto incute paura. Omnia munda mundis. Per chi è puro tutto è puro. (Paolo di Tarso) Omnia vincit amor. L'amore vince ogni cosa. (Virgilio, Bucoliche X, 69) Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le cose. (Virgilio) Omnis festinatio ex parte diaboli est.[73] Ogni fretta viene dal diavolo. P Panem et circenses. Pane e giochi [per distrarre il popolo]. (Giovenale, X 81) Patere quam ipse fecisti legem.[74] Subisci la legge che tu stesso hai fatta. Pectus est enim quod disertos facit È infatti il cuore che rende eloquenti (Quintiliano, 10,7,15) Pecunia non olet Il denaro non puzza (Vespasiano) Per aspera ad astra. Alle stelle [si giunge] attraverso aspri sentieri.[75] Periculum in mora. Vi è pericolo nel ritardo. (Tito Livio, Ab urbe condita; XXXVIII, 25) Philosophum non facit barbam.[76] La barba non fa il filosofo. Primum vivere deinde philosophari (Thomas Hobbes) Prima vivere, poi fare della filosofia. Q Quando Sol est in Leone, bibe vinum cum pistone. Quando il sole è in Leone [segno zodiacale], bevi il vino col pistone [a garganella].[77] Qui aquam Nili bibit rursus bibet.[78] Chi beve l'acqua del Nilo la berrà di nuovo. È destinato a ritornarvi. Qui asinum non potest, stratum caedit.[79] Chi non può bastonare l'asino bastona la bardatura. Qui gladio ferit gladio perit. Chi di spada ferisce di spada perisce.[80] Qui in pergula natus est, aedes non somniatur. Chi è nato in una capanna, i palazzi non li vede neanche in sogno. (Petronio, 74,14) Qui jacet in terra non habet unde cadat. Per chi giace in terra non c'è pericolo di cadere.[81] [truismo] Qui medice vivit, misere vivit. Chi vive sotto la guida del medico, vive miseramente.[81] Qui scribit, bis legit. Chi scrive, legge due volte.[82] Quisque faber fortunae suae. Ognuno è artefice del proprio destino. (Appio Claudio Cieco) Quod differtur non aufertur Ciò che si dilaziona non lo si perde[83] Quod non potest diabolus mulier evincit. Ciò che non può il diavolo, l'ottiene la donna.[84] (proverbio medievale) Quot homines tot sententiae. Tanti uomini, altrettante opinioni.[85] Quot servi tot hostes. Tanti servi, tanti nemici.[85] R Re opitulandum, non verbis.[86] L'aiuto va dato con i fatti, non con le parole. Rem tene, verba sequentur Possiedi l'argomento e le parole seguiranno. (Marco Porcio Catone) Res satis est nota, plus foetent stercora mota.[87] È cosa nota: lo sterco più è stuzzicato e più puzza. S Salus extra Ecclesiam non est[88] Al di fuori della Chiesa non v'è salvezza (Tascio Cecilio Cipriano, Lettera, 73, 21) Sapiens nihil affirmat quod non probet.[89] Il saggio nulla afferma che non possa provare. Satis quod sufficit.[90] Ciò che è sufficiente al bisogno, basta. Semel abas, semper abas.[91] Una volta abate, sempre abate. Proverbio medioevale, affermante che chi ha vestito una volta l'abito sacerdotale non può spogliarsi più delle idee e delle abitudini ecclesiastiche. Significa anche, per estensione, che si conservano sempre le idee una volta acquistate. Semel in anno licet insanire. Una volta all'anno è lecito fare follie. (Seneca) Senatores boni viri: senatus autem mala bestia.[92] I senatori sono brava gente; ma il senato è una cattiva bestia. Sero venientibus ossa.[93] Per chi viene troppo tardi restano le ossa. Si vis pacem, para bellum. Se vuoi la pace prepara la guerra. (Vegezio) Sicut mater, ita et filia eius. Quale la madre, tale anche la figlia.[94] Simia simia est, etiamsi aurea gestet insignia.[95] La scimmia resta sempre scimmia, anche se indossa ornamenti d'oro. Sol lucet omnibus.[96] Il sole splende per tutti. Vi sono delle cose di cui tutti gli uomini possono godere. Sorex suo perit indicio.[97] Il topo perisce per essersi rivelato da sé. Sublata causa, tollitur effectum.[98] Soppressa la causa, scompare l'effetto. T Timeo Danaos et dona ferentes. Io temo comunque i Greci, anche se recano doni. (Publio Virgilio Marone) U Ubi maior, minor cessat. Dinanzi al più forte, il debole scompare.[8] Ubi opes, ibi amici. Dove sono le ricchezze, lì sono anche gli amici.[8] Ubi uber, ibi tuber.[99] Dove è la mammella, ivi è il tumore. Dove c'è abbondanza, ivi si forma il marciume, la corruzione. V Verba movent, exempla trahunt.[100] Le parole commuovono, ma gli esempi trascinano. Verba volant, scripta manent.[101] Le parole volano, gli scritti restano. Vigilantibus, non dormientibus, jura succurunt.[102] Le leggi forniscono aiuto ai vigilanti, non ai dormienti. Vinum lac senum.[103] Il vino è il latte dei vecchi. Vulgus vult decipi, ergo decipiatur. Il popolo (il mondo) vuole essere ingannato, e allora sia ingannato.[104] Note  Citato in Mastellaro, p. 21.  Citato in Tosi 2017, n. 1408.  Citato in Tosi 2017, n. 1010.  Citato in 2005, p. 6.  Citato in Mastellaro, p. 11.  Citato in Mastellaro, p. 25.  Citato in Mastellaro, p. 18.  Citato in Mastellaro, p. 20.  Citato e tradotto in 2005, p. 15.  Citato in De Mauri, p. 27.  Citato in Mastellaro, p. 24.  Citato in Mastellaro, p. 23.  Citato in Tosi 2017, n. 2265.  Citato, con spiegazione, in Umberto Bosco, Lessico universale italiano, vol. XV, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1968, p. 59.  Citato e tradotto in 2005, § 169.  Citato e tradotto in 2005, § 188.  Citato e tradotto in 2005, § 215.  Citato con traduzione in 2005, p. 28.  Citato in 1921, p. 43, § 161.  Citato e tradotto in 2005, § 243.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 148.  Citato con traduzione in 2005, p. 30.  Citato e tradotto in 2005, § 256.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 154.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 155.  Citato e tradotto in 2005, § 280.  Citato in Andrea Perin e Francesca Tasso (a cura di), Il sapore dell'arte, Skira, Milano, 2010, p. 41.  Citato e tradotto in 2005, p. 37.  Citato e tradotto in 2005, § 305.  Citato e tradotto in 2005, § 312.  Citato e tradotto in 2005, § 343.  Citato e tradotto in 2005, § 344.  Citato in Mastellaro, p. 9.  Citato in 2005, p. 57.  Citato in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza nella vita, traduzione di Oscar Chilesotti, Dumolard, Milano, 1885.  Citato in Marco Costa, Psicologia militare, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 645. ISBN 88-464-7966-1  Citato in 1876, p. 66.  Citato in 1921, p. 496.  (ES) Citato in Jesús Cantera Ortiz de Urbina, Refranero Latino, Ediciones Akal, Madrid, p. 68 § 773. ISBN 9788446012962  Citato e tradotto in 2005, § 645.  Citato e tradotto in 2005, § 650.  Citato in De Mauri, p. 29.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 366.  Citato in Giuseppe Fumagalli, L'ape latina, Milano, 1975, p. 82  Citato e tradotto in 2005, § 732.  Citato e tradotto in 2005, § 739.  Citato e tradotto in 2005, § 741.  Citato e tradotto in 2005, § 744.  Citato e tradotto in 2005, § 747.  Citato e tradotto in 2005, § 829.  Citato e tradotto in 2005, § 835.  Citato in 2005, p. 108.  Citato in 2005, p. 109, § 941.  Citato in Filippo Ruschi, Questioni di spazio: la terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt, G. Giappichelli Editore, Citato e tradotto in 2005, § 1072.  Citato in 2005, p. 152.  Citato e tradotto in 2005, § 1313.  Citato con traduzione in Jean Louis Burnouf, Metodo per studiare la lingua latina adottato dall'Università di Francia, presso Ricordi e Jouhaud, Firenze 1850, p. 276.  Citato in 2005, p. 158.  Citato in 2005, p. 159.  Citato in AA. 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De Mauri, Angelo Paredi e Gabriele Nepi, p. 95.  Citato in Peter Olman, Zwei Mädchen suchen ihr Glück: Caleidoscopio berlinese, Edizioni Mediterranee, Roma, 1966, p. 265.  Citato e tradotto in 2005, § 1970.  Citato in 2005, p. 248.  (DE) Citato in Friedrich Otto Bittrich, Ägypten und Libyen, Safari-Verlag, Berlino, 1953, p. 7.  Citato e tradotto in 2005, § 2167.  Dal Vangelo:... tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada (Mt 26:52).  Citato in 2005, p. 256.  Citato in 2005, p. 258.  Citato in Tosi 2017, n. 1174.  Citato in De Mauri, p. 171.  Citato in 2005, p. 266.  Citato e tradotto in 2005, § 2342.  Citato e tradotto in 2005, § 2363.  Spesso la frase viene attribuita a Cipriano in una forma diversa: Extra Ecclesiam nulla salus.  Citato e tradotto in 2005, § 2415.  Citato e tradotto in 2005, § 2421.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1034.  Citato e tradotto in 2005, § 2457.  Citato e tradotto in 2005, § 2472.  Citato in 1921, p. 138, § 465.  Citato e tradotto in 2005, § 2528.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1079.  Citato e tradotto in 2005, § 2606.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1097.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1169.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1203.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1204.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1216.  Citato in Proverbi siciliani raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d'Italia da Giuseppe Pitrè, Luigi Pedone Lauriel, Palermo, 1880, vol. IV, p. 140.  Traduzione in voce su Wikipedia. Bibliografia L. De Mauri, 5000 proverbi e motti latini, seconda edizione, Hoepli, Milano, 2006. ISBN 978-88-203-0992-0 Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921. Giuseppe Fumagalli, L'ape latina, Hoepli, Milano, 2005. ISBN 88-203-0033-8 Giacomo Lo Forte, Ad hoc, Sandron, 1921. Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche, Mondadori, Milano, 2012. ISBN 978-88-04-47133-2. Gustavo Benelli, Raccolta di proverbi, massime morali, aneddoti, ed altro, Carnesecchi, Firenze, 1876. Renzo Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, 2017. Voci correlate Modi di dire latini Lingua latina Palindromi latini Categorie: Lingua latinaProverbi per nazione. Proverbi Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi: Proverbi toscani. A A brigante brigante e mezzo.[fonte 1] A buon cavalier non manca lancia.[fonte 2] A buon cavallo non manca sella.[fonte 2] A buon cavallo non occorre dir trotta.[fonte 3] A buon intenditor poche parole.[1][fonte 2] A caldo autunno segue lungo inverno.[fonte 4] A cane scottato l'acqua fredda par calda.[fonte 5] A cane vecchio non dargli cuccia.[fonte 2] A carnevale ogni scherzo vale, ma che sia uno scherzo che sa di sale.[fonte 6] A caval che corre, non abbisognano speroni.[fonte 3] A caval donato non si guarda in bocca.[2][fonte 2] A cavalier novizio, cavallo senza vizio.[fonte 3] A cavallo d'altri non si dice zoppo.[fonte 3] A cavallo di fuoco, uomo di paglia, a uomo di paglia, cavallo di fuoco.[fonte 3] A cavallo giovane, cavalier vecchio.[fonte 3] A caval nuovo cavaliere vecchio.[fonte 2] A chi batte forte, si apron le porte.[fonte 7] A chi Dio vuole aiutare, niente gli può nuocere.[fonte 4] A chi fortuna zufola, ha un bel ballare.[fonte 4] A chi ha abbastanza, non manca nulla.[fonte 4] A chi mangia sempre polli vien voglia di polenta.[fonte 8] A chi non piace il vino, il Signore faccia mancar l'acqua.[fonte 8] A chi non può imparare l'abbicì, non si può dare in mano la Bibbia.[fonte 4] A chi non vuol credere, poco valgono mille testimoni.[fonte 8] A chi non vuol credere sono inutili tutte le prove.[fonte 8] A chi non vuol far fatiche, il terreno produce ortiche.[fonte 9] A chi prende moglie ci vogliono due cervelli.[fonte 4] A chi tanto e a chi niente.[fonte 2] A chi troppo e a chi niente.[fonte 10] A chi ti dà il cappone, dagli la coscia e l'alone.[fonte 8] A chi ti porge un dito non prendere la mano.[fonte 2] A chi vuole fare del male non manca l'occasione.[fonte 4] A ciascun giorno basta la sua pena.[3][fonte 2] A ciascuno sta bene il proprio abito.[fonte 4] A donna di gran bellezza, dalla poca larghezza.[fonte 4] A duro ceppo, dura accetta.[fonte 4] A goccia a goccia si scava la pietra.[4][fonte 11] A goccia a goccia s'incava la pietra.[fonte 2] A gran salita, gran discesa.[fonte 4] A granello a granello si riempie lo staio e si fa il monte.[fonte 4] A grassa cucina povertà vicina.[fonte 4] A lavar la testa all'asino si perde il ranno e il sapone.[fonte 12] A lume spento è pari ogni bellezza.[fonte 4] A mali estremi estremi rimedi.[fonte 1] A muro basso ognuno ci si appoggia.[fonte 1] A nemico che fugge ponti d'oro.[fonte 1] A ogni uccello suo nido è bello.[fonte 1] A padre avaro figliuol prodigo.[fonte 13] A pancia piena si ragiona meglio.[fonte 8] A pagare e a morire c'è sempre tempo.[fonte 14] A paragone del molto che ignoriamo, è meno di niente quanto noi sappiamo.[fonte 4] A pazzo relatore, savio ascoltatore.[fonte 8] A pensar male, s'indovina sempre.[fonte 15] A pensar male ci s'indovina.[fonte 2] A pentola che bolle, gatta non s'accosta.[fonte 8] A rubar poco si va in galera, a rubar tanto si fa carriera.[fonte 1] A san Lorenzo il dente la noce già sente.[fonte 2] A san Martino [11 novembre], apri la botte e assaggia il vino.[fonte 8] A San Martino ogni mosto è vino.[fonte 16] A san Mattia la neve va via.[fonte 4] A scherzar con la fiamma, ci si scotta.[fonte 17] A tal fortezza, tal trincea.[fonte 4] A torto si lagna del mare chi due volte ci vuole tornare.[fonte 4] A tutto c'è rimedio fuorché alla morte.[fonte 1] A usanza nuova non correre.[fonte 2] Abbattuto l'albero scompare l'ombra.[fonte 8] Accasa il figlio quando vuoi, e la figlia quando puoi.[fonte 18] Acquista buona fama e mettiti a dormire.[fonte 4] Ai bugiardi e agli spacconi non è creduto.[fonte 8] Ai voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser vicini.[fonte 19] A voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser vicini.[fonte 2] Abate cupido, per un'offerta ne perde cento.[fonte 4] Abate rigoroso rende i frati penitenti.[fonte 4] Abbi piuttosto il piccolo per amico, che il grande per nemico.[fonte 8] Abiti stranieri, costumi stranieri; costumi stranieri, gente straniera; la gente straniera sloggia gli antichi abitanti.[fonte 4] Abito troppo portato e donna troppo vista vengono presto a noia.[fonte 4] Abbondanza genera baldanza.[fonte 4] Accade in un'ora quel che non avviene in mill'anni.[fonte 2] Accade in un'ora quel che non avviene in cent'anni.[fonte 2] Accendere una candela ai Santi e una al diavolo.[fonte 4] Accendere una fiaccola per far lume al sole.[fonte 4] Acqua che corre non porta veleno.[fonte 4] Acqua cheta rompe i ponti.[fonte 16] Acqua di san Lorenzo [10 agosto] venuta per tempo; se alla Madonna viene va ancora bene; tardiva sempre buona quando arriva.[fonte 2] Acqua e chiacchiere non fanno frittelle.[fonte 20] Acqua lontana non spegne il fuoco.[fonte 21] Acqua passata, non macina più.[fonte 22] Ad albero vecchio ed a muro cadente, non manca mai edera.[fonte 4] Ad ogni primavera segue un autunno.[fonte 4] Ad ognuno la sua croce.[fonte 23] Ad ognuno pare bello il suo.[fonte 4] Ad un grasso mezzogiorno spesso tien dietro una cena magra.[fonte 4] Agosto ci matura il grano e il mosto[fonte 16]. Agosto: moglie mia non ti conosco.[5][6][fonte 1] Ai macelli van più bovi che vitelli.[fonte 2] Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla.[fonte 8] Ai pazzi si dà sempre ragione.[fonte 8] Aiutati che Dio t'aiuta.[fonte 24] Aiutati che il ciel t'aiuta.[fonte 25] Aiutati che io ti aiuto.[fonte 16] Al baciarsi presto tien dietro il coricarsi.[fonte 4] Al bisogno si conosce l'amico.[fonte 1] Al buio la villana è bella quanto la dama.[fonte 2] Al buio, le donne sono tutte uguali.[fonte 8] Al buio tutti i gatti sono bigi.[fonte 16] Al confessor, medico e avvocato, non tenere il ver celato.[fonte 26] Al confessore, al medico e all'avvocato non si tiene il ver celato.[fonte 2] Al contadin non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere.[fonte 1] Al cuore non si comanda.[fonte 1] Al cuor non si comanda.[fonte 27] Al cazzo non si comanda.[fonte 2] Al culo non si comanda.[fonte 28] Al destino non si comanda.[fonte 2] Al tempo non si comanda.[fonte 2] Al tempo e al culo non si comanda.[fonte 2] Al debole il forte sovente fa torto.[fonte 8] Al fratello piace più veder la sorella ricca, che farla tale.[fonte 8] Al levar le tende si conosce il guadagno.[fonte 4] Al gatto che lecca lo spiedo non affidar arrosto.[fonte 8] Al genio non si danno le ali, ma le si tagliano.[fonte 4] Al medico, al confessore e all'avvocato, bisogna dire ogni peccato.[fonte 8] Al povero manca il pane, al ricco l'appetito.[fonte 8] Al primo colpo non cade l'albero.[fonte 2] Al primo colpo non cade un albero.[fonte 2] Al suono si riconosce la pignata.[fonte 29] Al villano, se gli porgi il dito, si prende la mano.[fonte 30] All'A tien dietro il B nel nostro abbicì.[fonte 4] All'eco spetta l'ultima parola.[fonte 4] All'orsa paion belli i suoi orsacchiotti.[fonte 8] All'uccello ingordo crepa il gozzo.[fonte 2] All'ultimo si contano le pecore.[fonte 1] All'umiltà felicità, all'orgoglio calamità.[fonte 8] Alla fame è presto ridotto chi s'imbarca senza biscotto.[fonte 4] Alla fine anche le pernici allo spiedo vengono a noia.[fonte 8] Alla fine loda la vita e alla sera loda il giorno.[7][fonte 4] Alla fine loda la vita e alla sera il giorno.[fonte 2] Alla guerra si va pieno di denari e si torna pieni di vizi e di pidocchi.[fonte 4] Alle barbe dei pazzi, il barbiere impara a radere.[fonte 8] Alle volte si crede di trovare il sole d'agosto e si trova la luna di marzo.[fonte 8] Altri tempi, altri costumi.[fonte 2] Alzati presto al mattino se vuoi gabbare il tuo vicino.[fonte 8] Ambasciator non porta pena.[fonte 2] Amare e non essere amato è tempo perso.[fonte 4] Ambasciatore che tarda notizia buona che porta.[fonte 2] Amicizia che cessa, non fu mai vera.[fonte 4] Amico beneficato, nemico dichiarato.[fonte 4] Amico di buon tempo mutasi col vento.[fonte 4] Amico di ventura, molto briga e poco dura.[fonte 31] Ammogliarsi è un piacere che costa caro.[fonte 4] Amor che nasce di malattia, quando si guarisce passa via.[fonte 8] Amor di nostra vita ultimo inganno.[8][fonte 32] Amor, dispetto, rabbia e gelosia, sul cuore della donna han signoria.[fonte 8] Amor nuovo va e viene, amor vecchio si mantiene.[fonte 8] Amor regge il suo regno senza spada.[fonte 32] Amore con amor si paga.[fonte 2] Amore di parentato, amore interessato.[fonte 4] Amore di villeggiatura poco vale e poco dura.[fonte 2] Amore di fratello, amore di coltello.[fonte 8] Amore è il vero prezzo con che si compra amore.[fonte 33] Amore non si compra né si vende.[fonte 33] Amore onorato, né vergogna né peccato.[fonte 8] Amore scaccia amore.[fonte 4] Anche fra le spine nascono le rose.[fonte 34] Anche i fanciulli diventano uomini.[fonte 4] Anche il più verde diventa fieno.[fonte 4] Anche il sole ha le sue macchie.[fonte 4] Anche l'abate fu prima frate.[fonte 4] Anche l'ambizione è una fame.[fonte 4] Anche la legna storta dà il fuoco diritto.[fonte 4] Anche la regina Margherita mangia il pollo con le dita.[fonte 35] Anche le bestie le ha fatte il Signore.[fonte 8] Anche le colombe hanno il fiele.[fonte 4] Anche le pulci hanno la tosse.[fonte 2] Anche le uova della gallina nera sono bianche; ma staremo a vedere se anche i suoi pulcini sono bianchi.[fonte 4] Anche un giogo dorato pesa.[fonte 8] Andar presto a dormire e alzarsi presto chiude la porta a molte malattie.[fonte 8] Andar bestia, e tornar bestia, dice il moro.[fonte 36] Anno nevoso anno fruttuoso.[fonte 16] Anno nuovo vita nuova.[fonte 1] Approfitta degli errori degli altri, piuttosto che censurarli.[fonte 4] Aprile dolce dormire.[9][fonte 2] Aprile e maggio sono la chiave di tutto l'anno.[fonte 4] Aprile ogni goccia un barile.[10][fonte 2] Aprile piovoso, maggio ventoso, anno fruttuoso.[fonte 4] Ara nel mare e nella rena semina, chi crede alle parole della femmina.[fonte 8] Arcobaleno porta il sereno.[fonte 2] Aria rossa o piscia o soffia.[fonte 2] Asino che ha fame mangia d'ogni strame.[fonte 2] Assai bene balla a chi fortuna suona.[fonte 4] Assai digiuna chi mal mangia.[fonte 8] Assai domanda chi ben serve e tace.[fonte 37] Assai domanda chi si lamenta.[fonte 8] Assalto francese e ritirata spagnola.[fonte 2] Attacca l'asino dove vuole il padrone e, se si rompe il collo, suo danno.[fonte 1] Avuta la grazia, gabbato lo santo.[fonte 8] B Bacco, tabacco e Venere riducon l'uomo in cenere.[fonte 2] Ballaremo secondo che voi suonerete.[fonte 4] Bandiera rotta onor di capitano. Bandiera vecchia onor di capitano.[fonte 2] Basta un matto per casa.[fonte 8] Batti il ferro finché è caldo. Batti il ferro quando è caldo.[fonte 1] Bei gatti e grossi letamai mostrano il buon agricoltore.[fonte 38] Bella cosa presto è rapita.[fonte 4] Bella in vista, dentro è trista.[fonte 4] Bella ostessa, conti traditori.[fonte 2] Bella ostessa, brutti conti.[fonte 39] Bell'ostessa, conto caro.[fonte 40] Bella vigna poca uva.[fonte 2] Bellezza di corpo non è eredità.[fonte 4] Bellezza e follia vanno spesso in compagnia.[fonte 41] Bello in fasce brutto in piazza.[fonte 1] Ben sa la botte di qual vino è piena.[fonte 4] Ben si caccia il diavolo, ma Satana ritorna.[fonte 4] Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.[fonte 8] Bene educato, non mentì mai.[fonte 4] Bene perduto è conosciuto.[fonte 4] Beni di fortuna passano come la luna.[fonte 2] Bevi il vino e lascia andar l'acqua al mulino.[fonte 8] Bisogna dire pane al pane e vino al vino.[fonte 2] Bisogna far buon viso a cattivo gioco.[fonte 1] Bisogna fare di necessità virtù.[fonte 2] Bisogna fare il pane con la farina che si ha.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando cade, e prendere il tempo come viene.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando è il santo.[fonte 4] Bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare.[fonte 2] Bisogna prendere gli avvenimenti quando Dio li manda.[fonte 4] Bocca che tace nessuno l'aiuta.[fonte 2] Bocca che tace mal si può aiutare.[fonte 42] Bocca chiusa ed occhio aperto non fecero mai male a nessuno.[fonte 4] Botte buona fa buon vino.[fonte 2] Brutta cosa è il povero superbo e il ricco avaro.[fonte 8] Brutta di viso ha sotto il paradiso.[fonte 2] Brutto in fasce bello in piazza.[fonte 1] Buca il marmo fin d'acqua una goccia.[fonte 8] Bue sciolto lecca per tutto.[fonte 8] Bue fiacco stampa più forte il piede in terra.[fonte 4] Bue vecchio, solco diritto.[fonte 4] Buon fuoco e buon vino, scaldano il mio camino.[fonte 8] Buon sangue non mente.[fonte 2] Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo.[fonte 1] Buon vino e bravura, poco dura.[fonte 8] Buon vino fa buon sangue.[fonte 1][fonte 8] Buon vino, favola lunga.[fonte 8] Buona fama presto è perduta.[fonte 4] Buona greppia, buona bestia.[fonte 8] Buona guardia giova a molte cose.[fonte 4] Buona la forza, migliore l'ingegno.[fonte 4] Buone parole e pere marce non rompono la testa a nessuno.[fonte 31] Burlando si dice il vero.[fonte 4] C Cader non può, chi ha la virtù per guida.[fonte 4] Cambiano i suonatori ma la musica è sempre quella.[fonte 1] Cambiare e migliorare sono due cose; molto si cambia nel mondo, ma poco si migliora.[fonte 4] Campa cavallo che l'erba cresce.[fonte 2] Campa, cavallo mio, che l'erba cresce.[fonte 1] Can che abbaia non morde.[fonte 1] Cane affamato non teme bastone.[11][fonte 2] Cane e gatta tre ne porta e tre ne allatta.[fonte 8] Cane non mangia cane.[fonte 43] Cane ringhioso e non forzoso, guai alla sua pelle![fonte 4] Capelli lunghi, cervello corto.[fonte 4] Carta canta e villan dorme.[fonte 1] Casa fatta e vigna posta, non si sa quello che costa.[fonte 44] Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 45] Casa mia, casa mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 2] Casa mia, casa mia, pur piccina che tu sia mi sembri una badia.[fonte 9] Castiga il buono e si emenderà; castiga il cattivo e peggiorerà.[fonte 4] Cattivo cominciamento, fine peggiore.[fonte 8] Cavallo da vettura, poco costa e poco dura.[fonte 46] Cavallo vecchio, tardi muta ambiatura.[fonte 47] Cavolo riscaldato non fu mai buono.[fonte 2] Cavolo riscaldato, frate sfratato e serva ritornata non furon mai buoni.[fonte 2] Cento teste, cento cappelli.[fonte 48] Certe macchie ben si possono grattare ma non togliere.[fonte 4] Cessato il guadagno, cessata l'amicizia.[fonte 49] Chi a tutti facilmente crede, ingannato si vede.[fonte 4] Chi accarezza la mula rimedia calci.[fonte 2] Chi accarezza la mula buscherà calci.[fonte 2] Chi accetta l'eredità accetti anche i debiti.[fonte 4] Chi ad altri inganni tesse, poco bene per sé ordisce.[fonte 4] Chi alza il piede per ogni paglia, si può rompere facilmente una gamba.[fonte 8] Chi ama me, ama il mio cane.[fonte 50] Chi ara terra bagnata, per tre anni l'ha dissipata.[fonte 51] Chi asino nasce, asino muore.[fonte 4] Chi balla senza suono, come asino si ritrova.[fonte 52] Chi ben coltiva il moro, coltiva nel suo campo un gran tesoro.[fonte 47] Chi ben comincia è a metà dell'opera.[fonte 53] Chi ben comincia è alla metà dell'opera.[fonte 2] Chi ben comincia è alla metà dell'opra.[fonte 1] Chi bene semina, bene raccoglie.[fonte 4] Chi beve vin, campa cent'anni.[fonte 54] Chi beve birra campa cent'anni.[12][fonte 2] Chi biasima il suo prossimo che è morto, dica il vero, dica il falso, ha sempre torto.[fonte 4] Chi caccia volentieri trova presto la lepre.[fonte 4] Chi cade in povertà, perde ogni amico.[fonte 4] Chi cava e non mette, le possessioni si disfanno.[fonte 55] Chi cavalca o trotta alla china, o non è sua la bestia, o non la stima.[fonte 8] Chi cento ne fa una ne aspetta.[fonte 1] Chi cerca di sapere ciò che bolle nella pentola d'altri, ha leccate le sue.[fonte 8] Chi cerca lealtà e fedeltà nel mondo, non trova che ipocrisia.[fonte 4] Chi cerca, trova.[13][fonte 2] Chi cerca trova e chi domanda intende.[fonte 2] Chi coglie acerbo il senno, maturo ha sempre d'ignoranza il frutto.[fonte 8] Chi comincia in alto, finisce in basso.[fonte 8] Chi compra il superfluo, si prepara a vendere il necessario.[fonte 56] Chi compra sprezza e chi ha comprato apprezza.[fonte 2] Chi conserva per l'indomani, conserva per il cane.[fonte 8] Chi contro Dio getta la pietra, in capo gli torna.[fonte 8] Chi d'estate secca serpi, nell'inverno mangia anguille.[fonte 4] Chi d'estate vuole stare al fresco, ci starà anche d'inverno.[fonte 4] Chi da gallina nasce, convien che razzoli.[fonte 8] Chi da savio operare vuole, pensi al fine.[fonte 4] Chi dà ghiande non può riavere confetti.[fonte 4] Chi di gallina nasce convien che razzoli.[fonte 2] Chi dal lotto spera soccorso, mette il pelo come un orso.[fonte 8] Chi dà per ricevere, non dà nulla.[fonte 8] Chi del vino è amico, di se stesso è nemico.[fonte 8] Chi di spada ferisce di spada perisce.[14][fonte 1] Chi di speranza vive disperato muore.[fonte 1] Chi di una donna brutta s'innamora, lieto con essa invecchia e l'ama ancora.[fonte 8] Chi di coltel ferisce, di coltel perisce.[fonte 4] Chi di spirito e di talenti è pieno domina su quelli che ne hanno meno.[fonte 4] Chi dice A arrivi fino alla Z.[fonte 4] Chi dice A deve dire anche B.[fonte 4] Chi dice donna dice danno.[fonte 1] Chi dice donna dice guai, chi dice uomo peggio che mai.[fonte 8] Chi dice male, l'indovina quasi sempre.[fonte 4] Chi dice quel che vuole sente quel che non vorrebbe.[fonte 1] Chi disprezza compra.[fonte 1] Chi disprezza vuol comprare e chi loda vuol lasciare.[fonte 2] Chi domanda ciò che non dovrebbe, ode quel che non vorrebbe.[fonte 2] Chi domanda non erra.[fonte 2] Chi domanda non fa errore.[fonte 57] Chi dopo la polenta beve acqua, alza la gamba e la polenta scappa.[fonte 8] Chi dorme d'agosto dorme a suo costo.[fonte 2] Chi dorme non piglia pesci.[15][fonte 1] Chi è causa del suo mal pianga se stesso.[16][fonte 1] Chi è bugiardo è ladro.[fonte 4] Chi è destinato alla forca non annega.[fonte 58] Chi è generoso con la bocca, è avaro col sacco.[fonte 4] Chi è in difetto è in sospetto.[fonte 1] Chi è mandato dai farisei è ingannato dai farisei.[fonte 4] Chi è morso dalla serpe, teme la lucertola.[fonte 8] Chi non è savio, paziente e forte si lamenti di sé, non della sorte.[fonte 8] Chi è schiavo delle ambizioni ha mille padroni.[fonte 4] Chi è stato trovato una volta in frode, si presume vi sia sempre.[fonte 4] Chi è svelto a mangiare è svelto a lavorare.[fonte 1] Chi è tosato da un usuraio, non mette più pelo.[fonte 8] Chi è uso all'impiccare, non teme la forca.[fonte 4] Chi fa da sé fa per tre.[17][fonte 1] Chi fa come il prete dice, va in Paradiso: ma chi fa come il prete fa, a casa del diavolo se ne va.[18] Chi fa del bene agli ingrati, Dio lo considera per male.[fonte 4] Chi fa il male odia la luce.[fonte 4] Chi fa l'altrui mestiere, fa la zuppa nel paniere.[fonte 59] Chi fa la legge, deve conservarla.[fonte 4] Chi fa una legge, deve anche preoccuparsi che sia eseguita.[fonte 4] Chi fa le fave senza concime le raccoglie senza baccelli.[fonte 2] Chi fa falla e chi non fa sfarfalla.[fonte 1] Chi fa un'ingiustizia, la dimentica; chi la riceve, se ne ricorda.[fonte 4] Chi fosse indovino, sarebbe ricco.[fonte 4] Chi fugge il giudizio, si condanna.[fonte 4] Chi fugge un matto, ha fatto buona giornata.[fonte 8] Chi getta un seme lo deve coltivare, se vuol vederlo con il tempo germogliare.[fonte 60] Chi gioca al lotto, è un gran merlotto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di botto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di trotto.[fonte 8] Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato.[fonte 16]. Chi ha avuto il beneficio, se lo dimentica.[fonte 4] Chi ha da far con un incostante, tien l'anguilla per la coda.[fonte 4] Chi ha denti non ha pane e chi ha pane non ha denti.[fonte 1] Chi ha farina non ha la sacca.[fonte 1] Chi ha fatto ingiuria ad altri, da altri convien che la sopporti.[fonte 4] Chi ha il capo di cera, non vada al sole.[fonte 61] Chi ha imbarcato il diavolo, deve stare in sua compagnia.[fonte 4] Chi ha ingegno, lo mostri.[fonte 62] Chi ha per letto la terra, deve coprirsi col cielo.[fonte 8] Chi ha polvere spara.[fonte 1] Chi ha portato la tonaca puzza sempre di frate.[fonte 2] Chi ha prete, o parente in corte, fontana gli risorge.[fonte 63] Chi ha tempo, ha vita.[fonte 64] Chi ha tempo non aspetti tempo.[fonte 1] Chi ha terra, ha guerra.[fonte 56] Chi ha tutto il suo in un loco l'ha nel fuoco.[fonte 2] Chi ha un mestiere in mano, dappertutto trova pane.[fonte 4] Chi il vasto mare intrepido ha solcato, talvolta in piccol rio muore annegato.[fonte 65] Chi la dura la vince.[fonte 1] Chi la fa l'aspetti.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova peggio si trova.[fonte 16] Chi lavora con diligenza, prega due volte.[fonte 4] Chi lavora, Dio gli dona.[fonte 4] Chi mal semina mal raccoglie.[fonte 1] Chi male una volta si marita, ne risente tutta la vita.[fonte 4] Chi male vive, male muore.[fonte 2] Chi maltratta le bestie, non la fa mai bene.[fonte 8] Chi mangia sempre pan bianco, spesso desidera il nero.[fonte 8] Chi mangia sempre torta se ne sazia.[fonte 8] Chi mena per primo mena due volte.[fonte 1] Chi molto parla, spesso falla.[fonte 66] Chi mordere non può non mostri i denti.[fonte 40] Chi muore giace e chi vive si dà pace.[fonte 1] Chi nasce afflitto muore sconsolato.[fonte 1] Chi nasce è bello, chi si sposa è buono e chi muore è santo.[fonte 1] Chi nasce matto non guarisce mai.[fonte 8] Chi nasce tondo non può morir quadrato.[fonte 57] Chi non ama le bestie, non ama i cristiani.[fonte 8] Chi non apre la bocca, non le piove dentro.[fonte 4] Chi non beve in compagnia o è un ladro o è una spia.[fonte 1] Chi non caccia non prende.[fonte 4] Chi non comincia non finisce.[fonte 1] Chi non crede di esser matto, è matto davvero.[fonte 8] Chi non crede in Dio, non crede nel diavolo.[fonte 67] Chi non dà a Cristo, dà al fisco.[fonte 8] Chi non è con me è contro di me.[fonte 2] Chi non è volpe, dal lupo si guardi, perché ne sarà preda presto o tardi.[fonte 4] Chi non fu buon soldato, non sarà buon capitano.[fonte 68] Chi non ha fede, non ne può dare.[fonte 8] Chi non ha il gatto mantiene i topi e chi ce l'ha li mantiene tutti e due.[fonte 8] Chi non ha imparato a ubbidire, non saprà mai comandare.[fonte 8] Chi non ha testa abbia gambe.[fonte 57] Chi non lavora non mangia.[fonte 2] Chi non mangia ha già mangiato.[fonte 2] Chi non muore si rivede.[fonte 2] Chi non naufragò in mare, può naufragare in porto.[fonte 8] Chi non può bastonare il cavallo, bastona la sella.[fonte 4] Chi non risica, non rosica.[fonte 1] Chi non sa adulare non sa regnare.[fonte 4] Chi non sa fare non sa comandare.[fonte 68] Chi non sa leggere la sua scrittura è asino di natura.[fonte 69] Chi non sa niente non è buono a niente.[fonte 4] Chi non sa tacere non sa parlare.[fonte 2] Chi non sa ubbidire, non sa comandare.[fonte 68] Chi non segue il consiglio dei genitori, tardi se ne pente.[fonte 4] Chi non semina non raccoglie.[fonte 2] Chi non si innamora da giovane, si innamora da vecchio.[fonte 8] Chi non trovò ombra nell'estate, la troverà nell'inverno.[fonte 4] Chi non vuol essere consigliato, non può essere aiutato.[fonte 4] Chi parla due lingue è doppio uomo.[fonte 70] Chi pecca in segreto fa la penitenza pubblica.[fonte 8] Chi pecora si fa, il lupo se la mangia.[fonte 1] Chi per grazia prega, non ha mai bene.[fonte 4] Chi perde ha sempre torto.[fonte 1] Chi perdona senza dimenticare, non perdona che metà.[fonte 4] Chi pesca con l'amo d'oro, qualcosa piglia sempr e.[fonte 8] Chi piglia leone in assenza, teme la talpa in presenza.[fonte 8] Chi più ha più vuole.[fonte 1] Chi più ha più ne vorrebbe.[fonte 2] Chi più lavora, meno mangia.[fonte 4] Chi più ne fa è fatto papa.[fonte 4] Chi più ne ha più ne metta.[fonte 2] Chi più sa meno crede.[fonte 1] Chi più spende meno spende.[fonte 2] Chi poco sa presto parla.[fonte 2] Chi porta fiori, porta amore.[fonte 8] Chi predica al deserto, perde il sermone.[fonte 71] Chi prende l'anguilla per la coda, può dire di non tenere nulla.[fonte 4] Chi prima arriva meglio alloggia.[fonte 2] Chi prima nasce prima pasce.[fonte 1] Chi prima non pensa dopo sospira.[fonte 2] Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.[fonte 8] Chi ricorda un beneficio, lo rinfaccia.[fonte 4] Chi ride il venerdì piange la domenica.[fonte 1] Chi rimane in umile stato, non ha da temer caduta.[fonte 8] Chi ringrazia non vuol obblighi.[fonte 8] Chi ringrazia per una spiga, riceve una manna.[fonte 8] Chi Roma non vede, nulla crede.[fonte 8] Chi ruba poco, ruba assai.[fonte 72] Chi rompe paga e i cocci sono suoi.[fonte 1] Chi ruba un regno è un ladro glorificato, e chi un fazzoletto, un ladro castigato.[fonte 4] Chi ruba una volta è sempre ladro.[fonte 4] Chi s'accapiglia si piglia.[19] Chi s'aiuta Iddio l'aiuta.[fonte 1] Chi sa fa e chi non sa insegna.[fonte 1] Chi sa fare fa e chi non sa fare insegna.[20] Chi sa il gioco non l'insegni.[fonte 1] Chi sa il trucco non l'insegni.[fonte 1] Chi sa senza Cristo non sa nulla.[fonte 8] Chi scopre il segreto perde la fede.[fonte 1] Chi semina buon grano avrà buon pane; chi semina lupino non avrà né pan né vino.[fonte 2] Chi semina con l'acqua raccoglie col paniere.[fonte 2] Chi semina raccoglie.[fonte 2] Chi semina vento raccoglie tempesta.[21][22][fonte 1] Chi serba serba al gatto.[fonte 1] Chi si contenta gode.[fonte 1] Chi si diletta di frodare gli altri, non si deve lamentare se gli altri lo ingannano.[fonte 4] Chi si fa i fatti suoi campa cent'anni.[fonte 57] Chi si fa un idolo del suo interesse, si fa un martire della sua integrità.[fonte 73] Chi si fida nel lotto, non mangia di cotto.[fonte 8] Chi si fida di greco, non ha il cervel seco.[fonte 74] Chi si guarda dal calcio della mosca, gli tocca quello del cavallo.[fonte 4] Chi si immagina di essere più di quello che è, si guardi nello specchio.[fonte 4] Chi si loda si sbroda.[fonte 4] Chi si prende d'amore, si lascia di rabbia.[fonte 8] Chi si scusa si accusa.[fonte 1] Chi si somiglia si piglia.[fonte 2] Chi si sposa in fretta, stenta adagio.[fonte 75] Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato.[fonte 8] Chi si vanta da solo non vale un fagiolo.[fonte 2] Chi si vanta del delitto è due volte delinquente.[fonte 4] Chi siede in basso, siede bene.[fonte 8] Chi sta tra due selle si trova col culo in terra.[fonte 2] Chi tace acconsente.[fonte 1][23] Chi tace davanti alla forza, perde il suo diritto.[fonte 4] Chi tanto e chi niente.[fonte 1] Chi troppo e chi niente.[fonte 1] Chi tardi arriva male alloggia.[fonte 1] Chi ti dà un osso non ti vorrebbe morto.[fonte 4] Chi ti vuol male, ti liscia il pelo.[fonte 8] Chi tiene il letame nel suo letamaio, fa triste il suo pagliaio.[fonte 8] Chi tiene la scala non è meno reo del ladro.[fonte 76] Chi troppo comincia, poco finisce.[fonte 77] Chi troppo vuole nulla stringe.[24][fonte 1] Chi trova un amico trova un tesoro.[fonte 1] Chi uccide i gatti fa male i suoi fatti.[fonte 38] Chi va a caccia non deve lasciare a casa il fucile.[fonte 4] Chi va a Roma perde la poltrona.[fonte 2] Chi va all'acqua d'agosto, non beve o non vuol bere il mosto.[fonte 8] Chi va all'osto, perde il posto.[fonte 78] Chi va al mulino s'infarina.[fonte 1] Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare.[fonte 79] Chi va piano va sano e va lontano. Chi va forte va alla morte.[25][fonte 80] Chi ha più fretta, più tardi finisce.[fonte 4] Chi fa in fretta fa due volte.[fonte 4] Chi pesca e ha fretta, spesse volte prende dei granchi.[fonte 4] Chi va via perde il posto all'osteria.[fonte 81] Chi vanta se stesso e abbassa gli altri, gli altri abbasseranno lui.[fonte 4] Chi vende a credenza spaccia assai: perde gli amici e i quattrin non ha mai.[26][fonte 2] Chi dà a credito spaccia assai perde gli amici e danar non ha mai.[fonte 2] Chi va alla festa e non è invitato, ben gli sta se ne è scacciato.[fonte 4] Chi vien di raro, gli si fa festa.[fonte 8] Chi vince ha sempre ragione.[fonte 82] Chi vive in libertà non tenti il fato.[fonte 4] Chi vive sei giorni nell'oasi, il settimo anela il deserto.[fonte 8] Chi vivrà vedrà.[fonte 2] Chi vuol d'avena un granaio la semini di febbraio.[fonte 2] Chi vuol dell'acqua chiara vada alla fonte.[fonte 4] Chi vuol udir novelle, dal barbier si dicon belle.[fonte 8] Chi vuol esser libero, non metta il collo sotto il giogo.[fonte 8] Chi vuol essere pagato, non dev'essere ringraziato.[fonte 8] Chi vuol guarire deve soffrire.[fonte 4] Chi vuol impetrare, la vergogna ha da levare.[fonte 83] Chi vuol lavoro degno assai ferro e poco legno.[fonte 2] Chi vuol pane, meni letame.[fonte 84] Chi vuol presto impoverire, chieda prestito all'usuraio.[fonte 8] Chi vuol provar le pene dell'inferno, la stia in Puglia e all'Aquila d'inverno.[fonte 8] Chi vuol saper cos'è l'inferno faccia il cuoco d'estate e il carrettiere d'inverno.[fonte 8] Chi vuol un bel pagliaio lo pianti di febbraio.[fonte 8] Chi vuol vedere Pisa vada a Genova.[fonte 85] Chi vuole arricchire in un anno, è impiccato in sei mesi.[fonte 4] Chi vuole assai, non domandi poco.[fonte 86] Chi vuole essere amato, divenga amabile.[fonte 9] Chi vuole essere sicuro della sua farina, deve portare egli stesso il sacco al mulino.[fonte 4] Chi vuole i santi se li preghi.[fonte 1] Chi vuole la figlia accarezzi la madre.[fonte 4] Chi vuole vada e chi non vuole mandi.[fonte 1] Chiara notte di capodanno, dà slancio a un buon anno.[fonte 8] Chiodo scaccia chiodo.[fonte 2] Chiodo schiaccia chiodo.[fonte 9] Chitarra e schioppo fanno andare la casa a galoppo.[fonte 8] Ci vuole altro che un'accozzaglia di gente per fare un esercito.[fonte 4] Ci vuole ingegno per governare i pazzi.[fonte 4] Ciascuno è artefice della sua fortuna.[fonte 2][27] Ciascuno è artefice della propria fortuna.[fonte 2] Ciascuno porta il suo ingegno al mercato.[fonte 4] Cielo a pecorelle acqua a catinelle.[fonte 1] Ciò che è male per uno, è bene per un altro.[fonte 4] Ciò che lo stolto fa in fine, il savio fa in principio.[fonte 87] Ciò che non si può cambiare bisogna saperlo sopportare.[fonte 4] Col fuoco non si scherza.[fonte 1] Col latino, con un ronzino e con un fiorino si gira il mondo.[fonte 4] Col nulla non si fa nulla.[fonte 1] Col pane tutti i guai sono dolci.[fonte 1] Col tempo e con la paglia maturano le nespole.[28][fonte 2] Col tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia.[fonte 2] Colla sola lealtà, non si pagano i merletti della cuffia.[fonte 4] Come farai, così avrai.[fonte 4] Come i piedi portano il corpo, così la benevolenza porta l'anima.[fonte 4] Comincia, che Dio provvede al resto.[fonte 4] Compar di Puglia, l'un tiene e l'altro spoglia.[fonte 8] Comun servizio ingratitudine rende.[fonte 8] Con arte e con ingegno, si acquista mezzo regno; e con ingegno ed arte, si acquista l'altra parte.[fonte 4] Con gli anni crescono gli affanni.[fonte 8] Con i matti non ci son patti.[fonte 8] Con l'inchiostro, una mano può innalzare un furfante ed abbassare un galantuomo.[fonte 8] Con la pazienza la foglia di gelso diventa seta.[fonte 88] Con la pietra si prova l'oro, con l'oro la donna e con la donna l'uomo.[fonte 8] Con la più alta libertà, abita la più bassa servitù.[fonte 4] Con le buone maniere si ottiene tutto.[fonte 89] Con un bicchier di vino si fa un amico.[fonte 8] Con un occhio si frigge il pesce e con l'altro si guarda il gatto.[fonte 8] Conchiuder lega è facile, difficile il mantenerla.[fonte 4] Confidenza toglie riverenza.[fonte 4] Conserva le monete bianche per le giornate nere.[fonte 8] Contadini, scarpe grosse e cervelli fini.[fonte 1] Contano più i fatti che le parole.[fonte 90] Contro due donne neanche il diavolo può metterci il becco.[fonte 8] Contro due non la potrebbe Orlando.[fonte 91] Contro la forza la ragion non vale.[fonte 1] Contro la nebbia forza no vale.[fonte 4] Coricarsi presto, alzarsi presto, danno salute, ricchezza e sapienza.[fonte 8] Corpo satollo anima consolata.[fonte 1] Corpo sazio non crede a digiuno.[fonte 1] Cortesia schietta, domanda non aspetta.[fonte 92] Corre un pezzo la lepre, un pezzo il cane; così s'alternano le vicende umane.[fonte 8] Cosa fatta capo ha.[29][fonte 2] Cosa di rado veduta, più cara è tenuta.[fonte 8] Cosa rara, cosa cara.[fonte 8] Cucina grassa, magra eredità.[fonte 4] Cuor contento gran talento.[fonte 93] Cuor contento il ciel l'aiuta.[fonte 94] Cuor contento il ciel lo guarda.[fonte 2] Cuor contento non sente stento.[fonte 2] D D'aprile ogni goccia val mille lire.[fonte 2] D'aquila non nasce colomba.[fonte 4] Da colpa nasce colpa.[fonte 4] Da cosa nasce cosa.[fonte 95] Da falsa lingua, cattiva arringa.[fonte 8] Da Lodi, tutti passan volentieri.[fonte 8] Da un disordine nasce un ordine.[fonte 8] Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io.[fonte 2] Dàgli, dàgli, le cipolle diventano agli.[fonte 96] Riferito alle insidie che l'amore riserva alle virtù delle fanciulle. Dai giudici siciliani, vacci coi polli nelle mani.[fonte 8] Dall'asino non cercar lana.[fonte 4] Dall'opera si conosce il maestro.[fonte 4] Dall'immagine si conosce il pittore.[fonte 4] Dalla mano si riconosce l'artista.[fonte 4] Dal canto si conosce l'uccello.[fonte 4] Dal passato è facile predire il futuro.[fonte 4] Dalla casa si conosce il padrone.[fonte 4] Danaro e santità, metà della metà.[fonte 8] Denari e santità metà della metà.[fonte 97] Date a Cesare quel che è di Cesare.[30][fonte 2] Davanti al cameriere non vi è Eccellenza.[fonte 4] Davanti l'abisso e dietro i denti di un lupo.[fonte 4] Debole catena muover può gran peso.[fonte 8] Dei vizi è regina l'avarizia.[fonte 98] Del senno di poi son piene le fosse.[fonte 1] Delle calende non me ne curo purché a san Paolo non faccia scuro.[31][fonte 2] Detto senza fatto, ad ognuno pare un misfatto.[fonte 4] Di buone intenzioni è lastricato l'inferno.[fonte 99] Di chi è l'asino, lo pigli per la coda.[fonte 4] Di dolore non si muore, ma d'allegrezza sì.[fonte 8] Di maggio si dorme per assaggio.[32][fonte 2] Di malerba non si fa buon fieno.[fonte 4] Di notte si ritirano i galantuomini ed escono i birbanti.[fonte 8] Di quello che non ti interessa, non dire né bene né male.[fonte 4] Di tutte le arti maestro è l'amore.[fonte 8] Dice la serpe: non mi toccar che non ti tocco.[fonte 8] Dicembre favaio.[fonte 16] Dicono che è mercante anche chi perde, ma questo presto ridurrassi al verde.[fonte 100] Dieci ne pensa il topo e cento il gatto.[fonte 101] Dietro il monte c'è la china.[fonte 2] Dietro il riso viene il pianto.[fonte 8] Dimmi con chi vai, e ti dirò che fai.[fonte 73] Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei.[fonte 102] Dio aiuti il povero, perché il ricco può aiutar se stesso.[fonte 8] Dio dà la piaga e dà anche la medicina.[fonte 4] Dio guarisce e il medico è ringraziato.[fonte 4] Dio li fa e poi li accoppia.[fonte 1] Dio manda il freddo secondo i panni.[fonte 1] Dio mi guardi da chi studia un libro solo.[fonte 4] Dio misura il vento all'agnello tosato.[fonte 4] Dio vede e provvede.[fonte 2] Disse la volpe ai figli: "Quando a tordi, quando a grilli".[fonte 4] Dolore comunicato è subito scemato.[fonte 4] Domandando si va a Roma.[fonte 2] Domandare è lecito, rispondere è cortesia.[fonte 2] Donna al volante, pericolo costante.[fonte 103] Donna adorna, tardi esce e tardi torna.[fonte 8] Donna baffuta sempre piaciuta.[fonte 2] Donna barbuta, sempre piaciuta.[fonte 103] Donna barbuta coi sassi si saluta.[fonte 2] Donna bianca, poco gli manca.[fonte 8] Donna rossa coscia grossa.[fonte 8] Donna che canti dolcemente in scena, pei giovani inesperti è una sirena.[fonte 8] Donna che dona, di rado è buona.[fonte 8] Donna che piange, ovver che dolce canti, son due diversi, ambo possenti incanti.[fonte 8] Donna che sa il latino è rara cosa, ma guardati dal prenderla in isposa.[fonte 8] Donna e fuoco, toccali poco.[fonte 8] Donne e motori gioie e dolori.[fonte 104] Donna e vino ubriaca il grande e il piccolino.[fonte 8] Donna giovane e uomo anziano possono riempire la casa di figli.[fonte 8] Donna io conosco, ch'è una santa a messa e che in casa è un'orribil diavolessa.[fonte 8] Donna nana tutta tana.[fonte 2] Donna nobil per natura è un tesor cheonna savia e bella è preziosa ancsempre dura.[fonte 8] Donna pelosa, donna virtuosa.[fonte 2] Donna pregata nega, trascurata prega.[fonte 8] Donna prudente, gioia eccellente.[fonte 8] Dhe in gonnella.[fonte 8] Donna si lagna, donna si duole, donna s'ammala quando lo vuole.[fonte 8] Donne e sardine, son buone piccoline.[fonte 8] Donne, danno, fanno gli uomini e li disfanno.[fonte 8] Dopo desinare non camminare; dopo cena, con dolce lena.[fonte 4] Dopo e poi son parenti del mai.[fonte 2] Dopo il dolce vien l'amaro.[fonte 8] Dopo il fatto il consiglio non vale.[fonte 4] Dopo il fatto viene troppo tardi il pentimento.[fonte 4] Dopo il giorno vien la notte.[fonte 8] Dopo la grazia di Dio, la miglior cosa è la libertà.[fonte 8] Dopo la tempesta, il sole.[fonte 8] Dopo le fosche nuvole il sol splende più fulgido.[fonte 8] Dopo vendemmia, imbuto.[fonte 105] Non bisogna lasciarsi sfuggire le occasioni favorevoli, chi ha tempo non aspetti tempo. Dove c'è l'amore, la gamba trascina il piede.[fonte 8] Dove è castigo è disciplina, dove è pace è gioia.[fonte 4] Dove entra la fortuna, esce l'umiltà.[fonte 8] Dove l'accidia attecchisce ogni cosa deperisce.[fonte 4] Dove la fedeltà mette le radici, Dio fa crescere un albero.[fonte 4] Dove non c'è amore, non c'è umanità.[fonte 8] Dove non c'è fieno, i cavalli mangiano paglia.[fonte 8] Dove non c'è ordine, c'è disordine.[fonte 8] Dove non si crede né all'inferno né al paradiso, il diavolo intasca tutte le entrate.[fonte 8] Dove non vi è educazione, non vi è onore.[fonte 4] Dove non vi sono capelli, male si pettina.[fonte 4] Dove può il vino non può il silenzio.[fonte 8] Dove regna Bacco e Amore, Minerva non si lascia vedere.[fonte 4] Dove regna il vino, non regna il silenzio.[fonte 8] Dove son carogne son corvi.[fonte 8] Dove sono i pulcini, ivi è l'occhio della chioccia.[fonte 8] Dove vola il cuore, striscia la ragione.[fonte 8] Due cani che un solo osso hanno, difficilmente in pace stanno.[fonte 4] Due noci in un sacco e due donne in casa fanno un bel fracasso.[fonte 8] Due polente insieme non furon mai viste.[fonte 8] Dura più un carro rotto che uno nuovo.[fonte 4] Duro con duro non fa buon muro.[fonte 106] E È cattivo sparviero quel che non torna al richiamo.[fonte 8] È difficile far diventare bianco un moro.[fonte 4] È difficile guardarsi dai ladri di casa.[fonte 4] È difficile piegare un albero vecchio.[fonte 4] È difficile zoppicare bene davanti allo sciancato.[fonte 8] È facile lamentarsi quando c'è chi ascolta.[fonte 8] È impossibile come cavalcare un raggio di sole.[fonte 4] È impossibile volare senza ali.[fonte 4] È inutile piangere sul latte versato.[fonte 98] [truismo] È l'acqua che fa l'orto.[fonte 98] L'acqua fa l'orto.[fonte 98] È la donna che fa l'uomo.[fonte 57] È lieve astuzia ingannar gelosia, che tutto crede quando è in frenesia.[fonte 4] È meglio avere la cura di un sacco di pulci che una donna.[fonte 4] È meglio contentarsi che lamentarsi.[fonte 8] È meglio correggere i propri difetti, che riprendere quelli degli altri.[fonte 4] È meglio esser digiuno fuori, che satollo in prigione.[fonte 8] È meglio essere testa d'anguilla che coda di storione.[fonte 8] È meglio essere uccel di bosco, che uccel di gabbia.[fonte 8] È meglio essere umile a cavallo, che orgoglioso a piedi.[fonte 8] È meglio gelare nella nuda cameretta della verità, che crogiolarsi nella pelliccia della menzogna.[fonte 4] È meglio mangiarsi l'eredità, che conservarla per il convento.[fonte 4] È meglio meritar la lode che ottenerla.[fonte 4] È meglio sentir cantare l'usignolo, che rodere il topo.[fonte 8] È meglio testa di lucertola che coda di drago.[fonte 8] È meglio un esercito di cervi sotto il comando di un leone, che un esercito di leoni sotto il comando di un cervo.[fonte 4] È meglio un leone che mille mosche.[fonte 8] È più facile biasimare, che migliorare.[fonte 4] È più facile lagnarsi, che rimuovere gl'impedimenti.[fonte 8] È più facile prevenire una malattia che guarirla.[fonte 8] È più facile trovar dolce l'assenzio, che in mezzo a poche donne il silenzio.[fonte 8] È un bel predicare il digiuno a corpo pieno.[fonte 4] È una bella risposta quella che si attaglia ad ogni domanda.[fonte 8] Ebrei e rigattieri, spendono poco e gabbano volentieri.[fonte 4] Ecco il rimedio per l'ipocondria: mangiare e bere in buona compagnia.[fonte 8] Errare è umano, perseverare è diabolico.[fonte 107] Errare è umano, perseverare diabolico.[fonte 2] Sbagliare è umano, perseverare è diabolico.[fonte 108] Errore non è inganno.[fonte 4] Errore non paga debito.[fonte 4] Errore riconosciuto conduce alla verità.[fonte 4] Esser dotto poco vale, quando gli altri non lo sanno.[fonte 8] Èssere più torbo che non è l'acqua dei maccheroni.[fonte 8] F Fa quel che il prete dice, non quel che il prete fa.[fonte 1] Fa quello che fanno gli altri, e nessuno si farà beffe di te.[fonte 4] Faccia bella, anima bella.[fonte 4] Facile è criticare, difficile è l'arte.[33][fonte 109] Fare debiti non è vergogna, ma pagarli è questione d'onore.[fonte 4] Fare e disfare, è tutto un lavorare.[fonte 110] Fare l'amore fa bene all'amore.[fonte 111] Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.[fonte 8] Fatta la legge trovato l'inganno.[34][fonte 1] Fatti asino e tutti ti metteranno la soma.[fonte 4] Fatti di miele e ti mangieranno le mosche.[fonte 4] Fatti le ali e poi vola.[fonte 4] Febbraio, febbraietto mese corto e maledetto.[35][fonte 2] Felice non è, chi d'esserlo non sa.[fonte 64] Femmine e galline, se giran troppo si perdono.[fonte 8] Ferita d'amore non uccide.[fonte 8] Finché c'è vita c'è speranza.[fonte 1] Fino alla morte non si sa qual è la sorte.[fonte 8] Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.[fonte 1] Fidati dell'arte, ma non dell'artigiano.[fonte 4] Fino alla bara sempre s'impara.[fonte 112] Fortezza che parlamenta, è prossima ad arrendersi.[fonte 4] Fortuna cieca, i suoi acceca.[fonte 4] Fortuna instupidisce colui ch'ella favorisce.[fonte 4] Fortunato al gioco, sfortunato in amore.[fonte 4] Fra Modesto non fu mai priore.[fonte 8] Fra sepolto tesoro e occulta scienza, non vi conosco alcuna differenza.[fonte 8] Fra un usuraio e un assassino poco ci corre.[fonte 8] Frutto precoce facilmente si guasta. Fuggire l'acqua sotto la grondaia.[fonte 4] Funghi e poeti: per uno buono dieci cattivi.[fonte 8] G Gallina che non razzola ha già razzolato.[fonte 113] Gallina vecchia fa buon brodo.[fonte 114] Gallo senza cresta è un cappone, uomo senza barba è un minchione. Gatta inguantata non prese mai topo.[fonte 8] Gattini sventati, fanno gatti posati.[fonte 115] Gatto e donna in casa, cane e uomo fuori.[fonte 38] Gatto rinchiuso diventa leone.[fonte 8] Gatto scottato dall'acqua calda, ha paura della fredda.[fonte 4] Gelosia non mette ruga.  Gioco di mano gioco di villano.[fonte 1] Gioia e sciagura sempre non dura.[fonte 8] Giovani di buon cuore, indoli buone, crescono cattivi per poca educazione.[fonte 4] Giugno la falce in pugno.[36][fonte 2] Gli abiti e gli uomini presto invecchiano. Gli abiti e i costumi sono mutabili.[fonte 4] Gli abiti sono freddi, ma ricevono il calore da chi li porta.[fonte 4] Gli amori nuovi fanno dimenticare i vecchi.[fonte 4] Gli eredi dell'avaro sono onnipotenti, perché possono risuscitare i morti.[fonte 4] Gli eretici rubano la parola di Dio.[fonte 4] Gli errori degli altri sono i nostri migliori maestri.[fonte 4] Gli errori non si conoscono finché non siano commessi.[fonte 4] Gli errori si pagano.[fonte 8] Gli estremi si toccano.[fonte 4] Gli idoli separano papa e imperatore.[fonte 4] Gli occhi s'hanno a toccare con le gomita.[fonte 91] Gli stolti fanno le feste e gli accorti se le godono.[fonte 116] Gli uccelli dalle stesse piume devono stare nello stesso nido.[fonte 8] Gli uomini onesti non temono né la luce, né il buio.[fonte 8] Gobba a ponente luna crescente, gobba a levante luna calante.[fonte 2] Gola degli adulatori, sepolcro aperto.[fonte 117] Gotta inossota, mai fi sanata.[fonte 118] Gran giustizia, grande offesa.[fonte 4] Grande amore, gran dolore.[fonte 8] Greco in mare, Greco in tavola, Greco non aver a far seco.[fonte 74] Gru e donne fan volentieri il nido in alto.[fonte 8] Guardalo, figlia, guardalo tutto, l'uomo senza denari com'è brutto.[fonte 4] Guardare e non toccare è una cosa da imparare.[fonte 2] Guardati da chi accende il fuoco e grida poi contro le fiamme.[fonte 4] Guardati da cane rabbioso e da uomo sospettoso.[fonte 8] Guardati da chi giura in coscienza.[fonte 8] Guardati da chi non ha cura della sua reputazione.[fonte 8] Guardati da chi ride e guarda da un'altra parte.[fonte 8] Guardati da tre cose: da cavallo focoso, da uomo infido e da donna svergognata.[fonte 8] Guardati da tutte quelle cose che possono nuocere all'anima e al corpo.[fonte 8] Guardati dai fanciulli che ascoltano: anche i piccoli vasi hanno orecchie.[fonte 8] Guardati dai matti, dagli ubriachi, dagli ipocriti e dai minchioni.[fonte 8] Guardati dai tumulti, e non sarai né testimonio né parte.[fonte 8] Guardati dal diffamare, perché le prove sono difficili.[fonte 8] Guardati dal vecchio turco e dal giovane serbo.[fonte 119] Guardati dall'ipocrisia, perché è una cattiva malattia.[fonte 8] Guardati dalla primavera di gennaio.[fonte 8] Guardati in tua vita di non dare a niun smentita.[fonte 8] Guerra, peste e carestia, vanno sempre in compagnia.[fonte 120] H Ha cento volte un uomo flemma e giudizio, alla centuna corre al precipizio.[fonte 65] Ha bel mentir chi vien da lontano.[fonte 76] Ha la giustizia in mano bilancia e spada, perché il giusto s'innalza e l'empio cada.[fonte 4] Ha più il ricco in un angolo, che il povero in tutta la casa.[fonte 8] Ha un buon sapore l'odore del guadagno.[fonte 4] Ha un coraggio da leone, quello che non fa violenza ai deboli.[fonte 8] Ho veduto assai volte un piccol male non rispettato, divenir mortale.[fonte 65] I I baci sono come le ciliegie: uno tira l'altro.[fonte 2] I cani abbaiano come sono nutriti.[fonte 4] I capponi sono buoni in tutte le stagioni.[fonte 8] I cattivi esempi si imitano facilmente, meno i buoni.[fonte 4] I debiti sono gli eredi più prossimi.[fonte 4] I denari del lotto se ne van di galoppo.[fonte 8] I denari servono al povero di beneficio, ed all'avaro di gran supplizio.[fonte 4] I desideri non riempiono il sacco.[fonte 4] I docili non hanno bisogno della verga.[fonte 8] I doni dei nemici sono pericolosi.[fonte 4] I fanciulli diventano uomini e le ragazze spose.[fonte 4] I fanciulli e gli ubriachi cadono nelle mani di Dio.[fonte 4] I figli dei gatti mangiano i topi.[fonte 8] I figli sono la ricchezza dei poveri.[fonte 18] I figli sono pezzi di cuore.[fonte 2] I fiori tanto profumano per i poveri come per i ricchi.[fonte 8] I frati non s'inchinano all'abate, ma al mazzo delle sue chiavi.[fonte 4] I gamberi son buoni nei mesi della erre.[fonte 8] I gatti e i veri uomini cadono sempre in piedi.[fonte 121] I genii si incontrano.[fonte 4] I genitori amano i figli, più che i figli i genitori.[fonte 4] I genovesi risparmiano anche sui numeri: li usano due volte.[37][fonte 122] I giovani vogliono essere più accorti dei vecchi.[fonte 4] I giuramenti degli innamorati sono come quelli dei marinai.[fonte 4] I granchi son pieni quando la luna è tonda.[fonte 8] I guai della pentola li sa il mestolo che li rimescola.[fonte 8] I ladri grandi fanno impiccare i piccoli.[fonte 4] I loquaci e i vantatori son mal veduti da tutti.[fonte 8] I matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro.[fonte 8] I matti fanno le feste ed i savi le godono.[fonte 4] I medici vogliono essere vecchi, i farmacisti ricchi ed i barbieri giovani.[fonte 4] "I miei datteri sono più dolci", dice il vischio che cresce sulla palma.[fonte 8] [wellerismo] I panni sporchi si lavano in casa.[fonte 123] I paperi vogliono portare a bere le oche.[fonte 4] I parenti sono come le scarpe: più sono stretti, più fanno male.[fonte 2] I pazzi crescono senza innaffiarli.[fonte 8] I pazzi e i fanciulli possono dire quello che vogliono.[fonte 8] I pazzi per lettera sono i maggiori pazzi.[fonte 124] I pazzi si conoscono dai gesti.[fonte 8] I peccati di gioventù si piangono in vecchiaia.[fonte 8] I poeti nascono, e gli oratori si formano.[fonte 8] I poveri cercano il mangiare per lo stomaco; e i ricchi lo stomaco per mangiare.[fonte 8] I poveri hanno la salute e i ricchi le medicine.[fonte 8] I pulci di vendemmia li tiene l'uomo e non le femmine.[fonte 125] I ricchi devono consolare i poveri.[fonte 8] I rimproveri del padre fanno più che le legnate della madre.[fonte 8] I soldi non fanno la felicità.[fonte 2] I veri amici sono come le mosche bianche.[fonte 4] Il bel tempo non viene mai a noia.[fonte 9] Il ben di un anno se ne va in una bestemmia.[fonte 4] Il ben fare non è mai tardo.[fonte 4] Il bisognino fa trottar la vecchia.[fonte 2] Il bue dice cornuto all'asino.[fonte 126] Il bue mangia il fieno perché si ricorda che è stato erba.[fonte 2] Il buon ordine è figlio del disordine.[fonte 8] Il buon nocchiero muta vela, ma non tramontana.[fonte 8] Il caffè deve essere caldo come l'inferno, nero come il diavolo, puro come un angelo e dolce come l'amore.[38][fonte 127] Il caldo delle lenzuola non fa bollire la pentola.[fonte 128] Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.[fonte 8] Il cane è il miglior amico dell'uomo.[fonte 2] Il cane pauroso abbaia più forte.[fonte 4] Il cane rode l'osso perché non può inghiottirlo.[fonte 4] Il coccodrillo mangia l'uomo e poi lo piange.[fonte 8] Il colombo che rimane in colombaia è al sicuro dal falco.[fonte 8] Il colore più caro agli ebrei è il giallo.[fonte 4] Il coraggio copre l'eroe meglio che lo scudo il codardo.[fonte 8] Il corpo e l'anima ridono a chi si alza di buon mattino.[fonte 8] Il corvo piange la pecora e poi la mangia.[fonte 117] Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.[fonte 8] Il cuor magnanimo si piglia con poco amore, e il cuore dello stolto con poca adulazione.[fonte 8] Il cuore ha le sue ragioni e non intende ragione.[39][fonte 129] Il dare è onore, il chiedere è dolore.[fonte 8] Il delitto non si deve tollerare, ma anche meno si deve approvare.[fonte 4] Il denaro è il nervo della guerra.[fonte 4] Il denaro può molto, ma l'amore può tutto.[fonte 4] Il diavolo ben si lascia pigliare per la coda, ma non se la lascia strappare.[fonte 4] Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.[fonte 1] Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge.[fonte 130] Il diavolo vuol farsi cappuccino.[fonte 2] Il diavolo vuol farsi santo.[fonte 2] Il domandare è senno, il rispondere è obbligo.[fonte 8] Il dono del cattivo è simile al suo padrone.[fonte 56] Il dubbio è padre del sapere.[fonte 4] Il fare insegna a fare.[fonte 4] Il fatto non si può disfare.[fonte 4] Il ferro di cavallo che risuona, ha bisogno di un chiodo.[fonte 8] Il ferro è duro, ma il fuoco lo rende morbido.[fonte 4] Il figlio al padre s'assomiglia, alla madre la figlia.[fonte 4] Il filo sottile facilmente si strappa.[fonte 4] Il fuoco che non mi scalda, non voglio che mi scotti.[fonte 4] Il fuoco che non mi brucia, non lo spengo.[fonte 4] Il gatto ama i pesci, ma non vuole bagnarsi le zampe.[fonte 131] Il gatto brontola sempre, anche quando gode.[fonte 8] Il gatto che si è bruciato, ha paura anche dell'acqua fredda.[fonte 121] Il gatto è una tigre domestica.[fonte 8] Il gatto lecca oggi, domani graffia.[fonte 132] Il gatto non è gatto se non è ladro.[fonte 133] Il gatto non ti accarezza, si accarezza vicino a te.[fonte 134] Il generoso non ha mai abbastanza denaro.[fonte 4] Il gentiluomo chiede solo il miele, ma la gentildonna vuol anche la cera.[fonte 8] Il gioco è bello quando dura poco.[fonte 2] Il gioco, il lotto, la donna e il fuoco non si contentan mai di poco.[fonte 8] Il giudizio è opera di Dio.[fonte 4] Il grano rado non fa vergogna all'aia.[fonte 135] Il Greco dice la verità solo una volta all'anno.[fonte 4] Il lamentarsi non riempie camera vuota.[fonte 8] Il lavorare senza pregare, è una botte senza vino, e oro senza splendore.[fonte 4] Il lavoro nobilita l'uomo.[fonte 136] Il letto si chiama rosa, se non si dorme si riposa.[fonte 137] Il lotto è la tassa degli imbecilli.[fonte 8] Il lotto è un inganno continuo.[fonte 8] Il lupo non caca agnelli.[fonte 2] Il lupo perde il pelo ma non il vizio.[40][fonte 1] Il lupo quando acciuffa una pecora, ne guarda già un'altra.[fonte 4] Il magnanimo è superiore all'ingiuria, all'ingiustizia, al dolore.[fonte 8] Il magnanimo non ricorre all'astuzia.[fonte 8] Il male che non ha riparo è bene tenerlo nascosto.[fonte 4] Il male peggiore dei mali è il timore.[fonte 8] Il male viene in grandi quantità, e se ne va via a poco a poco.[fonte 4] Il matrimonio è la tomba dell'amore.[fonte 2] Il mattino ha l'oro in bocca.[fonte 138] Le ore del mattino hanno l'oro in bocca.[fonte 139] Il medico pietoso fa la piaga puzzolente.[fonte 140] Il medico pietoso fa la piaga verminosa.[fonte 140] Il meglio è nemico del bene.[fonte 1] Il merlo ingrassa in gabbia, il leone muore di rabbia.[fonte 8] Il miele non è fatto per gli asini.[fonte 4] Il miglior tiro ai dadi è non giocarli.[fonte 4] Il molto ringraziare significa chieder dell'altro.[fonte 8] Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.[fonte 8] Il mulino di Dio macina piano ma sottile.[fonte 141] Il nano è piccolo anche se è sul campanile.[fonte 8] Il passato deve essere maestro dell'oggi.[fonte 4] Il passato non deve prendere a prestito dall'oggi.[fonte 4] Il peggior passo è quello dell'uscio.[fonte 2] Il pesce puzza dalla testa.[fonte 1] Il Piemonte è la sepoltura dei francesi.[fonte 8] Il poeta ben trova le palme, ma non i datteri.[fonte 8] Il politico bacia con la bocca, e tira calci con i piedi.[fonte 8] Il Portogallo[41] è piccolo, ma è un pezzo di zucchero.[fonte 8] Il povero non può e il ricco non vuole.[fonte 8] Il prete, dove mangia, vi canta.[fonte 142] Il prete vien cantando e va via zufolando.[fonte 143] Il prete vive ancor un anno dopo morte.[fonte 142] I suoi familiari continuano ad incassar per un anno i suoi redditi.[42] Il primo amore non si arrugginisce.[fonte 8] Il primo amore non si scorda mai.[fonte 8] Il primo anno ci si abbraccia, il secondo si fascia, il terzo anno si ha la malattia e la cattiva Pasqua.[fonte 4] Il puledro non va all'ambio, se la cavalla trotta.[fonte 144] Il ramo assomiglia al tronco.[fonte 4] Il ricco ha tanto bisogno del povero, quanto il povero del ricco.[fonte 8] Il ricco vive, il povero vivacchia.[fonte 8] Il ringraziare non fa male alla bocca.[fonte 8] Il ringraziare non paga debito.[fonte 8] Il riso abbonda sulla bocca degli stolti.[fonte 2] Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi.[fonte 145] Il riso nasce nell'acqua ma deve morire nel vino.[fonte 8] Il sapere è di tutti.[fonte 2] Il «se» e il «ma» sono due corbellerie da Adamo in qua.[fonte 4] Il silenzio è d'oro e la parola d'argento.[fonte 1] Il sospirar non vale.[fonte 8] Il superfluo del ricco è il necessario del povero.[fonte 8] Il tatto è tattica.[fonte 8] Il tatto è tutto.[fonte 8] Il tempo è denaro.[fonte 146] Il tempo è un gran medico.[fonte 147] Il tempo scopre tutto, perché è galantuomo.[fonte 147] Il tempo vola.[fonte 147] Il termine della notte è l'inizio del giorno.[fonte 8] Il timore fa trottare anche lo zoppo.[fonte 8] Il troppo gestire è da pazzi.[fonte 8] Il troppo tirare, l'arco fa spezzare.[fonte 4] Il turco ben può divenir un dotto, ma un uomo giammai.[fonte 119] Il ventre non ha orecchie.[fonte 2] Il vero infermo è quello che non vuol esser guarito.[fonte 8] Il vino al sapore, il pane al colore.[fonte 8] Il vino è buono per chi lo sa bere.[fonte 8] Il vino è forte ma il sonno lo vince, ma più forte d'ogni cosa è la donna.[fonte 8] Il vino è il latte dei vecchi.[fonte 8] Il vino è mezzo vitto.[fonte 8] Il vino fa ballare i vecchi.[fonte 8] Il vino la mattina è piombo, a mezzodì argento, la sera oro.[fonte 8] Impara a vivere lo sciocco a sue spese, il savio a quelle altrui.[fonte 4] Impara l'arte e mettila da parte.[fonte 1] In amore e in guerra niente regole.[fonte 8] In bocca chiusa non entran mosche.[fonte 2] In Campania si inganna persino il diavolo.[fonte 8] In casa del calzolaio non si hanno scarpe.[fonte 4] In cento libbre di legge, non v'è un'oncia di amore.[fonte 148] In chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni.[fonte 1] In compagnia prese moglie un frate.[fonte 1] In febbraio la beccaccia fa il nido.[fonte 8] In Lazio si nasce coi sassi in mano.[fonte 8] In lunghi viaggi anche la paglia pesa.[fonte 8] In paradiso non ci si va in carrozza.[fonte 141] In Sardegna non vi son serpenti, né in Piemonte bestemmie.[fonte 8] In tanta incostanza e quantità delle cose umane, nulla, se non quello che è passato, è sicuro.[fonte 4] In terra di ciechi, beato chi ha un occhio.[fonte 36] In terra di ladri, la valigia dinanzi.[fonte 8] In vaso mal lavato, il vino è tosto guastato.[fonte 8] Ingegno e capelli, crescono soltanto con gli anni.[fonte 4] Insieme non vanno la pudicizia e la beltà.[fonte 4] Inventare è poco, diffondere l'invenzione è tutto.[fonte 4] L L'abbaiare dei cani non arriva in cielo.[fonte 4] L'abbondanza non lascia dormire il ricco.[fonte 4] L'abete che fa ombra crede di fare frutti.[fonte 4] L'abete cresce in altezza, ma la felce cresce in larghezza.[fonte 4] L'abito non fa il monaco.[43][fonte 2] L'abuso insegna il vero uso.[fonte 4] L'acqua cheta rovina i ponti.[fonte 2] L'acqua corre al mare.[fonte 149] L'acqua e il fuoco sono buoni servitori, ma cattivi padroni.[fonte 4] L'acqua fa male e il vino fa cantare.[fonte 8] L'acqua fa marcire i pali.[fonte 5] L'acqua fa venire i ranocchi in corpo.[fonte 150] L'acqua di maggio inganna il villano: par che non piova e si bagna il gabbano[44].[fonte 2] L'acqua non è fatta per sposarsi.[fonte 9] L'allegria dei cattivi dura poco.[fonte 8] L'allegria è di ogni male il rimedio universale.[fonte 4] L'allegria è il balsamo della vita.[fonte 8] L'allegria fa campare, la passione fa crepare.[fonte 8] L'allegria piace anche a Dio.[fonte 8] L'allegria scaccia ogni male.[fonte 8] L'allodola vola in alto, ma fa il suo nido in terra.[fonte 8] L'altezza è mezza bellezza.[45][fonte 2] L'ambizione e la vendetta muoiono sempre di fame.[fonte 4] L'ambizione è nemica della ragione.[fonte 4] L'amore di carnevale muore in quaresima.[fonte 8] L'amore è cieco.[fonte 2] L'amore è cieco, ma vede lontano.[fonte 8] L'amore fa passare il tempo e il tempo fa passare l'amore.[fonte 8] L'amore non è bello se non è litigarello.[fonte 103] L'amore non si misura a metri.[fonte 8] L'amore passa dentro la cruna di un ago.[fonte 8] L'amore quanto più è bestia, tanto più sublime.[fonte 32] L'amore scalda il cuore e l'ira fa il poeta.[fonte 8] L'amore senza baci è pane senza sale.[fonte 8] L'animo fa il nobile e non il sangue.[fonte 8] L'anno produce il raccolto, non il campo.[fonte 4] L'apparenza inganna.[fonte 1] L'appetito non vuol salsa.[fonte 151] L'appetito vien mangiando.[fonte 1] L'arancia la mattina è oro, il giorno argento, la sera è piombo.[fonte 2] Con riferimento a chi fa fatica a digerire le arance. L'arcobaleno la mattina bagna il becco della gallina; l'arcobaleno la sera buon tempo mena.[fonte 1] L'arte non ha maggior nemico dell'ignorante.[fonte 4] L'asino e il mulattiere non hanno lo stesso pensiero.[fonte 4] L'asino non conosce la coda, se non quando non l'ha più.[fonte 4] L'assai basta e il troppo guasta.[fonte 1] L'avaro in punto di morte rimpiange i soldi spesi per la bara.[fonte 8] L'avaro lascia eredi ridenti.[fonte 4] L'avaro non dorme.[fonte 4] L'avaro non vive, vegeta.[fonte 4] L'avversità che fiacca i cuori deboli, ingagliardisce le anime forti.[fonte 8] L'eccesso degli obblighi può fare perdere un amico.[fonte 4] L'eccesso della gioia divien tristezza, e l'eccesso del vino ubriachezza.[fonte 8] L'eccezione conferma la regola.[46][fonte 1] L'eclissi di sole avviene di giorno e non di notte.[fonte 4] L'edera taciturna si arrampica in cima alla quercia.[fonte 4] L'elefante non cura il morso delle pulci.[fonte 8] L'elemosina non fa impoverire.[fonte 4] L'eloquenza del cattivo è falso acume.[fonte 8] L'Epifania tutte le feste porta via.[47][fonte 1] L'erba del vicino è sempre più verde.[48][fonte 152] L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re.[fonte 2] L'erba che non voglio, cresce nell'orto.[fonte 4] L'erba non cresce sulla strada maestra.[fonte 4] L'eredità paterna ai paterni, la materna ai materni.[fonte 4] L'errore che si confessa è mezzo rimediato.[fonte 4] L'errore è un cocchiere che conduce sopra una falsa strada.[fonte 4] L'errore è umano, il perdono divino.[fonte 153] L'esercizio è buon maestro.[fonte 4] L'esperienza nel mondo conduce alla diffidenza, la diffidenza conduce al sospetto, il sospetto all'astuzia, l'astuzia alla malvagità e la malvagità a tutto.[fonte 4] L'esperienza senza il sapere è meglio che il sapere senza sapienza.[fonte 70] L'estate ce la porta sant'Urbano e l'autunno san Bartolomeo.[fonte 4] L'estate davanti e l'inverno dietro.[fonte 4] L'estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino.[49][fonte 2] L'estate per chi lavora, l'inverno per chi dorme.[fonte 4] L'estate è una schiava, l'inverno un padrone.[fonte 4] L'estate per il povero è migliore dell'inverno.[fonte 4] L'eternità è una compera lunga.[fonte 4] L'eternità non ha capelli grigi.[fonte 4] L'eterno parlatore né ode né impara.[fonte 4] L'idolo si adora finché non è infranto.[fonte 4] L'ignorante ha le ali di un'aquila e gli occhi di un gufo.[fonte 4] L'inchiostro è il mio campo, su cui posso scrivere valorosamente; la penna, il mio aratro; le parole, la mia semente.[fonte 8] L'inchiostro è nero, e tinge le dita e la reputazione.[fonte 8] L'inferno e i tribunali son sempre aperti.[fonte 4] L'ingegno viene con gli anni, e se ne va con gli anni.[fonte 4] L'ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.[fonte 8] L'ingratitudine è la mano sinistra dell'egoismo.[fonte 8] L'ingratitudine è un'amara radice da cui crescono amari frutti.[fonte 8] L'ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.[fonte 8] L'ingratitudine taglia i nervi al beneficio.[fonte 8] L'intelletto è nella testa e non negli anni.[fonte 4] L'intelletto non viene mai prima degli anni.[fonte 4] L'interesse acceca anche i galantuomini.[fonte 8] L'inverno al fuoco e l'estate all'ombra.[fonte 4] L'invidia è annessa alla felicità.[fonte 4] L'invidia è un gufo che non può sopportare la luce della prosperità degli altri.[fonte 4] L'invidia è una bestia che rode le proprie gambe, quando non ha altro da rodere.[fonte 4] L'invidia somiglia alla gramigna, che mai non muore, e da per tutto alligna.[fonte 4] L'ipocrisia intasca il denaro, e la verità va mendica.[fonte 4] L'ira senza forza, non vale una scorza.[fonte 4] L'ira turba la mente e acceca la ragione.[fonte 4] L'Italia è il paese dove corre latte e miele.[fonte 4] L'Italia è un paradiso abitato da demoni.[fonte 4] L'Italia per nascervi, la Francia per viverci e la Spagna per morirvi.[fonte 4] L'occasione fa l'uomo ladro.[fonte 1] L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.[fonte 1] L'oggi non deve calunniare il passato.[fonte 4] L'olivo benedetto vuol trovar pulito e netto.[50][fonte 2] L'ombra di un principe dev'essere la liberalità.[fonte 4] L'ordine caccia il disordine.[fonte 8] L'ordine è pane, il disordine è fame.[fonte 8] L'orgoglio crede che il suo uovo abbia due tuorli.[fonte 8] L'orgoglio è stoltezza, l'umiltà è saviezza.[fonte 8] L'orgoglio fa colazione con l'abbondanza, pranza con la povertà e cena con la vergogna.[fonte 154] L'orologio dell'amore ritarda sempre.[fonte 8] L'ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza.[fonte 2] L'ospite e il pesce dopo tre dì rincresce.[fonte 1] L'ozio è il padre di tutti i vizi.[fonte 1] L'ozio in gioventù non è la via della virtù.[fonte 4] L'uguaglianza e misurar tutti con la stessa spanna, è la legge della morte.[fonte 8] L'umiliarsi è da saggio, l'avvilirsi è da bestia.[fonte 8] L'umiliazione va dietro al superbo.[fonte 8] L'umiltà è il miglior modo di evitare l'umiliazione.[fonte 8] L'umiltà è la corona di tutte le virtù.[fonte 8] L'umiltà è la madre dell'onore.[fonte 8] L'umiltà è una virtù che adorna tanto la vecchiaia, quanto la gioventù.[fonte 8] L'umiltà ottiene spesso più dell'alterigia.[fonte 8] L'umiltà sta bene a tutti.[fonte 8] L'umiltà sta bene con la castità.[fonte 8] L'unione fa la forza.[fonte 1] L'uomo avaro e l'occhio sono insaziabili.[fonte 4] L'uomo deve tenere aperta la bocca a lungo prima che c'entri un colombo arrostito.[fonte 4] L'uomo fu creato per lavorare, come l'uccello per volare.[fonte 4] L'uomo ordisce e la fortuna tesse.[fonte 1] L'uomo politico accende una candela a Dio e un'altra al diavolo.[fonte 8] L'uomo per la parola e il bue per le corna.[fonte 1] L'uomo propone e Dio dispone.[fonte 1] L'uomo propone e la donna dispone.[fonte 2] L'uomo si conosce al bicchiere.[fonte 4] L'uomo si giudica male dall'aspetto.[fonte 4] L'usura arricchisce, ma non dura.[fonte 8] L'usura è il miglior apostolo del diavolo.[fonte 8] L'usura è la figlia primogenita dell'avarizia.[fonte 8] L'usura è un assassinio.[fonte 8] L'usura è vietata da Dio.[fonte 8] L'usura veglia quando l'uomo dorme.[fonte 8] L'usuraio arricchisce col sudor dei poveri.[fonte 8] L'usuraio ha un torchio a sangue.[fonte 8] L'usuraio ingrassa andando a spasso.[fonte 8] La bestemmia gira gira torna addosso a chi la tira.[fonte 4] La buona cantina fa il buon vino.[fonte 8] La buona mamma fa la buona figlia.[fonte 4] La buona sorte ogni vile cuore fa forte.[fonte 8] La calma è la virtù dei forti.[fonte 2] La capacità si vede nelle difficoltà.[fonte 4] La carestia è il pane dell'usuraio.[fonte 4] La carne migliore è quella intorno all'osso.[fonte 4] La carne senz'osso non fa brodo.[fonte 4] La carrucola non frulla, se non è unta.[fonte 4] La cattiva sorte porta spesso buona sorte.[fonte 8] La cicala prima canta e poi muore.[fonte 8] La coda è la più lunga da scorticare.[fonte 1] La comodità fa l'uomo cattivo.[fonte 8] La compassione è la figlia dell'amore.[fonte 4] La concordia rende forti i deboli.[fonte 8] La contentezza viene dalle budella.[fonte 1] La corda troppo tesa si spezza.[fonte 1] La cupidigia rompe il sacco.[fonte 4] La dieta ogni mal quieta.[fonte 155] La difficoltà sta nell'iniziare.[fonte 4] La diffidenza aguzza gli occhi. La diffidenza è la morte dell'amore.[fonte 4] La diffidenza porta più avanti della fiducia.[fonte 4] La donna a 15 anni scherza, a 20 brilla, a 25 ama, a 30 brama, a 35 sente, a 40 vuole e a 50 paga.[fonte 8] La donna bisogna praticarla un giorno, un mese e un'estate per sapere che odore sa.[fonte 8] La donna buona vale una corona.[fonte 8] La donna deve avere tre m: matrona in strada, modesta in chiesa, massaia in casa.[fonte 8] La donna e l'orto vogliono un sol padrone.[fonte 8] La donna ha più capricci che ricci.[fonte 8] La donna oziosa non può essere virtuosa.[fonte 8] La donna per piccola che sia, vince il diavolo in furberia.[fonte 8] La donna più sciocca vale due uomini.[fonte 8] La donna troppo in vista, è di facile conquista.[fonte 8] La fame caccia il lupo dal bosco.[fonte 1] La fame caccia il lupo dalla tana.[fonte 4] La fame spinge il lupo nel villaggio.[fonte 4] La fame condisce tutte le vivande.[fonte 4] La fame non vede la muffa nel pane.[fonte 4] La fame è cattiva consigliera.[fonte 1] La fame, gran maestra, anche le bestie addestra.[fonte 4] La fame muta le fave in mandorle.[fonte 4] La farina del diavolo va tutta in crusca.[fonte 1] La fedeltà non è mai rimeritata abbastanza, e l'infedeltà mai abbastanza.[fonte 4] La femmina è cosa mobile per natura.[fonte 4] La fine della passione è il principio del pentimento.[fonte 129] La fortuna aiuta gli audaci.[fonte 2] La fortuna del savio ha per figliola la modestia.[fonte 8] La fortuna è cieca.[fonte 2] La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo.[fonte 108] La fretta fa rompere la pentola.[fonte 8] La fretta è una cattiva consigliera.[fonte 108] La furia non fu mai buona.[fonte 4] La gallina del vicino sembra un fagiano.[fonte 152] La gatta frettolosa fece i gattini ciechi.[fonte 1] La gatta grassa fa onore alla casa.[fonte 121] La gatta, mette il piede davanti alla vacca.[fonte 156] La gatta non s'accosta alla pentola che bolle.[fonte 38] La gatta vorrebbe mangiar pesci, ma non pescare.[fonte 157] La gelosia della moglie è la via al suo divorzio.[fonte 4] La gelosia è il peggiore di tutti i mali.[fonte 4] La gelosia è una passione che cerca avidamente quel che tormenta.[fonte 4] La generosità è un muro che non si può alzare più alto di quello che arrivano i materiali.La gente ricca alleva male i suoi cani, e la gente povera i suoi figlioli. La gente savia non si cura di quel che non può avere.[fonte 87] La gioventù fugge, e la bellezza sfiorisce.[fonte 4] La gioventù vuol fare il suo corso.[fonte 4] La lealtà se ne è andata dal mondo e la dirittura si è messa a dormire.[fonte 4] La lega fa forte i deboli.[fonte 4] La liberalità è un muro che non si deve rizzare più alto di quello che comportino i materiali.[fonte 4] La liberalità non sta nel dare molto, ma saggiamente.[fonte 4] La libertà del povero è di lasciarlo mendicare.[fonte 4] La libertà è da Dio; le libertà, dal diavolo.[fonte 4] La libertà è più cara degli occhi e della vita.[fonte 4] La libertà fila con le sue mani il filo della sua tenda.[fonte 4] La lingua batte dove il dente duole.[fonte 1] La lingua non ha osso e sa rompere il dosso.[fonte 4] La lingua spagnola è la più amabile; quando il diavolo tentò Eva, le parlo in spagnolo.[fonte 8] La lode propria puzza, quella degli amici zoppica.[fonte 4] La luna di gennaio è la luna del vino.[fonte 2] La luna è bugiarda: quando fa la C diminuisce, e quando fa la D cresce[fonte 158] La luna non cura l'abbaiar dei cani.[fonte 2] La luna regge il lume ai ladri.[fonte 158] La luna, se non riscalda, illumina.[fonte 158] La Lombardia è il giardino del mondo.[fonte 8] La madre del peggio è sempre incinta.[fonte 159] La madre degli imbecilli è sempre incinta.[fonte 160] La madre dei fessi è sempre incinta.[fonte 160] La magnificenza spesso copre la povertà.[fonte 4] La mala erba non muore mai.[fonte 1] La mala nuova la porta il vento.[fonte 1] La malerba cresce presto.[fonte 2] La malinconia e le cure fanno invecchiare anzitempo.[fonte 4] La mercanzia rara è meglio che buona.[fonte 8] La miglior difesa è l'attacco.[fonte 1] La minestra lunga sa di fumo.[fonte 8] La modestia è il dattero che matura raramente sull'albero della ricchezza.[fonte 8] La modestia è madre d'ogni creanza.[fonte 8] La moglie è la chiave di casa.[fonte 8] La morte ci rende uguali nella sepoltura, disuguali nell'eternità.[fonte 8] La necessità aguzza l'ingegno.[fonte 2] La necessità fa più ladri che galantuomini.[fonte 8] La notte è fatta per gli allocchi.[fonte 8] La notte porta consiglio.[fonte 1] La novella non è bella, se non c'è la giuntarella.[fonte 8] La pancia del buongustaio è il cimitero dei cibi buoni.[fonte 8] La parola del ricco è simile al sole, e quella del povero è simile al vapore.[fonte 8] La pazienza è la virtù dei forti.[fonte 9] La pazienza è una buon'erba, ma non nasce in tutti gli orti.[fonte 88] La pecora che se ne va sola, il lupo la mangia.[fonte 91] La peggio ruota è quella che stride.[fonte 8] La peggior carne da conoscere è quella dell'uomo.[fonte 4] La penitenza corre dietro al peccato.[fonte 8] La pentola vuota è quella che suona.[fonte 8] La pianta si conosce dal frutto.[fonte 1] La pigrizia e l'impudicizia sono sorelle.[fonte 8] La pittura è una poesia tacita, e la poesia una pittura loquace.[fonte 8] La più bell'ora per il mangiare è quella in cui si ha fame.[fonte 8] La polenta è utile per quattro cose: serve da minestra, serve da pane, sazia e scalda le mani.[fonte 8] La povertà è priva di molte cose, l'avarizia è priva di tutto.[fonte 56] La prima acqua è quella che bagna.[fonte 1] La prima gallina che canta ha fatto l'uovo.[fonte 108] La prima eredità al primo figlio, l'ultima eredità all'ultimo figlio.[fonte 4] La provvidenza quel che toglie rende.[fonte 4] La pulce che esce di dietro l'orecchio con il diavolo si consiglia.[fonte 8] La puttana e la lattuga una stagione dura.[fonte 8] La rana è usa ai pantani, se non ci va oggi ci andrà domani.[fonte 8] La rana non morde, perché non ha denti.[fonte 8] La rana, o salta o piscia, ma mai non sbrana.[fonte 8] La razza comincia dalla bocca.[fonte 8] La roba dei pazzi è la prima ad andarsene.[fonte 8] La ruota della fortuna gira.[fonte 4] La ruota della fortuna non è sempre una.[fonte 4] La scorza fa bella la castagna.[fonte 4] La scimmia è sempre scimmia, anche vestita di seta.[fonte 8] La semplicità senza accortezza è pura pazzia.[fonte 8] La sera leoni e la mattina coglioni.[fonte 2] La sorte è come ognuno se la fa.[fonte 8] La speranza è cattivo denaro.[fonte 161] La speranza è il pane dei poveri.[fonte 2] La speranza è il patrimonio dei poveri.[fonte 2] La speranza è il sogno dell'uomo desto.[fonte 2] La speranza è l'ultima a morire.[fonte 2] La speranza è la miglior consolazione nella miseria.[fonte 161] La speranza è la miglior musica del dolore.[fonte 161] La speranza è la ricchezza dei poveri.[fonte 2] La speranza è sempre verde.[fonte 2] La speranza è un balsamo per i cuor piagati.[fonte 161] La speranza è un sogno nella veglia.[fonte 2] La speranza infonde coraggio anche al codardo.[fonte 161] La speranza ingrandisce, l'esperienza rimpicciolisce.[fonte 57] La superbia è figlia dell'ignoranza.[fonte 1] La superbia mostra l'ignoranza.[fonte 162] La superbia va a cavallo e torna a piedi.[fonte 1] La terra è madre di tutti gli uomini ed anche sepoltura.[fonte 8] La troppa umiltà vien dalla superbia.[fonte 8] La vanagloria è un fiore che mai non porta frutta.[fonte 163] La vera libertà è non servire al vizio.[fonte 4] La verità è nel vino.[fonte 8] La verità viene sempre a galla.[fonte 2] La veste copre gran difetti.[fonte 55] La via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni.[fonte 1] La vipera morta non morde seno, ma pure fa male coll'odor del veleno.[fonte 8] La virtù sta nel mezzo.[51][fonte 164] La vita è breve e l'arte è lunga.[52][fonte 55] La vita è già mezzo trascorsa anziché si sappia che cosa sia.[fonte 165] La volpe si conosce dalla coda.[fonte 4] Lamentarsi, supplicare e bere acqua è lecito a tutti.[fonte 8] Latte e vino, tossico fino.[fonte 8] Lavora come se avessi a campare ognora, adora come avessi a morire allora.[fonte 4] Lavoro non ingrassò mai bue.[fonte 4] Le allegrezze non durano.[fonte 8] Le belle penne rendono bello l'uccello.[fonte 4] Le bellezze durano fino alle porte, la bontà fino alla morte.[fonte 4] Le braccia e le mani del povero appartengono al ricco.[fonte 8] Le bugie hanno le gambe corte.[fonte 1] Le bugie sono lo scudo degli uomini dappoco.[fonte 4] Le chiacchiere non fanno farina.[fonte 1] Le colombe che rimangono in colombaia, sono sicure dal nibbio.[fonte 8] Le cose lunghe diventano serpi.[fonte 1] Le cose lunghe prendono vizio.[fonte 1] Le dita della mano sono disuguali.[fonte 8] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli.[fonte 4] Le donne hanno quattro malattie all'anno, e tre mesi dura ogni malanno.[fonte 8] Le bestie vanno trattate da bestie.[fonte 8] Le cattive nuove sono le prime ad arrivare.[fonte 8] Le cattive nuove volano.[fonte 1] Le chiavi ed i lucchetti non si fanno per le dita fidate.[fonte 8] Le disgrazie non vengono mai sole.[fonte 1] Le disgrazie sono come le ciliegie: una tira l'altra.[53] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli.[fonte 166] Le donne hanno sette anime... e mezza.[fonte 8] Le donne ne sanno una più del diavolo.[fonte 2] Le donne piglian bene le pulci.[fonte 8] Le lacrime sono le armi delle donne.[fonte 4] Le leghe e le corde fradice non durano a lungo.[fonte 4] Le malattie ci dicono quel che siamo.[fonte 88] Le montagne stanno ferme, gli uomini s'incontrano.[fonte 167] Le ore del mattino hanno l'oro in bocca.[fonte 1] Le parole sono femmine e i fatti sono maschi.[fonte 1] Le piante che fruttano troppo presto, si seccano.[fonte 8] Le querce non fanno limoni.[fonte 2] Le ragazze sono d'oro, le sposate d'argento, le vedove di rame e le vecchie di latta.[fonte 8] Le rane han perso la coda perché non seppero chiedere aiuto.[fonte 8] Le rose cascano, le spine restano.[fonte 168] Le teste di legno fan sempre del chiasso.[fonte 55] Le Trentine vengono giù pollastre e se ne vanno sù galline.[fonte 8] Le vie della provvidenza sono infinite.[fonte 1] Le vie del Signore sono infinite.[fonte 1] Leggi, rileggi e pondera.[fonte 8] Lingua cheta e fatti parlanti.[fonte 4] Lo sbadiglio non vuol mentire: o che ha sonno o che vorrebbe dormire, o che ha qualche cosa che non può dire.[fonte 8] Lo scarafaggio corre sempre allo sterco.[fonte 8] Lo scimunito parla col dito.[fonte 8] Lo scorpione dorme sotto ogni lastra.[fonte 8] Lo smargiasso ciancia in guerra, il valente combatte muto.[fonte 8] Loda il gran campo e il piccolo coltiva.[fonte 169] Loda il monte e tieniti al piano.[fonte 2] Loda il pazzo e fallo saltare, se non è pazzo lo farai diventare.[fonte 8] Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.[fonte 170] Lontan dagli occhi, lontan dal cuore.[fonte 2] Luna di grappoli a gennaio luna di racimoli a febbraio.[54][fonte 2] Lunga lingua, corta mano.[fonte 8] Lungo come la quaresima.[55][fonte 2] Luglio dal gran caldo, bevi bene e batti saldo.[fonte 16] Lungo digiuno caccia la fame.[fonte 4] Lupo non mangia lupo.[fonte 2] M Ma in premio d'amore amor si rende.[fonte 33] Maggio ortolano, molta paglia e poco grano.[fonte 16] Maggiore il santo, maggiore la sua umiltà.[fonte 8] Mai gli uomini sanno essere abbastanza riconoscenti verso gli inventori.[fonte 4] Mal comune mezzo gaudio.[fonte 2] Mal può rendere ragion del proprio fatto chi lardo o pesce lascia in guardia al gatto.[fonte 65] Mal si giudica il cavallo dalla sella.[fonte 3] Male che si vuole non duole.[fonte 9] Male ignoto si teme doppiamente.[fonte 8] Male non fare, paura non avere.[fonte 2] Male voluto non fu mai troppo.[fonte 57] Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.[fonte 8] Manca tanto la pazienza ai poveri, quanto la compassione ai ricchi.[fonte 8] Mangiar molto e far buona digestione, è un privilegio che han poche persone.[fonte 8] Mano dritta e bocca monda possono andare per tutto il mondo.[fonte 4] Marinaio genovese, mercante fiorentino.[fonte 8] Martello d'oro non rompe le porte del cielo.[fonte 47] Marzo è pazzo.[fonte 16] Marzo pazzerello guarda il sole e prendi l'ombrello.[fonte 2] Marzo molle, gran per le zolle.[fonte 16] Mazza e pane fanno i figli belli; pane senza mazza fa i figli pazzi.[fonte 171] Medico vecchio e chirurgo giovane.[fonte 172] Medico vecchio e medicina nuova.[fonte 2] Chirurgo giovane e medico anziano.[56] Mediocre bestiame ben pasciuto è di maggior vantaggio che molto bestiame mal mantenuto.[fonte 173] Meglio andare a letto senza cena, che alzarsi con debiti.[fonte 4] Meglio aperto rimprovero, che odio segreto.[fonte 8] Meglio dietro agli uccelli, che dietro ai signori.[fonte 8] Meglio essere ben educato, che nascere nobile.[fonte 4] Meglio essere invidiati che compatiti.[fonte 174] Meglio fare la serva in casa propria, che la padrona in casa altrui.[fonte 4] Meglio fave in libertà, che capponi in schiavitù.[fonte 8] Meglio fringuello in man che tordo in frasca.[fonte 2] Meglio fringuello in tasca che tordo in frasca.[fonte 2] Meglio il marito senz'amore, che con gelosia.[fonte 75] Meglio l'uovo oggi che la gallina domani.[fonte 1] Meglio mangiar carote in pace che molte pietanze in disunione.[fonte 8] Meglio mendicante che ignorante.[fonte 124] Meglio pane con amore, che gallina con dolore.[fonte 4] Meglio poco che niente.[fonte 1] Meglio soli che male accompagnati.[fonte 1] Meglio tardi che mai.[fonte 1] Meglio un asino vivo che un dottore morto.[fonte 1] Meglio un fiorino guadagnato, che cento ereditati.[fonte 4] Meglio un magro accordo che una grassa sentenza.[fonte 2] Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio.[fonte 2] Meglio una festa che cento festicciole.[fonte 1] Meglio una volta arrossire che mille impallidire.[fonte 8] Meglio vivere ben che vivere a lungo.[fonte 64] Meno siamo meglio stiamo.[fonte 57] Mente lieta, vita quieta e moderata dieta.[fonte 2] Merito non conosciuto poco vale.[fonte 8] Milan può far, Milan può dir, ma non può far dell'acqua vin.[fonte 8] Mille errori sono più facilmente pronunciati che una verità.[fonte 4] Moglie e buoi dei paesi tuoi.[fonte 1] Donne e buoi dei paesi tuoi.[fonte 2] Mogli che non contraddicono e galline che facciano le uova d'oro, sono uccelli rari.[fonte 8] Moglie maglio.[fonte 1] Molte cose si giudicano impossibili a farsi prima che siano fatte. Molte mani fanno l'opera leggera. Molte paglie unite possono legare un elefante.[fonte 8] Molte volte la belleza più adorabile si unisce alla stupidaggine più insopportabile. Molte volte si perde per negligenza quello che si è guadagnato con giustizia.[fonte 4] Molti hanno buone carte in mano, ma non le sanno giocare.[fonte 4] Molti inventano oro con la bocca ed hanno piombo alle mani e ai piedi.[fonte 4] Molti parlano d'Orlando anche se non videro mai il suo brando.[fonte 8] Molti sfuggono alla pena, ma non ai rimorsi della coscienza.[fonte 8] Molti si immaginano di avere il pulcino, che non hanno ancora l'uovo.[fonte 4] Molti si lamentano del buon tempo.[fonte 8] Molti sono i verseggiatori, pochi i poeti.[fonte 8] Molti squartano un gatto e giurano che era un leone.[fonte 8] Molti voti fanno l'abate.[fonte 4] Molto denaro, molti amici.[fonte 4] Molto fumo e poco arrosto.[fonte 1] Molto può nuocere una piccola negligenza.[fonte 8] Morire di fame in una madia di pane.[fonte 4] Morta la serpe, spento il veleno.[fonte 8] Morto un papa se ne fa un altro.[fonte 1] Mulo buon mulo, ma cattiva bestia.[fonte 8] Muore il ricco, gli fanno il funerale; muore il povero, nessuno gli dice: vale.[fonte 8] Muove la coda il cane non per te, ma per il pane.[fonte 4] N Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Né col capretto né con l'agnello, si adopera il coltello.[fonte 8] Né di venere, né di marte non si sposa né si parte, né si dà principio all'arte.[fonte 2] Né donna né tela al lume di candela.[fonte 8] Ne uccide più la lingua che la spada.[fonte 2] Ne uccide più la gola che la spada.[fonte 2] Necessità fa legge e tribunale.[fonte 2] Negli ordini pari, i pareri sono dispari.[fonte 8] Nel bere e nel camminare si conoscono le donne.[fonte 8] Nel bosco tagliato non ci stanno assassini.[fonte 8] Nel dubbio astieniti.[fonte 2] Nel monte di Brianza, senza vin non si danza.[fonte 8] Nel paese degli zoppi, zoppicar non è vergogna.[fonte 8] Nel regno dei ciechi anche un orbo è re.[fonte 175] Nel regno dei ciechi anche un guercio è re.[fonte 175] Nel regno di Dio, poveri e ricchi sono uguali.[fonte 8] Nell'autunno non bisogna più sognare di rose e tulipani.[fonte 4] Nell'estate si deve pensare all'inverno, e nella gioventù alla vecchiaia.[fonte 4] Nell'eternità si arriva sempre in tempo. Nell'inverno il pazzo sogna rose, e nell'estate il savio le raccoglie.[fonte 4] Nella botte piccola c'è il buon vino.[fonte 8] Nella felicità ragione, nell'infelicità pazienza.[fonte 8] Nella gotta, il medico non vede gotta.[fonte 176] Nelle sventure si conosce l'amico.[fonte 1] Nessuna corona è più bella di quella dell'umiltà.[fonte 8] Nessuna fortezza è così salda che non si lasci conquistare dall'oro.[fonte 4] Nessuna ingiustizia rimane impunita.[fonte 4] Nessuna mela è così bella che non abbia qualche difetto.[fonte 4] Nessuna nuova, buona nuova. Nessuno è profeta in patria. Nessuno può dare quello che non ha.[fonte 4] Nessuno può difendersi dalla beffa.[fonte 4] Ne uccide più Bacco che Marte.[fonte 4] Neve di Dicembre dura fin che dura la brina.[fonte 8] Niente è più bello di una faccia allegra.[fonte 8] Niuna guardia è migliore di quella che una donna fa a se stessa.[fonte 4] Non accettare i rimproveri o consigli da chi educare non seppe i propri figli.[fonte 4] Non aspettar che l'abete porti pomi.[fonte 4] Non basta esser galantuomo, bisogna anche esser conosciuto per tale.[fonte 8] Non bisogna fare il diavolo più nero di quello che è.[fonte 8] Non bisogna fasciarsi il capo prima di romperselo.[fonte 8] Non bisogna mai usare due pesi e due misure.[fonte 8] Non bisogna scuotere l'orzo dal sacco prima di avere il frumento.[fonte 8] Non c'è alcuno così povero che non possa aiutare, né alcuno così ricco che non abbia bisogno d'aiuto.[fonte 8] Non c'è cosa più triste sulla terra dell'uomo ingrato.Non si muove foglia che Dio non voglia. Non c'è affanno senza danno.[fonte 4] Non c'è Carnevale senza luna di febbraio.[fonte 2] Non c'è due senza tre.[fonte 1] Non c'è due senza tre e il quarto vien da sé.[fonte 2] Non c'è cosa così cattiva che non sia buona a qualche cosa.[fonte 4] Non c'è eretico che non abbia la sua credenza.[fonte 4] Non c'è fumo senza arrosto.[fonte 1] Non c'è gallina né gallinaccia che di gennaio l'uova non faccia.[fonte 2] Non c'è intoppo per avere, più che chiedere e temere.[fonte 178] Non c'è male senza bene.[fonte 4] Non c'è miglior cieco di quello che non vuole vedere.[fonte 4] Non c'è pane senza pena.[fonte 1] Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.[fonte 2] Non c'è regola senza eccezioni.[fonte 1] Non c'è rosa senza spine.Non cade foglia che Dio non voglia.[fonte 1] Non ci fu mai frettoloso che non fosse pazzo.[fonte 8] Non ci rimane nessuna vigna da vendemmiare, e né meno nessuna donna da maritare.[fonte 179] Non credere a donna, quand'anche sia morta.[fonte 4] Non destare il can che dorme.[fonte 1] Non dire quattro se non l'hai nel sacco.[fonte 2] Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco.[fonte 180] Non è arte il giocare, ma lo smettere.[fonte 4] Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.[fonte 181] Non è bene esser poeta nel villaggio.[fonte 8] Non è bene riporre denaro in una cassa di cui non si ha la chiave.[fonte 4] Non è col dire "miel, miel," che la dolcezza viene in bocca.[fonte 117] Non è contento quel che si lamenta.[fonte 8] Non è in nessun luogo chi è in ogni luogo.[fonte 4] Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di pazzia.[fonte 8] Non è povero, se non chi si crede tale.[fonte 8] Non è sempre savio chi non sa esser qualche volta pazzo.[fonte 8] Non è sì tristo cane, che non meni la coda.[fonte 182] Non è tutto oro quel che luccica.[fonte 183] Non è tutto oro quel che riluce.[fonte 183] Non esiste amore senza gelosia.[fonte 8] Non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone.[fonte 8] Non facendo niente, più pena si sente.[fonte 4] Non far mai bene, non avrai mai male.[fonte 8] Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.[58][fonte 2] Non fare il male ch'è peccato, non fare il bene ch'è sprecato.[fonte 1] Non fare il passo più lungo della gamba.[fonte 2] Non gira il corvo che non sia vicina la carogna.[fonte 8] Non lodare il bel giorno prima di sera.[fonte 4] Non mettere il carro davanti ai buoi.[fonte 184] Non mettere il rasoio in mano a un pazzo.[fonte 8] Non mettere un rasoio in mano a un pazzo.[fonte 185] Non mi morse mai scorpione, ch'io non mi medicassi col suo olio.[fonte 8] Non nominar la corda in casa dell'impiccato.[fonte 1] Non ogni abisso ha un parapetto.[fonte 4] Non ogni lettera va alla posta, non ogni domanda vuole risposta.[fonte 8] Non pensa il cuore quel che dice la bocca.[fonte 4] Non perde il cervello se non chi l'ha.[fonte 8] Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi.[fonte 1] Non sempre va d'accordo la campana dell'orologio con la meridiana.[fonte 8] Non serve dire «Di tal acqua non berrò».[fonte 4] Non si campa d'aria.[fonte 4] Non si comincia bene se non dal cielo.[fonte 4] Non si dà fumo senza fuoco.[fonte 4] Non si entra in Paradiso a dispetto dei Santi.[fonte 1] Non si fa niente per niente.[fonte 1] Non si fan nozze coi fichi secchi.[fonte 186] Non si finisce mai di imparare.[fonte 4] Non si insegna a nuotare ai pesci.[fonte 4] Non si legge mai libro senza imparare qualcosa.[fonte 4] Non si possono cavar le castagne dal fuoco colla zampa del gatto.[fonte 187] Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.[fonte 1] Non si può bere e fischiare.[fonte 77] Non si sa mai per chi si lavora.[fonte 4] Non si sta mai tanto bene che non si possa star meglio, né tanto male che non si possa star meglio.[fonte 8] Non sono cacciatori tutti quelli che portano il fucile.[fonte 4] Non sono uguali tutti i giorni.[fonte 4] Non ti far povero a chi non ha da farti ricco.[fonte 8] Non ti fidar d'un tratto, di grazia o di bontà.[fonte 8] Non ti vantar farfalla, tuo padre era un bruco.[fonte 8] Non tutte le ciambelle riescono col buco.[fonte 1] Non tutte le lacrime vengono dal cuor.[fonte 4] Non tutti i matti rompono i piatti.[fonte 8] Non tutti i pazzi stanno al manicomio.[fonte 8] Non tutti possiamo abitare in piazza.[fonte 8] Non tutti sono ammalati quelli che sono in letto.[fonte 8] Non tutti sono infelici come credono.[fonte 8] Non tutti sono infermi quelli che gridano ahi![fonte 8] Non tutti vedono la serpe che sta nascosta sotto l'erba.[fonte 4] Non tutto il male vien per nuocere.[fonte 2] Non v'è mai tanta pace in convento, come quando i frati portano tonache uguali.[fonte 8] Non vi è donna senza amore.[fonte 8] Non vi è inganno che non si vinca con l'inganno.[fonte 4] Non vi è lino senza resca, né donna senza pecca.[fonte 4] Non vi è nulla che ricercando non si possa penetrare.[fonte 4] Non vi è peggior burla che la vera.[fonte 4] Non vi fu mai gatta che non corresse ai topi.[fonte 8] Non vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.[fonte 1] Non vo' dormire né fare la guardia.[fonte 4] Notte, amore e vino fanno spesso l'uomo meschino.[fonte 8] Novembre vinaio.[fonte 16] Nulla è così buono che a lungo andare non venga a noia.[fonte 8] Nuovo padrone, nuova legge.[fonte 58] Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.[fonte 8] Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.[fonte 8] O O taci, o di' cosa migliore del silenzio.[59][fonte 8] Occhio che piange cuore che duole.[fonte 2] Occhio che piange cuore che sente.[fonte 2] Occhio non vede, cuore non duole.[fonte 2] Occhio per occhio, dente per dente.[60][fonte 2] Olio di lucerna ogni mal governa.[fonte 2] Oggi a me domani a te.[fonte 2] Oggi allegria, domani malinconia.[fonte 8] Oggi creditore, domani debitore.[fonte 8] Oggi fresco e forte, domani nella morte.[fonte 8] Oggi in figura, domani in sepoltura.[fonte 8] Oggi in pace, domani in guerra.[fonte 8] Oggi mercante, domani mendicante.[fonte 8] Oggi pioggia e doman vento, tutto cambia in un momento.[fonte 8] Ogni Abele ha il suo Caino.[fonte 4] Ogni animale per non morir s'aiuta.[fonte 188] Ogni bel gioco dura poco.[fonte 1] Ogni bella scarpa diventa ciabatta, ogni bella donna diventa nonna.[fonte 8] Ogni bene infine svanisce, ma la fama non perisce.[fonte 4] Ogni cosa ch'è rara, suol essere più cara.[fonte 8] Ogni disuguaglianza, l'amore uguaglia.[fonte 4] Ogni erba si conosce dal seme.[fonte 4] Ogni fatica merita ricompensa.[fonte 4] Ogni gatta ha il suo febbraio.[fonte 8] Ogni giorno non è festa.[fonte 4] Ogni giorno non si fanno nozze.[fonte 4] Ogni grillo si crede cavallo.[fonte 8] Ogni lasciata è persa.[fonte 1] Ogni legno ha il suo tarlo.[fonte 1] Ogni lucciola non è un fuoco.[fonte 8] Ogni lumaca vede le corna delle altre.[fonte 189] Ogni matto fa il suo atto.[fonte 8] Ogni medaglia ha il suo rovescio.[fonte 1] Ogni pazzo vuol dar consiglio.[fonte 8] Ogni pelo ha la sua ombra.[fonte 4] Ogni popolo ha il governo che si merita.[fonte 190] Ogni promessa è debito.[fonte 1] Ogni rana si crede gran dama.[fonte 8] Ogni rana si crede una Diana.[fonte 8] Ogni scimmia trova belli i suoi scimmiotti.[fonte 8] Ogni serpe ha il suo veleno.[fonte 8] Ogni simile ama il suo simile.[fonte 1] Ogni uccello fa il suo verso.[fonte 8] Ogni uccello canta il suo verso.[fonte 191] Ognun patisce del suo mestiere.[fonte 192] Ognuno trascura per sé i godimenti dell'arte sua, quasi venutigli a noia perché ci ha guardato dentro: il cuoco non è mai ghiotto, il calzolaio va colle scarpe rotte. Ognun per sé e Dio per tutti.[fonte 1] Ognun vede le proprie oche come cigni.[fonte 8] Ognuno all'arte sua e il lupo alle pecore.[fonte 2] Ognuno ama sentirsi lodare.[fonte 4] Ognuno che ha un gran coltello, non è un boia.[fonte 4] Ognuno fa degli errori.[fonte 4] Ognuno faccia il suo mestiere.[fonte 2] Ognuno ha i suoi gusti.[fonte 193] Ognuno ha il suo affanno.[fonte 8] Ognuno ha la sua croce.[fonte 1] Ognuno tira l'acqua al suo mulino.[fonte 2] Orto, uomo morto.[fonte 169] Orzo e paglia fanno il caval da battaglia.[fonte 8] Ospite raro ospite caro.[fonte 1] Ottobre mostaio.[fonte 16] P Paese che vai usanza che trovi.[fonte 1] Paga il giusto per il peccatore.[fonte 1] Pancia affamata, vita disperata.[fonte 4] Pancia piena non crede a digiuno.[fonte 1] Pancia vuota non sente ragioni.[fonte 1] Parla all'amico come se ti avesse a diventar nemico.[fonte 8] Pane finché dura, vino con misura.[fonte 194] Parenti, amici, pioggia, dopo tre giorni vengono a noia.[fonte 8] Parenti serpenti.[fonte 1] Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli.[fonte 2] Parere e non essere è come filare e non tessere.[fonte 2] Parlare francese come una vacca spagnola.[fonte 4] Passata la festa gabbato lo santo.[fonte 1] Passato il fiume scordato il santo.[fonte 4] Patti chiari, amici cari.[fonte 2] Patti chiari amicizia lunga.[fonte 2] Pazzi e buffoni hanno pari libertà.[fonte 8] Pazzo è colui che bada ai fatti altrui.[fonte 8] Pazzo è quel prete che biasima le sue reliquie.[fonte 195] Pazzo per natura, savio per scrittura.[fonte 8] Peccati vecchi, penitenza nuova.[fonte 8] Peccato celato è mezzo perdonato.[61][fonte 196] Peccato confessato è mezzo perdonato.[fonte 8] Per amore anche una donna onesta, può perdere la testa.[fonte 8] Per chi vuol esser libero, non c'è catena che tenga.[fonte 8] Per essere amabili, bisogna amare.[fonte 9] Per fare l'elemosina non manca mai la borsa.[fonte 4] Per il galantuomo non ci sono leggi.[fonte 8] Per il saggio le lacrime delle donne sono come gocce salate.[fonte 4] Per imparare qualche cosa, non è mai troppo tardi.[fonte 4] Per l'abbondanza del cuore la bocca parla.[fonte 4] Per l'oro, l'abate vende il convento.[fonte 4] Per la santa Candelora[62] dell'inverno siamo fora, ma se piove o tira vento, dell'inverno siamo dentro.[fonte 2] Per la santa Candelora se tempesta o se gragnola dell'inverno siamo fora; ma se è sole o solicello siamo solo a mezzo inverno.[fonte 2] Per natura tutti gli uomini sono simili; per l'educazione diventano interamente diversi.[fonte 4] Per ogni civetta che si sente cantare sul tetto, non bisogna metter lutto.[fonte 8] Per quanto alletti la bellezza di un fiore, nessuno lo coglie se ha cattivo odore.[fonte 4] Per san Lorenzo la noce è fatta.[fonte 2] Per San Lorenzo la noce si spacca nel mezzo.[fonte 197] Per san Lorenzo piove dal cielo carbone ardente.[fonte 2] Per Santa Caterina [25 novembre], le bestie fuori dalla cascina.[fonte 198] Per trovare ingiustizie non occorrono lanterne.[fonte 4] Per un chiodo si perde un ferro, e per un ferro un cavallo.[fonte 8] Per un punto Martin perse la cappa.[63][fonte 2] Per una scopa formano un mercato tre donne e assordan tutto il vicinato.[fonte 8] Perde le lacrime chi piange davanti al giudice.[fonte 4] Perdona a tutti, ma non a te.[fonte 199] Perdonare è da uomini, scordare è da bestie.[fonte 199] Pesce che va all'amo, cerca d'esser gramo.[fonte 8] Pianta a cui spesso si muta luogo, non prende vigore.[fonte 4] Piccola fiamma non fa gran luce.[fonte 8] Piccola pietra rovesciar può il carro.[fonte 8] Piccola scintilla può bruciar la villa.[fonte 8] Piccole ruote portano gran pesi.[fonte 8] Piccolo ago scioglie stretto nodo.[fonte 8] Piglia il bene quando viene, ed il male quando conviene.[fonte 8] Piove sempre sul bagnato.[fonte 2] Pisa, pesa per chi posa.[fonte 8] Più alta la condizione, più si deve essere umili.[fonte 8] Più briccone, più fortunato.[fonte 4] Più il fiume è profondo, più scorre il silenzio.[fonte 4] Più si chiacchiera, meno si ama.[fonte 8] Piuttosto un asino che porti, che un cavallo che butti in terra.[fonte 87] Poca brigata vita beata.[fonte 1] Poeta si nasce, oratori si diventa.[fonte 200] Poeti e Santi campano tutti quanti.[fonte 201] Poeti, pittori e pellegrini a fare e a dire sono indovini.[fonte 8] Polenta e latte bollito, in quattro salti è digerito.[fonte 8] Portare frasconi a Vallombrosa.[fonte 4] Prendi la bruna per amante e la bionda per moglie.[fonte 8] Preghiera di gatto e brontolio di pulce non arrivano in cielo.[fonte 131] Preghiera umile entra in cielo.[fonte 8] Presto e bene, raro avviene.[fonte 8] Prete spretato e cavolo riscaldato, non fu mai buono.[64] Prevedere per provvedere e prevenire.[fonte 202] Prima della morte non chiamare nessuno felice.[fonte 4] Prima di ammogliarsi bisogna fare il nido.[fonte 4] Prima di andare alla pesca esamina ben bene la tua rete.[fonte 8] Prima di domandare, pensa alla risposta.[fonte 203] Prima lusingare e poi graffiare, è arte dei gatti.[fonte 8] Prodigo e bevitor di vino, non fa né forno né mulino.[fonte 8] Pugliesi, cento per forca e un per paese.[fonte 8] Puoi ben drizzare il tenero virgulto, non l'albero già fatto adulto.[fonte 4] Putto in vino e donna in latino non fecero mai buon fine.[fonte 4] Q Qual proposta tal risposta.[fonte 1] Qualche intervallo il pazzo ha di saviezza, qualche intervallo il savio ha di stoltezza.[fonte 8] Qualche volta anche Omero sonnecchia.[fonte 204] Quale uccello, tale il nido.[fonte 205] Quand'anche si trapiantassero in paradiso, i cardi non porterebbero mai rose.[fonte 8] Quando arriva la gloria svanisce la memoria.[fonte 2] Quando c'è l'esercito, si trova anche il generale.[fonte 4] Quando c'è la salute c'è tutto.[fonte 57] Quando canta la rana, la pioggia non è lontana.[fonte 8] Quando ci sono molti galli a cantare non si fa mai giorno.[fonte 16] Quando è alta la passione, è bassa la ragione.[fonte 206] Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.[fonte 8] Quando fischia l'orecchio dritto, il cuore è afflitto; quando il manco, il cuore è franco.[fonte 8] Quando gli eretici si accapigliano, la chiesa ha pace.[fonte 4] Quando il colombo ha il gozzo pieno, le vecce gli sembrano amare.[fonte 8] Quando il culo è avvezzo al peto non si può tenerlo cheto.[fonte 2] Quando il fanciullo è satollo anche il miele non ha più gusto.[fonte 4] Quando il fanciullo ha sette anni, la ragione spunta in lui.[fonte 207] Quando il gatto lecca il pelo viene acqua giù dal cielo.[fonte 38] Quando il gatto non c'è i topi ballano.[fonte 1] Quando il gatto non può arrivare al lardo dice che è rancido.[fonte 8] Quando il gatto si lecca e si sfrega le orecchie con la zampina, pioverà prima che sia mattina.[fonte 8] Quando il gozzo è pieno, le ciliegie sono acerbe.[fonte 8] Quando il grano ricasca, il contadino si rizza.[fonte 57] Quando il grano va a male, bisogna ringraziare Dio per la paglia.[fonte 8] Quando il lardo è divorato, poco val cacciare il gatto.[fonte 8] Quando il mandorlo non frutta, la semente ci va tutta.[fonte 8] Quando il padrone zoppica, il servo non va diritto.[fonte 8] Quando il sole splende, non ti curar della luna.[fonte 8] Quando il tempo è chiaro in autunno, vento nell'inverno.[fonte 4] Quando in autunno sono grassi i tassi e le lepri, l'inverno è rigoroso.[fonte 4] Quando l'amore è a pezzi non c'è alcuna colla che lo riappiccichi.[fonte 8] Quando l'angelo diventa diavolo, non c'è peggior diavolo.[fonte 4] Quando l'avaro muore, il danaro respira.[fonte 4] Quando l'Italia suona la chitarra, la Spagna le nacchere, la Francia il liuto, l'Irlanda l'arpa, la Germania la tromba, l'Inghilterra il violino, l'Olanda il tamburo, nulla è uguale ad esse.[fonte 8] Quando la barba fa bianchino, lascia la donna e tienti al vino.[fonte 208] Quando la cicala canta in settembre, non comprare gran da vendere.[fonte 8] Quando la fame entra dalla porta, l'amore esce dalla finestra.[fonte 8] Quando la grazia di Dio è nel cuore, gli occhi nuotano nell'allegria.[fonte 4] Quando la guerra comincia s'apre l'inferno.[fonte 4] Quando la neve si scioglie si scopre la mondezza.[fonte 1] Quando la pera è matura casca da sé.[fonte 1] Quando la pera è matura bisogna che caschi.[fonte 16] Quando la radice è tagliata, le foglie se ne vanno.[fonte 8] Quando la ragione dorme, il cuore scappuccia.[fonte 8] Quando la luna è bianca il tempo è bello; se è rossa, vuole dire vento; se pallida, pioggia.[fonte 4] Quando la rana canta il tempo cambia.[fonte 8] Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente.[fonte 8] Quando non sai, frequenta in domandare.[fonte 209] Quando piove col sole le vecchie fanno l'amore.[fonte 1] Quando piove col sole il diavolo fa l'amore.[fonte 1] Quando piove col sole le streghe fanno l'amore.[fonte 2] Quando piove col sole si marita la volpe.[65][fonte 2] Quando piove d'agosto, piove miele e mosto.[fonte 8] Quando si è in ballo bisogna ballare.[fonte 1] Quando si è patito si è inclini a compatire.[fonte 4] Quando si mangia non si parla.[fonte 57] Quando sono fidanzate hanno sette mani e una lingua, quando sono sposate hanno sette lingue e una mano.[fonte 8] Quando un amico chiede, non v'è domani.[fonte 210] Quando un povero dà al ricco, Dio ride in cielo.[fonte 8] Quando una cosa è accaduta, poco vale lamentarsi.[fonte 8] Quando viene la forza, il diritto è morto.[fonte 4] Quanto più è alto il monte, tanto più profonda la valle.[fonte 4] Quanto più la rana si gonfia, più presto crepa.[fonte 8] Quanto più se n'ha, tanto più se ne vorrebbe.[fonte 4] Quattro lumi non s'accendono.[fonte 2] Quattro nuove invenzioni vanta il mondo: scorticare senza coltello, arrostire senza fuoco, lavare senza sapone, e invece degli occhiali vedere attraverso le dita.[fonte 4] Quel ch'è innato per natura, si porta alla sepoltura.[fonte 8] Quel ch'è raro, è stimato.[fonte 8] Quel che con l'acqua mischia e guasta il vino, merita di bere il mare a capo chino.[fonte 8] Quel che è disposto in cielo, conviene che sia.[fonte 4] Quel, che è fatto, è fatto, e non si può fare, che fatto non sia.[fonte 211] Quel che è fatto è reso.[fonte 2] Quel che non può l'ìngegno, può spesso la fortuna.[fonte 4] Quel che non puoi pagare col denaro, pagalo almeno col ringraziamento.[fonte 8] Quel che è gioco per il forte per il debole è morte.[fonte 8] Quel che si dà al ricco, si ruba al povero.[fonte 8] Quel che si fa a fin di bene, non dispiace mai a Dio.[fonte 4] Quel che si fa all'oscuro, appare al sole.[fonte 4] Quel che supera il mio intelletto, lo lascio stare.[fonte 4] Quella bellezza l'uomo saggio apprezza che dura sempre, fino alla vecchiaia.[fonte 4] Quelli che hanno meno ingegno, ne hanno da vendere più degli altri.[fonte 4] Quello che abbaia è il cane sdentato.[fonte 4] Quello che deve durare per l'eternità non si deve scrivere con l'acqua.[fonte 4] Quello che è accaduto ieri, può accadere oggi.[fonte 4] Quello che è passato, è scordato.[fonte 4] Quello che ha da essere, sarà.[fonte 4] Quello che non avviene oggi, può avvenire domani.[fonte 4] Quello che non è stato può essere.[fonte 4] Quello che non può l'intelletto, può spesso il caso.[fonte 4] Quello che puoi fare oggi, non rimandarlo a domani.[fonte 4] Quello che si dice all'eco nel bosco, il bosco lo ripete.[fonte 4] Quello che si impara in gioventù, non si dimentica mai più.[fonte 4] Quello che si usa non si scusa.[fonte 212] Quello è mio zio, che vuole il bene mio.[fonte 4] Quello è un fanciullo accorto che conosce suo padre.[fonte 4] Questo devi sapere che la gelosia di un Arabo è la stessa gelosia.[fonte 4] Quieta non muovere.[fonte 16] R Raglio d'asino non giunse mai al cielo.[fonte 2] Rana di palude sempre si salva.[fonte 8] Rane, malsane.[fonte 8] Render nuovi benefici all'ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.[fonte 8] Ricchezza mal disposta a povertà s'accosta.[fonte 8] Ricchezze nell'India, sapere in Europa, e pompa fra gli ottomani.[fonte 8] Ricchi e poveri non portano che un lenzuolo all'altro mondo.[fonte 8] Ricco e grande fortuna potrà farti, ma mai il comune senso potrà darti.[fonte 4] Ricorda che il nemico può diventarti amico.[fonte 8] Ride ben chi ride ultimo.[fonte 2] Ride ben chi ride l'ultimo.[fonte 2] Roba calda il corpo non salda.[fonte 213] Roba d'altri, tutti scaltri.[fonte 4] Roma, a chi nulla in cent'anni, a chi molto in tre dì.[fonte 8] Roma non fu fatta in un giorno.[fonte 2] Roma santa, Aquila bella, Napoli galante.[fonte 214] Rosso di mattina, pioggia vicina.[fonte 215] Rosso di sera bel tempo si spera; rosso di mattina acqua vicina.[fonte 2] Rosso di sera, buon tempo si spera; rosso di mattina mal tempo si avvicina.[fonte 1] Rosso e giallaccio pare bello ad ogni faccia, verde e turchino si deve essere più che bellino.[fonte 216] Rovo, in buona terra covo.[fonte 169] S Salta chi può.[fonte 1] San Benedetto[66] la rondine sotto il tetto.[fonte 2] San Lorenzo dalla gran calura.[fonte 2] San Pietro abbracciato, Cristo negato.[fonte 4] San Silvestro [31 dicembre] l'oliva nel canestro.[fonte 2] Sangue giovane sempre spavaldo.[fonte 8] Sasso che rotola non fa muschio.[fonte 47] Pietra che rotola non fa muschio.[fonte 2] Sbagliando s'impara.[fonte 1] Scalda più l'amore che mille fuochi.[fonte 8] Scherza coi fanti e lascia stare i Santi.[fonte 1] Scherzando intorno al lume che t'invita, farfalla perderai l'ali e la vita.[fonte 65] Scherzo di mano, scherzo di villano.[fonte 1] Gioco di mano, gioco di villano.[fonte 1] Schiena di mulo, corso di barca, buon per chi n'accatta.[fonte 8] Scusa non richiesta, accusa manifesta.[67][fonte 217] Se ari male, peggio mieterai.[fonte 47] Se fossero buoni i nipoti non si leverebbero dalla vigna.[fonte 218] Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse.[fonte 167] Se i gatti sapessero volare, le beccacce sarebbero rare.[fonte 131] Se il coltivatore non è più forte della su' terra questa finisce per divorarlo.[fonte 47] Se il ladro lasciasse il suo rubare, non ci sarebbero più forche.[fonte 4] Se il giovane sapesse di quanto ha bisogno la vecchiaia, chiuderebbe spesso la borsa.[fonte 4] Se il padre di famiglia è miope, i servi sono ciechi.[fonte 8] Se il piede destro è zoppo, Dio rafforza il sinistro.[fonte 8] Se il poeta s'erige a oratore predicherà agli orecchi e non al cuore.[fonte 8] Se il primo bottone hai fatto essere secondo, tutti sbagliati saranno da cima a fondo.[fonte 4] Se il re sputa sopra un abete si chiama subito abete reale.[fonte 4] Se il ricco conoscesse la fame del povero, gli darebbe del suo pane.[fonte 8] Se il ringraziare costasse denaro, molti se lo terrebbero in tasca.[fonte 8] Se il tuo gatto è ladro non scacciarlo di casa.[fonte 8] Se il virtuoso è povero, il lodarlo non basta; il dovere primo è d'aiutarlo.[fonte 8] Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si sentirebbe stridere.[fonte 8] Se le lattughe lasci in guardia alle oche, al ritorno ne troverai ben poche.[fonte 219] Se ne vanno gli amori e restano i dolori.[fonte 4] Se nessuno sa quel che sai, a nulla serve il tuo sapere.[fonte 8] Se non è zuppa è pan bagnato.[fonte 1] Se non hai mai rubato, la parola ladro non è per te un'ingiuria.[fonte 4] Se occhio non mira, cuor non sospira.[fonte 8] Se ognun spazzasse da casa sua, tutta la città sarebbe netta.[fonte 220] Se piovesse oro, la gente si stancherebbe a raccoglierlo.[fonte 8] Se son rose fioriranno.[fonte 1] Se ti vuoi nutrire bene, fai ballare i trentadue.[fonte 8] Se un fratello compie un omicidio, gli altri non sono responsabili.[fonte 4] Se vuoi che t'ami, fa' che ti brami.[fonte 8] Se vuoi portare l'uomo a incretinire, fallo ingelosire.[fonte 4] Segui il filo e troverai il gomitolo.[fonte 4] Senza denari non canta un cieco.[fonte 1] Senza denari non si canta messa.[fonte 1] Senza umiltà tutte le virtù sono vizi.[fonte 8] Sempre ti graffierà chi nacque gatto.[fonte 8] Senza umanità non vi è né virtù, né vero coraggio, né gloria durevole.[fonte 8] Seren d'inverno e nuvolo d'estate, non ti fidare.[fonte 4] Sette in un colpo! disse quel sarto che aveva ammazzato sette mosche.[fonte 8] [wellerismo] Settembre, l'uva è fatta e il fico pende.[fonte 16] Si bacia il fanciullo a causa della madre, e la madre a causa del fanciullo.[fonte 4] Si deve alzare di buon'ora chi vuol contentare i suoi vicini.[fonte 8] Si dice il peccato, ma non il peccatore.[fonte 2] Si mantiene un esercito per mille giorni, e non se ne fa uso che per un momento.[fonte 4] Si parla del diavolo e spuntano le corna.[fonte 130] Si può conoscere la tua opinione dal tuo sbadigliare.[fonte 8] Si può vivere senza fratelli ma non senza amici.[68] Si stava meglio quando si stava peggio.[69][fonte 2] Sia l'astrologo che l'indovina ti portano alla rovina.[fonte 4] Sicuro come il pane.[fonte 4] Sin che si vive, s'impara sempre.[fonte 4] Sol gente di mal'affare, bestie e botte, van fuori di notte.[fonte 221] Son padrone del mondo oggi le donne e cedon toghe e spade a cuffie e gonne.[fonte 8] Sono meglio cento beffe che un danno.[fonte 4] Sono sempre gli stracci che vanno all'aria.[fonte 1] Sopra l'albero caduto ognuno corre a fare legna.[fonte 4] Sopra ogni vino, il greco è divino.[fonte 8] Sotto la neve pane, sotto l'acqua fame.[fonte 1] Spesso a chiaro mattino, v'è torbida sera.[fonte 222] Spesso chi commette un'ingiustizia, ne subisce una peggiore.[fonte 4] Spesso vince più l'umiltà che il ferro.[fonte 8] Sposa bagnata sposa fortunata.[fonte 223] Stretta la foglia, larga la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Larga la foglia, stretta la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Stringe più la camicia che la gonnella.[fonte 4] Studia non per sapere di più, ma per sapere meglio degli altri.[fonte 224] Studio in gioventù, onore alla vecchiaia.[fonte 4] Sulla pelle della serpe nessuno guarda alle macchie.[fonte 8] Superbia povera spiace anche al diavolo; umiltà ricca piace anche a Dio.[fonte 8] T T'annoia il tuo vicino? Prestagli uno zecchino.[fonte 4] Tagliare i capelli con la pentola.[fonte 225] Tagliarli male. Tal lascia l'arrosto che poi brama il fumo.[fonte 4] Tale padre, tale figlio.[70][fonte 2] Tanti galli a cantar non fa mai giorno.[fonte 1] Tanti idoli, tanti templi.[fonte 4] Tanti pochi fanno un assai.[fonte 226] Tanto fumo e poco arrosto.[fonte 2] Tanto l'amore quanto il fuoco devono essere attizzati.[fonte 8] Tanto l'amore quanto la minestra di fagioli vogliono uno sfogo.[fonte 8] Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.[fonte 1] Tempo chiaro e dolce a capodanno, assicura bel tempo tutto l'anno.[fonte 8] Tenga bene a mente un bugiardo quando mente.[fonte 4] Tentar non nuoce.[fonte 1] Terra assai, terra poca.[fonte 169] Terra bianca, tosto stanca.[fonte 227] Terra coltivata raccolta sperata.[fonte 2] Terra nera buon grano mena.[fonte 2] Testa di lucertola, collo di gru, gambe di ragno, pancia di vacca, groppa di baldracca.[fonte 8] Testa di pazzo non incanutisce mai.[fonte 8] Tinca di maggio e luccio di settembre.[fonte 8] Tinca in camicia, luccio in pelliccia.[fonte 8] Tira più un pelo di fica che cento paia di buoi.[fonte 2] Tira più un capello di donna che cento paia di buoi.[fonte 8] Tolta la causa, cessato l'effetto.[fonte 8] Tondi l'agnello e lascia il porcello.[fonte 8] Torinesi e Monferrini, pane, vino e tamburini.[fonte 8] Tra cani non si mordono.[fonte 1] Tra i due litiganti il terzo gode.[fonte 1] Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.[fonte 1] Tra l'incudine e il martello, mano non metta chi ha cervello.[fonte 4] Tra moglie e marito non mettere il dito.[fonte 1] Tradimento piace assai, traditor non piace mai.[fonte 148] Trattar male il povero è il disonor del ricco.[fonte 8] Tre cose cacciano l'uomo di casa: fumo, goccia e femmina arrabbiata.[fonte 4] Tre cose fanno l'uomo ammalato: amore, vino e bagno.[fonte 8] Tre cose simili: prete, avvocato e morte. Il prete toglie dal vivo e dal morto; l'avvocato vuol del diritto e del torto; e la morte vuole il debole e il forte.[fonte 142] Tre cose sono rare: un buon melone, un buon amico e una buona moglie.[fonte 8] Tre sono le meraviglie, Napoli, Roma e la faccia tua.[fonte 228] Trenta monaci e un abate non farebbero bere un asino per forza.[fonte 4] Triste e guai, chi crede troppo e chi non crede mai.[fonte 8] Triste quel cane che si lascia prendere la coda in mano.[fonte 8] Triste quell'estate, che ha saggina e rape.[fonte 8] Tromba di culo, sanità di corpo.[fonte 213] Troppa manna, nausea.[fonte 8] Troppa modestia è orgoglio mascherato.[fonte 8] Troppe soddisfazioni tolgono ogni voglia.[fonte 8] Troppi cuochi guastano la cucina.[fonte 1] Troppo povero e troppo ricco fa ugual disgrazia.[fonte 8] Tu scherzi col tuo gatto e l'accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi.[fonte 8] Turchi e Tartari, flagelli dei popoli.[fonte 229] Tutta la strada non fallisce il saggio che, accortosi a metà, corregge il viaggio.[fonte 4] Tutte le cose sono difficili prima di diventar facili.[fonte 70] Tutte le strade portano a Roma.[fonte 1] Tutte le volpi si ritrovano in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volpi si rivedono in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volte che si ride si toglie un chiodo dalla cassa.[fonte 230] Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo.[fonte 8] Tutti i fiumi vanno al mare.[fonte 1] Tutti i giorni sono buoni per andare a caccia. ma non per prendere uccelli.[fonte 4] Tutti i guai son guai, ma il guaio senza pane è il più grosso.[fonte 1] Tutti i gusti son gusti.[fonte 1] Tutti i mestieri danno il pane.[fonte 231] Tutti i nodi vengono al pettine.[fonte 1] Tutti i peccati mortali sono femmine.[fonte 8] Tutti i salmi finiscono in gloria.[fonte 1] Tutti siamo figli di Adamo ed Eva.[fonte 190] Tutto ciò che dura a lungo annoia.[fonte 8] Tutto è bene quel che finisce bene.[71][fonte 1] Tutto il cervello non è in una testa.[fonte 4] Tutto il mondo è paese.[72][fonte 1] Tutto quello che è bianco non è farina.[fonte 4] Tutto s'accomoda fuorché l'osso del collo.[fonte 31] U Uccellin che mette coda vuol mangiare a tutte l'ore.[fonte 2] Uccello raro ha nido raro.[fonte 8] Ucci ucci, sento odor di cristianucci.[fonte 2] Umiltà e cortesia adornano più di una veste tessuta d'oro.[fonte 8] Un bel tacer non fu mai scritto.[73][fonte 2] Un'anima magnanima consulta le altre; un'anima volgare disprezza i consigli.[fonte 8] Un'oncia di allegria vale più di una libbra di tristezza.[fonte 232] Un'ora di contento sconta cent'anni di tormento.[fonte 233] Un abete non fa foresta.[fonte 4] Un bell'abito è una lettera di raccomandazione.[fonte 4] Un buon abate loda sempre il suo convento.[fonte 4] Un buon principio va sempre a buon fine.[fonte 4] Un cattivo libro ha spesso un buon titolo, ed una fronte onesta, un cervello ribaldo.[fonte 4] Un cuor magnanimo vuol sempre il bene, anche se il premio mai non ottiene.[fonte 8] Un esercito senza generale è come un corpo senz'anima.[fonte 4] Un fido amico, e ricchezze ben acquistate son due cose rare.[fonte 8] Un fratello aiuta l'altro.[fonte 4] Un granello fa traboccare la bilancia.[fonte 4] Un granello di polvere fa scoppiare tutta la bomba.[fonte 4] Un ladro non ruba sempre, ma bisogna guardarsi da lui.[fonte 4] Un lume è più presto spento che acceso.[fonte 4] Un male tira l'altro.[fonte 4] Un padre campa cento figli e cento figli non campano un padre.[fonte 2] Un pazzo ne fa cento.[fonte 8] Un piccolo buco fa affondare un gran bastimento.[fonte 8] Un povero virtuoso val più di un ricco vizioso.[fonte 8] Una bella barba e un cuor valente adornano l'uomo.[fonte 4] Una bella giornata non fa estate.[fonte 4] Una bella lacrima trova facilmente un fazzoletto che la asciughi.[fonte 4] Una bugia ha bisogno di sette bugie.[fonte 4] Una buona risata si trasforma tutta in buon sangue.[fonte 232] Una ciliegia tira l'altra.[fonte 2] Una cosa tira l'altra.[fonte 16] Una estate vale più di dieci inverni.[fonte 4] Una parola tira l'altra.[fonte 2] Una e buona.[fonte 16] Una ma buona.[fonte 16] Una fa, due stentano, ma a tre ci vuol la serva.[fonte 8] Una Fenice fra le donne è quella, che altra donna confessa essere bella.[fonte 8] Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso.[fonte 1] Una mela al giorno leva il medico di torno.[fonte 2] Una ne paga cento.[fonte 1] Una ne paga tutte.[fonte 1] Una rondine non fa primavera.[fonte 1] Un fiore non fa giardino.[fonte 4] Un fiore non fa primavera.[fonte 4] Una volta corre il cane e una volta la lepre.[fonte 1] Una volta per uno non fa male a nessuno.[fonte 1] Uno semina, l'altro raccoglie.[fonte 72] Uno si fa la sorte da sé, l'altro la riceve bell'e fatta.[fonte 8] Uomo a cavallo, sepoltura aperta.[fonte 2] Uomo avvisato mezzo salvato.[fonte 1] Uomo da nessuno invidiato, è uomo non fortunato.[fonte 4] Uomo di vino, non vale un quattrino.[fonte 8] Uomo morto non fa più guerra.[fonte 234] Uomo senza quattrini è un morto che cammina.[fonte 2] Uomo solitario, o angelo o demone.[fonte 235] Uomo zelante, uomo amante.[fonte 4] L'uomo misero è un morto che cammina.[fonte 2] Uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, donna di quindici e amici di trent'anni.[fonte 8] V Va' in piazza vedi e odi, torna a casa bevi e godi.[fonte 236] Va più di un asino al mercato.[fonte 4] Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.[fonte 8] Val più una messa in vita che cento in morte.[fonte 4] Vale più la pratica che la grammatica.[fonte 1] Vale più un fatto che cento parole.[fonte 237] Vale più un gusto che un casale.[fonte 1] Vale più un testimone di vista che cento d'udito.[fonte 2] Vale più uno a fare.[fonte 16] Vanga e zappa non vuol digiuno.[fonte 47] Vanga piatta poco attacca, vanga ritta terra ricca, vanga sotto ricca il doppio.[fonte 2] Vecchi doni vogliono nuovi ringraziamenti.[fonte 8] Vecchiaia d'aquila, giovinezza d'allodola.[fonte 4] Vedere e non toccare è una cosa da crepare.[fonte 2] Vedere per credere.[fonte 238] Vento fresco mare crespo.[fonte 239] Ventre pieno non crede a digiuno.[fonte 16] Ventre vuoto non sente ragioni.[fonte 16] Vesti un legno, pare un regno.[fonte 41] Vi sono dei matti savi, e dei savi matti.[fonte 8] Vicino alla chiesa lontano da Dio.[fonte 2] Vicino alla serpe c'è il biacco.[fonte 8] Vigna nel sasso e orto in terren grasso.[fonte 240] Vincere un ambo al lotto è un malefizio, che più accresce la speranza al vizio.[fonte 8] Vino amaro, tienilo caro.[fonte 8] Vino battezzato non vale un fiato.[fonte 8] Vino battezzato, non va al palato.[fonte 8] Vino dentro, senno fuori.[fonte 8] Vino di fiasco la sera buono e la mattina guasto.[fonte 8] Vino e sdegno fan palese ogni disegno.[fonte 8] Vino non è buono che non rallegra l'uomo.[fonte 8] Violenza non dura a lungo.[fonte 241] Vivi e lascia vivere.[fonte 1] Vizio di natura fino alla fossa dura.[fonte 2] Vizio di natura, fino alla morte dura.[fonte 242] Voglia di lavorar saltami addosso, lavora tu per me che io non posso.[fonte 243] Voglio piuttosto un asino che mi porti, che un cavallo che mi getti in terra.[fonte 4] Volpe che dorme, ebreo che giura, donna che piange, malizie sopraffine colle frange.[fonte 4] Note  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Matteo, 6, 34.  La locuzione latina gutta cavat lapidem (letteralmente "la goccia perfora la pietra") venne utilizzata da Tito Lucrezio Caro, Publio Ovidio Nasone e Albio Tibullo. Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Titolo di un'opera di Achille Campanile del 1930, passato a proverbio e modo di dire comune.  Cfr. Petrarca: «La vita el fin, e 'l dí loda la sera».  Cfr. Giacomo Leopardi: «Amore, | amor, di nostra vita ultimo inganno, | t'abbandonava».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Giovanni Verga, I Malavoglia.  Slogan pubblicitario degli anni Ottanta.  Cfr. Gesù, Discorso della Montagna: «Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova».  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Citato in Giovanni Battista Rossi, Conferenze popolari per gli uomini nel tempo degli esercizi spirituali, Tappi, Torino, 1896, p. 164.  Citato nel film Riso amaro.  Citato in Dizionario Italiano Olivetti, dizionario-italiano.it.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Libro di Osea: «E poiché hanno seminato vento | raccoglieranno tempesta».  Cfr. attribuite a Papa Bonifacio VIII: «Qui tacet, consentire videtur».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Cristoforo Poggiali, Proverbj, motti e sentenze ad uso ed istruzione del popolo, 1821: «Chi dà a credenza, molte merci spaccia; | Ma un presto fallimento si procaccia».  Cfr. Appio Claudio Cieco, Sententiae: «Quisque faber fortunae suae.»  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  La frase è attribuita (Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, II, 3; Giovanni Villani, Nuova Cronica, VI, 38) a Mosca dei Lamberti che, nel 1215, a Firenze, convinse così gli Amidei a uccidere Buondelmonte de' Buondelmonti; dal delitto nacquero le fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Citato anche nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Inferno, 28, 106-108): Gridò: "Ricordera' ti anche del Mosca, | che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta', | che fu mal seme per la gente tosca". È possibile che Mosca dei Lamberti adattò al momento un proverbio già noto ai suoi tempi (Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921); secondo l'Accademia della Crusca (Dizionario della lingua italiana, 1827) corrisponderebbe al latino «Factum infectum fieri nequit».  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Philippe Néricault Destouches, Le Glorieux, atto II, scena V: «La critique est aisée, et l'art est difficile.».  Cfr. «Facta lex inventa fraus.»  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Riferito all'uso di numeri civici di colore nero per le abitazioni e rosso per gli esercizi commerciali.  Cfr. Michail Aleksandrovič Bakunin: «Il caffè, per esser buono, deve essere nero come la notte, dolce come l'amore e caldo come l'inferno».  Cfr. Blaise Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Nei dialetti siciliani e nel napoletano l'arancia viene chiamata portogallo.  La spiegazione è in Strafforello, vol. III, p. 329.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Veste da lavoro usata, specialmente in Toscana, da contadini e operai.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Ippocrate: «La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione è fugace, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile».  Citato in Dizionario Italiano, dizionario-italiano.it.  Cfr. voce dedicata Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  itato in Dizionario Italiano Olivetti.  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Luca: «Nessun profeta è ben accetto in patria».  Cfr. Etica della reciprocità.  Cfr. anche Salvator Rosa, iscrizione riportato su un autoritratto: «Aut tace | aut loquere meliora | silentio.».  Questo detto, ripreso dal Libro dell'Esodo («occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido»), è chiamato Legge del taglione.  Il proverbio compare in una novella del Decameron di Giovanni Boccaccio (la quarta della prima giornata). Cfr. Focus storia n. 49, novembre 2010, p. 74.  2 febbraio: in tale giorno la Chiesa cattolica celebra la presentazione al Tempio di Gesù (Luca 2,22-39), popolarmente chiamata festa della Candelora, perché in questo giorno si benedicono le candele, simbolo di Cristo. La festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, secondo l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Citato in Vocabolario degli accademici della Crusca, vol II, parte 2, Tipografia Galileiana di M. Cellini e c., Firenze, 1863, p. 726.  Una leggenda simile esiste anche in Giappone: i demoni-volpe (le kitsune) preferirebbero celebrare i loro matrimoni sotto la pioggia mentre splende il sole; il regista Akira Kurosawa ne prese spunto per il primo episodio (Raggi di sole nella pioggia) del film Sogni (1990).  21 marzo, prima della riforma del calendario liturgico del 1969.  Cfr. Proverbio latino medievale: Excusatio non petita, accusatio manifesta.  Citato in Macfarlane, p. 256.  Attribuita a Francesco Domenico Guerrazzi.  Cfr. Libro di Ezechiele: «Ecco, ogni esperto di proverbi dovrà dire questo proverbio a tuo riguardo: Quale la madre, tale la figlia».  Titolo di una commedia di William Shakespeare, scritta fra il 1602 e il 1603.  Cfr. Petronio Arbitro, Satyricon, 45, 4.  Cfr. Iacopo Badoer: «Un bel tacer | mai scritto fu». Fonti  Citato ne Il nuovo Zingarelli.  Citato in Lapucci.  Citato in Carlo Volpini, 516 proverbi sul cavallo, Cisalpino-Goliardica, 1984.  Citato in Donato.  Citato in Max Pfister, Lessico etimologico italiano, vol. 3, Reichert, 1987.  Citato in Schwamenthal, § 14.  Citato in Schwamenthal, § 29.  Citato in Selene.  Citato in Marino Ferrini, I proverbi dei nonni, Il Leccio, 2002³.  Citato in Schwamenthal, § 52.  Citato in Schwamenthal, § 78.  Citato in Schwamenthal, § 85.  Citato in Schwamenthal, § 122.  Citato in Schwamenthal, § 123.  Citato in Schwamenthal, § 131.  Citato in Vocabolario della lingua italiana.  Citato in Schwamenthal, § 170.  Citato in Macfarlane, p. 118.  Citato in Schwamenthal, § 278.  Citato in Schwamenthal, § 235.  Citato in Schwamenthal, § 242.  Citato in Schwamenthal, § 243.  Citato in Schwamenthal, § 255.  Citato in Schwamenthal, § 281.  Citato in Schwamenthal, § 281.  Citato in Schwamenthal, § 288.  Citato in Schwamenthal, § 290.  Citato in Schwamenthal, § 290.  Citato in Castagna 1866, p. 137.  Citato in Schwamenthal, § 317.  Citato in Vezio Melegari, Manuale della barzelletta, Mondadori, Milano, 1976, p. 35.  Citato in Macfarlane, p. 352.  Citato in Francesco Protonotari, Nuova antologia di scienze, lettere ed arti, volume settimo, Direzione della nuova antologia, Firenze, 1868, p. 454.  Citato in Grisi, p. 34.  Citato in Daniela Schembri Volpe, 101 perché sulla storia di Torino che non puoi non sapere, Newton Compton Editori, 2018, p. 121. ISBN 978-88-227-2521-9  Citato in Pescetti, p. 123.  Citato in Grisi, p. 254.  Citato in Paronuzzi, p. 68.  Citato in Schwamenthal, § 585.  Citato in Giulio Franceschi, Proverbi e modi proverbiali italiani, Hoepli, 1908.  Citato in Macfarlane, p. 83.  Citato in Grisi, p. 24.  Citato in Schwamenthal, § 768.  Citato in Schwamenthal, § 804.  Citato in Schwamenthal, § 805.  Citato in Volpini, p. 137.  Citato in Francesco Picchianti, Proverbi italiani, A. Salani, 1886.  Citato in Schwamenthal, § 848.  Citato in Schwamenthal, § 854.  Citato in Schwamenthal, § 878.  Citato in Schwamenthal, § 886.  Citato in Castagna 1866, p. 172.  Citato in Grisi, p. 113.  Citato in Schwamenthal, § 906.  Citato in Augusto Arthaber, Dizionario comparato di proverbi e modi proverbiali, Hoepli, 1972.  Citato in Macfarlane, p. 276.  Citato in Temistocle Franceschi, Atlante paremiologico italiano, Edizioni dell'Orso, 2000.  Citato in Macfarlane, p. 214.  Citato in Schwamenthal, § 1066.  Citato in Grisi, p. 11.  Citato in Macfarlane, p. 171.  Citato in Amadeus Voldben, Il giardino della saggezza, Amedeo Rotondi, 1967.  Citato in Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, 1872, Unione Tipografico-Editrice Torinese, vol. IV, p. 369.  Citato in Macfarlane, p. 281.  Citato in Grisi, p. 106.  Citato in Schwamenthal, § 1324.  Citato in Schwamenthal, § 1365.  Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 583.  Citato in Grisi, p. 247.  Citato in Macfarlane. Citato in Schwamenthal, § 1541.  Citato in Emanuel Strauss, Concise Dictionary of European Proverbs, Routledge, 2013.  Citato in Macfarlane, p. 112.  Citato in Giuseppe Giusti, Dizionario dei proverbi italiani.  Citato in Macfarlane, p. 364.  Citato in Macfarlane, p. 299.  Citato in Macfarlane, p. 122.  Citato in Schwamenthal, § 1742.  Citato in Schwamenthal, § 1744.  Citato in Schwamenthal, § 1753.  Citato in Schwamenthal, § 1754.  Citato in Schwamenthal, § 1762.  Citato in Schwamenthal, § 1788.  Citato in Schwamenthal, § 1796.  Citato in Filippo Moisè, Storia della Toscana dalla fondazione di Firenze fino ai nostri giorni, V. Batelli e compagni, 1848, p. 73  Citato in Schwamenthal, § 1821.  Citato in Macfarlane, p. 476.  Citato in Macfarlane, p. 399.  Citato in Schwamenthal, § 1933.  Citato in Alfani, p. 75.  Citato in Macfarlane, p. 103.  Citato in Schwamenthal, § 1994.  Citato in Schwamenthal, § 2034.  Citato in Schwamenthal, § 2035.  Citato in Schwamenthal, § 2047.  Citato in Castagna 1866, p. 56.  Citato in Schwamenthal, § 2142.  Citato in Paola Guazzotti e Maria Federica Oddera, Il Grande dizionario dei proverbi italiani, Zanichelli, 2006.  Citato in Schwamenthal, § 2168.  Citato in Grisi, p. 145.  Citato in Schwamenthal, § 2245.  Citato in Schwamenthal, § 2253.  Citato in Valter Boggione, Chi dice donna, POMBA, 2005.  Citato in Schwamenthal. Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, VII Grav - Ing, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1972, p. 331.  Citato in Macfarlane, p. 144.  Citato in Grisi, p. 62.  Citato in Donalda Feroldi, Elena Dal Pra, Dizionario analogico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, Citato in Giuseppe Pittàno, Frase fatta capo ha. Dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, Zanichelli, 1992.  Citato in Schwamenthal, § 2610.  Citato in Piero Angela, Ti amerò per sempre: La scienza dell'amore, Mondadori, Milano, 2005, p. 68. ISBN 88-04-51490-6  Citato in Schwamenthal, § 2697.  Citato in Schwamenthal, § 2769.  Citato in Schwamenthal, § 2771.  Citato in Schwamenthal, § 2783.  Citato in Macfarlane, p. 231.  Citato in Macfarlane, p. 89.  Citato in Florio, lettera G.  Citato in Gutta cavat lapidem. Indagini fraseologiche e paremiologiche, a cura di Elena Dal Maso, Carmen Navarro, Universitas Studiorum, 2016, Mantova, p. 427.  Citato in Gustavo Strafforello, La sapienza del mondo: ovvero, Dizionario universale dei proverbi, A.F. Negro, 1883, p.279.  Citato in Paronuzzi, p. 72.  Citato in Silvia Merialdo, Genova. Una guida, Odòs Libreria Editrice, Udine, Citato in Castagna 1869, p. 72.  Citato in Macfarlane, p. 230.  Citato in Castagna 1866, p. 178.  Citato in Schwamenthal, § 666.  Citato in Anna Fata, Lo zen e l'arte di cucinare, Edizioni Il Punto d'Incontro, Vicenza, Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, XII Orad - Pere, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1984, p. 1065.  Citato in Macfarlane, p. 389.  Citato in Dizionario di Italiano, corriere.it, diavolo.  Citato in Paronuzzi, p. 70.  Citato in Roberto Allegri, 1001 cose da sapere e da fare con il tuo gatto, Newton Compton, Roma, 2014, § 100. ISBN 978-88-541-6678-3  Citato in Brigitte Bulard-Cordeau, Il piccolo libro dei gatti, traduzione di Giovanni Zucca, Fabbri Editori, Milano, Citato in Schwamenthal, § 2784.  Citato in Grisi, p. 11.  Citato in Schwamenthal, § 3037.  Citato in Castagna 1866, p. 151.  Citato in Schwamenthal, § 3266.  Citato in Schwamenthal, § 4058.  Citato in Schwamenthal, § 3274.  Citato in Macfarlane, p. 263.  Citato in Strafforello, vol. III, p. 329.  Citato in Grisi, p. 211.  Citato in Volpini, p. 47.  Citato in Schwamenthal, § 4901.  Citato in Schwamenthal, § 5487.  Citato in Castagna 1869, p. 291.  Citato in Macfarlane, p. 327.  Citato in Schwamenthal, § 211.  Citato in Paola Guazzotti, Maria Federica Oddera, Il grande dizionario dei proverbi italiani, in riga edizioni, Bologna, 2020. ISBN 9788893642057  Citato in Schwamenthal, § 440.  Citato in Paolo De Nardis, L'invidia. Un rompicapo per le scienze sociali, Meltemi Editore, 2000, p. 38. ISBN 8883530527  Citato in Schwamenthal, § 2555.  Citato in Macfarlane, p. 411.  Citato in Schwamenthal, § 2248.  Citato in Schwamenthal, § 2779.  Citato in Schwamenthal, § 2780.  Citato in Grisi, p. 130.  Citato in Luigi Pozzoli, Sul respiro di Dio. Commento alle letture festive. Anno B, Paoline, Milano, 1999, p. 14.  Citato in Schwamenthal, § 3129.  Citato in Grisi, p. 265.  Citato in Grisi, p. 270.  Citato in Macfarlane, p. 412.  Citato in Grisi, p. 303.  Citato in Macfarlane, p. 311.  Citato in Schwamenthal, § 2350.  Citato in Ann H. Swenson, Proverbi e modi proverbiali, Nerbini, 1931.  Citato in Grisi, p. 109.  Citato in Ugo Rossi-Ferrini, Proverbi agricoli, I Fermenti, 1931.  Citato in Grisi, p. 39.  Citato in Schwamenthal, § 3271.  Citato in Castagna 1866, p. 18.  Citato in Carlo Giuseppe Sisti, Agricoltura pratica della Lombardia, Milano, 1828, p. 99.  Citato in Schwamenthal, § 3296.  Citato in Schwamenthal, § 3528.  Citato in Florio, lettera N.  Citato in Schwamenthal, § 3566.  Citato in Schwamenthal, § 3630.  Citato in Castagna 1866, p. 75.  Citato in Paronuzzi, p. 66.  Citato in Schwamenthal, § 3674.  Citato in Pescetti, p. 105. Anche in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza della vita, Parenesi e massime, 29.  Citato in Schwamenthal, § 3691.  Citato in Schwamenthal, § 3723.  Citato in Grisi, p. 191.  Citato in Schwamenthal, § 3761.  Citato in Schwamenthal, § 3770.  Citato in Grisi, p. 270.  Citato in Schwamenthal, § 3952.  Citato in Macfarlane, p. 310.  Citato in Schwamenthal, § 3992.  Citato in Alfani, p. 102.  Citato in Schwamenthal, § 4019.  Citato in Schwamenthal, § 4130.  Citato in La scienza pratica: dizionario di proverbi e sentenze che a utile sociale raccolse il padre Lorenzo da Volturino, Quaracchi: Tipografia del Collegio di S.Bonaventura, Firenze, 1894, p. 457.  Citato in Focus storia n. 49, novembre 2010, p. 74.  Citato in Schwamenthal, § 4306.  Citato in Schwamenthal, § 4352.  Citato in Grisi, p. 197.  Citato in Schwamenthal, § 4498.  Citato in Schwamenthal, § 4499.  Citato in Piero Angela, A cosa serve la politica?, Mondadori, Milano, 2011, p. 145. ISBN 978-88-04-60776-2  Citato in Schwamenthal, § 4568.  Citato in Macfarlane, p. 95.  Citato in Schwamenthal, § 4615.  Citato in Macfarlane, p. 390.  Citato in Grisi, p. 224.  Citato in Schwamenthal, § 4698.  Citato in Schwamenthal, § 4757.  Citato in Macfarlane, p. 255.  Citato in Pescetti, p. 98.  Citato in Schwamenthal, § 4850.  Citato in Augusta Forconi, Le parole del corpo. Modi di dire, frasi proverbiali, proverbi antichi e moderni del corpo umano, SugarCo, 1987.  Citato in Castagna 1866, p. 136.  Citato in Castagna 1866, p. 35.  Citato in Castagna 1866, p. 24.  Citato in Schwamenthal, § 5051.  Citato in Castagna 1866, p. 8.  Citato in Grisi, p. 78.  Citato in Schwamenthal, § 5147.  Citato in Schwamenthal, § 5314.  Citato in Grisi, p. 254.  Citato in Schwamenthal, § 5385.  Citato in Grisi, p. 269.  Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, XII Orad - Pere, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1984, p. 1065.  Citato in Schwamenthal, § 5454.  Citato in Schwamenthal, § 5513.  Citato in Castagna 1866, p. 73.  Citato in Gustavo Strafforello, La sapienza del mondo, ovvero, Dizionario universale dei proverbi, Volume III, A. F. Negro, 1883, p. 701.  Citato in Schwamenthal, § 5620.  Citato in Schwamenthal, § 5630.  Citato in Francesco Grisi, Il grande libro dei proverbi. Dall'antica saggezza popolare detti e massime per ogni occasione, Piemme, 1997, p. 12.  (EN) Citato in Jerzy Gluski, Proverbs. Proverbes. Sprichworter. Proverbi. Proverbios. Poslovitsy. A comparative book of English, French, German, Italian, Spanish and Russian proverbs with a Latin appendix, Elsevier Pub. Co., 1971, p. 114.  Citato in Schwamenthal, § 5721.  Citato in Macfarlane, p. 267.  Citato in Novo vocabolario della lingua italiana, vol. I-II, coi tipi di M. Cellini e C., 1870, p. 312.  Citato in Schwamenthal, § 5765.  Citato in Schwamenthal, § 5795.  Citato in Schwamenthal, § 5817.  Citato in Castagna 1866, p. 39.  Citato in Macfarlane, p. 138.  Citato in Schwamenthal, § 5924.  Citato in Schwamenthal, § 5932. Bibliografia Augusto Alfani, Proverbi e modi proverbiali, Tipografia e Libreria Salesiana, Torino, 1882. Niccola Castagna, Proverbi italiani, Antonio Metitiero, Napoli, 1866. Niccola Castagna, Proverbi italiani, pe' tipi del Commend. Gaetano Nobile, Napoli, Donato, Gianni Palitta, Dizionario dei proverbi, L.I.BER. progetti editoriali, Genova, 1998. John Florio, Giardino di ricreatione, appresso Thomaso Woodcock, Londra, Grisi, Il grande libro dei proverbi, Piemme, Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani, Mondadori, 2007. David Macfarlane, The Little Giant Encyclopedia of Proverbs, Sterling, New York, 2001. ISBN 0-08069-7489-3 Alessandro Paronuzzi, José e Renzo Kollmann, Non dire gatto..., Àncora Editrice, Milano, Pescetti, Proverbi italiani. Raccolti, e ridotti sotto a certi capi, e luoghi comuni per ordine d'alfabeto, Compagnia degli Aspiranti, Verona, 1603. Riccardo Schwamenthal e Michele L. Straniero, Dizionario dei proverbi italiani e dialettali, Selene, Dizionario dei proverbi, Pan libri, Volpini, 516 proverbi sul cavallo, Ulrico Hoepli, Milano, 1896. Aa. Vv., Il nuovo Zingarelli, Zanichelli, Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli Editore, Bologna, Strafforello, La sapienza del mondo: ovvero, Dizionario universale dei proverbi di tutti i popoli,, vol. III, Augusto Federico Negro, Torino, stampa 1883. Voci correlate Modi di dire italiani Scioglilingua italiani Categoria: Proverbi dell'Italia. Massimo Baldini. Keywords: linguaggio, Campanellese, lingua utopica, fantaparola – phanta-parabola, il proverbio italiano, amici, implicatura proverbiale, proverbi romani, proverbi italiani, lezioni di filosofia del linguaggio, con D. Antiseri, indice, grice – filosofia analica, parte I: filosofia analitica Austin e Grice, parte II tipi di linguaggio.  baldini — implicatura proverbiale — i amici — das mystisch — filosofia italiana della moda maschile italiana — haircuts — journalese — journal of the Royal Association of Philosophy — lingua utopica — Campanellese — Empedocle filosofo poeta — Lucrezio filosofo poeta — Parmenide filosofo poeta — Eraclito l’oscuro — vallisneri — fantaparola — gargarismo — trabocchetta — rumore — ingorgo — aforismo — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Baldinotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. Grice: “I like Baldinotti; Speranza thinks he is a Griceian, just to oppose to the Italian received view that he is Lockeian! But I say, he is MORE than either! Baldinotti can quote from  Rousseau, and the French authors that Locke never cared about! And most importantly, he can SIMPLIFY and need not appeal to Anglo-Saxonisms as Locke does (what does it mean that a ‘word’ STANDS for ‘an idea’?” --.” Grice: “In fact, as Speranza showed at Oxford, one can organize a tutorial on the philosophy of language (he won’t though – he hardly organises!)  just using Balidonotti’s rough Latin of first chapter of ‘De vocibus’!”  “All the material I rely on in my Oxford 1948 talk on ‘meaning’ for the Philosophical Society can be found there: ‘vox’ significat affectus animae artificialiter, lachrymal significat affectum animae naturaliter --.” Grice: “Unless she is a crocodile, as Speranza remarks!” Tutore di metafisica nel ginnasio di Mantova, pavia, padova. -- Altre opere: “De recta humanae mentis institutione”;  Historiae philosphica prima, et expeditissima adumbratio -- Operationum mentis analysis . De elementis humanarum cognitionum -- de perceptione et ideas, earumque adnexis -- de idearum affectionibus, et in primis de realitate, abstractione, universalitate earumdem -- de simplicitate, compositione, relatione idearum -- de idearum clartitate, et distinctione, veritate, et perfectione -- DE VOCIBUS -- DE SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS -- DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM, ET IDEARUM IFLUXU -- DE USU, ET ABUSU VERBORUM -- DE VERBORUM INTERPRETATIONE -- DE MULTIPLICITI SCRIBENDI RATIONE. De humana cognition. Humana cognitionis analysis -- de PROPOSITIONIBUS -- de gradibus humana cognitionis -- De cognitione probabili -- De cognitionum realitate -- De extensione humanarum cognitionum -- De impedimentis humanarum cognitionum -- de humanarum cognitionum instrumentis --  De mentis magnitudine, et perspicacitate augenda -- De analysi, et definitione -- de ratiocinio et demonstratione -- De nonnullis argumentorum generibus -- De inductione et analogia -- De methodo generatim -- De methodo analytica -- De methodo synthetica -- De principiis -- De hypothesibus -- De ratione coniectandi probabilia -- De fontibus humanarum cognitionum -- de conscientia -- de ratione -- De concursu rationis, et revelationis -- De sensibus, deque recto eorum usu -- De cognitionibus, et erroribus sensuum -- De observatione, et experientia -- de auctoritate -- De testibus oculatis, et auritis -- De traditione et monumentis -- De historia -- De librorum authenticitate,sinceritate, suppositione, interpolatione, corruptione, et de interpretationibus -- de arte hermeneutica -- “Tentamen”; “De metaphysca generali liber unicum” De existente et possibili, et deiis, quae qua tenus tale est, ad utrumque pertinent -- De identitate, similitudine, distinctione -- De composito, simplici, uno -- De infinito. De spatio. De tempore. De causa. De non nullis impropriis causarum generibus. De Kantii philosophandi ratione et placitis, ut ad metaphysicam generalem referuntur. S. Gori Savellini, Cesare Baldinotti in "Dizionario Biografico degli Italiani", Istituto dell'Enciclpopedia Italiana, Roma. E. Troilo, Un maestro di Rosmini a Padova, Cesare Baldinotti in: "Memorie e documenti per la storia della Padova", Padova. Cesare Baldinotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. DE VOCIBUS. Voces nostrum studium,et operam expostulare,fuit iam suo loco (V. Introd.) observatum.Quae cum sint idearum nostrarum signa, horum tradenda prima divisio est', qua in naturalia, et artifi cialia distinguuntur. Signum naturale cum re significata habet nexum ex eius natura derivatum; artificiale vero ex hominum institutione, et arbitrio aliquam rem significat: lacrymae sunt doloris signum naturale, voces signum idearum artificiale. Non erit porro alienum de naturalibus signis advertere, homines non raro ad errorem trahi, dum ex illisrem significatam inferunt: sunt enim haec signa, vel effectus, qui caussas, vel caussae quae effectus indicant,ut in signis rerum futurarum. Iidem autem effectus nunc ab una,nunc ab alia caussa oriun tur;neceadem caussa eosdem semper effectusgignit; sed multa sunt, quae causarum actionem determinant, suspendunt, et etiam omnino mutant. Non igitur necessario, et semper SIGNUM NATURALE rem certam innuit; sed a multi spendet, quod eo una potius,quam alia ostendatur. SIGNA AFFECTUUM ANIMI SUNT NATURALIA. Eos tamen non semper denotant,et ille in perpetuo errore versaretur, qui de affectibus ex eorum signis statueret. Sed ad voces revertamur, quarum origo, indoles, vis, in ideas et mentis operationes, influxus, usus, abusus, interpretatio leviter attingenda. Quin imo Reid Rech. sur. l'Entend. tom. I. p.147. arbitratur, eas, quas dicimus causas, esse tantum RERUM SIGNA.Videmus dumtaxat, quae dam hunc inter se nexum habere, ut si unum praecedat, aliud illico subsequatur. Id tantum statuere possumus; non vero in eo, quod prae cedit respectu illius, quod subsequitur, causalitatem, ut aiunt, inesse, cum haec nullaratione ostendatur. Inter eas quae non prorsus inutiliter attinguntur, commemorari possunt potissimum nominum divisiones, ad quarum normam nomen in enunciatione, vel est subiectum de quo aliquid effertur, vel est praedicatum quod effertur, vel est concretum, remque significat cum sua forma, vel est ab. Voces INSTITUTIONIS esse signa nempe ARTIFICIALIA, nec necessarium habere NEXUM CUM REBUS, ad evidentiam probantmuti, et linguarum varietas. Nam si haberent, organo tantum vocis impedito, sermonis nullus esset usus, et quae apud omnes eadem sunt, iis demetiam nominibus appellarentum. Mira autem est non rerum, sed verborum diversitas; et muti sunt ii, qui surditat elaborant. Nunc vero videamus, an facultates humanae vocibus AD RES SIGNIFICANDAS INSTITUENDIS sint pares. An videlicet possint homines linguam aliquam condere. Animi affectus, sensusque vividi doloris et voluptatis naturalibus quibusdam signis coniunguntur, iisdemque manifestantur: homines haec facile possunt artificialia reddere, sinempe observent affectus, quos indicant, nec ea tantum edant impellente natura, sed consulto, ut quae experiuntur, ceteris manifestent. Quae signa clamoribus non articulatis, habitu vultus, et gestibus continentur, atque actionis, quam vocant, linguam conficiunt. Usu autem constat facilem, expeditam secretam idearum COMMUNICATIONEM hac lingua non obtineri, distantia, et interposito corpore impediri. Sensim igitur ab ea recedere coguntur homines, ad eamque feruntur, quae vocis distinctionibus pititur. Hanc ut instituant clamores naturales in primis pro stractum solamque formam exprimit, vel est categorematicum quod solum et per se aliquid notat, vel est syncatagorematicum quod ab alio avulsum nihil certi repraesentat, vel categoricum quod rem categoria comprehensam obiicit. Sed de his satis, sapiens est non qui multa, sed qui utilia novit. Negat P. Lamy in Trat. de Ar. log.; et Rousseau disc. sur. l’ineg. parmi les Hom. parum abesse censet, quin demonstratum sit, fieri numquam posse, ut lingua ulla suam ab hominibus originem habeat. Ita etiam A. Encycl. A. lang. His e diametro se se oppouunt Epicurei, quorum hac super re doctrinam Lucretius l.5. de Nat. rerum exposuit. Diodorus Siculus lib. I. Bibl. quod nobis possibile, et hypotheticum est, factum habet, omnesque linguas humanum fuisse inventum putat. Nuperrime in Diss. de ling. orig. ab A. Berol. an. praemio donata Herder contendit linguas in universum non divinae, sed humanae prorsus esse institutionis. De hac lingua V. Condil. Gram. part. 1. lib. 1. Sinensium lingua hanc videtur originem habuisse, ea constat ex monosyllabis 328., quae pronunciationo variata otficiunt SIGNA, (V. Condil.    100 -- trahunt, et simul iungunt, rerum etiam externarum sonos referunt, et imitantur (1), unde voces oriuntur, quae elevatione et depressione multum distantes aliquo modo gestuum et clamorum vim exprimunt (2). Atque ita verborum dstinctioni consultum, quantum patitur vocis et auditus organum rude adhuc et inexercitatum. Subtilius, qui haec disputant, quorum etiam aures delicatiores, similitudinem quamdam inveniunt inter impressionem a rebus, et a verbis excitatam. Eamque prolatis ex. gr. vocibus "crux", "mel",  "vepres", "furens", "turbidus", "languidus" distincte sentiunt. Hinc multae voces (3). Multae etiam facultate, qua pollemus, per metaphoras sive transferentiam omnia explicandi, et associandi insensibiles ideas sensibilibus. Revera verba, quae res insensibiles referunt, metaphorica sive transrelata omnino sunt. Perpetuo autem usu nomina propria evasere, et vetustate multorum etymologia sensibilis ita evanuit, ut res pror sus in sua SPIRITUALITATE relinquant (4). Quin immo eadem verba solum confugiendo ad metaphoras sive transferentiam poterant fabricari. Externa namque forma carent, etsono res insensibiles, unde earum no mina desumantur. Ac certe per imagines solum et similitudines id, quod experimur, aliis, qui illud ipsum non experiuntur, possumus explicare. Traité des connois. hum. t. II.) Alii monosyllaba Sinensium numerant 330. Freret sur la lang, des Chin. 214., et signa inde componunt 54509. et 80000. Haec loquendi ratio supponit iudicium aurium subtilissimum.V. Soave Compendio di Lock. l. III. Ap. al c.I. Hoc facile sibi suadeat quisquis rerum, quae sonorae sunt, nomina advertat ex gr. "ululare", "hinnire", "sibilus", "tonitrus", "stridor", "murmur". Observat Warburthon Ess. sus les Hierogl. actionis lingua, inventis iam vocibus, homines usos fuisse, Orientales praesertim, quorum alacritas, et imaginatio vehemens hunc exitum etiam requirit. Atque exempla permulta ex historia tum sacra, tum profana hanc in rem profert. Ut recte nomina rebus IMPOSITA sint, quamdam esse debere rerum, et nominum convenientiam ex ipsa earumdem rerum natura ortam in Cratylo contendit Plato. Sunt enim, ait ipse, nomina IMITAMENTUM, quemadmodum etiam pictura, et qui rei speciem in litieras, ac syllabas referre nonnovit, is ineptus nominum opifexest. Erecentioribus Ioannes Baptista Vico, principii d'una scienza ec., de similitudine verborum cum forma rerum multis disseruit. Horum nominum exempla sint cogitatio, voluntas, desiderium, aliaque huiusmodi. V. Traité de la Formation mechan. etc. Ch.XII.  Quod vero homines, ut boc aliisque modis ad sermonem formandum aptisutantur, fortius incitat, indigentia est, maxima rerum omnium magistra. Sermonis etiam utilitas, atque necessitas vix paucis inventis vocibus sub oculos posita. Hinc multi conatus, ut verborum numerus augeatur, quos felices reddit cognitionum, et idearum COMMERCIUM homines inter initum. Haec enim se mutuo fovent, et,ut verba commercium illud amplificant, ita ex commercio novae vires additae, et nova suppeditata istrumenta, quibus ars faciendorum et deligendorum verborum perficiatur. Nec vero sunt verba hominum opus, in quo ipsi nihil aliud, quam arbitrium recte sequantur. Est enim illa analogia im pressionis, et soni imitatio, quam pulcherrime in fingendis vocibus sequimur. Est forma, et affectio orgaai vo eis, a qua earumdem elementa, literae praesertim vocales determinantnr. Sunt denique derivata, et voces artium, et technicae in hominum libertate haud repositae, cum illae derivationis naturam imitentur. Hac vero vim, et EFFECTUS RERUM SIGNIFICENT significent. Duo sunt, quae videntur iam asserta impugnare. Primum scilicet sermonis institutionem requirere, ut de significatu verborum conveniatur. Conveniri autem inter eos non posse, qui omni sermone destituti sunt. Quasi vero nulla alia praeter voces ratio suppetat. Qua explicetur quid ipsae SIGNIFICENT Percipi enim id. Modum transferendi verba necessitas genuit inopia coactaet augustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit. Cic. de Orat. III. 38. Notat et illuminat marime orationem tamquem stellis qui. busdam verbum translatum Idem ib. 48. Huc faciunt quae de linguarum analogia subtiliter disserunt Valcke naerius in observatt. academicis, Lennep inpraelett. academicis et Scheidius in orat. de linguarum analogia ex analogicis mentis actionibus probata. Sed est etiam unde moveantur homines ad res alias per multas metaphorice appellandas, eas scilicet quas primum obscure, et confuse percipiunt. Et enim has meditando earum quamdam similitudinem cum aliis distincte perceptis intelligunt, quorum proinde nomina ad illa transferunt. Atque in hoc mirifice dele ctantur luce, quae ex rebus claris, et distinctis in alias obscuras, et confusas diffunditur. potest ex circumstantiis, in quibus adhibentur, et ex gestibus, qui pronunciatis nominibus res indicarent. In eamdem etiam rem conferet illa imitatio, atque similitudo. Aliud vero erat huiusmodi. Summis viris difficultas maxima se semper obiecit in linguis ornandis, et perficiendis. Qui ergo fieri potuit, ut homines plane rudes, atque ferini, communione scilicet cum aliis non exculti ex integro sermonem con dant? Fieri istud quidem non posset, si de perfecto sermone contenderetur, in quo non tantum apte expressa, quae ad necessitatem pertinent, sed etiam, quae ad cultum vitae, et oblectationem. In quo multae orationis partes, multae leges syntaxis, et inflexionum, multa denique, ut numerus, et varietas obtineatur. Haec sermoni non absolute necessaria sunt, et vix nomina, utaiunt, substantiva, et signum aliquod numquam variatum ad verbum auxiliare sum exprimendum. Quae quidem hominis licet sylvestris facultates non superant. Multa in qualibet lingua videntur esse synonima, voces scilicet, quae unam, eamdemque ideam referunt. Dubitari autem iure potest, an revera sint. Quin potius statuerem ea, quae di cuntur synonima, eamdem ideam principalem reddere, accessoria vero differre plerumque. Atque hoc modo inter se differunt "amo", et "diligo"; "peto", et "postulo", "timeo", et "vereor" V. Condill. Gram. P. I. Ch. XIV. V. Traité de la form. mechan. du langage V. II. Ch. IX. et suiv. Condillac Traité des connois. hum. T. II. Grammaire P. I. Ch. I. II., Maupertuis Diss.sur les moyens etc. pour exprimer leurs idées; Sulzer de l'influence recipr. de la raison, etc. extat in Ac. Ber. et Vol. IV. opusc. Select. Mediol. Soave Comp. etc. L. III. Ap. al C.I. Receptum apud logicos novimus, ut nomina tribuant in synonima, quae secundum unam eamdem que rationem de pluribus usurpantur, et in homonyma quae rationem naturamque diversam in iis SIGNIFICANT, de quibus adhibentur, Iam vero homonyma alia dicuntur casu et citra rationem ac temere im. Synonima stricto sensu accepta, quae nulla idea accessoria differrent, linguae vitium indicarent. D'Alemb. Elem. de Phil. XIII. Hac de re notandum est, vocibus duplicem illam ideam  subesse. Et, ut praeteream exempla, quis est, qui non noverit, vocabula quaeque loco, et tempori, et generi s u scepto orationis non convenire? Quod profecto maxime oritur ex idea accessoria, quae non solum verba eamdem principalem exprimentia distinguit, sed eorum etiam opportunitatem deter minat. Quae ergo synonima habentur, ea profecto non iure; namque discrepant accessoriis illis ideis, quae rerum diversos aspectus, gradus, et relationes, et adiuncta exprimunt. Imperiti haec apprime synonima reputant, quorum levia discrimina lin guarum cultores notant. In eo frequenter peccant ex lexicis pene omnia, quae adolescentes, misere decipiunt. Duplex distinguitur ordo verborum, et conformatio, naturalis, et artificialis; seu inversa. Porro quem ordinem habent ideae, idem etiam verborum est: ordo autem idearum, fertur ad modum, quo in mente sibi succedunt, vel ad earum dependentiam mutuam,ex qua fit, utaliaealias regant, et explicent, aliae explicentur, atque regantur. Si primum, ordo, quo exprimuntur ideae, naturalis erit, quando idem, ac ille, qui in earum successione servatur. Qui quidem in singulis diversus est. Si secundum, ut ordo sit naturalis, quae alias regunt, vel ab aliis explicantur praemittendae sunt. Quae reguntur, et alias explicant postponendae. Secus erit artificialis, seu inversus. Sed unde oritur, quod ordo inversus orationi vim addat,et siteius quasi lumen quoddam nosque voluptate perfundat? Scilicet posita, et alia dicuntur ratione, quod rebus tribuantur aliqua inter se similitudine cohaerentibus. Posteriora haec aptius vocantur analoga, sive attributionis, quum uni quidem rei primario conveniunt, reliquis secun dario,sive proportionis,quae pluribus rebus propter proportionem aliquam accommodantur. Ex  hoc fonte methaphorae pleraeque omnesdimanant. Nonnullarum rerum, atque actionum voces quaedam ex ideis hisce accessoriis inhonestae, et turpes evadunt; quae ideae si in aliis vocibus omittantur, vel mutentur,nulla amplius est turpitudo. Unde fit, quod eae. dem res, etverecunde, etobscoene dicifpossint,etquod ea,quae turpia re non sunt, nominibus, ac verbis flagitiosa ducamus. vel re. D'Alembert loc. cit. Traité de la form. mech. du lang. ch. IX n.161.  quia eum, quem Rethores MODUM appellant, et numerum parit; quia imaginationem exercet;quia ideas nimis disiunctas coniungit. Revera voces ordine inverso positas ad se mutuo referi m u s, ut postulat idearum ratio. Atque si in periodo multae sint ideae, quae a quadam principalipendeant, et exiis aliquaehuic praeponantur, postponantur vero aliae, arctius omnes cum ea coniunguntur. In quo nexu illud praesertim admirabile,quod uno verbo ad integram sententiam animus revocetur. ET IDEARUM INFLUXU. Varietatem linguarum,et nos ad confusionem Babylonicam referimus: simul autem liceat statuere,ex diverso hominum ingenio, et indole,eorumque externis circumstantiis oriri potuisse, et magna ex parte ortum esse,ut singulae suum -co lorem habeant. Ac ex confusione illa vocum origines potius, quam ipsaelinguae;quae perfici sensim debuerunt,etaugeri verborum copia, atque syntaxi, et inflexionibus moderari. Non una autem in hoc fuit omnium gentium ratio, quod multis causis tum physicis, cum moralibus tribuendum est. Atque inter eas recenserem caeli temperiem, non eamdem ubique faciem naturae, rerum aspectus multiplices, diversas opiniones sive ad civitatem sive ad religionem pertinentes, regiminis formam, educationem, mores denique et studia. Revera sermonis vis, copia,et harmonia, et inflexio nationum exprimit characterem,ingenium,atque culturam;ac eadem linguarum, et gentium fuere semper fata, et vicissitu dines. QUOD IN ROMANI IMPERII, ET LINGUAE LATINAE ORTU, progressu, et occasu velut sub oculos positum est. Iunctam, cohaerentem, levem, et aequabiliter fluentem orationem facit verborum collocatio. de Orat. II. 43. V. D'Alembert Eclair cis. S. X. Condill. Gram. P. II. ch. XXIV. Art.d'Ecrire L. I. Ch. I. II. V. Traité de la form. mechan. etc. Ch. IX.  INSTITUTIONE DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM. Sed ex iisdem quoque caussis fit, ut nationes singulae suas habeant idearum compositiones, et vocibus, quibus aliae carent, utantur. Inde in interpretando necessitas verborum circuitum saepius adhibendi, cum non semper verbum e verbo exprimi possit. Indeadeo difficile, libros ex una in aliam linguam convertere. Atque in hoc lice tomnis cura, et studium ponatur, adeo singulis linguis suum quoddam inest ingenium, ut nullae fere sint interpretationes, quae authographi vim, et elegantiam, et nativum splendorem nequaquam desiderent. Quae quidem eo nos adducunt, ut intelligamus, quem dam esse posse sermonem, edisci, et percipi omnino facilem. Quem si universalem veluti linguam cunctae gentes amplecterentur, eo possent mutuum idearum, et cognitionum commercium inire. Ac difficultas, qua ab hoc impediuntur, ex lin guarum varietate, et multitudine orta, alia etiam ratione vinci posset, characteristicam nempe aliquam linguam adhibendo, quae res ipsas, non rerum voces exprimeret. De bac sermo erit inferius. Interim cum nullus ex hisce modis adhuc suppetat. Nec ulla spes sit, ut in unum, V. Clericum Art. Crit. tom. I. part. II. cap. II JII.IV.  Linguarum varietas non leve incommodum affert societati, et progressui scientiarum. Nec enim consultum, ut facile edisci possent, sed casu magna ex parte conditae, et procurata copia, et ornatus. Sublatis declinationibus, coniugationibus, et generibus, si substantiva unam immutabilem terminationem haberent, suam adiectiva, et verba pariter, quae adverbiorum ope temporibus, et modis distinguerentur. Pullae superessent regulae grammaticorum, et solius lexici auxilio linguam quam libet perciperemus. Cumque insuper esset prima illa lingua absurda, et egestate, atque uniformitatis squalore sordesceret. Maxime erit optandum, ut LATINI SERMONIS USU conservetur. Locupletissimus namque est hic sermo, electissimis, et praeclaris verbis abundat, communis hactenus fere fuit omnium eruditorum; qui eo abiecto, si suam singuli linguam in scribendo usurparent, iam, vel aliena omnia nescirent, vel in omnium gentium, quae doctrinae laude vel alium conveniant omnes. Splendescunt, perdiscendis linguis curam, et operam compellerentur insumere, quam ad rerum cognitionem adipiscendam con tulissent. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, satis ostendunt, easabideis, et cogitandi modo non parum pendere. Sed magnus etiam est verborum in ideas, et mentis operationes influxus. Atque in psychologia, si fortasse ad veritatem plane non sua detur, nullas fere absque verborum usu nos exequi posse. Illud profecto demonstratur, eo foveri multum, et perfici. Quod probari nunc potest exemplo mutorum. Earum etiam gentium, quibus signa numerica pro maioribus quantitatibus deficiant, cetera sint nimis composita. Illi quidem multis omnino ideis destituuntur, mentisque facultates obtusas habent, nec ad operandum faciles et expeditas. Hae vero gentes in rebus ARITHMETICIS ne vix quidem progressae sunt. Tantum signa valent ad humanas cognitiones promovendas vel impediendas. Equidem arbitror, a veritate abesse longius, qui crederet verba communicationi cum aliis tantum inservire. Ea menti sistunt obiecta. Nimis composita dividunt. Si magnifica sint et nobilia, res amplificant, et extollunt. Si humilia, imminuunt, et deprimunt. V. Laur. Mosheim DISSERT. DE LINGUAE LATINAE CULTURA ET NECESSITATE V. etiam quae nuperrime Ferrius, et Tiraboschius, Alexander Gorius, et Clementinus Vannetti in eam habent Alamberti sententiam (Melang. tom. V.) statuentem bene LATINE scribi non posse, et LATINITATE abiecta studium omne ad patriam linguam transferentem. Refert Condaminius, quosdam Americae populos, cum ocesnume rorum supra ternarium non habeant, in hoc arithmeticam eorum consistere: certevix paucis huiusmodi signis utuntur, iisque ad modum compositis, ex quofit, ut maiores numeros mente haud comprehendant, et quem libet ultra vicesimu in indefinite concipiant, atque capillorum numero comparent.V. De la Condamine Voy. Paw Rech. sur les Americ. tom. II. ch. 27. Cogitatio, ait Plato in Theaeteto, est sermo,quem mens apud se volvit circa illa, quae considerat. Cum enim cogitat, secum ipsa disserit adeo, ut cogitatio sit sine strepitu vocis oratio, aut interior collocutio. Verba sunt veluti signa algebrica idearum. Brevitati proinde consulunt, multarum idearum comparationem faciliorem reddunt, mentenique sublevant in consideratione multarum rerum, atque compositarum: quae verborum utilitates maxime elucentin modorum mixtorum ideis, quas in nullo exemplari iunctas videmus, sed verbis exhibentur et comprehenduntur. Verba denique nexus inter ideas augent, eas facilius, et promptius exsuscitant, distinguunt, quae vix confuse percipe rentur. Sic technicae in arte pingendi voces omnia alicuius tabulae vitia, omnemque praestantiam indicant. Quae eos prorsus fugerent, qui illas voces nequaquam callerent. Quare scientiae, omnesque artes multum debent verborum inventoribus, ut Linnaeo Botanica; et Ontologia, licet nomenclatione tantum contineretur, non esset penitus contemnenda. De verborum usu, et abusu haec fere a Lokio, aliisque melioris notae Logicis accepimus. In primis duplicem esse usum verborum. Vel enim eo cogitationes nobiscum cooferimus, vel aliis exprimimus. Illum jam attigimus capite superiore, in quo osten debam, maximas utilitates ex hoc interno sermone profluere. Cum aliis autem utimur verbis,aut in vitae civilis consuetudine,vel in studio Scientiarum. Inquo praesertim distinctioni, et perspicuitati. Ideae in primis connexae inter se sunt ex analogia rerum, et ex circumstantiis, in quibus acquiruntur. Sed insuper verbis etiam unae cum aliis colligantur. Quot ideas unum verbum saepius excitat? Atque ex verbis haec alia utilitas provenit, ut in ideiş revocandis, et disponendis ordini, quo a nobis comparatae fuere,non adstringamur, sed illum qui magis placeat, magisque conveniat iisdem tribuimus. V. Bonnet Ess. Analyt. ch. XV. V. Sulzer loc. iam citato, Micheaelis de l'influ. des opin. sur le lang. etc. Condil. Art. de penser. part. 1. ch. II. STELLINI OSSERVAZIONE SULLE LINGUE tom.V. Soave Comp. di Locke I. III. ap. al cap. XI.  Scilicet, si circa ideas maxime compositas,  sertim versemus, iisdem nomina, quibus appellantur, substituimus. Nimis enimesset operosum, eetiam impossibile, omnes ideas simplices illas componentes mente revolvere. Quod etiam confusionem afferret, et, ne idearum relationes viderentur, obstaret. Haec habitualis, non actualis distincta perceptio est idea coeca, et symbolica Leibnitii. circa notiones prae 1 litandum est, ne per se difficilia reddantur difficiliora. Et ne rerum INVESTIGATIONES in aeternas quaestiones de nomine abeant. Locutionis perspicuitas, atque distinctio maxime optanda idearum claritatem, et distinctionem desiderat: quomodo enim, quae confuse percipimus, aliis distincte explicarentur? ad eam confert brevitas, in qua tamen habendus modus;nam ut nimia verborum copia res obruit, ita eorum egestas tenebras rebus offundit. Denique cum iis, qui loquuntur confuse, vitanda fa miliaritas est,qua nihil fortius ad idem vitium contrahendum. Ita autem verbis utamur,ut unicuique idea determinata re spondeat;dequo,sinobiscum tantum colloquimur, nos ipsos debemus interrogare; si vero cum aliis,et dubium sit, an verba ideas claras,etdistinctas in aliorum mentem immittant, tunc ea dilucide explicanda sunt. Id quidem de nominibus idea rum simplicium praestari potest (vix autem erit necesse), si observanda proponantur obiecta,quae significant,etmodus,et circumstantiae indicentur, in quibus eorum ideae acquiruntur. Nomina vero idearum, quae sint compositae, decla rantur earum obiectis exhibitis, et addita ipsorum definitione; nec enim omnia attributa patent sensibus, et multa indolem potentiae habent. Quod si haec obiecta non existant.Verborum universalium magnus est usus, et maxima utilitas; innumera enim individua una tantum voce comprehendi mus, quae esset impossibile omnia suis nominibus distinguere. Esset etiam inutile, quia necii, quibus cum loquimur, multoque minus illi, quibus aliquid scriptum relinquimus, eadem indivi dua agnoscunt.  ergo. Sed quae circa rectum verborum usum,et eorum inter pretationem, de qua inferius, praecipienda sunt, separari vix possunt ab idearum doctrina iam tradita; utrisque enim idem finis, avocationempe ab erroribus. Inter eaetiam intimus nexus, quantus inter voces, et ideas. Nunc lum, quae propius ad verba pertinent, quaeque eo loci explicata non sunt. ne actum agam, so meratio idearum, quas simul reflexione, aut pro arbitrio con iunximus. fiat enu Vocibus demum abutimur, si quae incertam significa tionem habent, non definiantur; si definitus sensus mPombaur. Si in rebus scientiarum artes consectemur oratorias. Namque delectant, et movent, mentemque avertunt a philosophico rerum examine,quas non accurate,sed ad similitudinem exprimunt. In verborum sensu commutando peccarunt vehementer scholastici. V. Gassendum in Exerc. Arist. Exerc. I. Y2. Hic cum Logicis fere omnibus non praecipio, abstinendum esse a tropis atque figuris:rebus enim permultis vocabula metaphorica necessario imposita sunt, aliis utiliter, cum ex iis orationi splen dor accedere videatur.V. Condil. Art. d' écrire lib. II. ch.VI.VIII. Translationes propter similitudinem transferunt animos,etre. Neque vero minor utilitas ex verbis notionum;.harum nullum archetypum extra nos invenitur iunctas exhibens ideas, ex quibus componuntur. Id vero praestant nomina, quae illas comprehendunt. Sunt denique voces, quas particulas appellant Grammatici; his utimur, ut ideas, et periodi membra, et periodos ipsas interse coniungamus. Quisaneusus mirificus est, et ex eo maxime vis tota orationis derivat. Rectus erit,si m u tuam rerumdependentiam, et relationes diligenter consideremus.  Haecdeusu. Nunc de abusu,quirestat,dicendumest. Iam vero abutimur verbis, si iis, nullam ideam, aut obscuram associemus, adeo ut inania sint, et ambigua: in quo non rarum estlabi;etmaxime verba notionum virtutis,honoris,et simi lium multo pluribus sunt meri soni; obiectum namque non referunt, quod sensus moveat, nec illud quod referunt in in fantia, percipimus. Hinc ea absque ulla significatione usurpandi longam consuetudinem iam contraximus, a qua ut reMilanius, reflexione vehementer nitendum est. Sed abusus verborum etiam ex ignorantia, et malitia. Scilicet, qui partium studio, vel anticipata opinione moventur. Qui vulgo avent imponere. Qui difficultatum pondere haerent et idearum defectu impediuntur. Tunc enim vero ii obscuritatem affectant, verbis inanibus se se involvunt, nova etiam fundunt, atque sesquipedalia. Optimum ergo erit, mentem parumper a verbis abstrabere, eamque in ideas intendere, ne verborum so nitu hallucinemur. Ut verba recte interpretemur, advertendum in primis, notiones eius, a quo adhibentur,'significare. Non igitur suppo natur, omnes iisdem verbis adnectere easdem ideas, et ipsis rerum realitatem apprime respondere. Quae qui supponunt, de rebus perperam ex verbis iudicant, et ex propriis aliorum ideas non bene copiiciunt. Hisce per summa capita indicatis, advertam in primis, duplicem distingui sensum verborum,proprium scilicet,et tran slatum;namque verba,aut illam rem exprimunt,cui primum fuere assignata. Vel ex quadam similitudine cum re ipsis propria eadem verba ad aliam significandam transferimus. Quod si fiat, sensum habent translatum, secus autem proprium. Nisi quis sensum proprium alicuius vocabuli accurate perceperit, numquam fieri poterit, ut translatum assequatur; hic siquidem ad illum refertur. Rerum praeterea conditionem inspiciet,ex qua oritur, ut quaedam voces potius, quam aliae, ad res sensu translato exprimendas, electae fuerint. Inde clarius is sensus patebit ferunt, ac movent huc, et illuc, qui motus cogitationis celeriter agi tatus per se ipse delectat. de Orat.III.39. Translatio est, cum verbum in quamdam rem transfertur ex alia; quod propter similitudinem recte videturposse transferri. Cic. ad Heren. IV. 34. V. D’Alembert Eclaircis., sur les Elém. de phil.S.IX.  Quam vero quisque vocibus notionem subiicit, arguere tuto possumus, si multa nobis nota sint, eaque invicem conferamus; loquentis scilicet ingenium,et characterem; affectus, oris habitum; linguae, quautitur, vim, etindolem; rem,quam tractat; circumstantias, in quibus versatur; opiniones, religionem, quam sequitur;demum popularium eiusmores, ritus, consuetudines. Haac enim omnia efficiunt, ut licet verba sint eadem, non tamen eumdem significatum, eamdemque vim habeant. Nunc vero singula verborum genera persequar, deque  Difficilius assequimur sensum verborum, quae notionibus respondent; siquidem praeter caussas nominibus rerum existentium communes, peculiares etiam concurrunt, ex quibus efficitur, ut singuli fere has ideas diverso modo componant. Nec eadem semper significatio est vocibus orationis par ticulas exprimentibus; loquentium igitur, vel scribentium affe ctus, et praecipue contextus consulatur,cum ex iis sit dedu cenda. De nominibus relativis, quid advertendum in praesen tiarum,ut recte explicentur? Porro id muneris iam explevi dum agebam de eiusdem generis ideis. Quid de nominibus uni versalibus,quod paritereoloci, traditum non sit? Illud subiungam,voces particulares,aliquis,quidem etc. obscuras esse et indeterminatas, nec denotare, quae, et quanta subiecta sint; universales vero aliquando particulariter esse sumendas, aliquando non omnia individua generum,sed individuorum omnia  siores esse, iisnonnulla admoneam,ad quae semper in eorum interpretatione spectemus. Qualitatum sensibilium nomina, colorum nempe, saporum, aliarumque huiuscemodi, sensationum etiam doloris, et voluptatis, non ita accipienda sunt, quasi explicent id, quod est in rebus extranos positis. Nostras affectiones, sensationesque upice indicant, nec vero vim,et quantitatem earumdem. Hanc experimur, non autem accurate possumus efferre. Fit autem sae pius,ut in singulis maior,vel minor multiplici gradu sit. Dubitari quidem potest,quin ipsae sensationes apud aliquos prorsus differant, licet omnes iisdem verbis utantur. Omnes arborum folia viridia appellant; sed adhuc videndum, utrum haec vox eamdem omnibus ideam excitet. Quam dubitationem ingerit di versa corporis temperies, et habitus, nec eadem omnino fabrica sensuum;unde certo oritur,affectiones easdem aliquibus inten aliis languidiores. Nomina idearum compositarum non idem apud omnes. Maxime si veteres cum recentioribus confe rantur.Ne eas igitur ex nostris notionibus interpretemur,sed ex illis quae ampliores fortasse, vel angustiores. Nominibus substantiarum easdem qualitates non omnes complectimur. Nulli essentiam primariam,a qua eae nascuntur,et quam nemo novit.   genera significare. Quae quidem ex circumstantiis, linguarum indole, ingenio, loquendi consuetudine patent dilucide. His fere,quae adhuc de vocibus disserebam,continentur potiora,ex quibus Grammatica philosophica conficitur: linguarum singulae suam habent, eaque particularis Grammatica dicitur. Est vero etiam Grammatica universalis,quae principia constituit omnibus linguis communia.Notandum superest,syntaxim totam legibus concordantiae, et regiminis moderari. Illae principio identitatis, hae principio diversitatis innituntur. Verborum disputatio manca videretur, si de scribendi rationibus haudquaquam dissererem. Non igitur una fuit haec ratio apud omnes,nec omnibus temporibus;tamen in eo con veniebant, quod signis non ore,sed manu expressis,quae mente revolvimus, manifestarent. Ac, quae fuere adhibitae, pictura, symbolis allegoricis, denique signis arbitrariis continentur. Pictura, aut unam figuram, aut plures exhibet, signa arbitraria, aut ideas,aut syllabas,aut litteras verborum significant. Scripturae, licet ab ea, qua nunc omnes fere gentes utuntur, longe dissimilis,specimen aliquod hominibus innotuit per imagines, quae sui res exhibent, et quas conamur exprimere gestibus, et clamoribus, ut iis longinqua designemus. Ad has imagines adumbrandas urgebat necessitas communicandi cum absentibus, et praesentibus explicandi id, quod verbis efferri non poterat. Inde scripturae origo potius, quam ex cura committendi nostras cognitiones posteritati. Ac homines ex rerumimaginibusidconsiliicepisse,ut illas ad suos cogitationes enuntiandas delinearent, omnium pene De usu, abusu, interpretatione verborum videantur Locke Ess, etc. lib.III. Leibnitz Nouv.Ess,etc. lib.III. Ioannes Clericus art.crit. tom.I. pari.II. V., silubet, Du Marsais princip. de gram. Condillac gram. D'Alembert Elem.de Phil. XIII. et Eclaircis. sur les Elem. etc. S.X.  Hinc sensim crescere CONVENTIONIS SIGNA, etomniatan. dem huiusmodi evadere. Quae sola notiones reflexione perceptas possunt exprimere;quae ob multos rerum aspectus sunt neces saria. Namque notiones illae nullam imaginem praeseferunt, nec ulla imago diversas relationes comprehendit, sub quibus res, ut lubet, consideramus. Signa autem, quae ex CONVENTIONES sunt, optime quidem ab eo constituta fuissent, qui singula singulis ideis simplicibus destinasset, suaideis universalibus, aliademum determinationibus individua constituentibus. Enim vero simul iungendo, et apte componendo haec signa, res omnes possent distincte explicari. Hoc scribendi modo philosophus tantum uti potest, nempe ille solus, qui probe noverit, quaenam ideae simplices illas substantiarum, et notionum componant. Quique etiam adeo individua observaverit, ut ea possit plane describere. Illum Si  V. Paw Recher. sur les Americ. tom. I. part.V. sect.I. Quemadmodum artis typographicae occasio fuit ars caelatoria et sculptoria, ita occasio scripturae non inepte ex pictura derivatur. Praesertim quum non aliter pictura sit obiectorum in oculos incurrentium scriptura, quam scriptură sit obiectorum quae aures feriunt pictura. Videsis Augustum Heumannum in conspectu reipublicae literariae cap. III. Signa huiusmodi spectant ad linguae universalis institutionem. Alia ratio, qua ad eamdem possumus pervenire, indicata, vix est N. LXXII., LXXXII. V. Soave Comp. di Locke lib. III. cap. XI. append. II., qui etiam celebriores scriptores recenset, a quibus ea institutio suscepta fuit. V. Leibnitii historiam, et commend. characteristicae linguae univers. V. Traité de la Form.etc. ch. XII. XIII. Mémoires de l'Acad.de Berl., ibi Thiebault videtur succensere Michaelis, et non ita difficilem, nec vero inutilem, et multo minus perniciosam, quemadmodum ille, censet linguae universalis institutionem, quae primo illo modo conti. neretur. Sepositis iis,quae de universali lingua instituenda excogitari subti.  vetustarum nationum monumenta, et gentium sylvestrium usus confirmant. Quae scribendi ratio picturae affinis, cum auctis cogni tionibus, relationibus, et indigentiis ad omnia exprimenda non non satis esset apta, paulatim a signis discessum est rerum i m a ginem referentibus, et huius pars tantum depicta, et plures ideae uno signo manifestatae. nenses adhibent; proindeque mirum non est, si tanti apud illos sit literas scire. Quae difficultas effecit, ut nationes pene omnes eum scribendi m o d u m probaverint, quo non obiecta, non ideas, sed sonos verborum reddunt; ad quem duplici via perveniri posse declarabam liter possent, splendideque proponi; multo fuerit satius consilio adquie scere Ludovici Vivis, cuius haec sunt (De tradendis disciplinis lib.III. verba. Sacrarium est eruditionis lingua,et sive quid recondendum est,sive promendum velut proma quaedam conda.Et quando aerarium est eruditionis, ac instrumentum societatis hominum,e re esset generis humani unam esse linguam, qua omnes nationes communiter ute rentur: si perfici hoc non posset, saltem qua gentes ac nationes plurimae, certe qua nos christiani initiati eisdem sacris, et ad commercia et ad peritiam rerumpropagandam. Peccati enim poenaesttot esse linguas. Eam vero ipsam linguam oporteret esse cum suavem, tum etiam doctam et facundam. Suavitas est in sono sivé simplicium verborum ac separatorum, sive coniunctorum. Doctrina est in apta proprietate appellandarum rerum. Facundia in verborum et formularum varietate ac copia. Quae omnia effi cerent, ut libenter ea loquerentur homines,et aptissime possent explicare quae sentirent, multumque per eam accresceret iudicii. Talis videtur mihi latina lingua ex iis certe quas homines usurpant, quaeque nobis sunt cognitae. Quod continuo diligenter, ostendit, eaque tradit quae merito cum disputatione componantur ab Aloisio Lanzio libris inscriptionum et carminum praefixa. Sinensium alphabetum Typographicum ex 50000. signis constat. V. Mémoir, concernant l'histoire etc. des Chinois parles mission. tom.X1., Mopertuis ius auget ad 80000. Iaponenses, licetomnino diversa linguautan tur, quae tamen Sinenses literis consignant,probe intelligunt; adeo verum est haec signa non rerum voces, sed earum conceptus delineare. V. Marpertuis loc. Iam. cit. Cesare Baldinotti. Keywords: signum, genere, segno, genere, segno naturale, lacrima, segno artificiale, ‘homo’, conventione, imposizione, idea, ideazionismo, ‘Locki’ – enciclopedismo, illuminismo, ‘discorso sulle lingue’, propositione, articulazione, logica, grammatica, forma logica, modus significandi, imitatmento, il Cratilo di Platone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldinotti” – The Swimming-Pool Library.   

 

Grice e Balduino – il vestigio dell’angelo al  Campidoglio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montesardo). Filosofo italiano. Grice: “It is amusing that when we were lecturing with Sir Peter at Oxford on ‘Categoriae’ and ‘De Interpretatione,’ Girolamo Balduino had done precisely that – AGES before, in a beautiful beach town of Italy! ‘vir Montesardis,’ –“ Grice: “Strawson and I, following an advice by Paulello, drew a lot from Balduino’s commentary – especially of the Peri Hermeneias, the section on the ‘oratio,’ since we were looking for ordinary-language ways to render all the modal distinctions (indicative, imperative, optative, interrogative, vocative, …) that Balduino finds so easy to digest – but our Oxonian tutees didn’t!” --  Girolamo Balduino (Montesardo), filosofo.  Studiò all'Padova sotto Marco Antonio Passeri (detto il Genua) e Sperone Speroni, formandosi nell'eclettismo aristotelico proprio di quella scuola. Insegna sofistica in quello Studio; passò poi all'Salerno e all'Napoli.  Nella seconda metà del Cinquecento le sue opere furono occasione di vivaci dibattiti. Alle sue dottrine si oppose, in particolare, il filosofo padovano Jacopo Zabarella. Altre opere: “Perì hermeneias”, “De interpretation, “Dell’interpretazione”; “Quaesita tum naturalia, tum logicalia”.  Studi Giovanni Papuli, Girolamo Balduino: ricerche sulla logica della Scuola di Padova nel Rinascimento, Manduria, Lacaita, Giovanni Papuli, Girolamo Balduino e la logica scotistica, in « Acta Quarti Congressus Scotistici Internationalis», II, Roma, Giovanni Papuli, Dal Balduino allo Zabarella e al giovane Galilei: scienza e dimostrazioni, in « Bollettino di storia e filosofia », Raffaele Colapietra, recensione di Ricerche sulla logica della scuola di Padova nel Rinascimento, Emeroteca della Provincia di Brindisi. Girolamo Balduino. “De signis”. It. segnare, notare, segnificare, notificare. Primum oportet ponere quid sit nomen et quiddam in proæmio, ut propositum suæ considerationis ante quid verbum cognovit et infra ab orationibus rethoricis et poeticis, atque his quæ affectus explicant, illam se legit. Item tes cum iste liber cum tota logicae undem modum cong ordine lint considerandæ quo, ex processu resolvente com, siderandi participet, qui ut ante monstrani est instrumen monstrat cum inquit primum bum etc. vers tum seu organum notificandi. Quid inter hunc librum quid nomen quid alios differt? Respondetur. Id interesse et, inter diversos primum, non intentione, cum libros eandem rem eodem. Sed quod primo exequi instituimus dicit opor versa prædicata propria, de illa cognoscantur. Q dis eaq. præs cipia quæ ut deus, et prima in omni tempore, loco, et subiecto dicata ex fine libri facile inveniri possunt demostrationis prin sunt nes mus, extremum nam ut posuis cellaria. Sed suppositione in hoc libro et finis, rum conceptarum res et secundum quid. nam tuimus dicata quinq vocem SIGNIficativam stag are, ut toto, necessario tra verlrum etc. Hæc verbi, orationis, enunciationis nominis, nis quibus eædem libro poeticorum est præceptionem tradere finiendo considerant alterum ut aspernetur et um metrum formandum, bi etc. ponere ergo sumetur non tanquam res dubia inquirendum sum, verum et constans ponendum primo mento magno exemplo explicatur artificum idem ligna ut lignum, sit sed ut per seno post incos unus artifex statua malter, referet tæ, cum suo proprio monius inquiens est, ad metria positi oest. Ita que non nisi ut enunciativa. Sed de subiecto do post secund infine. Regulem logicem ponuntur ut notæ orator et  poeta enunciativa orationis codem modo ista des:ante et SIGNIficativas intendit idenim definitionem nomini suer, sitione SIGNIficantes tionis tantum urilitatem declarat apo demonstra, ad impossibile primo prior de tione simplici et hæc porest. Sed demonstratio viriali cuius, extranea autem quod licer hæc omnia demonstrationis Postremo scientiarum. ne viam atrium et iuxtaponitur uerbo. Magentinus positionis modos modo considerantes est interpretario posis ab instituto, nomen, aim. Ponere seu constituere. Ammonius has tres particulas legit cum ergo sunt prædicata propria, affirmationis et negatio mum ponendum constituat, alterum appetendum explicaretur oportet definire et fugiat. Poeta ad cocinnum orator vero adornatum. Id, quasi istorum quid nominis ad efficiendam. Huic quam retuli rei confidera Averrois, definitio enim inquit Aristotele ingeo navem, alteradarcham considerandi modo, assentit, Amonius definitiones positiones in arte dicuntur. Metafisicae in hoc libro confiderari de oratione, in magno com cuiusratio est primopoft. quam per voces clariores mo prior primo, syllogismus est positis et concessis et concesso, pri oratio in quaquibusdam attingit. Magentinus syllogism ducente hac tenus. Paul e re niam fiunt. Quos cis nunc. De utilitate dicimus ab anima, quæ facile opus suum inquitex proposito patet: ad de et ex inscriptione cepit ergo tertium  modorum quos Ammonius attulit. Su subiceti interpretationem refertur. Quam mitur enim gratia quæri retulimus nam enunciatio ad ins ponere, primo prosupposito tendatur tet non simpliciter sic enunciatio in to, propositum quas per voces clariores NOTIFICARE nostrum esse, de oratione enunciativa. Hic autem finis haberino potest, nisi per hæc præ tertio ait igitur de partibus tractandum est, quid nomen et quid verbum inquiens et Aristotele verba conne fit ita res tractatæ alibi differunt. Requires et ens quia propositum Aristotele quam, necessario. Quona igitur modo sei ungi simplicium essential cognoscenda differentia locus, tamen hic nomen quid ferme omnis explicatur ex proprio fine quoniam et uerbum. Juult ergo cum cæteris ista considerat utg syllogism parte sefficiantur logicus bus ponere sumendum fore pro definire et definit, ut verum strationi deseruiant, grammaticus vero voces tis compositas incongruum sermonem ex elemen, ut congruum, siue oportet ponere, id est definire et falsum declarant. Et novissime ut demons dissentio latina ac sensum accedens ab Aristotele sidiceret. Sed ab his ad Aristotele verba græca et. nam committeretur nugatio possunt? ideo dixit primum est erfide hoc infra fit proprius considerandi oportet ponere  id est definire, magis ut iudico. Hæc ut bene Ammonius cognoscit. Ac.p fine propositis nullo modo tamen, ut omnia moveri commune commodum est id muniter posito primo top. nono.Tertio et concello quomodo sumitur procom de mente Ammonii attulimus gratia explicentur omnibus Aristotele. Quarto pro ea fine ratiocina, pro proprium est. Locis quos adverbio quod nibuscarentibus pro definitio positione fieri ex Heracliti sententia via relinquenda non est docentes, fine via eius contemplationem medio. Secundo poster incommens damus, tenebrisan; circumsusi more feramur, est igitur enumerat: tray in incertum imperitorum via, illa quam toti logicæ Aristotele to magno est. coniung nomine et verbo. Pris. primo post secundo post. et ratiocinatione ex hypothesi. Secundo supra retulimus et hic accepit sed quem modum Aristotele hic fert. Ex hisitaque patet. Arit, resconsiderandas acceperit, verbum nullum proj ea considerantur. Quod si orationem ante etiam posuit et tractavit, non nisi ut genus commune enunciationis, ad verbum. OD rum ordinem pofuisse) tanquam subiecta et tertio prædi num triplex potestelle consideratio: primo ut absolute Cara, quideorum, scilicet ponere sive constituere. Sed SIGNIificant simplices CONCEPTUS. Ita in prædicamentis cons citorcum primo post in parva commentatione: scieny fiderantur. aliomodo secundum orationem, ut partes tiasitunius generis fubieéti, quçcúq; exprimis componitur, sunt enunciationis: sica dhuc librum spectabunt, propter et partes et PASSIONES horú sunt pse. igitur duo sunt per reaenim inquit traduntur sub rationem nominis: uet er se predicata, substantia sive essentia quæ per definitione, et biut SIGNIficant cum tempore aut sine tempore, intulit accidens proprium, quod per demonlirarionem concluditur. etiam. et traduntur alia huius modi, quæ ad dictionum secundo post. Inmagno commento cur tantum pertinentrationem, ut enunciationem conftituunt sed quid istorum proposuit? Ad hoc dicendum mihi uiden quam vistant iuiri ingenium et iudicium semper cum sum tur: ex primo post res quarueif ecf timperfectum, et quasi in mente, non habentuere definitiones. Secundo ponendum quod supra documus, res logicas ut intrumen ta et organa artium  et scientiarum, ad proprios fines et quod satis probatum est supra cum a nobis Ammonius notitiam explicandam referri. His datis patet ad petitios est reprehensus. Præter eaut diximus nome et verbum nem responsio: namdum Aristotele quid prædi et orumponen simplicior asunt decem vocum conceptibus. Amplius dumpropofuit, et propriosfinesquiipsorumpropriafer rationoininis et ucrbi et fi ut materia adorationemenun rendicuntur accidentia, anteposuille dicetur sic enim ora, ciatiuam pertineant: tamen corum rationes sunt commu cionem definiens enunciatilia inquiet non omnis: sed in nes, non ad orationem tantum contra et æ. ut prædicari de qua verum et falsum explicatur et nomen quod vox fit si vocibus simplicibus prædicamentorum non possint, licet SIGNIificatrix. Requirit secundo Ammonius a quo Aquinas cum divo Thomas in ultimo suo dicto contra Ammonii opis mas accepit. Side simplicium vocum essentia in prædica; nionem consentiam: nomina et verba in hoc libro tracta mentistra et auit: cur hic iterum repetits respondet Ammonius. ri,ut cum tempore aut sine tempore SIGNIficant, et non solu unum quod supra tanquam falsum reiecimus. Nam et fi hæc SIGNIificare dicuntur, sed et alia huius modi quæ perlig verum dicat. Ut robique easdem res subicto, rationetas nent ad rationem dictionum. Licet ipse sub inferat, utes men differentes finiri: nihilo minus differentia quamaddu nunciationem constituunt. Non solum affirmatigam enun cit est falsa. Dum inquitin prædicamentis voces simplis ciationem, ut Ammonius afferebat. Si autem ista verba, ces considerariut indicativæ sunt rerum simplicium quæ Aquinas referret addi et tasuperius ut diceret qiftain hoc quando cum temporis mensura SIGNIficant, verba: quando libro traduntur sub ratione nominis et verbi et alia huius, sine tempore cum articulis explicant, nomina sunt dicen modi, scilicet traduntur quem  ad rationem pertinent diction da. Quando pars affirmationis uel negationis, dictio: cum num, tunc inter nomen, et verbum et dicionem distingue autem pars syllogismi, terminus. Sed primum inas SIGNA y ret. Sed primum de mente sua verius credo. nam alii ta differentia dubito: quarationeun quam fiet: ut substan teridemdi et umforet contrasequodin, Ammonium die sia per le existens SIGNIficari possit cum motu? maxime ximus. Postular Ammonius et AQUINAS curaliisoras cum prædicamentares sint completæina et tu. Nam quinto tionis partibus missis, solum nominis et verbi considen metaph. septimom et septimo primo physic. ens rationem præposuit? addituretiam. quia libro poetico, quod est, aut existere dicitur, in decem primasres, seu voces partitur: quo ergo SIGNIficari possunt cum tempore! nisi diceres ut sunt imperfe et cres, et in motu cum actione, et passione et generatione lubstantiæ alteratione qualitatis augumento quantitates et ex accidente mutatione eorum quem ut uo referuntur. Seundo nec dubium solve revidetur quod dicit. Sed falsum etiam est in prædicamentis rum orationis partes enumerans, inquit septem elle. Elementum, syllabam, coniunctionem, nomen, uerbum, articulum, orationem. Ad hoc breviter respondent alig qui Aristotele omifisse quediximus, tanquam inutilia et ad rectum poetarum metrum spectancia hic solum mentioq nem fecisse nominis et verbi: pista sunt necessariæ parstes enunciativæ orationis, inquo, Ammonio non aduery voces considerari, ut ad simplicium rerum cognitionem dedu satur nec diuo AQUINAS & fi oratio enunciativa quando que cunt. Sed inftan taliqui. In prædicamentis, Aristotele fini ens in conftetexaliis, non necessario, simpliciter, omnitempore, quit. Substatia dicitur. sed quam uanère spondeantex Aril. Quinto meta et Alexandro Aphrodiseo exponente cognoscant, secundum se inquit vero dicuntur quæcunq; predicamenti figuras SIGNIficant aut secundum Boethium quæcunque figuras predicationis significant. Itaq. Per Aphrodiseus quod a nomine, vel uerbo deducitur:lig verbum hoc dici et significare res simplices, prædicamen ca ad metaph. Non logicum pertinent: sed ut decemu ces, res mediis CONCEPTIBUS A POSITIONE SIGNIFICANT logie corum considerationi convenient. Tertio dubito et tan cuti et legendum, et navigandum alegere et navigare verbo originem ducunt. Similia dici possunt de explicatione Alexandri. Quautitur Ammonius dum de verbo consin dcrans Aristotele inquit. Verba autem secundum se dicta nomina sunt id est simplex habent SIGNIficatum nominis eius simplicibus partibus simile, ex quibus constatoratio. Ita pro Alexandro dicendum. Adverbia plurima ex parte quam vanam explicationem existimo, dictionem, scilicet affirmationis partem vocari. Nam quid interest dicere nomen et verbum vocem esse SIGNIFICATRICEM A PLACITO et afferere nomen et verbum dictionem esse ihuius may de ducia vero nomine aut a parte orationis simpliciquæ nifestum indicium ex Aristotele sumitur. Qui ipsam orationem definiensait oratio est vox SIGNIficatrix, cuius ex partibus aliqua separata SIGNIficat ut dictio, verum non ut affirmatio ergo idem est dictio, quod nomen. Ut habet translatio Magentini. Et verbum. Ergo dictio, orationis communis pars erit, non affirmatione stantum. Nisi per appropriationem dicat illud sed AQUINAS vidensuocesalo, gico consideratas non posse decem simplicissimas resnis fime diis conceptibus explicare itaenim secundo intely uim habeat nominis. Et ita si quando goriatura verbo, nihil Alexandri et Aristotele sententiæ officit. Sed cur particispium, quoquam se pissime in demonstrativis scientiarum sermonibus utitur, tam hicquam poeticorum libro relis quit? Ammonius dicit, quia ad nomen et verbum reduciy tur. Alii vero quod idem sft dicunt quia pars comporis ta non simplex orationis dicitur. Quæ responsio magis perspicua et evidens iudicio meo est. Nam primo pos ter, secundo, præposuit dupliciter præ cognoscere oportere, leda sive secundæ intentiones dicentur, nonu tres linere alia namgquia sunt prius opinari necesse est alia vero quid lationibus denotant ad philosophiam naturalem spe et an est quod dicitur intelligere oportet sed cum duas propos tes et metaph. A literalseric, simplicium inquit diction ne rettrese numeravit et ad hoc respondet Aver, optertia ma veneratione sanctitatis probarim: in hactamenre' sponsione dissentio: cum decem voces non solum simplices conceptus sed res mediis conceptibus explicent: loco et subiecto et non nisirespe et uhorum ut pronomen loco proprii nominis. Adverbium tam hic, quam in libro poeticorum relinquitur, uel quiaut Ammonius ait, modum dicit quo prædicatum incit subiecto. aut ut  sрее   species composita est ex his dicas etiam o duas præposuit neccessarias signum est q Aristotele dixit dupliciter præcognoscere oportet et quia lunt, opinari necesse est et quid intelligere oportet ad tertiam vero præcognitionem der scendens, fineullo necessitates verbo additoait quædam autem ut rag nam compositaquæ esse et am tertiam naturam non dicunt distinctama componentibus, explicatis necessariis partibus, coniunctim ex his explicari intelliguntur verum quicquid sit de Arist. textu et ratione quamdi xi: sufficiens ref ponfiofit: qhicde simplicibus partibus Aristotele loquitur, quale non est participium. Coniunctionem omisit, nonquia inutilis, quoniam. infra quod ipseconfirmat hic, et supra contra Boethii opinionem adduxit Arist. dividet orationem enunciatiuam in unam simpliciter et coniunctione unam: quæ necessario coniuctionem expostulat. Nec exomisit ut Ammonius et Aquinas quia pars orationis non est sed pars conne et ensatque coniungens. quoniam Aristotele coniunctionem poeticæ locutio nian numeravit, tanquam orationis elementum. Item in cap.quarto Aver dicet, q syllogismus conditionalis est unus per unam copulativam. Gifoloritur ergo dies est sicut predicativus est unus per medium terminum sed hic medius terminus necessaria est pars prædicatiui sive CATHEGORICI syllogismi. Ergoconiunétio syllogismiexpofis tionefiuehypothetici.Hinc etiam contra eos fequetur inutilemconiun et ionemnonesse: sed hypotethico fyllor gisino necessariam: ut medium terminum prædicativo syllogismo. Alii sentiunt propterea coniunctionem omiy filfe de enuntiatione una simpliciter demonstrationi servienti, non coniun et ione una considerat sed hanc reo sponsionem suprareiecimus: ea rationeq hic liber etiam ad librum priorum dirigitur, proximam syllogismo hypothetico positionem seu præmis lamelargiens. Itemin hoc libro, capit.quarto, propofitam enunciationem ab aliis oratoriisac poeticis seligens, in has duas partitur. itidemq; definite oratione in libro poeticorum eam in hasdistribuit feudi uisit species. Dicendum igitur nobis videtur, proptereahic relictam coniunctionem esse, quia facilis, et Aristoteles sufficiens erat ea parva cognitioquam tradidit in libro poeticorum. Aut secondo dicasquor demonstrativa scientia. Et secundo poft. iuxta ordi niamhic propofitum est de vocibus necessario SIGNIFICATRICI nemquem compositiuum aut componentem appellant, pri bus agere ad interpretationem per voces clariores efficieendam: quem oém orationem efficient nam hic libercom munia principia explicat. Dic secondo q in libro poeticorum cap. septimo, coniunctio significationis est expers: qua de causa definitioni, quæ perfecta oratio est, nond eses Post ea quid est negatio, o affirmatio et enunciatio, u oratio, deinde quid sit negatio, a affirmatio, o enunciatio, oratio. mo genus, quid syllogismus, inde speciem, demonstrationem collegit. Premponens igitur hic ista duo tangfinem unum in tegrūperse ex genere et specie constitutum, primo ait enunciationem, deinde oratione, non ita per se intenta: nobis innato aminus communi ad communiora. Sed hæc responsio improbatur quia. Si ordinen obis innato, seu aminus communi et im per se et oincipiendum est, cur latus ordo ex accidente euenit, ut quando gab imperfer et o furnatinitium quia in libro de anima secundo, textura Magentino cum universe res quas universalia dicunt singulis præferantur, cur hic non primum de oratione et genere, deindede enunciatione affirmatione et negatione ex orsus fit Aristoteles sed primum a nomine et uerbo: nam auta nobilior iincho an dumerat, aut are magiscõi, ut ordone ceffarius servaretur, non anobiliori, cum negationem affirmationi prætulerit non acommuniori, quia oratio fuif setante ponenda. Responder ipse. Solere quandoq; Arist. Hocfacere et are communiori quæ ad singulasres spes et antincipere quomodo hic dicita nominee SIGNIficante substantiam sive eflentiam et a verbo SIGNIficante actionem seu passionem, Aristoteles inchoare sed quare istum secundum necessarium ordinem inter negationem et affirmationem, enunciationem et orationem non seruauerit, ut Gbioccultumomi fit. Præter ca enunciatio ut finishorum materialium principiorum prenstantior est, ergo antepor nendafuisset. Amplius nomen et uerbum, non ideo communiora esse dicimus, q subtantiam aut accidens SIGNISFICARE dicuntur, sed q voces SIGNIficative apositionelunt, non substantiæ aut accidentis, ut naturæ terminatæ, sed communiter omnium ratio ergo est sumpta a processu resolvente finem in causas et principia prima intra rem itas quecum orationem non omnem, sed inqua est verum et falsum, id est enunciativam, ut finems peculetur, et hæc ex nomine et verbo, ut materiis, constituatur necessario ergo primum dehis ponendum quidf snt: deinde complebit reliquas partes processus resolutiui sed subiectum, ut totum potential primas species continens, cognosci non potest finesuis speciebus, sicut totum constare non potnifiex suis constituentibus principiis materialibus: ergo deinde de his quæ ad finem proprium diriguntur, dicendum, quid oratio et enunciatio, ut completes finisele et us habeatur: quiahec in affirmationem et negationem dividitur ut pris mophy intelligere et scire, id est intelligere scientificum: quod Auer. Finem rerum naturalium pofuit. Item genuscum principali sua specie unum finé constituit, acea uno proce mio proponuntur et epilogo colliguntur: ut primoprio rumde syllogismo tradaturus, resoluentem processum efficiens a principali fine inchoauit: de demonftratione et  Propositis communibus, ut materia, principiis, quæ per se SIGNIficant ia omnem orationem conftituunt: nunc de coniumctis ex his principiis & conftitutis proponit. pri mumq; ait Deinde, ut diximus ex Ammonio, ordinem et urum proponit de rebus omnibus: deinde de elementis, denotata principiorum constituen tiu madres constitutas. Et de omni anima prius quam hac autilla animaratio pof t e a inquit quid ne a t i o affirmati o et c Hic quæris igitur & causa ordinis a dnoscelatiesta notioribus nobis Diiii gationem affirmationi prætulerit. Ammonius ait prius nomen perfectius posuit? Item in situs, et ad nosre asenfuuisus incepit ut Auer. aitineodem libro. de anima de intellectu prius quamdesecuny. dum locum motiva potentia. Similiter secundum accidens est ut a comunioribus five minus comunibus pro Milanius. Nam de generatione considerans de ea generatim sedin ruit: et fi per se non SIGNIficat ut ait Aristotele licet SIGNIfica, demonftratio intenditur quam syllogifmus. Et primophy. tionem non impediat perfead hunc librumnon per primo finem proponens rerum naturalium primum, dixit. Et at, quietiam per se SIGNIFICANTIA principia ut materias spe quoniam intelligere et scire contingit, id est rationem ellen culari conftituit. Quarenon inutilis quidem coniun&tioerit: tiam ac naturam ipsarum, inde scientiam per demonstras sednec necessaria pars SIGNIficans, orationi per se, id est, tionem acquisitam ratione et eflentia posita et explicata omni conveniens oratio autem divisa in species duas, per definitionem, in fine explicando, nobilius explicavit, quas monstravimus, conjunctionem a poetica, ut eius parti ac magis intentum. Sed ad huc dubium remanet curnes utilem, mutuo accipit sed ad enunciationem relatam ut primo priorum, prius TEX. BOETHII. ordine ad nos relato, ab imperfecto ad perfectum procedit et   tum negatio enim diuisionem continet, affirmatio autem in compositione consistit negationem igitur affirmationi præposuit, et magis ad partes accedir, compositioautem ad totum. Sed ueniat anti uiri fit dictum negation magis composita dicitur quam affirmatio, cum additione negan cis particulæ, affirmatio efficiatur negatio. Ad rationem orationem quatenus ex luis materialibus principiis cons harum alter utra præferatur. Sed contra dicimus, pris mo hic liberad demonstrationem dirigitur, ut ipse fal dem, fic nece ædem voces. Quarum autem hæ primum NOTAE sunt, eædem omnibus PASSIONES ANIMAE sunt et quas rum hæ similitudines, res etiam eædem. Sunt quidem ergo hæc in voce, earum in anima passios ad modum necliter et omnibus cædem, fic nec eædem voces. sentiens cum Magentino reprehenditura Sueffa. adiu mentum seu commodumin proæmio, nointractatupræ do secondo phy.tertio.natura est principium motus et quietis, per se et non secundum accidens ita que ex his positis sequitur negationem instrumentum explicans con fitione formam eflentiam q; cognoscimus hoceft agen rium et dirigentium ad ipsas. Oportet igiturante cogno! Scereea exquibus est definitio: propter eaq ifta præcogni tetur, quææternorum est non autem ad eaquæ possunt ponitur. Diceret enim ille utilitatem totius libri et subiecti esse et non esse. Amplius et fiinuno, quod de potens anteponenda, non utilitatem cognitionis, perquampro tiaadactume ducitur, non esse prius fit eo, quod est: pofitad eclarari, ac definiri possunt. meæ etiam rationi nontamen simpliciter in omni natura: cumea, quem poten responderet. In sequenti textu commodum quale fitex tia continentur, non nisiaba et tu, ac eo quod uere eft in plicari: sed quam in ordinate ac fine arte id faciat, uides actume dantur præterea cap.quarto enunciationem in rintalii, retamen idem cum Ammonio sentit quiait Ari. has duas species diuidensinquit. Prima autem oratio docere uelle nomen et verbum quorum finitiones promi enunciatiua est affirmatio, deinde negatio ergo analoga, fit, voces SIGNIficativas esse, quod ifferata vocibus nonli aut per rationem ad aliud nonç que diuisa participatur ab SIGNIficantibus, ut scindapfus docetom quæ inprimis, ac utrii: fedde hoc fuo loco dicemus. sicut Ammonius di proxime ab ipfis vocibus in dicentur. conceptus, scilicet durum promittit: Mihi quod uerius probatur iftud est, primo: quorum interuentures explicantur.quæ omnia, hic affirmationem et negationem numerariut plures species enunciationis, id est oppositionem contradictoriam erficientes. Quæ infine fectionis fecundæ, in hoc conssistit. ut aliquas edeiiciant, deftruant, abiiciant, atque ne gent; in hoc autem efficiendo potissimam et inprimis vim habet negatio. Quade causa ibi primum ab Arift .numeratur, ut secondo de anima cum species subiecti fint plures, ex enumeratione ipsarum precognoscitur esse, id verum in demostratione, iti demin definitionem ons quod anteponendum est, prius quam tractatus cognitioaut definitiohabeatur. Secundo sciendum primo topic. ofta  Opposita secundum contradictionem protenfa alterum oppositum explicare.Et primo post. octauo. In antiqua commentatione, de omni eft quod non inquodam quidem fic, in quodam autem non nec aliquando quisdem sic, aliquando quidem non. Jitidem & tex. Quinto scire autem simpliciter opinamur: sed non sophistico monitionis: qua simplici conceptu fine assertione seu compo iun et a et  divisa, notio rem esse quam affirmationem nam ta, ad eam habendam nos dirigunt at qzillamex præno attendere folemus diligentius ad contraria, ut nobis ads uerlancia, quam eaquæ sunt nobisi nnata. hæc autem affirmatio, illa negatio explicat per externa, explicantia ti sefficiunt. Arif. igitur quoniam dixit oportet nos constituere, siue ponere quid nomen, et uerbum etc et com muniter hæc erunt voces SIGNIificatiuæ positione aliem fine quodam modo alterum sed cum iple species ex propriis very explicatione, aliem cum vero. iccircoiftatria antemani principiis internis definiuntur, I uxta ipsarum naturam, feftat: nesue definitiones fineratione et fineea quam ipse proprietatem et ut ad commune genus proportionale tradidit arte ponantur, at constituantur. In hoc textu eu analogum referuntur, finienda sunt primo, modo hic in proæmio negatio præposita numeratur, ut instrumeng voces esse SIGNIficatiuas: quod Ammonilis exponens cum tum est habens ellenorius: secondo autem modo infra in Magentino ait quattuor ad ho cutilia effe: rem, conceptum, tra et tatu et propria definition subsequitur itainfra intely vocem, et literas. Amm. autemait Aril. inchoare, nona lectus quando plineuero est et falso: circa composition rebus, quæ perse, nec simplices sunt nec compofitr: id nem enim est falsum et uerum. Querunt novissime curuo enim habent conceptus sed a vocibus, tr"fine quibus dis cem omiserit. Sed Aris . infri ad hoc respondebit ut supra sciplina et præceptio fieri non potest aitam; nullam facere etiam a nobis fatis est dictum. Propter ea ad alia contendamus. Aristotele de literis mentionem g nullius ui funt ad proporto & fiuerafint, dimin Pombaamen ponunturcum aliammay gis intentam differentiam SIGNIFICARE SCILICET A POSITIONE, NON NATURA relinquat, quamtamen Alex. et Pfellius prosequuntur et in expositione tex. Ammonius A uer. ato alii non omittunt unum ergo et idem cum hissentiens, eorum veritatem confirmo. Cum nominis doctrina et dissciplina ex ante posita fiue præexistenti fiat cognitione, ftretur et testimonio Auer. confirmetur. primopost.ses cundo. et Arift. primo Metaph. et apud Alex. pri motop. quarto oportetenimait Arift. ex quibus eft de finitiopræ scire, fiue ante cognoscere et Alex. inquit definition per omnia nota et precognita procedit et Averroes primo post. secundo. fic. etiam uerisimile eft effe dispositionem specierum prænotionum conceptionis id est defiunumeorum quæ diximus explicatur, nomen et verbum  primo secundo. hec autem quandog imperfctiora, TEX. BOETHIL. Suntergoea, quæ funt in voce earum, que sunt inanie quandoy perfectiora, minus communia autcomiora. Ma ma, passionum not&,o eaquæ scribuntur, corum, que gentinusaitq cum evidentia dixerit, abhistanquam abdi tis et occultis abstinuit. Aquinas dicit gquia Aril. cępitapar sunt in uoce. Et quem ad modum nec literæ omnibuse et s tibuse numerare: ideo nunc procedit a partibus ad tol adducam dicitur. aliud effe dicere num note: O quæ scribuntur eorum IN VOCE. Et queme procedere, quia magis sensate sunt de anima instrumentum, seu Atat, esse magis minusu e compositam aliud finem habes PASSIONES ANIME SUNT, o quarumbæ similitudines, res quoquecedem. re ut alterum coniungicum altero, aut feiungi ab altero enunciet. secundum concedimus: sed exillo affirmationis naturam magis compositam esse, sequi negamus sed Magentinus dicit q enumeratis nominee et verbo et aliis eorum definitiones tradendæ erant, quas ponere constistuerat. Sed hoc Aril. non facit: sed caput proponit quod nobis ad iumento erit sed quod fit ad iumentum non exiplicat, nec increpandus ame eritut Herminius idem negationis potius. Secundo respondet p in hisquę possunt efle X non efle, prius eft non effe quod SIGNIficant negatio, quamefle, quod explicat affirmatio sed ut species sunt æque genus diuidentes, sunt fimulnatura, nihil grefert Quorum tamen hæc primum notæ funt, eædem omnibus i ta con    la contemplanda. Quod fi ita est. Cur ergo iftorum quat PASSIONES SEU CONCEPTIONES esse omnibus easdem:id est tuor meminic? Et si infra longioribus, nunc tamen quod ellea natura: Expolitores non explicant qua de causa, ad rem pertinent dicamus et brcuiter: finem huius libri interpretationem esseut fupra pofuimus hæc autem ut lov gicum instrumentum et organum cognoscendi, ad explicationem rerum dirigitur, ac tanqua multimum & perfe netemere et fineulla ratione iddrift pofuiffe dicamus. notandum, sexto topi. In explicandis partibus defini tionis oppositorum, non tantum opus effe oppoftiscum negation præpofita, sed etiam rebus huius modi, quiz intentum finem refertur interpretatio uero rerum non busdefinitio feu definitionis pars tanquam habitui conue fit nisi per voces clariores SIGNIficantes A POSITIONE, aut perl iteras cum voces defuerint propter eanecresomi lit, sed tanquam fine multimum et in primis intentum por fuit tertio enim mera meta nemo define consuls nit: nam per se habitus per privations noscuntur: licet quodammodo id est ut commentator primo pofter, in magna commentauone et primorheto. cap. quin toinepitomatibus logicalibus explicet alicui generi ha minum privatio, atque oppositum cum negatione praeposita, alterum manifestet. quam obrem topica loca constituunt. Qomnibus, aut pluribus ita uidentur. Cum igitur supra explicasset, li voces SIGNA ESSE A POSITIONE, ex appo fat: fed ftatuitatq; ponit: sed quomodo et per quæis finis eueniat deliberat. nam primo ethico septimo, fifinem tanquam exemplar habuerimus, magis intelligemus quæ nobis sunt bona et septim opoli. in principio: duo funt inquibus omnis commendation bene agendiconsiy fito cum negatione præmissa, nunc eadem explicat pary ftit. unum ut propositum ac finis recte agenda subjaceat: alterum ut eas quæ in illum sinem ferant actiones inueniamus, resigitur hic non relinquuntur sed tanquam fines explicanda ponuntur. Nec literæ fruftra ab Arift. nume rantur cum vocum fungantur officio: hisq; principibus explicatis,& quæ scribuntur aperiri intelligimus huius enim caula quæ sunt in voce conscribimus, ut absentisbus uocibus, res concepta scertius, uberius et firmius teneremus quæ enim uox, tot philosophorum, a nobis absentium, sententias unquam aperuit ad quas eorum libri nostam facile deduxerunt, ut possemus aliquando quid ticulamex opposite positiuo passiones enim et respros prereaq eædem sunt omnibus, NATURA SUNT, NON EX ARBITRIO ET POSITIONE ex opposito voces, ac scripiuræ quia non sunt eædem, A POSITIONE, NO NATURA SIGNIFICANT. aHinc etiam differentia vocum A POSITIONE ET PASSIONUM sive conceptionum et rerum colligitur et approbationem intelligat, ex græca particular aperitur. quæ diciti quorum quidem. Quæ particula causam propofiti explicat, non controversiam. Quioaduerba, Ammonius primum obseruat.q cumde uocibus et literis diceret Arist. ait. quorum ex SIGNA sunt sed passions similitudines re senserint eorum scripta fæpius repetentes a gnoscere: No rum uocauit. Quia simulacra rerum naturas, quoadlicet igiturut Ammonius dico nihilo pusesse scriptis. Sed dico, representant ut inpi et uristidetur inquibus mutarefor magis fuisse conveniens Arift. nomen & verbum et c des mas præsentatas non licet. litin Socrate pitto calvo, fi finire per uoces quæ in disciplinis quasalio certo duce mo, oculis prominentibus SIGNA vero et NOTAE totumha per discimusfacile primas tulerunt: quam perscripta: bent ab impositione et cogitatione nostra, ut in militum quibus periti occulta cognoscunt et percepta declarant, SIGNIS ET NOTIS diversis a; institutis conspicitur. Sed cong Nunc ad litera mueniamus ea quæ in uoce sunt, cons traquia secondo priorum. de enthimema te tractans. fi stunt, aut continentur, sunt SIGNA se unorem ounebonor enim duo hæc significat earum passionum i.eorum conceptuum: quos patitur, id est, ut formis perficitur phantasia, mens, seu anima, ut Prelliusait et quem scribuntur SIGNA ac NOTAE funt eorum quæ in uoce consistunt. Etquemadmo gnificans.quiaidemuerbum,lignum,&notauocatur. dum necliteræomnibusexdem ficneceædem uoces.} Explicata prima definitionis particula, núc ad secundam accedit q uoces A POSITIONE SIGNIFICANT. Id que approbat Arifto. ratione fumpta ex opposite cum negation prol tensa. Quodquodam modo notius, alterum palam facit. primo topico et auo, hinc facile confirmatut experimen Arist. quod supra de negatione ante posita affirmationi docuimus ratione sed oppositum ei quod est A POSITIONE elle, estelle A NATURA: quæ eadem omnibus in est ex opsposito igitur ratio in hunc modum formetur ad conclusionem ex similinotiori in litteris innuendam, id natura esse dicetur quod eftomnibus idem; natura enim princiy pium est perse& deomni: quæ igitur non sunt omnibus eadem, non natura sunt aut significant. A negatione proy Prætereasi hæc differentia uera esset, acillam Aristot. ex his uerbis intenderet, his tantum nominibus pofitis suffincienter explicasset, dum diceret. Propterea quod uoces & literæ SIGNA ac NOTAE sunt, A POSITIONE SIGNIFICANT. PASSIONES vero et RES quia SIMILITUDINES SUNT A NATURA. Ita in finiendo nomine et uerbo sufficeretsiduntaxat dixisset, nomen et uerbum es tnota non igitur addendum quog cesfint A POSITIONE SIGNIFICANTES et hic omittendum fuils set, quod voces & literæ sunt notæ fue SIGNA non eadem, neidem calu, actemere refricaret. Mihi ita sentiendum videtur. Ovuboloy superior “NOTAM” (NOTARE, NOTIFICARE), “SIGNUM” (SIGNARE, SIGNIFICARE), “VESTIGIUM” dices re quæ ita dicuntur quia ut notiora exterius NOTIFICANT, ac ut VESTIGIA pedum significant. Hoera autem, id est PASSIONES SIVE CONCEPTIONES non ita: quanuis interius priæ definitionis ad negationem definiti henc propositio, similitudines rerum vocentur: rem tamen et fiinterius, quia perspicua, approbanda non est: sed lumiper senoi exterius non aperiunt propterea igitur voces et literas fi, tam oportet, alibi quodam modo declarandam: Allumy SIGNA ET NOTAS vocauit et  PASSIONES SIMILITUDINES quia ille prio, id eft minor propositio in textu ex oppofito cumne exterius, hæc interius manifestant. Secundo ex dicti sfaz gatione præposita notiori in literis et quemadmo! cile reprehenditur syllogismus quem Suella formauitex dum neque literæ omnibus eædem: fic nec eædemuol litera dum afferit Arifto. uelle probare voces & literas ces conclusio consequetur. Igitur nec voces A NATURA SIGNIFICANT a quume uarient, A POSITIONE haberi, conceptiones ver et SIGNIFICANT et non omnibuseç demerunt. Quorum aux res, cum non euarient, natura esse. hocto tumuultelle tem.; Approbata minori propofitione ex simili notiori præceptum et complexionem fiue conclufionem ad qua inliteris, in quibus idem prædicatum inuenitur. nunc inferenda mait Aristotele in textu ratiocinari. Quæcung sunt alia duo, conceptus scilicet, seu passions & resmanis aliorum SIGNA VEL NOTAE, positione se habent. Uult deinde fe stata natura effe et ita ead emomnibus, inquit ledpal, quom dassumptionem, id est minorem Arift.ponatibi funt Gones animæ quarum hædi et æ uoces primum nuly quidem igitur quæ sunt in uoce et c. id est sed nomina et lointeruentu, noræ sunt hæ animæ passiones sunt cæs uerba. Et scripta sunt signa et notæ aliarum, voces, Ccili demomnibus et res quarumhæ passiones sunt similitus c et conceptionum, et scripta vocum: sequitur conclusiout dines, etiam eædem funt. Sed cuius gratia manifestat putatibi qaemad modum nec literæe ædem ficnecuos Aristot. ipsum definiensait, syllogismus est imperfectus: ex signis ubieodem uerbo ut itur ad ex plicandum SIGNUM NATURALE E SIGNUM A POSITIONE uana iti demerit, assignata differentia Magentini. non fita positione ceseæd emerunt ubi sic ingræco non haberi affirmattur. Sed primær esponsionis partitio, feudiftinentio, quo quod manifefte falsum eft Toosenim sic latine significat nam modo fit uera in primo suo membro, supra longios et quem ad modum et ait et uim habere inferendi fæ ribus disservimus cetera tamquam uera probanus. Seddu pe consueuisse. Sed obiurgandus est Ammonius qui lis SIGNUM ET NOTAM ait approbationem, id est probationem bitabis Vox SIGNIficatrix est per se genus nominis et uery bi: igitur vox erit generis pars communis, per se unum constituens: duo igitur consequuntur. primum naturale ,unā per se constituerecum artificiali, et ens reale cum enteratio, nis: secondo partem efle intotoniinuscommuni: signifi care,scilicetapositione,effeinuoce,quæeftmagiscomo munis. Qui modus improprius dicitur eius, quod est in esse.q nomina,& uerb auoces, & scripta a positionef SIGNIificent: cum secondo priorum In Epiromatibus logica, libus, de rhetorica persuasiua et syllogismo contradictoria SIGNA enthimematis et demonstrationis et topica etiam,  non a positione significent. lignum ergo, et NOTA, commune est ad signum, quod EX ARBITRIO ET inftituto signifiy alioelle. quartophy.Adprimum&finihilhicneceffario cat,& signumnaturaconsistens. Secundo propria eius ratiocinatio confutatur: non enim unus est syllogismus in textu quen suo arbitratu diuisit, sedduo. Vnus quonos mina Aristot. Et verba voces esse SIGNIFICATIVAS declarat: quod amedi&um est Paulo antedum primum in textum hoc modo quæ sunt in voce sunt NOTAE ET SIGNA scilicet SIGNIFICANTIA exterius earum quæ sunt in anima passionum minor siue assumptio, ut pofitio per se nota, ap Aris. dubitarem res logicas ut habentes esse imperfectum et quasi in cogitatione ut subiecto: in voce ut SIGNO,aliam naturam ullam sortitas non esse, quam eamquam anima probationis non indigens ponetur. Cum nomen et uers ex arbitrio finxit: ut ad aliud SIGNIficandum exterius refe bum definiet, sed nomen et verbum sunt SIGNA seu voces: ratur. Ficut ea, quæ artificum manuseffingunt præterna itaq; maior, ergo et c.propositio allumpta est, ut per seno turæopis, lignum, scilicetæs, aurumue, nil reliquumha ta. SIGNUM est illa græca particula quidem igitur quæ bent, nisi quod ars uera per sua inftrumenta hoc uelillo uel executionis fit nota, uel fi neulla approbatione ex propositis inferens, meam sententiam confirmabit id esse fine approbatione aliqua positum. ut communiter affertum abomnibus: Secundus syllogismus eriti bi. Etquems admodum et c ut secunda pars definitionis ponatur, SIGNIFICARE, SCILICET, A POSITIONE. Quod tanquam per se notum, non demonstrat, sed quia non omnino, cinealiy qua controversia est consessum propter eaquodam modo ex opposito cum negatione præposita manifestat. Quod in scriptis est manifestius, a positione sint; et eui dentius conttantius q; manifestent. Syllogismus igitur erit. quæ non omnibus eadem sunt illa non a natura quæ in omnibus uno modo invenitur: per se idem in omnibus similiter operans sed A POSITIONE sunt et SIGNIFICANT minor in textu. Et quem ad modum nec literæ omnibus eædem, fic nec uoces eædem. Ita que maior propositio syllogismi Suessenon est ad hanc inferendam conclufionem, quam nostra secunda ratiocinatio intulit et quæa suessa ratiocinationis conclusion et complexion dicitur, no bisminor secondi syllogismi cum eius approbatione ex simili literarum uiderur nam fine ulla controuersia ut bene animaduertit Ammonius scripturæ et literæa positione significant licet quodam modo uertaturindus biuman nomina et uerba, nátura, ut Plato uideturassere re, anaconfilio, ut Arift. sentit, significare dicantur. hinc. per se unum constituit cum voce, naturali opera anima ut fequetur eum non aduerba Arift. ne que sensum dicere. dum infecunda sua expofitione afferit, quam Alexandri & Afpafii esse confirmat, hic Aristotele velle colligere similitudi singulare opus naturæ est, fed ut indiuiduum ab arte for matum. Itaque nec primum sequetur, naturale cum arti ficialiunum per se constituere: quianon ut naturale, sed nem inter scripta et uoces. Sed q ex hoc predicato, significa ut arte effectum, formatum cum sua causa formali perl e re ut non idem, idefta pofitione: quod norius et firmiusin unum efficeredicitur: similiterres logicas et placitum scriptis uidetur. Inferti demde uocibus significatiuis, tan uementis arbitrium in uoce contineri affirmamus: non quam genere proximo nominis et uerbi et omnium alio tamen ut opus naturæ eft, per se unum genus conftituit, rum. Quærit secundo Ammonius: cur Arift. non dixer fed tantu muta positione, et confilio, et cogitatione fal cit. uoces sunt SIGNA CONCEPTIONUM. Sed eaquæ sunt in et um eft, ut vox ad hoc uel illud explicandum ponatur. Voce irespondet primum: cum triplex fit oratio, concel & ex communi imponentium consiliore feratur. Sica pra, in uoce; inscripto: de secunda hic loquitur fecuny mentis relatione, que in uoce ad significandum relinquis do respondet, voces naturae dimus ficut uidere, audire: aliud eft ergo uoces esse, ut opus naturæ, aliud nomis na et verba a positione et nostra cogitatione, quæ uoce utuntur, nam quem ad modum ianua dicitur lignum, & nummusæsue laurum ex arte, quæ imponit figuras et tur, uocem naturæ opus, artis logicæ inftrumentum et opus artificiale per leunum et ad alterum SIGNA ng dum relatum conftituitur. Ex his ad id quod secundo consequebatur patet responsio non enim in conuerniens eft minus commune, quod formam et a&umdig characteres: eodem modo et uoces dicuntur nomina, cit, contineriin alio magis communi quod  in potentia cum a locutoria imagination fingunturac formantur, fie exiftensperficiacformariabaliopossitminuscommu; gna eorum,quæ inanimouoluntantur,& talem sunt formamadeptæ:utex positionefignificent.signum est uoxmutorum articulata, quæ quianon ex composito et  institutione aliorum eft, ideo nomen et uerbum non dicis ni.ut de intellectu et cogitativa Auer opinatur de anima altrice, sentiente et rationali et ex Aristotele confirmatur secundo de anima. Postremo in uoce, perfe&io placiti, seuarbitrii, confilii, &pofitionis, effet dicendum sed metaphyfico et naturali hæc quæftio difficilis relinquenda ellerbonitatis, tamen gratia, quam breuissime poterore spondebo. Sed animaduerten dum primo modo effigiantia progenuerit. Hoc,alterum comitatur, easdem res logicas, uts ecundo intellecta, ad logicam non ut scientiam sed artem spectare namearuni, mentis arbitrium, ut externa causa efficiens assignatur aquo effig ciunturea, quæartiu et scientiarum explicationi conuer niunt et in uocibus, acaliis notioribus regulis apponuntur primo post secondo poster tertio ponens dum metaph. Non eodem modo, omnium unitatis per se causam requiri. Alia nanque, quæ matelriæ conditionibu suacant, ut intelligentiæ fiue mentes, fta timens et unum persesunt. Aliaquæ ex materiis constant, unum per se fiunt q hocidem, quod ens potentia erat; idem fit et u:efficiente tantum educented epotens tiaina et um artificialia per se unum conftituunt, secundo physica secundode animao octauo, non cum subiecto ut naturæ indiuiduum est, sed ut arte formatum, viue effigia tum est: artis, ac formæ artificialis esse recipiens. causa enim propria cum sitars, & esse us artificiale quiderit. Ficut causa propria indiuidui et esse et in naturalis est forma et substantia, effe tum igitur subftantia erit, ita proportione et similitudine quadam, quæ de unitate et definitioneres rum artificialium dicta sunt: fere eadem de rebus logicis, et v ocesignificatrice a positione dicenda sunt non enim quod in uoce ex consilio et mentis arbitrio pofitumest, quibus quibu suoxipsa, quali formatur et denominatione exo trin. ecus SIGNIFICARE A POSITIONE dicitur, atque, ut aiunt, per attributionem placiti, ut formæ specialis, uoci, ut cantibus omnibus, non definite contractis ad nomen et verbum: nam uox significativa partem communits imam generis nominis et uerbi et orationis conitituit non pros materiæ sive generi magis communi ad sunt. Nec incon prie nomen et uerbum tantum. Differentiam aut eniliter ueniens modus ellendi in alio eft, minus communisinma rarum abelc mentis quam Ammonius accepita Dionysgis communi fiue formæ in materia, ut Suetreuidetur, quo fio, lumasab Arist. in libro enim poeticorum ait. Eles niam quarto physica Primus modus numerator partis in mentum uocem effe indiuuduam: ergo proprie in uoce sed toto, secundus totiusin partibus tertius specie ingenere, ad sensum patet literas partes eorum efle quæ scribuntur. Quartus generis in specie, quintus speciei, leu formem inmai Quæriturcur passiones uocauit et similitudines uelfimu feria  et c. Nec ualetfua obiectio contra Porphyrium: lacra. Ut Ammonius dicit. Sueffar espondet propter eafie sequeretur Arist. Intam paucis verbis ambigue dicere. Militudines appellari, qarederiuaniur: passiones uero, ut animum ipsum perficiunt:c onceptus, ut principilim et ratio intelligendi. Sed contra, quiarecte Ammonius interpretatur, simulacra rerum dicuntur, non quia causa, taarebus ut phantasmatibus siue sensu perceptis sed quoniam rerum naturas, quo ad licet, representant ut in picturis demonstrate in quibus mutare, ac transformare naturas representatas non licet. Præterea conceptus, nifi constituantur nouarum rerum uocabula, rem iam concer ptam et cognitam supponunt. Non igitur proprieprincis piumseuratio cognoscendi dicentur: nisi ut species et phantasma, ut obiectum alumina intellectus agens, eft des puratum, uta iunt, formatum et illustratum. Item non explicatquem animum passiones perficiant. quianon mentem per se impatibile in, ut Auer. opinatur. Sed animam seu mentem phantasticam, id eft existentem in phantasia ut oprimePsellius explicauit attributiue enim mens quia dudicit eaque sunt in uoce. Sumitur ut parsminus communis in toto, id est inmagis communi. cum vero sequitur, sunt SIGNA earum passionum quæ sunt in anima nunc sumitur ut accidens et forma in subiecto. Sed constraquia æque ipsum inconveniens hoc sequetur: cum placitum, fiue consilium, uoci non hæreat denominatione interna, id est intrinsecus sed a confilio imponentium attributum, ut SIGNOf Placitum ergo fiue arbitrium, pactio et mentis cogitation eft in uoce ut SIGNO non cui extraanis mæ operationem inhæreat: sed passiones animæ rationa liconueniuntutactueamformantesacperficientesetiam dum dormimus. Item proprius modus elrendi in alio maxime dicitur ultimus,utinlocoueluale aliitrans lumptiue, id est per translationem, ut Arift et commentator afirmant. Tertio queritur quod primo loco quæren dun fuerat an per uoce, ergo aliquid ex propofitis inferat, an executionis fit nota AQUINAS ait ex præmissis concludere, hoc modo quia Arift. dixit oportet ponere quid nomen et uerbum et c Shemc sunt uoces SIGNISficatii caduca et infirmapatibilis et poftremo in homine sola mortalis. Sed hic primum quærocur solum Arift. passion num et similitudinum seu simulacrorum meminit: Respo deturcu principio intelletus fiue mens phantastica rerum qualia dumbratas intelligentias et similitudines recipit, his ut patiens i l lu f tratur u t patibilis intellectus. Hinc requistur, eas similitudines, ut animam perficiunt phantasticam, passiones vocari, perficientes, ac illustrantes eamnuilo contrario ante corrupro. Hemec similitudines dicuntur ut o intendimus ex Ammonio jur rerum naturas quo ad licet representant et conceptus, ut abintelle et tu patibili seu possibili concipiuntur, autiam sunt conceptæ. Secundo ponendum intellectum patibilem, idest possibilem ad passiones et similitudines cum eas primum concipit conferri, ut poteftate eft omnia illa, tertio de anima quem ad modum TABVLA RASA in qua nihil esta scriptum siue fir et um. Indeetiam sequitur tertio intellectum semper esse uerum. tertio de anima id eft non errare. sed intelles Etu ssecundo progressus ultra componit illas passiones, ut simplicial intelle et a: et hoc quando ßuerequandog false compræhendit ut infra sectione quinta datur opisnio falsa ac apositione, confilio, fiue arbitrio opinatur. Buntur sunt notæ eorum quæ sunt in voce, non autemdi dequibus Alexander forteait dee isdem rebus fæpe uæ: ergo oportet uocum SIGNIficationem exponere, seu rectius ponere. Contra placet Sueffecum græcis omnibus notam elle executionis. Sed nec ipse quicontradicit diffi cilere fellitur, non enimdiuus AQUINAS afirmat ergo aliquid supra  tra & tatum, seu, ut ipsia iunt, colligere supra execustum, sed ex prædicatis ac præceptis inferre, infraconfidei randaspræ cognitiones ut nosetiam diximus et itaes xecutionis est nota propter eanon uniuersatim eft uerrum quidem igitur notam efle executionis, quæexan te positis no ntr a haturnam nomen definiens, nomen in quitquid emigitur eft uox et c. definition autem nominis exante cognitis partibus sequitur similiter secondo priorum deenthimematetractans, declarator et posito quidfis gnumdicatur, intulit Enthimema qudem igitur est syllorgismus imperfectus sed alii arbitrantur, ornatus causa a græcis poni.fica NOSTRIS LATINIS quidem enim adexory nandam orationem ponuntur: Mihi Arift. uerba et pro cellum consideranci, quando que epilogi, quando q exer cutionis, siue ornatus ellenota uidetur: quod facileex fuperiore & inferior scriptura, ne ambigua estimentur, perspicuum fiet. Quærit Ammonius cur dixerit. quçscri nos diuersos sensus habere in quo Magentinus fruftraconatur, Alexandrum arguere. itaphi sensusuarii quos exueris simplicibus cognitis et eifdem, acanaturacon di non sunt literem & elementa sed horum partes i secundo fiftentibus intellectus coniungit non omnibus iidem Xerit .literæ et elementa sunt SIGNA eorum, quæ in uoce: duobus modis respondet, primo hic Arif. de nomine et uerbo, acaliis propositis in proæmio speculari, cuiusmo aitq si'uerbum Aris ad omnem dictionem extenditur litteræ proprie sub his continentur quem scribuntur, elemens taueroquæ proprie in prolatione consistunt, subhisquem in  oce. Sed Arift. generatim loquitur de vocibus SIGNIficatiuis ut pars definitionis eft omnium, quæ in proæmio definire proposuit. Sed in libro poeticorum elementum definitur, a uox fit indiuidua: non omnis, scilicet per se significans sed ex qua intelligibilis vox fieri poteft.hic uero dixit eaquæ sunt in uoce.i.arbitrium, confilium, an passiones simplices quas de ipsis habemus, easdem res cognitio, intelligentia sunt SIGNA SIGNIFICANTIA et intelli SIGNIFICARE dicantur: cum semper fint distinguen deutdie gentiam conceptuun explicantia, non igitur hic eft fers uerfas res continentes Responde as aliudeile dicere paso mo proprie de elementis ex literis, quæ eadem sun tre, li fiones primas effe similitudines easdem, id eft a natura cetratione quam diximus differant, ledde uocibus SIGNIFICANTES fignifi constantes, aliud passionesesse naturales fimilitudines rem patibilem affirmamus primo de anima tery tio de anima ratione phantasiæ fiue cogitatiue quæ funt ,l icet a positione et opinantium consili opendeant. His positis, patethorum duntaxat Arist. meminiffe, quia hæc sola sint uere omnibus eadem, adquæ anima cons paratur ut potestate recipiens quam obrem passiones Arift. appellauit alii autem conceptus, aut non iidemdi cuntur, autadillas, quas diximus passiones et similitudines, reducuntur hæc dehisha et enus quæ tunc docenda erunt cum de anima dicemus. De æquiuocis ambigunt. id est natura consistentes habebunt: quibus plura cognosscunt et representant, acreferunt licet voces quarum proprie ambiguitas dicitur, non naturas inteædem feda positione SIGNIficent: æquoca enim rem unam cominus nemnon habent: fed tantum uocem et hoc responsio, diz ui AQUINAS dictis, eft fuita. Sed obiicies ut Suella contra Porphyrium ubi voces funt eædema consilio, pofitæ, easdem primas conceptiones fine erroreaut falso SIGNIficant; non ergo ambigue loqui contingeret, ne quedifting bis. ubinamin Ari. patet, similitudines in primis esseres rum simulacra et naturalia ficutresnatura eædem omnis bus sunt? Respondeasextertiode anima animam, quodammodo efficiomnia,cum omnium formas,aut sensu, aut mentes uscipiat et quia singulorum formæ per animam cognoscuntur, LAPIS autem NON EST IN ANIMA,sed species et forma eius primum lapidem representans. Primum ergo similitudines et species rem et DURAM LAPIDEM ESSE repre reautillic Arist.dicit. Ad phantasmata intellectus confers tur, ut sensus ad SENSIBILIA a quibus natura mouemur: atque impossibile dicitur, qui nuis istangamur. Itemne celle Arilair, intelligentem phantasmara, id eft eorum SIMILITUDINES, specularit ex res autem o narura constent, tanquam omnibus perspicuum omittatur. Amnionius di de anima ad poftremo relatum dixit cæterum prodig tum de hiseflein libris de anima, scilicet tertio de anir TEX. BOETHIT. De his uero dictum – LAPIS EST DURA – est inijs, qui sunt de anima, alte rius enim est negocij. Eius demrei uel diuerfarum nam analoga, ut primum offensioad arteriam, fideconsulto et composito siat, illac concipiuntur, diuersa continent, ordine, comparatione qua commeat spiritus uox eft: tussisuero, non eft ea uox: seu proportione adunum collata. tamen eorum prime intelligentiæ fcuconceptiones eædem dicuntur, id eft naturra non arbitrio uariæ ficut voces: qux comparatione, reu proportione dicta A POSITIONE SIGNIFICANT simili ratione ambigua, id eft æquiuoca, primas conceptiones easdem, nus, quicum SIGNIficatione aliquaemittitur. Sed postula quamuis per eadem loca, machinamenta proueniat. quia, scilicet non ex proposito accidit nam aitfi necogitatio ne aut consilio vox missa, non est vox nam “hocomnino” in definitione uocis collocandum eft quoniamuox eft so in  guere differentes, qui satis ex notis locibus, atque errore, conceptionibus conftituere poffent, quod fit ads sentant, nam intellectus omnium, de rebus senfibilibus primum uenit, ex quibus VISA quædam et similitudines procreat ad quasintelligens feconuertit et cum intelli uersariorum consilium ,aut quid ueline Dicas his disting dioneuti opus non effe, quibus ita hæc nomina sunt perspicua et communia, ut quasidomi ab ipsorum positione nascantur. Sed his qui quasi modo nascentes de notissimis rebus atque nominibus hæsitant, nihilq; ab aliisexplicar tum nouerunt: qua de causa, diftinctio in bis nominibus fiet, quæ habentur dubia: quorum res abditæ et arbitrium consilium plurimarum rerum et conceptum non gie necesse est simul phantasma aliquod speculari. phang ialmata enim, sicut sensibilia sunt: præterquam tertiode aninia sunt sine materia. fecido natura constant similitudines: non ex arbitrio pendent: quia ad similitudines comparatur patibilis intellectus, ut natura pure potentia aut poteft ate recipiens tertio de anima in natura enim anime ef tunum natura agens, alterum natura patiens ficut in omnia lia natura monstratur tertii. Prætes perspicuuin dicitur. Ad textum nunc redeamus. Ex uerbis his collige quod supra docuimus uenforqui dem igitur quandog ad exornandam orationem ab Ari. poni, ut hic: nilenim ex supra cognitis infert, neque alia quid exequendum. seu tractandum proponit. Queresab Arift.cur istorum naturam dillerere diligentius et proprietates omittis? quibusg ab animantibus instrumentis uocalibus proueniant: pulmone et aspera arteria, aquos ma at conceptus dicit mentis primi, quid intererit quo minus fint phantasmata: Respordet an neque alii phantasmata sunt, uerum non fine phantasmate tum in rum primo, uocis materia aer præstatur. ab altero, voces graves et acutæ effigiemfumunt.& q articulate dicantur a lingua, palato labiis, ac dentibus ut animæ rationalis motioni deseruiunt curhçcitidema positionc, alteraa natura confiftant atque fimilitudines rerum sint primum fimulacra, voces uero passionum ligna, ac notæ dicans tur: Ad hæc omnia putoAristot. respondere propterea abeo essereliaa o alterius est pertra &ationis, id eft ad alium pertinent modum considerandi naturalem deani, ma: nam pertra et are quanam ratione istaabaninia, ac instrumentis eius proueniant, an a voluntate pendeant, ut operationes, ad animam, suum proprium principium res rum voces primo res generatim SIGNIificare, sedl ogicos feruntur, de quibus ut supra diximus, secundo de anima differit ubi vocem significativa mex imagination animæ uoluntaria, Conum appellat: hinc ergo patet voce sesse SIGNIificatiuas sic enim ad interpretatio rum primo conceptus quod ex definitione Platonis aquo Grammatici acceperunt confirmant nomen nem dicuntur conferretex et apositione SIGNIifica re quia ab imaginatione SIGNIficant et voluntate ut commentato at Arist. asserunt. Arist. enimait oportet animatum esse ucrberans et cum imaginatione aliqua, id eit voluntaria cuius rationem adducens, inquit sunt in aninia et quarum passionum eq voces primum gnasunt etc sed contra quia eodemmodo nomen defini, tura logico, poeta, atque grammatico id autem ut verum fit in definition nominis declarabimus secundo fin nisharumuo cum eft idem ei ad quem oratio enunciatiua refertur hicautem eft interpretation rerum conceptarum, quæ idem sunt quod conceptus: SCOTUS vero quæstione secunda respondet conceptus SIGNIficarerem, ut similitudo et speciesrei, non ut accidens animæ dicitur, Sed non quæritur hoc, sed duntaxat, an voces principaliter, seu vox enim est quidam SONUS SIGNIFICATIVUS NON NATURALITER  ut SIGNIficatiuus est sonus respirati acris sicut tussis sed ab alio libero movente hunc aerem ad arteriam. Ing quit etiam Themistius acute hunc locum perspiciens hus iusergoaeris quem spirando reddimus percussion et quibus imaginationem passivi intellctus nomine appels landamcensuit tertio de anima primo de anima ex quibus tam obscuris verbis non potest concludi aliud, nifiquod poftremo deduximus non enim video quid suadi et a sequatur, fi primi et aliia primis conceptibus non sunt phantasmata, non tamen sine phantasmate, line quo nihil intelligit animam, nisi conceptus primo phantasmata representare et necesario: ut intulimus. Mihi autem VISUM eft, sermonem Arift. adomnia supra di et a potuisse referri, cuius uerifimile argumentum poteft esse. dixit dictum eft, quidem ergo in his quæ de anima, id est libris duobus secondo et tertio: ut retulimus; non tertio solum ut Ammonius opinatur. Et ut finem tandem quærendi faciamus paucis ad hæcadditis, poftres moquæramus nomina fiue uoces an primo SIGNIficent res, an conceptus? Quidam respondent, grammaticos finientes quod substantiam vel qualitatem significet et hic Arift.quæ in voce, ligna sunt earum passionum quæ de his quidem igitur dicemus in his que de anima alterius enim estnegocij: et um hoc Arift. Dehis quidem dictum efti nhis, quæ   in primis res aut conceptiones significent. Propterea uerius ad rem et senfum accedens, respondeo et nobiscum, sinominibus non concinnat suella, re tamé idem affirmat cum Alexandro primum pono voce tanquam ultimo in? Tentumfinem et principalius, mediatetamen, SIGNIficare RES et extremum, voces, an res ipsas SIGNIficent in contrariam partem Arift. et Comment. et quæ scribuntur SIGNA et no iæ sunt eorum quæ in voce & li uoces PRIMO SIGNIFICANT CONCEPTUS, et conceptus primum res, scripturæ ergo primum uoces declarant sed contrarium, leniuum teltimonio et experimento monfiratur. Quia scriptura homini et cei terarum rerum dequibus philosophi differunt, utimur, rei cum ipsarum explicandarum causa præterea epistola in uen fecundo autem minus principaliter, sed IMMEDIATE CONCEPTUS quæ duo afferta exemplo a scie manifestant urnam ascia ut instrumentum efficit immediatum sed principale seu princeps efficiens est artificismanus quod declar ta affirmatur, ut certiores faciamus absentes, siqu id esset rans primo de anima octauoThemist ait qprincipale ac ultimo intentum cognosci et definiri, indiuiduum dicitur: fed alio intermedio cognito forma uero uniuersalis fine alio medio: ut tamen ad indiuiduum cognoscendum refertur. Hæc di et ahisrationibus approbantur. Id quod eos scire aut nostra autipsorum interesset: igiturres poftremo, ut ultimü & finis, explicari intenduntur. Item fi quæ scribuntur SIGNA sunt vocum, autearum quæ extraani mam, quod impossibile eft, aut in anima: uoces autemin anima conceptus dicuntur, quos ad rerum explicationem in primis uoces SIGNIficant, ad quod SIGNIficandum nouos referriut sinem supraretulimus. Nunc ade aquæ adducerum nominum inventorim posuit hic autem ad rem explicandam uoces consticuit id.n. de uerbo considerans Aril. et manifestans uerbum SIGNIficare, approbat, quia consftituit intellectu. sed VOX PROLATA hominis tunc conftituit, et quie cerefacit intellectum non cum ad conceptum: sed ad naturam humanam deducit ergo voces et nomina tanguls timum finem in primis intentum res explicabunt licetins ter mediis conceptibus præterea primo elenchorum pris banturex Arift. respondebo. Non solum querendum quid philosophus dicat. Sed quid convenient errationi et sententiæ suæ vere opinetur audiendum. Hunc enim in modum. Aristoteles Intelligimus quæ scribuntur, sunt notæ eorumquç in voce i. confilii et arbitrii in voce quæ secondo intellectus et conceptus res explicantes dicuntur. Sici nterpreteris quæ ex Arift. adducuntur que scribuntur sunt lignaeorü, quæ in voce i.explicant cum voces defuerint ea, quem ex plicantur per voces, quarum uice fungitur immediateer go uoces sed non tanquam ultimum et extremum, quod mo, uocum finem declarans Arist. ait: quoniam res addil serendum afferre non poffumus, utimur nominibus loco rerum ad explicationem ergo rerum, consideration uocum referturnon conceptuum, ut fine mulcimum. Amplius. Idem opus exercetcumeo, cuiusuicemgerit, utdeconsu metaph. Ratio illiusrei, cuius nomen est SIGNUM, definition eft uox igitur rei per definitionem explicatæ, SIGNUM dicetur. Item teftimonio fenfuum confirmatur:quorum clara& certaiudiciasunt, eorumquærationeetiamiudis cantur.Ad quidenimtam diu expectamus, flagitamusuo le, rege et pro-consule, siue proregein vollendiscontro uersiis perspicuum est. Scripta autem vocum uicem exercent. Idem ergoextremum significatum habebunt. explicationem, scilicet, conceptarum rerum. Amplius literarum inventor, ad rerum explicationem direxit et Auer. Ait scri cum interpretationem: nisi ueri inuenié di gratia in rebus, pturas SIGNIficare uerba, id est fine medio et SIGNIficata uer quas cognoscere cireftatuimus I denim uolumus et borum cum forte uoces defuerint, hæc dequestionibus ardemus defiderio tang extremum. Ad hæc.fi conceptus sunt inftrumenta ipsa rumuocum ut ad rerum notitian mediis conceptibus ducant nó igitur ultimum et extremum que verum adbucest. SIGNUM autem huius est, hır coce e ruus enim aliquid SIGNIficat, sed non dumuerum aliquid, vel falsum, fi non uelese, uel non esse addatur, uclfine pliciter, uel fecundum tempus. Est autem quem admodum in anima aliquando quidem o falsum. Nomina quidem igitur ipsa Q verba consimi liafuntei intelligentiæque est sine composition neo diuie suimus et rationibu sacsensibus, rationem confirmatibus fone, ut “HOMO” uel “ALBUM”, quando non aliquid additur: nes approbauimus. Pugnabis poftremo, fi uoces, mediis con queenim falsum, nequeuerumadhuc est. SIGNUM autem ceptibus explicationem rerum efficiunt: cum immediate bus ueritas et falfitas inuenitur, hæc autem conceptus sunt, non res ipsę. respondeasuerum et falsum in conceptibus, ut in rerum similitudine inueniri: quæadipfarumuerará rerum cognitionem refertur uerum in rebus est, ut in causa. In poft prædicamentis cap.de priori et in fine huius primi libri itap attributiue. i. per attributionem et collationem ad res, veritas in conceptibus erit: uere autem, ut in causa, in rebus. Dices propter quod unum quod am tale et illudma césrefertur, ueascia admanus artificum: quod suprapor SIGNIficatum non ab organo sumi oportere: sed ultimo explicare conftituunt. nam quod uicem alterius perficit, dum uerum aliquid uel falfum; si non uel esse uel non effe  fatis, ac principale SIGNIficatum vocum dicentur. Etfiobiicietati quidem intellectus fincuero, uel falso, aliquando autem cuiiam quis Arift. textum, quem retulimus voces PRIMUM SIGNIFICARE CONCEPTUS intelligas fine medio alio. non tamen,ut necessees thorum alterum in effe, fic etiam in uoce. Circa compositionem n. o divisionem, eft uerum,o falfum. No ultimum & extremum SIGNIficatun. Nam uoces dicuntur SIGNIficare conceptus, ut rerii sunt similitudines ut ab ipsis rebus conceptus uenisse ad intelletum dicamus, quas novissime, ut finem et ultimum intermedias conceptibus per voces clariores NOSCAMUS. Nec secundum eorum argumentum concludet. Voces ea in primis ut finem SIGNIficare in quis mina igitur ipsa et verba consimilia sunt ei, qui fine comegis. Si ergo voces mediis conceptibus explicantres, igitur uoces magis et inprimis conceptus, q res ipsa saperient. Dic Aristoteles locum ualere in causa principe. i. principali non iuuante tanquam instrumento, quomodo conceptus a duo intellecus et cogitation fine vero uel falso, aliquando autem cuiiam necesse est alterum horum ineses, ic, etiam inuos ce. Circa compositionem enim et divisionem estuerum conceptus, ut accidentia denotent, nunquam substantiam explicabunt. Paucis, ut supra, respondeas, tocum propria addatur, uel simpliciter uel secundum tempus et extremo fine intent. Quod quandoq substantia quando g accidens appellatur. Huic veritati Alexander et Themistius ascribunt, etc. Ammonius non dissentit. Secundo quæs ritur, an scripturæ siue quæ scribuntur, tanquam ultimum Magentinus hunc in modum Aristotelis textum cum præce denticonne et tit.cum duo sint investigata. Primiiquonam modo nominis et uerbi SIGNIfication intelligenda ellerutrum TEX. BOETHII. Est autem, quem ad modum in anima, aliquando positione, divisione est, intellectui. Ut “HOMO”, uel, “ALBUM”, quando non aliquid additur, neque enim falsum. Ne huius est, quia “hircocervus” aliquid significat sed none E   hæc duo fineab Aristotele, posita, causam et finem curitapo ratiocinatur. Quem ad modum in anima intelle usquando fuerit, non declarant:ut.l. quid nominis partium definir tionis nominis et uerbiorationis, enunciatiuæ tang præs cognitions ponag ntur. Alterum etiam secondo dicúrey fello. Non et enim video ubi investigauerit Aristotele inquibus verum et falsum inveniretur. Quod nucquog inueftigare constituat. Item pugnantiacum Ammon. dicit. aitenim in anima eft quando querum aut falfum et ita probatio Ammonius per hæc utilitate in ad institutæ commentatio, esset minorisibi. Circaca in positionem. n.intellectus et di nis propositum tradi cum. C. verum et falsum sit in mentis uifione meftuerum aut falfum conclufio ut claratuncre concepribus et uocibus ut SIGNIficantibus et quodnumcdo linqueretur ergo itaerit in uoce sed uere arguit ex hypo cet philosophus non in his simplicibus sed compofitisue theli, non potential cathegorico syllogism nam cumpos rum et falsum spectari non nominibus nisi ut peroratio fitionem quodammodo ignotam manifestet, non syllogir n e m enunciatiuam a firmativam coniunctis, vel per negativam divisis, ita gnó in quit hæc quæ diximus Aristotele docuif m o arguit. Ex quo aliud ignotum natura concluditur, sed ex hypothesi, ut diximus et infradicemus. Prætere aut Commen et Ammonius asserunt ibi circa compofitionem enim & diuisionem non minorem sed approbationem unius partis antecedentis apponit. Aliquádo intellectus cumuero et falso fit SIGNUM est particula enim quæcau sam propositi denotat, scilicet quia verum et falsum sunt circa compositionem, id est affirmatione, quaaliquid cum falsum in compositione et divisione sequuntur intentiones se: sed nunc docere et in conceptibus et vocibus ut SIGNI? SIGNIficatiuis, falsum & uerum spe et ari,dum coniunguntur aut diuiduntur non persesumptis. Addeex Amm.hæc Aris. Nunc docere ut alteram orationis parte mante cognoscat. Dices pro Magentino illa quæ dixit, ab Amm.ferem aduer bum superiori textu sumpfife cuminquit cumhæcitaq percaquæ nunc dicunturtradentur. Iuocesesse SIGNIficati was rerum mediis conceptibus tum uel maxime quibus in rebus quocunq fuerit modo ueritatem ac falfitatem scruz tariconuenict C. inhoctex. Addés uero quem in textu supe intellectus. i. sunt in anima, sexto metaph. Ergo eruntin riori confideret ait. de quibus in præsentia nobis perpen uocibus seu uerbis significantibus ipsas conceptiones, ut fioest. Utrumin rebus anmentis conceptibus, an uocibus, Comen. animaduertit. Exhis declaratis etiam patet,q in aninquibufdam. harumduabus: anetiamin omnibus. telle et usfitali quando finc uero aut falso, idq; tangexsuo fiin uocibus qualibus his scilicet compofitis non nomine & uerbo et prædicamentis, ita incompositis conceptibus qui causa funt locum, no per le in simplicibus nec compo! Fitis rebus) Sed animaduerte quod dixerit nobis perpensio uisionez.i. line uero aut falso hæc exemplo manifeftat subs inprçsentiaeft) quod tamen inferius considerabit. neg dicitab Arifthæcquæ ipse perpendit, inveftigata nec'ait Inveftigasse Aristan SIGNIficatio nominis et uerbis olī, pen deatexuocetantum, an ex intelligentia uel rebus: sed quo cunq; fueritmodo, inhisueritas & falfita seft, ute xplicátis bus instrumétis hac enim ratione res ipfa sabiecit adquas famen ut extremum et finemultimum explicandas, uoces ter et non admittunt: ergo nec dequominus: nistuery et conceptiones animæ referuntur, q siquispiamhęcquæ bum effe affirmatum, aut non effe negatum addatur. fim eft fine uero aut falso, quando cuihorum alteruminesse necesse eft, ita et in uoce: hoc totum eft propofitio maior, affumptio et minori bi.circa compofitionem enim et diui rionemestuerum et falsum et non circa simplicia, ita ergo erit in voce. Sed contra: quiaminor hæc effe debuiflet: fed alio componi SIGNIficatur, aut diuifioné, id est negationé, qua explicatur prçdicatum a subie&to disiúgi. et uerum et opposite perspicuum utcorolarium et consfequens posuitcū ait. nomina quidemigituripsa et uerba consimiliasuntei intelligentię fiue intellectuiquiestfine compositione et di ftantię et accidétis: “HOMINIS”. C. et “ALBI” . utexhisomniaalia prædicamenta intelligatur. quando. n. his non aliquid ads ditur, fcilicet uerbum prædicatum “ALBUM” cum “HOMINE” suz biecto coniungens, neque falfum ne que uerum adhuc eft. Hoc denominehyrcoceruimanifeftat, nanquehuiusinor di compofita nomina uidentur uerum aut falsum admity  exvocetanti: m, aut sola intelligentin, an ex resolumuos ex Anmonio dicimus non probarit, inutrunq zfitdi&tum. Cesitemper animi sensus rerum elle interpretes. Secundo inquibusuerum et falum inuenireiur quòdnunequoß idoftendendti Arist. proponit. fedutrunchiltorum reiicio. non eniin fupra inuestigauit. Sed pofuit, ut persenorum, AQUINAS dicitq postquam tradiditordinem SIGNIficationis uocum, hic agitde diuersa uocum SIGNIficatione: quarum quædam uerum & falfum SIGNIficant: quædam non. Sedli cetuerumdicatur, ut de Ammonioreiulinius: tamenfine nomina et uerba SIGNIficatiua efle, cx hoc peaquæsuntin cuius gratia ista ponantur,fubricuit: Licédumigiturcum uocefunt SIGNA ET NOTAE SIGNIFICANTES PASSIONES nullomes diointerie et o, hisautem mediis, tanquam ultimui, res explicare. prçterea non uideo ubi inuestigarit, an nominis et uerb SIGNIgnificatio intelligenda esset ex uoce tantum, aut intelligentia tantum, aut ex re solum: fed hoc posuit sunt uæ, quibus etiam differebantabaliis: nuncuelleconstitue quidem ergoquę funt in uoce et c ut SIGNIficatio sumatur non ex uoce tantum, nonintelligentia, fed arbitrio,cognitione, et CONSILIO et  imponentium consensu, quem in uoce re feuante cognoscere differétiam, qua oratio differtano mine et uerbo: et quaoratio enunciatiuaaboraroriis poeticis optantibus et c.separatur et quoniamquępones reoportet et antecognoscere, ut per senota, non isialiquo facili instrument innuidebent nullo modo demonstrari. Propterea ex fimili seu hypothefi, &cóceflo, acpofitotery expaétione et confilio reliquerunt acuoci per attributio né dederunt at nullamentio eftfaéta de rebus, anabeasu mendaeflet SIGNIicatio nominis et uerbi quoniam maxiy m u m esset ignorationis, ac inscitiæ in Arift. argumentum, firem tam perspicuam, nec dubiain pro occulta quæliffet tiam definitionis partem et differentiam manifeftat.cũ inz quit. esid. ubi, ',proenim Magentinus uertit. ut causam hic assignareuelit ut Ammonius et Aquinus dixerút, acdubia. cuieniniuelrudi dubium uideretur, nomen et uerbum quod ut organum & instrumentum SIGNIficant a rebus, inftrumenti SIGNIficatiu et organi cognoscendi alte rum, SIGNIficationem habere, cum tantü SIGNIficentur, & nul lomodo SIGNIficent ine SIGNIficare & explicare ,utorgas num logicum uideantur? Item ea SIGNIficatioerat nomio nis et uerbiponenda, quæ ut præcognitio partium definitionisadea cognoscendadirigeret hæcautem eftuoxa de quo nunc differemus aitergo de antecedente syllogismi exposito ficutuelquem admodu menim eft in anima intellectus cogitatio, intelligentia vóruceenim ifta SIGNIficat.) aliquando quidemsine uero uel fallo: aliquandouer rocui necesse esthorum alteruminesse. Ex hoc posito et notiori antecedente infert quodammodo ignotumin choantibus consequens ficetiam in uoce ut SIGNIS ET NOTIS CONCPTVVM erit, aliquando sine uero uel fallo ut in nominibus et uerbis, aliquando cuinecesseestiam horum alterumin effe: ut in oratione enunciatiua, Suellaueroita pofitione SIGNIficans,non res tantum SIGNIficata: a uoce ergo et intelligentia in voce relicta, Ctributa fiue attributa SIGNIficatio nominis et uerbi pident, no ar ebus. Amplius: Suela nam licet fupra male textum Arist. declararit Sucr sa, nun cueritatecoaaus idem dicit quodnosin explicans do philofopho dicebamusp ofitisduabus partibus defini tioniscómunibusnomini et uerbo et orationi enunciatis pliciter,  efle, quamartemutexemplar, adopuseffin latenus inc aliquiduocum: neceorum quæ in uoce, no ut gendumexteriusafpicit, qopusexarte notioriinmates finis: cum conceptus prior fit uoce et ueritate quem in uoce confiftit: non ut agens.quia res agens est, a qua oratioues taut falsa vocatur sed non difficileest Amm. et Aquinas. sententiam et opinionem, a Suessæ argumentis defendere. primum, absurdum affirmat. Conceptus non tangformam SIGNIficant: qui in voce tang artificiali materia relinquuntur: quo esseueriautfalliinuoce, cumnecaliquidfintvocum, nec cumuiuocessuntnotæ: Exhisrespondemus: rationem eorum quæsuntin uoce: Peroenimabeocumsupra dixe ritArift. Eaquæfuntinuoce etc.nonnifiarbitrium, et placitum, cogitatiointelligitur: ut ipse metcum locum interpretans, opinatur: ergo conceptus est aliquid existens in voce, non utopus naturaleest, sed arte.i. uoluntate: confi et um. Itemipfeconfiteturuocemsignificatiuam,communeges nusnominisuerbi& orationisenunciatiuęuocari:nõuo lessuntsimilitudinesrerum.Seddicessecundomenunc cé, utnaturaleopus. ergoutacognitione, imaginatione pugnantiadicerecumhis, quæanteacontraAnimo.Boe uoluntaria effi&taeft:utsignumfitadaliudextraexplican thium,& Scotum diximus: orationen dariinméte et no dum relatum: Et fecundodeanima Averroes et Themist. tioremesseea, quæinuoceconfiftit. Diximusadhçcartis fumentes ab Arift. asserunt: essentiamuocisinterpretatis inuentoribu sueliaminuentam docentibus, ineodem no efle percussionem aeris anhelati, ad membrum quod cana tioremesse artem, acconceptionescūuero& falsoinani dicitur, abexpulfioneanimæ imaginatiuæ uoluntariæ: et ma, quam exterius opus effictum: ficinpropofito,excong infraqinessendo uocem necesse est ut percutiens habeat ceptibus rationem coposuit, notioribusapositione signifi animamimaginatiuam, tuoluntatem:effentiaergouol catis:quiquodammodonotiores:utindu&ionesensata cispendet abipso conceptu et placito reliéto a positione patet infraenim sectione quinta ex opposition maioriin in uoce, tangforma et uox uropus naturæ interpretans mente, explicatitae! Tein uoce: Item placitum eft caufa, a placito ab animaetiá,tangagente, depédet:nam secundo de anima. percussiorespiratiaerisad uocala arteriam ab anima quæinhispartibus uoxeftutefficien tecausa hinc Cómen. Inprincipiocómentiait oportet igiturut percussioaerisanhelati ab anima, queestisismé præcognitionem partistertię definitionisratiocinatur:no brisadcannam, fitillud quodfacituoc a et inmediocom igitur demonftrationem effect quæadnaturaliterignos menti primum enim mouensinuoce,estanima,imagina tiua et concupiscibilis et ideouox eftsonusilliusprimi uolentis & mouentis. Etq etiamdicipofsitquodammo dofinisuocum, perspicuum est ex his,quæ fupradocuio mus: fine muocum effè eriam res conceptas: namorgal na ad eorum opera, tang finem & ultima, diriguntur.pris mo topic..cumnonpropterse, sedpropteralterum exo petantur:sed uoces SIGNA sunt ET NOTAE CONCEPTUUM adquos explicandosreferimus: finesergomedii,licetnon ultimi tumdir igitur. Secundo post.primo. necillam utperitus ad rem per se nota efficere potuit. ne ipse suampręcogni tionum artem confirmaturus experiment contrarioinfir maret. Itidemminimeconsecurionem ualeredicimus:ra tio ex caufis eft notioribus, ergodemóftrationempropter quid aut simpliciter constituereaffirmabitur.quoniam alte rum& pręcipuum demonftratiodi &arequirit.utadigno tum naturaliter dirigatur, non ad pręcognitionem ponendam, utpersenotam:nam primopofte veręetiàdefis uocabuntur:Exhisfacileeiusrationibus respondemus. nitiones, quidtantum nominis non ueræ definition suim haberedicunturab Auer. utpræcognitionessunt:ita et fi hæc præcognitio ex caufamonftretur, nonutdemonstras tiua, fedutexfimiliaccepta, et uisa, et alibideclarata; pros ptereatopica potius, quàmdemonftransuocanda:noto pica,o fitdubia, autfalfa,immouera, sed hic accepta alig biuisa philosopho et hic posita, utc redita:dequo latius ressecundum feeffedicantur, nótamenapudeosquicon ceprus et res conceptas ignorant: adquarumexplication nem, utultimum, referuntur. Adtertiamdeagentedico: inquit exAmmonioait. Primo quiahæcconfi& anomina rem, agensremotumuocari: aquo intellecus phantasticus falsum significare uidentur: ut. Aquinas ait. Sedcótra.quia fimilitudiné abftrahit: sedanima,utnaturaagens,uocem ab Aristotele dicitur sed non dum uerum aut falsum signifi interpretantem tang operationem propria mefficit, &lo cant. Nifi effe aut non effe addatur: ergoutrunque signis gicotradit: cuilogicusproprium considerandi modum ficareuidentur. Item causa assignandafuiffet, curexem attribuens,utinftrumentum significandi & explicandicon pliscöpositis (que uerum dignificare potius etiá uidentur) Ad primam,utpatet, intelligentia, inuoceartecong fi et tareli&ta,eft,utaliquiduocis.i.forma. Ad secundam Q non fitfinis,nonualet,idpriuseft,ergonon finis:Deus enim eftpriormotu&creatura,quæad Deicognitionem deducunt, ut signa et effe&taadsuumfinemcognoscenda directa:fimiliterdicaturdeuocibus, & ficóceptusprio riaexternareli&um: manifeftum eft argumentum qdixit Arist. bon uoces: sedeaquæsuntinuoce, suntsignapass fionum et conceptuum,utnaturaliumsimulacrorum et res rum fimilitudinum. i.cóceptusapositione,(utratio)signi exfimilinotiori, et fuperiusab Arif. pofito, exlibrisdeani maprocessisle: ficutinanima eftaliquandointelle us fineueroautfalso, aliquandocum horum altero: ita& in uoce: et de uero et  falso loquitur utAlex. et Ammo.ac cæteriboni expositoresaffirmant)orationisenunciatiuæ, et denominibusfignificantibusaplacito,nonutnaturas quamobremuoces significant cúfiuntnotæ. Necproptes reao conceptusutcaufedicuntur.quosnomina et  uoces tanquam SIGNA et effetusimitantur, afferendúeftArif.des monftrantem rationem efficere: namhich ypotheticè ad Deoda nieprimotopic. dicemus. Quæruntcur Arift.fis &aprotulitexemplapotiusquàmuera.Sueflasumens ut  pliciter, quod præsentis efttemporis.aut secundum tome pus.i.præteritum& futurumut Com. explicauit. De Am monii expositione dicemustunc,cumaddubiaresponden bimus. Quæritprimú Suessa.qualisnam ratiocinatio Aris. fuerit(quéadmodum inanima quandoq intelligétiafine ueroautfallo, quando quehorumalterumnecetle eft in esse.respondet. Aquinas et Ammo. intex. præcedenti,nes liderat, accognoscit: Respondendum ergoest uteftdig &um Arift. exhypothefileu positione,& ex fimili notion riprocedere: quod quemadmodum particuladenotat. dum asimili: sed a causaquamimitatureffectus, proceder re. nam Ammo. ait: circa enunciatiuam orationem quæ quæsupraetiam Aril. poluit: namproptereauoxfignum exillorumcomplexuefficitur, uerum et falsum spectari. &notaexterius explicansdicitur, qapositione et intellig ante voces quoq; hæccircaconceptuscósiderari.utqui causæ uocuinlunt,aquibusconceptusfimplicesfineueris tate, & compofiticum uero & falsodefignantur & declas tantur: Responsionem improbat Suelta: quia conceptus non causaueriaut falliinuocetang formasunt:cumnuls duftioncperspicuum eft ut Amnioniusanimaduertit no tioremartem Seddices ratione inaliniilieffe& et tamex ignotis concludes re, nanieaexquibushic ratiocinatur, extertiodeanima infrasumuntur: hæcautemtanquam ardua,& inchos antibus difficilia,utphilofophus,& relinquendasupra nosmonuit: Satis huicrationi faciendum arbitror ex his, gentiaatqzarbitriopendet:ineo presertimartific equivoces impofuit: uel ab impositis et Gibi notis nominibus, regulas logicæ docet:in mente enim artificis& docétis ing E ii   quærimus, ad que causa hæc nondirigitur. Tertio dicit: ut quçinintelle&usuntfolo.sednefcioquçueritasdicipót, cuinihilextraresponderinre:cum infra& inpoftpredi camentisdicatur abeoq resest, uelnoneftoratiodicitur uerauelf alla remota aūt causa et prima radice, ceterade ftruinec effe eft. Item Aristotele de vocibus loquitur. Propterea mihi hoc libet dicere. Hac de causa fiais exemplissuasen tentianicomproballe,o fi&aamer a positione significant: & ideo magisobuia& perspicuaacconsuetafuntadexpli candum: ut quod ámodonotiora, ut magisuulgata, exars omnemueritatem haberiin compofitione& diuisione.ne excludatur ueritas apud Platonem in intelligibilibus,& in telligentiisfiuemenubus,& apudArift.desimpliciuming telligentia et abstractis: fedeam que in pronunciatiuissubs est motibus, scilicet cum discursu: seu ratiocinatione: quæ perenunciatiuam fitorationem.&inniotibuspronuna ciatiuis,non invoce solum (intelligas) exiftentibus:fices nimtextui Arift.& eiusdillisaduersantiadiceret.sedetia ne&diuifionefalsum & uerumremouerineceffeeft:pro ptereaergodixit, (circacompositionem at causam noia ret: sed ad nomina in uoce descendens ait non significare uerum, aut falsum: significare enim proprium eftnomi num, quæinuocea compositione significanteconfiftunt. PetitAmmonius quomodo uerum fit, circacomposicios innueretueritatem non in rebusreperiri:fedinhisetiam, nem et divisionenelle uerum et falsum. Responder non nonutitur: ficut utiturhis, quæ falsum significare maxime affirmantur. fecundam causam adducit: utinnueret, non solum nomina simplicia ad ueritatem explicanda indiges reuerbo sed etiam ipsa composite. Sed idem est dicendum de nominibus compositis ueris, nosautem de fictis proprie non  bitrio plurimorum: exhistamenfi&lisnominibus, aliaue ca intelligendasunt. exempla autem innotescendi gratia inuenta, exuulgatis& consuetistr ad endafunt et lificadi cantur: quibustaméuerum facilius inueniamus, autinuen tum facilius doceamus: Petit Suella cur Aristotele.dixerit conpositionem significare cum uero et falso, non autem significare uerum aut falsum i respondet, hoc differreinter significare uerum et significare cum uero:quias ignificare ueru potest uere in nomine simplici inueniri:u.g.hoc nomen uerum aut fallum, simplex verum significat.i. se ipsum: sed significare cum uero, eftfignificare cum uerbi complexu ut de uerbo dicetur, significare cum tempore, notempus: ut dies et annus sedlicethęc dubitatione relinquenda foret, cum id quærat, quodin Arift.textunoneft:tamenneaus inmotibus pronunciatiuis, ideftquicaufafuntutper enung ciatiuam orationem pronuncientur,ueritasergoquacon ditorum ingenia, obuiriau&oritatem fallantur, ponere& cipitur,aut enunciatur aliquid ineffc alicui,folum circa con pofitionem & diuifionemeft,utspeciesorationisenuncia tiuæ.dixieam ueritatem circacompofitionem elle,quæ concipiturinmente, uelexplicaturinuoce,& quaprædiy catuminesse subiectoaffirmatur:quoniam primotopic.4, loca accidentis propriè dicuntur,quibus potentes fumus concludere hæc alteriineile:& ideo locaeducentia uerum enunciative propofitionis dicuntur loca accidentis et veritatis qua aliquid alicui in esse concipitur vel explicatur:Sci scitatursecüdo Ammonius cur Aristotele dicens nomina igitur et uerba consimiliaíunteiqui sine compositione et divisione est intelleclui exempla protulittantum nommun, non uerborum dicens, ut “homo” vel “album”. Respondet per hominem nomen: per “album” verbum fumpfiffe: non eata meninquitratione, qua verbum proprie inferius definitur. Sed quia Aristotele statuit, omnemvuocem quæt erminum prædicatum facit, verbum appellanda. Sed responsio hęc improbandauidetur: primum q Arift.nondieetinfraprę refellereconstitui:non.n.Aristotele dicit compositionem cum uero aut falso significare: sed ait circa. n. compositionem et divisionem elle veritatem et falsitatem. Item de “hircoscervi” nomine afferuit. “Chircocervus” aliquid SIGNIficat, sed non dum uerum aut falsum de nominibu sergoopposiy dicatumu erbum appellandum fore: quod fictiam dices tum dicit eiquod Suellafingebat: nomina non significare ret, exemplum albiquod posueratantea, adexplicandum uerum aut falsum, sed significare sine vero aut salso: Eiusery uere uerbum, inutile videretur:Aliter igitur responden, gore sponfioin textu Aristotele.infirmatur, cum denominibus dum. His exemplis dicta inchoantibus comprobandaque compositis neget significare verum aut fallum: differentia etiam abeo assignatauerbis Aristotele, adversatur Ampliu snec potuisset Aristotele dicere, compositionem et diuisionem verum significare, na in compositio.i.affirmatio et divisio.i.negay cumuerbonominibus:tamenutnotaprædicatumcuin ciosumerenturinuoce quo infrade oratione enunciatiua dubieto connectens, dubiumfaciunt, anuerum & failum dicetur. Litoratio significans verum vel falsum, &inqua fignificent, signum est. Ammoniusetiam tanquam duy eftuerum& falfumutinfigno externo significante:nam oratio in mente, non significate positione, ut hic intelli, bium quærit de uerbis primæ et secundæ personæ “ambulO”, “ambulaAS” et in quibus tertia persona et certas statuitur. Git SIGNUM est opde nominibus fimplicibu s& compofitis, line uerbo, intulit dicens nomina igitur ipsa auteur bacó similia sunt fine compositione et divisione intellecus. lt homo et album hircocervus quæ et si aliquid simplex significent, non dum tamen uerum aut falsum hæc autem nomini in voce sunt, noninmente: quiafiutinmēte essent, ut ningit. quæ veritatis et falsitatis videntur capacia. Licet nonperfe, fedcomplexuhorumuerborum cũcertispery fonis.nonitadubium eft de nominibus, dequibusinse acceptishæstat nemo, an veritatem significant aut falsitatem: Quærit nouissime Ammonius quid intellexerit Aristotele. Per simpliciter, uel secundum tempus cum ait. (hircocery considerentur, non dicerenturno significare uerum aut falsum et q effent fimilia intellectui fine compositione& diy uifione: quiaessentipseintelle&us,seuintelligentiafineue roautfallo: Dicendum igiturin questionem potiusuerten dumcurdixerit.(circac compositionem.et divisionem, ut inmentesunt, est verum et falsumj denominibus autem in uocecorolarieinferens,ait:(fineuerbonondum uerum uusenim aliquidsignificat:fednondum uerumaliquid autfalsum, finon, ueleffeuelnonesseaddatur,uelfimpli citeruel secundum tempus. respondet sermonem Arif. ad eadem referens verba, inquiens: nifi effe addatur fimplicis ter,ideftnisi effe addaturindefinite et indeterminate significans: ut “Fuit hircocervus” est, auterit. Non definiens, ac determinansan hodie, sero, anmane, perendie etc. vel aut falsum significare. Ad quod respondendum, quod fecundum tempus, ideftnifiaddatur cum aliqua determis propterea vox quando eftfineuero&fallo, quandoque natione tempori addita præsenti, præterito, uel futuro, cum his, quia circa compofitionem et divifionem intelle, sciliceterat,eft,erit,herianno superiori, hodie uel cras, & us eftuerum & falfum:ex quo intulit de nominibus in autsuccessiuotempore.quam tamenexplicationemaci uoce, gfintfine uero, X fallo ex eadem causa, pfimiliasing intellectui fine compofitione et divisione: circa quæuerum cipiens Magentinus uel in latinum vertens non intellexit: cumpereffef smpliciter et omnino, in, finitoacdetermi & falsum uersatur, ut caulam, quaposita, uerum aut falsum i ponitur. & hac remota (ut in nominibus fineaddito uery natotemporeintelligat. Ad tempus uero et in tempore infinito. tragelaphuserat, uel erit, hęc.n.infinitafunt: fed bouidetur, quæ fimiliasuntintelligentięfinecompositio eft presentist emporis, aitdefinitumelle:l iceteft,utdeDeo facilius conftitutam sententiam approbant verba aute in ut dicetur quandam compositionem significant, quam licet ex se non habeant, sed ex alio, ex compositis, scilicet dicitur infinitum significet: Idem Deus, erat, et est, sed in aliis rebus, tempore non definite uti murita. Hinc liquet, igitur erunt: quæ et fiacu et explicite verbii, prædicatum et subiectum ut nomina non contineant, illata men eximigit, ergo et hic per tempus dimpliciter, tempus præsens, 8C per secundum tempus præteritum vel futurum: quæ pros ptereanuncupantur et lunt, quere tempus prælensciry cunstant, iuxtas; ipsum ponuntur: propterea dixit, secun significat, quemadmodum in oratione quaestequus ferus. Ofitis et precognitis partibus definitionis nominis ac nunc ad definitione sponendas integras ac totas accedit: sed Ammonius querit cur primo de nomine ade verbo definis dum tempus quod non simpliciter et ina et ueft. Sed quod.tionem assignet? respondet, proptere a nomen uerbo esse præteriit uel futurum est: solum præsens simpliciter et in actuest utre et te. Aquinas exposuit. Nec Sueffe confutatio ualet et que liber differentia temporis est tempus secundu quid: quoniam per aliquid ab aliis differentiis differt: quod autemper partem est, fecundumquid, non simplicitertas antepositum, qnomen substantiả.i. naturam et vim rerum significat: verbum vero a&ionematqz affetionem, quænel Cellario naturam acuimmouentem supponit. contraarguit Sueffa. substantia non nisi per accidentia cognoscitur, prius ergo verbum definiendumq nomen: Ad instantiam, Am Icesse dicetur: primo clenchorum. Sedĝfalla hæc fit monius facile diceret substantiam cognoscifine describir improbatio patet, quiaens, cumin substantiamens simplisciter diuidatur & accidens, inaĉtum simpliciter, et potens tiam secundum quid, ne quaquam uere divideretur: quia per aliquid differ substantia ab accidente et potentia ab aétu, &fi proprie differentiam non habeant. Item ratiofal lit. lihęc species per aliquam differentiam acuprecipue differt, rrgo per partem. Igitur secundum quid. accidenti aut posteriora accidentia vero per substantias definiri, ut priores: fic Aristotele primo naturam quam motum finiuit, aquamotus, ut perseprincipio, prouenit: & materiam primo phy..g formam. phy. quæ a materia cuiu nitur& datellelustentatur, Aliteripse respndet, proptere a nomen uerbo prætulisle, onotius est. Et iterbi feconuenire Arist. affirmauit, sed enunciationitantu: erunt igitur enunciationes, cum enunciationis proprium opusef signum. sed compositionem acueritatem comsignificat quan fician. Suellanouariis Sorticularumdi et tis et improbatis sententiis, hocuisum est: literas et nomina quo ad prima eorumimpo fitionem, non significare nidi in complexum, nec cum uero et falso: sed quod quo ad nova impositio, nem, significare possunt cum vero et falso: propter eaqapo in compositione explicare fine additouer bonó possunt. Dis fitione sunt. Nung tamen erunt propositiones aut enuncia cas Querbumetsi compositionem extremorum aétu non tiones: propter eanóualereait, a, significat cum uero aut dicat, a et tionem tamen, et affectionem significat, quæ causa fallo, ergo enunciation erit. Quoniáin quit oportetinantes est, qpredicatum seu appositúsubie &ofiue suppositocon cedenteaddere. significet ex prima impositione, nonau iungatur, uerbum ergo lempereftunio comiungens apritu temex nova institutione. Sed contrahancadditam conditio dinesaltem cum in propositione non est. Sedcunsecundum nem ex proprio arbitrio. Enuciatio prima impositiones isse, acpurú accipitur: nomina uero sunt composita, seu quæ significat propriecum vero et falso. Ego ubi est proprium apta sunt pera & tumuerbi coniungi, proptere a nomina pen opus, necessario propriumerit instrumentum: neq; enima denta verbo, quasi formauniéte et verbiianoíe quasimai nova aliqua institutione propriú opus a proprio inftrosen teria, qunici habetp uerbum. Ut materiaaŭt, tempore pre iungipoteft: proptereafi. a. b. c, etc.  novis aut antiquis concedit forma, & prius,utfacilius& ordinenecessitatisnos Giliis&pofitioneimpositasunt, ad verum et falsum, seu ut menanteafiniendu. Verbum vero, quniéda funt, prçsuppo ipfi volunt cum uero et falso significandum. enunciationes nés, posterius ut ignotius et the posterius explicandú: quas quando secundū se, acpurumdicetur. Ipsum.n.sic purumi nullüueritatis et compositionis, aqua verum explicatur, est dam, nonperse, sed quam sine compofitis nominibus non est intelligere. Gi ergo hac de causa nomem præponit verbo, q notitia verbi in compositione verum explicantis, non pont, intelligi sine nominibus compositis. Ita et nomina, uerum  illud, quod Ammonius, tempus simpliciter & omnino, ponentium CONSILIO coplcctuntur. Exemplo simili Amm sus ideftindetinite et indeterminate significans, appellabat, Ma, gentinus dicit esse tempus finitum et determinatum. Et parsticula, quam Ammo. adom né temporis differentiam rer pra, cum dicimus "curro", "curris", nin git, pluit, complexuhorūuer borum cúcertis intelle&is personis, cú vero et fallof sgnificant. ferebar, Magentinus ad solum præsens direxit. falsum igir. Keywords: il vestigio dell’angelo, Campidoglio Inv. # 334, donazione di papa Gregorio, logicalia, interpretatio, interpretazione, logica, signum, segno, nota, notare, notante, segnante, notificare, segnante, vestigio, il segno del’angelo, campidoglio, san michele, vestigo, etym. dub. ves-stigium, foot-print. – segno naturale – segno, genere e specie – genere: segno. Specie: segno naturale, vestigio, marca, nota.. segno artifiziae, segnar per posizione, arbitrio, a piacere, consilio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Balduino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Banfi – Eurialo e Niso; ovvero, la tradizione vichiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vimercati). Filosofo Italiano. Grice: “What I like about Banfi is that he is more ‘important’ than it seems, at least to Italians! He has written bunches, but my favourite are two: his ‘l’interpretazione’ (Banfi makes a distinction between ‘esegesi,’ ‘interpretazione’ and ‘TEORIA dell’interpretazione,’ in a slightly non-Griceian use of ‘teoria’ – and his essays on ‘eros e prassi,’ for indeed the second strand (eros e prassi) is the base for the former (interpretazione): unless you CARE, why interpret – which is indeed, a performance?!” -- Antonio Banfi seenatore della Repubblica Italiana LegislatureI, II Gruppo parlamentareComunista CircoscrizioneLombardia Dati generali Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in Lettere UniversitàUniversità Humboldt di Berlino ProfessioneDocente. torico della filosofia, traduttore, accademico e politico italiano. Fu sostenitore di un razionalismo aperto e antidogmatico in grado di attraversare i vari settori dell'animo umano.  A lui è intitolato il Liceo Scientifico con Sezione Classica Aggregata del suo comune natale, Vimercate.   Antonio Banfi nacque a Vimercate, in provincia di Milano, in un ambiente familiare formatosi su principi cattolici e liberali della borghesia colta lombarda, nella quale da generazioni combaciavano una moderna e positiva idea del cattolicesimo e un razionale illuminismo tecnico-scientifico. La ricca e vasta biblioteca in possesso della famiglia diventò per il giovane grande stimolo di conoscenza nei suoi studi, quando da Mantova, dove frequentava il Liceo Virgilio, ritornava a Vimercate, dove assieme alla famiglia trascorreva le vacanze estive.  Nel 1904 incominciò a frequentare i corsi universitari alla facoltà di lettere della Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano e ottenne, dopo quattro anni, la laurea con lode, discutendo (con il relatore Francesco Novati) una monografia su Francesco da Barberino.  Incominciò a insegnare all'Istituto Cavalli-Conti di Milano e contemporaneamente proseguì con grande determinazione gli studi di filosofia (con Giuseppe Zuccante per la storia della filosofia e Piero Martinetti per la teoretica); il 29 gennaio 1910 prese la seconda laurea in filosofia, discutendo con Martinetti una tesi intitolata "Saggi critici della filosofia della contingenza", contenente tre monografie sul pensiero di Boutroux, Renouvier e Bergson.  Con la borsa di studio attribuita dall'Istituto Franchetti di Mantova ai laureati meritevoli, Banfi decise di andare in Germania e iscriversi, con il suo amico Confucio Cotti, alla facoltà di filosofia della Friedrich Wilhelms Universität di Berlino, dove strinse amicizia con il socialista Andrea Caffi. Nella primavera del 1911 ritornò in Italia e partecipò a vari concorsi, ottenendo una supplenza di Filosofia prima a Lanciano, in seguito a Urbino; per molti anni assunse diversi incarichi in varie sedi scolastiche.  Banfi conobbe una ragazza, la contessa Daria Malaguzzi Valeri, con la quale dopo poco tempo, il 4 marzo 1916, si unì in matrimonio civile nel municipio di Bologna. Durante la guerra, già riformato al servizio di leva, si dedicò con senso di servizio e scrupolosa diligenza all'insegnamento e, per la penuria di insegnanti richiamati al fronte, oltre alla sua cattedra fu costretto a ricoprire altri incarichi; solo agli inizi dell'ultimo anno venne aggregato come soldato semplice all'ufficio annonario della Prefettura di Alessandria.  Nei primi anni del dopoguerra Banfi, pur non militando nel movimento socialista, assunse in modo molto deciso posizioni di sinistra e partecipò, come iscritto alla Camera del Lavoro, all'organizzazione della cultura popolare, diventando in poco tempo una delle personalità più in vista del mondo culturale democratico alessandrino; venne nominato anche direttore della biblioteca di Alessandria, da cui fu in seguito allontanato dal nascente squadrismo fascista. Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Nel 1931 Piero Martinetti, che era stato collocato a riposo d'autorità per aver rifiutato di giurare fedeltà al fascismo, lo propose come suo successore per l'insegnamento della Storia della Filosofia all'Università degli Studi di Milano, dove, a partire dal 1941, fu maestro di Rossana Rossanda.  Diresse la rivista Studi filosofici, pubblicata dal 1940 al 1949.  Nel secondo dopoguerra, con le elezioni politiche del 1948, fu eletto per le liste del Partito comunista,nel Senato della Repubblica. Il mandato fu confermato alle successive elezioni del 1953.  Il razionalismo critico Magnifying glass icon mgx2.svg Problematicismo. Antonio Banfi può essere considerato il maestro della corrente filosofica che in Italia si è denominata Razionalismo critico e che ha avuto anche derivazioni significative nel campo della pedagogia teoretica con il Problematicismo. In sostanza, usando il concetto kantiano di ragione, Banfi la considera come la facoltà di un discernimento critico, analitico, presupposto trascendentale che sistematizza l'esperienza, i dati empirici, non pervenendo a dogmi o a sistemi di sapere chiusi e assoluti. Il principio razionale permette di cogliere e comprendere la realtà nelle sue complesse determinazioni: senza questo principio, che va assunto appunto come trascendentale, la realtà sarebbe caotica e solo contingente ed esperienziale oppure interpretata secondo la Metafisica o sistemi di pensiero chiusi e non problematici come richiesto dalla scienza e in generale dalla complessa dinamica del mondo umano e naturale. L'apertura della ragione è talmente ampia che anche le filosofie assolutizzanti vengono poste come possibilità di verità, seppur parziali ("È bene tener presente che il pensiero non pensa mai il falso in modo assoluto"). La filosofia è lo strumento indispensabile per l'analisi critica del reale, non deve tendere a un sapere assoluto, ma porsi il tema privilegiato della coscienza, purché questa coscienza sia "coscienza della relatività, della problematicità, della viva dialettica del reale". Si sfugge al relativismo possibile seguendo le orme di Socrate: l'eticità prevale quando, non potendo esistere se non come tendenza verità assoluta, le verità relative sono assunte come problema, cioè come ricerca interrogante e incessante fondante l'intero processo conoscitivo. Le conclusioni sono, come nell'ambito scientifico (la scienza è lo strumento pragmatico della ragione, la filosofia lo strumento teoretico) non false ma possibili, non solo provvisorie, ma reali. Le categorie che Banfi propone per sintetizzare la sua proposta filosofica, sono quelle di "sistematica" del sapere, fondata su un significato antidogmatico della ragione, una "sistematica" aperta per il rinnovamento critico di tutte le strutture razionali e di un umanesimo nuovo, radicale, che ponga l'uomo al centro dell'indagine razionale e nella sua realtà storico-effettuale, che forma la sua coscienza concreta nel mondo reale: dunque critica alla metafisica ma necessità della filosofia, il sapere costruttivo garanzia di libertà e concretezza. Il confronto che Banfi predilige è con gli indirizzi filosofici della prima metà del Novecento, in particolare la Fenomenologia, il neokantismo di Marburgo, il neopositivismo, l'Esistenzialismo, ma negli ultimi anni orienta sempre più il suo interesse al Marxismo, di cui condivide gli assunti fondamentali leggendoli alla luce del suo razionalismo critico, come si evince dalla raccolta postuma Saggi sul marxismo editi nel 1960.  Archivio Si segnalano tre fondi archivistici del pensatore:  "Fondo Antonio Banfi" presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. L'archivio, insieme con la biblioteca personale di Banfi, dopo la morte del pensatore venne donato alla provincia di Reggio Emilia insieme con la costituzione del "Centro studi Antonio Banfi”. In seguito, il Centro si trasformerà in "Istituto Banfi", con sede a Reggio Emilia. Nel, l’archivio e la biblioteca personale del filosofo sono stati depositati alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, a seguito di un accordo tra Soprintendenza Archivistica per l’Emilia-Romagna, Comune e Provincia di Reggio Emilia. La biblioteca conserva anche l'archivio di Daria Malaguzzi Valeri e l’archivio delle carte di Clelia Abate, segretaria del Fronte della Cultura e allieva di Banfi. Archivio "Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri" presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Il fondo archivistico contiene diverse centinaia di documenti conservati da Daria Malaguzzi Valeri, moglie del filosofo, e da lei usati nella stesura del libro Umanità, pubblicato nel 1967 per le Edizioni Franco di Reggio Emilia. I documenti del fondo coprono l'intero arco di vita di Antonio Banfi ma risultano particolarmente ben rappresentati gli anni giovanili; da segnalare soprattutto il ricco epistolario con la futura moglie, riferito e la corrispondenza con Piero Martinetti, durante la sua docenza presso la Regia Accademia Filosofico Letteraria di Milano e poi dal suo ritiro di Spineto. "Archivio privato familiare Antonio Banfi" conservato presso l'Università degli studi dell'Insubria. Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti, riunisce migliaia di lettere, biglietti, cartoline postali, plichi e buste, conservati in 33 raccoglitori a loro volta inseriti in 15 buste, per una consistenza di circa 1,5 mi. Gran parte dell'archivio è costituito dal carteggio tra Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri, sposatisi  Il rapporto epistolare con la moglie, infatti, non si limitò alla sfera affettiva e familiare, ma affronta spesso tematiche filosofiche (ad esempio, la frequentazione di G. Simmel durante il giovanile soggiorno a Berlino, nel 1909-1911, o la ricezione dell'opera e la personale conoscenza di E. Husserl) e di attualità, nella concretezza dei riferimenti a eventi e circostanze del presente e ai rapporti sociali coltivati da Banfi come pensatore, studioso, organizzatore culturale e uomo politico. Altre opere: “La filosofia e la vita spirituale” – lo spirito, l’animo, vita, animo vitale – (Milano, Isis); “Principi di una teoria della ragione” (Firenze, la Nuova Italia); “Pestalozzi, Firenze, Vallecchi); “Vita di Galileo Galilei” (Lanciano, R. Carabba); “Sommario di storia della pedagogia” (Milano, A. Mondadori); “I classici della pedagogia: Rousseau, Pestalozzi, Capponi, Gabelli, Gentile” (Milano, Mondadori); “Studi filosofici: rivista trimestrale di filosofia contemporanea” (Milano); “Saggio sul diritto e sullo Stato, Roma, Rivista internazionale di filosofia del diritto); “Per un razionalismo critico, Como, Marzorati); “Lezioni di estetica raccolte Maria Antonietta Fraschini e Ida Vergani, Milano, Istit. Edit. Cisalpino); “Vita dell'arte, Milano, Minuziano); “Galileo Galilei” (Milano, Ambrosiana); “L'uomo copernicano, Milano, A. Mondadori); “La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Milano, Bocca);:La filosofia del settecento, Milano, La Goliardica); “La filosofia critica di Kant” (Milano, La Goliardica); “La filosofia degli ultimi cinquant'anni, Milano, La Goliardica); “La ricerca della realtà” (Firenze, Sansoni); “Saggi sul marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Filosofia dell'arte” (Roma, Editori Riuniti). Note  "Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]"; Lettera n. 108 Piero Martinetti a Adelchi Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti Lettere, Firenze,,  Rossanda, Rossana, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, Vedi scheda del Senato della RepubblicaI Legislatura.  Vedi scheda del Senato della RepubblicaII Legislatura.  Cit. in "Il marxismo e la libertà di pensiero", "Saggi sul marxismo", Editori Riuniti, 1960, pag.152  A.Banfi, La mia prospettiva filosofica, in La ricerca della realtà, Fondo Banfi Antonio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. 3 dicembre.  Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti per la filosofia, l'epistemologia, le scienze cognitive e la scienza delle scienze tecniche, su dicom.uninsubria. 3 dicembre.  G. M. Bertin, Banfi, Padova, MILANI, 1943 E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900), Bari, Laterza,Bertin, L'idea di ragione e il pensiero etico-pedagogico di Antonio Banfi, Roma, Armando, Papi, Il pensiero di Antonio Banfi, Parenti, Firenze 1961. F. Papi, Banfi Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani,  Treccani. A. Erbetta, L'umanesimo critico di Antonio Banfi, Milano, Marzorati, 1978. Antonio Banfi tre generazioni dopo. Atti del convegno della Fondazione Corrente, Milano, Il Saggiatore, Milano 1980. Roselina Salemi,  banfiana, Parma, Pratiche, 1982. G. Scaramuzza, Antonio Banfi. La ragione e l'estetico, Padova, Cleup, 1984 Luciano Eletti, Il problema della persona in Antonio Banfi, La Nuova Italia, Firenze, Centenario della nascita di Antonio Banfi, Reggio Emilia, Istituto Banfi, 1986. Livio Sichirollo, Attualità di Banfi, Urbino, QuattroVenti, 1986. Francesco Luciani, Incontro con Banfi, Cosenza, Presenze Editrice, Neri, Crisi e costruzione della storia. Sviluppi del pensiero di Antonio Banfi, Napoli, Bibliopolis, Papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Milano, Guerrini, 1990 Paolo Valore, Trascendentale e idea di ragione. Studi sulla fenomenologia banfiana, Firenze, La Nuova Italia, Scaramuzza, Crisi come rinnovamento. Scritti sull'estetica della scuola di Milano, Milano, Unicopli, Luciani, Polemiche della ragione. Gramsci, Banfi, Della Volpe, Cosenza, Arti Grafiche Barbieri, 2002. Giovambattista Trebisacce, Antonio Banfi e la pedagogia, Cosenza, Jonia editrice, Papi, Antonio Banfi e la pedagogia, Cosenza, Jonia editrice, Chiodo G. Scaramuzza (a cura), Ad Antonio Banfi cinquant'anni dopo, Milano, Unicopli, 2007. A. Vigorelli, La nostra inquetudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, B. Mondadori, Giovambattista Trebisacce, La pedagogia tra razionalismo critico e marxismo, Roma, Anicia, 2008. D. Assael, Alle origini della scuola di Milano. Martinetti, Barié, Banfi, Milano, Guerrini, Sacaramuzza, Estetica come filosofia della musica nella scuola di Milano, Milano, CUEM, Miele, Antonio Banfi Enzo Paci. Crisi, eros, prassi, Milano, Mimesis,. M. Gisondi, Una fede filosofica. Antonio Banfi negli anni della sua formazione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. A. Crisanti, Banfi a Milano. L'università, l'editoria, il partito, Milano, Unicopli,.  Maria Corti Antonia Pozzi Luciano Anceschi Rossana Rossanda Pietro Bucalossi Piero Martinetti Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio Banfi  Antonio Banfi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Banfi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Antonio Banfi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Antonio Banfi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Banfi. Antonio Banfi / Antonio Banfi (altra versione), su senato, Senato della Repubblica.  La morte a Milano del sen. Antonio Banfi articolo del quotidiano La Stampa, Archivio storico. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Marcello Gisondi, La formazione intellettuale e politica di Antonio Banfi. Tesi di dottorato discussa presso l’Università Federico II di Napoli (a.a. /) "Antonio Banfi a Milano", sito della mostra allestita dal 22 maggio al 13 giugno  presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano Filosofia Università  Università Filosofo del XX secoloStorici della filosofia italianiTraduttori italiani Vimercate MilanoAccademici italiani del XX secolo Direttori di periodici italianiPolitici italiani del XX secolo Professori dell'Università degli Studi di Milano Antifascisti italiani Senatori della I legislatura della Repubblica Italiana Senatori della II legislatura della Repubblica ItalianaStudenti dell'Università Humboldt di BerlinoTraduttori all'italianoTraduttori dal franceseTraduttori dal greco all'italianoTraduttori dall'inglese all'italianoTraduttori dal latinoTraduttori dal tedesco all'italiano. Antonio Banfi. Keywords. Eurialo e Niso; ovvero, la tradizione vichiana; banfi — spirito vitale — storiografia filosofica — istituto di storia della filosofia — ragione e conversazione — criticismo — conversazione con hegel — personalismo — l’interpersonale — sovranità — lo stato italiano — lo stoicismo romano — enea e marc’aurelio — acerrima indago — diritto criminale — kantismo —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Banfi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Baratono – stilistica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Baratono – especially his ‘stilistica italiana’ – if I were to offer an English stylistics I would not count as a philosopher – but that’s because ‘English’ is spoken by more than Englishmen, while Italian ain’t!” Grice: “Baratono thinks he is a sensist alla ‘Giovanni Locke,’ which he possibly is.” Grice: “In the typical Italian way, instead of focusing on the classics – Roman philosophy – he read sociology and psychology and came up, in a typically Italian way, with a ‘sintessi,’ ‘la psicologia del popolo’ alla Wundt.” Grice: “If Austin punned on sense and sensibility – Baratono takes ‘sensibilia’ VERY sensibly – as the basis for ‘aesthetics,’ seeing that ‘aesthetikos’ IS Ciceronian for ‘sensibile’.” – Grice: “Baratono is Griceian in his search for what he calls the ‘elementary’ – he applies ‘elementary’ to ‘fatto psichico’: judicativo e volitivo – both based on the ‘sensibile’ – or rather on probability and desirability – credibility and desirability --. His use of ‘sense’ does not quite fit the Oxonian ‘sense datum,’ since the will is involved in the sensibile – or, in his wording, it is the anima (or psyche) that searches for the corpus -- -- The compound is something like the hylemorphism – the form is sensible – and the volitive (prattica) and judicative (teoretica) components of the soul operate on this.” --  Fra i maggiori esponenti del Partito Socialista Italiano nel periodo fra le due guerre.  Vive sin dalla giovinezza a Genova, dove compie i suoi studi. Si laurea in filosofia. Insegna a Genova, Savona, Cagliari, Milano.  Baratono si iscrive al PSI subito dopo la fondazione e viene eletto consigliere comunale a Savona, aderendo all'ala intransigente in forte polemica con i riformisti. Entra nella Direzione nazionale del partito. Alcune battaglie politiche lo vedono emergere come figura di primo piano del socialismo italiano, come quella che Baratono porta avanti capeggiando la frazione comunista unitaria al Congresso di Livorno. L'accettazione con riserva dei 21 punti dell'Internazionale comunista di Mosca determina la clamorosa scissione e l'uscita dei comunisti dal Partito Socialista. Presenta al congresso la mozione massimalista. Diviene deputato. Confermato per la terza volta membro della Direzione socialista, mentre la maggioranza massimalista si orienta per la scissione dei riformisti, al Congresso di Roma sostiene fortemente l'unità, anche per il timore dell'affermarsi delle forze fasciste. Dopo il Congresso di Roma, aderisce al Partito Socialista Unitario e diviene un assiduo collaboratore di Critica Sociale. Collabora al “Quarto Stato”. Con il consolidamento del regime fascista, si dedica esclusivamente ai suoi studi filosofici.  Torna all'attività politica all'indomani della Liberazione, con collaborazioni sull'Avanti! riprendendo i suoi studi di critica marxista.  Note  «Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]». Lettera n. 108, Piero Martinetti a Adelchi Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti Lettere (1919-1942), Firenze,, Fonti Vittorio Mathieu, «BARATONO, Adelchi» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 5, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1963. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Adelchi Baratono Collabora a Wikiquote Citazionio su Adelchi Baratono Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adelchi Baratono  Adelchi Baratono, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Adelchi Baratono, su Liber Liber.  Opere di Adelchi Baratono, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Adelchi Baratono,.  Adelchi Baratono, su storia.camera, Camera dei deputati. Filosofi italiani del XX secoloPolitici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1875 1947Nati l'8 aprile 28 settembre Firenze Genova Politici del Partito Socialista ItalianoDeputati della XXVI legislatura del Regno d'ItaliaStudenti dell'Università degli Studi di GenovaProfessori dell'Università degli Studi di Genova Professori dell'Università degli Studi di CagliariProfessori dell'Università degli Studi di Milano. Critica dei valori ed estetica metafisica. Psicologia critica dei valori e metafisica estetica. Carissimo Groppali. Nella tua pubblicazione dal titolo Psicologia sociale e psic.collettira, trovo rammentato un mio articolo (comparso nel quarto fascicolo del l'Archivio di Psic.coll.).con queste parole citato; non posso fare comequel buon figliuolo di Renzo Tramaglino, che, a sentir dire che la sua Lucia era una bella baggiana, per amor dell'epiteto lasciava passare il sostantivo. Lasciami invece un po'brontolare contro la seconda parte del tuo giudizio. E, quantunque in fatto di scoperte scientifiche nessuno si possa dire assolutamente il primo scopritore, permettimi di dare al Sighele quelch' èdi Sighele, ea me quelchesembramio.  Per il nostro caso, la scoperta piùimportante, acuisono giunti questi autori, è la semplice constatazione del fatto, che gli atti estrin secanti la emozione d'un individuo riproducono in altri individui ana loghe emozioni ed atti volontari. Ebbene: prima e più completamente di quegli scienziati, Spencer e pervenuto alla medesima legge con la sua teorica della simpatia; e per di più aveva spiegato il fatto diquella suggestione con la ragione sociale, osservando che un atto emotivo non puo suscitare nei pre senti un sentimento corrispondente se non vi fosse stata l'esperienza propria o atavica che avesse associato quell'atto all'emozione reale unitamente sofferta; trovandone perciò la genesi nella convivenza sociale, per essere gl'individui associati sottoposti alle medesime cause di piacere e dolore. Adunque io nel mio studio potevo passarmi di citare altre teorie, oltre quella spenceriana, quando ridussi il fenomeno collettivo a fenomeno simpatetico. E fin qui non ho fatto, nè ho detto di fare, nessuna scoperta: ma soltanto ho applicato la legge spenceriana a un nuovo gruppo di fatti, da Ini non considerati specialmente. Ripeto: io non ho sostenuto come mia scoperta, ma ho soltanto accettato e meglio dimostrato, che il fatto psichico del delirio collettivo ha per sostrato il giuoco delle emozioni e rappresentazioni, cioè il fatto simpatetico. A questa domanda non puo rispondere nè Sighele, che non è mai entrato nel campo della psicologia generale, nè,c ome si sa, Spencer e gli associazionisti, che si contentavano di descrivere il fatto, riducendolo a uno schema associativo,ciòche,come spiegazione, ha ilvalore di una tautologia, senza svelarne il meccanismo, cioè il rapporto fra gli elementi; né I materialisti, che ne davano una ipotetica spiegazione anatomo-fisiologica, senza entrare nella pura psicologia. Dall'altraparte, rispondere a quelle domande significa trovarele ragioni ultime e più generali del fenomeno collettivo. Vale a dire, ridurlo completamente. Questo ho tentato io di fare; di qui comincia il mio studio genuino. Me ne sono vantato? ho soltanto asserito che tentavo di muovere un  Sighele intui, che i fatti caratteristici della emozione di una folla si possono ridurre a qualcosa di più generale, ov'entri quella facoltà dell'imitazione, quella suggestione, con le quali altri avevano spiegato il contagio morale; perciò egli, se mal non ricordo, senza nulla aggiungere di proprio, si rifere alle teorie di Bordère, Ebrard, Jolly,Tarde, Sergi, Espinas ecc. ecc. Ho dunque accettata una legge, o, meglio, ladescrizione di un fatto generale, che si potrebbe enunciare cosi. In due individui associate, A e B, la percezione degl’atti corrispondenti alle emozioni di alcuno destando in altri la rappresentazione di piaceri o dolori analoghi, suscita piaceri o dolori analoghi e gliatti corrispondenti. In questo enunciato c'è qualcosa di mio. Ma non mi curo di metterlo in luce. Piuttosto ti rivolgo la domanda: osservato il fatto, Spencer ne trova la ragione sociologica. Ma vi è qualcuno che ne trova la ragione *psicologica*? Come una rappresentazione emotiva può diventare un'emozione attuale, condizione e stimolo di atti volontari? Passo nel cammino della psicologia collettiva. Tu puoi scusarmene, perché conosci il tripudio di chi lavora per la scienza, che oggi è ancor l'unica nostra ricompensa. Adunque il rimanente studio, la risposta a quella domanda è mio. Mio nelle premesse, che si riferiscono al saggio, “I fatti psichiri elementary”, dove dimostro che la legge più generale della psiche è data dalla serie dei fatti emotivo -conoscitivo -volitivo, quando si consideri questa come l'espressione di un rapporto, per cui il primo termine rappresenta l'energia determinante degli altri. Mio nell'applicazione al fenomeno collettivo, dove le multiple rappresentazioni emotive devono agire sopra ognuno degli individui come altrettante emozioni reali attenuate, ma accumulate sulla prima; onde l'esaltazione propria della folla. Tutte queste tesi sono diverse da quelle sostenute e dall'intellettualismo e dal volontarismo. Epilogando: Sighele giunse a ridurre il fenomeno collettivo a un fatto generale enunciato come legge; e Spencer da la spiegazione sociologica di questo fatto. Ma, perchè vi fosse una spiegazione *psicologica*, bisogna aver trovato non solo l'associazione, ma anche il rapporto tra gli elementi associati; il quale rapporto di dipendenza, cioè di condizione e stimolo, dove, per ridurre completamente quel fenomeno, coincidere col rapporto o legge più generale della psiche. Questo ho cercato difare: e, poi che in modo particolare avevo stabilita la serie dei fatti psichici veramente elementari e il loro rapporto, cio è la legge psicologica generale, anche particolare, dove riuscire l'inferenza al fenomeno collettivo. Non posso, egregio e carissimo amico, riassumere in poche pagine quello che, a giudizio mio ed altrui è già troppo strettamente riassunto ne'miei saggi. A te, che liconosci, e che possiedi un forte ingegno intuitivo, basta questo richiamo; e spero che ti persuaderai, che Sighele restaugualmente uno de'nostri migliori scienziati, anche senza regalare a lui, che non ne ha bisegno, quelle due o tre pagine con le quali si termina il mio saggio. Spero ancora più fervidamente, che tu non mi dia del noioso e del l'immodesto per questa mia lettera, e che sempre mi creda il tuo. Adelchi. Nacque a Firenze dove il padre, Alessandro, originario di Ivrea, si era stabilito dopo il trasferimento della capitale del regno da Torino. La madre, Ermelinda Rossi, era fiorentina. La famiglia si fissa definitivamente a Genova, e compiuti gli studi classici, frequenta l'università, addottorandosi in lettere e in filosofia. Suo principale maestro fu Asturaro, del cui indirizzo sociologico B. risentì nei suoi primi lavori (Sociologia estetica, Civitanova Marche; Sul problema religioso,in Riv. ital. di sociol.), così come, successivamente, sube l'influsso di Morselli e delle sue lezioni di psichiatria. I suoi interessi psicologici sono documentati in questo periodo da numerose pubblicazioni (I fatti psichici elementari, Torino; Sulla classificazione dei fatti psichici, Bologna; Energia e psiche, in Riv. di filos. e scienze affini). Psicologia e sociologia venivano, poi, naturalmente a fondersi in una wundtiana psicologia dei popoli (Sulla psicologia dei popoli, Genova), permeata di una filosofia scientificamente concepita. Questo movimento culmina nei Fondamenti di psicologia sperimentale (Torino), che risentono ancora dell'influsso positivistico, nella ricerca di una filosofia scientifica, ma cominciano, al tempo stesso, a rivelare la sua originalità filosofica. Contemporaneamente coltivava il proprio gusto estetico frequentando i circoli letterari, le mostre di pittura, i caffè degli artisti. Pubblica un volumetto di versi (Sparvieri,Genova, con acqueforti di Edoardo De Albertis), che sarà seguito da altre poesie (Lettera - Notturno - Congedo), articoli letterari e frammentarie commedie, comparsi generalmente in Riviera ligure.  Questo duplice interesse, psicologico, ed estetico, accompagna il filosofo per tutta la vita, ma non senza trasformarsi radicalmente, dall'originario positivismo, in una personale forma di sensismo, dove tornavano a incontrarsi il significato etimologico e il significato moderno della parola "estetica". L’anno del congresso internazionale di filosofia di Bologna, a cui B. partecipa - egli, che l'anno prima aveva celebrato I funerali del positivismo italiano (in Lavoro nuovo), pubblica la Psicologia sintetica, in cui l'aspetto filosofico e quello scientifico-sperimentale della ricerca erano nettamente divisi, e la psicologia venne assegnata al secondo.  Conseguita la libera docenza, tenne corsi e conferenze all'università di Genova - oltre che all'università popolare - prendendo a interessarsi del problema pedagogico, strettamente congiunto con quello politico. Quattro Discorsi sull'educazione furono da lui riuniti in un volumetto, e alcuni anni dopo uscì la sua opera fondamentale in materia: Critica e pedagogia dei valori (Palermo).  Dalla politica si er sentito attratto. Le sue convinzioni etiche lo indussero a militare nelle file del socialismo; tuttavia, anche nell'attività politica, egli conserva quell'atteggiamento aristocratico e leggermente distaccato che lo caratterizzava sul piano culturale, ciò che tolse mordente alla sua azione. Per le elezioni amministrative, redasse in collaborazione con Gennari un ordine del giorno, votato poi all'unanimità dal Consiglio nazionale del partito, dove si dichiara che dei comuni ci si doveva impadronire per parálizzare tutti i poteri e tutti i congegni dello Stato borghese, allo scopo di accelerare la rivoluzione proletaria. Rispetto alla rivoluzione russa, si pronuncia contro l'accettazione senza riserve delle ventuno condizioni poste da Mosca per l'adesione alla Terza Internazionale, ma e messo in minoranza nella riunione della direzione. Cerca inoltre di evitare ogni scissione a sinistra, anche a costo dell'espulsione dei riformisti, che rappresentavano l'ala destra del partito: questo suo punto di vista, sostenuto prima e durante il congresso di Livorno, trova tuttavia la via sbarrata dal successo degl’unitari. Dalla sua dirittura morale e portato all'intransigenza. Antimassone, respinge l'anticlericalismo di maniera, auspicava la libertà dell'insegnamento. Turati ha a definirlo "il filosofo della direzione del partito". Eletto deputato nella legislatura, sedette al parlamento, ma l'avvento deli fascismo lo costrinse ad abbandonare l'attività politica (nella quale rientrano anche scritti come Le due facce del marxismo italiano, Milano e Fatica senza fatica, Torino).  Più fortunata divenne, a, questo punto, la carriera universitaria. Titolare a Cagliari, si occupa, tra l'altro, di Problemi universitari (Mediterranea) e vagheggia un progetto Per la riforma della facoltà filos. (Atti della Società ital. per il progresso delle scienze), che fu combattuto dal Gentile (Giorn. crit. d. filos. Ital.). Passa a Milano, sulla cattedra di P. Martinetti (che si era ritirato per non prestare giuramento) e torna all'amata Genova, stabilendosi sulla riviera di Sant'Ilario. Qui riceve volentieri i suoi studenti e colti visitatori, attratti da una fama, che, specialmente dopo la pubblicazione di Arte e poesia (Milano), si estese oltre la cerchia dei filosofi di professione. Riprese l'attività politica negli ultimi anni, soprattutto in forma di collaborazione a giornali e di rielaborazione di vecchi scritti di critica marxista. L'ultimo articolo, L'etica dell'economia marxista, uscì sull'Avanti! alla vigilia della morte. Al suo nome è intitolato l'istituto universitario di magistero di Genova.  La sua prima formulazione pienamente matura della filosofia può essere considerata il volume Il mondo sensibile, introduzione all'estetica (Messina), preparato da alcuni degli scritti raccolti in Filosofia in margine (Roma); in esso si vuol raggiungere la "prova esistenziale" della spiritualità del contenuto sensibile. Contro l'impostazione gnoseologica che soggettivizza il mondo, propugna un'impostazione estetica che vede nel mondo sensibile, preso per se stesso, "la forma dell'esistenza". Tale dottrina fu chiamata "occasionalismo sensista", in una comunicazione alla sezione piemontese dell'Istituto di studi filosofici  (Per un occasionalismo sensista, in Concetto e programma della filosofia d'oggi, Milano). La denominazione esprime l'intento di "riflettere sulla pura forma invece di prenderla quale rappresentazione di altro (soggetto od oggetto) posto come un contenuto irreducibile a quella forma. L'esperienza estetica ci mostra che un'ide a pura esiste come forma pura, sensibilmente, e che questa forma sensibile vale per sé, in un rapporto formalmente sentito con certezza, che diciamo verità. Ciò costituisce un valore sensibile direttamente, diverso sia dal valore del sensibile (che rappresenta il valore specificamente teoretico) sia dal valore del sentimento (che rappresenta il valore pratico). L'esserci sensibile interessa il pensatore o l'uomo pratico solo come ostacolo da superare, ma riempe di meraviglia chi guarda il mondo con gli occhi spalancati sol per la gioia di vedere, e così ne può apprezzare la bellezza. Queste idee sono esposte in Arte e poesia,e messe alla prova non solo a contatto con estetiche come quelle di Burke e di Focillon, a cui iscrisse introduzioni (Milano), ma con la stessa opera poetica, per es. di un Verlaine, di cui ripubblica in Italia una raccolta di Poesie, conintroduzione (Milano). Arte e poesia si conclude con una "apologia della forma", la quale sembra a torto imprigionare lo spirito e limitare il valore solo perché, in realtà, lo determina e lo realizza. Rovesciando l'istanza idealistica, secondo cui il valore sta in un'unità spirituale che si riduce a un'esigenza puro-pratica, a una rappresentazione di ciò che non è, dichiara che l'anima cerca il corpo, non viceversa, che lo spirito cerca la forma, la filosofia la poesia. Sicché il valore non appare più la premessa indimostrabile di ogni esistenza, ma il risultato intuitivo della stessa forma sensibile.   Bibl.: F. Della Corte, A. B., in Genova, Sul B. Ipolitico: F. Meda. Il Partito Socialista Italiano dalla Prima alla Terza Internazionale, Milano, I deputati al Parlamento per la legislatura, Milano, M. Carrea, Per una filosofia del socialismo, in Osservatorio, Genova, Nenni, Storia di quattro anni, Roma, Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Firenze, Turati-A. Kuliscioff, Carteggio. Dopoguerra e fascismo, a cura di A. Schiavi, Torino, vedi Indice. Inoltre per alcuni scritti del B., in Critica Sociale, degli anni 1923-24, vedi Critica Sociale, a cura di M. Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, III, Milano, Indici, a cura di M. T. Lanza. Sul B. filosofo, oltre l'esposizione del proprio pensiero fatta da lui stesso in Il mio paradosso, in Filosofi ital. contemporanei, Como, Milano, cfr. U. Spirito, L'idealismo ital. e i suoi critici, Firenze, Volpe, Crisi dell'estetica romantica, Messina, Sciacca, Il secolo XX, Milano, Faggin, Il formalismo sensista di A. B.,in Riv. crit. di storia d. filos.,  Assunto, B. e l'estetica moderna, in L'Italia che scrive, Bertin, L'estetica di B.,in Studi filosofici, Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, Talenti, A. B., Torino  (con bibl.). Adelchi Baratono. Keywords: stilistica, breviario di stilistica italiana, fatto psichico elementare, i fatti psichici eleentare, psicologia filosofica, illuminismo, implicatura luminaria, implicatura escataologica, politica ed etica, la filosofia al margine: gentile, croce, natura umana, esperienza, il mondo sensibile, estetica, il bello, il sublime, criticismo, assiologia, hume a Cremona e torino, spirito, animo, forma logica, l’eneide, riviera ligure, “Rivera Ligure”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baratono” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barba – filosofia italiana – Luigi Speranza (Gallipoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Barba, but then I like Gallipoli – and he was born and died there, at Villa Barba. His main interest was Roman philosophy, which he studied at Naples! – The Roman occupation in Southern Italy brought ‘a breath of fresh air,’ as Barba has it, to the old “Grecia Magna” tradition --.” Grice: “Barba is very clear: ‘Epigrafia filosofica latina,’ o ‘epigrafia filosofica romana’ surely ain’t Grecian!” --  Figlio di Ernesto, conduce gli studi a Gallipoli, per poi trasferirsi a Napoli presso il zio, Tommaso Barba. Tommaso Barba e presidente della Gran Corte. Studia grammatica e materie letterarie nella scuola di Puoti. Si laurea in Filosofia. Studiare nel R. Collegio Cerusico e divenne professore di anatomia umana comparata. Insegna scienze e lettere al ginnasio di Gallipoli e fu sovrintendente scolastico ed Assessore delegato alla Pubblica Istruzione.  Fu arrestato ed esiliato a causa delle resistenze al governo. I membri dell'Associazione Democratica posero una scritta: "Nato dal popolo, Per il popolo si adoperò". A lui fu intitolato il Museo civico di Gallipoli.  Note  AnxaEmanuele Barba, su anxa. 21 aprile  13 ottobre ).  Scheda sul sito del Museo Emanuele Barba. Filosofi. Emanuele Barba. Keywords. epigrafia latina, iscrizione latina, iscrizione greco-romana, la iscrizione di Platone sulla porta dell’academia, ageometretos medeis eisito, Delville pittore belga (Libert), a Italia crea ‘L’ecole de Platon,’ per la Sorbonna.  I vasi di Barba – gemelli, fratelli siamesi, ecc. Monete romana, Gallipoli, colonia romana, ‘Proverbi e motti del popolo gallipolino” – poesie di Barba sulla morte del re d’Italia, risorgimento – esilato, carcere – la filosofia di Barba, barba filosofo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barba” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barbaro – il Daniele – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “This can be confusing to Oxonians, althou we are familiar with the Hanover dynasty! Daniele Barbaro, a faitehful nephew, commented on his uncle’s, Ermolao Barbaro’s, ‘translation’ of Aristotle’s rhetoric – I shouldn’t even be saying this since it’s implicated in the title where Ermolao features as ‘interprete,’ and the ‘commentarium’ is due to Daniele.” Grice: “On top, Daniele wrote about ‘eloquenza,’ but his comments on his uncle’s vulgarization into latin of Aristotle’s vulgar-greek (koine) rhetorica – is perhaps more Griceian – since there is little conversational about Daniele Barbaro’s ‘eloquenza,’ while the rhetoric (or ‘rettorica,’ as he prefers) is ALL about ‘dialettica’ and dialogue!” --  Daniele Barbaro patriarca della Chiesa cattolica Portret van Daniele Barbaro Rijksmuseum SK-A-4011.jpeg Ritratto di Daniele Barbaro, attorno al 1561-1565, opera di Paolo Veronese, presso il Rijksmuseum di Amsterdam Template-Patriarch (Latin Rite) Interwoven with gold.svg   Incarichi ricopertiPatriarca di Aquileia. Nato 8 a Venezia Nominato patriarca 17 dicembre 1550 da papa Giulio III Deceduto13 aprile 1570 (56 anni) a Venezia. Ritratto da Paolo Veronese, 1562-1570 (Firenze, Palazzo Pitti)  Villa Barbaro a Maser  Pratica della perspettiva, 1569 È noto soprattutto come traduttore e commentatore del trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione e per il trattato La pratica della perspettiva.  Importanti furono i suoi studi sulla prospettiva e sulle applicazioni della camera oscura, dove utilizzò un diaframma per migliorare la resa dell'immagine. Uomo colto e di ampi interessi, fu amico di Andrea Palladio, Torquato Tasso e Pietro Bembo. Commissionò a Palladio Villa Barbaro a Maser e a Paolo Veronese numerose opere, tra cui due suoi ritratti.   Daniele Matteo Alvise Barbaro o Barbarus fu figlio di Francesco di Daniele Barbaro ed Elena Pisani, figlia del banchiere Alvise Pisani e Cecilia Giustinian. Suo fratello minore fu l'ambasciatore Marcantonio Barbaro. Barbaro studiò filosofia, matematica e ottica all'Padova.  Fu ambasciatore della Serenissima presso la corte di Edoardo VI a Londra, dall'agosto 1549 al febbraio 1551, e come rappresentante di Venezia al Concilio di Trento.  Nipote del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, fu suo coauditore nella sede patriarcale di Aquileia. Venne promosso in concistoro a patriarca "eletto" di Aquileia (coadiutore), con diritto di futura successione, ma non assunse mai la guida del patriarcato perché morì prima dello zio. All'epoca tale carica era quasi una questione di famiglia per i Barbaro, infatti furono patriarchi di Aquileia ben 4 Barbaro. Ermolao Barbaro il Giovane, patriarca di Aquileia dal 1491 al 1493, Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, Francesco Barbaro, patriarca di Aquileia dal 1593 al 1616, Ermolao II Barbaro († 1622), patriarca di Aquileia dal 1616. Fu forse nominato cardinale in pectore da papa Pio IV nel concistoro del 26 febbraio 1561 e mai pubblicato.  Solo i Grimani, con cui erano imparentati, occuparono più volte il patriarcato (ben sei).  Partecipò a varie sedute del Concilio di Trento a partire dal 14 gennaio 1562 fino alla sua chiusura. Atre opere: commentarii di Aristotele Retorica del suo pro-zio Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Compendium scientiae naturalis di Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Commento sull’archittetura d Vitruvio, pubblicato col titolo “Dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio” (Venezia). Di essa pubblica anche una versione in latino intitolata M. Vitruvii de architectura, (Venezia). Le illustrazioni sono realizzate da Palladio --; un trattato sulla geometria, prospettiva e scienza della pittura, La pratica della perspettiva (Venezia); un trattato sulla costruzione delle meridiani, “De Horologiis describendis libellus” (Venice, Biblioteca Marciana, Cod. Lat. VIII, 42). Più tardi si scopre che il testo del Barbaro affronta la tecnica di strumenti come l'astrolabio, il planisfero, il bacolo, il triquetrum, e olometro di Abel Foullon. Cronache, probabilmente riprese da Giovanni Bembo nella Cronaca Bemba. Aurea in quinquaginta Davidicos Psalmos doctorum graecorum catena interpretante Daniele Barbaro electo patriarcha Aquileiensi, Venetiis, apud Georgium de Caballis.  Note  La pratica della perspettiva, 1569, consultabile online (testo italiano + tavole originali)  Giuseppe Trebbi, Barbaro Daniele, in Nuovo Liruti: dizionario biografico dei friulani. 2: l'età veneta. A-C, Forum editrice universitaria, Udine 2009374  Eubel, Hierarchia Catholica Medii et Recentoris Aevi, III39, che cita gli Acta camerarii 9, f. 37 e gli Acta vicecancellarii 8, f 7  Louis Cellauro, Daniele Barbaro and Vitruvius: the architectural theory of a Renaissance humanist and patron, Papers of the British School at Rome, 72 (2004),  293–329 Pio Paschini, Daniele Barbaro letterato e prelato veneziano del Cinquecento, Rivista di storia della chiesa in Italia, Władysław Tatarkiewicz, History of Aesthetics,  III: Modern Aesthetics, edited by D. Petsch, translated from the Polish by Chester A. Kisiel and John F. Besemeres, The Hague, Mouton, 1974. Daniele Barbaro, Pratica della perspettiva, In Venetia, appresso Camillo, & Rutilio Borgominieri fratelli, al Segno di S. Giorgio, Robert Devreesse, La chaine sur les psaumes de Daniele Barbaro, in Revue Biblique,  Giovanni Mercati, Il Niceforo della Catena di Daniele Barbaro e il suo commento del Salterio, in Biblica,  Storia della fotografia Villa Barbaro. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Vacca, Daniele Barbaro, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Daniele Barbaro, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Giuseppe Alberigo, Daniele Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Daniele Barbaro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Daniele Barbaro,. David M. Cheney, Daniele Barbaro, in Catholic Hierarchy.  Daniele Barbaro, su museogalileoMuseo Galileo, Firenze. 21 ottobre. Daniele Barbaro (15141570), su mathematica.snsEdizione Nazionale Mathematica Italiana, Pisa, Centro di Ricerca Matematica Ennio De Giorgi. 21 ottobre.Salvador Miranda, Barbaro, Daniele Matteo Alvise, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. PredecessorePatriarca di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Giovanni Grimani17 dicembre 155013 aprile Aloisio Giustiniani Umanisti italiani Nati Venezia VeneziaBarbaroPatriarchi di AquileiaAmbasciatori italiani. DELLA ELOQUENTIA, DIALOGO. INTERLOCVTORI:  L'ARTE, LA NATVRA, ET L'ANIMA. R. IO VORREI VOLENTIERI Natura, che noi disputassimo insieme, se però l'ufficio del disputare alla tua conditio nesi conuenisse. NAT. Il disputare é cosa da te ò arte, figliuola mia. Ma se à me stesse l'ammaestrarti, di presente direi, che tra il tuo intendimento, o il mio, alcuna differenza non fusse, da che dentro ti venija se il contender meco. AR. Al almeno desidero tale occasione. NAT. Vano, o dannoso desiderio é il tuo, si perche io non sono mai ociosa, come perche tu sempre dei non mes no abbracciare il bene che cercare la verità delle cose. AR. Niena te più migioua, che il bene, ne che il vero più mi diletta. NA. In questo almeno tu m’assomigli, che ouunque sia, ch'io mi ritrdovi, il vero sono, o il bene di ciascuna cosa. AR. si,  ma tu alla cieca ne vai, e io di tanto amo ogn'uno, che con deliberato consiglio, o anati veduto fine faccio, lo difar bene. NAT. Emmipur manifesto che la tua grandezza è di nascondere te stessa quantopuoi, o di accoltarti à me. AR. Questo é, maciò aviene, perche tu prima di me al mondo venisti, o gli huomini a’ tuoi piaceri adulasti, innanzi ch'io ci nascessi; o questa mia imitatione non ti accresce dignitade alcuna. Percioche, nella formica vile animaluzzo e più degna, nell’huomo meno onorato, ancor che questo quella imitando, l'estate per lo verno ſiproueda. La mia industria, o natura, fa maggiore il tuo povero patrimonio. NAT. Che accrecimento farebbe ella, se io non ti lasciassi che accres cere? Tupure, se uuoi, ben sai, che ogni opera presuppone il soggetto, senza il quale nulla si può fare. Que so da me, non da te procede. Oltra che appresso giusto giudice il secondo. A secondo luogo, non che il primo, ti faria denegato. AR. Giusto à tua scelta intendi colui, che te à me anteponga; ma nonſai che per la età molto ti concedo. NAT. E'mipiace di ragionare an poco tea cosopra questa materia, poi che tant'oltra procedutaſei, che di te con buona equità midolga. Dicoti adunque, che in ordine di onoranza ne prima ſei, né ſeconda. Ar. Chi adunque à noi ſopraſta? NAT. Chi ne fece ambedue é il primo senza mezo dalui nace qui. Tu doppo me sei. NAT. Adunque mentono coloro che affer mano, te effer madre uniuersale, poi chetu ſteſſa non nieghi eſſere d'altruifattura? NAT. Ad un modo io ſono madre,ad un'altro figlia. A R. Adunque di te coſa picprestante ſi truoua? NAT. Chi ne dubita? Ma io per eſſere å gliumaniſentimenti vicina, tutta fiata ſon preferita. AR. Hai tu conoſcimento di fine alcuno? NAT. Certo no; ma nel gouerno del tutto io ſon drizzata, e quafi addeſtrata dalpadre mio. AR. In che dunque é ripoſta queſta tud gloria? NAT. Tanto potente, ſaggio, w buono é il mio fattore, che la ſua gloria in me mirabilmente ſoprabonda. AR. Sommi più voltemarauigliata di coteſta tua occulta uirtù, dalla quale tu ſei cosi gentilmente guidata.jpelefiate mi è uenuto in animo di cre dere che ella forſe habbia potere di trar mead imitarti diforza; ergo però diſcorrendo,etpiù dentro penetrando, bo giudicato eſſere gran famiglianza tra quelprincipio, che ti muoue, &me, ondeper la ſea creta uirtu,non tua,io mi muouo ad operar come tu fai. Ma poi mi pare,che,ſe il diſcorrere l'ordinare,e il ridurre àfine le coſeantiue dute, è ufficio mio,io ſia inanzi di teſtata nel Cielo appreſſo il padre tuo, che egli habbia l'opera mia uſata in generarti ò produrti NAT. In altra guiſa io faccio le coſe mie tule tue, di quella del fattor noſtro, chenehafatte, & create.Però guardati dinon giudi care troppo animoſamente le coſe, figurando le inuiſibili, & occulte per le uiſibilio manifeſte. Ma perchecosi agramente mi condane ni? ſe in qualunque modo tu uuoi per le coſe già dette chiamar mi, ò madre, è figlia, o ſorella, ó amica ſeisforzatadi nominarmi? no mi tutti di congiuntione, amicitia, oſtrettezza. Egli non ſi uuol có. si correre a furia. AR. Non ti adirare ó Natura, che io non ho contra te mal uolere, né il finemio é ſtato cattiuo, anzi per lo tuo ef faltamento ho uoluto raffrenare la mia credenza, che era di ſapere con qual calamita io tirata fußi ad operare come tu fai,e mi uenu to ben fatto per lo ragionamento, che éftato fra noi, perche hauen do noi do noi ritrouata l'origine del noſtro naſcimento, ſiamoſicuré della no ftra nobiltà, come quella checon la eternità ſipareggi,o dal primo fattore d'ogni coſa proceda. Ma ben mi duole, & per queſto ti ho chiamata,cheà molte ſciagure ſia la grandezza mia ſottopoſta.Et quanto maggiore è lo stato mio, tanto àpiù pericoli mi ueggio eſſer ſoggetta. NAT. Quai ſciagure, oquai pericoliſono queſti? AR. Saper dei Natura, madre mia, che in tutte le parti delmondo mi truouo hauer molti miniſtri,de quali neſono alcuni,chemifanno una gran uergogna, a oltre à ciò miſono di danno infinito, o per lor cagione io ne ſento male. Perche non indrizzando me al debito fine, anzifieramente in abuſo ponendomi, come buona, utile, oono reuole cheio ſono,rea,dannofa, & uituperabilemifanno. Ondegli huomini per mezo mio ingannati da loro, certi de' loro danni, main certi di chi la colpaſiſia, s'accendono d'ira contra dime, à guiſa di co loro,che le ſpade,o non glihomicidi punir uoleſſero. NAT. Tu non ſei ſola nelmale di si fattioltraggi, tutto'l dime ne uengono afe ſai. Percioche producendo io ogni coſaà beneficio della vita di chi ci naſce, moltiſciagurati epieni dimal talento, maleufando l'arti ficio loro,empiono iltutto diconfuſione, auelenando, uccidendo,in, gannando, eoffendendoſenza riguardo alcuno; e chi ode o xede taliſceleraggini, maledice ogni mia fattura. AR. Duraper certo ėlaforte noſtra,però che il uolgo cieco, &ignorante non ſa,chereo non è quello, che in bene uſar ſipuote.Maper uer direzio poco mi marauiglio, ſe il ueleno auelena,ò il ferrouccide, ma ben grandeam miratione miporge,quädo il cibo, di cuiſiuiue,cosi ſpeſſo in cattiuo umore ſi conuerte,che alla morte conduce. Et ciò dico à fine,chetu Sappia quantoiogiuſtamente mi dolga,che lapiù pretiofa parte,che tupergratia del tuo fattoreall'huomo cõcedi conla quale egli poſ fan debbia altrui eſſere d'infinito giouamento, cosi ad offeſa Sia, ex à danno preparata, che niente più. NAT. Chié quelmaluagio Oingrato,che tal coſa ardiſca di fare? AR. L'Anima, o la più diuina parte di lei. NAT. Perseguitiamola dunque, o facciamo la citare dinanzi al tribunal diuino, Voglio, che ella dica la cauſa ſua. AR. Ma prima uoglio,che infingendo noi con eſſo lei,tanto la prendiamo che ella dica à noi ogni ſuaeſcufatione. NAT. Né la giuſtitia del Giudice, né la uerità del fatto, nela tua dignità ricerca tale inganno,eſſendo quello ſincerißimo,la coſa uerißima, otu quel la,che del medeſimo errorej, del quale ſei per riprender lei, puoi eſ A 2 Ser accufatd. A R. Ben di..Ma io altrimenti non ſonouſata difure. Ma eccoti queſta ingrata,che di molte parti, et eccellenti doni da noi dotata d'alcuna gratia,che futta le habbiamo,non ſi ricorda,contre mecon me fteſa,o contra te per li beni, che dato le hai, altiera ſi lieua. Aſcoltiamola alquanto. ANIMA. Iddio vi ſalui ſorelle amantißime, delle qualiund mi rende atta l'altra mi fa gagliarda als l'operare. AR. Et te ancora ſecondo il tuo buon uolere, ma dins ne, che usi tu cercando? AN. Te ſopra tutte le coſe. AR. In parte difficile ti ſei riuolta, perciò che biſogna, che tu oſſeruicon di ligenzatutte le operationi, a modi di coteſta noſtra commune amis ca. A N. Hoio ad impiegare tanta fatica, innanzich'io t'imprens da? AR. Et poſponere a queſta ogni altra cura,ben che dolcißima cura ti fia, per la ſperanza dello acquiſto, che ne farai. Ma che parte di me conoſcer deſideri? AN. Indifferentemente,ſe poßibil fuſſe, tutte le uorrei, tutte le abbraccerei tutte le poſſederei. Ma ora grado mifia tant'oltre procedere, ch'ioſappia altrui paleſare i cons cetti miei. AR. Più chiaramente midi quel che uuoi,perche in molte maniere giouar ti poſſo d'intorno à cosi fatto dimoſtramento di penſieri. Vuoi tu ſapere conqual nodo di ragione ſi ſtringa ung parola con l'altra quale ſia la concordanza de' numeridelle per fone, ode' uocaboli delle coſe, et con quai regole dirittamente fifcri Me? AN. Queſta parte io la preſuppongo. AR. Forſe tu uai cer cando d'intendere con quale unione una coſa con l'altra conuengd, per poter'à tua uoglia diſcorrere,argomentare,o foſtenere le cons teſe  AN. Né ciò intendo per ora, ma di più diletteuol parte ho curd. AR. Tu uuoi tutta fiata porgere diletto col parlar ſoauiſ fimamente,à guiſa di delicata uiuanda acconciandoi numeri,il ſuono, per l'armonia delle uoci eſprimenti coſe piaceuoli, & grate à i fenfi umani? A R. 10 uorrei più adentro penetrare, né tanto effer folles cita di piacere alle orecchie,quanto di giouare all'animo, operò dimmiſe hai più parti, quaſi figliuole,cui ſi conuenga la cura del ras gionare. AR. Honne, o hauer ne poſſo ancora molte altre, che nonſono in luce; ma tra le altre una ue n'ba, che non è leggitima; un'altra la quale bēche leggitima ſid, pure e di tāto riſpetto, che rare Holte ſilaſcia al mondo compiutamente uedere. La prima in tanto da me é hauuta per buona, in quanto ella inſegna di conoſcere gli ingan ni del parlare, e à fuggire i ciurmatori. Laſeconda e da me coſto dita, &guardatamolto, percheio temo, che gli huomini di malaf fare non la ſuijno. Et eſſendo ella di bellezza,o di forma ſopra ogni altra eccellente gran pericolo miſoprafta Jlquale tolga lddio, ma doue non paſſa la maluagità umana: doue non penetra l'audacia? ego di queſto, poco fa, la Natura, a io ci doleuumo, et penſauamo,che tu fußi quella tu, che d'ogni male Q uergogna noſtra fußi l'apporta trice. A N. Perunared eu perfida, che ſi truoua, non crediate di gratia, che oggi di tutte ſieno tali,perche da me ui prometto,che als tro che onore non hauerete, AR. Bene, o cosine cape nell’anis mo. Che uuoi tu adunque da me ſapere?  AN. 10 cerco molto, Ò Arte, à modo mio di posſedere coteſta tua cosi bella, o riguardata figliuola,à benefitio deipopoli, o delle genti, o à gloria tua, di me,dicui altro cibo più ſoaue non truouo. AR. Prega tu prima la Natura, che à te conceda corpo ben diſpoſto, oformato, aſpetto graue, o gentile, uoce chiara, á eſpedita fianco,modo, o mouimen ti conformialla virtù, che deſideri". Appreſſo poi à me prometterai congiuramento di non ufare già mai la figliuola mia,uezzofa, inſos lente, « che tanto uagaſia delle bellezze ſue, che per farſi uaghegs giare in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni propoſito ſenza riſpetto alcuno compariſca. Et con luſinghe eadulatione dal ben fare le genti, o i popoli aſcoltanti rimuoua. AN. Se ottimo uolere, fe oneſtédimanda ritruoua luogo appreſſo di te, o Natura, con ogni af fetto ti priego, chetu mi dia quello chel'arte mi perſuade, che ti dis mandi, corpo gratiofo,formato,odotato di quelle parti, che conue nientiſono alualore della figliuola fua. Etſe bene in alcun tempo io non ti poteßi di tanto donorimeritare,pure non ceſſerò di eſſertiſem pre obligatißima. NAT. Siati la gratia, che dimandi, conceſſa. A N. Io tigiuro ó Arte,perquella diuinità, che ſi truoua maggiore, di accoſtumare la tua figliuola à giouare ouà ben far’altrui, né per modo alcuno permettere, che ella ſeguagli apperiti diſordinati, ma circoſpetta ſempre, oſempre riguardeuole compariſca. AR. CO si habbi la chiarezza del ſangue, la libertà, eccellenza della pas tria, ibeni da gli huomini defiderati, come ciò facendo,alcolmo della gloria à pochi conceſſa,peruenirai. NA. Felice patria,che di tale, e tant'huomoſaràfornita. Maqual patria le dareſti tu,ó Ar te? AR. A'mia uogliale darei quella,in cui le leggi poteſſero piit, che gli huomini, doue la maggior parte alla commune utilità s'ina drizzaſſe; antica,nobile,illuſtre,e di quelgouerno, nel quale il bes ne di tutti glialtri gouerniſiconteneffe, qualeforſe non più che unds'e  s'è ritrouata,oſi ritruoua al mondo, oforſe tu, o Natura,conſentia ſti di prepararle il più ſicuro & comodo luogo, oil piie forte fito, cheueder ſi poſſa,nonmeno al mare che alla terra uicino,cui di gra tiaſpeciale ancora il Cielo concede priuilegio di eſſer nimica d'ogni tumulto, o ſeditione,parca,pia,oreligioſa, con inſtitutiottimi temperata: NA. Troppo di cuore commendi, o lodi queſta tua Città, eforſe à ciò fare queſto t’induce,che tu in eſſa puoi il tuo ud lore, o la tuaforza chiaramente dimoſtrare. Ma tu, ó Anima, già ricca di tanti doni, chefatti t'habbiamo, che dici? A N. Le gratie non ſonopari al uolere,io attendo quello, che attender dei, &sò lo ſtudio,che tu ſei ſolita di porre nelle coſe tue;mi& rendo certa, che tuſai ancora, che ritrouando io unatemperatißima compleßione di corpo,à quella dò la umanaperfettione, o come quella temperanza cade, cosiſopra di eſſa declina ilmio ualore. Làondeſono alcune co ſe, allequali io non degno la uita concedere. Ad altre ueramente dos no la uita,ma le operationi di quella cosi ſono occulte, che in forſe fi ftà di credere ſe in eſſe la uita ſi truoui. Altre uita,ſenſo, omouis mento da me hanno comealcune intelligēze, et amore, coſa nobile et ueramente diuina. NAT. Queſtomipare,checosi ſia map ure als cuna fiata io ueggo, che le anime uan ſeguitando le compleßioni de' corpi. Onde poiſono alcuni ſdegnoſi, alcuni manſueti, altriuanno dietro alle apparenze, altrialle fauole più che alla uerità fi danno, emolti in ogni pruoua, ſoda ex inquiſita ragione uan ricercando. A N. Et queſto èquello da me tantodeſiderato dono, che e di ſapes re in tal guiſaſpiegare i concetti miei,ch'io ſatisfaccia à tanta diuer. ſità di nature, o d'ingegni. NAT. Quando tu ſarai giunta à quel paßo,chetu ſappia per mezo dell'arte cosi ben gouernarti con ogni maniera di perſone, dotte,roze,ciuili, barbare, umane, e inumane, allora potrai à tua uoglia mitigar’anco gli adirati, fpingere i pigri, raffrenare i feroci, ingagliardire i deboli; et di uno in altro cótrario à uiua forza ogni anima tramutare. A N. Coteſta é und magica eccellentiſsima. Ma tu Arte,cui è dato di ritrouare alcune uie ragio neuoli di peruenire alla cognitione di coſe non conoſciute, incomincia da quelle che facili, en eſpedite ad inuiarmi al deſiderato fine riputes rai. Ar. Cosi uoglio, o à te farò capo, ó Natura, dinuouo addis mandandoti,di che beni uuoi tu adornare queſta noſtra nouella ſpoſa? NAT. Hollo già detto, a più aperto ti diſtinguo,dar le uoglio, ol tre al corpo ben formato unauoce grata, chiara, eguale, che ogniſuonoageuclmente ſi pieghi, e che ſe ſteſſa inſino all'eſtremo ſoſtenti. AR. Et io le dimoſtreró parole atte ad eſprimere leggia dramente ogni concetto,pure,ampie, illuftri, eleganti ſeuere,giocona de, accoſtumate,ſemplici,uere, tarde, ueloci, ofinalmente tali, che abbracceranno la uera idea di me in queſtoeſſercitio. Et di più io l'inſegnerò di collocarle si fattamente inſieme, che diletteranno ſema pre, o non falliranno già mai; or iu Anima farai ociofa? AN. Hauendo io per gratia di te Natura le coſe conuenienti, oper tud corteſia ò Arte le parole conformi, farò si, che niuno in mepotrà de fiderare ne penſamento neſtudio alcuno. NAT. 10 a' ſenſi tuoiſot toporrò tutte le coſe, dalle quaifacilmēte ti uerrà fatto di prendere argomento di ragionare. Tu fin tanto non mancherai di diligenza. AR. Paterno, oſaggio ricordo. Però che con la diligenza ogni giorno teſteſſa auanzerai, ella ti farà poßibile ogni impoßibilità,ela la é la perfettione, lalode di tutte le opere de mortalijà cui cons giunte ſono tutte queſte coſe, cura, induftria, penſamento, fatica,eſſer citio, imitatione de migliori, «il tempo padre d'ogni coſa. Credi adunque à me quelloche la lunga eſperienza mi haidimoſtrato, cioé, che niente giouano imieiprecetti,niente le regole, niente gli ammae ſtramenti,ſenza la diligenza,con la quale oltre alla inuentione, all'ordine delle coſe,otterrai di accommodar la uoce alle parole, eſpri mendo le umili con baſſo, o rimeſſo ſuono, le pure coniſchiettezza, le afpre con durezza,abbaſſando, & inalzando queſto beato inſtrué mento à que' tuoni, che ſaranno conuenienti. An. Coteſte fono leggi da eſſere oſſeruate allora che io ſarò col corpo congiunta. Pers cheben ſai chenė lingua, nė uoce habbiamo, nė però egliſi uuoldire cosi ad ogn'uno,in che maniera tra noi fauelliamo. NAT. 10 ſo be ne, chegli huomini andrannofauo leggiando di noi, come altre fiate hanno detto chele cannucce parlarono, ilche é maggior miracolo, che ſe gli Indiani uccelli eſprimono le uoci umane. A R. Se già col mio aiuto uolarono gli huomini, molte coſe inſenſate hebbero mo uimento, che marauiglia potranno oggi maiprendere del parlar nos ſtro? AN. Che debbo dir’io? partita ora dalluogo,oue il parlaa re é uiſibile, l'intendimento ſenza fauella ſi ſcuopre, muoueſi ſenza luogo,e s'impara ſenza discorso. AR. Coteſti miracoli, che tu ci narri,ſono ſegno, che tu non habbia biſogno dell'opera noſtra. AN. Tu di vero, ſeio nella mia primiera ſimplicità mi rimaneßi. Ma diſcendendo dalpuro o purgato eſſere, o venendo quaſi ad un'aria infettata e corrotta,molto mi ſento dal mio primo ſtato ria moſſa. NAT. Peggio ti auerrà meſcolandoti con la masſa matea riile del corpo. A N. Ad ogni modo mi biſogna ſtar ſottopoſta. AR. Non uſciamo di ſtrada,macome buoni mercatanti accontiamo inſieme. Haßi dunquefin'ora promeſſa di uoce eſpedita, di copia di parole, di modo conueniente di accomodar la uoce alle parole;oraci reſta di affettare le parole alle coſe. Cheditu Natura? NAT. Die co, ch'egli è più che neceſſario queſto affettamento,ſenzail quale le parole ſarebbon uane et ſenza frutto, però accreſcendo le doti, che io intendo dare à coſtei, promettole di dimoſtrarle nelle coſe mie us na certa uerità, alla quale accoſtandoſi, potrà ſeco tirare ogniforte di gente, o di tale ueritàſenza dubbioti affermo eſſerne ogn'uno capace. A'R. Già tre corde di queſto liuto ſono accordate, uoci, parole, a coſe. Reſta, che nelle coſeſi ueda una certa conuenienza con eſſo teco,ò Anima, e con le parti tue; che ne riſulti la perfetta e compiutafoauità della deſiderata armonia. Però aiutamia ritros uare le tue più ſecrete parti, epiù occulte uirtù, acciò cheſi ſappia qual parte di te, con quai coſe, « con che parole, et con che attione ſi debba muovere. A n. Piacemi queſta diſpoſitione mirabilmene te ofappi,che auenga;ch'io nonſia ſtata col corpo già mai, nientes dimeno come nouella ſpoſa nella caſa del padre molte coſe hoſapute, che mi aueranno quando ciſarò legata. A R. Ora incomincia à dir mene alcune. AN. Hogià inteſo,che quando io ſarò con eſſo il cor po, molte mie forze emoltemie uirtù ſi ſcoprirāno,le qualiora non ſi conoſcono. Et prima ne gli occhi io ſarò il uedere, nell'orecchie l’u dire, nel palato il guſto, per ogni luogo oparti del corpo faró ſentimento, nel cuore principio diuita,di ſenſo,etdi mouimento.Ben che ad altra intentione altri riguardando,la origine di tai coſe ad al tre parti aſſegnerano. In un luogo ſarò fantaſia,in altro memoriain altro ingegno,et per tutto ſarò anima.Et ſe il corpo fuſſe di tal tem pra, chegli fuſſe diffoſto à riceuere ogni mis uirtù, farei nelle orecs chie la uiſte, o ne gli occhi l'udito, quantunque per molti accia denti, che uengono à i corpi, l'animepouerelle uſar non poſſano le forzeloro, da che nacque l'opinione di coloro, che dicono "credos no che noi moriamo inſieme col corpo.Ma io ti giuro per quell'onnis potente maeſtro, che mi fece che noiſiamoimmortali, oſe ora io fo noſenza il corpo,perche non ſi dee credere che io reſtar poſlı dapoi, che'l corpoſarà disfatto? AR. Tutto chemolte ragioni aſſai pro Babiliper l'und ei per l'altra parte mi muouano,pureal modo,che io Sonoſolita di cercare la uerità delle coſe,io non ſono puntoſicura del la voſtra immortalità, però rimettendomi à qualche maggior ſapien za, che la mia non é, mi gioua di credere che noi uiuiate eternaměte. A N. Più oltraiſe fenza il corpo conoſco,fo ueggio, econoſco di conoſcere,miapropria operatione, che dirai tu poſcia dello eſſer mio? AR, Ritorniamo al cominciato ragionamento. An. Ben ti dico ora delle forze mie, perche io conoſco di dentro, e di fuori, dentro con la fantaſia, col diſcorſo, o con l'intelletto, o ciò si dia mandavolontà, come quello del ſenſo appetito, il quale hauirtù di porſiinanzialle coſe diletteuoli, o di fuggire le diſpiaceuoli.La no lontà è Regind. AR. A'me pare, che tu mi hábbiposto inanzia gli occhi la forma di una ben'ordinata Republica, nella quale ui ſia il Principe, iCoſiglieri,i Guardiani, et gli Artefici. Mainfinitamentemi doglio d'alcuni, che per molti ſecreti auenimenti, de' quali non fan renderealtramente ragione, corrono à fabricar nomi, che nonſono, et con quegli impauriſcono le genti,aguiſa delle nutrici,che ſpauenta, no ifanciulli con le fauole, quindi è nato il nome della Fortuna,cui ca pital nimica io ſempreſonoſtata, nõ percheio creda,che à quel nome alcuna coſariſponda, maperche mimoleſtalafalſa opinione di colo ro, che non ſolamente uogliono, che ella ſia una coſa come le altre, che ſono, ma le attribuiſcono la diuinità. NAT. 10fo bene, che la for tuna non è fattura mia. ART. Né di me'ancora. An. Molto mea no dimeauezza à coſe stabili e impermutabili. ART. Laſcida mola dunque andare, o ueggiamo ſe io ti bo ben’inteſa, due ſono i conſiglieri,per quanto io comprendo,ragione, &appetito, daiquali commoſſo e perſuaſo,s’induce à fare, eoperare il tutto, perche ora nė difortuna,nédi uiolenza alcuna ragiono. A N. Senza dub bio,ſe riguardi al nome, maſaper dei, che ſotto queſto nome di appea tito ſi comprendono due conſiglieri,l'uno, nel quale è poſto l'iracons dia,che è come difenſore dell'altro,nelquale è posta la cõcupiſcenza. AR. O diquantimali, e di quante conteſe l'uno e l'altro de gli appetiti ſuoleſſer ſemenza. An. Queſto non già auiene pur il dritto gouerno in tirannia non ſi tramuti. Diritto gouer è quel lo,nel quale,chi deue ubidire, ubidiſce, ochi dee comandare, cos manda". La ragione adunque di queſta piccola città preceder deue allo appetito, e non permettere, che egli ad abandonate redini cors sendo, ſeco dietro la tiri. AR. Moltomipidce quello che tu di,eso B per che 1 jo per ricompenſa di tal piacere voglioti ſcopriremoltiſecreti, che io bo d'intorno alle predette coſe.Ma dimmi tu prima queſta una parte, nella quale é riposta la ragione,diche hai tu inteſo cheella eſſer deb bia adornata? NAT. Diſcienza o di buona opinione ART, Vero é, per che la ſcienza é ilpiù bello adornamento, che s'habs bia, al qualeſe s’auicina la buona opinione,ò che gentileabito é que ſto,diche l'animaſiueſte apparando le ſcienze. Alora ella acquiſta laſua perfettione,allora ella é pronta à conſeguire il deſiderato fine, & quaſi ſeſopraſeinnalzando auanza ogni coſa mortale, o ſi cons giungecon la diuinità.Ma come di coſa precioſa,orara, difficile,or non da noi ora cercata,non ne ragioniamo, ma ritorniamo alla buong opinione, la quale si come la ſcienza è una certa cognitione delle cofe occulte, nata da uere og manifeſte cagioni, cosi eſſa opinione è una incerta notitia,nata da alcune dubbioſe cagioni, alle quali l'anis ma con timore difallire, odi errare, s'inchina. Per uoler'adunque ottenere l'intento fuo,é biſognoconoſcere il modo,col quale dapia gliareſi hanno,o, comeſidice, farſi beneuoli i detti conſiglieri,ac cio che acquiſtata lagratia loro, l'animaſi muoua àfareleuoglie di chi parla.Muoueſiadunque la ragioneuol parte,che è nell'anima, că lepruoue, ocon le ragioni; & tal mouimento s'addimanda inſegna re. Etperche la ragione è uno de' conſiglieri,prudente,etſuegliato, perd nell'ufficio deŪ'inſegnare é di mestiere diacuto epronto inten: dimento, mal'appetito in altro modoſimuoue.Il primo, che è detto Concupiſcibile,richiede una certa piaceuolezzaet cõciliatione. Pero ciòche cosi di dentro i petti umaniſono da quello tirati. Ilſecondo gli fpigneàforza, operò cõ eſo egliſiuuole uſare uno impeto, a cui più propriamente queſto nomedimouimento ſi conuiene, che à gli al tri; e comedebito è lo inſegnare,cioè il dimoſtrare con ueriſimil pruoua le propoſte coſe, cosi è onoreuole il conciliare, o neceſſario il muouere. Ma da ogni afficio di queſti tre peruiene lapropria dileto tatione. An. Io ſo almeno,che altro diletto non ho che lo apparda re. AR. Et tu prouerai appreſo quanto piacere naſca negliapa petiti. An. 10 pure ſono auifata cheeſſendo in eßi ripoſte le umaa ne affettioni, nonpuò eſſere che ſenza riſentimento di dolore ſimuou wano. ART. In ogni affetto, & mouimento d'animo,dolore, o piso cere ſono compagni.Oruedi quáto sfrenataſia l'iracondia, oquana to doloroſo ſia l'adirato,et pure conoſcerai, che lo appetito,et la ime ginatione della vendettaglie piùfoane che il mele. Ho duucrtito,che nc ELOQVEN Z A. ii negli eſtremi dolori gli huomini hauuto hanno piacere di dolerſi, ayo il non poter ciò fare, èſtato loro di doppia doglia cagione, non cbe à loro elettionehaueſſero uoluto l'occaſione di dolerſi,ma poſti neldo lore; dolce coſa il poter'à lor uoglia ramaricarſi hāno riputato. Dilet ta ueramente la ſperanza,ma il deſiderio la tormenta. Peßima coſa è la diſperatione tra tuttigli affetti umani, maſola è ſicura contra la morte. Mauannetu diſcorrendo nelle altre perturbationi,che trouca rai nella allegrezza ſteſſa un mancamento diſpiriti, ounatenerez xa, che al pianto ti condurrà fpele fiate.Però io tiſcuopriròintorno à tai coſe bellißimiſecreti. A N. sidigratia; percioche queſte mi paiono leuere, epotentifuni, con le quai ſi tirano l'altrui ate nos ſtre uoglie. A R. 10 ho inſegnato a' mieifedeli,che non fieno fema pre folleciti d'intorno ad unoaffetto, per fuggire la noia con la uda rietà dellecoſe, imitando la Natura, la qualeamaſopra modo il udm riare,o il mutare le coſe ſue. NAT. Vero è, perche chiaramente dei vedere la diuerſità delle ſtagioniedei tempi, la grandezza co l'ornamento de i cieli, la moltitudine delle coſe e delle apparenze, ch'io ſonouſata di dare alle coſe mie. AR. O'quanto io leggo fo pra il tuo libro è Natura;ma non abandoniamo l'impreſa. Deiaduna que fapereè Animà un'altroſecreto, non meno delſopra detto bello, degno da eſſere apprezzato. Jo ti dico che tu auuertiſca bene di nõ ſollecitare con tutte le forze ad unoſteſſo tempo i detti conſiglieri, perche l'anima trauiata in molti mouimenti, non attende comeſi dee ad un ſolo.L'eſperienza ti moſtrerà, che ad un'bora né gliocchi, di belißime pitture,né l'orecchie di ſoauißime confonanze potrai pies: namenteſatiarejma compartendole opere, meglio aſſai per guſtare i diletti,e i piaceri delſenſo,uederai quanto può queſtaſeparata pers ſuaſione. Inſegna adunque. Inſegnato che hauerai, muoui,apporta le facelle, et eccita con gli ſtimolide gli affetti l'animo de gliaſcoltanti. AN. O' Arte tu ſarai ſempre arte. A n. Et tu anima ſaraiſempre anima. A N. Eſſendo io anima, o da te ammueſtrata,diuentero Ar te, o tu eſſendo in me Arte, Anima diventerai. A R. Nuouo miracolo,didue coſe farne una; ma digratia non ci laſciamo ſuiare dalle occaſioni,che in uero alcuna uolta épiùdifficile la ſcelta, che la inuentione. Ora foniamo a raccolta, o quaſi ſotto uno ſtendardo ria duciamo le tue;uirtù, dalle quali fin’ora habbiamo iregali aßiſtenti ragione, concupiſcenza,oira. Reſta, che andiamo alle altre parti.; AN. Cosi faremo, o da eſſa memoria ſidarà principio. AR..O B quanto tiſon tenuta in nomeſuo,che mi giouerebbe duuertiré un'afa fetto di Natura, ſe altra fiata in quello abbattendomi, la memoris preſta nõ mi diceſse, Eccoti,ò Arte,quello che ancora uedeſti. Che es ſperienza ſitruouain meſenza di eſſa?chis'accorgerebbe, che in al. cuna di uoi, ó Anine, io miritrouaßi, ſe non fuſe la memoria come guardiana, teſoriera ditutte le parti dello ingegno? onde con ues rità ſidice, Che tanto fa l'huomo, quäto ſiricordaNaſce la memoria dal bene ordinare, l'ordine dello intendere, odal penſamento, però poſſo io con le imagini in alcuni luoghi riposte artificioſaméte indura rela memoriadelle coſe. NAT. A lungo andare tu le ſeipiù toſto di danno, che di prò alcuno,però non mipiace altro che uno eſſercitio, di eſſa memoria,cheſi fa mandando motte coſe à mente. A R. Che fai tu di eſſercitio • Natura, l'ordine della quale è ſempre conforme? il tuo fuoco ſempre tiraall'insù, la tua terra per lo dritto all'ingiù di fcende, o cot ſuo giuſto peſo al centro rouinando à modo alcuno non fi può uſare alla ſalita.volgeſiilcielo tutta fiata raggirandoſi in ſe medeſimo, ogni tua legge e impermutabile, o tutto che i tuoi mona ftri, le tue ſconciature alcuna volta ci diano da marauigliare, pus ge ſono tue fatture,néſono alla tua generale intentione repugnanti, mal'Anime da uno in altro cõtrario trapaſſando, buone di ree,et ree di buonediuengono. NAT. Io conoſco il biſogno in quel modo che gli occhi comprendono la notte, che é priuatione di luce, ma ben ti dico,chela memoria da me con molta cura é guardata nella compoſiz tione dell'huomo. A R. Io l'ho auuertito nel tagliare di eſſo, egomi fono marauigliata con quanta cura difeſo hai quella parte,nella quale éla memoria collocata,hauendole dato nella parte di dietro della tes ſta un'oſſo fermo, e rileuato,che da ogniſtranieraforza nella difens da.Tui in temperata umidità e la impreſione, e in ſecco proportios nato la ritentione delle coſe. Ma tu Arima,la cui nobiltà fi fa manife ſta per tante & tali operationi, di ciò il tuo fattore ne ringratierai, regolando con la ragione i tuoi appetiti, penſa,ordina, ocon lo eſa fercitio conſerua la memoria quanto puoi,percheciò facendo,tale di senterai,quale deſideri, e conoſcendo te ſteſſa, conoſcerai l'altre tue forelle, & come della più onorata di eſſe la tua ragione ſopraſta alla loro, il tuo dritto deſiderio ſarà lor freno, onde infinita riputatione acquiſterai,perche di leggieriſicrede à colui,in chiſifida, et facilmen te ſi fida in chi ſi truoua autorità, w credito, il qual naſce dalla inte grità,o bontà de' coſtumi, o queſto é,ch'io deſideroſa, fe altra ſi truoua del bene,temo aſſai non abbattermiin perſonemalungie.AN: In che potranno ufare la loro malu agità, non eſſendo lor data ſede? ART. Come io non ti niego,che il uiuer bene,es accoſtumatamente non ſia di gran giouamento à farſi luogo nel coſpetto degli huomini, e acquiſtarlagratia de gli aſcoltanti,cosi non ti conſento che l'has uergli dalla ſua,per uirtù, oforza di parole non ſi poſſa fare. A N. Perche inſegni tu coteſti incanteſimi? A R. Il mio ualore e tale, che io poſſi in parti contrarie e repugnanti, ſenza che io deſidero ſcoprire in altruiſimili inganni,e però biſogna conoſcergli, cosila uerità ſtadi ſopra, ola bugia cade'uinta in terra,cosiſiponfine alle conteſe, cosi ſi terminano le liti, cosi ſi ammolliſce le durezze degli adirati, s'attura le rabbie de’ ſeditioſi, ſi ſollieua l'autorità delle leggi caduta contra il uolere di quegli, che ſtimando l'oro, l'argento, più cheil douere, & à prezzoſeruendo, poſpongono la ſalute coma mune alla utilità priuata.o quanto nei publici mali,e nei tempi pe ricoloſi compenſo pigliarſi ſuole dal parlare digraue et onorato cit. tadino,le cui parole condite diſenno,ſeco hanno l'alleggiamento d'o gnimalinconia,che gliafflige. An. E dunquegran difetto d'huos mini da bene? AR. Senza dubbio, o ciò auiene perche la uia dis ritta è una,male torteſono infinite, però di raro ſi vede tra mortali, chi per la ſola camini. Ma tuſcordata ti ſei d’un'altrauirtù, la quale per mettere le coſe dinanzi a gli occhi (il che éſommamente richies ſto)non ha pari.Di queſta uirtù, perche ella ha grande amicitia co i ſenſi corporali,o é molto confuſa,come quella, che é lo ſpecchio ges nerale di tuttii ſentimenti umani, o perciò è detta imaginatione; di queſta uirtù dico, non hauendola tu ancora eſſercitata, non ne haifin ora alcuna parola mosſa. Io odo dire che nella imaginationeſirifere bano le imagini, e le apparenze da ſenſi riceuute,et beneppeſſo in lei cosi ſtranamente tramutarſi che i ſogni non ſono cosi turbati, et con fuſi, là onde molti ſono detti, o riputati fantaſtici, altri ſi fanno Re O signori,o talmente par loro eſſere que'tali, che ſi credono di eſ ſere,che riſo eg compaßione mouono a chigli vede. Alcuni uanno, come ſi dice,in aria fábricando, et tanto ſi ſtannonel lor penſiero fißi, che forſennati,e pazzi da tutti creduti ſono. A R. Quanto piùe uanamente ſpender ſi ſuole tal uirtù, tanto à maggior prò li deue ue farla,& adoperarla. Per queſta l'huomo prima taleſi fa, qual uuole che altri ſieno. Perche egli prima dentro diſe ſi propone la coſa, che egli cerca dare ad intendere altrui, con quel migliore e più eccelslente modo cheſi può, auolendo egli metter’altri a pianto, non tera rà mai gli occhi aſciutti. Simile forza nella pittura ſi dimoſtra,lo ar tefice della quale, ogni forma, che egli cerca di far uederenelle ſue tele, primanella imaginatione fermamente ſi dipinze, o quanto più belli,o gagliarda è la ſua imaginatione, tantopiù illuſtre, o loda. ta e la ſua pittura. Molte forme, oſembianze ſono de gli adirati,ma una più eſprimela forza dell'iracondia; queſta una deue inanzi alle altre eſſer poſta nella fantaſia, o à quela il pennello e la linguafi deue indrizzare; en cosi tutta fiata il più efficace modo o di moues re, o di dilettare, ò d'inſegnare por ſi dee chiragiona,inanzi,accioche egli ſi habbia l'aſcoltatore come deſidera.Et queſta è la utilità grans de di coteſta tuapericoloſa potenza,pericoloſa dico,perchemolti no ſanno ufarla à feruigidello intelletto, ocredono, che lo imaginarſi ſia intendere odiſcorrere. Ma laſciamo queſto da parte;o racco: gliamo le tue uirtù. Che mi hai tu dato fin'ora? An. Mente,uolons tà,appetito,memoria,imaginatione. A RT. Molto mi piace.Nella mente, che uiporremo altro, ſenon buona opinione, con l'ufficio dello inſegnare? Làonde la uolontà ſi muoua ad abbracciar le coſe. Et nel lo appetito,che ui ſtarà ſenongli affetti,eccitaticol muouere, &col dilettare, Là onde l'animo ſia uiolentato à bene eſſequire? Della me. moria non dico altro, né della imaginatione, percheſono ambedue di ſopra aſſai bene ſtate de noi diſtinte. Ora bella coſa udirai, oda non eſſer à dietro laſciata. A N. Che mi dirai tu? ART. Dicoti,che doppo la eſpedita dimoſtratione di tutte le tue parti, fa di meſtiere di ſapere in qual maniera elleſieno dipoſte à riceuere la impreſione dei loro oggetti. Perche uana, ofriuolafatica quella ſarebbe, di chi af fettaſſe in parte al pianto diſpoſta ſenza alcun mezo porre il piacere. Credi tu che eguale prontezza hauerai allo imparare,et allo adirars ti? Indrizza adunque i tuoi penſieri à gli ammaeſtramenti, che io ti uoglio dare, oſaperai comedeueeſſer' apparecchiato l'animo dico. lui che ricerca la pruoua, edi colui che è pronto all'affettione, imis tando i buoni medici, i quali prima uannoinueſtigado quai partiſieno guaſte, o quaiſane,eappreſſo, le guaſte uanno disponendo à rices uere i rimedij conuenienti; e primaleniſcono, e ammolliſcono, poi apportano la medicina. L'anima adunque, nella quale la ragione fi dee porre, acciò che dia luogo alle pruoue, et accettar poſſa la buona opinione, e iſcacciare la contraria,deue eſſere ripoſata, e quieta,et non in modo niuno affettionata, et trauagliata. Perche eſſendo il piancere,cheha l'anima, quando impara, foauißima coſa, biſognofache ellaſia lontana da ogniturbatione, operò molto male è conſigliato colui chenel conſigliar'altrui uſa la forza, o la violenza degli aps petiti, &degli affetti, laſciando il ripoſo della verità daparte; qual contento può riportar colui, che partito dal Senato dica, per qual ragione ho io aſſentito?perche ho io cosi deliberato?Buona coſa è l'hauer’alla uerità conſentito,mamiglior'e, ciò hauerfatto ragion neuolmente più toſto che à forza,perche in tal caſo non pure ſifabe ne,maſiſa di far bene; di che non è coſa più diletteuole w gioconda. Habbiaſi dunque l'animo ripoſato di colui cheattende la ragione; queſto ageuolmenteſi può fare, ponendoſiprima di mezo trail si o il no,come chiſta in dubbio.Però che più prontamëte ſi prende para tito,et ſi ammette il uero dubitando,che portando ſeco alcuna opinio ne. Macome diſpoſto ſia lo appetitoalle coſeſueattendi,che loſaprai con una bella diuiſione degli affetti. Perciò che in eſſo appetito gliaf fetti ripoſti ſtanno,comet'ho detto. Ogni affetto e d'intorno al male, ò d'intornoal bene, truouiſi pure lo affetto in qualunque parteſi uos glia. Ecco nel tuo generoſoſoldato,cui é conceſſo l'adirarſi, opren. der l’armi quando biſogna dico dello appetito iraſcibile,d'intorno al bene uiſta la ſperanza, e la diſperatione. Laſperanza é uno aſpetta re il bene, la diſperatione è un cadimento da quello aſpettare. D'in = torno al maleuiſta l'ira, la manſuetudine, il timore, ol'audacia. Ira é appetito diuendetta euidente per riceuuto oltraggio Mania ſuetudine èraffrenamento dell'ira, oambedue queſti affettiſono in torno almale,difficile,etpreſente.Il timore é un aſpettatione di noia, ouero un ſoſpetto di eſſere diſonorato.Et queſta ſichiamauergogna. Il primo,ouero é temperato,ouero eccede la miſura. Dal temperato neuieneil conſiglio,dall'altro la inconſideratione,il tremore, & altri ſtrani accidenti.Laconfidenza, «audacia, é contrario affetto. Et queſte perturbationi tutte ſono d'intorno almale che dee uenire.Nel L'altro appetito, in cui è poſta la concupiſcenza, d'intorno al bene ui ſta l’amore,il deſiderio, a l'allegrezza. D'intorno al male l'odio, o l'abominatione, di cui ſegno infelice e la triſtezza, dalla quale naſce l'inuidia, la emulatione, lo ſdegno, o la compaßione,quando auiene che la triſtezza detta ſia de i maliouero de i beni altrui. Ma nelle co fe proprie affligendoſi l'huomo tre alleggiamenti ritruoua. Il primo ė ripoſto nel proprio ualore, perche niuno ſcelerato é compiutamente aüegro.L'altro è meſſo nel conſiderare il dritto della ragione, werita 16 D ' Ε ι ι Α fuerità delle coſe, da che naſce la ſofferenza figliuoladella fortezza. L'ultimo é la conuerſatione di alcuno amico, perche ne gli amici e ripoſta la ſoauità della uita. Ritornando adunque allo amore, ti dico, che Amore è uoglia del bene altrui,eu ſe é mouimento d'animo a far bene, li dimanda gratis. Senonſopporta concorrenza, geloſia, lela ſopporta ad onefto fine, amicitia. L'inuidia non uorrebbe, che altri haueſſe bene,ſe benuifuſſe il merito. Lo ſdegno non lo uorreb be, non ui eſſendo il merito La emulatione il uorrebbe anche per ſe. La compaßione ſi duole del male altrui, temendo il ſimilenon da uengu á lei. Etciò ti puòbaſtare in quanto ad una brieue dichiaraz tiore di tutti gli umani affetti. Ora econueniente, che tu ſappia in che modo à ciaſcuno d'eſſi tu ſia diſpoſta, acciò che tu ſappia poi als truiſimigliantemente diſporre. Eſſendo adunque l'appetito uarias mente affettionato, quandoſi ſdegna,quandoinuidia, quando aborris ſcequando ama, quando teme, quandofpera, equando in altro mo. do é trauagliato,acommoſſo, aſcolta un bellißimo ſecreto, ilquale non ſolamente à diſporre gli animi à qualunque affetto è buono, ma in ogni operatione é neceſſario, & benche oggi mai per uero ammies ſtramento della uita da ogn'uno ſi dica, RIGVARDA AL F 13 NE, non é però d'ogn’uno l'applicare alle attioni o opere de' mor tali, cosi belle ſentenza. Laſcerò da canto le coſe, che non ſpettano alla noſtra intentione,ſolo dirotti quanto io deſidero, che ſia negli af fetti oſſeruato. Deiſapere che egli ſi truoua una maniera diparlare, la quale in molte, manifeſte parole effrime la forzı, ey la natura delle coſe; e quelle molte, omanifeſte parole altro non ſono, che le parti della coſa eſpreſſa. Queſtamanieradi parlare é detta Diffie nitione. Ora dunque io ti ammoniſco, che nel muouere gli effetti pri ma tu habbia à riguardare alla diffinitione di ciaſcuno,come al deſide rato fine. Però cheſe la diffinitione rinchiude in certi termini la nas turi della coſa propoſta, ſenza dubbio querrà, che il conoſcitoredel la natura, o delle parti deltutto diffinito, oeſpreſſo, indrizzerà tutte le forze dello ingegno ſuo, à ciò fare,et tale aiuto preſterà abon dantißima copia di ragionare, o diſciogliere ogni occorrente diffi cultà, e durezzé. Eccotiſe ſai, che l'ira é deſiderio di uendetta per riceuuto oltraggio, o ſe mirerai in queſto fine, non anderai tu dia ſcorrendo, in qual modo eſſer debbia diſpoſto all'ira colui, che tu uora rai hauere ſcorucciato? o conchi, oper qualicagione, & quanti modiſieno di oltraggiare altrui? Et ciòin ogni affetto facendo,non ti farai ſignore, & poſſeditore dello animo di ciaſcheduno? Et rans to più dimoſtrerai con la uoce, & co i mouimenti del corpo, te tale. effere, quale uorrai,che altri ſia,certamente si. La diffinitione adun queé il ſegno,al quale ſi deue attentamente guardare. Ora inbrieue ti dico dell'ira, che eſſendo ella uoglia di uendetta,è neceſſario,che lo adirato ſi dolga, o dolendoſi appetiſca alcuna coſa, dalche naſce,che repugnando altri à gli umani deſiderij, ouero à quelli alcuno impedi mento ponendo, ouero in qualunquemodo ritardande le uoglie al trui, porga cigione di adirarſi, cioé di deſiderare uendetta,ilperche nella ſtanchezza nell'amore, nella pouertà, e ne i biſogni ſonodiſpoſti i petti umani agramente al dolore cagionato dall'ira, epiù cheſono ideſiderijmaggiori, più apparecchiati, oprontiſono all'ira, o al furore. Lo hauer male di chi s'attende ilbene,lo eſſere in poco pre gio tenuto, ò diſubidito, o prezzato, o per ingratitudine, ò per ingiuria ſenza prò dello ingiuriatore, ſono tutte diſpoſitioni al predet to mouimento.Giouamolto, oin queſto, & in altri affetti ſaper. la natura,ilpaeſe, la fortuna, ela conſuetudine di ciaſcheduno. Se adunque ſi accende nell'ira in tal modo, chië diſonorato, o iſcordas to,ſenza dubbio acqueterai colui cheſarà onorato, riuerito,ubidito, ammeſſo, et riputato;ouero, chiſiſarà uendicato,a cuiſarà dimandato perdono con la confeßione del fallo, incolpando la violenza, enon la uolontà. Deueſi dare molto al tempo, oalla occaſionein ognicoſa, operò ne' conuiti, ne i diletti, one igiuochigli umani appetitifoa no più alla manfuetudine inchinati Dell'amorealtro non tidico, le non che eſſendo eſo soglia del bene altrui, l'eſſere cagione, mezano, interceſſore, aiutore al bene altrui,diſpone ageuolmente à tale affets to ciaſcuno. Et perche Amore appreſſo, é una ſimiglianza, w unios ne di uolere, però coluiſarà più amato, ocon l'animo più abbrace ciato, il quale dimoſtrerà d'eſſere d'un'animo, o d'una uoglia steſſa con noi. Ilche nelle allegrezze, one i dolori ſi conoſce, o neį biſoa gni ancora; non ſolo nelle perſone amate, ma ancora negli amici de gli amici. Allo Amore riferiſco la Benuoglienza, e l'Amicitia, las quale, ben che affetto non ſia, pure è nata da eſſo amore, che è uno de gli umani affetti. Qui non é luogo di più diſtintamente ragionare dell'amicitia; de gli oggetti, delle parti, e delſine ſuo. Perciò che altroue nei graui ragionamenti di filoſofia ciò ſi conuiene. Baftiti d'hauere per ora la ſuperficie, el'apparenza. Ritorno adunque e ti dico,che ipiaceuoli,coloro, cheſidimenticano dell'ingiurie i с faceti, imanſueti, gli officiofi uerſo i lontani, atti ſono ad eſſer'amati. Peril cótrario ſapersi chedire intorno all'odio,il quale è ira inſatia: bile, da uendetta, da tempo,daruina alcuna non mitigato; occulto ine ſidiatore, ymortale, nato da in giurie o ſoſpetti. Al quale diſpoſte ſono altre nature più, altre meno, o à megliodiſporle,biſogna ams plificare le ingiurie, « iſospetti,acciò che nonſoloſi brami una ſema plice uendetta, ma la diſtruttione della perſona odista. Del timore, odella confidenza, che ne attendi più, ſe di queſta, ed'ogni altra perturbatione ne i uolumi degliſcrittori, et nelle pratiche umane'ne Jei per uedere aſſai? Timore e turbation d'animo, nata da ſoſpetto di futura noia. Et però chi temeſa ó penſa dipotere ageuolmente eſſer’offeſo, eda chiſpecialmente, ſopraſtando il tempo,es la occas: fione. Etchiciò non ſoſpetta,non é al timore diſpoſto comeé chi ſem pre éſtato fortunato, chi ſempre miſero, chi è copioſo d'amici, di ros 64,09di potere,chi é fuggitoſpeſo dalle ſciag ure, ode pericoli,ego altriſimiglianti;o que'taliſono confidenti, &audaci. Euui altra maniera di timore, non didanno,madi biaſimo; alla quale diſpoſtiſos no i giouanetti,i riſpettoſi, oriuerenti, quelli cheuoglionoeſſer' ha uutiper buoni da ' più uecchi, o da ſimili, opari. Et però aûa loro preſenzaſonopronti ad arroſire. Non cosi ſono i vecchi,perche non credono,che di loro altri ſoſpettino quelle coſe, che ſono ne' giouani, come laſciuie,amori, euanità. Etperche il diſonore è coſa, cheuies n'altronde, però gli ſpiritidalſangue à quellaparte, che più lo ricer inuiati ſono.Ladoueil uiſo ſi tignediquel roſſore, cheſi vede. il contrario nei timidi, nel cuore dei quali il ſangue ſi riſtringe, per ſoccorſo di quella parte, che teme la offenſione.Nella uergogna ſi abbaſſano gli occhi, come che tolerar nonſi posſa la preſenza dicos lui, che è giudice de i difetti umani. Queſto è ne' giouani aſſai buon ſegno di gentil natura. Però che pare, cheuergognandoſi conoſcas no idifetti, ey habbiano cura di quelli. Non uogliopire diſcorrer’ina torno all'audacia, allo ſdegno, alla compaßione, alla emulatione, « al la inuidia. Però che molto ne uedraiſcritto, eragionato da altri. Ben non ti poſſo tacere del male acerbo, mortale, ch'io uoglio à quella fiera indomita, eabomineuole dell'inuidia, che all'udir ſolo il nomeſuo, ſtranamentemi muouo. Lafigura,i modi, ai coſtumi di eſſa ſono da gran poetadeſcritti. Di queſta mi dolgo, per eſſer quels la, che più regnaneimiei seguaci. Là doue il fabro al fabro, il mes dico al medico,l'uno artefice all'altro, inuidia portano ſempremai. M4 ca,Md tacciamoora di queſto, e poicheragionatohabbiamo di te, delo le parti tue,delle quali taci, che in eſſeſi ſtanno,e delle loro difpofia tioni, addimandiamo la Natura quaicoſe a’quai parti di te conuena gono, acciò che accordando la foauißima armonia della umana elo quenza con piacere, og utiledegli aſcoltanti uditi ſiamo apieno por polo raccontare i miracoli della Natura. ' AN. lo ueggio ben oggia mai' ' Arte, che tuſei quella chefai l'acume, ò la ſottilezzadell’oca chio mortale nel ſecreto della diuinamentetrapaſſare. AN. Anzi per te, ó Anima,coteſto mirabile ufficio s'acquiſta, la cui cognitione tanto apporta di lume, e chiarezzaad ogniprofeßione, o scienza, che ucramenteſi può dire chetuſia ilprincipio d'ogni conoſcimento Etperò chiunqueſtima; ola uſanza di uno leggieri eſſercitio, o il ca fo tanto potere quanto tu, o io.uagliamo, grandamente s'allontana dal uero. Tu t'abbatterai in un ſecolo impazzito, d'huomini, i quali s'accoſteranno ad imitare più uno, che l'altro, olo imitar loro non faràſenon manifeſto rubamento, ſciocchi,oferui imitatori, che non Sapendo, perche altri s'habbiano acquiſtato il nome, tutta via in ciò s'affaticano. Altri perche hanno unaſcelta di belle, &ornate pde role uogliono ad uno ſteſſo tempo fcoprirle accomodando à quelle i concetti loro; ma che poi ſono cosi rozi, a inetti,cheſenza ordine, Ofuor di tempo le metteranno, e diranno, Io cosi dißi,perche cosi ha detto alcuno de' più preſtanti. Queſtiſono gli incomodi delfecom lo. Nat. O`quanto m’increſce perciò eſſere ſtimatapouera «biſo gnoſa, come che à me manchi alcunafiata,che donare, o che nel cer care l'altrui teſoro l'huomo perda,ò non conoſca il ſuo. AR. Chi ſempre ſegue, ſempre ſta di dietro, chi nonua dipari,nõ puòauan zare. Male hauerebbonofatto i primi inuentori delle coſe, fehae veſſero aſpettato,chiloro douea farla ſtrada. Et troppo pigro écoe lui, cheſi contenta del ritrouato. Ionon porgo già mai la mano a chi laſcia, oabandona la naturale inclinatione, come bene ho ueduto que' ali non conſeguire il deſiderato fine. NAT. Mi turbano apa preſſo quelli, ò Arte, che tanto di me ſi fidano, che te laſciano à dies tro". A R. Non ti dißi da principio, chenoi erauamo unite, e che ciò che appare di uarietà, e diſomiglianza tra noi,e in un principio ricongiunto? Che miditu? Chiunque opera alcuna coſa da me drizzato, uſa una regola commune, & uniuerſale, che à molte, diuerſe nature feruendo,quelle uniſce, o lega in uno artifi cio medeſimo, perche io ſono la conformità,o la ſimiglianza;altri acutifono, eſuegliati, altriſeueri,& graui,altri piaceuoli,&eles ganti per natura. Vnaperò e l'arte,una éla uia, che ciaſcuno al ſuo ſegno conduce. Quando adunque l'arte precede,facile e lo imitare; lodeuole il rubare, & aperta la ſtrada alſuperare altrui. Et in tal guiſa bene ſilpendeſenza lo auantarſi di eſſer ricco, a fenza dar ſos: spittione di uergognoſo furto. Accompagnifi dunque nelle ciuili con teſe il core, ola ſcrima,cioè la natura, el'arte, ogſi uederanno poi que’miracoli, ch'io ſo fare. Ma laſciamo tai coſe, e incomincia o Natura, o dimmi, in che modo le coſe tue fiſtanno, che di eſſe cosi dileggieri gli huomini ſi uanno ingannando NAT. Sappi ò Arte, che ogn'uno che ci naſce, ſeco porta dal naſcimento ſuo unacerta ins clinatione alla uerità, donde auiene, che inſieme con glianni creſcens do ella in parteſuole il uero congetturare, laqual congetturi opis nione più toſtocheſcienza uferai di chiamare. Laſcio la uſanza mia imitatrice,chefino da primiannirecarſuole molte opinioni, che poi dipenacon l'altra certezzaſileuano, parlerò di quella ſembianza più toſto, che ſembiante di uero,cheé atta nata à muouere l'umane mentia far giudicio delle coſe. Dico adunque, alcune coſeeſſer da ſe ſteſſe manifeſte, chiare, altre, niente da ſe hanno di lume, edi fplendore,mailluminate da quelleche ſeco hanno la luce, ſi fannoa? fenſi umanipaleſi; nel primo gradoé il Sole, o tutti que' corpi, che ſon chiamati luminoſi. Nel ſecondo ſono i corpi coloriti, i quali non hannoin ſe ſcintilla di chiarezza, ma d'altronde ſono illuminati. Il fimigliante ſi ritruoua nello intelletto. Iljaale riceuendo alcune coſe diſubito quelle apprende, og ritiene. Però che quelle ſeco hannoil lume loro, ſe à me ſteſſe il fabricare de' nomi, io le chiamerei Noti tie, ouero Intendimentiprimi. Ma poi altre ſono, che non hannoda ſe lume, ó uiuezza alcuna,&però di quelle ſifa giudicio con ſoſpetto di errare, fe da altro luogo la loro intelligenza non uiene; quinci ė nata la opinione, la quale come opinione, che ella é, né uera ſitruoua, ne falfa. Il difetto naſce daquelli uirtù,chepoco dianzi diceſte.Pero che le coſe mie fono, come ſono,mariceuute nell'anima, e da' ſenſi al la fantaſia per alcune debili ſembianze traportate, ſtranamente meſcolate, fannodiuerſe opinioni. Ben’é uero, ch'io non faccio una co ſa tanto diuerſa da un'altra, che l'huomo dueduto non poſſa alcuna Somiglianza tra eſſe ritrouare. A R. Molto mi piace che l'animadi ciò nonſia fatta capace, perche accadendoleſpeſo mutare le opinioni umine, e da uno in altro contrario traportarle, molto deſtramente biſogna adoperarſi,et diſimiglianza, in ſimiglianzaà poco a poco pas fando,perchelo errore in eſe ſimiglianze ſinaſconde, tirar le menti, che no s'aueggono di una in altra ſentenza. An. Et chi può queſto ageuolmente fare? A R. Chi con diligenza inueftiga la natura dela le coſe ſottilmente, uedrà in che l'una con l'altra ſi conuenga, ma non chiamiamo però la opinione incerta,cognitione à queſto ſenſo,checo lui, che ha opinione ſappiaſempre quella eſſer’incerta, o dubbioſt conoſcenza, ma bene che in ſe conſiderata, come opinione da chiuna que hauerà il uero ſapere,ſarà riputataincerta. NAT. O quans to mi nuoce in questo caſo,la uſanza inſieme con la età creſciuta, lds quale à guiſadimeſtesſa, ferma talmente le coſe nelle menti umane, che bene ſpeſſo la bugia, più che la uerità in eſi ritruoua luogo. Et peròcredono molte coſe che nonſono, ouerofe ſono, ad altro modo di quello, che ſono, uengono giudicate. Etfe pure dirittamente appreſe ſono, altre cagioni lor danno,che le uere, e quelle ch'io so eſſere in mediati o continuate à gli effetti. Et queſto auiene quando la ragio ne inchina più al ſenſo che all'intelletto, « più all'apparenza, che al l'eſſenza. AR. Tu hai più dell'Arte,o Natura,che di te ſteſſa,cos si bene uai diſtinguendo i tuoi ragionamenti. NAT. Non te ne ma rauigliare, ò Arte,perche io qual ſono,tale mi dimoſtro, oſe di me medeſima parlo, cometu uedi io lo faccio in quel modo, chetu altre uolté hai confeſſato, che io ragionereiſe io fußite. AR. Quello che io dico, lo dico per amınaeſtramento di coſtei, laqualanche non ſi dee marduegliare di queſta apparenza del uero. Perciò che è aſſai als l'huomo ſaggio, che le buoneragioni gliſieno ſemprequelle ſtelle, da quelle ne prenda la ſimiglianza del uero, che per lo più muoue le umane menti, oin eſſe ageuolmente ſi pone, al che fare, opportuna, ocomoda coſa é ricordarſi, in che maniera per lo pulſato l'huomo ſe ſteſſo habbia ingannato, o in qual modo ancora, e per qual cagione altri ingannatiſi fieno da loro medeſimi, in uero te ne riderui, uedens do alcuni che penſano, ogni coſa, che precede un'altra, cffer di quella cigione, ò che lo eſſer fimile ſia il medeſimo. Ne per ciò direi che l'os pinione fuſe ignoranza,comenon dico, eſſa eſſere ſcienza, perche la ſcienza e stabilità,o fermata da uero, e infallibile argomento, en la ignoranza non è di coſe uere. Onde naſce,chela opinione è un abi to mezano tra il uero intendimento, o l'ignoranza, differente dal dia bitare in queſto che la opinione piega più in una, che in un'altra par te, il dubitare tiene in egual bilancia la mente tra l'affermare, o il negare, eye però biſogna riuocare in dubbio le coſegià ammeſſe,e di mojtrare quäto pericolo ſia il giudicare. Da queſtone naſcerà la que ſtione, e la dimanda, la quale diſponendo le menti alle ragioni; quan to leuerà della prima opinione, tanto porrà di quella, che tu uorrai, o à ciò fare uia non é appreſſo quella che ua per le ſimiglianze delle coſe.Partipoco,ò Anima,cotesti uirtu? penſi tu,che ſia cosi facile il perſuadere? ó credi tù chegià biſogni con dritto giudicio, o con ſal do intendimento penetrare dalla ſuperficie alla profondità delle coſe? A N. Da che occulta radice l'apparente bellezza dicoteſta tua figli uola,nel cuiadornameiito la Natura ſola non baſta. NAT, Ora ogniſentimento mi ſi ſcuopre, ó Anima, da costei, emanifeſta uedo eſſermifatta la cagione,per la quale molti miei amiciſono diſonorati. ART. Quai ſono coteſti amicituoi? NAT. Quei, che inueftis gando uanno iſecretimiei, le ripoſte cagioni delle coſe,i movimenti, le alterationi, &i naſcimenti d'ogni coſa, o che non ſicontentano di ſtare par pari de gli altri huomini,manobilitando la ſpecie loro con le dottrine traſcendono i cieli. AR. Che ſtrano accidente può ueni re à perſone cosi pregiate, come ſono iſeguaci tuoi, ogli amatori della Sapienza,i quali comerettori delmondo, felicißimi,er beatißis mi eſſer deono riputati? NAT. Queſti fedeli miei à punto ſonoquel li, che più de gli altri ſono diſonorati. An. In che coſa? ART. Aſcolta digratia; mentre che gli ſtudioſidi meſi ſtannoſoli, ein par te ripoſta comeſchiui dell'umano confortio,non é loda • grido onora to, che con ammiratione delle gentinon gli eſſalti o inalzi infino al cielo. Mapoi che compareno, et uěgono alla luce,ſono prima da ogn'u no guardati, si per la eſpettatione già conceputa della virtù loro, si an cora per la nouità dell'abito, o dell'aſpetto,et del portamento,ogn's no lor tiene gli occhi addoſſo, a attentamente ſi dimoſtra di uolergli udire. Io non ti potrei eſprimere con che grauità poi aprono la boca ca, e con che tardezza poimandano fuori le parole, etquanta ſia la dimora de i loro ragionamenti, i quali poi che da principio nonſono in teſi dalle genti,comecoſe lontane dalla umana conuerſatione, non cosi toto uiene lor tolta la credenza, per che purſiattende coſa miglios respire conforme alla opinionede’uolgari,iquali dalla prima eſpets tatione inuiati danno i ſeſteßi la colpa del non capire la profondità de' concetti loro. Mapoi che nel ſeguete ragionare s'accorgono pur in tutto di non poter’alcuna coſa da que'beati ritrarre, et che ogn'os ra più le coſe intricate, ar le parole aſcoſe ogni lume d'intelligenza Hanno lor togliendo, quanto ſcherno, Dio buono, jego quanto riſo ſe ne fanno. AR. Jo grauemente miſdegno, ó Natura, & mi dolgo di ſimili auenimenti, poi chegli infelici non fanno drittamente ſtimar le coſe, benchefino al fondodi eſſe paſarſi credono,maforſe è, cheſtan do eßiſemprein altro, quando poi allo in giù riguardando ueggono l'altezza loro, a la profondità delle coſe terrene, uanno uaccillando con gli occhi; ocomparando il cielo alla terra, ſtimano ld terra un minimo punto, o una bella città un niente che nobiltà, che chiaa rezza diſangue può eſſere appreſſo coloro, che ſeſteßicon la eterni tà miſurando, tutti da uno ſteſſo principio uenuti affermano?Che rica chezzaſarà grande appreſocoloro, che ſi ſtimano poſſeditori del cie. lo? qual prouiſione daſoſtentare i popoli farà colui il quale quaſipa ſciuto del cibo de i Dei,altro non guſta, altronon ſente,altronon din fia,cheſempre ſtare alla ſteſſa menſa? ne credono, che altriſieno in bi sogno? Queſte coſe io direi in loro efcuſatione. Ma che midiraitu di quelli cheſonoſtudioſi della vita ciuile,ochefanno le cagioni de’mu. tamenti de i Regni, e delle Rep.le conditioni de principi, gli ufficij di ciaſcuno,le uirti, gli abiti uirtuoſi? Non credi tu, che queſti ſie no più auenturati de gli altri? NAT. Peggio, percioche il ſapere ciaſcuna delle dette coſe,hauer le diffinitionid'ogni uirti, ocoa noſcere diſtintamente ogni buona qualità,non é aſſai, ma egli biſogna uſar tanto teſoro al governoaltrui per ſalute, ocomodo uniuerſaa le, e oltre all'uſo hauer parole al preſente maneggio oalla ciuile uſanza accomodate. ART. Dondeprocede coteſta loro cosi ſot tile ignoranza: forſe cosi eleggono penſando di eſſer' hauutiper dot tiæintelligentiparlando in cotalguiſa?Ma questa é una groſſezza infinita,perche non é piacere, che s'agguagli àquelloche prende ľa ſcoltatore quando impara &intende ciò che uien detto.Sai tu duns que la cagione di cosi fatto errore? NAT. Forſe è,perche non ha uendo eſsi alcuna eſperienza della conuerfatione cittadineſca, fanno quelguidicio dimolti cheſonoſoliti di far d'alcuni pochi, loro come pagni,co i quali tutto’l giorno con uarie diſputationi argomentando trapaſſano,ne mai ſono riſoluti. ART. Et io ancora cosi credo, pe rò guardati ó Anima, di non entrare nel loro no conoſciuto collegio, ò ſe pure ui uorrai entrare tanto iui dimora,quanto alcun giouamen to ne puoi ritrarreper la ciuile amminiſtratione. Nel resto pronta, et ſuegliata nel coſpetto degli huomininon meno alla ſcuola eall'acas demia,che alla piazza,alla corte, o alſenato intentafarai, o uſans do. D E L L A. doistiche le gi,con mozeme uoci raptorersi, percbe riund coſa é få mots, creudire ripublicico:lizále uanie dig esioni, o le Haitat parole di moint, i quali razlo" 2r.do le ébloro per la Città frendere unsguerra,realize, ne: i mezi di efl: u21 riguardando, riaprindo le ſcuole de presa deguono, di 7: oro, oargos:ht::opia ficcrente del mondo, o cercano chifu il primo ins kantore deli'arxi chifrino in ROMA trionfale, cbisitrouo le naui, chui brizla i czasu, et ilere ciance si fatte,cbenc irfegn2":0,ne dis last250,14.1widojiore della prostione de' daruri, delle genti, o del *010, col quale s bubbis a fartal guerra. Il percbelo. To poi auies fie, cbei nero perini,çia deguamente di loro parlando, ſono con grue de 11ratione acoltati. NAT. Cotto e mio dono,percbe ditus to potere affreuz! cusi mi truono,che wina forzaglimetto irrar ci i tuoi ſegussi. AR. Et forſe corne sfrenati causlii, gli fai tel mezo del coro pericolare; pero sili eccellente natura,che ta lorda, sorrei che mi falje l'aiuto rio.percbe meglio, o çik ficuri aadribs 6290 per lefiziglianze dre coſe. An. Bisogna dunque pik skatie rigliz- guardare, cbe al wero? A R. Cosi biſcgna; o quedo porriaz slitacels il facesi, sı il donerci tu fare, o ciaſcuno, che * pis airtai perjuadere, accio cbe fiso aſcoltato, o inteſo dude geri, lezasli barefeito -Is bagis nga 14.0, får cbe in ejja las casicae spetto dd zero. Queto per fo cjjere, cbei şià f- 931 babe bis 10 c50 surorit: b4xx.: predoi popoli cbei nácti inges gs. An. Dizni gratis, çusio é cbegli buozi idaro fede: cazzo, cbe apps uto, nos lo faze0 percbeloro piace il nero? Ar.. As. Paepiuere già saco: 507 co:cf-:: ta? Forzz aidake,che il sero lis és glicucuitico? Ax Pacte danese giàceil serezos bruszni P -T271? AR Perikliois tragises filer cxz. AX. Aja -- 22:04 ks:0 600leri: del bero. Às. SostraTrao Adira.secte lazaratsie sesi tid: acts indiscrezi!4.cezecklacteaefepie regiaze, o lomatto; c (72.0: 1, o Resmitironine. cedriersdieedia 2.3 " To Rossiradizioro Boricitis 32 2 ciasto nigirisececeáciless Aires22:22: carte.ro 2:46, 13:3050: 22: 15: 4:15,cheſe la opinione con la ragioneſarà legata, per modo niuno potrà fuggire,anzifuori dell’eſſerſuo leggiadramente uſcita nõ più opinio ne,maſcienza ſi potrà nominare. A N. Dimmi, ſe'l uerifimile e tale ad ogn'unoegualmente. AR. Nó. An. Che differenza ci fai tu? A R. Grande. Ben'è uero,che quando io dico ueriſimile, io intendo ciò che pare alla più parte. Ma diſtinguendo dico, la più parte però effere ode gli huomini ſenza dottrina,o degli huomini letterati. Et altro ſarà il ueriſimile,che parerà à gli Idioti, altro à iperiti. AN. Inſegnami à conoſcere queſto uerifimile. AR. Il ſegno della ſimia glianza alcuna fiata ſi ritruoua in eſſaſuperficie delle coſe, cheſenza diſcorſo di ragione ſono riceuute,o appreſe daiſenſi umani; da ciò naſce il veriſimile, che pare egualmente a tutti, come auienedimolte miſture, che's'aſſomigliano à l'oro, cheſe il giudicio filaſciaſſe al ſenſo ſolo,per oro da ogn’uno ſarebbono hauute. Alcune uolte il detto fe gno emeſcolato con alcuna ragione,accompagnata col ſenſo, oque sto é quello, che pare àmo!ti. Speſſo più di ragione, che di ſenſo ſi mette, e ciò è quello,che pare à i piùſaggi; o quarto più dalſenſo s'allontana,o s'accoſta la ragione all'intelletto, tanto de' più saggi, edi pochi ſarà l'apparenza del uero. Ma laſciando coteſte più ina terneſomiglianzedel uero, bauendo tu àfare. con la moltitudine, quelle attendi,che a tutti,ò alla partemaggiore appariranno; &co: si ogniforza di proponimento nelle altrui menti rompendo, farai la uoglia tud. AN. Queſtomipiace. Ma uorrei, che tu m'inſegnaſi à congetturar quello chepuò eſſere. Dimmi, ſe n'hai ammaeſtramen to alcuno. A R. Dimandane pur la Natura. AN. Non n'hai tu ancora poter’alcuno? A r. sibene; ma la Natura operando, Sa meglio dime,quello che èpoßibile. An. Dimmi tu dunqueò Naz tura,quai coſeeſſer poſſono? NAT. Tutte quelle il principio delle quali ſi ritruoua. An. Adunque ui ſarà l'arte deldire, poi che'l prin cipio di lei ſi truoua? ilquale nõ é altro, che l'ojferuatione,che fu l'Ar te di te ó Nitura. Ar. Che uai tu mettendo in dubbio quello che fie qui habbiamo fermato? ſegui. NAT. Se quello chepiù importa, ò che piie uale, ò che ha più difficultà, fiuede, ſenza dubbio il meno importante, il più debile, il più facile ejer potri. A n. Adunque ſe l'arte puòridurre gli huomini rozialla uita ciuile, meglio potrà gli ammaeſtrati inalzare algouerno della Città? A R. T4 pur uti argomentando. AN. Mercé tua, che giàmiſei fatta familiare. A R. Queſto ſo io, che poſſeduta che io ſono dalle anime,dimoſtro il. Α ualore, il piacere, o la facilità dell'operare. NAT. se può eſſer la cagione, chivieta che lo effetto non posſa eſſere? et ſe queſtoé, quel la di neceßità ſi haue. Quello che ſegue dimoſtra,che può eſſere quel lo che antecede. In ſomma ogni coſa può offere, di cui naturale appeti toſi uegga, o dalla poſibilità delle parti naſce quella del tutto. Dals l’uniuerſale il particolare, o dal meno quello che più comprendeſi congettura. Vna metà, il ſimile, il pare ricerca l'altra metà, l'altro Simile, o l'altro pare. Etſeſenza arteſi puòfar’una coſa molto me glio ſi farà con artificio, ſe chi meno può opra, chi più può non opes rera egli ancora? Chene attendi più,ſe queſto ti può eſſere à baſtan za à farti aprire gli occhi è ritrouare il fonte della eloquenza? AR. Et io già mitruouoſatisfatta in queſta parte,che alle coſe appar tenenti all'intelletto ſi conuiene; però aquelle io uorrei,che paſſaßi, lequaliſono da eſſere ne gli appetiti collocate.Et attendo,che tu quel le brieuemente mi dimoſtri,etdiffiniſca, acciò che l'anima oggimaicõ. tenta dellaſeconda promeſſa,alla terza,et ultima ſi riuolga. A N. Per qual cagione, ò Arte, dimanditu le diffinitioni della Natura? ejendo ſuo carico il diffinire. A R. Perche ora io non attendo le eſquiſite, Oregolate diffinitioni,maquelle che dalla più parte delle gentiſono ammeſſe, delle quaiquaſiſenz'artificio ſe ne può formare un numero infinito. An. Tu ſei molto circoſpetta. AR. Seguiò Natura, féle coſe àgli umaniappetitidi lor natura piacere, o dispiacere posſo no apportare,òpur l'Anima ne li fa tali. NAT. Senza dubbio non folo elaAnimaha uirtidi apprendere, ofuggire le coſe, ma in effe ancora e nonſo cheda eſſer fuggito,ouero abbracciato. Quädo adun que tra la coſa, o l'animaſi truouaalcuna conformità, allora lo appe tito ſi muoue ad abbracciarla, o queſto mouimento,ſi può dire, no minar defiderio,ilquale è appetito di coſa che nõ ſi poßiede,cõforme però à quella uirtù ò parte dell'anima, che l'appetiſce; ma quando no ui é queſta conformità,tra gli oggetti, o l'anima,ella gli aborre, o fugge, né ſolamente oue o anima,oſentimento ſi truoua cotefti ab bracciamenti,e fugheſiueggono,ma doue occultamente io ſonoſoli ta di operare, doue non éſenſo, ociò faccio con un ſemplice inſtinto, ilquale al mio poteree tale, quale al tuo é la conoſcenza. Coteſto in ſtinto ogni coſa conduce alla conſeruatione, o albene; & dalmale & dalla morte il tutto ritragge quanto può. Maper dirti de gli huo mini, ſappi, che eſſendo tra le coſe oppoſte, ole parti de gli animi lo ro,conuenienza,quando auiene,che quelli ſíenopreſenti,oche laſcia no impreſſa la loro qualità,in quellapartechegli appetiſie, allora ſi genera ildiletto, e l'allegrezzanata dalla morte delprimo deſides rio, perche poſſedendo la coſa deſiderata, il diſio è già conuertito in piacere. Ilqualpiacere altro non é,cheadempimento di uoglie. Tu conoſcerai, cheil guſto tuo bauerà conformità con le coſe dolci; da queſta nenafcerà l'appetito,auenendo poi,chele coſe dolci uicine fica no à quella parte,doue il detto ſenſo dimora, eche in eſſa laſcino la lor qualitàimpreſſa,che é la dolcezza, nonha dubbio,che quella par te nonſia per bauer diletto, egiocondità. Il ſimigliante uedrai in ogni tua parte, Et per lo contrario ſi ſente noia, e diſpiacereo nella priuatione delle coſe deſiderate, o nell'hauere le difformi, oaborrite, ecome il principio di ottenere il bene era il deſiderio dalla ſperanza accompagnato,cosi il principio di hauere la noia, era la fuga dal timore commoffa. Etcome nella prima impreſione la ſperanza in gio is fi conuertiua, cosi nella ſeconda la paura ſi tramutaua in dolore. Eccoti adunque i quattro principali affetti diuoianime. AN. Vor reiſaperè,o Natura, in cheſia poſta la conueneuolezza, che é trale coſe, ole parti mie. NAT. Percheioſono tale in ciaſcuna coſa, quale io mi truouo, però nelle coſe eſaéripoſta per me; maperche poi auenga,che io tale mi truoui in ciaſcuna coſa,dimandane chi cos si ab eterno prouid. AR. Or l'anima tiparetroppo curioſa? ma dimmi quai coſe,à qual parte dell'anima ſono conformi. NÁT. In fomma il uero é il bene, &per tal cagione, quello che è uero,uien giu dicato bene. Ar. Che intendi tù bene? NAT. Ciò che daogn'u no,e da ogni coſa uien deſiderato, &uoluto. A R. Qual bene Ć cercato daữ’intelletto? NA T. Dimandane coſtei  AN. il ſapee re, la dritta opinione. NAT. Dalla uolontà? AR. Ogniabis to di uirti. NAT. Da gli appetiti. AR. Ogniutilità ® dilets to AR. Che naſcerà poi, ò Natura, dal deſiderio ditai coſe? NAT. Lo sforzo, o lo ſtudio de'mortali per conſeguirle. An. Buui alcuno inganno de gli appetiti intorno al bene, come ui é l'ingan no dell'intelletto intorno al uero? NAT. Grandissimo. AN. Et come ſe il bene e cosi conforme all'anima? NAT. Non hai tu udito poco di ſopra, come l'anima era d'intorno al uero, opure anco il ue to le era molto conueneuole, et proportionato? AN. Ben'inteſi, che la cognitione del uero era molto confuſa, riſpetto alla fantaſia. A'R. Cosi é. Et di nuouo ti dico, afferino,che ogn'uno confufae mente apprende un bene,nelquale par che l'animo s’acqueti, et quels lo deſideri,mapoi da gli appetiti traportato (come prima era l'intele letto dalla fantaſia ) e aquegli rivolto ſmarriſce la uera strada di quel bene, al quale ciaſcuno digiugner contende, moſſo dalla interna forza della Natura. Et in quella ſtrada,orapiù lentamente, ora più. velocemente camina, troppo è meno amando, et deſiderando quello, che con miſura dourebbe amare,ò defiderare. Indië nata la ingorda uoglia delle ricchezze, lo sfrenato appetito dei piaceri, vtalbora la pigritia, om negligenza dell'ocio; &deſiderando altrilapropria con ſeruatione, s'inganna, credendo,che il bene altrui,ſia la ruina ſua,oue ro temendo di perder’i ſuoibeni, fauori,gratie,amiſtà,onori,o lodi, ſi muoue alla ingiuria,alla inuidis,alla uendetta. Et di qui naſce quello di che tutto di ſi contende fra' mortali, il giuſto, lo ingiufto,ildouere, l'equità, l'utile, oaltre coſe, che ſono cagioni di liti, o di conteſe Per il diletto adunque, & per il comodo, ciaſcuno ſi muoue à fare. Et benefarà quello, alquale ogni coſaſi riferiſce, ouero ſiriferirebbe, • perragione, o per appetito, o per natura.Et ciò cheopera, difende, conſerua,accreſce,accompagna, ſegue,ordina,et ſignifica il bene,bene ſi chiama, operò la felicità, o tutte le parti ſueſarannobuone, a le uirtie ſopra tutto ſono benidiſua natura degni,bencheàmoltinon ſono cosi apparenti. Ilpró,l’utile, il piacere ebene, perche l'utile ė mezo di conſeguire il deſiderio, oil piacereè moltoalla natura cona forme. A N. Fermati un poco, & dimmi,come non eſſendo beni cosi apparenti le uirtù de coſtumi,gli huominiſieno uenuti in cognis tione di quelle: AR. Credi, ó Anima,che ogni maniera di bene, che appare à gli huomini, éſimiglianza di quel bene, che non appare,e chi uuole drittamente giudicare da coteſti apparenti beni, potrà ris trouare la uia di peruenire alla cognitione di quegli, cheſono in ſebe ni, o che fanno la uera, es ſola felicità,più deſiderata,che conoſciu taima non ſta bene ora difiloſofare intorno a tal coſa. Baſtiti, ch'io ti ritruoui la uia, per la quale gli huomini ſono andati a ritrovare i beni dell'animo, o le uirti interiori. Dicoti adunque, che uedendo i mortali nel corpo umano molte buone conditioni, hanno congetturas to, ancora nell'animo ritrouarſi alcune ottime qualità, à quelle del cor po in qualche parte conuenienti. Dimandane la Natura, quali ſieno le doti del corpo,che tu ſaprai da me poſcia quali ſienogli ornamenti tuoi. AN. Dimmi ò Natura, fe egli ti piace, diche beni adorni tu i corpi umani? NAT. Prima diſanità, o di forza,poidi bellezza, O d'integrità diſenſi. An. In checonſiſte la ſanità? Nat. Nels la. la proportionata meſcolanza degliumori principali, enell'uſo di ej 14,6 queſta proportionata meſcolanza, ueramente ſipuò chiamare una egualità ragioneuole. ART. Credi tu, o Anima,di eſſer’al corpo inferiore? AN. Non già. ART. Credi adunque, che in te eſſer deue una certa egualità. Il cui ualore conſiſte nell'uſo. A N. Quale uuoi tu che ella ſia? AR. Quella che Giustitia ſi chiamna,fers ma, o coſtante volontà di render a ciaſcuno ilſuo. Ma che dici tu delle forze? NÅT. Dico, la gagliardezzaeſſer’una uirtù del cor po,poſta nel potere à ſua uoglia abbattere,atterrare,et uolgere ogni alieno impeto con leggiadria. AR. Bella, aneceſſaris uirtù neli aa nimo. Perqueſto giudicarono ifaggi,eſſer la fortezza, laquale reſis ſtendo à gli impetidella fortuna,ſola nė"ſuperbanel bene,ne uile nelle auuerſità ſi dimoſtra, &fola guida nella militia della uita mortale uin cendo,glorioſamente trionfa. NAT. Che dirai tu della bellezza del corpo, laquale è una proportione di membra, o di parti tra ſe ſteſ fe, o col tutto conuenienti dauiuacità di colori, et gentil gratia acs compagnata? AR. Tumi dipingila temperanza dell'animo,laqua le in ſe ſteſſa raccolta, ecompoſta,inuera, o proportionata miſura conſiſte, tanto può di dentro,che di fuorinel corpo il ripoſato, o quieto penſiero uedi, dolce, ogratioſa maniera ſi conoſce, & quafie una conſonanza di tutte le conſonanze. NAT. Che coſa trouerai tu nell'anima,conformealla integrità dei ſenſi, come alla bontà della uiſta, alla perfettione dell'udito, « al uigored'ogni ſentimento? ART. La prudenza, la quale consiste in saldo, o sincero conoſcia mento delle attioni umane: A N. Egli mi pare, che io ſia da Dio creata à fine, che le coſe mie fieno ſcala all'altezza di quello. AR. Che penſitu altro, ò Natura? NAT. Nulla, ſenon che conchiudo frame, che gli huominiſi ſieno aueduti delle uirtú interiori per le qua lità eſteriori. AR. Senza dubbio, a molti anche ſi ſono ingannas ti, oper una ſimiglianza, che hanno le uirtù con alcuni uitij, se lo Cangiando il nome hanno detto chela tardezza ſia moderata pruten za,la liberalità ſia la larghezzaſenzamiſura; e cosi all'incontro il prodigo ſia liberale. Et non hanno conſiderato, eſſergran differenza tra il ſaper dare, er il non ſaper conſeruare.Et queſto è quel ueriſimi le nei beni, che muoue ſpeſſo lementi, ogli appetiti umani. Orain brieue l'ordine,l'ornamento,e la coſtanza delle coſe handimoſtra to le uirtù, ou appreſſo la concordanza di tutte le operationi, o la grandezza, che le ſopra feſteſſa inalzają si come in ogni arte, com in ogni scienza biſogna hauer’alcuna coſa manifesta, e chiara, dalla quale da prima ella naſca, o s'augumenti,cosinella felicità, bed ta uitaſi richiede, euidentefondamento,preſo dui benimanifeſti à i ſen ſi umani,dalquale s'argomenti il uero, ottimo fine, operò dalle predette coſe ſiſtima,quella eſſer felicità, che con proſpero corſo tracorre,tutta diſeſteſsa, tutta di ſua uoglia, tutta piena,tutta d'ogni parte abondeuole, ocopioſa, eyd'intorno à tai coſe ricordati ſeme pre della diffinitione, da unaparte conſiderando, che coſa é bene,di! l'altra diſtinguendo quello che é del corpo, da quello, che é del’ani mo, e come ciaſcuno in molte parti ſi diuide.perciò che cosi ne trar: rai quella abondanza di coſe che tuuorrai,doue meritamente la pres detta parteſi può dar tutta alla inuentione, laquale e il fondamento della noſtra fábrica. Partidoadunque tutto quello cheſotto il nome di bene, ò uero, ò apparente ſi conciene, trouerai la felicità con tutte le ſue parti,o trouerai, che'l fuggire dal maggior male,ſia bene, et l'acquiſto delmaggior bene, « il contrario delmale; & queſto, pera che molti s'affaticano, e che i nimici lodano alcuna fiata.Et che ſifa ſenza incomodo, feſa, fatica, ò tempo, ſe é diſiderato; ofinalmente tutto è bene,uero, apparente, v dubbio, quello che uiene deſiderato. AN. Che dirai tu del piacere? AR. Grande ueramente è la fore za del piacere, & del dipiacere, percheſin da fanciulli ſi uede, che il tuttoſi fa per tai contrarietà. Et s'io uoleßi pienamente ragionarti, io non finirei cosi toſto, però di eſſo alcune brieui ſentenze io ti pros pongo,dalle quaiſe ne ritrarrà quella ſimigliäza di uero, che in tai be niſi può trarre. Dicotiadunque,che quelle coſe grate ſono, dipid= cere,che ſono alla natura conformi,come hai diſopra ſentito; pero à ciaſcheduno grato ſarà quello,à che eglidi natura ſua ſaràinchinas toje per la medeſima ragione,foaue,et gioconda coſa é la conſuetudi ne, come quella chemolto alla natura ſi confaccia. Perche quello, che speſſo,et per lo più ſifa, è molto uicino a quello che ſempre ſi ſuolfa re. Caro e quello,che non ſi trde per forza,perche la forza é contra natura, onde i trauagli,lecure, e ogni maniera diſtudio, odi pens ſiero,che turbi la quiete dell'animo, perche é uiolēto,arrecca moleſtia o diſpiacere. Seforſe la conſuetudine non l'ammolliſce. Cosi per con trario il diletto, il giuoco, il ripoſo,la ſicurezza ilſuono, et la rimeßio ne, come coſe di ogni neceßitá lotane. Néſolo col ſenſo uicino ſiprende piacere delle coſepreſenti, ma con la memoria,con la ſperanza,del lequali una riguarda le paſſate, l'altra le future. Lepaſſate apportano nella ricordatione aſſai diletto,perche la imaginatione le fa quaſi pres ſeriti, e ſe erano graui, o noioſe, con lieto, o piaceuol fine fatte ſos no dolci, eſoauile coſe buoneche hanno à uenire nello ſferare con fortano, comele preſenti nel goderle,ouero nel imaginarle, ilche ſuos le à gliamantiuenire, iquali non hanno ripoſo ſenon quanto penſano alle coſe diſiderate. Lauittoria ė foauißima coſa, ó lo auanzare il compagno, or però ogni maniera digiuoco ſuol dilettare la caccia, l'uccelare, la peſcagione, et appreſſo l'onore,ogni gratitudine, ogniri uerenza,inſin l'adulatione piace infinitamente. Lo imparare ancora é coſa piaceuole, onde la imitatione delle coſe è giocondiſſima, tutto che le coſe imitate non dilettino, perche nõ la coſa eſpreſſa,malo sfor zo, e il contraſto dell'arte ſuol dilettare. Indi è nato, che la pittura, le statue,o l'opre finte aggradano chi li mira. Ne più ti uoglio af faticare,o Anima,in dimoſtrarti,quello cheda te, et in te prouerai ef ſendo con eſſo il corpo.o quanto ti fia dipiacere il dominar’ultrui il comandare il ridurre à compimento le coſe incominciate, il veder riu ſcire ogni tua deliberatione, e finalmente tutto quello, che al bene t’indrizzerà,ò dal male ti ritrarrà. AN. Se queste coſe ſono buo ne, come tu di, per qual cagione ſipuò errare nel deſiderarle, nel cercarle? A R. Due mouimenti,ò Anima in te conoſcerai, l'uno de' quali da eſſa Natura riceuerai, e l'altro riporterai teco. Nel primo niuno errore puoi commettere,perche non è colpa tua, che alcuna co ſa ſi truoui,che ti diletti; ma nelſecondo ageuolmente puoi cadere, eſſendo in tua mano il freno di non conſentire cosi à pieno à quella prima voglia&, non riguardare alla ragione, che con certo conſiglio al gouerno de'primi appetiti guidar tidee. Maperche per lo primo, O naturalemouimento gli huominifanno il più delle loro operatio ni però debbonoeſſer ueriſimilmente guidati,o é creduto per lo più, che ciaſcuno faccia con deliberatione quello cheegli fa, ſeguendo il primo inſtinto; néſi conſidera che in teſi truoua uirtá libera, o po tente,dalla quale ognilode, o ogni biaſimo procede. Etacciò che el la ſiapiù drittamentegouernata, eccoti l'autorità delle ſacre leggi, nella quale è poſta la ſalute, e la correttione d'ogniumano errore. Contra le quaichiunquepreſume di opporſi, dal proprio conſiglio abandonato, è dato in preda alle ſue proprie uoglie,e ſottoposto ale la pend, come quello cheiniquo, o ingiuſto ſia. Ora in brieue ti dico, che eſſendo eſſe leggi nelle rep. àgli animi quaſi medicine delle loro infirmità, o rimedijà i loro errori, biſogna ſapere ogni maniera di gouerno,  gouerno, in che eglipiù fermo fia,da che uegna il cadimento di quels lo, et quanti ſienoi contrarij ſuoi,per poteralla cõmune utilità con le Sante inſtitutioniliberamente prouedere. NAT. Matu non dimo ſtri, ò Arte, che alcune leggi ſono eterne, er immutabili, non da gli huomini ſecondo gli ſtati loro ordinate, ma dallo editto diuino, o da me inuiolabili ſtatuite, communi,& uniuerſali à tutte le genti, lequai non più allo Indiano,cheallo Ethiope,eguali, in ogniſecolo, in ogni luogo ſi Sogliono ritrouare, non ne igrandiuolumiſpiunati da' morta li,manel libro della eternità impreſſe,et ſigillate in ciaſcuno che ci na ſce. AR. Coteſte leggi,ó Natura,non ſono ritrouamenti umani, né ſecondo le occaſioniformate, ma eterne, econtinuate ad un modo in permutabile, del quale non tocca à me il ragionare, «pint é quella ch'io non dico di eſſe, o forſe quella equità,dichefpeſoſi ragiona, al tro nonė, che la leggeſcritta nel cuore d'ogn'uno per correttione di quella cheè poſta per commune uolere di ciaſcun popolo. An. Dun que nelle umane leggiſi truoua errore? AR. Nongià, ma ben può eſſereche ilfondatoredi eſſe al tutto non proueda,et chenon conſide ri molte coſe,lequaiperalcuno accidente, come, che molti ne ſieno fanno uariare i giudicij, e in queſto caſo la equità, & l'oneſtà può aſſai, operò molto prudente, oqueduto biſogna cheſia, chiunque forma le fante leggi, « che il più che può tolga il potere à gli huos mini di giudicare da ſe ſteßi. Però cheben ſai, quantopericoloſopra ſtà nel giudicio, riſpetto allo amore, all'odio, e ognialtra perturbae tione umana. Matempo è, cheſi dia fine à queſta parte, perche aſſai sé detto d'intorno alle uirtù dell'anima,e d'intorno alle coſe appars tenenti ad eſſa, si di quelle che allo intelletto, come di quelle, che ape partengono allo appetito. In quanto che elle hanno ſimiglianza del uero, delbene, dj appartengono alla inuentione. A N. Tutto che ó Arte, inanzi à gli occhimiſieno le coſe, che tu m'hai dimoſtras te, hauendole tu ſopra la Natura delle coſe ſtabilite,pur uorrei ſapes re alcunſecreto, come diſopra molti me n'hai ſcoperti, quando tra noi ſi ragionaua delle parti mie. AR. Io non per naſconderti alcu na coſa miſon taciuta, maperche eglimipare, cheda te ſteſſa potrai ogni ripoſte bellezza conſiderare, uedere, che da que' beni che di ſopra habbiamo diſtinti,naſcono treparti principali dello artificio no ſtro. Però che ſe il bene é utile,nenaſce quella parte, che é posta nel conſigliare, laquale ſi uſa neiſenati. Se'l fine è giuſto, quell'altrapare te, che delle ingiurie ciuili,ò criminalitra i popoli fa mentione, felfie ne 1 1 ne é honeſto, allora ampia, o magnifica materia ſipreſta di lodare nelle pompe, et ne i trionfi le opere glorioſe, ma il ualore delgraue, o riputato Cittadino,primanel ben fare,poi nel ben conſigliareſi di moſtra. AN. Diche coſa più ſi conſiglia? AR. Di quello, che: più abbraccia l'utile uniuerſale. Etprima d'intorno al corpo delle uettouaglie, odel uiuere per ſoſtenimento di ogn'uno, odella difen fione per ſicurtà de i popoli, delle ricchezze perſoſtenere la difes Ja. Dapoi delle ſacre leggi, e della religione per ottenere l'ultis mo, o deſiderato fine. ANI. Che ſi ricerca nel conſigliare? ART. Prudenza, beneuolenza, animo, ſecretezza, e celeris, tà nello eſſequire. A N. Gli ineſperti adunque,imaligni, i timis di, i uani, i pigri huomini, non ſono atti al conſigliare: ART. Non già. Necoloro, che non ſanno conſigliare ſe ſteßi. Ma odi: alcuni ſecretidi queſta parte, forſe non uditi fin'ora. Vuoi tu ſapere un modo mirabile di conoſcere glianimi de' mortali? AN. Queſto eil tutto. A R. Sappi,checiò, che ſecreto nell’hkomo ſi truoua, forza cheſia in alcun ſentimento di eſſo,ò di dentro, o difuori.Sentis, mento chiamo ora ogniparte di te ó Anima. Et però uolendo tu ri trouar coteſto ſecreto, tenterai ogni ſentimento, perche quando es toccherai quella parte,nella qualee ripoſto il ſecreto di alcuno, o pia ceuole, ò noioſo,che egli fi fia,ſenza dubbiomanderà fuorialcuniſea gni,comemeſſaggieridelle uoglie ſue,ocon alcuneſimiglianze dimo ſtrerà quello,che egli ſipenſa di haueredétro diſe naſcoſo; aguiſa di una corda chealſegno tirata di un'altra; quandoritruoua la conſon: nanza,ſimuque, a ſuona di pari armoniacon quella.Da queſta reues, latione dipende la uittoria, eu l'onore di chi parla nel coſpetto degli huomini.Etqueſto è un ſecreto ripoſto aſſai, wodegno di penſamento.. L'altro è, che a conoſcereil giuſto, e lo ingiuſto,biſogna riguardas re al fire,alquale ciaſcuna coſa deueeſſer meritamente riferita, pera, che quando ſia, che dal debito fine alcuna coſa ſi rimuoua, allora ne ng ſce la ingiuria,la quale éuna eſpreſſa maniera di ingiuſtitia. Aqueſta ingiuria altri ſono più diſpoſti a farla, che à patirla,altri per lo cons, trario. Et questo biſogna conſiderare per potere in quella parte uas lere, ii cuifinalgiudicio rizuarda il giuſto, o l'ingiuſto. Altri ſes creti ui ſono, ma io mi riſeruo là doue della applicatione ragiones remo, cioè quandoſi dirà il mododi porre le coſe nell'anima. Ma che marauiglia è queſta? doue é gita l'Anima, ò Natura? Perche te ne ridi tu? come ſono ingannata? come tolto mi viene il poter ſeguire E l'incominciato ragionamento? NAT. Aſpetta ó Arte, non titurs bare, toſto merrà, con chi tu habbi à ragionare. Ora uoglio che noi ci tramutiamo, o che cifacciamopalpabili, o viſibili. AR. Che mutationimiusi predicando? NAT. Taci, attendi. Eccomi qui di corpo,e di formaumana. AR, Guardami ancora tu, ch'io ſo no trafigurata,à chimiſomigli tu o Natura? NAT. Io non ſaprei à coſa alcuna ſimigliartijmubene io uedo, che tu hai molto del graue nell'aſpetto, e nello andare, onel uestire,et à pena io ardiſcofiſarti. gliocchi à doſſo. Et mi viene una certa tenerezza di lagrimare. A R. Coteſto é ſegno,che tu mi ami et riueriſci;et tanto più ch'io ti ſcorgo un certo roſſore nel uolto, e ti odo ſopirare. Ma che ti pare de gli occhi miei? NAT. Tu haideldiuinoin eßi,come cheſieno di coloa re celeſte, o di luce penetrante. A R. Et de capelli,chedi tu? delle ciglia? NAT. Quelli ſono neri, a queſte rare, e di oneſta grandezza. ART. Saitu di cheſieno ſegni le predette coſe? NAT. Non già,ma bene ſtimo, che tu t'habbifigurata in quel mo do difuori,che tuſei di dentro, cioè piena d'intelletto, edi capacità ftudiofa delbene,folerte,er ſuegliata comeſei. A R. Tudi il ues ro, e dipiù il naſo aquilino, le orecchie egualiil collo brieue, il pete tolargo, le ſpalle große, le braccia, le palme, ø i diti lunghi, tuttiſou no ſogni euidenti dello eſſer mio. NAT. Ma tunonſei peròtroppo grande,bencheiltuo mouimento ſia tardo, elo ſtarediritto, chedie moſtrino te manſueta, umana, a piaceuole. Ar. Se non fuſſe il mio continuo penſamento, mi uedreſti ancora più allegra. Ma guarda quantiſtrumentiadoperar mi conuiene perporre in opra quello che io nella mente diſegno. NAT. 10 ſono dite più ſemplice, o piis ſchietta comeuedi. AR. Tu mifai ridere con tante mammelle. NAT. A punto io fo ridere ogni coſa per tante mie mammelle, pero che credi tu, chelefemine, noni maſchi habbiano tai parti? AR: Perche le femine ſono quelle chepartoriſcono, però biſo gna, che come eſſe danno la uita, cosi diano il notrimento,etperò han no le dette parti come iſtrumenti della nodritione. NAT. Quans te adunque nedebbo hauer’io, eſſendo madre dituttele coſe? AR. Tu hairagione,ma chi é quel giouane cosi bello, che incontro ne uie ne? NAT. L'anima,che poco dianzi era ſola,ora è accompagnata col corpo. AR. Chemiracoli fai tu ò Natura? NAT. Credi tu Arte ſapere ogni coſa? AR. 10 fo bene quello, che credo, ſo che le genti non crederanno queſte mutationi, che tu o io facciamo. NAT. E LO QVENZA. NAT. Pochi ſono i ueri Sauij., però non diamo orecchie al uolgo. Eccoti il deſiderato aſpetto, conſidera o miſura le parti fue, che ria trouerai bella,o proportionata compoſitione. Ar. Che carne gen tile, odelicata, non però troppo molle, guarda chedignità,che maa niera chefronte allegra, « ſignorile,chipotrà dire che egli nonhab bia ad eſſere pieno di coſtumi, o d'ingegno? NAT. Ben ſai,che io gli ho la promeſſa ſeruata in tutto. ART. Rallegromi ueramen. te, o mi pare, che tu ſeimolto miglior maeſtra di me, ma che nome gli daremo?.NAT. Quello che conuengaà chi lo fece. ART. Io ne ho poco che fare. NAT. Anzi tugli hai dato, & darai il miglior'eſſere;ben’è uero,ch'io ne ho la parte mia, o il mie fattore la ſua. ART. Chiamiamolo dunque DINARDO. NAT. Perche? AR. Perche Dio, Natura, & Arte il donarono. NAT. Tu mi allegri con tal fabrica di nomi. A R. In molte lingue io ho queſto potere, il quale e poco da gli huomini conoſciuto. NAT. Mipiace, ma perche non l'hai tu dacapo a piedi minutamente miſurato? AR. Micuſui lo hauerglidimoſtrato, che la oratione eſſer dee.comeil corpo umano, o hauere principio,mezo, & fine.Etche le partiſue deono corriſpondere à ſejteſe, al tutto con dignità,e decoro? Et si comenel capo ſono tutti i ſentimenti del corpo, cosi nel principio eller deono ripoſti i ſentimentidella oratione. A lui pofciaſtarà di ore dinar la predetta materiafecondo il biſogno, facédolo auuertito, che i teftimonij delle opere de’ mortaliſono le coſe che ſtanno d'intorno à quelli. Et però mi gioua di nominarle circostanze, percioche fa cendo,o operando l'huomo alcuna coſa, ha ſempre inanzi,ò apprefe ſo il tempo,il luogo,le perſone, il modo, ilfine, le quaicoſe fanno fede ſe l'operaſua è buona, orea. Da coteſta conſideratione, ſi ſtima chi ragiond, e con chi,ſe è la occaſione di dire ſe in questo, o in quel luo, goſtarà bene di parlareſe ilfine è buono,et altre coſe,alle opere ap pertenēti. Ma tu gratioſißimo Giouane, che con tăto fauore delcielo ſeinato,ti ricorderai tu quelle coſe che dette habbiamo fin'ora? Non titurbure,cheio ſono l'Arte, e queſta è la Natura,con la quale tu, eſſendo Anima ragionaſti. Din. In che maniera ſono le coſe ſchiette, oignude, oin che forma ſono le compoſte,che cosi uiſiete mutate, piacemi di hauerui riconoſciute, o cosi uiaffermo di ricordarmi di quanto s'è detto. ART. 1o non mipoſſo ſatiare di guardarti. NAT. Che giouanezze ſono queſte? ART. Non ti dolere, o Natura, che la bellezza delle opere tue ſia da me riguardata con E 2 marauiglia. NAT. Poi che io à tale fon uenuta, che pienas mente ho ſatisfatto al deſiderio tuo, e chef Anima pronta s'è die moſtrata, comincia tu ancora ò Arte ad inſegnarci ilmodo, col quale applichiamo le coſe all'Anima. Et perché non più aſtratte ſiamo,ma compoſte,però voglio,che con le eſperienze degli ingegni altrui, eo con glieſempi, cheſono oſtaggi della verità, e con l'uſo quotidiano, tu ti rivolga à darci ad intendere la forza di L’ELOQUENZA UMANA. AR. Cosifarò. Ma tu ò Dinardo, preſteraimi udienza, enon las ſciare à dietro coſa, ch'io ti dica. Marauiglioſae ueramente la forza ola virti di LA FAVELLA UMANA. Perciò che oltre alla intentione de i concetti e delle uoglie di uoi mortali, che per essa si fuole con besneficio univerſale, &euidente diletto appaleſare, non é in uoi ſentismento alcuno, l'appettito del quale non ſia da quellafieramente eccia tato, e commoſſo; a chi uoleſſe di ciò prender debito argomento. ogn'hora,che ueniſſe bene, riguardando à i modi, cheſiuſano tra uoi, ritrouerebbe le coſe à i sensi ſottopoſte alcuna uolta effere di minor uirtù in muovere ciaſcuna il ſenſo ſuo, che IL PARLARE, qualhora egli fia con bello, efficace, es maeſtreuole modo formato, o fabricato, o appreſo doppo alcuna più profonda consideratione, conoſcerebbeese fere QUASI INFINITO IL VALORE DI ESSO PARLARE,come che ſolo allo intellets to dimoſtri la ſoſtanza, ela ragione delle coſe, it che à niuno altro sentimento, quantunque la Naturaſempre atutti liberaliſima ſtata fia,né é,në fu, nefarà conceſſo già mai. Quante cofe del cielo, quante delle intelligenze, quante del divino PER MEZZO DELLA LINGUA, ſenza l'aiuto de gliocchiò d'altro ſentimento ſi fanno? Il parlare èſolo dimoſtras tore della ſoſtanza, IL PARLARE E SOLO PER UNIVERSALE MINISTRO DELL’ANIMA, IL PARLARE E SOLO STRUMENTO DELLA RAGIONE, ma onde é o Dinardo, che ne gliquenimenti, et ne gli atti degli huomini tanta forza discens da NELLE PAROLE? DINARDO. Credo ueramente, cheeſſendocidato da eſſa Natura IL PARLARE, come tu dici, affine,che LE NOSTRE BISOGNE, I NOSTRI PENSIERI ALTRUI MANIFESTIAMO, gran potere in quella FAVELLA debeba eſſere, la quale da uero, &ſaldo intendimento, e da sforzes uole diſiderio procedendo, tale difuori apparirà, quale di dentro nele l'animo dimorando ſtaraſi. ART. Ben di. Eſſendo adunque le pas role come oſtaggi delle uoglie, o de concetti, bifogna, come tra’ sis gnori auiene,dare gli oſtaggi alle perſone conuenienti, e però prens dendo noi DINTORNO AL PARLARE quelmiglior partito, che ſi conviene, soglio,che picde inanzipie mettendo or, gentilmente più oltre pafé fando ritrouiamo le maniere, egli ASPETTI DELL’ORATIONE, oconfia deriamo quale PARLAMENTO à qual coſa, età qual perſona fi conuenga. DINARDO. Di, ch'io t'aſcolto. AR. Non è dubbio, che riportando IL PARLARE per gl’orrecchi alle anime de gli ascoltanti, la forza dello intendere, o del volere, bisogna in questo viaggio dar mouimento,et modo ad eso PARLARE. Perciòche lo intendimento ó la uoglia nell'anisma ſi ripoſano, o iui come nel ſuo caro nido dimorano, ne ſi potreba bono da quello senza ragione, et artificio, dipartire. Al che fare accõa ciamente uoglioin prima che in ciaſcuna forma, o maniera di L’ORATIONE ſi truoui IL CONCETTO DELLE COSE INTESE, ca DESIDERATE , il quale par oraſia detto, ey nominato SENTENZA. Appreſſo uoglio, che ci sia lo artificio dileuare LA SENTENZA dall uogoſuo, & là doue farà biſoagno, leggiadramente portarla, perche SIMIGLIANDO LA SENTENZA AL RISPOSO E ALL’ANIMA, diremo, che l'artificio sia la machina, il modo conueniente di levare il peſo della SENTENZA dalla MENTE umana Ma perche si vede, che l'anima usa le forze sue, oadopra il corpo come strumento, però à ciaſcuna forma di LA ORATIONE appresso l'artificio, Ry LA SENTENZA, le ſidarà PAROLE, e uoci, per mezo delle quali potrà l’anima delle sentenze la ſua uirtù, le forze ſue gentilmente ad opearare. Ma perche aspetto alcuno non si potrà vedere, oueſieno le pare ti, la compositione di eſſe, IL COLORE, i contorni, oifinimenti del tutta, desidero condonar alle parole i suoi COLORI, il ſito, o le parti qua ſi membra, o i ſuoi termini, accioche altri allo aspetto, o alla forma conosca quali oſtaggiſienodati dall'anima DEI I SUOI RIPOSTI E SECRETI INTENDIMENTI. Chiameremo dunque i colori FIGURE, le parti membra, il ſito compositione, il finimento chiuſa o termine della oratione. Et perche uan a fatica ſarebbe la noſtra, le haueßimo folamente formasto si bella creatura affine che ella ſifteſle, népunto ſimoueffe, pexo come uiuo s'intende quel corpo, cui mouimēto e conceſſo, cosidaremo AL NOSTRO PARLARE il ſuo paſſo, ò uero il ſuo corso, il quale ſifarà col ripofo di alcune parti, e col mouiméto di alcune altre, come farſi vede ne gl’animali, o perche con altro mouimentoſi muoue uno adirata, con altro un manſueto, o altro é il paſſo d'huomo graue, & atteme pato, altro d'un leggiero, & ancorafreſco di età, però nello spatio, per lo quale haverà da correre, o caminare LA ORATIONE, uoglio che ſi conoſcaogni interna qualità delle cose perlo mouimento, e per lo rispoſo di LE PARTI DEL SERMONE, ewe perchedi sopra habbiamo dato à cias fcunaparte il nome che à formar UNA MANIERA DI PARLAMENTO ſi richies de däremo ancora à queſta ultima il nome ſuo, si ueramente che il riposfo, yo il mouimento delle parti ſotto uno steſſo uocabolo ſi rinchiuda, poi chiamato fia ó Numero, o numeroſo componimento. Din, Qual Dedato potrebbecosi belle figure, a fare, adornare, come fai tu ò Arte! Raccolgofin tanto quelloche io ho da te sentito fin’ora, odi * co,che tu uuoi, che LA ORATIONE habbia una qualità, che conuenga alle cose, o alle perfone soggette, o queſta iſtessa qualità, formaá maa inierazò guiſa dimandi. Ari Cosie, DINARDO. Tuuuoi appresso, che ciaſcuna forma primieramente habbia la sua SENTENZA, che altro non è che il concetto della cosa, dapoi l'artificio, che é il modo di les uarla dalluogo ſuo, ne queſto ti baſta, a però uuoi ire grandamente fi conſideri con quai PAROLE si posſa pixi acconciamente RAGIONARE, a esprimere la OCCULTA uirtù delle SENTENZE, diſponendo quelle PAROLE, e dando loro iſuoi COLORI, o finalmente rinchiudendole in alcuni termini accio che ſieno alla SENTENZA eguali, come l'Anima à tutto il cor. Spo, oaciaſcuna parte dare il fuo numeroſo, e MISURATO mouimeto, che col ripoſo, o con la uelocità del tempo preſente ſi miſuri. ART. Cosi u'ho detto DINARDO: Ogni coſa mi pare d'intendere ragioneuolmente, ſolo che tu uoglia dichiararmi alquanto d'intorno a questo numero ſo componimento, che NvMERo hai nominato. Et io fon diſpoſta àfarlo, sueramente, ch'io uoglio prima partitamente ragionare, ego distinguere le maniere, e le forme predette, decioche tu fappia il numero dici aſcuna determinatione. Dico adunque, lapris smaguila, esla prima formadouer eſſere la LA CHIAREZZA, la quale ſotto dife contiene la PURITA, o la ELEGANZA del DIRE, anzi più presto da queſte maniere ne riſultala cagione, che nel primo luogoſi riponga queſta forma perche niuna coſa più ſi ricerca, ò ſi diſideradachi jagiond, cheil laſciarſi intendere, il che altramente non ſi può fare fenzá LA PURITA DEL DIRE, la mondezza, la quale oggi uoglio, che ELEGANZA fi chiami da noi. Ma percheſpeſſo auiene, chesforzans doſi alcuni di eſfer’inteſi, cadono in forma umile, ego dimeſſa molto les cuando, otogliendo della dignità, della grandezza del PARLARE, però appreſſo la predetta forma,fi'dirà della grandezza, o GRAVITA DELLA ORATIONE, quale damoltealtre forineprocede, che ſono ques ste, Mueftd, Comprensione, Asprezza; Veemenzt, splendore, viuacie tài boppo LA CHIAREZZA, e la grandezza del DIRE a me pare che ſi conuenga conoſcer’un'altra forma; ta quate tutto il corpo della os ratione con la conuenienza delle parti, ornamento, osgratia recando, bella, en miſurata ſimoſtra, v però mi gioua di nominarle Bellezzi, alla quale un'altra formaſi darà, uolubile, preſta, perche tèggiaa dramente ſi muoua, leggiadramente dico a fine, chene troppo sciolta, né troppo legtta ſiueggia. Et ſe la chiara, a la grande, e la bella, o la veloce forma sono tanto richieste, quanto previ dá te ſteſſo cona ſiderare che diremo noi di quella, nella qual ſi dimoſtrano imodi, i coſtumi delle persone? Et diquell'altra, chefa credere ogni coſa, che fi dice esser uerissima? Certo non meno queste, che quelle esserticare deuriano, quando in queſte sta ripoſta ogni riputatione di CHI PARLA; et ogni credenza delle coſe, cosi uoglio nominar quella forma, la quae le ſecondo le nature, & gli abiti delle genti ua ragionando ſotto della quale è la ſimplicità, la giocondità, o l'acutezza; e quels l'altra ancora, che uerità ſi dimanda, ſono forme, ſenza le quali morta, e spenta ſarebbe la oratione. Et in queſto numero ſono chiuſe le maniere, o le guiſe, delle quali alcune haueranno le loro ſentenze, &i loro artificij, e l'altre parti diſtinte, es ſes parate dalle altre; alcune comunicando inſieme, ſi confarànno, o nelle ſentenze,ò nello artificio, ò nelle parole, ò nelle figure;o nel reſto, cos me chiaramente uedrai. Queſte uoglio, chetu da feſteſe, come ſemplici forme riguardi diſtinte l'una dall'altra. Perciò che non quel lo cheſitruoua, maquelloche può eſſere, uoglio che tra te medeſimo rivolgendo conſideri, e ciaſcuna forma, come tale, ew tale conoſchi. DINARDO. Io t'intendo, Tu vuoi, ch'io sappia considerare ogni guisa di ORATIONE in se stessa, onde poi a scelta mia io possa questa con quella, et quella con altra meſcolando, di più ſemplici formarne una bella coinin poſitione. AR. Che credi tu, che uaglia poicoteſta mescolanza, che nella purità ritenga grandezza, a peſo, nella ſemplicità, forzkiego fplendore, et habbia nella grandezza del bello, e diletteuole, mache afþramente piaceuole, e piaceuolmente aſpra ſi dimoſtri, pungendo; gungendo, comeſi dice ,ad un'horafteli, & facendo, chequello, che è nelle sentenze ampio, o ripieno, ſia nello artificio ampio, ad leggida dro? Et in tal modo accompagnando le figure d'una forma con le PAROLE d'un'altra, di più contrarij (coſa alla natura medeſima riputatd. impossibile)farne una amore uole fratellanza, onde poiqueſto genes roſo accozzamento di coſe repugnanti empia ogn’uno di marauiglia. DINARDO: Non mi accender pir di gratia, diquello che io ſono, cos minciami oggimai à formare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del PARLARE. DE Ï Ï A parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenel l'Anima, al. tra parte è quella che apprende la ragione, alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nella Natura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DINARDO. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondo la occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intorno al Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il bisogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcuna bella cosa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla ad IL ARTE DEL DIRE, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona, grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre sanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua. Il ſimile fa queſt'arte, d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla, ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata, cosi queſt'arte opra con l'anima, e con le parti sue con le forme del PARLARE. La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo, con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quell ſentimento, che prende iſuoi ris medij, il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità del ſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla natura aborrita. Et finalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiosa FAVELLA, non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo numeroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle PAROLE, o delle SENTENZE, paſa,e penetra per ogni parte dell'anima, deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota, onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che del sentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che LE PAROLE più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua il tutto eſſere alla natura, quanto al ſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte. Et perche tuſappia quello che la natura, a quello che io ti poßiamo prestare, dico,che la natura ha posto alls cor nelle orecchie il ſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza di IL DIRE; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle PAROLE. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella ORATIONE, si perchefa ORATIONE, e non musica, si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, opera leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero, dolce però, e foaue, SI COMPONE IL PARLAMENTO, oſi lega inſieme il faſcio della SENTENZA, & del'intendimento, fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, conſueto ritorno, più alſuono, che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi, il numero de' quali ufae to, e conoſciuto, più dall'arte, che dalla natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'ORATIONE, che OSCURA, cu piaccuole ne rimarrebbe, però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che nasca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'ORATIONE, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente, dichiarando prima, che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo componimento. DINARDO. Queſto ordine à meſommamente diletta, però di cuore ti prie go, che più diſtintamente che puoi, me lo dimostri. AR. La neceßità uuole, che LE PAROLE ſieno pari alla SENTENZA, perche à queſto fine ſi ragiona, comeſi è detto, accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori, doue mancando o accreſcendo PAROLE, o il CONCETTO interno non ſarebbe ESPRESSO, come nella mente dimora, ò IL PARLAR ſarebbe ociofo, ò mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita O terminata, però debbon’eſſer finite, os terminate in quantità LE PAROLE, che  dimostrano. La qual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo il quale altro non ſarà, che pieno o perfetto abbracciamento del LA SENTENZA. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef LA SENTENZA, puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti di LA SENTENZA;  a ciaſcuna parte é composta di PAROLE, oſi chiama Membro, o Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuo fine, e il ſuo mezo, o il corpo medeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, o terminato. In tutto queſto spatio adunque, che è tra il principio, il fine di ciaſcuna parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa, che s'è detto chiamar ſigia ro, ė forza, che la lingua alcuna uolta s'adagi, o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno, oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo la qualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento, miſurato col tempo di IL PROFERIRE, para toriſce il numero, del qual ragioniamo, uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, o molto piu nel fine, che nel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi che nel mezo.Et perche di eſſo Numero gl’orecchi fanno giudicio in quanto al sentimento del piacere, o del dispiacere, per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi, ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene, in parte dico, perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero. Però cominciando a trattare di LE FORME DEL DIRE daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroueremo quello che con ragione ſfarà dimostrato. DINARDO. Molto bene auif di far mi capace di questa magnifica o illusſtre compoſitione; però ſegui, che con maggior deſiderio, che prima, fono apparecchiato di aſcoltarti, perche mi pare, che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La prima forma e nominata CHIAREZZA, la qual nasce da purità, og da eleganza, come s'è detto. Pero essendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti, ſi dirà delle parti fue, & prima della mondezza opile rità, poi della scelta, o eleganza. Deefl dunque dare alla purità del dire quelle SENTENZE, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno bisogno di piu consideratione,come per lo pia fono, o effer deono le narrationi delle co fe, come qui. Leggi. DINARDO. Tancredi, principe di Salerno, fu signore affai umano, di benigno aspetto. AR. Eccoti, che senza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno  gegropuò capire ilſentimento della SENTENZA già letta, come ancora in questi uerfi. Leggi. DINARDO. Io son Manfredi, nipote di Costanza Imperatrice. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la SENTENZA delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenza fottoposta, pur che partitamente ſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re non ſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi dicesse. Essendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta SENTENZA non ſarebbe terminata, o finita, douendo attendere a quel io, che segue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento, chi uuoleſſer puro nella SENTENZA, las quale stando nell'anima, dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di modo, ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DINARDO. La quale percioche egli, sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua, s'inamora d’uno uomo chiamato Roberto. AR. Non lascia eſſer pura cotesta SENTENZA, quel trammezamento, che dice, percioche egli,si come i mercatanti fanno, anda molto intorno, o questo adiuiene, perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno, ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi. Delle PAROLE ueramente con le quali ſi dee uestire la purità breue ammaestramento ſi daràperche, tutte le parole, piane, facili, ufitate, bricui, O communi ſono all'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate, le ſtraniere, le lunghe, & quelle, che la lingua pena à PROFERIRE, o l'intelletto a CAPIRE fono dalla purità lontane, però purissime sono queste. DINARDO. Cheà me pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua, & in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca, or in brieue spatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe, le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro, e quella con una catena d'oro tener con le mani. ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le PAROLE adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole, al la purità ſotto poſte, é il dritto,ecco. DINARDO. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino, o ricco huomo. ARTE Et quiancora DINARDO. Aſolo adunqueuago, « piaceuole castello posto ne gli estremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno dee sapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo, Di Aſolo, uago & piaceuole castello poſſe ditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia, doue ſi dice Arneſe, uoce straniera, ancora nello artificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circostanze del castello uago, piaceuole, pera che ritarda il sentimento de gl’acoltanti, oui mette le circonstanze del luogo. DINARDO. Dunque erra chi uolendo cßer puro usa parole non pure, artificio, ò figura d'altra maniera, della oratione? AR: Errerebbe ſe egli credeſſe, otentasse d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non usasse quello che ſi conuiene, ma non erra uolendo alla purità del dire porgere «grandezza o dignità. Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però la purità del dire ha le parti ſue distinte, os ſeparate dalle altre; nė ſolamente il dritto è figura, di questa forma, o maniera, ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprensione della quale ſi dirà poi, ora trattiamo delſito, odella compositione delle parole, Dico nella purità, cs mondezza del dire douerſi mettere le parole insieme con quel modo, che piu uicino ſia al FAVELLARE, uſitae coſenza molta cura, caffettatione semplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna PAROLA di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere, o di ſillabe, accioche la uoce di suono e quale, temperato, non impedito ufciſſe fuori, cosi nella compositione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del sogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lo spirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſua piaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delle parole, della loro diſpoſitione, ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto, o eſce poifuori con alta восс, uoce, riſonante, onde lo spirito di eſſa grande, oſonoroffente, odi laſe guente, ch'é, B. LA B é puraſnella, deſpedita,come è afpra'la C. quando è fine della fillaba, ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce, ſpeſſo, o pieno ſuono, precedendo alla I. @alla E.co. me qui. Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te stesso il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione. Le parti, & le membra, della purità esser deono breui, & ciaſcuna dee terminar'il suo sentimento, non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del popolo, come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano, otrauagliano la lor uia, colſegnodella indiana pie tra, ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo, non Ria lor tolto il potere, & uela, ogouerno, là doue eßi di giugner procaca ciano, ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minore ſpatio raccogliere il sentimento di ciaſcuna para te, oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo, benche le PAROLE fieno ale quanto dure. Leggi. DINARDO. Chino di Tacco piglia l'Abbate di Clugni, a medicalo del ma le di stomaco, « poi il laſcia, L'abbate ritorna, in corte di ROMA, o il rico cilia con Bonifatio Papa, o fallofriere dell'ospedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata, come, qui. Leggi. DINARDO. Pace non trouo, e non ho da far guerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DINARDO. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che il senso è troppo ritardato, o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle SENTENZE, allo artificio, aile PAROLE, alla figura, alla compositione, & alle parti di cſa. Reſta, che ſi tratti del numero, & del finimento, cioè della chiuſa, odel ter mine della SENTENZA,o delle parti ſue. Dico adunque, che nello andare, ego nello spatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce, ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi, one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione, co dal fine, però ſapendo quale eßer dee la compoſitione dele PAROLE, quale il fineztutto quello, che ſotto di queſte partiſ contiene DA AD INTENDER QUELLO CHE SI E DETO,  perche quantoſi ricerca alla com positione si é dichiarito resta che ſidica del finimento ogniſentenza, ogni giro può finire,ò in alcuna parola tronca, o in parola piena, ſienoque ſte parole, ò di due, ò di tre,ò di piu ſilabe, o ancora di una. Le parole pie ne, e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili, o ſalde, oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la vicina, o proſima, però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luogo ſuo. Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſe ſue, aſſai chiaro ofer dee. Perciò che aßimigliandoſi elle al dire cotidiano, fugge il fine del le parole tronche, come ſono quelle andò, corfuftarà, o C. perche le medesime dee nella dispositione fuggire, come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine, che per lo più la natura a’uolgari dimostra, ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, & perfete te, fuggendo le tronche, ole fdruccioloſe, che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare, perche quello cheſi dice, ſi dice per la maggior parte de I finimenti, e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla dispositione riſorge quella miſura, che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque la chiuſa ſimile alla dispoſitione, la diſpoſitione non isforzeuole, ma temperata, enaturale, fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuolo ſarà, à quelle fomigliante. Ben'è uero, che la forza di cia fcuna manierà, e ripoſta piu toſto nelle altre parti, che nel numero, eccetto, che nella bellezza, douc l'ornamento, e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, nella poesia, che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio, doue non biſogna riportandoti a gli orecchi, il giudicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo, quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza. Ma perche questa ſemplice forma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſia qualche impedimento, però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri, con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro, piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplice purità del dire, il qual'aiuto èpiù presto nell'artificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni SENTENZA CHIARA e aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della eleganza, o prima dello artificio, colquale ella lcuar fuole ogni SENTENZA nella mente riposta. AR. La ceeganza e maniera, che porta chiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, dove ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra intelligenza, o facilità, daquesto nasce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna cosa é differente. Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara, oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun sole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire,  leua, o diſgombra, o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori, le figure. L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto, acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DINARDO. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DINARDO. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, & l'altra il biaſimare alquanto altrui, ma prio che dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi il purfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti, Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to, che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante. Leggi. DINARDO. Ma per trattar del ben, ch'io vi trovai, Dico de l'altre coſe, ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in disgratia di Dio, non haur ebbe potuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato. Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di FIRENZE, auuertendo pri ma chi legge, in queſto modo. DINARDO. Mapercioche qualefuße la cagione, perche le coſe che appref fo Rileggeranno, aueniſſeno, non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare, quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe, fatta per le uare ogni impedimento, chepoteſſe offendereilrimanente. DINARDO. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti, alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto, comefoleui, & oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo, non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte, narrandole, ė artificio ſcelto, & elegante, però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DINARDO. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DINARDO. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’al Ciel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai. Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DINARDO. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppo licenza usata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DINARDO. La qual coſa io niego, percioche niuna cosa esi disonesta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſieme posto habbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbia fcufato, ma quelmodo non ha dello elegante, comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DINARDO. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui, come io fo. Altri più maturamente moſtrando di uoler dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamo ſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con le Muse in Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi. Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente, che ſauiamente parlando, hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare, donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui, che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autore ſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,come il primoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni, perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. AR. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle. Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DINARDO. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leua dalla mente ogni ſenienza,oraſi dirà con quai parole più acconciamente ella ragioni, oquesto brieuemente ſi farà.Vſa la eleganza le medeſime parole, che la purità,chiare,piane,natie,o tali,che niuna durezza in eſe ſi truoui. Et perònonſono eleganti,né con eleganza diſposte le parole che dicono, Amen due ſopra gli mal trattiſtracci caddero à terra,&quelle, Non curandofar gli falſ, o quelle che nellapurità dicemmo,Ghino di Tacco piglia l'Abba te di Clugni. Da quelloche ſi è detto delle parole, tu puoi uedere chedalla difpofitione di eſſe,le parti,i finimenti, &il numerononſono dalla purità lontani,anziſonole coſe steſſe. Leggerai,come gentilměteſi sbriga dalle co fe,come brieuemente rinchiuda il ſentimento, come puramente elegga, o temperatamenteſi muoua questa nouella di Ricciardo de' Manardi,otro uerai parole parti, chiuſe,numerio fiti diparole purißime, oelegantisſa me. Ma le figure di queſtaforma fono diuerſe molte, tra lequali ottiene il primo luogo la ordinatione, laquale è unafigura,che da quello cheſi dia ce,dimostra altro ſeguirne, come qui. DÍN. Et accioche quello chemi par difare,conoſciate,oper conſes guente aggiugnere, o menomare poßiate à uoſtro piacere,con pocheparo le we lo intendo di dimostrare. AR. Et ancora qui della fortunaparlando. DIN. Le quai noiſcioccamente nostre chiamiamo,ſeno nelle ſue ma ni, oper conſeguente da lei ſecondo ilſuo occulto giuditio ſenza alcuna po ſa, d'uno in altro,o d'altro in uno fucceßiuamente ſenza alcun conoſciuto ordine da noi,eſſer da lei permutate. AR. Egli ſf ordina, come ſi è detto anco nel proporre di quante coſe fha da dire,con lo auuertimento di dire prima una coſa,o poi un'altra.Il che inquanto abbraccia più coſe,ė Comprenſionedella qualeſi dirà. Main quanto diſpone, acconcia allo intendimento,epuro,eleganteo chiaro.Al trafiguraèſcelta,eelegante,oltra la predetta nominata Partitione, lde quale Afa,quando noi,due coſe è piùſepariamo parlando, come qui. DIN. Et il tacere,oil parlareoggimai mi ſonoegualmente diſcari, perciò che nè quello debbo,ne questo poſſo. AR. In molti modipuòpartitamente ragionare,come qui con mola ti efſempi ſi dimostra. DIN. Tra per la forza della peftifera mortalità, per lo eſſeremol ti infermimalſeruiti,& abbandonati. AR: Etqui ancora. DIN. Et tra che egli s'accorſe, si come huomo, che molto aueduto erd, Otrache da alcuno fu informato,trouò dal maggiore al minore Co. ART. Etaltroue. DIN. Carißime dore,siper le parolede fauijhuomini udite, o si per le cofe da me molte uedute or lette. AR. Appresso le dette figureit ripigliamento è bellißimo colore della eleganza, come quelloche alla obliuione,alla oſcuritafoccorra, in quca ſto modo, DIN: E perche mifogliate immantenente Del ben,che adkor’adhor l’anima fente? Dico che ad hord ad bora, Vostra mercede, iofento in mezo l'alma Vna dolcezza inufitata e noua AR. Et nella proſa, come qui. - DIN. Ilchemanifestamente potrà apparire nella nouella, laquale dl raccontare intendo,manifeſtamente dico,non il giuditio di Dio, maquello de gli huominiſeguitando. · AR. Queſto ripigliamento appreſſo la chiarezza e di non poco peſo alla oratione, come figura molto uicina al raddoppiamento, ilquale è di for za marauiglioſanell'arte deldire,o,òinterpretado,ò interrogado,ò riſpon dendodi ſubito alla eleganzaconuerrà grandemente.Etper contrarioRfan ra nella oſcurità,la quale naſce da confuſione,& diſordine, nel’animofia tà, o ne gli affetti grandementeſi ricerca,perche in eſil'animo dallo ema pito traportato ogni coſa difordina,o la mente confonde. E adunque la confufione alla ſcelta,& elegante oratione contraria,come la meſcolanza, alla purità, da ambedue, cioè confufione, meſcolanza, naſce la oſcurità, come da quell'altre due la chiarezza del dire. Della quale pora uoglio che à baſtazaſa detto,o dimoſtrato.Resta chefi ragioni del la grădezzadel dire,acciò che il pericolo della baſſezza,odell'umilità,che Hella chiarezza ciſopraſta,con l'autorità della orationeſ leui in tuttó. DELLA GRANDEZZA DEL DIRE, prima della Maeſtà. ESSEND'O la grandezza del dire unamaniera, che oltra l'uſato modo di ragionare inalza, ø follicuala oratione, è di neceßità di molte parti compoſta delle quali altre faranno daſe ſteße altreinſieme alcune co fe raccommunando faranno un tutto magnifico, generoſo. E adunque la grandezzafatta dalla maestà,dalla comprenſionedalla ucemenza, dalla ui uacità,dallo ſplendore,o dall'apprezza.La maeſtà, ola comprenſione da ſeſtanno,ohanno le parti loro dall'altre ſeparate.Etperò di clje prima di rò, poi dell'altre partitamente. La maestà del dire é maniera conueniente alle coſe grandi,o Rfa quan do di eſſe con dignità,o ornamento ſi ragiona.Leſentenze ueramentedela la maeſtàſono prima quelleche appartengono à Dio, o alle diuine coſe,co uerità e decoro efpreffe,come queſte.Leggi, DIN. Conueneuole coſa è carißimeDonne,che in ciaſcuna coſa, che l'huomo fa,dallo ammirabile,oſanto nome di colui,ilquale di tuttofufate tore, le diaprincipio. AR.  AR. Dapoi,le coſe appartenenti alla natura umana, come qui. Leggi. DIN. Natural ragione è di ciaſcuno che ci naſce, la ſua uita quantū que può,aiutare,e conferuare, & difendere. ART. Et appreſſo quelle,oue le ſecrete cagioni delle coſe inuestigane do, & dimoſtrando ſt uanno,lequai poco appartengono alla uita ciuile, po co dico, perche alcuna uolta ſi diconoperfare alcuna fede à quellochedicia mo,come qui. DI N. Andiamo adunque,& bene duenturoſamente aſſagliamo la nde ue, che Iddio alla noſtra impreſa fauorcuole ſenza uento prestarle,la citien ferma. AR: La maeſtà è uſata per lo più ne i proemij delle nouelle. Perció che in eßi fi contiene il fine, perlo qualeſi racconta il tutto,& percheil fi ne, per utile,a giouamento de gli huomini ſi ricerca,però di coſe al uiucre appartenenti con grandezza maeſtaſiragiona.Leggi queſto principio, come è pieno di alta,o degna ſentenza. DIN. Credefi permolti filoſofanti,che ciò che s'adopra de mortali, Rade gli Dij immortali diſpoſitione,& prouedimento. AR. Degne adunque di riuerenzaſono le coſe di Dio, però chiunque di quelle altramente ragiona,ė dalla maeſtà del dire lontano, perche chida ramente da te comprenderai,che niuna maeſtàſi truoua là,doue il mutamē to in Angelo, d’un frate ſi narra, &doue in alcuni altri luoghi non ſi dicon no coſe alla religione conformi,con quella uerità e decoro, che ſi conuica ne, &però aliena dalla maeſtà équcũa comparatione, chedice, DIN. Si come eterna uita é ueder Dio, Ne più ſ brama,né bramarpiulice, Cosi me, Donna, il uoi ueder, felice Fa in queſtobreue, efrale uiuer mio: AR. Lo affetto di chi ragiona ſcuſa chiunque parla in tal modo, pere che lo acceſo deſiderio acciecal'intelletto,ela lingua come di ebbri uacil la,ofa dire che gli Angeli aſpettano di uedere il bel uiſo delle amate los rou che la preſenza di quelle adorna il Paradiſo, altre coſe,le quai pe rò ſotto altra form !,che questa ſi riduranno.Sarà dunque ſeuera,o degna, epiena di maeſtà la ſeguente ſentenza. DIN. La gloria di colui che tutto mouc Per l'uniuerjo penetra, e riſplende In una parte più, e meno altroue. ART. Et per la più parte degno e il preſente poema,dalquale aj na turali, co umane,o diuine ſentenze,ſecondo la macià delle coſe leggendo  ne ritrarrai, come qui, DIN. Le coſe tutte quante Hann'ordine tra loro,e queſto è forma Che l'uniuerfo à Diofa ſomigliante. Qui ueggion l'altre creature l'orma De l'eterno ualore, ilqualefine, Al qual'èfatta la toccata forma. A R. Et finalmente pieniſono i uolumi de i buoniſcrittori. Leggi. DI. ciaſcuno, che bene, o onestamente unol uiuere, dee in quan topuò, fuggire ogni cagione, laquale ad altrimenti fare il potere cons durre AR. Et qui, D I N.Manifesta coſa è cheogni giuſto Re,primo oſſeruatore dee eſſe re delle leggifatte da lui. AR. Baſtiti queſto d'intorno alle ſentenze della formapredetta. Ord, con che artificio dal lor ſoggiorno leuareſi debbano,intenderai.Percheadū que piene di maestà ſono quelleſentenze,che di Dio, & delle diuine coſe, delle umane,& naturali, peròfanno con fiducia O certezza è afferman do,ò negando,ſarà l'artificio della maestà. Negando,come qui. DIN. Ne creator,necreatura mai Cominciòci, figliuolfu ſenzaamore O ' natural, o d'animo, e tu'l ſai. AR. Affermando,come qui, DIN. Lo natural fu ſempre ſenza errore Ma l'altro puote errar, per mal'oggetto oper poco, ò per troppo di vigore. A R. Leggi pure,chenon mancano effempi. DIN. Le coſe, che alferuigio di Dio N fanno, deono far tutte nete tamente. AR. Et qui, DIN. Chiunque fouente fa male,egli certamente non é Iddio,& chii que Iddio e,egliſenza dubbio non puòfar male. AR. Laeſpreßione ha gran forza nell'artificio di quella forma com me qui. DIN. Veramente fiam noi poluere eombra, Veramente la uoglia cieca,e ingorda, Veramente fallaceè la ſperanza, AR. Et qui ancora DIN. 57 DE LL A DIN. Nel ciel, che più de la ſua luce prende, Fu'io, euidi coſe, che ridire Nésà, ne può, chi di la sù diſcende. A R. Hanno in queſta forma le allegorie peſo, or forzagrandißima, eperò le ſacre lettere di allegorie ſono ripiene,etutto il preſente poema è quaſi una continuata allegoria,coſa molto alla ſuamaeſtà diprofitto,co d'ornamento, &però la leonza,il leone,la lupa, e tutto quello chein tute ta l'opera gli appariſce,èuna raunanza di allegorie, degna « grande for pra modo.Conſidera come queſt'altro poeta uolendo innalzar le coſe baſe, Qumili grandemente ſi dà alle allegorie,facendo con quelle i cotidiani aue nimenti si grandi apparire che ifatti d'arme, ole coſe marauiglioſe di na tura si grandi nonſono.Ecco, DIN. Quando dal proprio ſito ſi rimoue L'arbor, che amogià Febo in corpo umano, Soſpira e fudaà l'opera Vulcano, Per rinfreſcar l'afpre ſaette à Gioue. AR. Questa grandezza di coſa, altro non uuol dire,ſenon,che nel partiredi un luogo ad un'altro della donnafua, fieramente era il Cielo tura bato da uenti, « da tempefta.Et cosi il reſtante di questo fonetto, omolti de gli altri,che ſeguono per l'artificio delle allegorie,ode gli enigmi, mis rabili appariſcono,à chi gli legge.ENIGM Iſono modi oſcuri di dire, come qui, Fortuna, chi t'intende, non t'intende, Efa chiſei,chi non ſa chi tufa. Tale adunque é l'artificio della maestà. Reſta óra à dirſi delle altre par tijeg prima delle parole.Sono alcune lettere, lequali fanno leparole ampie, e di ſpirito sforzeuole,come la A la 0,però quelle parole, che ſono di tai lettere, odiRllabe di eſſe fatte,ſaranno alla maestà del dire conucnicne tißime,tanto più diforza haueranno,quanto auanzeranno le duefillas be,odi maggiorſignificatione faranne.come qui. DIN. Quel, che infinita prouidenza, o arte, Moſtrò nel ſuo mirabil magistero, Che creò questo, e quell'altro emiſpero, E manſueto più Givue, che Marte. ART. Et ancora in un'altro luogo. Perſeguendomi Amor’al loco uſato Ristretto, in guiſa d'huom, ch'aſpetta guirra, Che prouede,e ipaßi intorno ferra, Di mici antichi penſier mi saua armato. AR. Sono ancora le parole traportate,di grandezza, e maestà mdo rauiglioſa, «perche molti credono il loro dritto pagare,ſe degni, ogran di riputando,poi gonfi fono o freddiper la troppa licenza,cbe piglia no nel trasferire,però alcuna coſa ti ſcoprirò d'intorno alle traslationi, bel lage degna,o di profitto non mediocre. Voglio,che dalla bruttezza del uitio ſpauentatoda quello alla uirtù ti riuolga,o però di quelli dirò, i qua li cosi gonfiamente,o cosi freddamente parlando, come fanno,ſono da ogni ſaldo giuditio abborriti. Alcuni di queſti hanno ardire di fingere,odi co por nomi,oparoleſenza alcuno raffrenamento di conſideratione,chiamar do il Cielo oculoſo,il mare ueligante, la terra granifera, o di queſte s'eme piono ifogli.Altri danno à nomi ſtranieri,dalla antichità rifiutati,nuoui, oſcuri,o di niunſentimento,coſa fpenta,o agghiacciata, comeeßiſono, che uuoi tu più freddo,che'l continuare in fimili inuentioni? Tuſei l'ombra del l'angustia,il diadema della mestitia,un'atto fatale,o si fatti. Peccano mola ti dando ad ognicoſa i loro aggiunti, ilche quando nonſifa per diletto, o con circonfpettione,come per condimento del dire,affettato,inſipido,o rin creſceuoleſ truoua, comeſe in luogo diſudoreſi diceſſe,il liquoredelle car niperlo caldo ſtillato,o non le feſte,ma la celebrità delle feſte,ne i triona fi,ma la grandezza de i trionfi,&alere gonfiezze, ilqual uitio in alcuni ė ucnuto al fommo,o però parlandoeßi più che pocticamente & fuor di të po,fannocoſe degne di riſo, o di compaßione,fono oſcuri &ociofiſatiano, Orincreſcono fieramente.Leggi. DIN. Potrei,poſcia che il vento della licentia datami di ragionare ba tanto inantifpinta la naue del mio parlamentoper l'ampio pelago di si fat ta materia,conducerui distintamente à uedere checoſa è difpofitione. AR. 1o mene rido di tai coſe, guarda quanto meglio ſi èdetto qui nel uerfo, o con più modestia. DIN. O'uoi, che ſete in piccioletta barca, Defideroft d'aſcoltar ſeguiti Retro almio legno,che cantando uarca, Tornate à riveder inoſtri liti Non ui mettete in pelago, cheforſe Perdendo me rimarreſteſmarriti. AR. Ecco,chedi più ampia materia ragionaua il Poeta, & non diffe la naue del ſuo parlamento,o altroue diſſe, Per correr miglior’acqua alza le uele Ormai la nauicella delmio ingegno Che laſcia retro à ſe mar si crudele, Etquandopurepiù arditamenteegli baueſſe alcuna traslatione uſata, dico,che egli era Poeta, o hauea ſotto la penna materia,ſe altra ne è,gră dißima, o d'ogni parte degna; o poteua ben laſciarſi portare(dirò cosi) dal uento della licenza,ma uedi ancora nella proſa in miglior modo ridotta laſopradetta traslatione. DIN. Madonna,aſſai m'aggrada,poi che ui piace, per questo campo aperto Wlibero, nel quale la uoštra Magnificenza ci ha meßi,del nouella. re,d'eſſer colci, che corra il primo arringo. AR. Ma riuolgiti à queste fredde,çocioſe maniere,& leggi, DIN. La real conditione del quale ſaria stata di più felice uita,odi più beata memoria,che uerun'altra mai,ſe il generoſo della bontà di lui,hax uelle men creduto al maligno della fraudealtrui. AR. E' ancora più ſpento qui. DIN. Nel finedelle parole cadendogli giù per le gote alcune lagrie me non men groſſe,che calde, le compaßioni delle ſuepietadi transformaro. no l'ira in manſuetudine. 1. AR. Di che giudicio dotati,di che eſperienza ammaestrati,e di quan ta gratia eſſer deono adornati coloro, i quali uogliono traportare le paro. le nate à ſignificar’una coſa, alla di chiaratione d'un'altra, nonſi può cosi brieuemente eſporre.Baſtiti per tuo ammaeſtramento,che tu fugga le ridic cole,perche ſono de' comici,le gonfie, percheſonode' tragici, le austere dure,perchenon ſono euidenti, & infine quelleche dallalunga ſi uanno tra endo,comeſe alcuno chiamaſſe la ſapienza lo ſteccato della anima, l'acqua loſpecchiodi Narciſo, ò che diceſſe le faccende qui uerdeggiano,o altre coſe sifatte. Biſogna adunque deriuare le parole da coſe facili,& di pres fta intelligenza, con queste i due pocti le loro fittioni mirabilmente innale zarono, delle quali piene ormai ne ſono tutte le carte.Alte parole appreſſo ſi odono quelle del nome,or del uerbo partecipi comeAmante, Ardente,co quelle ancora Andando, Vergognando,percheſono di ampio o largo fpiris to.Et nel loro andare ſonoadagiate graui. Et di queſta ſia detto aſſai. Ora con quai colori, ofigure adornar ſi debba la maeſtà delle parole, ſi di rà,o prima,che alle coſe clgne unafalda confirmatione del proprio gilidi tio, come un fermo tratto di pennello,rileua mirabilmente la oratione.Pere che non è uera grandezza quella, della qualeſi tiene alcuna dubitanza,cu però grande è quella parte. Leggi. DIN. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il commendaui in tutte quelle coſe laudeuoli,di che ualoroſo huomodee eſſer commendato? certo. certo non a torto. AR. Ma quel giuditio,cheſeguc,ė fatto con timore na dubbioſamente te proferito,però non ha del grande,benche al modeſto dire, grandemente fi conuegna. DIN. Che ſe i miei occhi non mi ingannarono,niuna laude da te data glifu, ch'io lui operarla,o più mirabilmente chele tue parole non poteca no eſprimere,non uedeßi. ART. Conſidera quanto togliedella maeſtà di quel ſonetto,che con mincia, Perſeguendomi Amoral loco uſato, quel timido o ſoſpetto giudicio che dice, quella che ſe'l giudicio mio non erra,Era più degna d'immortaa le ſtato, Et tanto più quanto quest'ultimo uerfo non ha quelſuono,che gli al tri hanno.Douea ſenza temenza giudicare ancora questo autore. Leggi, DIN. Et perciò che la gratitudine,ſecondo ch'io credo,fra l'altre uir tùėfommamente da commandare. AR. Perche la ſentenza è degna, a ricercaua un colore,che terminaf se il ſentimento.Nequesta figura ſolamentealla maeſtàſ conuiene, ma tut te quelle che alla purità ſirichieggono,delle quai di ſopra ſe ne è detto afa ſai.Et ciò ſifa,perche la maestànon entri in tumidezza, o cada (diroco. si )in quella infermità che idropiſia é nominata. Le parti, le membra eſſer deono bricui ſenza alcuna lunghezza di giriyil che ſi uede ne'ſauij huomini, iquali breuißimamente uanno raccom gliendo le coſe loro in fentenza, & detti,come oracoli.Leggi, DI N. Giuſtitia moſſe il mio alto fattore. Fecemi la diuina potestade, Laſommaſapientia,e'l primo amore. A R. Et qui ancora. DIN. Iſon Beatrice, che tifaccio andare, Vegno dal loco oue tornar diſo, Amor mi moſſe, che mifa parlare. ART. Etqui. DIN. Gli animi noſtri ſono eterni,perche difuggeuole uaghezza gli inebriate.Mirate uoi come belle creature ci ſiamo,o penſate quanto dee of ſer bello colui, di cui noi ſiamo miniſtre. AR. Inſomma,degno è ilſeguenteparlare in ogni ſua parte. Leggi, DIN. Et queſto altrimenti non ſi fa,che à quello Iddio gli noſiri ani mi riuolgendo,che ce gli ha dati. Ilchefarai tufigliuolo,ſe me udirai, o penſerai,che eſſo tutto queſtoſacro tempio,chenoi mondo chiamiamo,di ſe empiendolo hafabricato. ART. AR. Et qui ancora dicoſeumane. DIN. La uirti primieramente noi,che tuttinaſcemmo, o naſciamo equali,ne distire,o quegli, che di lei maggior parte haucuano, o adopee rauano, nobili furon detti, e il rimanente rimafe non nobile. A R. La diſpoſitione o il ſito delle parole nella maestà del dire dee tal mente ordinarji,che non ui ſia concorſo di uocaboli, onde la bocca ſi apra ſconciamente. Voglio poi,che le paroleſdruccioloſe, con più libertà uilica no,che nella parità, o tal ſuono eſſe legate inſieme diano, quale ft deſides raua,che da ſe steſſo diſciolte faceſſero.Il ſimileſi dice nella chiuſa, o nel finimento,operò il fine in parole manche non deeper alcun modo hde uer loco in questa forma, deſidero la uarietà de' finimenti,o de i princia pi, ma fieno di parole cheauanzino le dueſilabe, oquello cheper la più ſarà tale in tutto il giro, farà il numero, che in queſtaforma ft ricere ca. Leggi tutto il ſopra detto effempio, che ciò chen'ho detto, chiaramena' te wedrai. Et ciò della maeſtà ti può bastare. Eſſendo la comprenſione alla grane dezza del dire comela eleganza alla chiarezza, e eſſendoſi della male stà detto, come di forma, che da ſemedeſima di tutte le ſueparti era cone tenta, nè ad altra maniera, Òſentenze,ò numeri, ò parole, ò artificio, o ale": tra qualità concedeuia,nėda altri alcuna coſa pigliaua, non è fuori dira. gione che ſi dica ora della comprenſione, uera, ounicaforma da folleuare ogui baiſao umile maniera della oratione. Et pero delleſueſentenze fi dirà prima, poi delle altre parti. Le ſentenze di queſta forma,ſono quel le, che chiamano altro ſentimento, o che raccolgono,operò in queſtapar te la comprenſione è oppoſta alla purità del dire,nella quale dicemmo,non eſſer’alcuno raccoglimento. Raccoglimento intendo,quando quello che piis i riſtringe nel meno,come una coſa commune in generale, alla ſpecialità ė ristretto. Leggi, Certißima coſa é adunque,ò Donne, che di tutte le perturbationi dell’d nimo,niuna coſa é cosi noceuole, cosi graue, niuna cosiforzeuole o nio. lenta, niuna che cosi ci commoud,ogiri,comequellafa,che noi amore chia mia mo. Eccoti che la perturbatione è un genere commune ſotto il quale ſi rac coglie l'amore, che è una ſpecie di perturbatione. Raccoglieſi ancora lo in determinato v oſcuro,allo aperto & terminato,comequi. Molte nouelle,dilettoſe Denne à douer dar principio à cosi lieta gior. nata,come questa ſarà,per douere eſſere da me raccontate miſi parano das uanti,delle quali una più nell'animo me ne piace. Et qui ancora molto più lines. $ 9 fi uede per due raccoglimenti. Et come che à ciaſcuna perſona stia bene, à coloro maßimamente éria chieſto,li quali già hanno di conforto hauuto mestieri, & hannolo trouato in altrui.Fra quali ſe alcuno mai ne hebbe,ò gli fu caro,ò già ne riceuette piacere io ſono uno di quegli. Riduceſt tutto il tutto alla parte ſia quel tutto è del tempo, ò del luogo, ò d'altra coſa. Del tempo,come qui, · 10 amaiſempre,ey amo forte ancora. Del luogo ancora, come qui, In Frioli, paeſe quantunque freddo,lieto di belle montagnedipiù fiumi e di chiarefontane,è una terra chiamata Vdine. Suole ogniſentenza, che chiama o ricerca ſentimento alcuno, eſſere di quella forma,o appreſſo tutte quelle che alla purità ſono repugnanti nelle quali ogni circostanza di luogo,di tempo dimodo, oogni accidente, che preceda,accompagni,ófegua,alle coſe ſiſuoleaggiugnere.Come fe egli R diceſſe in queſta guiſa, in sù la meza notte con molti'armati al luogo del le guardieſoprauenne,fdegnato per la ingiuria fattagli il precedente gior no.Ecco checon molte circostanze ſi narra il fatto,oR amplifica mirabil mente la coſa.Come in queluerſo ancora, Giouane incauto,diſarmató, e ſolo. Chiamano altroſentimento alcuni in questo modo, Ma si come àlui piacque,il quale eſſendo egli infinito, diede per legge incommutabile à tutte le coſe mondane bauer fine, il mio amore oltre ad ogn'altro feruente,o il quale. AR. Non legger piùche da teſteſſo poi nel predetto luogo potraiper comprenſione eabbracciamento uedere tantagrandezza di oratione che niente più. Abbracciano alcuneſentenze mirabilmente,o ſono quelle, che la ragio nedella coſa in ſe ſteſſe ritengono,come s’io diceßi,L'ira de'mortali immor tale eſſer non dee,e queſta, Aſai dimanda chi feruendo tace. Et quell'altra. Un bel morir tutta la uita onord. Etſimiglianti. Senza timor uiue chi le leggi teme.: Che il perder tempo, à chi più sàpiù piace. Queste fonole ſentenze,che abbracciano a comprendono, ma l'arte H 2 difolleuareè prima in ogni tramezamento. Leggi, Alla qual coſa fare (come'chein ciaſcuna età stia bene il leggere « l'u dire le giouenili coſe, & c. Etſopra l'altre questa. Percioche non amare,come che ſia,in uoſtra stagione nonſi può, quane doſi uede, che da Natura inſieme col uiuere a tutti gli huomini è dato, cbe ciaſcuno alcuna coſa ſempre ami, oſempre diſii,pure io, che giouane fono, gligiouani buomini,« le giouani donne conforto oinuito. Maggiormente queſti tramezamenti inalzano la oratione comeuedi, i quali uanno meſcolando le ragioni con le coſe, o fanno la oratione ampia ecircondotia, o uſanſiſpeſſo da queſto Autore nelle fentenze baſſe, co me qui, Le quai coſe,quantunque molto affettuoſamente le diceſſe, conuertite in uentocome le piu delleſue impreſefaceano,tornarono in uano. AR. Lo andare per gli gradi raccogliendo,ė artificio di quella fora md, come qui, Figliuola miaio credo,che gran noiaſa ad una bella edelicata donna come uoi ſiete,bauere per marito un mentecatto,ma molto maggiore la cre do eſſere d'hauere un geloſo. Et queſta ancora. Leggi, Drmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DINARDO. Queſto ordine à me sommamente diletta, però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La necessità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno, oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento, miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti essempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole, piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità. Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giudicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera, cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben, ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze, avvertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il simigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda seguita la solutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. AR. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parlamento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. La qual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpo medeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo, uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza, laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno. gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi. Leggi. DIN. Io son Manfredi, Nipote di Costanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella sentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR DEL LOA: ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino, o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo, DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’essere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc  le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C. perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento, chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con le Muse in Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita.  Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima Ειοο ν Ε Ν Ζ Α. dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar sarebbe ocioso, ò mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareva eßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. A solo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta восс,  uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc  le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà, o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, vuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & dell’intendimento, fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia, doue ſi dice Arneſe,uoce straniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta voce,riſonante,onde lo ſpirito di essa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante. Ben'è vero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poi seguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR. Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuadato per ſostegno la grandezza o magnificenza del dire,cosi nella grandezza è pericolo di uſcire in forma che non habbis ornamento, proportione,o peròſe le darà per miſura, o bellezzafua unaforma diligente,accurata,o ben composta, laquale in termini conuc. nienti richiudendo l'ampiezza della oratione,o ſangue, o colore amabi le en gratioſo le donerà,ondeil tutto miſurato, & temperato marauigliofan mente ſipotrà uedere.Questa forma nėſentenze, ne artificio ſeparato dal l'altreforme ritiene,ma ogniſuaforza nelle parole,nelſito di oſſe, ne i luo mi,onelle altre parti e ripoſta.Seperò dare non le uogliamo quellefenten ze, che acuti fono,o diſottile intendimentodelle qualiſi dirà poi. Le paro le adunque di queſtaforma ſono le foaui,leggiadre,bricui, difacile intelli. genza,iſchiette,o con gran circoſpettione traportate. Perciò che le trasla tioni in queſtaforma eſſer deono rarißime, o lefigure di questa miſurata Oben compoſta manieraſono le repetitioni. Leggi, Per meſ ua ne la Città dolente, Per me ſi ua ne l'eterno dolore, Per mefi ua tra la perduta gente. AR. E molto bella eornata queſta figura, os tanto più ha di ornde mento,quantoquello che ſi replica,augumenta,o creſce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende, Preſe costui de la bella perſona Che mifu tolta,e'l modo ancor m'offende. Amor che a nullo amato amarperdona, Mipreſe del coſtui piacer si forte Che, come uedi ancornon m'abbandona. amor conduſſe noi ad una morte. A R. Se alla repetitione aggiugnerai la interrogatione, ſenza dubbio tu entrerai nella maniera forte ucemente comequi. Qual'amore,qual ricchezza,qualparentado baurebbe le lagrime, o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficaciafatti à Gilppo nelcuorfentire, che egli perciò la bellaſpoſa,gentile,&amata da lui haueße fatta diuenir di Tito, fe non coſtei? Quai leggi.Quaimi nacce?oc. AR. Tu da te stesſo poi quanto ornata ſa ducemente queſta parte conſiderando uedrai; tanto più ſeappreſo le dettefigure ancora ui porrai la conuerſione della quale di ſopra s'è detto.Nėti marauigliarefe(una me defimafiguraſia da altrefigure ornata willustrata.Pero che la lingua di queſtiornamenti é capacißima. Laſcia che à fuo modo altri ragioni, tu neſarai giudice,ola coſa iſteſſa te lo dimostra. La conversione adunque è figura di queſta idea, a Rſuol fare quando in quella ſteſſa parola pià membri ſ laſciano terminare,come nello eſempio ora letto. Bella è ancora la ritornatacheſi fa quando la parola cheſegue, comincia da quella in che la precedente finiſce,come qui. Leggi, Di me medeſmo meco miuergogno. Et qui, Et confoauepaſſo a campi difcefa,per l'ampia pianura sùper le rua giadoſe erbe in fine à tanto che, & c. AR. O uero in questo modo. Infiammò contramegli animi tutti, Egli infiammati infiammar si Auguſto, che lieti onor tornaro in tristi lutti. AR. Et ancora il Bifquizzo come nell'uno Poeta ſi dicra Ch'io fuiper ritornar più uolte uolto, Et l'altro. Il fiorir queſte innanzi tempo tempio. Da poi la predetta ui ſono anco altre ornatisſimefigure, come è illoro aſcendimento,ala tradottione o altre. Lo ascendimento R fa quando le parti che ſeguono,cominciano dalle parole medeſime,nelle quali uan tere minando le parti precedenti,con questa conditione che ſi mutino, le cadenze di esse parole. Come qui, Nel dir l'andar,ne l'andar lui più lento. AR. Ouero in queſt'altromodo. Luſca, io non poſſo credereche queſte parole uengano dalla mia donnd, eperciò guarda quello che tu di.Et ſe pure da lei ueniſfono,non credo che con l'animo fermo dire le tifaccia.Etſe pure con l'animo le diceſſe, il mio Rignore mi fa più onorecheio non merito: A R. La tradottione ė figura,che replicando la steſſa parola,nonfolde mente dimoſtra la intentione di chi parla,ma mirabil'ornamento accreſce oue ella ſtruoud.come qui, Laurd, che'l uerde lauro,e l'aureo crine. AR. Molto diligente as accurata figura e quella cheſifa quädo due, • più partifraſecongiunteſi ſogliono proferire.Leggi, Et utile conſiglio potrannopigliare, & conoſcere quello che fa dáfug gire,o che ſia fimilmente da ſeguitare. AR. Et qui, A cui grandi ey rade,o à cui minute pelje. AR. Forza ė,che onunque in una bella,& adornata figura s'abbatta un bel giuditio, egli conoſca es ſenta dentro difealcuna dolcezza; com meſe uno udirà in questo modo ragionare. Riſpoſemi non huomo,huomo giàfui, E li parentimiei furon Lombardi, Mantovani per patriambedui, Nacqui ſub Iulio ancor che foſſe tardi, E uißi à Romaſotto il buon ’Auguſto, Al tempo de gli dei falſie bugiardi Poetafui,e cantaidi quel giusto Figliuol d'Anchife,che uenne da Troia, Poi che'lſuperbo Ilion fu combuſto. AR. Non ſentirai tu per queſta diſgiuntione,per la quale ogni parte ſotto ilſuo uerbo è rinchiuſa,una diligenza gentile del Pocta:si comelà,do we dice, Io ſon Beatrice,che ti faccio andare, Vegno dal loco, oue tornar diſſo, Amor mi molle, che mifa parlare. Et molto piùſe nella proſa detto ritrouaſi A que' tempi che i noſtri maggiorihaueano l'occhio al gouerno di que ſta Republica,eta riconoſciuta la uirtù de'buoni, dauanſ i compenſi dei danni riceuuti per la patria,chi robaua il publico,era castigato; fioriua dia na giouentù dedita alla mercantia, oucro alle lettere, laſciauaſi il facerdos: tio, la militia da' noſtri queſta,per che i cittadini non pigliaſſero l'arme contrafe ſtoßi,quello,acciochefuſſero più finceri i parenti afar giudicio delle coſe importanti. ART. Vedi,che narrando partitamente, oſenza congiugnimene to alcuno, il parlareè ſpedito, la figura ornata, odiletteuole ſopramo do il ſuono di eßa oratione. Al cui ornamento il traportar delle parti di oßa gioua mirabilmente, come quando ſi dice, Al costei foco,alcolei grido. K 2 Giouin Giouinettopoß'io nel coſtui regno. Et qui. Vſate le colei bellezze. In queſto caſo nonf dee di tanto leuar dall'ordine loro le parole, che la ſentenza oſcura deuenti,come diſſe, Che i belli,onde miſtruggo,occhi mi co la, di che èquaſ piena quella canzone. Verdi panni,ſanguigni,oſcuri,operſ. Bello alquanto èquel tranſportamento chedice. Or non odio per lei, per mepietade Cerco, che quel non uo,questo non poſſo. Concedeſ però a ' Poetimaggior licenza per riſpetto della neceßità del uerfo,nel quale ancora più ampio luogo fanno gli ornamenti che nella profa.pure non èche del bello nonhabbiano aſſai quelle figure, che per le negationi affermano,come s'egliſi diceffe, io nol niego, cioè io il confefe fo.Et quella,non è alcuno,che nol creda,cioè ogn’uno il crede.Poi non taca que,cioè parlò, e diſſe. Suole ancora chi fcriue amaggior bellezza circoſcriuendo le coſe, con più parole,quello che conuna può eſprimere come qui, Era giàl'hora,che uolge il deſio, A'nauiganti,e inteneriſceil core, Il di,che han detto à i dolci amici,A Dio, AR. Et cosiA chiama il Sole Pianeta,che distingué l'hore, e diceft. laprudenza di Mario,la fapienzadi Catonein luogo di dire Mario prila dente, o Catone faggio,&éappreßo bella figurala innouatione i com me qui, Parte preſ in battaglia,e parte ucciſt. Et quia Taciti ſolieſenza compagnia, N'andauan l'un dinanzi e l'altro dopo. AR. Ecco come la bellezza ogni formaabbelifce,ne per tanto auenga che ella moltefigure, molti lumidimoſtre,di quelle ſolamenteſt contene ta,ma ſtudioſa del diletto sforza di ragionare uariamente. Là onde per fuggir la fatietà con mirabile artificio è uſata di uariare la oratione. Et questo ſuolfare primieramente doppo molte uoci di piene «ſonore lettere ponendonealcune dibaſſe U rimeſſe.Dapoifuggendo la continuatagiacia tura de gli accentiſopra una medeſimafillaba,ora nelle ultime,ora in quet le,che uanno innanzi adeffe gliſopramette,o di più in mezo delle lunghe le corte parole framettendo gratia &adornamento le giunge. Bella coſa ė si come tra cittadini vedere gli ſtranieri, cosi tra le nostre parole alcuna adirai che alicna fa,o meſcolare le ifquifite con alcuna detle popolari, le BMOWE huone con le uſate, finalmente la elettiöne in queſta parte può aſai, la quale ritrouandofi in ſaldo w ſottilgiudicio, dimoſtra in un'eſſere tutto quello che col conſiglio di molti eletto a ricolto effer potrebbe però non degnale uili,ſcaccia le brutte,fugge le aſpre, abbracciale eleganti ſceglie leſignificanti, o con copia marauigliofa uaria la difpofitione, i të pi,ilnumeroje i finimenti;nė di pari lunghezza formeràle parti delparlaa re,nėripiglierà una'steßa figura,un tempo medeſimo,un modo Amile, una perfona pari,ma quaſi un'adorno pratola oratione di molta varietà fora mando, diletto, o gioia,recherà ſempremai.Leggiprima qui, comeil Poce ta i medeſimi nomi non ridice in uno steßo luogo. Io credo checi credette,ch'io credeßi, Che tante uoci uſciße da quei bronchi, Da genti cheper noiſi naſcondeffc., Però diſſe il maeſtro,ſe tu tronchi Qualchefrafchetta d'una deste piante, Penſter c'hai ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco duante, E colfi un ramufcel da un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche miſchiante. Da chefattofupoi diſanguebruno, Rincominciò à gridar,per che mi ſterpiš Non hai tu ſpirto di pietade alcuno? Huominifummo, oorfemfatti sterpi, Ben douerebbe la tua man più pia, seſtatefoßim'anime di ferpi? Comed'un ſtizzo uerde,che arfo Ria, Dal'un de lati cheda l'altro geme, Bi cigolaper uento che ua uia. Cosi di quella ſcheggia ufciua inſteme, Parole,e ſangue,ond'io laſciai la cima Cadere,e dette come l'huom che teme. A R. Tu puoiuederein quanti modiilPoeta ha uoluto variar leparon ko con quanta felicità egli lo habbia ottenuto. Il che in molti luoghi può in elo uedere.si come là,doue parlando del lago gelato, lo chiamaora ghiaccio,era uetro, ora gelozora groſſo,o duro uello,ora ghiaccio, ora geld ti guazzi, ora eterno uzzo,oragelata,ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda crostázora lagrime inuetriate, &fimili altre parole ufa variando il poema. Il fimigliante hannofatto,fono perfare tutti gliſcrittori di non D B 1 L me. Leggerai mirabili eſſempi della narietà in tanti principij di giornar Odi nouelle cheſono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del ſecondo libro di quest'altro che comincia. Che andiamo noipure tutta uia di molti amanti et diletti ragionando. Maė tempo di ritornar’omai alle altre parti della formapredetta,ope ró d'intorno alle membra dei ſapere chela lunghezza di eſſe in queſtafor. ma èpix deſiderata,chela breuità ocortezza,non però uoglio, che si lo ftremo ti fermi,macon più disteſe parti che nella eleganza uorrei,che leſue ſentenze liportaſjero,che le parole di effe in tal guiſa ſi collocaſſero,et ſ terminajſe queüa oratione,che uariate alſopradetto modoil faſtidio o la satietà ſi fuggiſſe, oin grado ogni sprezzata coſa ci ueniſſe. Il numero al uerfo uicino in questaforma ci uuole,il qual numero primaſarà di quel la maniera,che di ſopra ti ho detto, cioè ripoſo o mouimento, ouero tempo di proferire,ò da poi di un'altra,che ora io ti dimoſtrerò. Perciò chemolto bene all'oratione può dar formanumeroſa et bella, la qualeſia nata da ue na certa neceßità delle coſe ben composte, o conſiderate, come il contra. porre i contrarij, o le coſe diſcordi l'una all'altra con miſura corriſpone denti,ritrouare i ſimiliipari, o altre coſe ſomiglianti à queste,delle quali partitamente e con eßempio ne dirò, Sono alcune membra,ò nodi della oratione,iquali hanno le lor ſentenze oppofte,ma con una corriſpondenza tra loro mirabile temperate. Ilprimo cfſempioſarà di quello che ſi chiama Pare,il qualeſi fa quando le parti che Äihanno à corriſpondere ſono quaſi di pare numero di ſilabe, odi tempi, quafi dico,però che queſta parità di ſillabe, o di tempi con ſaldo intendie mento o giuditiodeue eſſereſtimata, et nõ del tutto pari.L'eßempio di que ſta forma e questo. Dou’elladifonestamente amica ti fu, ch'ella oneſtamente tua moglie diuenga. ART. Nel predetto effempio in duemodi ſiuede effer fatta numero, ſa la oratione primaper la parità delle ſillabe,la quale nelle parti ſi uede poi per la contrarietà corriſpɔndenteperche amica omoglie, ſono contra rij, oneftamente o difonestamente fo:10 contrarij, oppoſti,ſolodi pari ud queſto. Leggi, Quiui à niunoſi cerca inganno,a niunoſifa ingiuria. ART. I contrarij adunque fanno la oratione offer numeroſa,come an cora qui, Et di gran lunga é da eleggerpiù toſto il poco oſaporito, che il mola to o infipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i ſimili ancora cade il numeroſo concento in modochequando in fimil ſuono la chiuſa finiſce,ne rinſulta il numero. Quel roſſore, che in altri ha creduto gittare,ſopra di ſe l'ha ſentito A R. Speſſo auiene,che per fuggire il ſoſpetto di cotesto artificio, la simiglianza de ifinimenti delle parole in mezo delle parti ſi ponga, com me qui, Poi ueggendo,che questoſuo, conſumamento,più tosto che emendamento della cattiuità del marito potrebbe eſſere. Et qui. Che più dispettosamente,che fauiamente,parlando. Molti eſempi ritrouerai da teſteſſo di queste numeroſe maniere, nate dalla corriſpondenza delle parti.Ora vorrei, che bene aucrtißi di non re. plicare piùuolte cotesti adornamenti,di non affettar tanto la conſonana za delle parti,che cadeßi in fastidio,ouero infospetto de gli aſcoltanti. Et per queſta reggerai medeſimamente il uerfo,nel quale caduto in più luoghi Ruede l'autore delle nouelle,il quale à mepare che di ciò molto curato nõ habbia.Beneuero,che con mirabile perfettione riempie le parti ele měs bra della ſua fauella quando diuide i nodi de' ſuoi giri in tre parti, come qui Percioche niun'altro diletto,niun'altro diporto, niun'altra confolatione laſciata ti ha la tua eſtremafortuna.Etqui, Et ſe qualunque di quelle fuſſe in Salomone,ò in Aristotile,ò in Seneca, 'haurebbe forzadi guastar'ogni lorſenno,ogni lor uirtů, ogni lor ſantità. Et qui. Maquantoſenfante, quanto poderoſe,di quantoben cagion le fore ze d'Amore,& c. Conſidera la distintione de' membri in quella nouella, doue introduce to ſcolare,la uedoua,perche cosirichiedeua la dotta perſona dello ſcolare. AR. E degno di conſideratione il numero delle fillabe, chenelle parti, che hanno à riſpondere l'una all'altra,ſ mette. Perciò che quando una pare te di troppo l'altra auanzaſſe,non ne ſeguiterebbe alcuna numeroſa compo Rtione,però buone onumeroſe appaiono eſſer queſte. Accioche come per nobiltà d'animo dall'altre diuiſe fiete, cosi ancora per eccelentia di coſtumiſpartite dall'altre ui dimostriate. ART. Maqui appare alquanto lunghetta la riſpondenza, &la die fagguaglianza demembri.Leggi. Quanto piùſ parla de' fattidellafortuna,tantopiù à chi uuole lefue co fe ben riguardare,ne reſta da poter dire, ÄR. ART. Può eſfer’ancora,che non ſi gusti il numeroper la lunghezza delleſueparti,benche fieno quaſi paricomequi, Egli auieneſpeſſo, che sicomela fortunafotto uili artialcuna uolta grandi teſori di uirtù naſconde,cosi ancoraſotto turpißime forme d'huo. miniſtruowa marauiglioſ ingegni dalla natura eſſere stati ripoſti. AR. S'io ti uoleßi ogni coſa moſtrare d'intorno alla bellezza del dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai afare,o pocoti laſcerei da eſercia tarti d'intorno allaeloquéza umana.Peròp trapaſſare alle altre forme,par lerò della ueloce e pronta maniera della oratione; la forza della quale è nello artificio,più tosto,onelleſeguenti parti,che nelle ſentenze riposta. L'artificio adunque della prestezza eà brieui dimande brieuementeria fpondere.Leggi. S'amor non èche èdunque quel ch'ioſento?:: Ma s'egliè amor,per Dio che coſa è quale? Se buona,ond'ċ l'effetto afpro e mortale? Se ria,ondési dolce ogni tormento? ART. Ouero il fare molte dimande, con forze di ſpirito obrer uits: Non era egli nobile giouane? Non era egli tra gli altri ſuoi cittadini bello? Non eraegli valorofo in quelle coſe che d' giouani s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro?Non uolentieri ueduto da ogni huomo? AR. Le membra,quaſ parole eſſerdeono bricui «uolubili, oche pa ia che in eſſe fail monimento del parlar noſtro, oltre alla ſignificatione delle parole nelle quali ėripoſta la forza dela efpreßione di ogni forma. Leggi. Soli bastano, accompagnati creſcono, und mille nefå, odelle mille in brieue tempo mille ne naſcono,per ciaſcuna ſono aſpettate giocondißime,no aſpettate uenturoſe, ſono cari ageuoli,ma diſageuolivia più care inquanto le uittoric acquiſtate con alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare, rubbare, guadagnare, guiderdonare, ragionare,ſoſpirare, lagrimare, rotte, reintegrate,prime ſeconde,falje,o uere,lunghe bricui, tutte fonodiletteuo li tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che mouimento apporti ſeco questo parlamento, il quale quando l'huomo è riſcaldato s'aſcolta con marauiglia delle genti. Confia Ate anco nellaforzadelleparole, o nelſuono, onella compoſitione. com mequi. E già uenia sì per le torbid onde, Vn fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per cui tremauan' amendue le ſponde, Non altramente fatti,che d'un uento: Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la ſeluaſenza alcun rattento Gli ramiſchianta,abbatte, e porta i fiori Dinanzipolucroſo uaſuperbo Etfafuggir lefiere e gli pastori. ART. Tanto uoglio che tu ſappia della preſtezza del dire. Perciò che date medeſimopuoi comprendere quanto « ilconcorſo delle uocali,ore forezza delle fillabe pa lontana da questa forma,esfapere che ogni ina dugio di proferire, ogni raccoglimento,ogni giro, impediſce il mouimento fuo. Reſta adunque a dire della formaaccostumata,o delle fueparti, la. quale e, cheſi conuiene alle cocoalle perſone in tal modo chequello che ſi chiama Decoro, molJa chiaramente ſi ueda Et però la detta forma ſota to di ſe quattro maniere principaliſ uede contenere. La primaė la unilta ubaſſezza. L'altra é la piaceuolezza o il diletto. La terza e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima la moderatezza della oration. Delle quai fore menecessariamente in queſta forma si ragiona, perche cosi porta la natua rade gli huomini,i quali sono ó uili, o riputati, è piaceuoli, o moderati. La bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote persone convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie chieſta ouſata pia toſto che da Oratori, o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle cauſe de priuati, che ne i communiconſigli ricercata,quando uor rai attribuire il parlar a quella perſona, cui non ſidifdice la baffizza. Cá dono in queſta ſimplicita di dire i paſtori, aquelli che le coſe.boſcarecce Man deſcriuendo,o però le ſentenze di queſtaformaſonopiu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle della purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga? Leggeraila tutta, otutto che in questa formauiſabaſſezza, non è però ela ſenza artificio, percioche per dimoſlrarla pulefe,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa deſcriuere,u ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte, ò ſemplici contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de quali ſono grandi, ma le parole ſciocche, at rozze. Leggi. L Cominciò à dire ch'egli era gentilhuomo per procuratore, roy. Begli bauea diſcudi più di milantanouefenza quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e che egliſapeus tale coſe fare; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo agio nie leggerai ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in cagneſco per amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta, facédo uiſtadi non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta ëbaſſa per li giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi bestial buomo che ardiſce, là doue io Pid, parlar prima di me, laſcia dir à me, Et alla reina riuolta diſſe,Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie di Sicofanta,ne più ne meno come scio con lei ufata nor, fußi, che mi uuol dar' à uedere chela notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza entraffe in monte nero per forza,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche non é ucro,anzi u’entró pacificamente: La deſcrittione del fante di fracipolld;& della fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti cô parole ufitate & popolari. Leggi. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco ilmarito mio,chetri fto il faccia Dio,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi uoglia dire. ART. Et alcuni prouerbiemodiſono dimeßi. Leggi.: Et cosi al mododeluillan matto doppo il danno fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e tutta la brigata. ART. Dalle fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai parole, ochenumero, oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari tificioſamente da ogni artificio lontana offer deue ogni ſua parte, & imie tare la ſemplicità, ogroſſezza delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in unpocma grande, o genoroſo; o dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo noſia uno de i piùcarifigliuoli ch'io habbia,ilqualefpeſo per dire ognicoſaminutamente cade in parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria potuto dirſt, Quero. Etmentre che la giù con l'occhio cerco, o quello che ſegue Trale gambe pendeuan le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et il reſto. E non uidi già mai menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo, Et la doue diſſe che Tencuan bor done alle ſue rime. Md ora al diletto paſſando, dirò, che per diletto de gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad una forma s'inchina la quale tutta e riposta nellä, bautentione delpoeta,però gioconda diletteuolemanieras'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto più rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze di questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire; &però diletteuoli o gior conde ſono quelle, doue ragionano inſieme la Diſcordia, o Gioue, o in quel dialogo d'Amore, oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra more tali Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe ntinutamente deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense timenti umani, es però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto grata ad udire. Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il ragionaméto di Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og de i loro follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in udiua. Ma è bene che tu ſappia, come di quelle coſe, che a ſenſi ſono ſottoposte, alcune fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe paleſamentesi ſcuoprono co iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte orecchie;benche non offendano quelliche nė di dirle, ne di farle R logliono tergognare,maſe con diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non pure non perdono il diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco recano à gli aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiilpoetaDante,o uolendo il finedieſſo quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui legemmo auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello, che fu cagione del nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte il ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe antecedenti, per quelle cheſeguono,eſſendo meno diſoneste,le difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle parole,o in queſto modo ſarà foaue, &diletteuole il parlar uoſtro. Alquale gli amori,le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane,la prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi,ſenzadubbio ſi dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando del diletto, della gioia tiragionxi,che naturalinēte inuouc ogni coſa creata. Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col ragionare. L'artificio,et le parole della giocõdità tolteſono dalla primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo,che co più licen zoufigliaggiunti,ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio il dilet? tare, allora più dilettano quando più belli;eacconiodatiaggiunti- fono? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L & Giace nella fommità di Partenio,non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta, o uerdisſima, crbetta si ripieno, cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi morſi non uipafceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART. Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi 13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora interporre de i ucrſi per. dilettare, ma con destro modo, Perciò che non mipareche bence ſtia, che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART. Ecco che nella proſa ui è il uerlo,ſenza quel propoſito che: io ti diceua,però, biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer: foc, Postbaueafine alſuo ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento non è più verſo, benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifatodal uerfo,come quando diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e traditore, Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor. dimano.. Et questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti nel fic lo della oratione, fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per di: letto ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai,che alla giocondaforma, oltra le fi gure che alla purità,Q umiltà. conuengono quelle ancora non disd.cono, che alla bellezza ſi danno,o peròle membra pari di ſimili cadimenti le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti, il fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti. Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci recando. Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la parità de'membri, perche niente ci uicta,che una ſtela figura da molti lumi ancora illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde lauro,c l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar dett'onde,bisbiglio, ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con diletto cfprimeno il fatto,  ecco quando colui diffe,Filli, Filli,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i calami fuſſono tocchi col fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto alcuno. Rimafu quella di coſtui che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello, quanto pià de Thumido fenting di quello, Et perpiù adornamento et diletto, diſſe anco. L'acqua laquale alla ſua capacità ſoprabondaua. Et comei falli meritano punitione, Cosi i beneficii meritano guidero: done. Nella rima è pofta. la dolcezza de' Poeti di questa lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò tentaſje per alcun mododidipartirf, toſto ſi pentirebbe. Le rimepiùuicine fono più dolci: Qucta licenzadel rimaremoderatamente Bplglia de proſatori, purche di affettata dilettatione: disoneſto ſegno non porga. Voglio bene la compoſitione di questa forma,numeroſa epiù al uerſo uicina che l'altre, ma il uerfo per ogni modo le tolgo. Guarda con chefacilità ſipotrebbe coteſta proſa alla dolcezza deluerfo ridurre.Leg. Vna fede medeſimatraloro per le menti unafermezza, unoamore in agni faſo, in:ogni tronco,inognirina,,uede l'amante la faccia dolce delld. fua.belladonna,o ella quella del ſuoſignore. Ma.ora non: voglio che tantoti piaccia la forma predetta che tralaſcian do la dignità,o grandezzadeldire, procuri.con ogni ſtudio il diletto piacere cheda quella fola procede, Perciò che io non uorrei che alcuna. parte del tuo ragionamento ſenza piacer s udiſſe, di.che l'aſcolta,ilqual pia cere naſce ancora. dalla Idea dell'altreforme, o dalle orecchie allo animo, trapaſſando ogni parte di eſſo fparge di diletto marauiglioſo, perche moe. uendo diletta, o dilettando li mouc, inſegnando ſimilmente fi.moue,, odiletta.in quanto che lo inſegnare il mouere,o il dilettare, ſono opera. tioni non distinte l'una dall'altra. Mi. laſciamo queſta quiſtione. ad altro, tempo, o ancora nonstiamo troppo in.questa forma tutta.di altra confla deratione, come quella.cbe al Posta.grandemente conuenga, alquale pocta. i giuochi, po le coſe ridicole ſi confanno, operò di. cße ora non te ne dia 60, e tanto piu adietro di buon cuore ti laſcerà queſta matcria ', quanto di: ſacopioſamente damoltine è ſtato ſcritto,etragionato. Larifponfione: ad ogni parte è anco figura di diletto. Leggi. Laquale ciiba fattinc i corpi.delicate,o morbide, negli animi. timide opaurofe,ne le menti benignc, opietoſe, obacci dute le corporalifora ze leggieri, le uoci piacsuoli, o imouimenti de imembrifoaui.. Ms or a pasfiamo all'acutezza del.dire, forma inucro egregia. &. piùalto penfamentoche altra meriteuple. Peroche ella contiene le ſentenza fic,deltuttocontrarioalla umiltà, «baffezza della oratione, ej in uero altro dicendo,altro intende.Percioche è dicoſeche hanno in ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė proferire le alteodifficili intentioni pianaměte, o con facilità, e le umili &abictte che paianoalte,o degne: onde i primo modo é,quandofi piglia una parola in altra ſignificatione che nella ufata confueta maniera,ne pcro e meno conuencuole et propriafe gli wiguardaalla forza della uoce,che la uſala, « conſucta, come qui. Non creda donna Berta oſer Martino * -Prueden un furar altro offerine. 9. Wedergli dentro al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel può cadere. C: il  secondo modo e quello cheſi fa non mettendo la parola, doueela berie Starebbe, ilche abufione s'addimanda; come ė à dire allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza grandißima. Seguita il terzo modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che ſempre ſia ad un modo istefjo pigliata, come dicendo,ſecglimuore, morirà tutto, perche uiuendo non uiue.Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai degno di conſideratione ilquale ft fa quando il parlare ſi fa pieno ditraslationi,o per la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Leggi. Eeleggi fon,ma chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor, che precede i Ruminar può,manon ha l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede ** Pur à quel bel ferir on fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in queſto altro loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in unaſelua oſcura Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei rimedij,che uanno quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune altre piu chiare, ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire della morte, e ſpigne col ſuo fiato il noe ſtro lume,e acutamente raddolcita la aſprezza fua. O qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della fori una.Voglio ancora,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella colligatione di ſignificantißia me parole,Vuoi tu ucdere la celerità del tempo. Leggi. a Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ *** siratto ufciua it ſol cinto di raggi, Che detto baureſt',.' Apur corcò dianzi. Jo uidi il ghiaccio, e li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo. Che pure udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di tutti, et nel fuggir delſole, La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere dipinta la oſcurità. Leggi. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta ſotto pouer ciclo Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata: ART.No ſolaměte leparolefanno l'effetto,ma te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie replicata la quinta lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i beidetti ſi coprendono, et quei mottiurbani,che co dimeſe parole dicono altißime coſe.Là onde alcune ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi conticnejacute ſono, o di ſuegliato ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le minacce fon arme del minacciato. sēdotu huomo penſa alle coſe humane o offendo mortale nõ hauerl'odio immortale, o quello.Rade volte è ſenza effetto quello che uuole ciaſcuna delle parti. Queſte ſono le parti principali dellaforma ſublime; & acuta,nellealtre haida ſeguitare la purità o eleganza del dire. Ma della Modestia,o Circonfpettione del parlarenelquale conſiſte quanta gratia tuti puoi con gli aſcoltanti acqui Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia questaſopra tutte l'altre ele gere,abbracciare,et fauorire in ogni tuo ragionamēto. Modesta è adunque quella forma del dire che le proprie coſe abbaſſando innalza le altrui, o quaſi cede e toglierſi laſcia del ſuo, il che opinione acquista di grābone tade appreſſo chi ode.Le ſentezedi quellafono quelle che dimostrano l'ani mo di chi parla alieno dalle contētioni, il deſiderio di fuggire, o terminar le coteſe,ildiſpiacere d'accufar altrui, il poter dimoſtrar maggiorpeccati dell'auuerfario,«nõfarlo,et quello che ſi fafarlo sforzatamēté,ė astretto dalla uerità,o p no laſciar opprimere gl'innocēti,uerfo de'quali,chi dice, A deue dimostrare cõ queſta formaofficiofo,et benigne,comefece coſtui. Leggi. Mi piace condiſcendere a' conſigli de gli huomini,de quai die cendo mi conuerrà far due coſe molto a' miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o l'altra il biaſmar alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti nelle lodi, che date hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte, uoi uinceste,mánel dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro,hanno detto per modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi portasſimo, noialquanto imprudentemente to gließimo la guerra. A questeſentenzeſi aggiugne l'artificio, ilquale con Rate nel dire di fero delle proprie coſe modeſtamente, con dubitatione facendolegrditamente minori di quello cheſono; eſcuſando per lo contras rio gli auuerfarii,oucro con ragione, conalquanto di timore accufando li,permettendoli alcuna coſa a fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al giudice dioffer contentiofo,& amicodelle liti, in que ſto caſo voglio,che tu uſ parole baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel biaſimo de gli auuerfari, però quelle figure a questaformaſono accomodate,nellequali con deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però l'aſcoltante di tale deliberationc.Inbrie ue ti dico, cbe la disſimulatione, che ironia s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò artificio,o figura di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono mirabilmente. Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea. Come quando ſi dice, S'io nca sn'inganno,s’io non erro, cosi mipare,ofimiglianti modi, i quali quanto più banno del leggiadro, tanto più dilettano,o fanno l'effetto, che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo. Si come prima cagione di queſto peccato, fe peccato é, perciò che io t'accerto. ART. Et la disſimulatione iui. Godi Fiorenza, poi che ſei si grande. ART. Belmodo e modešto é quando o il biaſimo, o la lote ſi fa dar da una terza perſona, perche meno ha d'innidia il teſtimonio altrui, che'l noftro, operò in queſto Poeta nel dire la origine fua, uedrai modestia ma rauiglioft, Leggi ancora qui. Nobilisfime giouuni, à confolatione delle quai io mi ſono meſſo à cosi lunga fatica io mi creda aiutandomi la diuina gratis ſi come io auiſo, per gli uostri pictofi preghi non gia per i mei mcriti quello compiutamente ha Herfornito, che io nel principio della preſente opera promiſi di douer far. ART. Etil principio della quarta giornata i ripieno di queſti modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima forma di queſto ordine, ma prima in die gnità o perfettione,comequella, ſenza laquale niuna delle altre può nel l'animo entrare de gli aſcoltanti,dico della uerità, a laquale benche la moc desta e dimeſſaforma piu che l'altre s'auicinano,nientedimeno non è da di Te,che ella debbia dall'altre offer abbandonata, imperoche non è opinione, òaffetto,che ſenza eſſa indurre ſi poſſa, queſta fa credere che cofiſia,come Adice,questa moſtra l'animo di chiragions, queſta èfrutto diquella uir ta che tùche noi chiamiamo imaginatione,cosi potente nel porre le coſe dinanzid gli occhi,et cosi efficace ad ottenere ogni nostra intenţione.Dimoftrafl adia que l'aniino di chi parla in questo modo,cioèſenzamezo alcuno rompendo in uno effetto,perche la natura in queſta guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza altra ragione in quello entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra,lo ſdegno, il diſo, il dolore,o ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate, c teneteſperanza d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna,ueracißimi pareranno gli affetti uoftri,ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di mezo cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il Poeta dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai à lui. A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua alla Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à Virgiliopiù bricue che può gli da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi trouaſje in quel luo. soſeluaggio,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia? Etfa maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte. Là onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder Virgilio, non gli riſponde, ma dà loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel Virgilio, equella fonte, Che parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte, Et piu ritornando all'effetto di primajo de gli altri poeti onor',e tume. AR. Vedi comele Discordia con Giove adirata in tal modo comincia. Parti Giove,che io, la qualeprodußi, et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la natur ra,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo,il correggerſ daſeſteſſo,lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o finalmene, te una diligente traſcuragine, & una traſcurata diligentia può far’apparenza diuero.Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la Discordia,doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos fto fegno di diſperatione, che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia miſeria,non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia lingua,parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core tale,à te uegnia allos recchie,cheſenza offer altramente artificioſa,Oornata,affai ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto nonſon conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto fi finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla,accioche picciolo error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste. Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo albergo di tutti imiei piaceri,maledetta fia la crudeltà di colui checon gli occhi della fronte or mi tifa uedcre. Affai m'ora con quelli dellu mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale,come la fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine,alla quale ciaſcun corre,laſciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. AR. Conſidera le parti,le parole, o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio signore, fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i conoſcimentoóſentimento doppo la partita di quella rimane a corpi,rice. dei benignemoute l'ultimo dono di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi ancora qui la ſomiglianzadel ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle coſe,che potriano eſſer dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti marauigli, & delle carezze,le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come colui chenon miconoſci,oper quentura mai ricordar nonm'udisti,matu udirai toſto coſa, la quale più tifarà forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua ſorella. AR. Eccoti,che con una coſa più incredibile fa parere il falſo eſer aero. Vſafi questo modo nel raccontare,nello amplificar le lodi, ouero i uituperii delle genti,ouero in narrare le coſe fuori dell'ordine naturali,e rare.Con una antiucduta eſcuſatio::e,come qui, Carißime Donne à me ſipara dinanzi a doucrmifi far raccontare una uerità,che ba troppopiù di quello che ella fu, dimenzognaſembianza. AR. Vera in ſoiamaè quella formadel dire, nella quale confiderata la natura delle coſe la uarietà de gli affetri,la uſanza del uiucre, con prue denza,riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello artificio, & però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata, obella forme del dire nella quale più vale il numero etl'artificio, che nell'altre.Sicno dun que gli ſpirtidi questa forma partiper tutto il corpo,accompagnati dal Sanguedella bellezza,odal mouimento della celerità del dire,che facila menteſi otterrà il deſiderato fine.Ne gl'affetti grandi,bricui ficno le mem bra,uiusci le parole,nel resto il giudi.io di chi parla habbia luogo.Et qui Na ilfine delleformc o maniere del direin quanto che di ciaſcuna partie samente ſi può dirc. Ma non sarà il finedi esse in quanto bisogna sapere il modo di usarle, ed accomodarle nella civile oratione. Perciò che colui ne oratore, ne erudito parcrebbe il quale come nouel cfſercitaßcle predette maniere daſe steſſe ignude, o inconipote, onde l'artefuafi manifestaffs, oegli di abomincus defatietà, ct fastidio ricmpicſſe le orecchie, o gli animi de gli aſcoltanti, Bella coſa é adunque il meſcolare inſieme le predette forme, o farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà l'ottima,o uniuerſale idea della oratio nc; appreſſo la qualeſarà quellà, che mancherà alquanto da quella ottima meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo ilterzo,il quarto, o l'ul timo luogo occuperà l'oratore. Della prima operfetta compofitione dela leformeio non ti trouerei per ls uerità chi in questa lingua potefje, pere che gli ſcrittori di efla hanno hauutaaltra intētione, cheformarela città M dincica dineſca minicra,ben che per quello ch'io ſtimo,non anderà molto, che alcu noci naſcerà atto a questa grandezza,alla quale più tosto manca la fatie ča,che il modo.Ora in quale forma debbia abondarc la eloquenzafaperaiz per che la chiarezza,la ucrità, quella cheaccoſtumata ſi chiama, fono le formeprincipali di tutta la manicra ciuile.Dapoi appreſſo io amerei la celerità del dire con quelle forme poi,che alla grandezzafi danno, tra le quali io eleggerei la comprenſione.Le altre ueramenteſecondo il tempo; er la occafione reggendomi abbraccerei con quella ſcelta, con quella di fcretione che uolentieri,ut non isforzate păreſſero ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che molte ſono le intentioni de gli huomini, equelle con dilia genza offer dcono confiderate. Chi uuole de i ſecretidi natura parlare, bo delle coſe morali dee abondar'in grandezza senza alcuno volubile movimeto. Chi ueramente cerca narrare ifatti de mortali,comeſi fa nella iſtoria, elleggerà la ſchiettezza,ocleganza,nella quale è ripoſto l'ordine delle co fe,cu dei tempi,a riguarderà primai conſigli,ale deliberationi, poi le attioni, o ifatti,o finalmente gli auenimentio fucceßi. Neiconſigli di moſtrerà quelloche deue cffer lodato,o quello che merita biaſimo nelle at tioni,i fatti,ole parole,ilmodo, il fine. Et ne ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù,o ciò che alla fortunafi deve attribuire.Chi ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza,perche il peſo delle coſe ſară poſto fore. pra lepalle di chiragiona, biſogna abondare in grandezza,o dignità, di mostrar cura openſamento,il che non uale ne i giudicij, ſe non ſono di coi. Le graui,aimportanti,perche in eſſe più fimplicità,baſſezzaſi ricerca, eſſendo quegli per lo più di coſe edi buominipriuati. Nel difendere, ale fai uale la forma accoſtumata, obalfa,ſe non quando arditamente il fatto Rinega. Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile,o presto mouimento. Ma non. cosi nello accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer dee l'accuſato re. Chi lola. fi dee dare alla bellezza,o al diletto, o apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o celerità. Et in brieuc,biſogna aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o eccclenti huomini.ſi richiede conſiderare; di che for ma eßt ſieno più abondanti,o di che meno;accioche ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno tali,ancora non ſia tolto il potere à gli studioſi di ace coſtarſi loro, o aguagliarli,o le poßibilc é,che pureé paßibile al modo già detto di ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la fatica,poteße almeno giudicare i loro fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti d'intorno a questo offercitio,maio non uoglio più affaticarmi,effendo quegli in molti,o gran di uolumi ordinatamente ripoſti, oltra che ilnostro diſcorſo à niunopuò på rere terc imperfitto,quando egli uoglia la noſtra intentione riguardare,laqua le è stata di fare i fondamenti della eloquenza, auuertire di quanta co gnitione elſer debbia chi à quella ſi dona; sopra i quali fondamenti ſono for date l'articelle de' maeſtri, o gli esercitij de' giovanetti. Baſtiti, ô Dinare do, che tu ſia giunto là, doue di giugnere deſideraui, o che tu habbi ueduto un circolo della tanto deſiderata cognitione. Però che dalle parti dell'anie ma incominciaſti,o in eſſe ſei ritornato,hauendo il corſo tuo ſopra di natů ra, ci sopradi me fornito, come sopra due rote di quel carro,cheper lo apet to cielo ti condurrà uittorioſo, o trionfante. Daniele Matteo Alvise Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords: archittetura, palladio, prospettiva, retorica, ordine cronologico: Ermolao Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il giovane – Daniele Barbaro – Temisto, index nominorum, interpretazione e commentario di Barbaro sul commentario di Tesmisto sull’analitica posteriora – manoscritto, Bologna. Manoscritto delle ‘Adnotationes ad analyticos priores’ – commentario diretto su Aristoele e no via Temisto – Villa Barbaro – lezione privati di Barbaro sull’organon di Aristotele – analytica priora e analytica posteriora, non al studio GENERALE, ma alla sua propria villa!. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barbaro – il vecchio – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano.  Umanista --. Grice: “As much as Speranza LOVES Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was his uncle – I mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM; I mean, Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally, since he was his junior) Barbaro.”  "Some like Barbaro, but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il Vecchio. Umanista e vescovo cattolico italiano.  Sendo stato uomo degnissimo, m'è paruto farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari uomini, acciocché la fama di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare lettere conVeronese, e il successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale che tradusse in latino le favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a Padova dove si laurea. Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio della cancelleria papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea che Eugenio IV lo nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di Treviso. Il rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando, dopo che gli era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna il posto a Foscari.  Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie di peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S. Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note  Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. Firenze, Vol. VI, pag. 808  Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-23 settembre, 1974, Perugia, Vespasiano da Bisticci, cit. pag. 195  Girolamo Tiraboschi, cit. pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni italiane)  Ermolao Barbaro il Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae. Edizione critica a cura di Giorgio Ronconi.Firenze: Sansoni, Facolta di Magistero dell'Universita di Padova Ermolao Barbaro il Vecchio. Aesopi Fabulae. A cura di Cristina Cocco. Genova: D.AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte Hermolao Barbaro seniore interprete. Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco, Firenze: Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. Il ritorno dei classici nell'umanesimo. Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta umanistica e rinascimentale. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. Firenze, Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano Castellesi, Giovanni Grimani, Roma, Facultas Theologica Pontificii Athenaei Lateranensis, 1957. Emilio Bigi, Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 luglio 2018. Voci correlate Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro il Vecchio, in Catholic Hierarchy. Predecessore Vescovo di Treviso Successore Bishop CoA PioM.svg Lodovico Barbo Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Francesco CondulmerGiovanni Michiel · Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso Venezia Portale Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani Nati a Venezia Morti a Venezia BarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al latino. Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barbaro – il giovane – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice; “Very good.”, ermolao – the younger – il giovane, non il vecchio --  "Speranza likes Ermolao Barbaro the Younger, but Ermolao Barbaro The Elder is MY man." -- H.G. Ermolao Barbaro il Giovane. Avea profondamente meditato sopra i doveri che impone il carattere di legato a chi lo sostiene e sopra le avvertenze che devono servirgli di norma nella pratica degli affari, ónde servir con vantaggio il proprio governo e riportare onore anche da quello presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le tracce in un pregevolissimo opuscolo  in cui la prudenza apparisce compagna della onestà del candore, ed è venuto a delineare in certa guisa il suo ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui cagione di grave calamità. Cardinale di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto di Ermolao Barbaro, opera di Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato presbitero. Nominato patriarca da papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato cardinal da papa Innocenzo VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane" -- è stato un umanista, patriarca cattolico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre Zaccaria Barbaro, politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e mandato a Verona dal pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di fama, per studiare lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma dove ha come insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con successo. E laureato poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre, titolare dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la sua prima opera ovvero il “De Caelibatu”.  Traduce tutto Temistio, pubblicato poi, in parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova il dottorato in arti e quello in diritto civile e canonico. Subito dopo fu nominato titolare della cattedra di etica. Come professore insegna soprattutto sulla Nicomachea di Aristotele, mettendo in guardia i suoi studenti dalle traduzioni in latino di Aristotele e predicando il ritorno alla traduzione diretta dal greco, proprio come face lui. Sono infatti di quegli anni i commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione della Retorica. Abbandonato l'insegnamento  accompagna nuovamente il padre in missione diplomatica a Roma. E promosso senatore della Repubblica di Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca a Milano con il padre per una nuova ambasceria. Il primo incarico diplomatico arriva quando, insieme a Trevisano, rappresenta a Bruges la Serenissima in occasione dei festeggiamenti per l'incoronazione a ‘re dei romani’ di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione fu investito cavaliere. Dopo un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente nominato ambasciatore residente a Milano dove si accredita e rimane in carica. Venne creato cardinale in pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne mai pubblicato. L'ottima gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi davvero turbolenti come quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un anno dopo la nomina ad ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui che avvenne la catastrofe.  Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia Marco Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza acciocché fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato non gli e ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa, senza punto badare a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di Aquileja; aggiungendogli, essere questa grazia una giusta ricompensa al suo sapere ed alla sua virtù. Il Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare la dignità, che il pontefice conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò in virtù di santa ubbidienza, si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire. Allora il papa sull'istante lo vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si spogliò uno dei cardinali colà presenti; e poscia in pieno concistoro fu preconizzato patriarca di questa Chiesa. La procedura era rigorosamente contraria alle leggi della repubblica che vietavano ai propri ambasciatori, senza la previa autorizzazione del senato, di ricevere incarichi o nomine dai principi presso i quali erano accreditati. Allora, per giustificare la violazione procedurale, il Papa scrisse una lettera al Doge chiedendogli di confermare la nomina, ma il Consiglio dei Dieci, competente in materia, delibera comunque che Barbaro deve rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un po' di tira e molla, prontamente fa. Scelse, per farla più solenne, la circostanza del giovedì santo alla presenza del papa e di tutto il sacro collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né l'obbedienza sua agli ordini del senato basta per anco a giustificarlo. Poco avveduto, non pensa di spedirne a Venezia la stessa sua dimissione al senato, ad onta dell'opposizione del pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa fedele ed obbediente alle leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto lasciar Roma e ritornare a Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare avrebbe cangiato di aspetto, e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia di giurisdizione tra la corte di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo rimasto in quella capitale, ad onta della fatta rinunzia, né avendone dato avviso al senato, egli fu riputato veramente colpevole in faccia alla legge, e perciò costrinse il senato ad usare verso di lui ogni misura di rigore. Come risultato di questo pasticcio fu bandito perennemente dalla repubblica e interdetto da qualsiasi ufficio pubblico e privato. Quanto al patriarcato di Aquileia, tecnicamente, ne rimase titolare ma il senato oltre ad avergli impedito, con l'esilio, di recarvisi fisicamente, ne congelò le rendite patriarcali e nomina Donato in suo vece, anche se la nomina non fu ratificata dal papa. Ne deriva una situazione di stallo, durante la quale la diocesi patriarcale fu amministrata da Valaresso (anche Valleresso), vescovo di Capodistria, con il titolo di Governatore generale. Barbaro rimase a Roma dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla pubblicazione delle “Castigationes Plinianae,” disputazioni scientifiche sulle imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di Plinio,  sono l’epistolario filosofico che si scambiò con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio «triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note  De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla Deca II della sua Thiara et purpura veneta  Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, Contemporaries of Erasmus, op. cit.91  Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Bettinelli, cit.219  Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67  Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Venezia, Cappelletti, Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12  I secoli della letteratura italiana, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, 1846 Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Vol. VIII, Venezia, 1851 Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855 Vittore Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001Thomas Brian Deutscher, Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register of the Renaissance and Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Ermolao Barbaro il Giovane Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterni Ermolao Barbaro il Giovane, su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Ermolao Barbaro il Giovane, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su Open Library, Internet Archive.David M. Cheney, Ermolao Barbaro il Giovane, in Catholic Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su fiu.edu – The Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Ermolao Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Emilio Bigi, BARBARO, Ermolao, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, PredecessorePatriarca di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Marco Barbo Nicolò Donà Biografie Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Umanisti italianiPatriarchi cattolici italianiDiplomatici italiani Nati a VeneziaMorti a RomaBarbaroAmbasciatori italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori dal greco al latino[altre] Ermolao Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a Pico, lettera a Poliziano, traduzione della retorica, commentario all’etica nicomachea, comentario alla politica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barcellona – i soggeti e le norme – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “Perhaps my favourite by Barcellona is “I soggetti e le norme” – vide my conversational norms – and ‘soggeto’ of course relates to ‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian phenomenology!” Grice: “Of course, for us British subjects (to the Queen), the idea of ‘soggeti’ cannot quite make sense! But Barcellona’s point is fascinating: the Romans did have the concept of a sub-iectum and an ob-iectum: they like a symmetrical expression formation, too! Barcellona shows that we have to speak of ‘soggetti’ to get intersoggetivita – and then the norma – a very Roman concept, which as J. L. Austin said (following John Austin), does not quite translate as ‘norm’ – “We don’t use ‘norm’ in ordinary language.””  Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i. e. at least a dyad that makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io trascendentale’ with ‘il tu trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that we get the norm. Barcellona got to the idea after seeing the French film, ‘l’un et l’autre’!” --  Pietro Barcellona, deputato della Repubblica Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in giurisprudenza ProfessioneDocente universitario Pietro Barcellona (Catania ),  filosofo. È stato docente di diritto privato e di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell'Catania. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura.  Si laurea in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963 consegue la libera docenza in Diritto Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al 1979 è componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato, fondato con Pietro Ingrao.  Nel 1979 è stato eletto deputato nelle file del Partito Comunista Italiano ed è stato membro della commissione giustizia della Camera fino al 1983.  A causa della sua formazione teorica materialista, ha suscitato nel  molto scalpore la sua conversione raccontata nel libro Incontro con Gesù.  Docente emerito di filosofia del diritto all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e processo economico” (Jovene Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza); “Stato e giuristi tra crisi e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra monopolio e democrazia, De Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi istituzionali del caso italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia e politica nella crisi dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e l’intersoggetivo della norma” (Giuffrè); “L'individualismo proprietario, Bollati Boringhieri); “L'egoismo maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri); “Il Capitale come puro spirito: un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti); “Il ritorno del legame sociale, Bollati Boringhieri); “Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia, Editori Riuniti); “Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della ragione funzionalista (Bollati Boringhieri); “Laicità. Una sfida per il terzo millennio, Argo); “Diritto privato società moderna, Jovene); L'individuo sociale, Costa & Nolan); “Politica e passioni. Proposte per un dibattito, Bollati Boringhieri); “Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo); “Quale politica per il Terzo millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la comunità” (Edizioni Lavoro); “Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città Aperta); “Le istituzioni del diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni metropolitane, Città Aperta); “I diritti umani tra politica, filosofia e storia, A. Guida); “La strategia dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal disincanto all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion laica, Città Aperta); “Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta); “La lotta tra diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La narrazione post-umana, Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti); “L'oracolo di Delfi e L'isola delle capre, Marietti,  Elogio del discorso inutile. La parola gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese. Tra nostalgia e speranza, Città Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni futuro/passato. Poesie, Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il desiderio impossibile, Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della crisi, Marietti); La speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra libertà e tecnica, Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi,. Sottopelle. La storia, gli affetti, Castelvecchi);  La sfida della modernità, La Scuola,.Barcellona e la pittura Una delle più grandi passioni di Pietro Barcellona, è stata senza ombra di dubbio la pittura. Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue opere si trovano in esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli Romani". Un suo quadro fa parte della collezione permanente della Salerniana, Galleria Civica d'Arte Contemporanea "Giuseppe Perricone". Vanta diverse personali:  1959"Mostra Città di Catania"; "Galleria Arte Club" di Catania, con testi critici di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano; "Galleria Arte Club" di Catania. Espone un nucleo di ventiquattro opere sul tema "La città della donna" con testo critico di Giuseppe Frazzetto; 2002"Tensioni metropolitane" presso "Fondazione Luigi Di Sarro" di Roma; 2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa; "Fondazione Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del quotidiano" presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi in catalogo di Simonetta Lux e Domenico Guzzi; "Contrasti" presso "Galleria Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio Fornaciai e dello stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di Genzano; "L'impossibile completezza" presso il "Museo Laboratorio di Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de Candia; "Il desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere", Sala C2, di Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di Pietro Barcellona  Su Pietro Barcellona, ovvero, riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di Pietro Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore,.  154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di etica sociale a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa Edizioni, Milano,  M. De CandiaFerri, Pietro Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi, Greco, Modernità, diritto e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo, il Comune di Misterbianco (CT) gli intitola una piazza.  Note  Pietro Barcellona, su Camera VIII legislatura, Parlamento italiano.  "Barcellona: Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù. Ragusa News.  l'Unità,  "Pietro Barcellona, Il Piacere di Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/ highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni_2003_05.pdf/ 11CUL31A.PDF&query= Andrea%20 carugati Corriere della Sera. Omaggio a Pietro Barcellona pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/2006/febbraio/01/ Omaggio_Pietro_Barcellona_pittore_giurista_co_10_06017.shtml  Inaugurata la piazza intitolata al prof. Pietro Barcellona | Misterbianco.COM. Napolitano: Pietro Barcellona fu un protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del giurista, ex parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto] articolo pubblicato da La Sicilia, 9 settembre, sito lasicilia. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi. Pietro Barcellona. Keywords: i soggeti e le norme, filosofia siciliana, Barcellona, comune di Messina. Conte di Barcellona, lo stato imaginario, i soggeti, l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva, discorso futilitario, societas, communitas, socius, seguire, ‘follow’, Toennies, communitario, stato keynesiano, stato imaginario, anima smartita, conflitto e cooperazione sociale, anima smarrita, communitas, immunitas, sociale, societas, discorso inutile, Grice, end of conversation, goal of conversation, deutero-esperanto, linguaggio privato, i soggeti, l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barcellona” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barié – Enea – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “”My favourite of Barié’s is his parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like Barié; he commited suicide, which is not that rare among philosophers – same percentage than the general population – cf. Durkheim, “Le suicide: a sociological enquiry,””. Grice: “Barié tried to play with the idea of the transcendental, and he did – he applied it first to “I” (‘l’io trascendentale’). When I wrote my thing on personal identity, I preferred the pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’ and the allegedy THIRD ‘person,’ ‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza nuova,’ and provided a ‘compendium’ of the SYSTEMATIC kind, favoured by some, of the history of philosophy, with sections on ‘roman’ philosophy (“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism romano,”) --.”  Grice: “Perhaps the closes Barié  comes to me is in his ‘The concept of the ‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice: “I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore. Nato il 19 ottobre 1894, si avviò agli studi di diritto che concluse solo a seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Nel 1924 ottenne la laurea in filosofia.  Inizialmente attestato su posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei matematici moderni, 1924, e La posizione gnoseologica della matematica, 1925), nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è emblematica l'opera Oltre la Critica, del 1929, che mette in luce le difficoltà della dottrina precedentemente sostenuta.  Il periodo metafisico Oltre la critica segna il punto di svolta dell'attività filosofico-intellettuale di Barié, che comincia a sviluppare un interesse metafisico, forse dovuto all'influenza di Piero Martinetti, del quale era stato allievo. In questo senso il filosofo, nel suo primo approccio alla metafisica, si pone su un binario che era già stato di Spinoza, salvo poi rendersi conto del fatto che anche la posizione spinoziana è in realtà insufficiente per tentare di risolvere il dilemma della relazione essere-pensiero. Si ha quindi l'approdo di Barié al pensiero leibniziano, testimoniato dell'opera del 1933 La spiritualità dell'essere e Leibniz.  L'approdo al neotrascendentalismo e Il Pensiero Libero docente dal 1929, ottiene la cattedra universitaria, spostandosi di conseguenza a Genova, Roma e infine Milano, nella cui università succede al suo maestro Martinetti nella cattedra di filosofia teoretica. Consapevole del fatto che, per quanto superata, la lezione antidogmatica di Kant non poteva essere completamente ignorata, Barié inizia una profonda revisione del proprio sistema teoretico che lo porta a diminuire drasticamente le sue pubblicazioni (di questo periodo sono il Compendio sistematico di storia della filosofia, 1937, e Descartes, 1947) e che culmina con la pubblicazione de L'io trascendentale (1948). Nel 1950 fonda l'istituto di filosofia dell'Milano con lo scopo di renderlo centro propulsivo di una discussione filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che si sarebbero confrontate con la nuova visione di Barié, adesso orientato verso una concezione di filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa della realtà sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque nel 1956 la rivista Il Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica – e dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la critica della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova, MILANI); “Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare attenzione alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io trascendentale non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto trascendentale” “Il trascendentale” (Milano, Veronelli.  Note  Atti del V Congresso Internazionale di Filosofia, Napoli, 1924  riproduzione fotografica (p.1-109) da OpalLibri antichi  riproduzione fotografica. Assael, Giovanni Emanuele Bariè, Milano, CUEM, Assael, "Il neotrascendentalismo di Giovanni Emanuele Barié", in Rivista di Storia della Filosofia, 2009; (4),  731–759. Davide Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti, Barié, Banfi, Guerini e associati, Milano, 2009.  Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano Università degli Studi di Milano Scuola di Milano  Giovanni Emanuele Barié, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Emanuele Barié, su sapere, De Agostini.  Giovanni Emanuele Barié, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giovanni Emanuele Barié, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Filosofia Università  Università. Giovanni Emanuele Barié. Keywords: Enea, lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico, Catone, il noi trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Baricelli – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Marco dei Cavoti). Filosofo italiano. Grice: “Italian philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting Plato but his masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by the athletes Plato was familiar with!”Medico, chimico e filosofo di fama italiana ed europea, Giulio Cesare Barricelli- nacque a San Marco dei Cavoti e fu da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di San Marco Argentano in Calabria.  Erudito e studioso di poliedriche attitudini e capacità, studiò medicina e si interessò di filosofia, tanto che ancora giovanissimo fu autore di commenti alle opere di Platone, mentre nel pubblicò l'opera in quattro libri De hydronosa natura sive de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana, nelscrisse l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra ove raccolse antidoti e sudi sulle intossicazioni, e successivamente diede alle stampe il Thesaurus secretorum, opera in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate malattie e problematiche quotidiane.  Nel 1623 pubblicò poi un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu, e nello stesso anno gli fu conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi umanistici Barricelli scrisse anche alcuni epigrammi latini e morì in Benevento tra il 1638 ed il 1640.  A San Marco dei Cavoti, nel corso degli anni, gli vennero intitolati un antico circolo ricreativo (sec.XIX-XX), la scuola elementare ed infine la strada ove si trovava l'abitazione in cui visse, già denominata Via Pastocchia, che ospita anche un monumento in suo onore, opera dello scultore Giulio Calandro A proposito dell'intitolazione della scuola, su espressa richiesta dell'allora commissario prefettizio Mario Jelardi, l'insigne storico Alfredo Zazo propose la seguente epigrafe che ne riassume le doti i meriti:  A GIULIO CESARE BARRICELLI CHE DEL RINASCIMENTO EBBE LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA ATTIVITA' PROFUSE NEL CAMPO DELLA SCIENZA MEDICA DELLE LETTERE E DELLE SPECULAZIONI FILOSOFICHE IL COMUNE DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED INCITAMENTO PER LE GENERAZIONI CHE IN QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E NELLA FEDE DEI NUOVI GRANDI, AUSPICATI DESTINI DELLA PATRIA XXVIII OTTOBRE 1942XX E.F.  Opere. “De hydronosa natura sive de sudore umani corporis”; “Hortulus genialis”; “Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu. Alfredo Zazo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Napoli, Angelo Fuschetto, Giulio Cesare Baricelli, Andrea Jelardi, Dizionario biografico dei Sammarchesi, Benevento. nis Hortuli Genialise RERVM MEMORABILI VM, QVAE IN HORTVLO Geniali continentur elenchus. A Beſton accenfus,perpetuòarder. A cos. poribus effe &tus procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum, qwo abſque inciſione diffoluitur de expurgator Alapides renum vefica frangendos mirabile remedium Ammantium lac ab alimentis recipere qualita tem. Agricola nonſemel tempeftates e Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry Abfynthij Romani mira i 170 Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis lapidismirabilis Acetum ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato Adam eratſapiennriſsimus Aegyptiſ in annimenfura 233 Aegyptiorum opinio de elementis. Isbe Aepyptij in morborum -Chrafacileadiguem recara 178 Aemorrhagia(electumprefidiuna Aegypti hierogliphicis vacabant Aegyptiorumarcana ait quartanam Aegyptijregesopera magnifica do admiranda an. Liquitus conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in condiendiscorporibus obferuatio. Levis ſalubritatem ad vite produktionem maxå moperè videmusconducere. 34 Aegyptiorum Auditim ir lapidis á vefsica extra Sione Aegyptij quomodoignea prefidia component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem tribuere intellettum. Agricolafilicibus in horreis cur vtantur. 200 Agricola cwufdam interitus. Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri ſudoredolens. 197 Alexandri uder.fanguineus. Alexandrimagnanimitas in ftudiofos Amazones mammas dextras ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes surfacile irafcantur, Ambarum vi ebrietatemfaciat Animalia quadam Arni tempora pradicero. An transformatio realis detur. An animal in igne viuere poſsie Anni computum diuerfimode fa &tum Animalia ex putri materia non ſemper extitiffe. Anicularum quarundam facinona. Antimony in vitrum redu & io. Anuli Bubali ad gramphum vtiles Anularis digitus cordi amicus Antora napello inimiciſsima Anginaprafocatina vt compefcatur Animalia a vteerikus Dis dicata, Anguil Anguillarum cum Aquilone affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici quales. Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis: Ancitodorum aliquor obferuationes A priteftium virtus mirabilis Apri ægrotantes hederam quarunt. Api efum infauftum veteribus Apri dentes adanginan dompleuritidem vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri usherbafcelerata; Apum mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad viſusdefectum Aquilinumlapidem partum accelerare, 126 Aquafrigidaqualiter apparetur. Arcades qualiter annum computabant Archelai Regis in populos immanitasi go Arboris ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit. Araneorum reła in medicina vfurpata Arbores quandoquein lapides mutate Artemiſia quando in radicibus carbonem producati Articulares dolores quomodo curentur. Archelaus Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu. Ariftotelis rerum indagator, Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus turrim incombuſtibilem fecit: Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia medicis neceſaria Ararum vomitu humores expurgat. Aparagor um 2u corporis nitorem producit. Afphespropè halico ibum fiupidi Aſparagi vi mirabiliter erefcant Ap.dum natura qualis. Athenien esfacerdotes cicutam comedebant Atrila canis instarlatrabat Athenienfium ura erga fiicos Aues vfu Taxi nigra fiunt. Auri vfus in medicina Aufonij locus de mecha uxore Afilici odor vermesgignis Bafilijanhabitat pelicudinibm Aphrice Ibid. Bafilifcum haudàgallo excludi. Bardana mira vis in affe& u uteri. Bituminis vis in hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul fatahereunt. Bruta aliquot lafciuiffe in fominas, Bryonia mira virtus in affe&tu-matricis. Braſsica fuccus contra ibrietatem. Britânnurum præfidium in furiofos. Bubuloftercore colicam,anari. Bufonis lapis cóntra vinena. Bufonis.mira propriet as in Aſcite. Arnes dura utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt vmbra Hyena. Capramaximèepilepſia tentatur, Capillorum defluussm laudano curare Cani Canicula exortum à veteribus previſum, Carnes cocta,quomodo crude videantur Canes fabrorum exiguos habent lienes Cancri vini quomodo co &tifimulentur Capre in luftinis montibuseuomunt Capilli noftri plantis affimilantur Caftratilienem, dan vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica remedia,qualia adftrumas Caryophillgte vis adcorporismacular Caftorei teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum non emittet, Calphurnius beftia uxores dormientes necabat.Catelli membrorum dolores confopiunt, Cacodamonem mali nnncijpraſagiumattuliffe Calendula folis amica. 341 Capiuacceiopinio de menftruofanguine Cantharidum mira vis nocendi Carthaginienfium prefidium ad deftillationes in. fantium. Cati.cerebrum hominesdementat. Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr eſos ferpenris Cervi carnes ad vita produftionen Cepamab Hyppocrate deteftari Ceruorum vita longiſsima Cerius Alatus Francorum inſignie Cerninum penem.conceptum facere. Ceraforum aqua epilecticis vtiliſsima Chamedrij mira vis ad lienofos Chalcanti vfus quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm Chuslapidusquomodo apparetur. Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum mammas detumat Cynorrhodi radix ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem inducere. Cyprinorum vfuspodlagricis infeftus Cyprini officulü caluarisad spilefiä mirabile Clarorum virorumexitus. Lorui morientiúm fæditatem fentiunt Colicu dolor quomodofanetur. 88 Collegium veterum pro tuendaſanitate Cotoneorumfeminaadcombufta Confedtio fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur. Coralline vis adlumbricos Corniplanta hydrophobiam ſuſcitat Consensus de disensus animantium Corneliu Celji valetudinis precepta. Creationis mundi opiniones. 10 Croci metallorum.compofitio.:  Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff folia Strumas auferre. Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum abborrent. Cur quiti impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum ab hydrargiro, Demoris afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei caritare. Demofthenes quomodocuraffet lingue impedimen Denti Dentium dolores bufonis tibia janari:  Dentium ftupor àportulacaremouetur Dentium dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia mulieribus familiaris, Digiti annularis ſympathia. E. EBura quoartificiocolorentur. Ebriy variafufcipiunt deliria Echini ſagacitas in ventorum mutationibus Elephant's in fæminam mirusamor Empiricorumremedi4periculofa Epistola quomodo in ouo celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida fomas occiditur,abortit Equorum teftes ad ſecundas depellendas praftan. tiſsimi. Equusphaleris accinctus acrior.fot.Asies rugata quomodo emendentur. Faciem hominis diuerfimode alterari Familia in Creta mire faſcinatrices Faces ardentes ex Betula corticibus Fætor extin &ta lucerna grauidisperniciofu Febricitantium fitis qualiter compefcatur Febrem à quodum pifceillico exitari. Fæmina aliquot inrares mutate,, Fæmina pruritu corripiuntur in pudendis in prima menftriornm eruptione. -Fæcula Brionie in affecte vteri Feniculorum femina aliquando exitialia Filij Filij â parentibus figna recipiunt. Ficorum efumfudoremparerefætidum  Filices ab agris qualiter exterminentur. Flores in Aegypto fine odore. Flamma quomodo in aqua excitetur. Fluuij aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum, iumentorumg interitus pre ſagium Ferarum natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons mirabilis apud Garamantes. Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum ferpentibus inimicum: Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera quomodo curentur. Fungi ubi in lapides mutentur.  fumus hydrargiri quid efficiat Galenu,Medicorum princeps Aline appenfo milui capite furisunt. Galega, defcordij vis contra peftem. Gallinarum.stercus adfungorum viru.  Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw.. 28% Gallina quomodofæcunda fiant. Gentium.don populorum ingenia. Germanorum mos circa coitum. Gigantes quando in orbe fuerint, Gymnofophifta apud Indos mirabiles. Grauidationis muliersus affertio.Grauida mulieres marein admittunt. Grauida conceptü quomodo valeant occisltare. Grauidaaliquando fætupariuntfine vnguibus. Gra  Greuide mulieres curpallida. Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe  H. Auftulus aqua matutinus falubris. Heclaignis aqua nutritur Hemicrania Gagate fubmouetur.  Homicrania à carduo benedi&to fanythr. Herfetes ceroro tabacci coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris. Hederam cumvino habere diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, Hellebori nigriextra & nm.  Hybernie miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè poto catuli congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de balbisdefe&tiua, Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo studioftellas albas in equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion  Hydrargiri mira natura..Hydrargirum remedium eft advermes. Hydrargirum utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte. Hydrargirum defluuium capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis figna, Homo repertus mira vaftitatis. Hominumcur aliquotfubtilioris, vel graffiorisin. genijfiant.  Homines Principis vitam imitantur. Horai. Homines inuenti miragracilitatis.  Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo fiant abfemy.  Hominum corpora olim vafta Ibis in degyptofolum moratur, Ignispraſidra admorbos fele &ta. 303 Infantes à quibusnutricibm ladandi. Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante Hiſpanorum tranfitum variolas baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico quomodo emondetur.85 Indus quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein mammillu, Infantium ruptura ut curentur.  Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus mores recipere  Infantis umbilicum conceptum facere.  Inser Lupum eAgnum diſcordia. Inter brafficam, de vitesfympathis.  Iumenta clitellaria fibilo, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris& vitrileo extrahi Lapidis ignem redensis compofitio. Lapathiam camas duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira magnitudinis, Lu,fanguisaliquandopluers viſs. Lepusannis decemviueredicitur. Letargicos à Satureia vigiles fieri. Leonardi vatri de partu opinio.  Leones Leonesaftatttertianam patiuntur.  Leporumnonomnes hermaphrodui, Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos igne depurari, Littera aurei coloris quomodofiant: Lignum èviſco Latum diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem valere  Lolium praun inducit ſyptomata. 86 Lolij nocumenta Aceto fanari. Ibid. Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem multa Zapi quomodo ouibus nacere nequeant., Lumaca lapispartum,accelerat Ludi in conuinijsfeftiuiquales, Lupi,canes, doFeles ut curentur,  Lupi in fenio ſerpentesin renibus.generant.  Luna confinusad inferiora, mirabilis.  Lue gallica canis infeftus Lumbricosquandoquegenerari virulentos MAmirimum vitulum àfulmine non ladi, izg Aris yubri admiranda: Maleficas artesir Septentr. exerceri  Mascitius, quàm fæmina animatur, Maritimarumtempestatumprafagia Maculanigre in morbisquid portendant. Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam: Mares in mammillisſapè Lachabent.. Marina pallinace radiusad dentiumdelores yti lis. Mommarum sum vtero ſympathis Medicinepraktamsia quanta fit.. Menftrualisfanguinis immanita, Medea an fuerit venefica.  Memoriaquo prafidio augeatur. Mercury pojisura in hominūnatiuitatibus, quan tum valeat. Mergorum i anferum proprietas contraHydropho biam.. Mellis vfu vita vtiliffimus. Medicina multa abanimalibus capta. Meſpulilignum ab ab ortu preferuat. Menftrua plerifqs fæminis in fenio. Mirabiles in hominibusproprietates dari. Mithridates inculpatè venena bibebat. Mithridatis antidotum ad venena. Mirafontis inEpgroproprietas, Mille pedum preparatio adcalculos.  Mille folium aduulnera conſolidanda. Morborumprauorum natura, Morus planta prudentiffima. Morfusquidam à cane rabido latrauit.  Mors inArthritide quandofuccedat.  Mures futurorum praſcj. Muftela cur rutam comedat. Multa prafidia ab animalibus homines accepije.Mulierum capilli quomodo in vermes mutentur.zo Monftruofa Dæmonis apparitio. Mulieres pregnantes vt nofcantur. Muftella fanguisadepilepfiam. Mundi creatio.ornatus. Mullus sterilisatem producit. Mulierum pinguedoſuamis. Mutin  Mulieresrarò inebriantur. Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto animalibus.nocentes. N: Natura presidentia in brutis.. Natsuitates.hominum quando ob'eruende Natura arcanaprovira producenda. Neronis crudelitas quoque pads a nutrice wiginem fumpfit. Nero Tapfiam magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa fust: Nili proprietu admiranda Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico infantis quid sotentas Nuxairiftica quomodofiat vigore for O Learum fterilitatis preſagium: olei, vini,fegetumquefterilitatis prefagium. olei balneumproconkulfis laudatum. aleun amigdalarum dulcinm advariolarum veftigia probibendu. olea Minerka a yeteribu dicata:  slei cinemani raracampofis.  elina olinarum oleum adunguium pannas. tur. Par Oleum latris colicum affe& um domato  Oleum lixiuio miftum albeſcit. Opthalmia aliquando.folo afpe & u communicar  @ris ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat.. Orestis cadauer odto cubitorum. fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes capite mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant.  P Arimdi difficultasquandoqueà curto umbi lco prouenit. Paracelfafalſaopinio dehomunculipartu. 108 Panaritiumqualiter illico fanetur. Parthi, Scytheque quo venenofagittas linjrent.Pestilentitemporeinter precipua præfidia.neris  Aifcatio fummum iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem, Papauer ſolisfpheraminfequitur, Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora morientium relinquunt Beftem ex occulta antipashia oriti. Penna Ibidis ſerpentes-terret,  Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni opera. Phrensuci cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum.  Philomenaà vipera deuoratut. Pifa  Piſces marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi quomodo in venenum tranfeunt. Pici mirandulani ingenium;  Picem cum oleo habere colligantiam Pici opinio de fcientiarum varietate. 16 Portulæca foment contra lumbricosa Plurimamèterra furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz.  Polypodijmira viscontra cancrosa Porri caputquomodo augeri pofsit: Potentia imaginatiua in conceptu mirabilis. Planta fimileseffe&tu fimiles, vinute... Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans in coli dolorepraffans. Prognoftica tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad calculos Preſedia admiranda inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici. Pulchritudo, deformitas afpeétuo quid portono. dat. Pulchritudo corporis quo termino confitna. $. Euella à teneris veneno odusara. Pulſus deficientes anfemper mali, Queen Vanium profit neris puritasin peffe.  Wartanarii improuifo rimore fananiky. Mr. Qua via volucrumpennacolorentur. Quartana quomododebellerur. Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. Quo artificio es aduratur.  QuorumdamiAnimalium vitalongitado Quorumdam animalium naturl. Quorumdam homină virtutes, & ornamenta.  quo artificio mares ab. uxoribus. [tyfcipere vales Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus. Quomodo in urdieriſomasexcitari valeamus.341 mks. R Aneterreftris oleum aditrumas ! Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum.  Rerum Sympathiam in aliquot brutis Admirabi. lem effe;. Rută inter alexiteria medicaméta cõnumerari, Rores marini virtus miranda, Ruta mira. vis contra venenum. S jabbarici junijmiraproprietas, Sanguis menftruus quandoque ex oculis velgingi uis excluditur, Salis prunelle virtus,de compofitio. Sartyriam carnofum venerems excitat,flaccidum vero extinguat. Sanguis menstrualisexucis, ſcarabais venenū. Sanguis caninus hydrophobis vtilis. Saliua bominisfcorpionesnecat. Scarabei miraproprietas. Scarabai cornuti vis in febre ciendo. Sciffure laborum.usmanuum remed. Scythe quomodo diuabfque cibo vivant: Berpentesquibus fufficibusarceantur. Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã. Serpeniums ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. Singulis quopatto cohibeatar, Socij Diomedis in volucres conneri. Solis confuxm ad inferiora maximus. Solatri potencia contra parafitos.  fomniorsuspreſagia à Deoconcedi. Sodami -Gomorrbi fruétus vari. Solis defe & us quomodo comprehendatur. Spurij robuftiores legitimis fuus. 95 Spe& acula veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo Spatiuwvil e fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura. Sirumarum mirum remediusa. Strumaper vrisano quandoquepurgalai Sterilituin bomine ytdiriwratur SAMIremedium temporepeffu. Succinum parium mulieris accelerare, Syrupus fpinæ infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima. T. sbacci vw apud Iudos. Talpeoleum ad Aruma. Taurifanguis inter VEREBANwerari. Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet. Ferro lenonia contra ventna. Tbagfia mira vis in facillasi. SO Thappa Thapſia veſsicas, do ademata excitat. Torpedinismira vis in capitis dolores. Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns. Tuberum efufrequenti hominescadunt. Aleriane vis contra epilepfiam, V Variola,morbilli affe&tmnoni,  Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in capitis doloresi Verbena virtus contra frumas Vermium in corporibus hominum varia figura 18 periuntur Vermes rubei in cerebro adnati.  Verbafci florss Sole aecedente decidunt, Veterum fepulchra mitèconftrudia Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. Vena ſarustella ſpleneticis auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. Veteres equoram lacrymas admirabantur. Venenumà diſsimili extinguigecontra Vermes in cordis.capſula exorti Ventorum mutationes ab Echmo previderi. Vifusacies,in quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri poffunt. Vitrioli, com fulphurisoleumad vermes. Vipera catellosfuosparit,utnutrit Vipera inter ſerpentes fola parit animal vinã.ibe Viperamorſus Hellebori nigri radicibus fanan. Vinum pro Afthmate ſele&tum Vito longena quomodo apparemme zur. Vina Vina alba quomodo rubra fant, Virginitatismulierum figna. Vitrum quo modo diuidarur. Vinum venenatumquibus profuerit. Vinum à veteribusfeminis interdi & um. Vifcum quercinum epilepticis falutare. 318 Vitri puluerem calculus comminuere.Vimivſus elephanticisfalutaris.Vlcera formicantia quomodo breui fanentur. Vricornu proprietas, bet cognitio. Volatilium,piſciumque fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem, vel mortem informi in lotio prefagiunf.  DeMedicinepraftantia. Edicina decçio demiſla eft: ita Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptiosſapientiſsi. profectoad fluxilis natura goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt fanitatem conſer. uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen. sia omninoliberare; ſedcorpora à cor suptione, & feftinadiſſolutione præfer uarepotius iudicatur. Amazonescur mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à ſcriptori bus celebratæ,propterea fibi má. mas dextras refecari curabant, vt magis A armis gerendis aptæ fierent; vel potius Demannum, & brachiorum impedire • tur motus. Mihi zutem Galeni opinio 7. Aphor. 43.ex fententia Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum mi. nimèeft, quippe nutrimentum,quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib. 11. Olearum fterilitatis prefagium. Ergiliarum occultatio, & emerso Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeftatémouerit, & vitis, &olei germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa Democritus olei præuifa caricate, magna vilitate oliuas in toto co tractu coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, & quietem homini oble & a. mento cffeſciebant: at vt apparuit cau. fa, & ingens dinitiarum acceffio,reftituis mercedem, contentusleita probaffe, 0. pes fibi in promptu eflc cum vellet. Ex Fran, luncino in Sphæra. Do&oris Medici, & Philofophi, Hortulus Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina decçio demifla eft: ita Mercurius Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi musfcriptum reliquit. Hát profecto ad fluxilis natura noltre remèdium Deus altiſsimus ho minibus conceffit; vt fanitatem confere uare, & perditam recuperare commodè valeamus. lofa autem à vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen. sia omnino liberare; fed corpora à cor ruptionc, &feftina diſſolutionepræfer uarepotius iudicatur. Amazones cur mammasdextras refecauerint. AMiszonesilla, tantum àfcriptori.. mas dextras reſccaricurabant,vt magis armis gerendis aptæ fierent; vel potius De manuum, & brachiorum impedire tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7. Aphor. 43.exfententia Hippoc. admo. dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem à ratione alienum mi. nimé eft, quippe nutrimentum, quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib.11. Olearum fterilitatis præfagius. Ergiliarum occultatio, & emerGo Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeſtatemouerit, & vitis, & olei germinationé fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa caritate, magna vilitate oliuas in toto co tracta coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, & quietem homini oble & a mento effe ſciebant: at vt apparuit cau. $ a, & ingens dinitiarum acceffio,reftituit mercedem, contentusleita probaffe, o pes Sbi in promptu effe cumi vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V  O aqua Nili, Nilifluminisproprietas uædam aquæ reperiuntur, quæ fæ. cunditatem proprietate quadam inducere celebrantur: ita eſt quæ ſua vi nitroſa, vt voluit Seneca 3. Natur. quæſt. natura. fæpè vteros per petua fterilitate occluſos aperuit, & conceptumfecit: Vnde mulieres in AE gypto,vtfcripfit Ariſtot.quinos, & qua ternos frequenrer fætus edunt; ratio non alteri tribuitur, quàm Nili aquæ, quæ illis in potu familiariſlima eſt. De Mundicreatione. N qua Anni parte Müdus à Deo crea tusfuiflet,diſcordes interſe ſcriptores funt, vt Hebræi, Iſmaelitæ, Chaldæi, Arabes,Aegyptij,Græci, & Latini.Mula ti enim in Aeftate, nonnulli in vere,alij verò in Autumno conditum fuifle con tendunt. Moyles fuiſſe in Autumno affe. rere videtur, cum in Geneli dicat, Ger minet terra berbam virentem, &facientem emen, Glignum pomifera faciens fru &tung iuxtágenusfuum.Ex Aegyptijs nonnulli A eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis Aliacenfis vere nouo condi tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot afferunt in mundi principio fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in Leone, Lunam in Cancro, Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in Libra,Mercurium in Virgi ne, Iouem in Sagittario. Alij, Planetas volunt, in fuis altitudinibus, præter Mercuriú,omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio fit verior, D.Thomas 4 fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias. Vres ex ônibus animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua conſenuit, &ruinamaliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; & reli & is fuis cauernis, priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè fugientes, aliudque domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.& Leuisius Lempius do fest. nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe Pluuioſa tempeftatis Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus, lo nubile Coelo accidat, hyené plu. uiofam denunciat,fi fermo Cælo,alpe ram.Sic Veneris,aut Martis per Pleiades tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet tempeftarem.Saturnus inſuper cum cor pore, aut radijs ad a &turum accedit, i dem minatur.Ex Plinio,óobferuat.Stadi. Agricola non femel tempeftates, & f renitates predicant. Vltos profe & o cognoui pafto res, plerofquc agricolas, quiin prædicédislerenitatibus, & tépeftatib. magnæ mihi erant admirationi,quare tanquamcnriofus fciſcitabar, qua via, &ordinc hęcſcirent?ratus forfan fimpli ces, &idiotas non poflc tanta certitudi. ne futura prænoſcerc;nifi vel Dei mu. nere, vel Demonisa & uid fieret. Exre latu diuerfas ftellarum conftellationes abijs experientia cognitas, no & u, ani. maduerti:quarüobferuatione vera pre M dicunt. Experti enim ſupt Pleiades in Autumno, quæ in principio no&is ori. untur cum Marte, velVenere mouere tempeftatem. Aréturum non fine gran dine emergere. Hadorum ortum & oc. cafum tempeftatem pluvioſam in regio. nibus noftris prænunciare; & alia, quæ in promptu tales habent, licet alijs no minibus hæc fidera nominent. Quare mirum non eft, priores ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones multa nobis reliquiffe,cum id ſapientia, & obferuatione perfecerint, quod iam idiotæ fine magiftro facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan. leriana ſylueftris, quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au & oribus ei tribuuntur virtutes, hancia diù, in multis, atque in fe ipfo Fabius Columna in bifter, plant. expertam ape suit,vt ſemel,velbis radicis puluerisco chlearij dimidium cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco & proggro sicómcditate, & ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur ante quam caulem edat, & puerisexhibetur, & preſertim infantibus, qui morbo hoc facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle; multiſ“; amicis donodediffe: qui deinde diuino prius numine glorificato, puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in beſtias à multis au Storibus fcribuntur; & inter alias, de il la Maga famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe: de Ar codibus, qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos: de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt, plurima'addu cunt. Hoc non fabuloſo mendacio,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec. natut.Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus )velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari. Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem huiuſmodi trasformatiorea. lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib. 18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę,non fuerint fecun dum veritatem; fed folum fecundum apparentiam. Quippe opus hoc tantum Deieft; vt in Concil, lacro A Acyrano fancitum eft. Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam Tabacchum appella mus, apud Occidentales Iodos in magno cratpretio.Cum eniminter hos dere graui agebatur,ad Sacerdotemil. lico accedebat,quitotuoegotiúexpone bát. Sacerdos auté corá illis fronde, vel furculum Tabacchiſumebat, qua carbo. nibus inic & ta, fumum peros, & nares ex. cipiebat, & inftar mortuiin terrá cade bat. Paulo poſt conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed ambigua, prout Dæmones perilluſiones, & fimu Jachra fuggefferant, populo dabat;qua tanquam religioſa, & veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto hominum ini. micus Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis. Quid Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú,inquii,Philofo phia, omnia funtveluti quodam numi ne facra, & in maieftate veritatisabdita Ceu prodigia quædam, & arcana myfte sia. In Græcorum veròdifciplinis, in genium, acumen, & omnigena eruditio apparet, vt nulla vnquam gens fuerit, quæ dicendi copia, & ingenij elegancia cam illis poffitconferri.InRomanaved sò Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, & vitæ morespertinent, &graui. *, & copiosè funt explicata,ac magni fica ficè diđa. Sic ve grauitas maximè Roo manis, & imperijmaieftas,Grçcisinge nium, &acumen; Hebræis do & rina fe. cretior, & quaſi diuinitasaſiribi poſsit, Crinitus da honeft. diſcipl. lib.g. Subditos, Principis vitam vtpluri. mumimitari Rincipis vitam fubditi maximopere imitantur. Hinc fa & um eft,vt ex Philofophica vita Marci Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu ærasilla tulerit. Solent enim plerumque homines vitam Principis æmulari iux. ta illud Platonis à Tullio in epift.ad Lé tulum reperitü: Quales fum in Republica Principes,sales folers effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci, plurimila philoſophari finxerunr,vt abeo ditarë. tur. Ex Herodiano, & Xiphilino. Rutam allium ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max ex teftimonio Ariſtotelis 9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam, cum dimicatura eft cum ſerpentibus, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ(auctore Simone Sethi ) coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio tuerentur. Animaliaoriri, & viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna admiratione dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor. animal.6.19.adducitur; animalia ſcilicet oriri, & viuere in igne,cum elementum hoc omnia comburat: & nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit, infulaærarijs fornacibusvbi, Calcites lapis ingeftus compluribus diebus crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur pennatæ,paulo mufcisgrandibus maiores, quæ per igne Saliant, & ambulent. Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur; vix credere homincs auderent, cum totum rationi aduerſetur; fed hæc, & alia maiora à po fentiſlimanatura fieri poſſunt, 10 Lacus Lachs Affhaltitis mirabilis natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo nere.Salfus ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate, vt etiam, quæ grauiſſima ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de induſtria quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus, qui eius viſendica uſa illucaccelle sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga manibus, in altum deijci, & euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum repulfi, deluper Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos falubriores, & fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum falubriores ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis, lacubus, auc riuulis viuunt.Salfedo enim duriorem facit carnem, & fubtilioris fubftantiæ. Contra in piſcibus, qui ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt muccoſa, & infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus cum ad Numidam hofpitem deue niſlet, & fibi è vicino fluminelupi for moſum appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum capilli, quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu ra in exornandis multum conſumunt te. poris,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus aciem,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit lib. 7.Hip port. Go Platon, plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira culo ſcribat. Cibusfapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te & panis micis laginati lipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palate ineunt gratiam. Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum ad gula faporem eſt optimus, & piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft muccofa, & infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip puis cum ad Numidam hofpitem deuc niſlet, & fibi è vicino flumine lupi for mo ſum appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur. ulierum capilli,quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu rain exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin autem in aquaminijciantur, in ver. mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem,oculoſque ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi. debat, vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon. plac.6. 4. At mirabilior erat Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat; dequa re adeo admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat. Cibusſapidiſsimus quomodo apparetur. QlideraGallinaceos, pullos,quila &e & panismicis laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, & pięlertim iecur. Vnde non mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint? G. Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando ingreſſi ſunt blijDei ad fili as hominum: poſt autem Diluuium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis c. 3: Deuteronomij) in cibis, & afpectu cæli ad terran habitatam remen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium múdus ifte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata funt. Adfacies mulierü rugatas ſelectum præfidium. (N gratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abfcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum,ſi dein de ferbuerit in olla,& { patula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f biduo, vel triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculari & erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani maduertent. Maxima eft folis excellentia, do in hec inferiorainfluxus. Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur, vt illú Deorú patré,hominūá; vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex eft, & tempora cuncta moderatur: annos,menfes, & di os diſtinguit, & efficit; nos fua luce læti ficamur, & eiuscalore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. narefacit, & flores redolere. Ipſefruges, producit, fructusmaturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ viſceribus mira virtute spitøre facit, Hominųm ipſe, cum ho mine Gigantes in orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt alijDeiad fili as hominum: poſt autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis 6. 3. Deuteronomy )in cibis, & aſpectu cæliad terran habitatam femen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa produ ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium müdus iſte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata ſunt. Adfacies mulierürugat asſeleétum præfidium. Ngratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abſcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum, fi dein de ferbuerit in olla, & ſpacula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi biduo, vel triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculæri & erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani. maduertent. Maxima eft folis excellentia, din hec inferior ainfluxus** TO Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur, vtillu Deorú patré,hominúý; vocauerit. Ipſe enim omniú aftrorú Rex eft, & tempora cunctamoderatur: annos,menſes, & di es diftinguit, & efficit; nos fua luce læti. ficamur, & eius calore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. nare facit, & flores redolere. Ipſe fruges producit, fructus maturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ vifceribus mira virtute qpicere facit, Hominum ipſe, çum ho minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur, & occidit, corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft:fic ait Ari ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú, &receffum Solis in circulo ob liquo,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, & alia tali lideri Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere pole. B Ariftotelc, & Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum etiam illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui tantum alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi autem famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia & comburi, & conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio animalillud, antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere verifia mile eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin lib.2.6.56.Dia foridisin agro Tridentino,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam Salamandra rum copiam reperiri,fe autem,vtexpe rimentum caperet eius, quodde Sala mandra vulgo fertur, plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus exarſifle,bre uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada proprietas. I Nter Arcas, & Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de bel. Iudaico ) regni Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die, quem ludzire ligiosè colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu ſegniseſt, mirabilemg; naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà fonte luo deficit,audumq; & ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius eft, nulla mutatione facta ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo ordinem obferuare pro certo ab omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro lattandisine Fantibus vitioſas eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis ma lis moribus imbutas, vitiofas, in. B eptas, crudeles vel ſuperbas reijciendas exiſtimo: mites autem, benè moratas, fine vitio, & prudentes cligendas. Pueri enim ex ijs educati ob acceptum nutri mentum à parentum natura recedunt, & 1 ad nutricisvitia, vel prudentiam aliquá inclinationem habent. Indelegitur Ne Pi ronem crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe(quamuis pravá inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe autem à crue delillima nutrice lactatus, & connutri tus, propriam matrem interfecit. Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in mulieris i ei F credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu,rutam, & hederam illico mori, apesta & is aluearijs fugere, lina nigrefcere, aciem in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus & ærugi nem contrahere: equas, li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia pernicio famala ex illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar hic auctor: cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe falfamum eſt, quippe in ſana muliere, non differt & Yanguis à fanguine vitiumque illius in i quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua Praxi recenſuit, fecus eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius fanguine nõmodopericula, quæà Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia. Equidem canes epoto · menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he & icā, & phthiſim, fià veneficis, eis in potu tribuitur, deueniunt: Oleze contacte ſterili fcunt. Alia ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ reticere melius eſt. Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis afue tis fuiſſe. Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque Phar maco ſegniter purgationem habebat. Medicusfamiliaris, vtaluum irritaret, juris pulli ſine ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat; illumque nau. ſeantem, & tale brodium abhor. rentem, vtebiberet exorabat. Super ueniens autem Philippus Ingraſsia, iua ris vice, libram aquæ frigidæ cum vn cia zuccarimediocris albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af fuetus,atqueiecore percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim naufea fedatilque nonnullis in ore ventriculi morſibus, talem è veftigio purgationé feliciter perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ potione,cupiens, argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij aureorum nummo. rum quinquaginta, gratiſsimo animo donauerit. Ingraff. de.frig.por.poft medic. Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam quod mihi in Apuliæ quo dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me quidá nobilis, qui ma. nusà verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro illis abigendis præſidium. Ego coram nonnullis multa,quæ aliàs RII veriſſimaefle comprobaueram,illicon it'o fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe ele &tiffimum habere remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I. faſſus eſt. Sciſcitor quale fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum veni Before mus, ægro confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in floribns 1. Eringij, & Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris calaſsini, cum ma of culis rubeis, & quodammodo aſsimila tur proportionecorporiscantharidiyli y cet paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i- fticus, & ſingula in ſingulis verrucis d... * gitis exprexit: exibat liquor quidam, o manus intumuit, & doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies detumuit, & fana facta eſt, nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem inter lethalia vene na connumerari. Nter atrociſsima, & fuffocantia ve nena Tauriſanguinem recenter epo tum connumeramus; congelatur enim 2. in ventriculo, reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3 Athe Inesta Athenienfis tanti veneni tentauit expen rimentum. Hic enim ciuium inuidia à Patria relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum autem in patriam ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo,hauſto Tauri fanguine, vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe. Quo artificio duriſsim afaxafrangen re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido accenfo retulit Ola us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum pinguehumidum,fax lique commiftum illud fit, ob id enim flamma potens & acris eſt diùque ma net. Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam, comminuereopta ret, faxa potentiſsimo igne concalefacta; acerrimo aceto humectabat;:ita enim ea molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes LAsbeſtos lapis,qué Arabia, & Arcadia producit, fi verus & probus fuerit, femel accenſus perpetuam flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú cane delabra conficere folebant, clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam & i * inextinguibilem elucere, quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz. Athenis Veneris Phanum fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ conſtru Etæfuerant,quæ aliqua intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti Reges opera magnifica, &admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab Aegypti Regibus conſtria & a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi porrò Labyrinthoi rum,Pyramidümqueprimifuerunt au & tores, & Mauſolea fepulchra, & Obe. Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci: nore, Pheronem Regem è veftigio vi-, Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem anno ab vrbe Buci, accepto Oraculo, quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ tantum B 4 lui ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum expers, lotio ab luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit, cum autem nihil cerneret in. finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque recuperato, præter eam (vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit, omnes concremauit. 'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis donaria pofuit, om nia egregia ad memorię diuturnitatem, tum maximè memorabilia,ac fpe &tacu lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos vocant à figuraverucēzenam cubitorum longitudinis,octonum lati tudinis. Pelõdor. Virg.ex Herod. lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando attuliffe. Arcus Brutus cumexercitu ex A Gia nocte media & profunda dum fplendidum erat lumen, & filentium vndique caftra tenebat, multa fecum memoria recolebat. Cum autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus MarcusBrutuscumexercituexA  intentus ad introitum afpiciens,horren dam, & monſtruolam corporis feri & terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex it.Quis (inquit)interrogans erutus,ho minum, aut Deorum es,quid tibi vis? quidad nos veniſti?Murmurans ille,tu. us Ô Brute(dixit)malus genius ſum, in Philippis me videbis. Tum brufus nihil perterritus, Videbo, reſpondit,cogita. bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana cognita clade deinde, cogitationeſque fuas videns, & fpes fallaces ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi mortem coniciuit.Ex Plutarcbo. olei, vini,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij vefpertinus occaſus, fi biduoana teuertat, vel fequatur Plenilunium, fegeti rubiginem,&foreftentibus vre. dinem pronunciat. Procionis occafus veſpertinus,fi interlunio eueniat, flores ti yiti, & oleu germinanti iniuriam ex vredine adfert.Aquilæ verfpertinus ex. ortus, & Arduri occalus, in Pleniluniú B S incidit, & olei& vivi ſterilitatem, vtros quetum florente denunciat Ex Iunitino - deris falubritatem advitæproduction anem maximopere videmuscon: ducere.. N Hybernia quaſdam Infulas, ir quia bus homines longiſsimæ vitæ funt, re periri compertum eſt,tanta eft enim ibi: aeris ſalubritas,vtvita humanalongiſsi me producatur, Cum autem ad maxia. mam ſenectutem homines deueniunt, deficiente pauliſper humido radicali, caloris naturalis opera, quia anima pro-. pter complexionis bonitatem recedere: nequit, in corpore magni ſuſcitantur dolores: Idcirco illius regionis homie nes poft diuturnos labores, vitam aber forrétes, longèà propria regione fede portari procurant;præſertimque ad lo. cum minus falubrem, vbifaciliter mon n'antur. Abulenfis in Genef.c.2.6. Anania: in Vnis.Fabrica. Linica.magna proprietatisapud! indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex Asbeſti. no lino,& Amiancho lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem; proie & a flammam quidem concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum autem vſu commaculata Indi hæc lintea depurare coguntur, (ſpreto more noſtro )non aqua,non cinere, vel ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt:: certiſsimoexperimento perdocti ab eo non cóluni modò; ſed potius-exempta. fplendeſcere,nihilqueillis deperire. Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus àgraui valetudine opa preffis varias hominum figuras appa: rnilleſepißime, expertum oft. Ignum ſpeculatione illud fempers primuntur valetudine ex affe &to cere. bro, an actu Demonis figare diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel audiui, non. mullos. Dæmanes,alios verò fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter cæteros Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur. Cum (inquit) Romæ ægravaletudineoppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem mulieris eleganti formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum infpicerem diù cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà imagine captus, aliter,atque res eſſetafpicerem,cumque meos ſenſus. vigere, & figuram illam pufquam à me dilabi viderem, quæ nam illa effet interrogaui, quæ tum fubridens & ea quæ acceperat verba reſpondens, quaſi me planè derideret, cum diù me fuiſſet intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani in lib. 1. de pita hominis difa fusè enucleamus. Hydropes lethales multoties ab occul. tis,abditiſq præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum remedijs, fed à caufis abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat. Medicinal, Chriſtophorum quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via fanatum fuifle. Illi dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in laxatumque eius finum irrepfit, & toto cotempore, quo dormi. it,per tumentem,nudatumqueventrem oberrauit. Poft horam expergefa & us lacertum in ſinu ſubfultare animaduer tit, quem veluci homini amicum & in noxium dimilit. Huic ab eo tempore hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra paucosdies ſubſedit, & diſ paruit. Quicafus mirabilis eft: & non minori admiratione dignus, Bufonis fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal fi per ventrem fcinditur, & fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per vias vrina, quæ in Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus expertuseft,Napaulli ſecreto rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici lapide ventriapplicato ſenfim abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam corpori fuffulam Hermolaus Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via multos hoc morbo ſanari comperimus. B7 Mediana  II Medeamà veneficiorum calumnia a Diogene fuilevindicatam., moriæ ſcriptoresmandarunt,Meo. deam illam concelebratam magicis arti bus, maximam dediffe operam, ijſque latiſsime fúille inſtructam.Hic.n.apud Srobæum dicebat,Medeam fapientem, non veneficam fuifle, que acceptis mole libus, & effæminatishominum corpo, ribus confirmabat ipfa gymnaſijs,acex ercitationibus, & robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt veriſimile eft,faina emanauit, quod illa coquendo carnes hominibus ivuentutem reftitueret, Si. enim ad ea, quæ de ipfa dicuntur, quod nocturnis horis coram Luna proftrata maleficia fuo nudato corpore pararet, refpicimus, vt patet per Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia attinet de quie bus ipſam accuſent, neſcio quomodo. ab infamia eam liberare valeamus. ImPlenilunio vtplurimum furioſos: vehementius infanire Luna dum Soli opponitur, vehementius furiofos infanire obſerua-: mus: tunc enim ex. fuperabundantium humortin copia-cerebrum ad cranium vique intumeſcit,eofque ad furiam du.. cit.Hac (vt reor) caufa, furioſos Britan. ni luna quarta decimaverberibus affli., gunt,conſiderantesſailicet ſanguinem, & fpiritum tunc temporis efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem conferre videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere potenseft:ſic dolor, & calamitas, prudentiam inducere conſueuit: quod, fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimēſuramàquin bufdamnationibusrudiordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá anni-menſura, & Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft:fiquidem Arcades trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui 314.diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit, annum. que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus, ad curſum Solis, quidiebus365.& quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit. Céſorinus, & Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio norispotentiacontraparafitos mirabilis eft. Irabilis profecto Solatri maio. ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, & exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc paraſitis idoneum eft remedium,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, & confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron, fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita;qui enim guſtauerit, apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto. Ventorum ortum,occafumque terre AremEchinuinmirafagacitatehomi nibuspraſagire. *ErreftrisEchini, quiautumnalitě. pore in vineis, dumoſilque fpinis verfari præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum alterum Boream, alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes autem Boream Auſtrum,ali umve ventum fufHaturum, longè abe orum ortu, vnum vel alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft, vtab ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula, eorumque fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex Plutarcho in Dialog. Animi pudorem, timoremque hu. manorumcorporum diuerfimoda faciem alterare. agna inter animi pudorem, & ti morem cum vtrumque fit triſti. riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines facie rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura(vt inquit Macrobius 7. Saturn. ), cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum, imum petendo penetrat ſanguinem,quo conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius auté (vt ex Taſſone citatur M  citatur) faciem in pudore,voluit affe &iū recipere, & proinde erubeſcere. Hocà ratione alienum haud eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem,inftar velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes enim manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita &noscum timemus,late bras quærimus, & loca occulta, Natura itaque defcendens,vt lateat,fanguinem fecum trahit, quo demerſo dilutior cuti. humor remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundiprimordio minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter exiſtunt. Quædam enim, vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini exhalationibusfiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus proueniunt: vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt apes ex iumentis:crabrones,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi liue mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt teredines, qui lunt vermek intra ligna, quando non abſcinduntur tempore debito, exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis. Quædam ex herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè à Deo creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex corruptione procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis generationes eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum materijs indidit, fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2. Defygis Arcadia mortifera natura, Alexandrimorte. Circa  Gerialis. ferunt, ille, CircaNonacrinin Arcadia,fons quidá teperitur è petraexoriés, quęStyx ab in colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma celeritate corrúpat corpo ra. Equidemprotinus hauſta (Seneca teſtimonio 3 quaft.natur.)induratur,in Itarque gypſi ſub humore conftringitur, & ligat viſcera.Quia autem, nec odore, nec fapore notabilis eft,fæpè fallit, nec ea epota,amplius remedio locus eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí huiuſmodi continere,necaliter quam in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni potu,magnumAlexandrum in Babylo. nia fuiſſeextin & um multi ſcriptoresre medico,ob aquę feritatem in media po tione repentè veluti telo confixusinge muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è conui yio ſemianimis, tanto dolore cruciatus eft,vt ferrum in remedia poſceret, & è tałtu hominum velut vulnere indole. fceret. Achores tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter fanari. Dum 46 prope Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren, ibi quendam achori bus,tineiſque per multos annos turpi. ter affe & um,cui varia fuerant applicata temedia,omnia tamen inutiliter, prop termorbi reſiſtentiam repperi. Tande noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco purgatus, folum linimento ex oleo in quo ad exactam co &tionem Bufo fue Rana terreſtris ebullierat, optime cura tus eft, quippe fimplici hoc remedio per paucosdies in capitevtens, fanus, & capillatus fa & us eſt; durante autem lini mento piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui lachryma, eiuſque in ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui lachryma in Tudoreciendo, vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü corpus fere folui iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra &. 13.6.6. le tria grana Azir filio Regij magiſtri equitum in lacte, vel aqua cucurbitæ, vel.roſatæ exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in Ceruis ante ceptelmum annum (teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem proceſſu generatur, & in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read venenum efficaciam, vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires infirmorum collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non potionibus modò,verum atqueodo, ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt enim Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi prorogalle. Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari busadmouentægrorum, quem a tem. poribus, & coſtis cataplafmatis more imponimus,vtique vires egrigie reſti tuimus.ConciliatorApponenſis mori. búdá vitá, ex croco, & caſtoreo cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle tefta.  teftatur,ſenibuſque eam compofitioné exhibuiſſe, nullatenus olfa & u magis quam potu profuiſſe.Ferreriuslib.2.Me thod. De olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum, vt Herodotus anti quiſsimusmedicusprodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu dine, vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis,conuulfis, & vrinæ, fup preſsis laudatiſsimum,ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto, dumeflet Patauij:illum enim validiſsima occupa uerat conuulfio,at tepidi olei pleno vafe immerſus,ac fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam & fuos contemporaneos, perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem. Nter aliasrationes, quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum parentum,quiannum ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux it;quod'Adam'rerum naturalium perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit enimfru & uum, herbarum,lapidú, lignorum, animalium, mineraliumque virtutes, & do&rinam, quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat; quæ omnia contemporaneos,(vt ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit. Hæc autem cognitio, & ex diluuio, & gérium diuifione perdita eft.Reperiun turtamenin præfentiarum multa mira bilia,naturęque ſecretiſsima apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan vin dicata; quæ aliquando hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia opera admirantur Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari: Nteralexipharmaca præſidia, Rutam minimęconditionis haud efſc perhia bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta multos à veneņiviçulentia liberaſſe C. degi  legitur. Dehac Athenæus in 3.Deipn.la. quens, Archelaum Ponti Regem fuos populos veneno interimete confue uifie fcribit, illos autem à quibufdam edo &tos, ob id antequam è domibus ea grederentur,quotidieRutam cdere fo litos à Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione, capitiscruciatus verbenam mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore capitis mitigando; 'fi quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio quendam fuifle perſana tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari potuerat,non venæ ſectione, non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis pilulis,cucurbitulis, nec alijs topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent semedia,ad collum Verbenaviridisafe penſa eſt, & fanus fa & us eft,lib.9.ebſer.3. Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis,Neronisquecalle. ditate. Nero Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam,eiuſque excellé to tiam magnificauit; Ille quidem dumno. & u incederet incognitus, & in multos impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta,cutifq;livida,piftula; ab illis fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure, & cem ra commiſta,linimento ljuentem vifum collinibat,quopræſidio antelucem à fe da ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu, faciem fanam oftenderet,facinoris ſui famam, & igno. miniam occultabat. Ex Durante in Her. 25 g. barie. I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo,poteſt. Ex M46 mbiaCornace. De arboris ficusmirabili natura. I coctu faciles habere deſideramus, in arbore ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio aſſeque mur: credo forſitan ob acutum, & incil: uú odorem, quem arbor Ipirat id cauſa ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod mirabiliusin huius arbo. ris natura eft, Taurum indomitum, fe rumque in eodem alligatum manfuef cere tradunt. Neſcio autem annaturali via propter-odorem,an aliqua antipa thia, quæ inter talia exiftat hoc eueniat. Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia fuille confirmatum. Quomodoà vitriolo arislaminas.ex. trahere valeamus. Lui momenti illa cognitio, quomodo à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam modum, qua facilitate id affequi valeamus.Bulliatur Romanumvitrio. lum in olla cú aquafontis: in eaque cha lybis lamina per horæ quaternionem demergatur: extrahito demum chaly bem, ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum habebis, quęculcro radende fút, vt alias chalybem immera. gere pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re. fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq; Vätrioli portio in aqua fuerit. Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc: minimo principio multa, precipuèinre: medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli,&fulphuris rostris: lumbricos plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis præſtana tiſsimum remedium ad puerors i lumbricoscomprobalſem,haud audia. rem hic inter arcana ſele &tà fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft eiuss virtus,& potentia, vt mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat. Hic: induſtria paratur,In libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel vitrioli chimi.. cè extractorum, aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua acidula frat, quæ pu eris,natuque maioribus danda eft diù noctuque ad placitum,.e & enim præſtaa tiſsimæ virtutis 0 T! 10 Da DeCaraba mirabili virtute invuula cafum,Amygdalaruamque tu. mores ArtinusRulandusvirin chimicis M celeberrimus in Amygdalarum inflāmatiene, & tumore, vuulæquecaſu ex humoribus à capite fluentibus exci tatis ſola Carabâmirabiliaparauit-Prie mo fuffimétum cófuebat,hoc modo ex. ceptü.Accipiebat Carabæ albiff. drach. 7.qua redacta in puluerem craſsiorem, & carbonibus impofita,fumus per infa dibulum,ore excipiebatur ab ægro mar. ne,meridie, & veſperi, multa vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris vnc.. & quam moreemplaftri linteolo indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul uere vertici imponebat per diem,per noctem vero fequétem recens applica bat. Quibus paucis remedijs, &ex fola: quaſi Carabayquam plurimos à fauci um tumoribus, vuulæque cafu,Amyg dalarumque inflámationibus oppreſlos perſanauit. Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad. Tenaf mumexfalfapituita expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium. St mihi remedium pro Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere morbo hic ſugebant per fanafle quam citiſsime. Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ, fiue infectorice: Aromatario parariiufferam. Hæinfine: O & obris, cum bene maturuerint, collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad formamfyrupi ducitur: additurque in fine maſticis, velzinzibes sis, anih, vel cinamomiad drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce vſque ad duas cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto, cibatur eger,parceta men, & ieiuno ftomacho, præcipiturque ne dormiat.Equidem vna die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia, & excretis féroſis.viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur C Ariet  mo Arietis linguam futurum in ouibus milanitium,commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere, vt linguam paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari, cau ſam enim adducimus ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit, quia cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis forelanitium. Audiui à multis, hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e. tam cum vterum gerit,fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum, fi albam album, & fic de aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum àGalliouoexclwdi.. On modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis, Bafilifcum: abouo galli veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum fcriptorú teſtimonio, quos eriam ego perlegia: Gallo decrepito, quiſeptimum, aut no.. olm, vel ad fummum decimum quar.. Na tum annum agat, ex putrefacto ſemine, aut humorum illuuie altiuo tempore, ouum conflári, ex quo ab eodemfoto (vt à Gallinis alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo vio dit,habitat enim (auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc creo dere difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare conceſſum. eflet, contingeret etiam inalijs, quod minimèobſeruamus. Mihi aliquotoua: in experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum peperiſſe: erát oblonga,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis terminabátur:at hæc à Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu kuperfætatione,non autem a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects: veluti mutosdo; attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo Lupi aſpectuadeo mutos& attonitos fieri,vt nec fari, nec vociferari valeant. A Lupiquadá prietate id fieri aſlerunt, contenderse tes Lupum,fiprior obuium quempiam conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn,ſiab homis ne prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu.. pi aſpe &tu,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore autem: valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum,inde corporis, & ar.. tuum fieri impedimentu, vociſque pri uationem mirum non eft.Alijalia fin gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem,tanquamad caufam proporti Onatam reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari pole. Etulit Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate exiſtere aniculas, quarum impurie tate,nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin grauiſsimum incidere diſcrimen,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem. Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote & emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie, quot cómorarer,& læti in měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à Fuco animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem alias morfus hos curafle recordabar; quare confeftim, vt nonnullas muſcas feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū impofuiſset,breuidolorie datuseſt;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg, admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica fanarivaleant. Vidam amicus meus, cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q  tur,paffus eſſet, ſauitatcm,poftmultat do & ifsimis medicis tētạta remedia, ac. quirere non potuit:ylcera enim licet fac pari viderentur;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan.. nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita hominem perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-. nis puluerem, fiue cinerem Ex Corici bus(exemptis interioribus) couſperge-. bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die hoc vſus remedio vigintidierum fpatio, ægerconualuit. Procurauit arcanum a.. micus, & mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o coitu mafculumoccidere,ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au & oribusaffirma, mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os caput inferit ) & fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere. ſiquia fiquidem Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris cofrodunt,e am que occidunt. Sic voluit Plinius lib. 10.&Nicander in Thoriacis, quare Vipe. ram aiunt diciab co, quod vi pereat,aut vipariat.vtrumque autem falfifsimum effe, & experientia, & grauiſsimorum e. tiam ſcriptorum auctoritate cognitum eſt.Apollonius apud Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe catulos ſuos; quos peperiſſet lambere, & expolire aſſeruit. Bodinus in nat.theatr.lib. 33 in Gallia,ad Clapum Pictauorú flumen, vbi Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq. fexus viperas lagenis vitreis inclufas fu iffe reculit;illafque peperife, & conce piſle vtroq; parente fuperſtite, Matthi olurs ex. Obferuatione FerdinandiIm perati Neapol.Pharmacopolæ Viperam parere catulos ſuos, & non occidiafts-, ruit;catuloſque-non viſcera matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa pere. Quarerectiusſentimus,fi Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed quafit quaſ Viuiparam, quod non oua, vtcæ.. teri ſerpentes, ſed viuum animal pariat. Iraulos, balbos, & femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem, VA communiseft fententia ab expe rientiaalienumreperitur. Rauli, & Balbi non ob cerebri hus midam intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant; inueniuntur enim hi' modo calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt & reliqui, qui nec Traus li,nec Balbi funt;imò & hi modo (putis " abundant; modo ijs carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi Traulos-& Balbos fieri, fed obt varietatem mearuum, in intrimentis; pertinentibusad locutionem exiftenti um, docuit experientia.Porrò Trauli, qui literam R.exprimere nequcunt, in media palatiregione, vbi quartum eſt osfuperiorismaxilta, duo inueniuntur foramina, quæ nullo modo adeo aperta & obuia sút, vt ijs, qui optime loquútur, Balbis veròiuxta dentes maioraobſer. samus foramina,per quæ ſtillans pitui ta,linguamque irrigans in parte illa an. teriori,bleſam locutionem facit;; vnde bleſi, & ſemilingues fiunt: quod fi hæc non eflent haud balbutarent, licet à ca pite copiofa defcéderet pituita, vtmul tis contingit, quiex hac tamné balbi non fiunt.Quare fententiaHippocratis2.A phor.32.malè verificatur, cum afferit, balbos ob frigidam, humidamque ca pitis intemperiem fluxu tentari: Auxio. enim talis & Balbis, & non Balbis fuc cedit: concurrit tamen hæc fluxio, vt caufa remota, qua aliquando cum pro zima,dicitur affe &tum facere poffe, fi. iunctatuerit:: fola autem facere nequit. vemale Hippocrates,& alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de pit.en.lib.3. Morbosperniciofos; velmortem,veb affectus longitudineminducere. Jana ciuitate, & in circum vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto funtmorbi,vbiſectis aliquibus corpo, tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz, vitellinæ plenus inuentuseft, eiuſque: tunicæ, & inteſtina eodem colore per tincta viſa ſunt. Meatusqui ad fellis; chiftim protendit, ab humoribuscraf fis, viſcoſis, & tenacibus obftru & us ea. rat. Fellis veſica diſſecta, bilis flaua haud inuenta eſt; fed eius vice atra, & inſtar atramenti nigerrima.Hepar quo ad externam partem album erat, in in terna autem nigrum, &atrum, veluti carbo accenſus, & extindus. Langueno tes,in febrium initio,vomitu, &nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte. rica, & fubrubra ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, & longo tempore,ſi: qui euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario deMore bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem multa Tidetur quafi abftrufum illud quxar, aucs autem multæ?'profecto in partu plures lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum, vt plurimum parit; Inſuper o. ues, & agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro eſui apta non probatur; nihilominus Q. ues-agni, & arietes ſemper in maioriny mero reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eftDei bonitas, qui tam imma ne animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c. 7.Noe, vt ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, & feptenamaſculum, & foeminam in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo, & duomaſculum, & foe minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, & in propriam ſpeciemimmanitas. Hi enim;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in multo numero con ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum á villicisparatur ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus deſtirutus, currere ne. quit &in terram cadit,fit aliorum cibus, renouaturque ludus ad omnium faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin ei decremen i, alius enim comedit alii um. Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum reductio, eiuſ quevires in medicina. 7ltri ſtibium,quod in longis, & dif ficilibus morbis propinatur, in e. pilepfia fcilicet,melarcholia,podagra, elephanticis, reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, & quartanis,peſti fentia correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis, & fimilibus; robu ſtis tamen corporibus, ita præparatur. Stibiū, quod ex auri fodinis colligitur, in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; & fupra ignem in fi &tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando vritur, vſquedum omnis humor,ac fu mus euaneſcat, quod in ſex,aut octo ho rarum fpatio expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter candentes carbones collocatur, & igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat picisiftar,poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim, vitri ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges. Andernacus Co ment-z.Dialog.7.de nou. vet.med. Solo Metronchita auxilio mulieres offepragnantes (omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud fcriptores, quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere valeamus, inu. dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas nofci;fillud album, clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, & defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu,vomitu, & nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la & te in.ma millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in mulieris facie oriútur,ex tumefa & is mámillis, & a ful co earú capitú colore pregnátes venatur. Cæteri tú ex his, tú ex pódese circa pe dé,ex: vmbilici egreſſu, ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis, quæ vidétur in nariú angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an vteriorificiáfue-fat claufum, vel apertum, ex claufo te nim grauidationem patefaciunt. Non défunt alij, qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel, & fuffumigia e x periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam, fi tormina fequentur arguunt prægnantem eſſe mulierem.-Siilia fuf fumigio acuta per pudenda vfa fuerit, fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe gerentem.Hæc autem figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia reijcimus,& tanquam abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij afpe & u vere mulie rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus vrinarius cum vtero: nihilcommunehabet,lotijque claritasy; albedo,& bulloſa granula in eo,poflunt morbosetiam ſignificare, vtin cachochimo corpore ſæpius obſeruamus; hoc itaque indicium prægnantium verum non eſt:Nonexmenſibus ſuppreſsis,nó ex vomita, &nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc conſequimur: quia affc & i oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes non funt, affe &tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis; quia id etiá virgines habere pof Lunt,vt voluit Hippocr.Inſuper inult mulieresin primis menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis & ventris tumore & ex pituita in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo conceptuapparent,:: quippeſignumihoc,neque omnibus,nes queſemper competit, & in nonprægnā. tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ,earumque capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,& prægnantibus.Pondus circa pe & en,non in grauidismodò fed, in rete tis menfibus, in mola, & veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6 tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft, Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia, non in grauidis.modo ap 7 parent, fed in quolibet abdomin's &fplenis tumore,& in occlulis menfi bus. Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimumVteri orificium tange sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt, quod femper, & grauidis, & non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy dromelle, & acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus & Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti & infallibili indicio prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto;li illius in foramen Vteriexternum apicemin. mittimus, quod fumma cum dexterita te finiftræ manusdigito indice inuenie. mus non enim quilibet inexpertus in yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe longa, & duriuſcula, quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex pice ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi pauxillumine forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui tractu votum I affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen, quod fit concep tu pera & o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij njhil perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli, cationem paruam pertulerit mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um vteri,vưiquegrauida non erit; & V teri intimum foramenapertum reperiea tür, vt experientia liquoris oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error. Periculofum eft pifces frixesin humido locarefor matos fomedere; Nter magna venena piſciú frixorú, quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti calido vaſculo, eſus eft;bi enim in lethiferú cómutantur ver nenú, &fymptomata pernicioforú fun gorum corporibus inferút, quæ quan doq; non ftatim,ſed poft diem, vel bi duum eueniunt: oportet igitur frixos pifces in loco aperto,vtfrigeant, demita tere, fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex ArnoldoVittan.lib.de venenis, 10. Lałtis balneum procorporis decoratie onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum max A idve vu, illiusfiquidem lotione,corpora, & candore, & venuſta te vigebant. Hinc memoriæ proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum aſellas ducere conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret, totü corpus balneabatur. Mercurialis de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi tadinimaximèvacabant. M Agna profe &to faude Germano rum conſuetudo,digna iudicatur in corporum hominum vigore confir mando:ijenim legem habuerunt,neant te ætatis vigelimum annum, quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte exiftimantes corporum viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de belloGalico. Fæminas vtero gerentes, libenter: marem admittere:bruta autem grauida nequaquam. ! Olie Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore, bene nouit A rift.7.de biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem admittit,brutoru vero omniumſola equa coitum patitur à conceptų, reliqua autemminime. Ma nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum pati, & ap petere. Cicutam,vterinum furoremex ": tinguere. Icet cicuta inter frigida connume. retur venena, præcipuè quæ in quis, &lacubus inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus Veneris eſt immoderatus appetitus, cum vteriardore, & delirio, Narrat Diuus Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron,cuiusverbanotr nulli intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum, &ad renereos incentiuosappetitus de ducerem, cuius auxilio compefcuntur: quippe Athenienſes facerdotes cicutæ vfu,libidinisincendia extinguere con ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, & hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter feripto, origine. Aflerunt multi, hos fub nomi neexanthematum, veteres intellexiſſe, cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui, quo nutriun fur fætusin vtero, & naturam, fiue calo. remnaturalem, ita exprimunt materiá, & efficientem. Alij minimeà veteribus fuille cognitos volunt, digladiantur que:num vitio.coli,vel ab internis cor. poris principijs apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos peftem efle, fierique in pefte, & à corrupto cælo contendunt. de Equidem ante Arabum tempora nul lus-reperitur au & or, à quo morbos hos LT aut generatos, aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli inter ipſos Arabes, propter labem menſtrualem, lactis corruptionem, vi &tus rationem, & alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú difficultate, & ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir d octiſsimus, hosefle morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio temporeſcrip e torum Arabum, & proinde à veteribus haud fuifle cognitos enucleauit. Adhu ius viri opinionem libenter deuenie, quippęſi à menftruivitio, homines in ficerentur, quia hocab Euæ peccato à mundiorigine fempiternum fuit,debu iffent homines hac menftruorum labe conta&i ſemper Variolas, & Morbillos pari,tamcn vec inprimaætate, nec poſt Noe,nec ante ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle, apertè legitur. Aperiunt iſtorú fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc enim (teſti monio Arift.6.de hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes habent, & inter cæte. ra Equus,Canis, & Alinus,tamen hæc à Variolis, & Morbillis non tentantur. At quodhuius reimagis negotium conua lidat,eft,Indosante Hifpanorútranſitú nequaquã Variolas paſſos, dirco non à reliquiis nutrimentià menſtruo fangui ne,velab iſtius excremento ortú ducunt Morbilli; quia ſià tali fuifsét variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos mor bos experti fuiſſent. Legitur apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos Variolis fuiffe extinctos, eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe runt, cordemmet viciſsim à noftris Va riolas, & Morbillos recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo productiprimò, cuius vitio adco homines fædati funt, vtin pofterosper hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant, proinde morbi hæreditarij dici merentur, quia paterna proprietate vagantur. Ex Mer. caridi. A1 th Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus telas ordi M tur, quibusmufcaspro vi&u ta. piat, hasad Tertianę febris circuitusde pellendos,multi præftantes, & celébres tempeftatis noſtremedici,non fine feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis, & populeo vnguento pilulas pam rant,corporiſque locis,horisaliquot an, - te acceſsionem,in quibus arteriariume uidens deprehenditur pulfátio, colligātas &relinquunt; indė votum conſequun. tur. Ioannes Moibanus. - Natur& cautela inmenftrualimulier rum fanguine purgandomaxi-, ma eft, MalenAgna eſt, in depurandis femina rum corporibus à menſtruali luc, naturæ fagacitas; quippe fi oculos habuerit meatus, quibus lingulis men fibus illam deponere conſueuerit,nouas adi illius expulfionem vias molitur. Proptera.multæ, ex oculis cruentas, laie. chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium emisêre,nonnullæ ſputa ru bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein quadam ancilla noſtra, cui menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem profundere obferuati.Atquod magnam infert admirationem, multæ per minimum manusdigitum,& per an nularem fingulis menfibusfanguinis fu. fionem habuerunt,vt in religiofa qua dama foeminanon menſtruante ter in fin niſtra manu Ludouicus Mercatus fami. geratus medicus obferuauit. Inter rutam do braſsicam nullam imao effe antipathiam. Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi. fecus rutam feratur, braſsicam illico arefcere tradunt. Aliam von adducant cauſam, & rationem, quam antipathiam, & diſparitatem quandam inter talium naturam.F utile autem eſt hotum argua. mentum, nulla enim inter rutam, & braſsicam.contrarietas eft, quia tamen alte. Elec  NO altera prope alteram areſcit, id in cauſam eſle poteft,quiavtraque calida, & ficca - eft, inde facile euenire poteft, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate perdantur. Pediculos morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à Medicis præfagium à pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur. Hi profe &to in moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve calor innaus re foluatur, vel putreſcat, circaventricule regionem, vel fub-mento, vbi maior eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas, tanquam calore proprio orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus exſolui cognouerint, ab infirmi corpore mira celeritate longius abeſle: confpiciuntur. Lemnius. De Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui ex India fertur, tum coloribus diuerſis, tum ve D4 piss TA m  nis variari confpicitur, ex quorum in.. terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur.Quod autem mirabilius eft, nuncferarum genera, flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic lapis portendir effigies: quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, & capuri, & feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe, Ex Camillo Leonardo de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda.. On eſt à ratione alienum, quod de Attila circumfertur, quod Canis more latraſſet: quippe Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-. tibusComitis Palatini feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra. tu,ac curlus pernicitatecumcanibus co tenderet, & cũillisin ſyluis illæfus ve naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft, quippe tales. im manes ſunt, & in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus fuit, NRege in es Ees & in viuentium cædes pronus, à quo tot Vrbes, & populi vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi: nesverum, etiam brutacernuntur. Omines laſciuire in fæminas, nec nouum,nec inauditum eft cum anebo fub humana fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant, mirabile eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam,quæ coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem, adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, & frum & us donabat, multiſque indicijs, & a morem, & ad fervitutem promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, & laſciuè mammarum loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem )puellam ardentiſsimè adama uit,no & u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele. t n itas te læderetur, aliò puellam afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá nonmorefolito'amplexa,ſed qui dam amantium ira in illam irruit, ma nuſquepuellæ nodis vinciens,caudæ exe tremitate amicæ tibias verberebat, profecto præreritę fügæ,atqueablentiæ: iniuriam vlcifci videbatur: Quomodofamine vterogerentes: conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam Roe mani vxoris in occultando conceptu referam ſagacitatem, quo præfi dioaliæ confimiliter,fi optabuntfæmiö. næ à conceptionis.indicijs faciliter oe cultabuntur.Illa quidé dû aliæ mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce.. Jare cupiens, vnguento, quo ruffas, & aureascomas.reddebat,ab vtero corpus vniuerſumlinire folebat. Illius erat vis pinguitudinem, ſiue carnis inffationem, aut laxitatem efficere, propterea com. Go: lange in corporis particulis vtebatur, Hlud tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem ' occultabat. Parabatur(vt' puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,& puftulas inducend tibus,calcefcilicet,auripigmento, tiap s. fia, & lulphure, hæc enim alijs rebus co --- mifta veteres ad capillorum cultum cad 1 piebát,ſin a.in aliqua corporisparticula applicantur ex magna caloris vijaut hu mores ex alto ad fummum:trahuntur; aut ipfis fuſis.gignuntur:flatus cutis, & extima corporisſuperficies attollitur, & in maiorem molem ducitur.Ex Plutarc... inlib - epwTikā. Fructuum, vinearum,iumentorumga interitus praſagium. Agnun à mori germinatione ca Lpiturpræſagium, mörus enim. ideo à Theophraſto prudentiſsima vocatur, quia omnium nouiſsima gera minat, & pruinis non tangitur: Idcirco fructus, & Vineæ à mori germia minationeà pruinis liberi fünt. Ea tam menquando à pruina lædi contingit(fia: D G quidemosi M Ty & fiquidem læſam in Aegypto, vt in pſala mo77 legimusMoyfis, tempore prodia tur fuiſſe )Colimaximamarguitintema periem,& proinde fructuum, vinearum. que interitum declarat.Atmaius ab vl. mo &perſicopræfagium capimus, quip pèvlmi, & perfici, folia, præter tempus decidentia,peftem inomniiumentorű,. &pecuino genere præfagiűt. Ex Cardano., Fætoremextinéta, lucerna vteroge Trentibus,infeftumeffe,& ini. micuin... Dor extinctæ lucernægrauis,adeo tur, vt in abortum faciliter conducat. Id: alleruit Ariſtot.8.de hiſt. animal.c.24. vbi non modo mulierés grauidas,,verú. didit.Profecto malus odor fi odor. fi prægnana. tjú corpora ingreditur, quia fætus im becilliseft, & à quolibet alteråtur,facili negotio inficitur, eius caro tenerrima, & ſpiritus inde abortusſequitur.. At no Kemelextinctalucernæ fætor perniciē. quoque Ila He 4 i quoquc hominibus attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis facere accenficó. fueuerunt. Duos monachos retulit Pe. trus Foreftus in obferunt. medicin..cum nodu cellam ceruiliariamintrașent, vt fæcem cbullientem exportarent,(fortè candela extincta )cum exitum non inue nirent,ſuffocatosfuiffe,ac mancmortu. os effe inuentos. Infania,&furori àfolanofluatico contrattis vinum potentiſsimnmfora gulare eſe prafidium. Olamur. fyluaticum, quodà multis Belladonna dicitur,tantæ eft immani tatis,vtinlaniam, &furorem hominibus eiusacinos.comedentibusinducat, AC cidit cuidam (referente. Hieron. Trago dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua plantam vi. derat talis calus: hicmultos decerpfit acinos, & deuorauit: altera verò die in tantam inſaniam,& furorem deuenit, vt plerique illum à Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi propinatum Spelaria D? esto)  eft, quo facto conſopitus,paulòpoft con ualuit, & abfquelslione vixit, Lolium tritico ", alýſque cerealibus: commiftum varia hominibusfymptom mata attulille. Anis,in quo- lolium fuerit, ſtuporem quendam,ac veluti temulentiam efi tantibusparit cum fòmno inexpugna. bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de Aliment: facult.Etenim (inquit )cum anni confti tutio praua afiquando fuiffet, lolium tritico affatim ispaſci contigit, quo haud feparato, quod paucus effet tritici prouentus ftatim quidem multis caput dolere cæpit ineunte æſtate in cutemula torum,qui comederant vlcera; & alia fymptomatafunt fubfequuta, quæ fuc corum.prauitatem indicabant, Lolijta. mennocumento acetum efle præſenta Deum remedium iudicatur. Quare tum Htritico,tum abalijs feminibus cerealio busdiligenterloliumfeparandum eſt. Scorpio Scorpioidem herbam Scorpionum: iltus feliciter fanara. Irabilis eft herbæ Scorpioidis in: M Scorpiones potentia,illi quidem huius tactu,exocculta diſcordia exani. mantur, &intermoriuntur, tantam in ter eosanthiphatiam natura indidit.As' quodmirabilius eſt exanimati Scorpi. ones,fi Hellebori albi radice tanguntur; ad vitamreuocantur. Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus impoſita fe liciter & citilsimè illorum virus mor, - tificat,viculque perſanat ex, cuius prz. tentancain illos virtute à Scorpione now. men fumpfit, & Scorpioidesdi&ta eft. Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger adfuiffe. Dmiranda profe &to in homini bus quandoque vifa funt. Regem Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede natura habuifle, cuius, taču lies nelis medebatur: bunc cremari eum religae A réliquo corpore haud potuifle perhibet.. De Samplone legitur infacrisLitteris, quod in capillitio mirabilem contineret virtutem, qua aduerfis quibuslibet re fiftere audebat. Veſpaſianūtactu.& fali ua, & fine his quandoquenon paucis af feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē, qui Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe & u a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim, quieui tamen,cum fimpliciter curamagere illú: cognouerim. Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari. Agnam Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè apud fcriptores legi, & à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus, illius potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in iuſculo bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft,vt nonnulli nonmodo ipſum excremét aridum,ve rum.  1 E1 uum recens, & expreflum iufculis ebi bant, & melius habeant. Ego quidéru fticis tantummodo remedium præbe rem, nobilibus vero, ne nausean indu cerem,non auderem,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia, ſufficerent tali.. bus ex eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale auxilium colico dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako xilio evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam (Sole Arietemi ) colle & am graniſque pæoniæ fociatam, contritam, & ex vino albo hauftam per colato, epilepticosinftar miraculi fana. re prodidere.Hoc exHermetetraditur. Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas, patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri effe dicatú, ffrumaſque delere,quod Veneri ancilletur, quæ collo præeft, propter Taurum eius domicilium.. Ex. Durante inHerb. N 1 1 1 1 i Arbores quandoque in lapides commutantur: N Danico mari, iuxta Lubecenfem vrbem Alberti Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, & pullis, qui cum in lapidem omnes, cum arboré & nido eflent conuerfi,purpureum ta = men,(vtipfe retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am memoriæ tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum, Abietes integras cum cor tice in lapides verſås elle,atque, quod maius eft, in rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle, quod maximè foc Tertiſsimæ naturæ operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum, magnaque eft cum illo eius fym. pathia, quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum tollit, fub planta pedis deorſum. Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger. valeanks. VI T literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt. ad vnguenti fpiſsitudinem, in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad ſcribendum.huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt; vt operi liquorap tior exiftat:ita profe & ò litteras habebi. musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; & défórmitates vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92  E morbillos. in facie, corporeque hominum remaneant, expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit aperire,eftpreſidium,quo vten tes pueri puella quedeformidate, quæ ab ijs relinquitur, carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, & in medio oculi quafi albicantes enricu erint, quod eft fignum bonæ matura tionis,omni die bis oleo amygdalarum dulcium recers. expreffo plura leuiter oblinire oportet, donecexſiccentur, ita profe & ò, vt fæpius experiri libuit, ve Itigia non remanebunt; & quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira. bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat. Ithridates fæpè veneno epoto, adeo venenorum tis auxilijs corpus diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit, & pluſquam fatis eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam pertranſeat.Ex Plinio. Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5 admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur, cuius moleftia Hierameram deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior, hirfu. tusq;, & pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa, canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19. Calculusrenum, veficæque in homi mibus, quopacto confumi valeat. Lapil  t Apillus, qui in Tauri veſica,men {e Maio reperitur, magnam habet in conſumendo calculo efficacia. Hic fi vino imponitur, mutato paululum ſa pore, colorem croceum contrahit. De hocvino quotidierecens effufo, donec lapis vino impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos bibere opor. tet. Hac enim ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam conſumi mul. tos experientia edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum aliquod recipere, vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui tum ad vnguema retinere folent,ver Tucam ſcilicet, vel cicatricem, vel effi giem,velmores, autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam in brachio habuimus, & Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue niunt hæc à feminum miſcela, ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo rumq; effuſione. Proptera etiá ſuccedit, File (fire fi feminain filiorum generatione benc mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti euadant. Hac enim rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris vehementiam, ve triuſque ſemina multum, beneque.co. ráiſcentur:Ex Cardano de subtit. go D: Marerubrùm in plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe videtur, to Adel D mare rubrum afbos nulla in terra prouenit,præter fpinam, quç dipras vocatur. hęc autem propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam eſt, quippe non nifi quarto, quintoue anno pluit, & tuncquidem impetuoſe, breai quam te?mpore. At- in mariexeunt plantz, cat quelaurum & oleam appellant.Läu rus arię fimilis in toto eft, olea folio ta tum fru & um oleę proximuin his noftris oliuis parit, & lachrymam -emittit,ex qua medici, Irftendo fanguini medica Hentủ compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi iuxta mare quodãin loco crum HM erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan. Incapillorum defluuio ex Hydrargynı lac epotum peculiare iudicatur auxilium.. rifabris capillorum defluuium in ducere conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ tales in mortis pericula conducunt. Pro huius immanitate, vtiin potu capri no lacte, illudque cum pane commede re,fingulare & expertum eft remedium; quippe ſedata illius vi,atque potentia,à veneni morte liberanturægri, & piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto in obſeruat.med. Inter Lupum, Agnum maximam effe antipathiam. Tantralis difcordia,vt ipfisemor., tuis in eorum chordis id etiä eluceſcat. Si enim ex Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in inftrumentis muſicis applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo tadas Bo ta &tas dillonare obſeruatum eft:at quod mirabilius eſt, agninas chordas à Lupi funiculis corrodi, & confumi, fi fimul n repofitæ fuerint,comprobatum eſt. I demde Aquilæ, &anſerum plumis fer tur, Aquilæ enim pluma naturali antia pathia anſerinas poſitæ interplamas, vt docuit experientia eas conlumunt & corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda reperiun. RiaabHoratio Augenio ioluiscá. (ult.pro epilepfia curanda magne efficacię proponuntur remedia. Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar timiſiç radicibusęſtiuo folftitio colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon ucnienti liquore exhibendus eft mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam, epileptico huiuſmodi remedium ada modumprofuiſſeSecundo loco,Mufte lę fanguis adducitur, hic pręſtantiſsi. mus proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris experimento, vidit enim fanatum E epilep probauit, fanari confueuit. Colligitur epilepticum fupra 25.annum,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet ftatim at queè venis exiſtadvoc.ij. cum vnaacer. ti:Vltimo loco tefticuli Apri,aut faltem Verris fiueSuis domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati in furno mira biles cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro mifcentur, & decem continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum aqualettonicæfelici cũ fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem lignoce peſcoperfanari, Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis, & membrisoritur cum dolore, Chanc noftrirampham,ſiue gramphum.yo cát)nodis ligneis à viſco, quod in quer. cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin aftiuo tempore,Sole in Lepois fickere commorante,tunc enim perfectia onis complementumadeptum eft, Dc. bent nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi, vtitarimfiatus: diffugiat,pio gui ficco, renuiq; prædirum eftlignum, * aut occulta ratione, vtvoluirCardanus Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem meconfuluiſie,votumque $ fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone. Annult ex bubalorum cornibus | huiufmodi etiam dolores prohibere multa experientia, ex eodem Cardano i obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium vent num corpora vostra ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor. dit, quamuisparuum fit animal,ex. - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore, primo quidem in ſuperfici em,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea marina turturis, ficuti, & terreni Scorpionis aculeus, quamuis ir extremam illam acutiſsimamque par temfiniatur, vbi nullum foramen eft, per quod venenum deijci pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda ineſſe illi,aut fpirituale,autAgidam,qnz E vt mole minima, ita facultate eft quam maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi eſle(inquit) percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore perfufus.Quip pe vbi exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit venenivis,con tingiteam, endemrurſus.contactu,in fingulas ſubiectarumei partium recipi: mox ex illis inalias continuas, done: in aliquam peruenerit principe:quo tem forémortis periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt vincula parti bus fupernis inie & a, abſciſsioque pare tium venenatarum. Noui equidem ru fticum,quiepoto è viperis medicamen to, reſciſlo priusdigito euafit, ficut, & alium quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt liberatus. Hac Galat. 3. deloc. aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem, Adem44 Yemedium. Dmirandum remedium ad ſtru. A mas. Cupreſsi foljaneque teneri. ora,neque duriora in puluerem com di minties, tortiuo vino confperges, atque ita volutabis, dum in fæcis corpus coe TH ant, inde fruma, velramex indecitur, pe tertio primum die foluitur medicamen tum, contractum locum inuenies, quidie o gitis-exprimidebec rurfus ad tres dies idem pharmacum applicabis,eodemque modofolues, &exprimes; feptimodie, vel ad fummum pono, ſtrumæ velut miraculo abolebuntur. Valet etiam ada ramicégutturis, parotidas,omnemdur se ritiem, & ædemata. Hie tollerininhere fit.Chirurg.6... Peftilenti tempore in:er pracipua-prafidia: aeris re&tificatio fummum iudicatur. Mnilaudedignus, omniq; decore admirandus Hippocratesiudican dus eft,qui peſtem illam ex AEthiopia ad Græciam venientem, non aliorepu lit auxilio, quá aeris purificatione.Præ cepit enim,vt per totam ciuitatem ignes accenderétur; qui non è fimplici folum materia,fed etiã beneolenti conftarent. Qua propter, & coronas odoriferas, florefquearomata,vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igniſpargebant, quo paa Eto aer purusfa & useft,& ijà peſte tuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis contra lumbricas: magna estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz aqua ftillatitia aptiſsima iudi.. catur,verum etiam illius femen.Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum effet in mortis periculo Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte fumpfiffe,atque lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum. Quorundam animalium vita terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem. Capra o & o. Afinus triginta.Quisdecem: fed vir gregisfæpè quindecim. Canis quatuordecim, & quandoque vigintiTaurus. quindecim. Bos,quia caftratus,viginţi. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-vigioti,&non punquam triginta, inuenti funt, quiad quinquageſimum peruenerint.Colum biodo, vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui non nunquam ad quadrageſimumperuenit. Ex Alberto Låddoloresarticulares electuariano mirabile. Periam electuarium illud mirabia le, quo ego in doloribusiun &tura rum, & in arthritide cum felici fucceffua nor femel vfus fum. Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe Galenicompofitionem efle dicat in -lib.18: fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere finemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo contemperare, vtmultas viderim, endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad locú propriúſine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua propter, & coronas odoriferas į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo paa cro aer purus fa & useft, &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna est efficacia. Nlumbricis necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima iudim. catur,verum etiam illius femen. Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas multos emifiſke,fuifíeque liberatum. * Quorundam animalium vita terminus.com ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem. Capraodo. Alinus triginta.Quisdecem: fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim. Canis quatuordecim, & quandoqueviginti.Taurus quindecim. Bos,quia caſtratus,viginti. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-viginti, & non punquam triginta, inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo, veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam ad quadrageſimum peruenit. Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos mirabile. le,quo ego in doloribus iun & tura rum, & in arthritide cum felici fucceffu non femel vfus fum. Huius auctor Pew trus Bayrus eft, licetipſe Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor ſubito ſoluere ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo contemperare,vtmultos viderim, eadédie, quapharmacum acce perant, àſella ad locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum alborum à cordis fuperiorimundatorum, & Diagridii an.. drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario phyllorum an.dracij.trita, & cribellata conficianturcum fyrupo fa & o exmelle, & vinoalbo inuicem coctis,donec ſyru. pi bene codi formam recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac. iiij.fecundum in firmi tolerantiam. Auctorconfitetur ter ab huiuſmodi doloribus fuiffe correp tum,& femperinaurora huiusele & uarij (quod Diacoftum vocat )vnc.ſem, acces piſſe, & in vna die conualuiffe. Ego dia-. gridium in minoridofi,exhibuifemper & beneſucceſsit. Periculofumeft Bafilicum continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica frequens odoratus plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam enim Italus ex continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit dolores capitis ex Scorpionein cere bro epato,cuius caufa morsconfequuta eft ck Ratio apud aliquot huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te. ftafi & ili putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem o. doratum animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare. Vte cumque tamen fit, Bafilici odoratus ad Syncopim, & animi hominum deliquia, mirumin modum prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa calida feliciter fanare. Nter fele & a, & quae dolores capitis à caula calida auferunt remedia,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus eft Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu,adeo tales dolores remoueri vtin pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in mari, & procul, & à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor porem piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco etMatthiolus dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore: feliciter ſola confricatione fanare. Queex occulta natura proprietate fiunt, mirabilia videri. Aturæ arcana femper hominibus, admirationem præſticere:ratio eſt,, quia caufas ignoramusproprias, & pro.. pterea in ſpeculandis his ce pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur, cur: Hyænæ vmbræ conta & u, canesobmya. teſcant?Cur Eryngium ore Capræſum. ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea. re valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt, & in refum fympathias, & antipathias, & na-. turæ arcana reducuntur. Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam anie. inalibus pro fene&tute euitandai, COA conceſsit releuamer, Ceruus enim elu, ſerpentum renouari dicitur, quippès dum fentit fene&tute fe grauari, ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni pernicie,illorum: pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper hybernas latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro, feu feniculo feſe affricát,illud, que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt, & vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur.. Qgorandam animalium carnes ad vitæ lorem. gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um,vită poffe produci, re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri R, & à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6 dinem vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, & longo ævo febribus, caruiffe.. Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit, qui Viperę carnibus, veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea bantur,ratus hoc auxilium, vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3; Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem,de homunculi inpbialia vitrea g !.. meratione, de partu. NPara Onmodo ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode homymauliconceptione, & partu.. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla vitrea. conie & o:;: & aliquandiù: fub cquino, fuma, Itabulato, homun-. Cului culum gencrari. Vt autem hanc hypo.. thefimfaliam ille impiusdoceret, exo uo fumpfit conie &turam,quod cum op ſeruaret in loco calido concludipofle, & ex eo tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in humano ſemine in vitreo vaſculo reclufo poffe contingere. Sed vana, & fabulofa ſunt eius figmenta, fi-. quidem ex putrefa& o femine, in an. pulla fub fimo recondita talis homun.. culi partus fieri nequit, qualis enim eft cauſa,çaliseffe & us conſequitur,proinde ex putrefacto nihil,piſi corruptum ori.. tur. Infuper in fetusconceptu,vt ex fa. ais:diuiniverbidecretis capitur,ſemen virumque viri: &mulieris concurrere opuseft, præterhęę conceptio haud ori turniſi. fuerit vterus benetemperatus, tanquam hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem, cui fanguis maternns fi mulaffluar: quippè fi.materni- fanguinis deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec ali planıę inftar, necpartes conformari pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus eft. Ad hæc inter fætum, & vtero gerentem fympathia quædami requiritur, vr calorem, & nutrimená. tum à matre recipiat, & à fætu viuena te inatsis calor augeatur: & abia' ad cona coctionem, & produ &tionem feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt: ille enim non perfpexit in ouofemen, exquo puls dus fit, fimulcum alimento vernaculo conferri, & in teſta per fe porracea tans quam invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali, & refpirare pofsit Semen vero humanum caloris, & fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps, &conforss quorum vi, & beneficio fir generatio, antequam in vitream ampullam per funderetur, eodem temporis veſtigio exhalaret, & conceptio euanefceret: Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, & augetur. Adde quod per ampullam vitream, fub fimo recon ditam tetas fpirare nequiret confuta.. maergofunt Paracelfiftarum fomnia,& fabula fabulofa eorum magiftri conie & ura; & vana de homunculi partu affertio. Ex. Georgio Bertino Campano. In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata philofophand tium ratione)albæ funt, & ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito Plinius lib. 17. capite z: niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam. Nihilominus Euftachius Homeri interpres, in Ara menia niues rubentes confpici retulit. Harumcolorçm multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes fieri, fed accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius colo re ex halātiones, è quibus in Armenia ninesgenerantur, pallutæ, rubedincm. acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia. A Rnaldus Villanoua pra fecreto ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras. mote acceſsioné, & Dominus osdecorde: Ceruiad drach. Itidemex vino alterator di& amocretico, ſaluta, chamedrio, chamæpithio, &myrrha ex fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam, & bituminis anſcrup. ij. ex vino: Alij,vt quartanam excutiant, infirmis dum in acceſsione affliguntur, timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin & umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum... Terra Lemonia contra venena miram: babet efficaciam. Nterpræſtantiſsima auxilia contra venena,terra Lemniaconnumeratur, quæ ad Cantharides,& adLeporem ma rinú adeò pręſtat, vt quadam proprie. tate, deuorata, omnevenenum per vomitum expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle. Galenusconfitetur, Lumacalapidem,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca, lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis, vrinam foluere, i breuiterq; fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum:quippe appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet, fin autem tempore partus tritam,cum vino capiet,multa facilitate pariet: fiquidem lapides himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex: Ifidoro.. Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem. elle Izaldus lib. 1. arcan: &Podinus: lib.3,theat.nat.obſeruatű,exper tumque audiuiſſe aiunt,Vaccam,Quem Equam, Afellam, Canem Suem, Felem; fimiliaq, foeminei generis animalia do meſtica, & manfueta, dum vtero gerunt, autinterire, autabortum parere, fi mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam valida eft,ac vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit,confiteor, menondum fuiffe expertum.. oletno Oleam -arborem puritatis virginitate of amantifsimam. Liva fimanuvirginea plantatur, & educatur,,vberiores fructus præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima, & labis nefcia. Hacde cauſa, ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ dicata, & confecrata füit. Audiui equidem àmultis, alearum à laſciuis mulieribus non femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru & ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe neceffariam. PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter perfe& usMe dicus effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam afpicereoporte bit, fi enim plena cſt,crefcitfanguis, & humiditas in homine, & beftiis, & me dulla in plantis, ita voluit Hippocr.inl. dediſciplina Mahemas: qui apud Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in ciderit,fi Luna è combuſtione exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad oppofitio bis gradum, quo tempore per a &to cceli themateaſpicienda Luna eſt,an cum alia quo planetarum ſocietur fortunato, vel & infortunato;numin malovelbonofue. titalpe & u; & an dominúdomus mortis. afpexerit; ita enim de morte, & vita; de morbi longitudine, & breuitate infire morum accuratiusconie &turarepoterit.. Ex Hippers. 10ak. Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun tionem inTauro, Bobuspeftilentiam pradicere futuram. A. Strologorum ex multaobſeruan tia decretum eft, cum Saturnus. Hupiter,& Mars, vel iftorum duo fimul iun &ti fuerint ſub humano figno, cona. currenti ad eam ftellarum fixarun vea Denoforum animalium afpe & u,morbos peftilentes hominibus effc futuros. Ex diuerſitate autem Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum, faluis hominibus. Vnde notat Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum Pro. Lomai,non multis ante annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun & io in Tauro horrendiſsima frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe. Ques autem licet imbecilliores, füper tites tamen fuiffe. In Boues tamen pe ffis illa defçuit propter cceleſte fignum, ad quod terreftris Bos refertur. Quæfi fuiffet in Ariete, forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno humano Martis, & Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) & peftis crudeliſsima ho mines inuafit,,vt& prius anno1408. & omnium peſsimaanno 1345. ex trium Planetarium infimul conjun & ione. suffiiu bituminismulieres ab byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio,, lieres ab vtero ſuffocatas lubitòad ſanie. tatem reuocari, & quod mirabiliuseft, Hyſterică extemplobituméacceſsionen corrigere, fiue crudum, fiue vſtum mu. licrum naribus admoueatur. Propterea mulieres,quętali pafsioni obnoxięfunt lans paſsione liberari. CA lana exceptum, fiue goſsipiocolloap penſum,Medicorum conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis locis habent, vt e, crebo olfactu paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque ſolo olfa & u fangui. nens, veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis, & venenú in fane guine purgando per vrinam, apud paucos incognita eft, quippe in potui ex ceptas non modò veſicam exulcerare, verumatque fuffocationes, & horrenda ſymtomatainducerecomprobatum eft. Imò tantæ feritatis funt, vt quandoqué & tactu,vel olfactu hec efficiant,vt cui damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui bis fanguinisprofluuio correptus fuit per vrinam,folum portando cauterium ex cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle Rafraljo. Podeortum fit adagium, Naniga Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum Vlta obſertatione &à prioribus, & neotericis, helleborum ad infanos, & mente captos peculiare auxilium eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet periculoſa fit, cú cau telatamen fumpta, mirabiliter ijs pro deffevidetur. Hellebori virtutem De. moſthenes innuere volebat, dum acti. onem mouens Aeſchini, vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat.Hoc in Anti. cyris duabus ele&tiſsimum, & magniva. loris naſcitur, quo nauigare oportere a dagium, quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus deHelleboro loquens addit, Anticorenſem quempiã fuiſſe, quiHer çulem dato Helleboro infania libera uerit, Grauidas simio fale prentes, parerifetus fine vnguibus. Noneftàratione aliepum, quodab Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4 mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus vngues enim,vt dixit Hipporc.in lib.de care FOS. 1 Carnibusex glutinoſa, & viſcida materia geperátør, hincaecedente Galitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo attenuatur, &adimitur, vtfacilè illorum ortusde. ficiat.Comprobatur hocetiam in ladá, tibus, quibusex aſsiduo, & nimio ſali torum vſu,lacomne, paulatim deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi, feftiuiquelas beantur. N conuiuijs profecto,vt hilariter'iu: Du { 11 X G 3 epulétur,tron femel ludi aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus, &cathihnos mutantur. Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ calchanti puluere confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li ceti lintea prius candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela fòe ta & ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur:ex afla fætida autem cuncta fæti da audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas minutim in difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt, naufeamque rei inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum cruftæſubtili ter tritæ fuerint inie & xà ventris «crepi tibusſollicitabuntur. De amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici amoris originem, velpotius furoris amatorijreperi te indaginem,ex correſpondenti homi num complexione, leu verius ex con formi ipfius fanguinis qualitate,nempe calida proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem gignere af firmarunt, Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem aftrorum gradu conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo participant, & con formes ſunt,tunc enim fe redamare có. fingunt. Alij Philoſophi amorem naſci afferuerút, quoties noftra luminainde. fideratumobic&um conijcimus,voluat cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo, puriſsimoque fanguine cordis noftri in rem concupitam exhalare, acque ocyſsi * IN me ad mè ad oculos noſtros recurrere, ibique a in vapores'& 'humores refolui,quifen. fim ad correlapſi, diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ quandam idem, inſtar fimulachri, & imaginis,non aliter, quam in fpeculo macula permanet ve nenofi oculi, vel menſtruatæ,auriginoſi, aut fimili aliquo morbo infecti, impri munt.Hacde caufa miſerum amafium, hiſce nouisille &tum fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, & ad cor permeant, perditam libertatem fuam dolere, lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis fcientiæ ad. 'modum ftudiofi,cum multa de amoris fcaturigine eſſent imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem, &per ſonam. Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din. Caſtanneda:)fidei probatiſsimę, longa narratione, & certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit tre. to centorum, & quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe, & ter refloruiffe: inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft, & paucifsimis à Deo conceſſum. At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or benouoproditur,inſulam quádam fu. ifle repertam, Bonicam nomine,in qua fontis reperiatur ſcaturigo cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen tutem cómPomba. Ex lib. 1.debominis vita, vbi de Priorifla anu facta, & reiuueneſs eente fcribitur. Hydrargyriminer aquomodo inueniatur. Ńter metallica ônia,hydrargyro ex cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad infinita tale accómodetur.Soler tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit ſcaturigo coniectores deprehendant; propterea menſbus Aprilis, & Maiiſub aurora, ſereno autem cælo afcendétes, vapores in montibus fpe & ant; ſi enim inftar nebulæ fuerint, non altius feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi terrae ad hærentis, argenti viuiibi ſedem eſſe allequuntur. Ex Cardanode Subtil. Aqua mirabilis pro viſus obfuritate. Periam aquam, quam ſcribuntre ſtituiſſe viſum cęco nouem anno. rum.R.ſucci apij,feniculi, verbenæ,cha medryos, pimpinellæ, Garyophilatæ, Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor { usgallinæ,garyophyllorum, farinæ vo. latilisan.vnc.j. piperis craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni aloes an.drach. iij. Omnia imergătur in vrina pueri, & lex: ta partevini maluatici. Bulliátbreuite pore, tú exprime,& percola.Repone va le vitreo benè obturato.Hora sóni fingu. las guttas ſingulis oculis inftilla. Holler. Roris marinipraftantiſstma'virtutes, Lanta illa, quam Romani, & Itali Roſmarinum dicunt, inter plantas: nobiliſsima eft, magiſque quam ex F 2 iſtimetur excellens, quamuis mulcitu. dine, & frequétia vilefcat.Eftenim fem per virens,nulli nocens, & multis infir mitatibus inimica maximè comitiali morbo, quiferè dæmoniacuseſt. Radix eius cum melle purgatvlcera, tormini. bus medetur, & medendis ferpentum i & ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam contra morbum Regium in vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet, quanto maiori gaudet tutela, & fauore cæleſti, à quo omnis virtus confouetur. Naturefagacitas in difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna eft naturæ fagacitas in ali quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs perdifficilc eft,vt ad fa nitatem perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem Venetam,acum crinalem, qua cirri capillorum intorquentur, quatuor die gitorum longitudine ore detinuiſle, dú obdormiſceret, fomnoque ſopitam de M glutif Etv ghuiuifle: decimo autem menſe, quod m mirabile eſt, per vrinam eminxiffe.Lan. Er gius etiá in alia iuuencula,quæ aciculam deuorauerat, id etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur induſtria maxima eſt. * Lapidis compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione cuiuſdam lapidis facilli meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio. Capimus ſkyracis, calamitæ, ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij. Camphorædrach.j,Alpalit. dre iij critahæc pobanturinvalesce Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic panno fricatusu ceditur,fputo veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t ütelammulta remedia indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe conceffa legimus.Hæcpro fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin raptus,Maturan mulo.. to plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit. Quippefibeſtijs Fors bus accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes, monedula, merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos expurgant. Lupi, Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum, vel viſcera oppleta fentiunt, gramina comedunt ra, re perfufa,herbam frumenti, &rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum, aluumg; exonerant.Columbæ,turtures,pullique gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs morſus ſibi in flictos ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas, excutiunt.Ivuiteladůmu res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. * goram quærunt in mala valetudine. A. priauté egrotanteshedera ſe colligunt., Ceteraverò animalia pro virę tutela di uerfa alia retinent auxilia.Ex Arifter.pl njo,Nipho,&aliis. Lapidem Aetitem mulierum partus. accelerare. Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi. diin partu prægnantium accele rando efficaciam: quippefiearum coxis argento cóuolutus partu inſtante fuerit ligatus, miram ytero generabit láxitam tem,ex qua prægnantesfacilius parient. Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum arctiores ſe ſentiunt & oua cum difficultate pariunt, Ae titem quærunt, ex quo laxiori matricis orificio facto,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis, Aquilinus di & us eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii reperiuntur. Intellexi ex feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu,& pre cio habere,beneratas partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem, Viperemorfus in bon Aysſanare. (N magna æſtimatione apud multosis Helleborinigri radix habetur, ipſa enim inter carnem, & pellem iumentià Vipera demorfiinſerta proculdubio faa - mat.Confiteor profe &to fubulcum qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue cryſipelate peftilenti pollutum (hunc morbum vulgares, eo quod porcorum caput in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap (męobſeruante adfanitatéducti funt.. pellant Capoatto.) fola huius radice om.. nes incolumes feruaffe.In porcorum au. ribus cultello circulum ad viuum fane guinem formabat,deindecentro,ex ſtye. lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo. fingebat, ad paftumý;porcosmittebat, ita equidemſolo học auxilio, omnes Hippiatros in equorum faciepitorum euul, maculas albasfacere. N hominum canitie frequentescapil. larum euulfiones, vt nonnulliin viu habent,vituperantur, eo quod illorum cuulſa niaior generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas in equo-... tum facie fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua continuata euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum, hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum  ES Noun ehrum;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias -fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex. citauit Regina Semiramis; Pyramides in Aegypto; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus, Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt ſcriptores,quiMaria num Vitulum, (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres, pauidi,pefulmine ferirena tur, tabernacula ex iftiuspellibus con-.. tecta retinerent,ita profecto àCæli fula. mine præſeruari poflcputabant. ExPline. Captaminter bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou: H Fs (si liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari valeant monet, neque in caprina pelle decum. bendum effe,neq; eandemgeſtare opor tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam Plutarchus rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea veteresSacerdotes ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur, neguitantibus aut tangențibus. modo, aliquid eiusmorbi induceretur.. Dinum in Asthmatisçura ſele &tiſsimim.". V TInum pro fanando Aſthmate ab, mo, quo pater eius cum fælici ſemper: fucceflu vſus eſt,adducitur. Habet yie. ni dulcis, quaie potiſsimùm Verpacia eft,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii an, lib.decem:puluer. Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum polypodii quercini recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij re.. motomcditullio,& inciſarum unc. iij..:? macerentur horis 48.poftea verocolentur per manicam Hippocratis vocatam, conſeruetur vinum inloco frigido. Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus,; horis ante prandium quinque. Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci admirantur, cur homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius ) ipfis fanis fortiores: euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere verendum non eft: cum autem in phrenitide magis, ob exficcationem lædantur nerui fenſitui, quam motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis fortiores, & debilio. res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri;: ratio omnium eft,quia operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis perficiuntur: fecusmotiui. Huicadiun gitur, quod phrenetici (mente læſa ). doloremnon fentiunt,idcirco fortiores.com Ek Arculano. Tuberum efufrequenti, bomines in epile Pliam incidere. 2 M2Aximopere (ve valuit Simeon Zethus) ſuberum continuattis v fus vituperatur: adeo enim hornines crebro eorú eſu afticiuntur, vtepilepti ci;vel apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio habebantur,illifq; cum Colo quandam affinitatem,nec niſi to. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vnde Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS - Offri de corde Cerui à morfibus venenofas; hos minespreferu476. Irabilis eſt profecto oſsiculorum, proprietas, quæ in Ceruorum; corde reperiuntur;geſtata enim ad præ feruandiim à beftiarum venenofarum morſibus, & i & ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam præſtantiſsimum an.. ridotum contra venenum, & febres pe tulentes,hxc eſſa conſeruatur, &cum feelicifucceffu mediciindiesad hæc valere experiuntur:: multi tamen pre. ofic.cordis ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium perniciem, & ped.com M propi eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex Alexan.fro Be Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento Democritus: Hemicranian, lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo. rem,à quo dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru & ione conci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis, vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc indecücere wice  uice, ac fi quid infpicere vellet mous bat; nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur, inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam Beniuenius exiſtimauit, quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet: ex quonullor gore cerebrum ipfum intentum, abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare potuit. Vermes rubros in hominum cerebro, in qua dam epidemia natos effe. y Beneuenti,cum multi ignoto morbo decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem cubeum breuem inuenerunt, quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo decoxerunt,quo vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo, quali epidemico affe & i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere expertumelt. His facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento, quo 'capillorum defluuium non folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput v niuerfum linitur; breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia, quæ ab Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a. nulla ra. tione, nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec caufasmorbo Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicare poſiúnt.Proptereamilesquida inmorboinueteratoluinepotis,quicapi. Member Aximopere (ve valuit Simeon MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim, hornines crebro eorú cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud veteres autem in pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem, necniſi toe. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis: Facient opfataronitrua, Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos minespreferuatge -Irabilis eſt protecto oſsiculorum, proprietas, quæin Ceruorum corde reperiuntur;geſtata enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum venenofarum I morſibus, & i& ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam præſtantiſsimum an-. ridotum contra venenum, & febres pe.. bilentes, hæcoſſa conſeruatur, & cum. foelici fucceffumcdiciindiesad hæc va lere experiuntur:: (multi tamen pro. ofic.cordis ceruidi, osbubulumtradunt in magnam languentium perniciem, & M pedice medicorum afamiam.Ex Alz xan.fro Bem nedido. Hemicranian laide Gagatia ummoueri. Viro experimento Democritus Hemicraniam, lapidisGagatis fola ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geſtatum ſempernagisponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo rem,à quodolor in parte cranij ſuſcita.. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. -Epileptites nonperpetuo concidere nee que fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili in magoa ventricolorum cerebria crais humoribus obftruatione eonci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexore fpumam emit tebat. Sed ftans caput hinc inde cucere vice, ac fi quid inſpicere vellet mout bat;nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Caufam Beniucnius exiſtimauit, quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur, cum folusva por ſurſum aſcenderet: ex quo nullori gorecerebrum ipfum intentum, ab of dinatis motibussreliqua membra præ feruare potuit, Vermes rubros in hominum cerebro, in quae dam epidemia natos effe., Beneuenti, cum multi ignoto morbo; decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem rubeum breuem inuenerunt, quem cum multismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino maluatico vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus eft,atque hoc eodem remedio deinde se smili.morbo, quali epidemico affe & ij, omnes Nous ) omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne-, i Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. "Onfemel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite capillos decidere expertumelt. His facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento, quo capillorum defluuium non ſolum amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput y niuerfum linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife: ftrum baudelt, remedia, quæ ab tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn. nulla ra. tione, nullaq; methodo fuffulti, fed fola experiméti-indagine,neccaulas morbo. Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicarepoflunt.Propterea miles quidā. igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N + 136 tis achoribus erat fædatus, finecautio. os,more empiricorum,nec ætate obfer uata, vnguentum ex arſenico, ſulphure viridiæris, femine ſinapis confe&tum capiti appofuit;ita enim ex quodam lio bro remedium collegerat, & mane ſee quenti puer ille, qui erat duodecim an norum, in lecto mortuus inuentus eſt. Hi profe& o fru & us empiricorum ſunt. ExValefio.. Triplici auxilio homines longauam vitam Af quirerepofle. Ifi hominum frequens luxus exo NA vita songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum,epulas, & otia effuli, vix trigefimum exceduntannum, abſque. fene & utis aliquo veftigio,vita enim los. gæua,non luxu,& profufione nimia, fed triplici tantum remediocomparatur;fie quidem pareitas cibi, & potus, bonus cibus,& moderatum exercitiummorta - lium vitam, ex Philoſophorum decre to,producere valebunt.Bartholom.Males ** Dino Gagorio.  Nmin Quo paéto fingultum cohibere valeamus. Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide mus adeò quod multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe & u ducti funt, Multi funt, quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle quumtur: alij verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam chus tamen apud Platonem, fternuta. mento afperfione aquæ frigidæ, & re {pirationis coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios en admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior eft,ex leuifsima occaſione fa. cilè in admirationé ducuntur. Si optas autem vt adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam: flores enim paulatim decidunt, & exiccatur, cum magno ile. lorum ftupore, fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt (Sole accedente ) flores decidant. Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis, vt admiratio excrefcat, vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta. Memoriam è thure epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma memoria, triftitiæ verò, & Jabori, imbecillitas, iis præſertim, qui bonarum litterarum ftudio incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife Gmuin in pollinem attritum,& cú vino, li hyemsfuerit,velaqua deco & ionis paſ fularü, fięſtas;epotum,inLunęaugmen. to,oriente Sole, necnonmeridie, & oC- t caſu, mirum in modum memoriam aya gere fertur. Ex Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum Philoſophum, eiufq; mendo famisimpetu? profe& o dumfa. maemaximèmoleſtabatur, eius importurnitatem, compreſsis hypochondriis & ventris ſtri & ione compefcebat. Apud. Aulum Gellium. Mulierem grauidationis tempore pallefcere., debilioremque effe. TOnlinerationemulieres, quoté pore vterum gerunt, virore pallia dæ fiunt, purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat, & in vterum à natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret augmentü.Cum autem ipfis paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri pallidas, atq; alienos ci Bos appetere.In ſuper exco,quia fanguis folitusipfis minuitur,debiliores fieri ne celle eſt. ExHippocr. lib. 1. de morb.mulier.. Myrifticam nucem à vira geftat am, vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft nucismyriſtice, quava cant muſcatam, cum homine fym pathia: ſi enim à viro.geftatur, nomodò vigore proprium cóferuare, verù etiam turgere,magifq;fucculentam, & ſpecio ſam ficrialkunāt, pręfertim fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex Liuinio Lem. Hepaticos, Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima remedia, quæ I hepaticis, & lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum retinet: fie nim ex aceto deco & a,per pluresdies ex. hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro. culdubio fanat: multisequidem experi mentis comprobatum eft tale decoctí viſceraab infar &tu liberare:propterea ini febribus chronicis, eo quod obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo à multis: pro fingulari ſecreto audio vſurpari. Pulfus deficientes,&intermittentes in ix. uenibus mortem prædicere, O Vanti timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes, & formicantes exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt: ij enim ex proſtrata natura exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In. termittentes autem duorúpulfuum ſpa tie tio,non modò in omnibus fufpe & i ha bentur, verum etiam omnibus maxime iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non ita fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro, & febreardente vexato, cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò conualuit.lib.s. de med. method. Mitbridatis Regis, ad venena maximum Antidotum. D Euico Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle in peculiari commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici Inr.Cóftabat ex duabus nucibus ficcis ite ficis totidem, & ruræ folijs viginti fimul tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret, rullum ei venenum nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio offa, velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de lideramus,ca in primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis aquadecoquere,tum demumin vrină, vel calcis aquam in qua diffolutum fit verzioum, rubrica, aut cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere, & vna iterum coquere.Cum autem perfri gerata in eodem etiam liquore fuerint, extrahenda ſunt; & pulchra, & bellè tin eta habebimus. Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio è vinoalbo decoctum, hyfte. ricam paſsiorem reprimere. Ryonia in fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam habere vir tutem multis experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in quadam mu liere, quæ quotidie ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à Matthio lo experta eft. Hæccum ſemelper heb. domadam, cius confilio, ſub fccti ingressum, vinum album, in quo ip fius radicis vncia efferbuerat, hauſſet ex illa paſsione optimè conualuit. Ne tamen amplius in fuffocationes deueni ret vteri,perannum integrum hoc me dicamento vía eſt, nec morbus iterum recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes venenati à domibus, velpradiis arceantur. Vlta equidem reperiuntur, quo rum ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is. fiat,penitus arçeantur. Scribit Florentinus in Geo pon. Venenatam feram numquam accef luram, vbi adepsceruinus, aut radix Centaurij maioris, autLapisGagates aurDictamus creticus,aut Aquilæ, vel Milui fimus cú ftyrace miftus fuffatur. Ex Gal. autem habemus in lib.de med. fac. parab.ad Solonem.Pyretrum, ful phur,cornu ceruinum, pinguedinem,& pulmonem Afini accenfum,ac fuffitum, cuncta animalia venenoſa efficaciter fu - gare compertum elle. Herpetes exedentesTabucoicereto felicitors Sanuri. Terorymus Aquapenders inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes her petes teſtatur curaſſe quoad totum cor pus, ex ſero Caprino expurgatione con fecta,fæpèautem cum fa !fæ parille de co & ione:partes affectas aquis therma lbus D.Petri lauabat,vltimoiis, felici cum fucceſfu ſequens admouitCeratú. R.Succi Tabacci, ſeu herbæ Reginæ vnc. iij.Ceræ citrinæ nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j. Rofinz Tyerebintinæ vnc.j.Oleimyrtini quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina alba, qua induſtrie inrubramu tentur. A Lba vina abſque vllo detrimento in rubra(auctore Mizaldo ) tatim Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă conliltentiam deco&i, & ficcati in vinum albuin proiecerimus, & tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem minori faſtidio efficier lapathorum radix, fi re cens, vel ficca in vinum mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os exiftere. O Dorin ficco fundatur, eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop. 6.de cauf.plantar.) vt fru & us agreſtesvro - banis ſui generis odoratiores,eo quod - ficciores exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa eft,quod in Aegypto mini mèodorati flores naſcantur;vt n. Plini - us prodidit, Aegypti aer à Aumine Nile tum nebulofus, tum roſciduseſt: cuius cauſa odor in foribusadimitur. Abfynthium ventriculum roborare ſo lum adftri& ione. Vantam Abſynthium in roboran do ventriculo vim retineat,in mul. tis locis à Galeno exprimitur:bancau tem virtutem non ab amaritudinem fed propter adftri & tionem abfynthio inefle verfimilc eſt. Conſtat hoc totum ab eius fucci natura, qui corroborandi facultate deſtituitur, ex eo, quod ter rez partes, in quibus adſtringendi vis poſita eſt, ab ipſo feparantur. Succus itaque folum amarulentiamhabet, quz tantum abeft, vt ventriculum roboret, fed vt potius illum infeſter. Ex epote Chalcantho, albos pilos è capi te decidere. Icet Chalcanthi, fiuc vitrioli vſus, e reſumpti, apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à multis tamen audio maximè commendari. Inter graues fcriptores, Rbaſes eft,qui 29. Continentis, 6.24. ſe habuifle amicum quendam ſcribit; qui potata vitrioli drachma, propènoctem pilos omnes, quos in capite habebatal bos, abiecit.Res profe &to mira eft, pbrenitidem ex nigro Coralio felicitar Sanari. Oralium nigrum, quod Antipallas, fiue Antipatkes dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo, & fanando perquá Airam habere facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris eft, & ob varie. tatem in magno precio tenetur, & cótra huiuſ HORTvĆvs G & NI ALIS. 14h ** Merete huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům remedium vſurpatur. Ex Ense lio de Gemmis lib. 3: Lethargicosà Satureia capiti admota excitari. Vltis experimentis obſeruatum reperio,Satureiam cumfloribus vino incoctam, & calentem occipitiad. #motam, Lethargicosdifficili ac pertina E ci sono oppreſlos, ac veluti raptos exci tare, & reuocare.Vt autem curæ folici $, or fit exitushuius decoctiguttæ aliquot fe infirmiauribus inftillandæ funt. Hana diſchius. I peftilentias quasdam occulta anispat hia ho minum corpora depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ occulta qua dam antipathia, cun &tis hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi fuit aura illa peſtilens, quæ ex arcula aurea in quá miles forte quidam inciderát (referente Iulio Capitolino ) in Babylonia orta eft, Ex hac nata fertur peſtilentia, quæ in - de Parthos orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis, vel prauior vtique fuit G peſtisilla, quæ anno 1348.ab oriente in cipiens (teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum fere orbem peruagata eſt, tảntaq; lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum pars ſuperſtes euaferit. Bra M. Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas papillas pangit. Slidua experientia comperimus f A mammasnutricum, & papillas lancinat, & pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire videntur ftatim; cum pa pillarum mordicationem, ſiue vellica. tionem ſentiunt. Duplici autem id fieri caufa credendum eft; vel quia quo tem porecoctionem infantulus perfecit, eo dem momento nutricis vbera complen. tur, vel quia tutela Angeli Cuftodisin fantis nutricem ad officium, leuiſsima vellicatione follicitat.Hoc verius vide. tur eo,quod modo citiusmodo tardin fanteseiulant: & vtriuſq; ſtatus non lem per idem eft. Ex Bodino lib.3.Theanatu. Sales Han 7 Salis Prunella virtus, &compofitio. al prunella,ob fingularem vim do lores mitigandià quauiscaufacalida &inflammatione excitatos, quam reti-, net, a nodynum minerale à chymicis apo pellatur. Eius compoſitio talis eſt:Para tur ex,nitro optimo; quod in cruſibulo. funditur, paulatim ſuperinijciendo flom res ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt, idqueadeo pellucidum, purum que reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum effundas; omninò clarum, & dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod? đšinde Sal ſjuelapis prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem Hungaris familiaré extinguento - dam, & edomandam:cuius ferocia tana' ta eſt, vt ægrotantium linguas prorſus nigras, & prunis ardentibusfimiles ef ficiat. Cum autem tanti ſymptomatislę. vitia extinguatarhuius vlu,leniatur, & opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft. Eft præterea idem remedium magnum diureticum,& diaphoreticum. Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico appetere. 1 adduxeram: qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli coagulo aquami Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur: Illud enim fi femel tantum ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus cupiditatem capere: ob id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in huiuſmodi enim afa fe & u, nulla falus ſalubrior iudicatur, quam aquæ potus: quo deficiente,mors in foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat abfolutaz " izquifitio. CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum Cifellum luriſ conſult. clariſsimum, meique amiciſsi. mum effem, forteinter nosde Gallina tura orta fuir diſputatio; illa preſertim, cur Leo illum timeret? Pro dubii folu. tione Ficinú inlib. z. de vit a celit. compar: reri ſcripfit, eo quod in ordine Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá ex Proclo confirmare volui, qui, Apollinca Dæmonem;qui alias fub Leonis figura apparuerat, ftatim obiecoGallo diſpa ruiffe prodidit. Ifle-autem quia bonarú Jiteraum citra legalem fcientiam admo dumftudiofus et contraria rationeLeo i. nis timorem euenire contendebat. Ada ducebat Leonardum Vairum in lib. 1. de Fafcino, quiex Gallorum oculis ſemina i quædam, ac fpiritus exire profitetur gr I quibus Leonib'dolor,acmeror incredia bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas ritere.Ego quidem licera Lucretio hac etiam opinionem fuftentari viditlemi tamen poft,pleraque vltro, cirroque inter nios de re hac ventilata;confeſſus füi apud me neutram opinionem vide ti validam. Vbienim naturales rationes præualēt,nec ad Aftrologicas,nec adoc cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile faya, & copiacaloris abundant,faci le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka tur:ita profecto Canesex leui etiam al 2, G4 terius 30 II terius latratu faciunt. Infuperrubicun da Galli criſta,flammæinftar rutilantis, primo afpectu,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat, vt panni rubri armenta quædam fugare, & mo uerefolent,inde fit, vt quodammodo Leones &afpe&tum, & Gallivocem ti meant. Haud tamen credendum eft in iis (ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola durare, & induci poffe. Corues, morientium feditatem ſentire, ob id fuperte&um infirmorum crocitare. Orui, quia hominibus meliorem habent odoratum, vt voluitÀrift, corporis morituri fætidum odorem de longe fentiunt: fecus eft in hominibus, licet prope maneant. Propterea ſuper te & um infirmiCorui volitant, &cro. citant, quando eius corruptio, &fædi tas magna eft, vt ea paſcantur: huiufmo dienim animalium genusrerum foeti darummaximeauidum eſt; quibus pa fcitur: Charlie [ citur: idcirco in bellis, &in peftilenti tempore, cum corpora mortuorum vel hominum velarimaliū humi ia&a funt; Coruorucopiaprcualet.Homines vulga tes, & quiparú prudétes funt;dů Coruos crocitantes fuper te &tum infirmiaſpici unt, illum moridebere afferunt:hoc au. tem falfum eft: ii enim tantum fæditaté inſequuntur. Sæpè tamen Déus permit tit Dæmonesin Coruorum, & aliorum animalium forma ſuper domos: vel in domibusmorientiúapparere, quando be ftialiter vixerút. Et Bernardino de Buftis. Quo artificio es aduratur, ut cinnaba. ricolorem acquiraté Iæsvífum colore cinnabari, & ad ru bedinem verlum habere volueris, o quemadmodum vult Diofcorides; AC i cipe æristaminascuttricoftę profundas: non ſint autemęris alias fufi, quia in hoc ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper ignitos carbones apta, cum autem i illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul.. uerem tenuiſsimum leniter deſuper có iicito, Sleepin ijáto', videbisenim (cellante fulphuris Máma) Pris (quamu'as euidenter extra hi,& euelli.Tumodol.perfe & e nó pol. Te cuelli cognoueris, addito ſulphur. remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur:caue tamen nevrantur, & ad nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris flamma, & refrigeratis lami. nis;æris rubei ſquamulas habebis magni valoris,quasloco Hydrargyri præcipi-. tati in medicamentis recipies alias aut tem huius vires apudGalen. & Dioſco videto. Theodorus Ga4, quedinfelicitertex Arist,', deHydrophobia conuerterit, à crimine abfoluitur. Heodorus Gaza vir do & iffimus, dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22 traduceret,omnia animantia voluit à Cane rabidodemorfa, ip - rabiem ági,. ac mori, excepto homine. Hoc autem qqantum ſit falfum,quotidianademon Strát obferuantia. Homines n. demor fi; in rabiem aguntur, & pereunt; niſi Tectè curentur, vtcuidam (pauci sunt menses) hic iuueni accidit, quià Canc rabido in manu demorfus, nullo adhibi, to to medico, fed folum circulatoribus com fiſus, in 40.die in furorem deuenit; quo temporelicetme parentes vocaffent,fas s &o tamen preſagio,quodbreuimorere I retur, tanquam deploratū reliqui. Hęc igiturTheodoritradu & io pleroſq; in vi rioslabyrinthos deduxit:multin.,tum i vtGazá defenderent,tum iavtArifto telem ab erroris ſuſpicione vindicarent, textum ita acceperunt animantia omnia à cane rabido correpta interire, hominē 3 verò folum abſque periculo non ferua. rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès inter quos eft Leonicenus, textum malè fuifle conuerfum, veleſle depra suatum contendunt, & fic loco a pocos i legendum mpirs afferunt, quafi ho mocorreptus, &in rabiem, & mortem deueniret, fed non ita citiùs, vt ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad - negotij veritaté ver eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum, tardius, qua: cætera violatur:tamen Ariſtotelisinten. 2 tio neutiquam eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie, & morte ſeruari fcri pſit,cuius textů Gaza fideliter traduxit, neque deprauatum, neque commutan dum exiſtimo, quia mens Philoſophi peruerteretur. Vtauté Ariftopinjoom nibus innoceľçat; hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum, illiuſq;tem peftateincognitum proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia é: Canis rabie emori, homine excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat. Con-. firmat opinionem noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum, in probl.9. dum exfen tentia AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq; apparuiſſe tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam hoc Scriptores ante Aſcle piadem, quideHydrophobia mentio. nem aliquam haud faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi nonpof fum:innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud, niſi quia morbushic non ſtaa tim à vulnereaperitur: Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft fextum, autoctauum menfem,vel etiam poſtane num, vt fcribit Gal. Auicenna adnota - uitpoftfeptimum; Albertus poft duo decim.Propterea antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere & tabiem, & illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto teles etiam, interillos, hominem com morſum à canerabido,necrabidum fi eri,nec emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te nacibushumoribus à ventriculo,effico cißimum eleremedium. Vanta Git Affari radicis non modo in ciendo yon: itu,verum etiam in expurgandis àventriculo. & ab eius par tibus, humoribus craſsis & tenacibus ef ficacia,fapientum aliquot edocuit obler: uatio: fiquidem multinon folum in vis tiis ventriculi, ſed etiam in quartanafea bre, aliisque longis affectibushac eua cuationefeliciſsimo cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut Drach.j.radio cis Affari, quæ in hydromelite, aut para fularum decocto fit diſſoluta, cuitan - tillum cinamomi, &firupi violar. ade iicitur. Ex Fernelio. In conftruendis ſepulebris veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca Veteres in conftruendis fer Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione maxima dignum eft illud, quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum fepulhrim fuifleerutum, in quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem (vt infcriptio ata * teftabatur Jante Ann.M.D.condita'erat, - & poſita: manibusautēcontreccata, ex templo in puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula exortum à veteribus maxime fuiße obferuatum. Canis cAničulæ exortus antiquitus à prifcis ex eius colore, deami ſtatu côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior, & veluti: caliginofa oriebatur, graui, & peftilenté foreannu;ficlara & pellucida ſalubre ac proſperu predicebant.Heraclides Põticubi. Aegyptiorum de'quatuor elementis opinio. Vatuor elementa feceruntAegy, & fæmiam conftituunt. Aerem marem iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus, &iners. A quam virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum;qya arder fáma; & fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram fortioré marem vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant, tractabili ad culturam. L: Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui. Mirabile eft, quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim, aliquot(benè inflammato cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum prius fuerint eorum igna viſ funt, fed quod mirabilius eſt, Nicolaus Flo rentinus refert, fe fratrem phrenericum habuiffe, qui futura pradixit, quæ euer nerunt, ita vt eius prædictiones magna ex parte poftea veræ inuentæ fuerint:de quibus tamen fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem. Infantium rupturn; qua via Sanare: valeamus. Vltis obferuationibus, nullum remedium; Salubrius infantium rnpturis inueniri expertum eſt, quam extritis cochleis, thure, &oui albumine emplaftrum confectum. Hoc enim fi pare in affi &tæ apponitur,& infantes eo temporinlecto detinétur miram in fa nando' affectu retinet efficaciam. Ex Matthiolo. Digitum anularem, maximam cum cords retinere ſympathiam. Valem anularis digituscum corde habeat confenfum, in animi defe & ibus, & in fyncope experimur. Qui e. nim à talibus paſsionibus vexantur,vel. licato articulo anularis digiti,feu medi. ci, vel attritu auri ad eundem cum croci momento eriguntur. Per hunc prefecto vis quædamrefocillatrix ad cor perue nit,ex qua ab animidefe & u collapſi vi gorantur, & in priftinam valetudinem redeunt. Ex Lennio. Carnes code quomodo cruda vje deantur. N lautis conuitiis,nevoraces gulofi que carnes coctas comedant, ticarti ficium parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis, quem congelatum, & fico. catum in puluerem comminuemus,hic: fi fuper carnes coetas fpargitur ftatim foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes ſanguinofæ videbuntur, venau feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra paraſitoshoc eſt ele &tumra medium. Ex Vuerckero... Adoris plcera, labiorumque fciffuras exper HomasThomaiusin Idea fuivirida rij, Nicolaum Zannonem Chirur. gum guim Rauennæ retulit, mirabili fucceffu: & artificio,oris, gingiuarum linguæ,&: palari, nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto vlcera fanare,atque labiorum fciffuras linimento,ex oleoamygdalarum dulci-, um, cera, &maſtice, quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri tefticulis,fterilitatem in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo, & Gerileſque exiſtere: propterea.vt à xan to infortunio liberentur, prolemq; ha beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, & vxor cum iure galli veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem capiant:ita profectò. breui tempore optatumadipiſcentur, vt in multisfterilibus ex quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus; dolores perniciofiſsimiexiſtimătur,ad? cò quod multi & in animideliquia,& in manias deuenerint, multi etiam in vitę deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo & abominabili animali natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis, fiue' ranz terreſtris à carnibus mundatæ, fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo, & fruere tanti arcani theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle dicens. Idcirco lucubram tionibus, & litterarum ftuţiis addi& is fùmmècauenda eft: oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit.. Villicis, & folloribus, qui literis non ind. cumbunt huius eſús maximè collauda tur: eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere excitantur.Ex Plinio.. C Anima 164 B1: 1 c: L L /, Animalibus naturam non modo terra, perum etiam fi um pra termino conftituiffe. Agna fuit conftituendis terrarum terminis, & fitu quibufdam animalibus: ne simul vbique viuentia, & hominibus & fibi ipfis perpetuo effent nocumento. Pro pterea animalium pleraque in diuersű à proprio addu &ta fitum vtplurimum ægrotant, & moriuntur. Hinccolligi musin Meda, Sylva Italia, non niſiin: parte repeririglires. In OlympoMaceo doniæ monte Lupi minimè habitant, nec in Creta Infüla. In Africa nec Vrfig. nec Apri, nec Cerui, necCapreæ viden tur: In Illyria, Thracia, & Epiro Afini paruigenerantur: In Scythica terraa.. tem, &Celtica neclunti Alini, nec vio. uunt Leones in Europa, Pantheræ in Aſia, Ibisin Aegypto lolum commora tur. In Creta: nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud animal maleficum pręter Pha langium. In Ebulo Cuniculi non funt, catent in Hiſpania, & Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ,illæ au tem fialiò transferuntur, vocales fiunt. In Italia mures aranei venenati ſunt hos tamé regio vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto ad alie nos fines non commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt & alia animalia quæ in determinatis locis, &non vbiqi viuunt, & generantur. Apjefum in menfis apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus maiores nullum A pij genus in cibis admittere folebant defun &torum enim epulis feralibus ab ipſis erat dicatum, vtex Chryfippo Pli nius retulit. Multiautem non folum ex hoc, quia ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus fuiſle damnatum à men ſis, fed etiam quia eius eſu viſus dimis nuitur, & Epilepſia generatur autumát: vnde à Mcdicis nutrices moneri conſue lo, (frequenti enim huius vſu, lactum decrementum, tum malam recipit qua titatem ECO 9. i > Samen litatem )vt ab Apio abſtineant,ne lacté tes in morbum comitialem proni fiant. Dicunt in eorum caulibus nonnulli cru diti ſcriptores vermiculos naſci, eoſque fterilefcere, qui comederint in vtroque fexu: Satyri teſticulum carnofiorem Veneris in. cendia excitæreflaccidum vero extinguere. Atyrium; quod Canis teſticulos vo cant,magnæ apud fapientes eſt conſi derationis:in hoc enim,tum Venerem excitandi,tum reprimendi à natura vi. detur eſſe remedium collocatum. Quip pè maior planta bubulus, quiplenior, & mollior eft,ex ſuperflua &ventola eius humiditate, in potu aſſumptus Veneris incendia excitate cóſueuit: minor verò, qui flaccidior, & aridior eft illa reprime re,Veneremque extinguerevidetur. Ob id(vt aiunt) in Theſſalia mulieres molle teſticulum in la &te caprino ad ſtimulan. doscoitus,& bibere,& hominibus inpo tu;præparare ſolent.Quod autem in Sa tyrio mirabilius eft,aiunt, alterú alterius in poo  Sier o in potu ſumptų potentiam & efficaciam refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi betur. Sterilitatem hominibus,à fterilibus animali " bespoffe prouenire. I verum eſt, quod ab Athenæo pro dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque tempore fterilem efle, quod in eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur non abfque rationeex iftius naturahomines pofle fterileſcere. Terpſicles apud eundem dicebat.Mul lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca. arus,atque id vir biberitçrei venerea -o peram darenon poffe creditur, quod ex 3 Plinio etiam confirmatur, qui veneris incendia extinguere fcripſit. Cynorhodiradicem ad Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum " A Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix Hlueftris roſæ eft, quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s fæmina quæ per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à cane ra. bido demorſo, & aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex Hifpania affer ri curauit radice qua Hydrophobicus ce, lerrimè fanitati fuit reftitutus. Ex Gem. m4Cofmacrit. lib.1. ap 6. Hominis vitam quibusfignis long am,velbres nem metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut maturum,deci. dit Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum, ventorumue impetu deijcitur. Vitae breuis figna colligimus, raros dentes, prelongos digitos,ac plumbeum habere colorem. Contra longæ, incuruos hu meros, nares amplas, & tria ſigna primis contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos, craſfosque atque clarum reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri ad morbos inue ter atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus inueteratis, iiſque potiſsimum, qui ex atro, & meo lancho T! ta ļ lancholico humore excitantur, extra Ecü migriHellebori,remedium praſtancil efimum femper clle inueni.Capianturnie gr Hellebori radices à fordibus purga tæ, & in pila terantur groſſo modo: in fundantur vino albo,& in vafe terreo e bulliantur quousquc radices benè emol liantur, quo facto prælo exprimantur,& iterum in vaſe terreo leniter ebulliat (deic & is tamen radicibs) quod fucrit expreſsum. Acquiret fuccus (piſsitudi nem inftar picis, quicum modico cinna. somo,& pulucre aniſorum miſcendus eft. Dofis in grandioribuseft fcrup.ſem. in minoribusà granis quatuor vſque ad ſex. Datur cum zuccaro in forma pilalar. Confiteor in obſtructionibus, in c pilepticis, retentione menftruorum ex cralforum humorum infarctu, & in alijs inueteratis affectibus, mirabiles huius remedij fucceflus vid.Conficitur eti, am extra & um fine expreſsionc, & cffi. - Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum ejufqueobfrationen efficacifsimaprafidia TE 3 Inte Nter ea remedia, quelienem, &fple. neticos ab obſtru &tionibus liberare reperta sút,mihi femper ex voto fuccef GtAbſinthijRomanideco &tum,ieiuno ftomacho epocú,quod à Cornelio Cel fo fummècoromendatur:Vt autem eura felicior ſuccedat poft cibum,aqua Fabri ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum extindum fit, Lienoſis præbenda eft. Experientia id totum manifeftauit, ani Talia enim apud huiulmodi fabrose nutrita, ob eiuspotum, exiguos habere lienes obferuatur. Beniuenius, ciuem Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè affe & um curaffe gloriatur, atque ſolo eſucapparorum, & aqua per lanalle.Debenttamé hæc remedia mul to tempore vfurpari,vtfcopú attingat. Hominem quendam fuiffe repertum, mira vaftitatis,&ingluuiei. NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú comitia: quã. do illi vir quidam, prodigiofæ vaftita tis, & craſsitudinis oblatus eft;at in illo incredibilis, & inſatiabilis erat ingluuies itavt integrű virtulü crudun,vel ouem UN It incođá vna vice deuoraret, nec taméfa. mem expleta diceret. Ferunt(vt Surius) hominēBorealibus regionibus ortú fuiſ fe, vbiob locorú frigora folent homines elleedaciores.Hoc taménon folú in Scp tentrionalibus partibus,verú etiam alibi bi repertú cft:Voraces n.fupramodú fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de var. hift.) Pityreú Phrygem, Cambeten Ly dium,Charidamcleonymu,Pifandrum, Charippum,Mithridatem, Ponticum.Et e Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā infinitæ voracitatis extitifle. Antidot erum aliquet contra penenum ab ſeruationes. Rcareca Viperamorfus, per impofi tioné tormentille à campo penſili colle etę,illico liberatus eſt,Altercum ingen ti dolore, & ardore premeretur fuper | dextra spatula, & ita angeretur, vt vix ſe s pedibuscontinere, oculis videre, & lo. qui poſſet, veritus neà fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú vomuit,& à dolore leuatus eft, & quod mirabilius, Ha  in ſpatula nihil erat ſigni,vbi prius fue rat dolor.Quidametiamà fimili dolore, & tremore correptus ex aflumpto Bolo armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam putredinem timens, & vermes al fumpfit Scordeum, &liber fa & us eft. Ex Franci.Thomaſio depeste. Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi deantur. Inum ſublimatum, fiue aqua vita magnam habet efficaciam ia rubi ficandis cancris viuis: propterea fi vis homines in admirationem dicere,accipe viuos Cancros atque in vino fubliaato fubmergas, ita enim confeftim ruber cent,acli perco &ti eflent cantaeft illius aquæ caliditas, & energia,vt inſtar ignis exardeſcat: admiratio tamen indenaſci cur, quod rubefa & i,& viui ab aqua e. cmpti ambulent. Quorradoflamme excit etw inagha. I calcem non extin & am accipias,Sul & lalnitrum in partes æquales, ac bene omnia fimul ailccas, puluis perabitur, qui forqui in aqua proiectus inflammabitur, ac ducem reddet: quod parui mométi haud Berit,prçcipuè ſinodu luce indigebis.Po e terit id fieri in valčulo aqua pleno, vt™ quidá amicusmeus dū no & u in itinere lefſerexpertus eft,qui totum mihi fideliter comunicauit. 9 vbivigent morbi, ibi maximè remedia oriri. M.Agna eft Naturę prouidentia ia ado iuuandis hominibus,quippè obſeros suatú eft,vbi aliquimorbi copiosè vaga. ctur, ibi remedia accomodataad illlorum exterminiūnaſci voluiffe.Hincinaphri bea, quę ferpentú eft feracißima,aromata? tanquã eorű veneno antidota,oriuntura In Argo Scorpiones plurimi videntur; propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio. nesinſurgensnafcitur: ApudIndos Os cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum SanaaGuaiacum di& á exoritur, & il. lincad nosdefertur.Catharides veneno ierodunt:ex illis remediú caput, alias & e pedes earum exiftere obferuamus.Quia Stellionibus mordentur, iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur Crocodili adeps, fi in ipfius vicera inftillatur,ſuo veneno me deri videtur. Scorpiones,Draco mari. nus, & Paſtinaca contriti, & eorum pla gis impofiti,procul dubio fanánt. Na. pellusmortiferum venenum eft, vbita men nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius radices cốntra Napelliperniciem,fingu Jare ſuntpræfidium. Animantium lac ab alimentis recipere gut litatem. Lacomnein animantium corporibus alimeati recipere qualitatem adeo verum et vt demonftratione nonegeat: liquidem nutrices ex prauo in vidure giminenon ſemel infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa lacin ijs modò.craf fum,modò liquidum,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut craffus, aut in eiſsius fuerit,modò infantium cóftrin git aluum,modò ſoluit,quod vel con ſtringentia vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus etiam manife ftum eft:in locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum,aut mercurialem comedit, vtiq; lacomne ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú Dioſcorides in Iul ftinis moribus contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū pro pabulo habue i fint, primo foliorúpaftueunmere, & ea rá lacnauſea n epotứcreare atq; ftoma chúvomitionibus offendere ait: Cum a.. adftringétibus pabulis,robore,lentiſcogs frondibus oleagincis, & terebintho pe cus hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse' mures viuentibus coniectusari. MAgmá nobis afpe&tus pulchritudo veldeformitasnon folurn in homin I nib,fed etiã animalibus,& plátis preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res & naturas veoarifolemus; intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe &tusmité naturam, benignofq;moresin homine illo perfiſtere conieéturamus: contrain I deformicorpore,turpiafpe & u timemus. enim neſcio quid calliditatis, & malitie i In animalibus laudamus catellos, canes Venaticos, & ſagaces, venamur in eis benignam naturam, & mites mores: (6.. tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, & fi milibus, timemus crudelitatem, maliti am, & voracitatem. In plantisex pul chritudine venamur falutares naturas, ex deformitate autem noxias, Rola,Li lium, & Iris nobis præftát argumentum, quamplurimis pollere virtutibus: con tra Cicutam, Aconitum, Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem nobis poſſeinducere arbitra arur. Ex Poria in pbyſiognom. 1: partibus Septemrionalibu sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus loquens: Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, & hamaxobii,Scytha. rum more,atquein falcinandis homini.. bus inftru & iſsimi; quippè oculorum, aut verborum, aut alicuius alterius rei maleficio, homines fæpe ad extremam maciem deducút & tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium. Nfluxu fanguinis narium copioſople.. 5i9; & in animi deliquia, & fyncopim deur.. perati intercant. A periam quod mihi deueniunt, multoties etiam tanti peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u,fem * per adhibere profuit.Burſa paftoris co I trita, ficum ouialbugine, & aceto,com i mifta fuerit, & frontiapplicatur, confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £ femel in infirmorumcuracontigit. Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor compefcatur. Nfebricitantiú querimonijs ex ſiti, & linguæ ardoribus, Criſtalli vfus inter præcipua iudicatur remedium. It lad enim fi diù in aqua frigida agitatur, &ore deindedetinetur, fitim & calore corrigit, atque linguam humectat: ma ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis capite reperitur. hic porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca loremquerefrenat; verum etiam faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,& ma kimè, fiticuloſis prælentaneum iudicae tur effe præadium. Ex Lemnio. Skolen Al ignis prefidia fuiſsimè in morbis CW AX: dis Aegypties TerueTATE. Var Aegyptij admodum proclives in languentium cura,adignea prælia dia eligeada,propterea vftione vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie gido,humidoque ab humorumque dea Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem obduratum, &refrigeratum,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub vmbilico, &fub hypochondrio finiftro linea petia ignita adurunt. In doloribus dorfi,lumborum,colli, & orenium arti culorum,in ſpina dorli,lumbis,collo, & alijs partibusdolore cruciatis,hocpræſi-. dium frequentant, In tumoribus à crue. dis, pituitofisquc humoribus generatis ad ignem confugiunt, tanquam auxiliú quod citò multosmorbos curet, inopia queproprium efle autumant. Ex Alpines de Medic. Aeg opri.. Centium, & populorum ingenia bifuris, prouerbäs: excogitari.. Vlius Scaligeri vir acutiſsimi inge nij,Gentium,& populorum naturas tum ex hiſtorijs, tum ex prouerbijs, at que ex ore vulgi ita excepir. Alanoruto luxus:Africanorum perfidia: Europeorü acritas.Mótani afperi. Campeſtres mol liores,deſides.Maritimi prædones, mi ftis tamen moribus: eadem ratione In fulani quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro fidenteso Affyrij,Syri ſuperſtitioſi. Perſæ, Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ,Sibi,Phryges, Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi,inquieti.Aethiopesanimofi, pertinaces, vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo. ſchouitæ, Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz, iactabundi, Germani fortes, limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue. tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ, Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati, feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales,immanes. Itali con Atatores irrifores,fa &tioſi, alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui vine (cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1: 1: Dei contéptores. Galli ad rem attenti, mobiles,leues,humapi,hoſpitales,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium contempto ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces, cedentes labori, equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis menfis largi, alacres, bibaces,loquacesyia & abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum,Solis Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura Scara-. bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum apertè demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá. döverlans, in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro beobruit ibique candiu abfcondit, dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme.. itiis,& fileat:tum foueamaperit, & fide-. THM coniunctionem denuncians,nouam pralem cdit: hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi origo Ex Mizeldo.i. exo  # Bobilin 2x Quorundam aimalistu natur &.. Oseft conftans, afinus piger,equus: libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè femellam;lupusmiteſcerenequit; Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus timidus;Formicalaborioſa:Apis parca: Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus, Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua pabulum externum admittens, tanta vocis magnitudine, aut fonitu, vt ſolo Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa pigerrima,ſolitaria,corporegraui, compacto, indiftin & o: Panthera vehea menis,& ad impetus faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota fera.Anguis fæniculi paſtu oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni pabu lum æfiate condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium ore of natus in Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss. Cervorum vitam,eße lengisimam. Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum vitæ loogicudinem oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques in collo in neđi voluit: in ijs temporis curri culum erat expreffum, &Alexandri deo creturn; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte capti fuerunt, qui adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio. Mafculinum fuum citius in ptero, gianfo mining animeri.. X omnium ferè Scriptorum opi nionemaremfætum citiùs in vtero, quam fæminam animari capitur, aiunt enim marem io dextra parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam: verò ex ſemine frigido, ſiue minus calido in finiftra partematricis, quæcomparatiuè ad alteram frigida eft.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt plurimuma nimaridicitur:quod frigidum tardum fit,&pigrum in ſua operatione: calidum. autem velox: idcircò virtutem forma tricem invno femine velocius, & citius mébra organizare, & formare, quam in alio obferuamus. Ex DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1 o. Pici PictMirandulaniingenium, quam maximè collaudatum. A,&, + PiciMirandulani,& ingenium, & & multiplicem do & rinam collaudabant, & miro ordine extollebant:Quando(in quit Picus) ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio velitisbiandiri: quin refpi.. cite potius afsiduis vigilijs, atq; lucu brationibus,quàm noftro ingenio plau 9 dendum: & fimul aſpicite fupelle & ilem noftram,atque librorum thefauros:oité I debat porro Picus bibliothecam egre. gio ornatuconſtructam,atque omnigem nis libris ex varia eruditione refertam. Ex Crimite InHydrargyro onnis metallica Supernatare. Akreexcepto. Ercij,vel fi mauis, Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd, omnia mineralia ferè,vtplumbum, fer Tum, æs, & alia ponderotiſsima(excepto. auro )in eo fuperpatent: aurum ditem, * fundum petir, & eius recipit, cola rem, quiignis tantùm opeabfumitut & in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus nidor, & virulentia nauſeam, nocu mentumque adftantibus inducit: inde membra ſtuporem recipiunt, & nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio bus obferuatur. Ex Lem. oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque incognita. Icinnamomiolcum ad diuerfas infira: mitates parare optabimus caperec portet, cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid: pultis cum oleo amyg-: dalarum dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in loco tepido clauſo vaſculo fituabimus, poftmodum ex torculari totam id exprimatur fortiter: hac ett nim methodo oleum, odoris,.coloris, & faporiscinnamomihabebimusad vo tum. Hocadvires reparandas, & Vio letudinem conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, & in ftomacho debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das arcet, & in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ, vt vix ale v toruin conſimile inueniatur remedium.. e Marimum Herinaechin tempeftates:mariti w pracognofcere. Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei proprietas: hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem. Ea im. minente ita fe præparat: faburram fa cit, lapidem ore percipiens, ne maris flu & us,vndaqueimpetuofæ facile eum diocodimouere, atque huc illuc in pellere valeant. Nautæ id afpicientes: fucuram tempeftatem à piſciculo hoce. do & ti percipiunt, ob id anchoras & fue. des, & fe ipfos parant, tempeſtatibus maris reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in Epiro Proprietasi A naturz proprietas illius fontis, qui in Epiro (vbi Dodonæi louis tema. plum olim inftru &tú erat, quacaufa hic faces facer di &tus eft ) inuenitur. Ille fri. gidus eft, & immerſas faces, ſicut cx teri extinguitcum: autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit, A bulenfis fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit, afferitque huiuſmodi pro prietatis cognitionem Adam, & conté poraneis fuiffe apertam, diluviogue & gentiumdifperfione effle perditam.vide Pomponium Melam. mHecla ignem emiffum,ficcis.extingui, to que verò nutriri. Dmirationem, &fidem omnem ſuperaret, ignem ab aqua nutriri, & non extinguiintelligere,nifiGeorgi us Agricola,vif noftræ tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla.Narrat hic in Inſula Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere,, ex quo ignis emittitur,vt hodie in Vulcanopro. pe Siciliam,Sicaniam dicam, & Puteo lis in loco vocato le Fumarole, obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis ficcis extinguitur, aqua verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom:Naty. Hominum aliquot fubtilioris, plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea Aftrologi, & præcipuè Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri volunt: quia in eorum natiuitate Mer. curius, vel bonam,vel malam habet pòa' fituram.In quorú enim natiuitate Mer. curius in domo,velexaltatione Solis fue sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò fuerit + in domo Lunæ, nafcuntur groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum ortu | Luna reſpicit Mercuriú, fapientes fieri voluit;contra autem amentes:quiaLuna virtutes naturales infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum virtutes naa turales,quibus corpusguberdatur, rati onem reſpiciunt, ille nafcitur sapiens; cùm autem non refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur mentis hebes, & obliuiofus, qui in natiuitate Mercurium babuerit retrogradum: fi enim dire &tus fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo. gi ducunt rationem, quòd ftellæ nóim. peditæ,luas faciant naturales operatio nes; oppoſitum autem,fiimpediuntur. Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa pronoſticare de moribus hominiume" accidit; non quòd ita neceſſariò eue. niant, fi homo per voluntatem, ratico pis legem magis, quam ſenſusſequi vo luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum appetitum fenfitiuum, in quo Aſtra influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol.. Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis, folum perfe& ifsimè inter veteres, morbos Caraffe. Ratapud Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis, finguli adhiberentur medici. Hinc illorum 0. cularii, auricularij, & alterius,morbo rum nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri non pofle, vt v nus omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in vnadoctus habere tur, vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit. Galenus tamen illic temporis inter veteres, naturæ miraculum, omnium corporis humani partium, tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe& ifsimè fo lus curare nouit. In lib.de Pet. Art.Med.c.2. Grecos feriptores de Iudeorum monumenti rutibi pertractafle Riſteas, cuiushodielibellus extat de Translatione In terpretum,refert; Ptolomeum Philadel phum, fecundum Aegypti Regem poft Alexandrum, quæluille ex Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ biblio thecæ præfecerat, curGræci ſcriptores,.nullá dehiftoriis, &monumétis ludæo rummentionem feciſſent reſpondiffe autem Demetrium, tentafle quidem id facere Theopompu,& Theode&tem,no biles in primis fcriptores, & quedá ex lu.. dæorum monumentis ioleruiſle fcriptis fuis: fed mox taméluifſe temeritatis pe nas:illum enim amentia: hunc cæcitate diuinituspercuflum; ſed poftea mali fui caufam agnofccntes, & ex animo dolen tes, placato Deo,ſanitari elle reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar. Euang. A Cane qido demo- fum, inftarCanis la traffe proditumeft. Ex corrupta imaginatiua non femel à cane rapido commorh latrare vifi funt:cognouit enim NicolausFlorenti nus quendam, quià cane rapido morſus, curationem vulneris minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia ſua abſ. que læſjone, maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam inftar canis ſtetic, cæpico;pofteam latrare: dú autemab illa reprehenderetur,lubridés ſurrexit, idque pluries eadé die reperi uit. Serò corrupta ex eius ratio, & die 40.mortuusà morſu illato repertus eft. In Arthritidey Chiragra, quando mors fuccedas. Arò mortem in Athritide, & Chi R corporis ignobilibus humor refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo) tales àmortis periculo, vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum eft, quando circa finiftrum pectoris finum, cui cordis turbinatus mucro ſubeſt humorum colluuies den cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan  Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere, Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori - ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit, his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus tabeſcere, & o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab infar &tu fa & us imbecillis,nequit(fa &ta humorum ſeparatione in Hepate) melancholicum fuc cumad ſe attrahere: hinc demiflus ille cum fanguine corporisatro colore ani. bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo, da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines delectant, ob id multi & cymbala, & alia muſica inftrumenta frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft:iumenta clitellaria in la boribus, & itinere, cantu, & libilo al leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam, & alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú col. lisfufpendunt, quorum fonitu, huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt, & perinde refici, & à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da Fafcine, Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer ligna, mortem languentiuni, quæ præſagiunt in febris acutis, illud maxime obſeruatu iudicaui dignū, quod à Sauonarola multa experientia com probatum eft. Sienim infacie, ſeu genis ægrerum,maculæ nigræ obortæ contpi cientur,prcculdubio languentis exitium minantur,quippè venenofæ, & peftiferę materiæ in corpore predominiú redun dere arguunt, ex quo mors ſubſequitur. Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex tali ľ prognognoſtico,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum adictus venenofos epotumplurimum valere. X Cornelij Celli obferuatione ace tum pertum eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet, & partim ob ipſum vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis aliumhu morem nó reperiret,acetum, quod fortè ſecum habebat, ebibit, & liberatus eſt: coniecturandum eft acetum, quamuis refrigerandi vim habeat, habere etiam difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem vi veriſimia le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis, ab eo diſcuti, & fic dari fanitatem, lib.s.de ictu afpidis. A quodam piſtisgenere febrem illico ex citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod. dam piſais genus reperiri referunt, quod manuapprehéfum febrem accen, 1 dat.Equidem piſcesillic neutiquam el culenti ſunt, liceat flumen fitpiſcofiſsi mum, qui tamen piſcem febrium appel fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed quod mirabilius eſt, demiſſo piſce, ftatim liberauit.Cardanus, & 566 lig.in Exercit. Fæminas in maresfuiße commutatas fabulo fum non est. Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus notatum reperio, foeminas in mares quandoque commu taras fuifle:referam folum, quod tempo reFerdinandi I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn Ludouicus Guara rea, à quo quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus duabus, alteri Francifcæ, & alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm perueniffent addecimu quintum annum,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia membrainſtar marių eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt: Franciſcus, &Carolus nuncupati.Ex Fulgoro. Sene & utis incommodatam corporis quàm Animai NKINGT ANTUT: Quanta fint in fenibus, & corporis, & animi incommoda, non modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob feruatione experimar,vt iure afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $ partem miferrimam iudicari. Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt * cor eorum affcum eſt,caput tremulú, (piritus languidus, anhelitus færidus, frons caperata, corpus recuruum, nares mucores deftillant, vifus debilitatur, i capilli decidunt, dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi, inexorabiles, moroſi,nimis creduli, rarò obliuiſcun. tur iniuriarum,laudantveteres, prælen tia damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, & alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi, o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem fentina, & cloacam efleomnium ford ú, & immunditiarum ætatis noftræ confia tendum eft.Ex Lauren. Cupero. + Magnum Alexandrum, corporis ſudorem ha buiffe redoleni em. Rat Magnus Alexander tam re & a humorúarmo I 2 nia, & temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem balſamiexpiraret; imò fudor, quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, & fragrantia redolebat, vt quoties eiuspori recluderentur, gra tiſsimis odoribus perfufus crederetur. Quod autem mirabile, & difficile credi tu eft,cadauer eius tam fuauiterſpira bat, vt aromaticis ſpeciebus repletum efle iudicauerint.. Ex Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron.Natur. Diuerfe quorundam hominum virtutes, ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col. laudantur,omnes in paucis earum per. fe &tionem, confirmant. Porrò Ablalo nisformam, & pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis: fapientiam Salomonis: agilitatem, & celeritaté Afaelis:diuitias, & opes Creo G: liberalitatem Alexandri:vigorem, & dexteritatem Hectoris: eloquentiam Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis. Veteran Baderoase no canna, & in papyro penna fcribebate Veterim ruditas, &infcribendo vari Arbara equidem,& mifera erat ve teruminfcribendo ruditas:ij enim primò in cinere, deindein corticibus, & folijsarborum,pofterin lapidibus,mox in lauri folijs, exinde in laminis plum beis,conſequenter in pergameno, & tan dem in papyro fcribere politiſant.Erat præterea illis in modo fcribendi, ins Itrumentorum diuerfitas: in petrisenim:. ftylo ferreo, in folijs penicillo, in cinere digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam atramentum varium erat, primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam appellamus;deinde mororú fuccus;ad hæcex fuligine caminorum; mox eft fynopica rubrica,aut minio; vl. timò tandem ex galla,gummi,, & vitrio o lo fieri cófueuit. Bx Strabonede situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles Periamnunc pilulas meas maxi mæ efficacia, quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua à cratsis frigidiſý; humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus fum.Interalias obſeruationes, in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc cefsit calus in R. Petro de Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa focatuserat, quare vocatus anno 16156 vt eius ſaluti confulerem; cognito mora bo, quòd ex craſla & viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas in aurora exhibui,non fine loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ admis. ratione, qui rennebat quodammodo. medicamentum. Eratpilularum come pofitio ex trochis, alandahal, & Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú ſyrup.de líquiritia conficitur maſſa. Ex hac plurimępilulæ,vtfacilius æger de glutiret, confe&tæ fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum propine. re foleo,quemadmodum in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, & breui delituit dolor & gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, & vna die fanus factus eft, cummaxima multorum admiration & lgtigia. His pilulis vfus eftGalenus ad linguam tumefactam, vi lib. 14. Method s med. ſcriptum reliquit: Capitis noftri capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M Agnácapitisnoftris capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę nónullæ humoris defe& u. inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ ipfarum humoribus occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia: -1 dit:vel n.ex humiditatisdefe & u,quanu. triútur; vel ex eiuſdé prauitate corrum- 3 puntut, & decidunt.inc defluuiú & alir eapillorūdefe& us in cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite coloribus tirgere valeamus: I volucrú pennas variisco !oribus tin--, gere 1 ter abluereoportet; mox in aqua alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá cro co colorarā, ſi flauas eas cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in fuccú, aut vinü acinorú ſambuci vel ebuli.In diluto fio. ris æris virides fiunt: codémodo colore minij,atraméti, alteriusue coloristin &tas habebimus. Agric  Poftulanie,à meluannesBerardinus Agricolas, Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit Mazzocca à Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia amorem, cuius familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento conſeruando, filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur; Equidem hu ius ingenium, & animi indolem fepè de miratus fum: proptera in recurioſiſsima complacere volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à corrupte la præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc agrifilice pleni reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex aluo deiicit: in grauie dis necar fætum, mulieresque reddit ſteriles: quapropter multa ratione agria cula (1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro frumentorum ſtragulis vtun ter: quia illorum corruptioni maxime refiftuor. Terrestres Lumbrices digitorum panaricium: fanats. Panae  sol PAnaricium in latere vnguium accidit, &interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens, ne. que diu, nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, & dolorislenitione multimultafcribunt: egoprofe & dcer. tiſsimo experiméto multoties compro baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin. cipio,mirabilitet apoftemacompefcere, & fanare, vt vix diei fpatium affe &tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am,contra lüemo peffifentemefe efficaciam. M Trabile obſeruamus Galege, & Scordii efle virtutem cótra febres malignas, & peſtilentes; fi quis enim Galegęfoliainacetariis, autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, & incolumis præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum eft:fiquidem ex.veterum quorú, dammonumentis aduerfus putredinem Scordium fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè fortuna cocia derant, multò minùs aliis computrue. runt; ea præfertim particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos. in infantis ombilico filiorumrume-, rum haud oftendere. Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex eadem matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione;fæpèenim fit, vt illa moriarur, aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, & pariat, quàm nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum alio plures, cum alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio. kiratione afferendum,in nodorum vm bilici primi infantis coniectura, exiſtin, mosfæcundosvteros plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles; miebe autem paucos, eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą feruatio demonftrat, & vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i tur. Ex Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom. mines ſanare. Irabile eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle naturam ſortita, vt icteria cum affectum, à quo homines plerum que moleſtantur, ad ſe valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I &teribus,fiue Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon. Sed 1 quod mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò moritur. Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita obieruatione animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú elle, & folo perinde afpe & uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc adeò perniciofam vim. $ retineat, xt in alios propriumaffectum, 6 ciacus  ejaculari valeant. Pulchra ratione hoc Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem animus malèaffe & us fuum quoque corpusmalè habet; ob id fianimusaliquomcrore, aut vi. tio afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi enimab inuidiacentatur,pallo re, &croceoscolore corpus. inficit. Inde fitetiam,winuidia tabefcentes,ftocle. Jos.inaliquem. liuentes.defigunt, animi fimul venenum vibrent, & quafivirule.. tis iaculis confodiant.Proptereamirumi non-ef, hominesaliquando ſolo.aſpe & uindippitudinemincideres,vt Hieron nymus, Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo. teftatus eft. Adlapidessenum,din neficefrangendos mine rabile remedium.. Vidam -medicus ecuditus, ad lapin desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum,cuiusefficaciam a. dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non folumà renibus,& retisa;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium haud confedus fu. erit.Paraturex hepate, pulmone, reni. bus,tefticulis cum priapo hirci, quæ cú & croco, cinnamomo, & mellemifcentur, ac ijs hirci inteſtina implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon ftruofa,faveraeft.Ex.Micbaele Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck. Veterum medicornmpro conferuanda Sanin tate collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ, & Syrie, quialter Alexanderdi &tus fum, it (vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin. Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ, GregiæMediæ,, ac aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit,vttalem inuenirent medicinam, qua fi homo vteretur, nec. medicis,nec adia: mediciņa indigeret, pollicitufque fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro maturèconfülendo e rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem cùmomnes cffent requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter ceterosdo & trina & fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit, quòd fumere quoủibet manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat, &alia haud indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in Arabum, Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis ratione ad ftomachi fundum ten dit,auget calorem, & citiùs comprimit, & digerit cibos, digeftionig; maximè au: xiliarur,ceteriſk; mébris corporispluri múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin accenſoscarbones mo dicum aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco binos aquæclear ræ hauftus manè potare, menfe Iunio præſertim, propter choleram reprimen dam, multum confert ad fanitatem cone feruandam. EfBurtbolam. Moles in lib. de; ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare fanguinem puruminteradri Skadar randa, quæ rard luccedunt,puimera. SUT  1 tur:vbenim in aliquot fudorex láguinis i iclore cruentus corpore malè affecto,: vifuseft; & is nequaquam fineadmiratie one, & iftuporezita di illeexputo danguis: nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem præſtat-negotijcaufam inueftigandi cupiditatem; vt futiſsimè nobisinlib.de Hydraniofazatura.olimedia to pertraétatuet Referam nunc quod, Magno: Alexandro euenit; dum eſſet in extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna quadamedererum fumma cum Indis.decertaters lub @ diarioque milisere deititueretoMilqucadedcholera:luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum vfus, pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa yesulta, & coriacea,terit titatem, & mollitiemacquirant.Propte. rea,quòdcibos concoctu faciles przſta, bant,& aluumemolliebant à vecerum à mélis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum:muccaginem combusa fionibus maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus: adhibentur', feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum. Referam:Petri Foreſti in pro prio filio experimentum, Ille matri obo. fequioſus,,cümtefta carbone ignito re pletamkappostaret,cecidit & igneoculos. combuftitit: Putem cum temen cotone. orum in quâ raſaceam coniecifset,atq; muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű fuiffe,idemconfirmat, In lib.6. Obf. Medo Aegyptiospermotas figuras,fenfus,or. rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia inter cæterasprecelleroreratapud ve teres, (illa enim ab Abrahan originem habuit) dcirco,& rudimento, &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à qui illorum primi per figuras animaliú (CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis elfingebant, & antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer. auntur, & literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis: - látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a - pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent auditus,& inlignismemoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum:fi velocem, vel rem citò factam,accipitrem; quonis hæc aliarum fermè auium fit velociſsie ma. Si inuidum, anguillam, quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si iuſtum,oculü: Gliberalem, dextram manum, digitis paſsis:fiauarunn,ijfdem compreſsis.Per inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe Jant. De bis vide Pie arium, Diodorum, Srabonem. lum  ritatem, &mollitiem acquirant.Propte. rea, quddcibos concoctu faciles præſta, bant,& aluumemolliebant à veterum à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso fionibus maximè opitulari. Nter præftantiſsimaauxilia, quæ có. buftionibus adhibentur',, feminum, cotoneorum muccagines retinent prin cipatum.Referam:PetriForeſti in pro prio filio experimentum. Illematri obo... fequiofus,cum teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret cecidit& igncoculos, combuft Pitemaeumtemen cotone. orum iniquárafáceam conieciſset,atq; muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce -Conualuitabſq; combus ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus feliciſsimè femper vsű fuiffe,idem confirmat, In lib.6.obf. Medo Aegyptiospermotasid pguras, fenfus, re rum memoriam effingere confueuiffe. Aegyptiorum fcientia,quia inter teres, (illa enim ab Abraham originem habuit) dcirco,& rudimenen,& Hiero glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui illorum primi per figuras animaliú 5 (CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis - elfingebant, & antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer. auntur, & literarum inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis látceręreperiuntur,quæ Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a pis enim fpeciem mella conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem ſignificare volebant; leporem aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent auditus, & inlignis memoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum: lì velocem, vel rem citò factam,accipitrem;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi ma.Si inuidum, anguillam,quòd cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum, oculu: G liberalem, dextram manum, digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe vant. De bis vide Pie. crium,Diadorum,cSrabonem. Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri yalcancus. Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti, ad jun & o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ,nuces iuglandæ, folia rutæ, &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum aceto ro faceo, vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg; expri mantur;ſuccus verò, qui percolabit,fero uetur: vnúenim iftius cochleare, mane ieiuno ftomacho ſumptum,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi. Ex Alpbane de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare. IN fedando dolore vnguium expun, Aurisacu,vel ferro,atq; iisperſanan dis,nullam remedium oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba feruatione,multisa; experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier; ac vnicè dilecta, Laura de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi liæornamentum,acu contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita menoleo oliuarumio puncturiscollini to;&dolor confeftim euanuit, & falus introducta eſt.Ego profe & ò ſemel pun. aus ferri cufpide ſubter pollicisvngue com ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo, antequam aquamtetigiſſem,deueni;quo adhibita dolor delituit,atque vulnus vnà breui ter, & conſolidationé, & fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad vefica calculã,quoabt que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter admiranda auxilia, quæ ad cal INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico remedium, à do &tiſsimo Hora tio A ugenio experimento confirmatú in epiftolis addu& um,quo abfque inci fione in vefica multorum Japides com minuit,& expurgauit.Réferam qua via id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ cuiuſdam Typographi filius Romæ poft varia aſſumpta remedia,cùm nulla lub fequutá noſlet ytilitatem,fecaricupidus; de pretio cû Nurfino artificecóuenerate propterea Sacerdotem iufsit accerf ri, vt ſumptis Ecclefiæ facramentis, fex le &tione moreretur, animæ fuiffet confultum.Religiofus ex focietate Iefu, audita confeſsione, proponit illi phare macum,de quo in leipfo, & in alijs peri culum fecerat: expeririæger voluit, & magna aſsiſtentium admiratione fana s:Pharmacum ita erat concinnatum. Puluerris Millepedum præparar,drach, i.ad fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc. Sem.iuris cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger calidum,horis quinque ante prandium. Efectus medicamenti talis fuit. Horarin duarum fpatio totum corpus incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat, ac ferè loco ſtare non poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora quinta cceperunt cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco contingebant eadem, fedvrinæcopioſiores, & craſsiores.Ter tia labulumapparuit multum. Septima tandem adeò plena fabulo vifæ funt, ve rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum aqua diflolutum: omnia in me liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui proximèincididebebat, liber abomni malo nona fuerit die. Miliepedum ad calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur Millepedes ad Renum Velicæque calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris quantitatem, vinoquealbogeneroſo abluito diligen ter, mox in ollam copiicito nouam, vi tro obductam, lutoque aliquopiam ile lam incruſtato, demú in furno exiccen tur,ita vt poſsit in tenuem puluerem rc. digi; tumverò affunde vini ciufdem gee neroli quantum poterunt imbibere, & rurfus exiccato, ac tertiò imbibito & exiccato vt ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua fragarum deſtillationis &olei exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem, & exiccato rurſus: vbi verò fic fuerit exiccatum in tenuiſsimumque puluerem redactum,feruetur in vale vi. treo,aureo,yelargento. Es codem. Frequentem ficoram efum fudorem parere abominabilem. Licetficorumvfus multa hominibus commoda părturiat; ran & ij citifsi mè nutriunt, & impinguant corpora, aluum emolliunt, & per vrinas, & per ambitum corporis non pauca excernunt excrementa: tamen eorum continuus, & frequens vfus fudorem generat abomi. nabilem, & corporis fæditatem; indici um huius rei eft, quòd illorum eſu pe diculorum copia innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum lib.6.Antiquar. teet. Anchie molum, & Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos veſci, & tamen robuſtos extitiflc, ſed adeò fætentes,vt propter abomina bilem fudorem certatim in balneis aba. liis excluderentur. Mulieres eximiam, &fuauemrerinete pinguedinem. Orpora mulierum fuauiori, & ma: ori fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ profe& ò ob ſiccitaa tis, dominium,minùshumidi, & oleofia C ttatis retinere videntur. Propterea apud Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta cadauera promifcuè erất cóburenda, veterú tempeftate, temper decévirorú vnú mulier brcímiſceri ſolitú: qualiil lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt cętera faciliùs cócremari valuiſsent, Aſtu demonum, mirabiles in hominum.cor poribus effectus procreari.: ribus Dæmonis aftu cffectus con ců, ſpiciuntur, vt quando quis euomat am icus, clauos, pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in lecto fint ingeniofifsimè con ferta:multæ enim de iis obferuationes apud Hieronymum Mengum in Malleo Maleficar. Paul:Grillandum, & Delrium reperiuntur. Quomodo autem hæc fieri pofsint, talis eft ratio: aut enim ifta funt Diaboli illufiones,ita quòd ea videátur, quz vera non funt, fiue per a&iua natu ralia hoc efficiétia, ſiueper acrifiam,fiue per aeriscondenfationem;aut funt vera; quippe Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in hominis ftomacho intulit, & exinde viſbi.  Emin viſibiliter educit,licet ram magna vide antur; nam &ea diuidere, & integrare poteft faltem apparenter,eò quòd loca ſiter huiuſmodi corpora, & partes eorú, ad nutum moueantur, & ad inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa Sylueftrina de Malefic. Carduum Benedi& um ab Hemicrania homi. nes preferuare. X India Carduum Benedi& um pri mùmomniumad Imperatorem Fri dericum honoris gratia fuiſle miſſum multi hiſtorici autumant, quod miris laudibus, ob peculiares eius virtutes, planta hæccelebrabatur,&obidà mula tis Carduus Sanctus dicitur. Hæcenim venena lupcrai, &confert cùm vlceri bus, tùm vulneribus, eft præfentaneum remediumad peftem, necat vermes, & vtero prcdeft, & in cibo, & potu viit pata, ab immenfoillo præferuat capitis dolore, quemHemicraniam vocant. Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia.Epilepfia fumpto prime fyropo de Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco Rute. tibus morbus epilepticus,apud au * Etores noftros paſsim legitur, ob id af. feetus hic vocanturà nonnullis iLorbus * puerilis, liue mater puerorum: Vtau iem cùm ab Epileplia, cùm apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua tioneexpertum eft,iis,antequam lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in cichorea cum Rhabarbaro drach. ii.ab $ hacluepræſeruari,vt Nicolaus Florer - tinus fatetur. Arnaldus Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti të y Scrup.Sem, infans hauſerit cum lacte, antequam aliquid guſtat, nunquam in Epilepſiam incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello,Hieronymo, &Mare i co Antonio filiolis meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet dedi, antcquam lac guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc ablactatur, feremortua nata eft fumptoque & ieiunato paruo cochle airo ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit, epilepfiam nunquam adhuc palla eft. Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta # nimaliaefe venenum. Nter naturæ arcana reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro Sceptio traditur demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem fimenſtruationis ſpatio nudatæ ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac alia noxia ani malcula decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum eft.Non folú autem huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere creditur, verùm atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio menftruofan guine guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter difficillimos mora ſus fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs tractauimus. Thapfiam veficas,do ademata corporifuper poftam excitare. Magna profectò eft Thapſiæ effi cacia in veficis, & ædematibus ge nerandis,idcirco à nonnullis in peftife Eris febribus vbi veficantia neceffaria súc cum felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm autem corporis locum aliquem inflare quis deſiderat, veloſtentationis, vel cu o riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low i co conftituta:ibi enim breui veſicas, & ædemata excitabit; vt tandem citra læ fionem id ſuccedat & breui etiam fol jů uantur, cheriacam linire, vel curninum, i aut acerü fuperponere oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. | Antivfum inmedicinapro conferuanda va letudine mirabilem obtinera proprie Mlimbi Irabilis efficaciæ aurum in medi Lcina eſt:quippe innumeras illud pro corporis tuenda fanitate retinet vir.? tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit capiunturpropterea aurilamellæ, quæ ignitętoties in vino extinguútur,donec ferueat iſtud,mox colatur, & vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo fuccurrit, concoctionem ad iuuat,foedum colorem emédat, & prin. cipalia membra coroborat, & rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari prauos humores calore fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que plurimum prodeffe fua virtute ile lius vſum. Multi certiſsimo experimen, to huiufmodi vinum vitam prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque virestotius corporis renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex Mizaldo, & Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua betonicæ,autabfinthij confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate vétriculú corroborare fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à veteribusfais Dầsfuiffe dicat. veterum infania in rum falſa religione: quippe,& i nimalibus cultum reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, & naturalibusrebuscircú. fórtur. Inter alia, quædago apud eos PO animalia erant, quæ ex naturæ illorum proprietate, & fimilitudine, vtreor, ali quibus Dijs reperiuntur fuisſe dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1 ui, Tigris Baccho,Pawo luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis Aeſculapio, CoruusPhoebo A finus Libero,GallusMarti,Colúba Vara neri,No& ua Mineruæ, Lupus Marti, Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu proprietas, eiusque cognisio, Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis propinatur languentibus veilitate maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe videtur.Illud auté non ex eo cognofcitur, quòd bullas excitet, vt plerique hominum ignari perſuaſi ſunt: hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia, diuerfaque methodo. Hoc eſt præcipuum experimentum. Si ſcobem eius củ arſenicogallina,turturi,aut co lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit, vel vnicornuftatim poft arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 & legitimum Vnicornu pronuntiabi mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem cornu à ſe emittet,ve rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in vftionepon omni no comburaturſed, augeatur potius minimeque in vſtione fætorem cornu *habeat, tt in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio mulierum cinni crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát, illud autem iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum, quo votum aflequi poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem, fæniGræci, croci fylueftris, liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan.. titatem adtui libitum, paleæ triticæ ft. militer, his quernum cinerem addito,, & incoquito, vt tribusdigitisdefcen dat aqua, inde lauentur capilli: tanta enim fauitie“ redundabunt, vt illos aurcos eſledicas.,. Ex Porta in Phitogn. tipios A4 itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem, eorum; vires deperdit assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta comparanda eſt, Marſilio Fici 4. no, in lib.z.devita producenda, Medicina Magorum appellatur, quippe ſpiritus, naturalem, vitalem, & animalem fouet, confirmat,& Toborat; & proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt. Conſtat hæcex thurisvnc.ij. myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem. contundere fimul į tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, & in pilulas ducere. Sumi kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho; in æftarecum aqua: roſacea; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in aliquo confeftim induci palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio.. nem, vel ad remedium, curioſi tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in conuulfionibus, parakyſi, aliisque frigidis affe & ibus,non parumaliquádo K4 febrew meri potu. 14 Sheh  febrem excitare profuit, ) Scarabe cor buti in oleo decoquantur, illogue arte ria brachialis iniungatur: tanta enim eſt corum potentia, vt confeftim febris, & accenſiones corporis criantur. Ex Car Nuno. Amultis animalibus anni tempora precognoſci. Tdcntur profe & ò plerac; animalia anni temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum inſtinctu, illa homines commentiuntur. Grues enim autumni tempore ad loca calida peruolant, hye mis frigora fugientes. Hirundines ver nali tempeftate ad regiones noftras re meant. Ficedulæ, coturnices. aliaque multa volucria, in anni temporibus,pa bula commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem non Ver, Autu mnum,vel Hyemem dire & è præſentiút, quemadmodum nonnulli falsò ſibi per fuafi funt; fed verius ex facta alteratio neà calido, vel frigido in eorum corpo ribus,fiue occulta qualitate,has viciſsi sudines facere cognouerunt. Am ago Amantis ex leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere folent.: Viperditè amant,leui alioqui mo mento iraici videntur: ratiohuius rei eft, quiainiurias, licet leues, graues iudicant. Grauefiquidem exiftimatur, vtilleiniuriam in te committat, cui ma ximeplacere ftudeas. Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui contra fui habitus propenfionem facere quippiam conátur; ita &amantem facere conſpi cimas;moxtamen rixarum,& odisper nätde, rurfusque fupplex iugumſubacta ceruice repofcit.Ex Leona dojachine, IN Plenilunio, Nouilunio Pharmaci ex bibitionem àMedicis maximè deteftai. Vlra rationc à Medicis in. Pleni junio, & Nouilunio Pharmacam ehitatur: fiquidem Luna,cùm interme Hriseftzomhiijo caret lumine,atqueſub radijs lotaribus ia &ta, & proinde ſolica caret humiditate, quo fit vt corpora ne ftra magis licca maneant, & virtusteten trix robuftior exiſtat. Idcirco fin No puilunio ipharmacum ægris exhibetur;a K 5 abfquedubio humores noxiosagitabit, atqueob retentricis facultatis inobedie. entiam parum euacuabit.InPlenitapig ob Lunç porentiam corpora noftu yali de calefcunt,humoresque augetur,Hing In pleniluniis no &tesicalidioreselle ex perimur,cuius caufa, cailorem à centro ad circumferentiam attrahi, verilmile: eſt's quas propter fihumores, corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus bio pharmacum improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg. tumque natureperuertit, quo facilefut cedit;vt virtus kadetur,&humorumsys tiacuatio,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch 19continuatamaſculorum generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem.: TIG apud multos fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ generationis mirabilem habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc adieciſlem. Volunt enim quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim & inter eos fæminam nul,  Quod autem in Hydrargiro mirabile pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem & ftrumas, & alios plerofque effe & us retinere ſanandi, An autem ve rum fit, ncſcio,cupio tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri, fuperpofito yclamine, 1: in molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla inau. rare cupiunt, Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur; illud autem in igneimpofitumin fætores grauem, & fætidas exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem, niſi abijscautè'euitantur. iudicatur, eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum extendimus, in quo colligi. poſsit, vtique in argentum viuum fu moſitas illa icerum conuertitur, & Hya, drargiram renouatur. Experimur hoc. etiam in carbonum fumofitatibus in traffas fuligines reuertuntur, licet die uerfimodè ab Hydrargiro,Ex Lemnie. Eæculas Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem. 5 K Singularis profe & ò fæcularum Bryo. niæ,tum pro matrice muodificanda, tum ad hiſtoricas ipſius paſsionesſanan das eſt efficacia:quippe ex multis expe. rimentis comprobatum eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter remedia,prin cipatum habere. Referam ipfarum con ſtructionem, Exprimatur pręło ex Bry onix conciſis radicibus, & contufis fuca cus.crit primò turbulétus,idcirco in va ſe aliquo afferuādus eft, vefæcalisma. teria ſubſideat: detineatur in locofrigi doper paucosdies; in hoc enim fpatio finclinato vaſculo,viturbulenta aguia) Separetur, & proijciatur) fæces albiſsi mas inſtar amyli in fundo inueniemus quas iterum in pluribusvafculis vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra vt, exiccen tur feruabimus;ita protectòintra paucas horaşexiccabitur, & formáanjyli acqui rarexpreſlum, quã Bryonize foculá no minamus.Hac fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum pondere, & cú palico ca ſtorci, & alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua florum faþarú pro fuco ad orna tum mulierum,paneaſque defendas ef ficacifsimæ funt.Ex Quercerano, Miſaldo, &Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande vulnera misam babere potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij virtutem ad vulne rum coitionem, indielğue nouis obſer: uationibus confirmari.Referam folum quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus naſus erat,qua osin car tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem alteridigitis coniunxit,her bam tuſam,& èvino nigro tritam,quod Millefolium appellant,impegit, rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti. tit fanguis profuens, & vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum tem; eftate floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq;illiusftudio vacabátur:inginte s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines componebant,quibus ditiores facti cum Regibus bellum adibant.Pro. pterca DiocletianumCæſarem legitur poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o & omenſcsin Alexandria obſeſsú: profligaflet, omneschymicæ artis libros, diligenti ſtudio conquiſitos, deflagral. fe: pereparatis opibus, Romanisfacilè. repugnarent. Ex Suidt, oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi: poßit L Itet varüs modis corpus depilatum; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via præftantior eft,Varronis teftimo nio, quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes decocti fint,donecad tertiam redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur, proculdubio glabrum,&fine pilis had bebitur.. Natiuitatis hominum tempora à multis: obferuari On leuis profectò eſt.multorem: ſcriptorum obſeruatio in homia. EN lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta corú. variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur. Porròquiinipfor terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper lan guidifumo qardenet Cometa coex ar... dendi complexjoneargentesfuntainter's Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-; eholici, & atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura: fumptums quam itme', fed adver: mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum, vel fimauisargenti vionm, quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo fucceflu contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi-. nis illud in Hiſpania reputatur, vtmu lienes, tenellis pueris, quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad quantitatern granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via morbuscellare videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem viduam mulierem curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex vermibuslaborauerat, & ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat. Haiccùm fcrup.ij. bydrargyri mortifica tii, cum tantillo adoniipropinaffem abfque vlla moleſtia peraluum centum, & pluresemifitvermes, &eademdie lis berata eft, & folita exercuit domi, & foris negotia,magna profe & ò parentum ſemper eventu, domique continuò a quamhabeo, in quaHydrargyrum, in. furum retineo, illaa que puerulis pro vermibus libentiſsimèconcedo, nec ad hucquempiam ex illo noxiam recepifle expertus ſum. Vfuseft hoc remedioad vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, & plerique alii celebres viri, qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt beneficium. Datur pueris in lub: ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel drach.j. Corrigitur illud, & nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro rubeo: ibi enim tam diù conteritur, vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne au tem in priſtinam formam iterum redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas adde re oportet, & cum zuccaro rof. violato, vel cidoniato ieiuno ftomacho languen mtibus propinatur.Sciant igitur curioſiin hac dofi nullum præbere periculum,in # maiori tamen non dedi,neque concede tem:licet apud Aufonium Epigram.10. o legatur hydrargyrum contra medicinas venenofas valere. * Datura flores, com ſemper, hominem in ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia in faſcinan.. dis, vt ita dicam, hominum men tibus, adeò quòd, qui illiusflores, vel Temen ſumpſerit, à riſu, cachinnisque non defiftat,donec més alienata ex plan tæ viribus in priſtinem redeat tempera mentum, Apud Indos à furibus Datura vfurpatur;fores enim, vel femen in ci bos eorum, quosdepredari volunt, exhi. bent, & in mentis alienationé, & in riſum 2. conci.  MA it concitant: ita profecto furádi parantin duftriam.Durat illorum riſus, & mentis error, viginti quatuor horarumtermipc.. Ex Gozdab Horto. Lupesſenio confectos in renibus venenoſosgeo net areſerpentes. Agnum profectò in præſentiarü arcanum aperio, multis hucuſ. que incognitum de luporum natura. Il lud eft,cur à Lupis animalia commorfa modòfanentur,modòautemmoriantur.. Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali qui verò ſine veneno exiftant?Equidem CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i. ſe obſerualle fatetur, ib Luporum fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona giores, & breuiores, qui temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum enecás. Hac via facilius nobis tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si enimle piiuuenes fuerint, animahaa, momor derint, ex benigniori eorum natura, mortem baud inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi buscorporis fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio fuerint confe & i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút,propter peculiare ve nenum inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium, vel moriantur, velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur. Ex. Gaſp Benkino. Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere pale ant. Vita à Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua, & ve riora effe exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo,atq; ra rius cócubat: ita n. & calidius & fpiflius fe. méeuadit,fita; prolificum, & aptiſsimum ad marium conceptum. Secundo mater, & incongreffu fuper latusdextrum recubat & à coitu confeftim fuper illud conqui elcat: Siquidem Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris genera-. ri ſcripſit.In dextris enim ab Hepate fo. uetur ſemen,quod eſt calidum: in ſini. ftris autem à liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur, & ad fæminarunt 3 conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus concubant, Auſtris vero defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos accommodatiſsimum eft,Au fter verò ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus experimentum, quæ fiflá. te Aquilone concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem foeminam. Multi, inter quos Cardanus eft,ad marium concep tum Mercurialis maſculæ elum extol lunt,hæc duos quafi coleos pro feminie bus habet, & ab vtroq; coniuge depaſta, marem inducere occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac inferiora Lune con fluxum. Trabilis profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora: ipfa enim noctes illuminat, & fuper humida poteſtatem haber,marisfluxus, & refluxus per quae draturasfuas intētiùs, & remifliùs facit; quippèdum oritur,maria intumeſcunt, & in æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum meridianum illa perueniat; cùm autem ad occafum inclinat, Oceanus ab æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte, percurrit,mare ad confueca æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei circulum Luna atringat; poſtremdcùm ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos alueos regurgitat. Ipſa in Agricultura rebus dicitur do, mina;propterea antiqui gentiles, qui in terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter obtuliſſe dicuntur; y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux velProſerpin. Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur Vairus in lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit hic, vir alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum:quia non datur ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat: ſicutin genere triticiquod dam eft,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò, quod nouem menſibus: fed debile eft huius fundamentum, quá do in Hifpania, & Aegypto o & imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo concluſionis ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo diuinare, aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim fomnia proprio ingenio diuirare intendunt (dempta fomniorum intere pretatione, quæ & caulis naturalibus in naſcitur, quorum præfagium ad media cos pertinet) aut cæcutiunt, & delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur. Iofeph apud Pharaonem, & Daniela pud Regem Chaldæorum (vt infacris habemus) quia diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi niftris fuis Pharaonem audita fui fom. nijinterpretatione,dixifle legitur: Num inueirepoterimustalem virum, quifpiriru Deiplenusfit? & Rex Babylonis ad Da. nielem:Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce ſcientia,inselligentiaq, as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello. Inter Polypodium, & Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam. Axima videtur inter polybodie M, i quòd fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum, breuiſpatio tum pedum cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis, ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes, quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur, Confeſtim in veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis frondibuscontacta moriatur, quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè protrahere à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad i mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. " to enim probatum eſt, illiusramo ante hocanimal iniecto, veluti attonitú fie si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha. ti ſi barundine feuilsime percutitur: fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur, & fugam repentè adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam naturam ſenile corpus, Contd & muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò ab ebrietate corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft, vtà cutis cenitate,& fplendo re.comperimus, fenex contra ſiccus, cucis afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú exonerat; ſenex autem ex corporis duri. tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor. pus, quia variis purgationibus crat de putatum, pluribus foraminibus fuit có fertum; non ſic ſenis corpus,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate, & duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula, vt ebrii fenes facilè fiant, muº lieres verò perquàm rard. Nam fià mu. liere largè vinumfuerit hauſtum, illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit; dilutiulý; fit, & cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris illius vapor re Currit, & celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus vinum contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum firmiter adhæret, cerebría que petit, quia in durioribus membris; & aridis(vt ita dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex MA crobio 7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari. Agnus Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum excogitauit remedium, quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari valebit. Ille Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, & pilamæneam fiue argenteam manu compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè componebat,vt pila in ſomno elapſa in æneum procideret, & à fonitu excita retur, & furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas, licet hæc Alexandri dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in corpore commotio, dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit naturę:doloribus enim va lidis,atqueacutis in ſtomacho, & inte kinis torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam, fati gabitur vomitu,& fuxu ventris, ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do: colorægri erit pallidus, pulſus de bilis, inzqualis, & inordinatus,fynco pi, &animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte fuccedunt, o porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum eiicia ur. Ex pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam inuidere. Tanta eft morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan guente,vel reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur; verùm atque canes, ſi vicera, vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I perientia hoc edocuit; viſus eft enim & quidam canis Gallica lue captus, quihe I riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet. Quotermi nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt Scriptores in conſtituendo termino longitudi nis, & latitudiniscorporis pulchri:ihter quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia, magis acceptanda vide tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem hominis pulchri de bere eſſe quatuor cubitorum, latitudi nem verò vnius cubiti. Cymrinum bominibus palliditatem corporis inducere. More Multa profectd ſunt, quæ vultus colorem hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis hordeacęi v fus facit homines pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus ſalitorum, & immoderata Venus valde colorem de. turbant: inter ea tamen, quæ ex proprie. tate decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo enim de hoc exem pla habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum Portij latronis, qui, ve illius imitarenturpallorem,cymino fre quenter vtebátur:alterum eſt Iulij Vine dicis,qui, vt Neronen falleret,palloré Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide Decorat. Regem Archelaum maximè Aſtronomie fi iffe imperitum. T minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates, refpublicas;hominumo; cætus fine illorumobſeruatione ij con leruare valeant.Vtique horum ope té pora,annos, menſes, & horas metimur, &ſine his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc apertè ille imperitus Aſtrono miæ Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis Eclipfim,cuius caulam ignorabat, * tantotimore correptus eft,vt regiam is clauferit,filium totonderit, iudicia è fo ro fuftulerit, & iuriſdi& ionem penitts en intermiſerit: vltimum enim orbis diem. eſſe arbitrabatur.Ex Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines fuilfe repertos. X Aeliano,& Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis fuiſſe * colligimus:legitur enim quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus ab ho ftibus tantæ gracilitatis repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur, pondus vnius obolihabuiſſet,quod incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas Couse. tiaminuentuseft, quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe fcribunt, vt ne à vento deijceretur, pondera ferrea pedibus, & foleis geftare coge { retur, Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme putbiam. Trabilis profe & ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus habent: ipfis enim ſpirantibus fex. dies fine cibo, & aqua has viuere fertur; cum Auftrisautem diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, & aqua illæ vi.. uere non poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis facere pitorem. Nter ea,quæ nitorem; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum vfusconnumeratur, cuius efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè mirabilis iudicatur. Aſpara.. gi fætentem reddunt arinam, & perilla pratos corporis expurganthumores:eb: id mirum non eft,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum non modò odoratum redda tur, ſed etiam nitidum, & coloratum: quippeex humorum prauorum conge. rie, & palliditas, & defloreſcentia nobis jonaſcitur, quibus ceflantibus, ceſat de. formitas, & colornitidus exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo; maximam babere colli gantiam. E X congeneri ferènatura Picem, Rea ſinam, & hujuſmodi, magnam cum oleo affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim pice, vel refina fædantur vtique eas oleum extergit,idque ob col": Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit, furfur aqua eluit; aquam demumlintco: ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse propriapecieminime propag ari: MVlasequidem,& monftraconfimis lia,nec parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id fieri aiuntmulti;. ab improportionato generandi tempe ramento: veriùs tamen cum Bodino in Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas: natura enim in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas parere ſcriplīt; & Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3, propagare voluit:tamen hoc veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor, in illis locis Aſinarum quoddams: genus oriri mulabus conſimile, potiùs, quàm mulas, quarum partus à noftris. prodigiofus, & funeftus effe dicitur, vt Iulius Obſeq.inlib de prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus, moleftari: Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte fignum ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio excruciantur:a deà quòd fateri oportet, talium genus cum hoc fydere antipathiam habere & tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis hæcfeprisapperiatur,bene iudi. cantibus, Leonemeſſe peculiarem. Leo. nes hoc temporetertio quoque die paſo cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um,veltriduum inediam ſufferāt, Ster custunc ficciſsimum, & vrinam fatente excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan eſſe factum,vt ferociſsimæ beſtiæ quo quo pacto cohiberetur impetus, & à fre quentiori rapina coerceretur. Quo artificio in fenibus barbas, albofque cam pillosdenigrare pale amus. Eferam notabilem miſturam qua, ' R Jeant.Sumito lixiuij communis quantú volueris, decoque in eo faluiæ, & lauri folia cum corticibusiuglandium viri. dium; mox laua, aut ablue madefa &ta fpongia:ita enimnigredinem compara bis, quæ diu durabit, &lætaberis effectu. Ex Porta: Mergum,& Anferem aquaticum in Hydrsa phobiam plurimum valere Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles Anſerem aquaticum folùm non rabire, ob id à multis huius efum in Hydrophobia maximè celebrarur: mirifico autem experimento contra ram. bidi canis morlus valere dicitur Mergus qui in aquis & maridegit, quippe ab Ace. tio,eius eſu Hydrophobosillicoaquam efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud Indos iz... Meniria NInfula Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ reperitur magnitu dinis,quæ admodum illius gentibus fa miliaris, eft.In Ioſula etiam Capraria,, quæ vna èFortunatis eft, ingentis ma gnitudinis hæc animalia cerpūrur;habis tatores autépro ijs interficiendis, bom. bardis,fiue ſolopetis,alijfque bellicis in. ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia. ofcer. In educandis iuuenibus, miran fulle aibe: niexfium induftriam. Moser Oserat Athenientum in iuvenum educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis, aut gallis pugnantibus ftudi. an impendcrent:Solent enim hiermo. di volucres,vfquead extremam virium defeâionem certare. Qulo exemplo ad ſubeundapericula; & vulnera contem merida, ifamınabant iuuencs increpan tès au:bus minus ingenioſos effe homi. nes, non debere.Exsotino apud Lucianum Serpentum eumapudl kudosfrequentari.. NCuba Inſula penes Indos,ferpentes loua totius corporis ipecie, ac forma prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I plerumque longitudine exiftunt,& ex terra, & aqua viuunt:Quod autem apud illas rationes mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e fum,tanquam ibum ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po ticaput; inmiram intumeſcentiam redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non infimi momenti methodus eſt, quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro Gimus.Aperiam abftrufum artificium:Si enim porri caput,arundine, vel ligneo ſtylo pupugeris,atq; raporum,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris proculdubio propria capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum iudicetur, Ex Mizaldo. Iwer Fraxinum, &Serpentes miram adeffe Antipathiami Raxini fuccus ad ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine ratione: hanc enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio infequuntur: fiquidem illius L6 yobras OX tur, vmbras tùm matutinas,tùm veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib. 16.cap. 13.ex fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne apparatur, in cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in ignempotius, quàm in fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus, &co. culta ſerpentum inimicitia., Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi: paleamus. L Apathiū maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam retinet efficaciam: ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium,fiue hęc fuper ig. nitos carbones inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona, cum odor ad pudenda mulieris perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet: quippe fi viro copulata fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo,vrina po tiùs conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum Agallo chum, fiue Xiloaloem, vel femen portu-, acæ fi fuper carbonesiniecta,adeò effument, vt ad pudenda mulieris odor va leat penetrare: mouetur enim in deflo ratis vrina quantò citiùs, fecùs verò in virginibus.Ex.Perta. Quomodo ex duabus aquis claris, lac effings re illud valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà pleriſque ob colo Cris ſimilitudinem,liue ex nouo ori gine, Virginale appellatur, ex duabus, aquis artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem corporis mala yti. Lifsimum.. Eius modus talis eft. Su mito lithargyrij in puluerem redacti Vnc.ija acetialbivnc.si.commiſta infi-, mul per filtram lineum deſtillato, & a quam clară habebis.Vtautem alteram componas, fumito Salis gemmæ Vnc.), Aquæ cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, & fic bimas habebisa quas magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem, vel curioſitaré fiue ne. celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque coniungesfimul mil cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus  M deus ſuſcitabitur, qui Virgineusvoca. tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies aliquot beneconfricantur, euanef cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu. læ,rubores, & ex foleardores, hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates lienem,velonorum vitellós durios? res deglutire non poffe. Irabilc elt i: lud,quod in caftratis, circa cibum obferuatur: hi enim nec lienem,nec duriores ouorum vitels losdeglutirepoffunt, vt frequentiſsima apud multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in ſuoTbea.tales priùs fame fe necari pati, quàin lienem vorare por fe.Huius reialia non creditur effe ratio, quã xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão | guftatio, & cóftri& io; cũ auté lienis fub-. Itātia spõgiofa &flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis infletur;facile fit, vtiji i ex ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire nequeant. Eadem ratio eftino uerum vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia glutinoſa,per anguftum non facie la tranſeunt. Spatium humanæ vita, centum annorum fom cundum degyptios compenſariin. teruallo. in. * " Vriofa magis, quàm veritari confo näns mihi videtur Aegyptiorum aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra:quippe illorú multi, qui medcata cadauera feruart conſueuerant, ex quada conic & ura à cordis humani ponderede fumpta in eam deuenerefententiam, ho. minisviram centum annorum fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine labemoriebantur; ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere videbantur, bini quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno quinquagelimo bomines centum. drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à quinquagefimo binas: dracha mas fingulisannis decreſcere, atque à cordis pondere detrahi, minuijè dicea. bant, &fic in anno centefimo ad primum, fui ponderis: fecundum iftorum conie... awan,corredibat.Ex Teicntio / arrone.  Claro Pblibotomiam ex vena ſaluatella, pleneticis: plurimumprodeffe. "VrabatGalenus ſpleneticum qué dam;& cumdiù (vtipfe narrat)de illius cura eſſet ſollicitus,atque diligen. ter remedia quæreret quadam nođeſó niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft interminimú,& annularem ma nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, & fanatus illeeſt. Hoc diuinæ bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines per bonosfpiritus dirigit, vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla. Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in genij dexteritatis inueniri. MIIrabile profectò illud eft; quod de -Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos narratur. Hienim ab exortu, vf quead Solis occaſū; oculis contentiscan. didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo igneo rimantes fecreta quædam,a renilgue feruentibus perpetem diem al ternis pedibusinfiftunt.Ex Solino. Quibus auxilysforumarum materia,per pri nis paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus euaneſcere.Adhibentur primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ, & mercurialis,oleo, & fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum ma. terias.viſcidas copiosè purgari videbi. tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū, vel mali aurantij coleis, manè dilucu.. lo, cantharidum præparatarum grana quinque,velſex iuxta corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24.. in aceto infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim ea. rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo & orPhyficusJoannes Domi. nicus Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis, & auxilijs (trupęcurătur, quippe fioleo,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, (vulgò dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit, diú ftrumæ,purgato corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, & euaneſcunt.Het animalia viua prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt, & oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir. pationem caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur, & ftru mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij aur. & aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in pulue. rem reda & a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur, & fit malfa, è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur & exiccantur in Sole, vel furno,admoué tur fuper ſtrumas, &fpatio horarum24. opus perficiunt, Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione Alexander Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in litteris apparuerit.. Ille quidem, vt Ariftoteles de animali bus hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem, octingenti auri talenta, cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia, & viuaria, omnis. generis diſquirerét, & opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per Europain,Afriw. - Cam, & Afiam peragrantes,multa anima: tium gencra ad Ariſtotelem attulerunt, quarum difle & ionibus, de vniuerfa fen? rè horum natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem, pel: geminaspupilas babere compertum eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-. niculæ funt, hominibus, animalibusý; vilu,nocentės. Solent hæ in fingulia, acut oculis, velgeminam habere pupillam, (vt HieronymusMengus de Arte Exe orciſt. adnotauit ) vel equi effigiem, quemadmodùm nonnullas Pontumin colentes habuiſſe legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam emittiradios, qui non ſecus iacula & ſagitrę pro homi num cordibus faſcinandis exiftunt, ità profe & ò totü pernicioſa quadam qua litate corpus inficiūt,breuique velnullo temporis conſumpto interuallo,homie nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt, & ad interitum tæpè deducunt. sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant Galenus N Serapio,& pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu, canisrabidimorſum ca. rari teftantur: quæautem fit ratio,apud hos non legitur. Referam tamen, quæ àMarſilio Ficino in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego opinor (inquit) ſali ziam canis rabidi venenoſam, impreſ fam hominis pedilæſo,per venas paula tim ad corafcendere more veneni, nifi quid in tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis illecrudus ad multashoras natat in ftomacho, eum denique velutperegrie - num deie & uro per alium. Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná fuperio ra membra prenſantem, priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad ftomachű: ná &in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam, & in ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum. Venenum igitur à cor defemotum, fanguiniqueimbibitum, in aluo natanti, vnà cum ſanguine per inferiora deducitur, hominemque ita relinquit incolumen. Corallinam, ad puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ, quam plerique muſcum marinum appellant, in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft virtus, & cf. ficacia.Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue remedium ad lum bricorum internecionem, fummis lau. dibus extollunt. Profectò à veritate in hoc negotio haud abſuot:hoc enim cão teris medicamentis, in rehacaccommo datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem comprobatum eft non modòlum. bricos interficeretale præfidium; verùm atque eadem die, cùin aſtantium admi ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus, quòd quandoque viſus fit puer, quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum vermes excreuerit. Qua induſtria, labioram,meruum, capia tamgmamilarum citifsimèfifuras fanate vale anus. Periam ele &tiſsimum præfidium, A tumque mamillarum fiffuris feliciſsimo fucceflu fere millies vfus fum. Sumiro lithargyrii argent, myrrhæ, zinziberis an,vncj.redigantur omnia in puluerem fubtilif. & ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad fuffic. fiat vnguentú. Vfus talis eft: primò liniantur fifluræ ex hu mana ſaliua, mox defuper in tela exten fum applicetur vnguentum,ita cquidem paucis diebus fanantur, Rhabarbarum cidoniatan, y terogerensabs que periculoalue exonerare. IN graudis mulier bus, cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela ſo lent medici medicamenta cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con Ceptum diſperdant, & matrem occidant; velmitiſsima, & benigniſsima excogi tant, & propinant. Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem, & amarulentiă recu fát: ſed perperá quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter ele& ifsima &benig piſsima connumerari debeat, Rcferam i qua induftria à Ludouico Mercato,viro celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab interraneis repurgata, tes diuifa, (ſed fuperftite pellicula, quæ valde eft odorata) in aquadonec tabuc rint ebulliant: mox per linteum colata, & exprefla, optimolaccaro coquantur, & dumid fit,adiicies ad lib.j. huius con diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo nitur, quod eftgratius, & abfq; moleftia efficacius euacuat. Diuidatur cidopium &fub God &in par 1 (264 & fublatis feminibuscủfolliculis, parti um ciuitates puluere optimi Rhabar, negligenter triti,ac Drach.j.velj.- aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus poftulaueri agarici tantundem, vel foliorum ſene; mox vniantur cidonij partes, papyro que inuoluantur, & ligata in clibano,vel furnello coquantur ad perfe &tam co & i onem;poftremò abie &tis medicamentis internis, pulpa manducetur. Hoc pro fe & ò medicinæ genus fecurè cuacuat, & viſcera omnia corroborat. Animantium robur animi, à femine inge terari. Vanta fit feminis efficacia, in aoda. cia hominibus comparanda, nullo aliomedio ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum natură compéfare.Hipro fextò ſtatim atque teftibus priuantur, animi robur amittunt, atque máſueſcár: fiquidem & à fpirituumcopia, & calore potiſsimùm naſcitur audacia, quæ in teſtium natura valde { pongiola ge. merantur, & ab ijs in corpus deferuntur.Ob id Galenus,in lib.1.de femine,le méSolicóparauit, quod ſuo fulgoreorbe illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs ſemē,& ipi rituú,& caloris potentia, ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc Aegyptijſa pientiſsimi,cum Regem fractum, hebe temq; repreſentare volebant,meritò Ti. phonem caſtratum pictabant benè ani maduertentes,nil poſle verius hominem infirmum oftendere,quàin hominem fie nc ſemine. Aegyptiorum aliquot ad Quartanam febrens ſecreta experimenta. х bris quartanas Aegyptis familiaria ſunt, hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha bent,ægrotisdeco &tum ex menta para. tum ad femilibram,calidum cum (polio ſerpentis puluerizatibinisdrachmisan te accefsionem per horam propinare.A, lij cum decocto affati temporeacceſsio nisvomitum procurant cum felici fuo. ceffu.Sunt & nonnulli,quiante acceſsio nem pilularum drachmam exhibent. M He exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ an, drach.ij.piperis longi,calamia romatici,crocian. fcrup.iv.theriacæ an tiquæ drach. iij.conftant, & cum ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve ſitatiùs eft,exhibere drach. agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi deco & o, Ex Alpino de Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore fieri. Axus inter plontas virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub iftius vmbra dormire audebit, in grauem affe & ionem incidet. In baccis autem venenum potiſsimum viget.nam à viris comeftæ,ventris profluuia, atque funefta pericula mouent: boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra,ffortè has comederint, Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur, penna rum autem color in nigrediné mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm. VIItrus Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim Epilepticis réputatur remedium, adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi forociate liberati funt. Feruntin. Autumni principio,Luna creſcente, hũc lapidem à ventre hirundinis extrahi, & contricum aliquo liquore epilepticis in potum propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem, & vifcidum hu morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm elu, fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt, Ex Lomnio. Miram interafpides, & halic acabum inejſe Antipathiam. Irabilem natura inter alpides, & halicacabum, quemaiorem veſi cariam inuenit diſlenſum, & antipathi am:ijenim, fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices quoquo pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, & fomnolétia cor Tipiontur, vt amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum noſcena dis adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re, Erum cognitionis ftudiofus,vedie cilè quiefceret, nifiad quæfitum exas ctum ſcrutinium deueniret: ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus citra morbicausa,pleraq; vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú, & for forem; fed prius caufas ediſſere, & ita pre ceptistuis facilè memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide exularet;ati que Euripi, qui inter Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore refluerent, ille maris recurſus excogitans,atque caulam reddere non valens, tanto mærore affe & us eft,vtmorti occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates a nutricib mores,& téperiē recipere, nfantes profe & ò à nutričibus non foi lùm circa temperiem, fed etiam mo res multum recipere videntur.Ob id fat pienterà veteribus,Romulum à lupafu. idela &tatum, proditum eſt, velhocfinx I erring erint, vel vera narrauerint; fuit enimRo mulus ferinis moribus, callidus, fortif limus, & incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, & educatos legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio. Scribitur Cyrum à cane fuiſſe nutritum, TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia Neptuni filium abequa, Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus, quid nutrices infanti bus afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, & fälaces;& ita hircuselt;. quare ex hac conie & ura tales euadere in.. fantes, quales fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt. Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante, cùm plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, & oleo irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec locus optimècalefcat;mox confe ftim alio filo, aqua frigida madefa&to circundato, & vitro in eo loco fractum, &diuiſum habebis.Ego quidéalio artie ficio, & fecuriori vitrum, diuido,caſug; hoc mihi notuit. Habebat quadam die cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua vitæfemiplenum, ad curiofitatem non nullorum amicorum,a quamin flammá, accenfa candela,reddidi, vt vinum fub. limatum accendi folet, confuiripta all tem flamma, cyathusin medio diuifus eſt,atque co potiſsimùm loco, quema qua fupernatans attingebat.Ita ex curio. loexperimento, vitruin diuidere apud alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum ftercusà fungorum virulentia bomines tueri. ' Vngorummalitia,ex multorum ex.. perimento, pleroſquevita priuauit quia autem homines ab illorum elu ob luxus abſtinere nequeunt,referam quid àGaleno,tanquam arcanum,pro iſtorú. Fe virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada notetur.Erat in Myſia medicus quiho mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad vitam ducebat, remedioa; tanquam arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit, vt tantum auxilium aperireta Stercus gallinaceum ille adduxit, quo contrito ad- læuorem vtebatur, & cum: oxycrato,autoxymelite propinabat in firmis, qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis Galenus, & verum inuenit: nain: qui præfocabantur, paulò poftvome bant pituitofum humoré omninò cral hiſsimum, & exindeplanè liberati funt. Infuper Myſius ille vtebatur huiuſmodi præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo melite,propinato vino, velaqua, cum felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex Bolilongo dolore fpafmo correptos,ta li remedio quoſdam perſanauit: nam & hoc colicum doloremaufert, qui caufa ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io. Varia deliramenta di vini potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem deliria in ijs,quia vino potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore prædo-. minium ſuſcitari ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum mouentur, aliqui plorant,pleriq; vociferantur, alij. profund ſsimo lomno quiefcunt.Refert Alphinus,in lib.de medic, degypt. muliere quandam à vini potu largiori ebriam, primònimis euafifle hilarem,atq; in ho.. mines la ciuiffe, quoscomplectebatur, & ofculis tenebat;moxèrifu, & cantu, ad ram, & furias deueniffe ex quibus fami.. liares eam pertimentes, præcauebant;de. inumin mæftitiam,vtdefun &tos lamě. tabili voce deploraret;poftremò à fom. no oppreflam,omnem ebrietatem digef fiffe.Caufa omnium eft, quia vinum pri mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri gerat; ſi potésfuerit, & immodeſte poti. Ego profe & ò quendam cognoui, qui a pud Marchionem primum Sancti Marci dominum meum erat in culina,vt lances vaſaque culinaria in dies-collueret; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino grandi, quodBeneuento pro domi 13 ni menſa forebatur in tam immanemde uenit ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum fæuicbat, ia &tabatq; membra, & infinita agebat deliramenta. Aulæ Sacerdos fa cris libris accingebatur ad exorcizandú hominem: quando vocatus, ebrium illi effe faffus fum,meoqueiuſſu ferula,mo Te puerorum, circa nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem dereliquit. Syrium inter fydera.calidißime exiſtere matuth., Riente Syrio tantum aëris concipi.. præ ardore langueſcant;canes in rabiem trahuntur;furiunt viperx, & ferpétes; ftuant mariajaer occultam nocendi qua. fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali ſy dere,minimènafcuntur: talis profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus varios fuiffe mores, o confuetudines.. 3 MS Non  N.DE dumprima On vna equidem apud Veteresin. nuptis fæminis erat confuetudo: quippe conſueuerát homines in finuPer. fico, littoreg;Orientali, Virgines nobi. les nubiles haud deflorare, nifi brachijs, margaritarıım ļineis ornatæ incederent:: ab id illæ in magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, & margaritæ vilius illice. muntur.E « Garzi4 ab Horto. Catullus, in nuptijs Pelei, Tetbidw, aliam natat con ſuetudinem, Virgo nupta, noctecun marito erat concubituva, ita tra & abatur:ante coitum eiuscollinen.. fura filo circumdato meníurabatur,mae nèhocrepetebant,quòd fi latius, quam vt filo comprehenderent, collum inueni ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin: Vitò dibilomaius,integram, aut antea. fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias. habuere confuetudines. Pupauetagrefte mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare, Efeet Galenuspapaueradolores miti gare, atq; interanodyna reponiina multis locis referat;tamen agrelte,pleu, ritidem,in lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa & um vidi.Hic folia & ſemina agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis laterali morbo infeftabatur, eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1 nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum, cum drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum, quæ poft colaturam addebãtur,capiebat tepidè, & ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, & ſalis,farina, & aqua" tres placentulæ,quæ ſuper calido latere in firmam ſubſtantiam ducebantur: hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur, & breui tim dolor euanefcebat, tum etiá: apoftema rupebatur, & infirmus ad fa. lutem magna admiratione priftinam rew. dibát, Corni plantam, Singuinarie,vel SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 Je Nterrerum admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia, quæ ſopitam, atque curatam in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, & renouare couſueuere. Pluries etenim obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam corni, yel fanguinariæ tetigerintan. te annum exa & um, velfub forbo dor mierint, ineuitabiliter in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe&. part, virus hoc potius à toto ſubſtantia, quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari prodidit; nec enim à taląu, necab vmbra intemperi es introducipoteſt. Itaquemirabileelt, ab iis lopitam rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum rabidalue, ha plantæ aliquam haberent antipathiamy cuius alia potior haud adduci poterit ratio, quam tetigimus, quod huiufmodi a proprietate hocperficiant. Qua induſtria penenum illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis pèlinteftina. rognoſcere valeamus... iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas exoritur, quam veneni refidentiam reperire, vtritè ca adhibe antur pręfidia, quæ talia oppugnare re perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum proderit excitare; fecus autem,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus. Ponaturoui vitellus cumalbugine, cum infirmi lotioin ma tula;fiinfra paucashorasnigrefcit, & fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit; Tip verò rugetur,çitrinefcat, & non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc indica tionem corradimus, veneno ad inteſtina Traiecto,non conferre vomitum prouo care, ExBAYTO. Plantas peduconfimiles;congeneres retine YENİKHI€s. MVltis experimentiscomprobatum Teperio,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã aſpectus ſimilitudine cóueniunt, congeneres retinere vires.Sic multi mea dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci, Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace it aſpera, loco ſaſſafras, žylucftrifoeniculo; pro polypodio, filicecligunt; protipfa M 7 na  nyhor leum pro myrto,liguitrů; pro ea buio,fambucum;pro china radicem no ftræ arundinis;pro Rhabarbaro, hippo lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá. túr,proindecöſimiles vires habere exia ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem. Fräcem,may nam inefſe extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix, &Afando diſsidere videntur: moritur enim filix, quæ ab arundinem: plantis circundatur; & arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to agricolæ, arundinis folia in colendis agris, vomeribus alligant, perſuaſi ab iſtorūdiſſenlu, ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies conſequütur. Apri dentem ad Cynanchen, Pleuritiden mirabiliter valere. Agna eft efficacia dentis Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur, ac locus affe &tus tangatur cum pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, & Auicenna habetur,bảo morbum præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus eius. propterea folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs huiufinodi dentis puluerem,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate talem pulue rem prodeſſe: quippè extenuādi, & exic, candi vim habet. De hocdente mirum. feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere referüt, yt capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór magous eſt; dumý; occiditur, ira & exercitatione fer uefcit; proinde dentespropter denſam ſubſtantiam, magnamrecipiunrcalidita tem,cuius indicium ipmaeſt. Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex. crefcere. FAximuseft inter arundines, & af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, & pulchriores, & core pore?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere, & germinare, animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft, an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios.. Mirab Trabile eft illud, quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari audio: ſi enim.grauidæ mulieres,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint, filios & induſtrios, & maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis mia ram hanc facultatem ineffe credunt. A. liud autem mirum in ijsreperiri apud Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum ede re,ſi in cubiculo, quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint: credo ex eorum conftringentiodore, velocculta. rationeid euenire. Heder am cum vinomiram habere diſcordiam. tipathia, quæ inter hederam, & vinuinànatura infita eft; fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua vinum dilutumfuerit impofitum,pro cul dubio vinum confeftim effluesfun detur aqua verò intus retinebitur,adeò vini impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti experimento nonnulli in vinise mendis hederæ poculis vtuntur: ita e quidem num purum, vel dilutum vi num exiftat;examinani, & cognoſcunt, Volatilium piſciumg;fecunditatis,Ginteria. Tuprafagia. Oletin quibuſdam annis animanti bus quædam peculiaris peſtis graſſa ri;hinc fit,ve (liannus valde pluuioſus extiterit(auium, volatilium, bombycú ſericeorum,araneorum,erucarum,inte.. ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;: fertilitatem, & valetudinem.Annus ay. tem ficcusvolatilibus (apibus excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò perni... ciofius:ficut enim in angulto aere, obim. pediram reſpirationein,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita piſces in anguſtis aquis concluſi diu vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum adipem(accharo obuolutam,vor modò a corruptela preferuari;verùm atque oleum redderepretiofis fimun. Mira Mina Ira equidem eft facchari virtus, in conferuandis àcorruptela adi pibus. Cum quadam hyemePrudenria filiamea gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo albo benè conuolutasin va ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo femiplenum reperit, adeòpel lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud inueniri poffe iudicaui. Hoc licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen pro mitigandis corporis do loribus,pro carnis (cabritie tollenda, ae liifque infirmitatibus vtiliſsimum effe į cenfeo:Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes illas:poft multos annos conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore, quo re-: centesin vafculo fuerunt claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia nintellexi,humanam adipem faccha. ro conuolutam;per longifsima tempo ra à carie, & rancido præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in omnibusanimantiumde. dipibus id euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius faccharo imple. ta, quàm aromatibus pofle conſeruari crederem;eò magis, quia hoc præſidio, corpora in propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent. Cucameres naturali odżo oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina iudicatur diſcordia, quæ in, ter cucumeres, & oleum ineft: nam, & ijaquam,appetere.à lege naturæ viden. tur.Proinde virentes, atque è propriis. plancis pendentes, vafcula ff aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius extrahús, tur, vtaquam inſequiex certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum fub his fue. rit eie & tum procul dubio in feipfos, ve Juti vncus, retrahuntur;fiquidem ij olei impatientes ex naturali antipathia co gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram pitibusapplántatam,vim il tis infundere ſoporiferam. T Antam habét Mandragora inducena, di ſoporem efficaciam, vteius pom vel comeſta, vel odorata,quandoque ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi rabilc eft, vitibus Mandragoram com plantatam, propriam iis naturam infun-. dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum ſophrem bibentibusinduce reconſueuerit, vt Rhodiginus adnota-, uit. De Mandragora Iulius Frontinus hiſtoriam feripſit Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus cõrra Afrosmit. ſus fuerat, qui cùn ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in quibuldam vini do liis, quæ in caſtris habebat, Mandragore copiam coniecit,indeleui comiſſo bello, ex induſtria celsit, fugamque ſimulauit. Barbari,occupatis caltris,auidèmedica. tum merũ cùmhaufiffent, in captapho ram lapſi ſunt, & ab Annibale trucidatia: Quando, Aegypti mortuorum corpora come dire foleant: E condiendis mortuorum corporibus, Aegyptiorum ex monumena tis multa, tum ab Hérodoto, tum à Cæ. Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do mi feruant: Ageſilai cadauer cera condi. tum fuit, yt & Perfæ facere folent; Alex andri corpus melle colitum eſt. Apud Iudæos exmyrrha, & aloe cadauera con diebantar,vé apud Ioanné Euangeliſtam cap. Iceportabile equindependenciaenels C. 19. legimus: quippeNicodemus myr rhæ, & alocs ad libras fermè centum mi. furam fecit pro corpore Ieſu Saluatoris noftri condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum corpora, nifià fer - ris ante laniata forent: Affyriorum Re gure fepulchra in paludibus condita fu ile tradunt. Mellis vſum, vita hominibus inducere diuturnitatem. Nenarrabili equidem potentia mel, corruptione cuſtodire valeret, à natura productúeft:propterea Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur, ClaudioqueCæſari Hippocen taurum, exAegyptoin melleallatum, vt citra cariem eſlet, commendauit: nam & hoc corpora computraſcere non ſinit; fiquidem multi fenium longum mulſi tantum intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis exemplum in Pollione, qui cen tefimum annů excefsit: hicenim ab Au. gufto interrogatus, qua ratione, &ani mi, & corporis vigorem, maximè cuſto difíet,hocreſpódiſſe fertur:Melle intus, foris oleo. Proditur etiam Corficæ in fulæ populos, ex aſsiduo mellis vfu, vi. tæ acquirere diuturnitatem, cuius rei li cet Diodorus non comprobet exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente at, tamen non per hoc vſum mellis ad vi tæ produ & ionem improbauit. Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi femina urtica, velcanabisin cibis habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de Hiftor.animal. cap. 1, Gallinas toto anno oua parere, exceptis duobus menlibus brumalibus. Hoctamen tempore, quo à fætura deti ftunt, ferninis vrtica, & canabis auxilio faciliter gallinæ fæcundantur:fienim in cibis iſtorum ſemina Ticca comederit, procul dubio tota hyemis tempeſtate, non modò calidis temporibus oua pari ent. Hæc profectò earum corpora cale. faciunt, & ad fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam infantium maculas è corpo Olent tenella infantium corpora, dű vtero exiftunt materno, maculis 0 pore extricare. Solenereexiftuntmaterno, quibusdam, næuis, lituris, veruciſque, quæ à matris imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò quali ſigilla impri muntur, &difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis delendis principatum habetCaryophyllata, cuius vis,& po tétia in huiuſmodi maculis extricandis, mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum ſuis radicibus in fine menfis Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à terreitate emundata, in alem bicco deftillatur, mox ex aqua ſtil lata infantium lituræ maculæque Tæpius lauantur, abſque dubio, eua. Deſcunt. Vrrica folia in lotio infirmi cuftodita, vitam, vel interitumpreſagire. Ira equidem, ex abdito naturæ eſcrutinio, in vica,morteq; infirmi praſagienda, vrticæ virtus,&potentia eft. Si enim recensplanta extirpatur, ac -24.horarum ſpatio ia ægri lotio aderua tur, vtiquefiviridis colore permanebit ex multorum experimentis,falutem, & vitam infirmiſignificare dicitur:fin auté haud A cantu haud viridis cuſtoditur,colorema; mura bit,mortem, velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore Durante. Philomelam axem miro conſenſu à viperade. pafci. Vis Philomela cx cantu dulciſsi mo omnibus cognita eft; incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà Vipe rà depaſci permittit:dum enim ſub ar bore,in quacantans auis fuerit, viperam viderit paulatim ex illa defcendit,&ad viperam accedit, vt illi fiteſca. Ex Thoma Tomai. Caftorem fià canibus inuaditur, minimè te fticulos fibi amputare. Linius,Solinus, & grauiſsimorú Scri ptorum multi,caftorem fibi teſticu. los amputare referunt, quoties venato tes ipfum canibus aggrediuntur quafi confcius exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof tis periculo ſit ereptus; fiquidem vena tores hæc infequuntur animalia, vt ex his accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci autem veritate hi om. nes grauiter errant; quippe caftor, Ppioru testiculi iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis ex anatome obferuatum. eſtiſte rum error ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ in vtroque, maſculo & fæmina, loco teſticulorum pendent, flauo plenæ liquore ad medicinam vſurpatæ. Has vocant caſtereum aromatarii, teſticuii autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces, vt hoftes offen danti gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam potentiſsimiigpis miſsilis, fiue artificiari compoſitionem,cuius potentia tanta eft, vt eiusminimaItilla non modò hominem viuum, verùmat que ferrum comburere valeat. Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa, fiue ex adipealbur ni ftillari lib. 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14.Omniahọc lento igne bene mifceátur; deinde fupa obuoluta, atque accenſa in ollis, in ho ſtes inijciuntur. Ignishic, infernalis di citur,tum ex eo,quòd mirabilia agat; tū N atque ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille hunc ignem edocum. Demoſthmen lingua duritiem, quibuſdama Lapillis confregiffe. DEmetrius Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ impedi menta ſciſcitatus eft.Habebat enim ille linguam duram, & ſcabram, &proinde adoratoriam exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit atque la. xatam fuiffe linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis, quibus loqui conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus loquutionem faluberrimum iudico, vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex Plutarcho. Vinum quoddam àferpentibus venenatum, pleroſque àdifficillimis morbisconfanaffe. Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino,lib.4.de Medic.Method. de vino à ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium habebat, quod (i ne operculo diù apertum extiterat: - & proinde compluresſerpentes,quos vul gus angues, & anzasappellant,ingreſsi in vinum ſuffocati, & putrefa& i fuerát. Multiægroti ex febribuschronicis; atq; difficillimis vexati morbis ignari,quod ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci ue emebant illud, quod guſtui gratum iudicabant, & breui fanati ſunt. Alij ab huius viniſama ſuaui, cum paucos dies bibillent,itidem lanati funt, & poft hos alijitidem eodem modo fere innumeri. Quare vinidominus tantæ vini faculta tis admiratusvinum e dolio torum edu xit, & ferpétes complures ſemi putridos inuenit,qui ré manifeſtá planè fecerunt. Veteres equorum lacrymas inter auguria recepiſſe. Agnifaciebant veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs auguriun vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui dedicati ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft:fiquidétépeftate no ftra fæpius equos collachrymātes afpici mus, necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum, æftate potiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui. Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem, qui potens medicamentum tam vomitiuum, quàm purgatiuum fimul eſt, variisque affecti bus accommodatum. Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ, & Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris -grana x. vel xij.cum vino,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia. Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt partes omnes pera. que toti cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia nec certa nec deter, minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim aliquibreues,aliquilongi ſunt;la pienus nihilominus perfectioré homi. nis ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod ſaltem feptem non trárcédar.Interproportiones voluit Vi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere; eandemſ;penſurat. eſſed capitis vertice, ad pectorisinitisko Manus longitudo à cõiun &tione ad mee dijdigiti extremūcorporisdecimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex® tremum barbę,eade eſt menſura.Maior pollicis coiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius faciei menfura eft, Maior iudicisconiun &tio,frontiset altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniun & iones, nafi longitudinem oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub brachiis, pe& ore, & hu merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas: 3 reperi inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar,mani. feftiffimanobiseft:fiquide tépeftate no ftrafæpius equos collachrymātes afpici mus, necperindeex ijsalicui finiftri quidaccidere obſeruamus. Vt ipfe non femelexpertus fum, æftatepotiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum natura efle, velmorbú iudicaui. Crocimet allorumscompofitio. Fferam Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam vomitiuum,quàm -purgatiuum fimul eſt, variisque affecti busaccommodatum. Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ Saturninz, & Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodá crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis,quz puluerizata, rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda eſt: Dofis -grana x.. vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis compofitionis mirabilia. I' poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim eft,quod tali corporis fit colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti copofito correfpondeat. Licet autē in eius ſtatura nec certa,nec deter, minata reperiatur mēſura;ex hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la pienas nihilominus perfectiorë homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod faltem feptem non trárcédat.Inter proportiones voluitVi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea capitisvertice, ad gedorisinitiúko Manuslongitudo à cõiun & ionead mes dijdigiti extrema corporis decimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior polliciscóiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius facieimenfura eft, Maior Indicisconiun & io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniunctiones, naf longitudinem oftendunt:Hominisprop funditas, fifub brachiis,pe & ore, & hu merisméluratur, ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur. Cæteræ partes cum aliistra. bentrationem,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam mirabilem effe. IN Neer terreftria animalia,Aſpidum ne, tura mirabilis iudicatur. Ex his enim mas & fæmina infimul vitam agunt, ta. tula; amoris affectus inter ambdsinge ritur, vtfi cafu illorum alter occiditur viuens occiforem infequi, quouſque fo dj,necem vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem mirabilius eft,ex Plinij, & Ifidori Teſtimonio, occulta proprietate occiío on noicit,(talem ifs natura indidit ) igi quemIrruit, licet in quantovis hominu agmine reperiatur. Præceptum ergoo. mnibus eflc velim,vtocciſo iſtorum ani malium quopiã,celeri fugaiter occiſor arripiat,ne à compare animali veneno fiſsimoinfeftetur, Leporesomneshaudeffe bermaphroditos,con traVeterum opinionem. Mneslepores vtriufq; lcxusexiſte re voluerunt Veteres, quod & M. Varro ctiam tradidit. Error tamen eſt, vt diuturna docuit experientia, quama feulos fculos à fæminis lexu eſſe diſcreros cognitum cft. Porrò tantorum inſcitia, abhoc, vt reor,ortaeft, quia in leporum genere lępius, quàm in aliis animantibus hermaphroditos reperimus: inde Hee brei naturæ arcana intimiùsſubodors tes, leporéfæminino vocabulo léper ex planarunt,ARNEBETH, eò quòd in iis foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate noomncs hermaphroditiſunt,vt ex peritiſsimis venatoribus audiui; exic & ione multorum cognoui,ficut.com iam Bodinus edoctus fuit,vtivrhluth confitetur. Equidem Hermaphrodig plurimi funt,fedfæcunditatem fervita. rumminimè recinéignecmares vnquam vtero gerunt, necminus fuperfætant. Mirabilen eße Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus imaginationis po tentia apertè cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus, & fuauia,ali quid intensè cogitauerint, facilè in in.. fántium corporisexternis partibus imax ginata imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N  forme,næui,lituræ, verrucæ, & alia figa na in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse-, dunt ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto, vultumonftruofo,labris turpè prominentibus,corporedifformi,ocu-, liſq; horrendis infantes genérant: quia conceptus, vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia fixa co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim nuptis,pulchrasimaginesda mihaberecófulerem,atq;à turpibus av effe,ne pręuia imaginatione fætus mó. Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos annos admodum ti muiffe. 1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera videtur in quolibet anni feptenario quædam hominis mutation deò quod, ficuti in morbis dies criticos timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à multis ſcalares dicun tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni, .Inte hos annos 49.63. magis periculosos credunt; quiaconſtant è feptenario, duplici, &nouenario complicato,obfero uatumq; àgrauibus auctoribusreperio, maiorem hominum partem io anno 63. Mori contingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,&, vt capiturin Gellio lib. Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem:Spero te lætum, &bene uolum celebraffe, quartum & fexagefi mumannum natalem meum:nam,vt vi des,Elimactericum communem fenio rum omnium, tertium & 'fexageſimum annum euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem &jucundum. fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes antiparhiaminfurrexiffe. IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,& ferpérescadit,adeò, quòd expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis autem fæmina: fiquidé obſeruatum audio gravidam mulierem (vifo ferpéte )præ timore abortire.Hu. ius difcordia illa ratio potiſsima eft quodàmundiprimordijs ínterkanc, & QUnca Semuan -illum Gt ſtatuta inimicitia, & irreparaa bile odium, quo altera-, alteram fpecia em inſequatur. Carolum V I. Francorum Regem, Ceruum 4 latumpro infigniprimò habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi cauſa fe contulerat, canum latratibus excitatusin fugam Ceruus, æneam tore. quem collogerere viſuseſt, quem vena bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in calles, & retia compellit.Erarin torque latinis litteris infcriptum:HocmeCçſar donauit. Exeotempore Caroluserua alatum pro inſigni habuit; &alii,regibus inſignijs (quęlilijsaurcis tribus conftát) circa latera, Ceruos duos apponere con fueuerunt. Gaguilis in vita Carol. V I. HANC. Reg. Insaanimantia confenfum, &difcas diane ineffe. Vllidubium inter animantia fym pathiam, & antipathiam efle inter trpiantes ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in bufonis os deuorandam inueherelegimus; & bufonern in ferpen Npathi Lisa I tis,botræ vocati, os ingredi.Inſuperci cutam, fturno eſle cibum; homini vero venenum in dies obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire, hominem autem lædere non eft ambiguum. Senaterem quendam, exconiuge liberos ſur dos, &mutosfufcepiffe omnes. nature. omnesex, &mutos ſuſcipi,itaequidem à Fernelio obferuatum eft in quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram, & cæcam eſſe rationem, mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè differt: fi quidem auditio grauis, atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à conformatio nis vitio exoriens, hæreditarios mor bosgenerare creditur, & perinde libe ros, exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem non in filiis,ſed ! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes. mirabilem fonterros obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com ARJiusproprietas, quiin oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim die friget, no&c verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur, quomodoin tambreui temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem. Equidem, quinoéte fontem afpicit, ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres dit:quiautem die hyemales ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere exiſtimat. Propterea Debris apud mudi nationes inclyta eſt: eius enim aqua qualitatem excæleſti vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio Caminus per ſuperiorem "api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum fru & ura,.non modi aim tufferimus laboris, ne ignis fi molimtesin nos ipfos erumpant: fiqu. dem in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque potius defcendant; quàmadapicem aſcendant: ventorum enimvisillos deprimit, deſcenderequc percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui artif. simm.Struktur Caminus, cuiusfuperius fafti. zor faftigiu rotundú fit,ibique foramen la pidibus fi &tilibus conſtructum fit: mox ahenum inſtar tympani ex-ære, in cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des affigito: ftylifớ ferreisfubcingito; ita tamen,ve intus vagari, mouerique commodèpoſsitapta demum fuper fer reos ftylos, & lebeten?' ex ære infuper vexillum,quod feneftellam fubiec dia recto habeat,taliq;induſtria,vtin quo libet vexilli motu, moueatur, & calda riumin gyrum,ita profe & ò è feneſtella, ventis oppofita,fumuserumpet, & non deſcendet.Pleriq;, vt fpero, huit noftro fcruinio,ineliorem addent Atructuram. meamque opinionem noníſpernent. Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte. Ncoritruendis, pingendiſque ſolari, bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam,opuseft imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum, & Occalum, Borcam, &All ftrum cum Aquinoctia, & Solftitia: in is.n. Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem, vt labores fugiamus, tale excogitaui artificium.Globum planum. extabula lignea formato in cuius medio ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato, &vltimo in patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei, horas ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo. dato:ita profectò,abfq;alio auxilio, ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari cre habebis.In Aequinoctijs, & Solftitijs 1 eodem portatilis Horologijauxilio,fa. cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus. Infancium pir uitam, è capitefluerem, quo artificio Chartaginenſes fiftere procurandTing, Xinfantium pituita, in capiteredú. dante,plerique fuecedunt morbi in. ter alios, morbus comitialis exoritur, qui à multis puerilis vocatur, quòd ijs,ve plurinum,eueniat.. Vt autem infantes ab huiuſmodi pręſèruarent Pæni, illorú vedas capitis lana ſuecida inurere,pitu. itainý; fuentem hoc præfidio compefa cere conſueuerunt. Athiopes infantes te ditos,ab ipſo quoq; natali die,in fronte adurút,ita profe & ò tumcapitis, tumo culorü humorfiftitur. Apud Inſubress. ex teſtimonio Mercurialis, & pleroſque populos,veícribit Scipio Mercurius,l ditos infantes fetonein collo muniunt, quod falutáre experti funt aduerſus mor. bos,qui à capite Huunt, Inmise rasis pluuie,quapotiora ixdiceniny præfagia. pluuiam imminentem,tum ex Gallo rum cantu intempeſtiuo,tum ex fre quenti cornicis crocitarione multi præ dicunt.Hisautem addendum puto muf cas(ca imminente)pulice's, pleraqzani malcula à furore vexari, intentula;mer il dere:hæc enini à vaporum inaerem ctc. rationc à radijs falar bus perturbantur. Infuper (pluuia imminente )odoris fra. grátia in floribus sétitur;apes ad alueária - sedcut;bufones, vermeſi;èterraakédut Brina vifa eft per dies præcedentes; catti manibus caput, quafi linientes, compri munt; ouescapitacommotient:afini hu miles habent aures; ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio, va poresàSole exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia, nonnulla magis extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di& um. Agna fuitVeterum à vinivfuab. Itinentia:illudautem adeò muli. eribus erat interdi & um,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò inoleuit confuetudo,vtcognati, & affi. mes, mulieres ofcularentur, ore explo rantes, an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis, pluribus; Græcorum, &Barbarorum gentibusin,. valuit, apud quos muliereshydropota, & viri erant abftemiz: Intermemoran da illor um temporum,EgnatiusMetel fus, vxorem, quod vinum biberet,fufte necafe dicitur. Quo artifii io è plumbo Antimonii flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue Stibinon femel extrahere Periam artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo præſidioin multis corporis affe & ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito Plumbicampanam, è qua aromatarij rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc habet æris fundum: tu verò txargilla eligito,quodacerrimoa etto fupra medietatem implendum con fuilo,eaq; induſtria,qua rofæ ftillantur, in aceti deftillatione carbonibus bene ignitisagendum cít:caue tamen, ne totus fillet acetum, ne aqua extracta vftioné fentiat.Hæcaqua auri colore eft, fapore xerò facchari, & mellis; mirabilis tamen tum in potu, tum extrinfecè vfurpata, ob ftib j flores ex plumbo extre & os. vomitu, & aluo purgat, ob id frigidis affectionibus,obſtructionibusý; vtiliſ. fima': In vlceribus putridis, fætidis acoribus, ſcabie, herpere exedente, & aliis huiuſmodi,maximi eſt valoris.Doe ſis in potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū. Clarorum virorum exitum aliquot inte felicem fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft tot vi. & orias, torque clara facinora periiffe dicitur: nec diſsimilisRomulo, Cæfari, Alexandro,Annibali,Scipioni, Iugur thæ,Mithridati, atque alijs innumeris mors ſucceſsit:per quàm n. pauci viriex iis, qui clari,atque illuſtres tum virturi bus, tum fortuna habiti funt, quos non infælix exitus,tanq: á pro exemolo,fós offentäuérit porterial text caligero. Defipientiam, mulierum natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero gerèntes,fiàphrenia tide capiuntur,Galeni teftimonio, rarò confanefcere legimus, vt fcribit tamen Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc periculosè, quam viri,mu lieres ægrotant.Hoc autem, vt Merci. sialis opinatur,ab alia ratione continge re non poteft, quam ab ipfarum natura, cuius familiarius eft defipere,quam viri. Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala fratagemia. Nfolita,& mirabilis Annibalis milita Eisafutia contra Romanos iudicarur: hic enim bello naturali cum iis dimica. curus, cum impares vires habere anim aduerteret,rale ſtratagema inuenit. Ser pentibus, quorumvenenumconfeftim enecat,pleraſq;ollas impleuit,opertasq; repente in hoftes iaculatus cít, quorum ictibus plurimi cecidere.Hifceftratage matibus vir hic tanquam alter ſerperis, multoties hoftium manus effugere con fucuit.Ex Gdenoin lib.de tbet.Akrijon Ambarum cum vino alicui exbibitum, cena feftiminducere ebrietaisn. Mbarum, quod à vulgo Ambrageye ſea vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib & bituminofis fontibus,qui in maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem primòliquidum eft,cùm ve rò aquarum impetu ſurfum rapitur, ex aerisfrigiditatecondenſatur, & Amban rum fir:Siquidem in maris concauo, ple raq; mollia,teneraque obfèruantur, & interalia Coralliú, quod ex aqua exea ptum, citiſsimè lapideſeit. In Ambaro illud mirabileiudicatur, quod ab alique antequam vinum hauriat,odoratum, ina sttar ebrii eladat: cum vinoa, propina tū,confeſtim notabiléinducere ebrieta tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone Sethi Greco auctore. oleam Lathyris Tympaniam, Colicas, affe& iones mirabiliter ſanare. Irabile quidem,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur, oleum eft, quippein expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur, principem habet locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam diùebulliant,vt ex cocta videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari colligendúeft. Mos eft apudIndos tale oleum cómodius per decoctionem, quàm expreſsionem cola ligere. Vfurpaturhoc feliciſsimo fuccef. fuin Tympania,colicis, iliaciſq;dolori. bus,ftomachiaffe & ione,aurium furdita te,atq, in iis morbis,qui à ſuccis frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu ſumpta aquam citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam, humoreſque frigidos. Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie: vbi tamen flatuofitas viget, maximam in expellenda proprietatem habere vi detur. Ex Don Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili extingui; à fimili vero angeri. Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus proditur, à diſsimili ex. tingui, & a ſimili augeri, & robuſtius fi erizea propter non femel à perfidisho minibus exhibita venena nullius valo risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi libusfuerint fociata. Aconitú, & Napel lus miram retinent vim necandi, com pefcitur accamen corum potentia à ve neno diſsimili, ex quorum diſsimilitu dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii hiſtoria de vxore mæcha, quzma rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius effet, Hydrargyrum miſcuit ex quo toxici virtusdempta eft, & vir immunis euafit. Hoc epigrammate ille monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito, Necfatis ad mortem, credidit effe datum: Miſcuit  HA Mifcuit agente lethaliapandera viui, Cogeret vt celerem visgemindanecem. Digid at ber fiquis faciunt difiseta venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum noxia pocula cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre receffiua, Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft crudelier vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de valetudine fanorum bomsi num conferuandatutißimapræcepta. Nter grauiſsimosmedicos,& fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú fanitate oculatior exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta rectius intelligantur.Sanus ho mo,qui,&bene valet, & ſuæ (pontis eft, nullis obligare fe legibusdebet, ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet varium habere vitæ genus, modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro: na uigare, venari,quiefcere interdum: fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia corpus hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute,hic longăadoleſcentiá reddir. Prodefteciâincerdúbalnco interdú,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú negli gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie, inter. dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die poti us quàm femel cibú capere, & fèper quá plurimum,dummodo hunc concoquat. Secl vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij ſunt;ficathletici, ſuperua. cui. Nam, & intermiſſus propter ciui. les aliquas neceſsitates ordo exercitati. onis,corpusaffligit, & ea corpora, quæ more eorum repleta funt,celerrimè, & fenelcunt, & ægrotant. Hæc firmis ſer: uapda fune,cauendumquene inſecunda valecudine, aduerfæ præſidia cenſum mantur.Ex lib.i. Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium fuiffe immiſſum. Solene quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere futurarum re rú, vel Dei permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc Socratem legimus, vidiffe per ſomnium,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere, qui continuò exorcispennis & expanfisalis, in altum aduolans, fua tiſsimos cantus edebat. Poftridie Pla tone adducto, hic eft (inquit ) Cygnus, quem ego præterita nocte cam fuauiter canentem fomno videram. Hocfomnium, ve fcribit Henricus de Aſsia, à fpirira fa. I miliari, ſub forma Cygni, quem Athe nienſesVeneri dicarunt, fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re ceperit ', à quo, quum ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit, dulciſsimi ipfius & Caluberrimai fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris. Onmeras eſſe præftigias, quæ magica? arte efficiuntur; multis exemplis notum eft, fed vno in primis, quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus ventriculi vexaba tur:: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi tamen non 1 ceffarunt, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare agricola doloruin impati ens, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio die mortuus ad fepulchrum ef ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum frequentia, illius ventriculus iraci. fus eſt. In ee (res mira, & prodigiofa ) lignum teres, & oblongum,quatuor excha. lybe cultri, partim acuti, partim ferræ in. ftar dentari, ac duo ferramenta aſpera re. perta fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos gitudinem excedebant. Aderat, &capillo. rum inuolucrum globi inftar. Credibileen fanè, hęcin ventriculi cauitate congeſta fu iffe, non alia arte, quàm Dæmonis aftu,& dolo. Quo artificio epiftolam, in ouo celatam alicui afcribere valeamus Nter ſcripturarum furtiuarum arcana non infinum locum tenere exiftimo, in ouo epiftolam celare, atq; amico ſcribere, Videbis enim oui putamen illæſum, mun. dung; illo tamen exempto, difruptos; cha paeteres apparebunt. Aperiam ſecretum. S? Atramento, ex gallis, alumine &aceto con. fecto, in ouicortice literas ſignabis, votum pffequeris. Has oportet in Sole calente ex ccare, mox ouum in muria concoquere ita enim à cortice characteres euaneſcune, & ad interna gradiuntur:ſiquidem putami. ne exempto, notæ oui durato albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In aquafrigida captanda maximum veterum fuiffeftudium. Aximam antiqui curam adhibebát, vt aquam frigidam pro ætatis in. cendio temperando conferuarent: quareex niuibus eam parabant, vt Athenæusretulit. Dequa re perbellè loquebacur Seneca, & panas montium in voluptates transferunt, Alexandrini aquam Soletepentem, in fene ftris ad ventorum incurfus exponebant, vt poctu frigeſceret;manè autem inte Solis or ruin hani ponebant, folijſque lactucæ, ac que pampinis iniectis frigidam tuebantur. HocGalen.parrat.6. Epidemior. Plasarchu: 6.Sympus cotibus & filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit. Neronis autem in re har ftudium nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim, vtninis voluptate, ablque njuisia iniuria fruererur, feruentem aquam vitro immifiam in niues refrige jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima menftruorum eruptione in Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera exurgunt:Pana guis ille,inftar occifi animalis videtur, atq; in maiori copia erumpit, cùm vbera ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in grauiorem mutari confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft, in prima menſtruorum eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core ripi,ex quo ad Venerem incitantur: quare per tempus illud cautè cuſtodiri exiſtimo. Ex Arift.7.de Hift.anim. Qua induſtria Aegypti lapides à vefica,abfiga incifione extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in extrahendo lapide à ve fica abſque inciſione, quando noftrates me dici, lapidarij ſine illa facerenequeant, idque cum magno languentium vicę periculo. Hiligneam cannulam accipiunt, octo di. gitorum longitudine, & digiti pollicis latia tudine in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent, fortiterque infufflant;neau. tem flatus ad interioraperueniat, extre. mū pudendimánu altera perftringunt, fo. samen deinde cannulæ claudunt, vt virga 0 % cabang M N eagalisiotumeſcat, latiorq; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano pofito, lapidem pau Jatim ad canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit. Quivbipræputio lapidem appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter, impetug; amouet, & lapis ex. trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab animalibus, bomines accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum tutelam ab animalibus accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos ab Hirundine accepi. mus, quæ hanc conquirit herbam,vt furorú filiorum oculos, vel vitiatos, vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam ab'anguibus didicimus, Ab Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum habui mus: nam & illa roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro clyfteri vtitur, vt ventrem nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus equus, Hyppopot mus di etus, venarum fectionein nos docuit: illef. quidem mala oppreffus -valetudine, ad re center fuccifas arundines graditur, acutio. riſ;cuſpidefanguinem è cryrjuin venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela guinem cohibeat, in fimo, vel cono volutatur, & ica vitam tuetur, & fanguinem fim ftit. Ex Plinio, alis. Equorum teft:cilos ad ſecundas depellendas miram babere pirt utern. Ingularis profecto Equi teſticulorum ad nulierum fecundasdepellendas eft pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e pift. Rufticum quendam, quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe reme dio. Vfus eit & Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu: præſtantiſsimuin id circo à grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam, & pluribusiam deploratis pro fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati,& tria ftillatim conciſi in forno exiccantur, quorü puluis quantum capitur tribusdigitis è jure bibendas datur in neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter reperitur. Humanam faliuam Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus infe ttiſsimum venenum eít, adeò quòd ca tacti confeftim intereanc. Porrò ijs, ſaliua fora ſubſtancia aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento confeffus eft; ist. nim à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id; celeriter patientem à faliua elue riencium, aut fit jentium; tard autem ab 3 illis,qui cibo, potuque fuerant impleti,ina. liis autem proportione, Apium riſus,bominesridendo interfi. cere. Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia cur, quod ridendo homines interficiar: fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique ridendo exanimabitur, vt Apuleiusteftatus eft: Ex hacillud adagium ortum habuit:Sardonius siſus; nam & Sardonia eriam vocatur.Porrò on ex rifu, qui hác guftauerint, moriuntur fed potius,vt placet Saluſtio neruos labio rum, & orismuſculosillius, qui eam come dit, contrahere facit,adeò, vtridendo mori videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque Sagittarum aciem venenajunt: AR'thorum, Scytarumque toxicum, quo fagicrarum acies inungi folebant, humano fanguine, & viperinaſanie confta bat, tantæquc feritatis erat hoc venenum, ve leui tactu animal interimerer, Equidem Scythæ viperas recenter enixas venantur, eaſque diesal.quoccontabelcere finunt, do necip fapien putre.cane, mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo, eam ex quifite coopertam; fimoque obrutam com putrefcere finunt, cuius demum.1. ick or fan. PAT fanguini ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum lethale Scytharum toxicum eft. Ex Arift. Plinio, & Langio. Succinumpterogerentibus exbibitum, mire partum accelerare. Mvicis experimentis comprobariaudio ſuccinum parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui dátum, mirè par tuin accelerare. Hoc eriam facit eius oleum, fi gutta tantum ex aqua verbenæ parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii teftimonio )exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ, velfabinæ diffolu tæ difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio feetus,vel viuus,vel mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano præftantiſsimum hoc auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum. Ex Andernaco Serpentum oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin corpe ribus procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea femina, vel ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur. Genſerus in lib 2. hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in reftinifq; hominum haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus Manlius, in lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua, vbi erantſemina Serpentum, in ventriculo plures angues fu. iflegenicos prodidit: quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus eft. Leuinus Lemnius Vermiculos cauda tos, atg; infolita forma beſtiolas vomitu ciectas nouit. In nonnullis lacertas à phar. maco fuifle eductas obferuatum eft, vt Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt animaduerfi. one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo. Tis conſequatur. In deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam, multos confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum,quod à mulis venenum reputatur, in der. peraro coli'dolore exhibitum, plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus, ex multorum confilio, qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi obstructio perfeue rauerit, & fæces per os extrudantur, hau fire cum aqua fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint interi. mi, &ægrum liberari. Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam nobilis, poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma. chinamenta, liberatus eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc. iij.cum vino albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar gento viuo illita, planè à colico cruciatit euafit, illamque exano abſquelaborerede didjt. Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando que exitialem deliteſcere. Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes fæniculorum elu, &fene ctam exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis affricantur oculi anguium, vt vo. tum affequantur, Ex attritu foeniculorum feminibus, praya quædam imprimitur qua litas, è qua venenati producuntur vermi. culi,quorum eſu multi in peſsima deuene. runt ſymptomata, &ab alexiteriis rarò ad iusj funt, tanta huius veneni potentia eft. Quare foeniculorum ymbelli,antequam co. medantur, aperiantur, & diligenter concu, tjantur, vtå vermibus emundentur. Præ, OS Habis A A ſtabit al quantifper in frigida macerare. Ex Balthajaro Pifanello, Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam, gutturules apoflemata. Fferanı fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis fcriptoribus, ad anginam & gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe proditur.Lignum hederæ ad gutturis apoſte. mata à proprietate valere fcribit Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum eft, come dentem excochlearihederæ ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius vafe ligneo, num quam, vel raro in gutturis, vel vuulæ apo. temaińcurrere, Rubeta cocta, &pro em plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat. Vermes.quandog, in cordis capſula pro creari, è quibus mors ſubitanea pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft, vermes in cordege: nerari. Hoc enim Melues docet, Holle rius, Marth. Cornax, Alexius Pedemonta. nus, & alij loan, Hebenftrit, in lib. de Pette, Principem quendam ex morbi fæuitia peri iffe narrar, cuius cadauere diffecto, vermis albus præacito roſtello, eoq; corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere deprehenfus eft. Exmedicis, ſucco alii feram hanc, tanquain ex indubitato remedio, interimi probatü eft. Petrus Sphererius (vt ScheukinsBarratti  lem fiorentinum morte fubitanea correpti, atq; diſſecatum obferuauit, in cuius cordis caplula vermis viuus repertus fuit. Aiunt multi certiſsimo experimenco-ficco allii,ra phani, & nafturtii hos vermes pecari, qui, ex teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes,ſyncopim, Epilepfian, & mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis, mulierum instar, lac producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe productum obferuatum eft. Nouit hoc Arift. vtlib. 1. dehiſt. animal. docuit. Veſali us non femel id confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, & Hieronymus Eugubius in libell, de lacte: fic & Cardanus,lib. 1. de Sub til. qui ianuæ vidit Antonium Denzium, è cuius mamillis lactis tantum profluebat, vt infantem fernè lactàre potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex. Benedicto mira. bilis eft: aitenim, Syrum quendam,mortua coniuge, è qua infans ſupererar, ybera filio admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i pupillam manauit, vt exinde loco matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus filiis meis, in primis diebus à partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas cofrectatas, lacimpulſo (magno multorum ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam infantibus contpexi, Lumbricosquandoque tantaprocreari pi Tulentia, vt interior a corporis perfurare valeant. Nfanda equidé fymptomata à vermibus aliquando proueniunt: refert enim Om bibonus, lib. 4. de morb. infant. Lumbricos ex vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani teſtimonio habemus, hæc animalia ob ali menti inopiam inteftina laceraffe, fuiffe ob ſeruatum. Id etiam ab Aegineta confirma tur: jofuper Hollerius confpexit, vermes per inguina, & vmbilicum prorupifle. Ma. gna igitur cura opus eſt in horum redua dantia, ne interioracorporis valeant lace fare, A Infamis vmbilicam, & Ceruinumpenem mirabiliter conceptumfacere. Lexander Benedictus, 1.30. de curand. morbis,vmbilicü infantis, qui fponte caditquoquo, modo in ciboſumprú, fiigno rauerit mulier,adconceptum facere, pro. didit;illumg; in brachialibus à muliere ge ftacuin conceptum inhibere eredir. Cerui. aum inſuper penena aridum, & in fari. namredactum, oboli pondere, à coitu forminis datum; procul dubio ad concipien. dum prodeffe experimento probat, Baueri. us tamen conf: 50.vterum ceruinum fingu lari dote ad conceptum valere prædicat, Vlmi vſum, recentem Elephantiafim curare fuiffe obferuatum. Inquam certum remedium, Vimi vfus in curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo Douinero, lib.Tic.7. prædicatur. Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté, & decoctionis Vimi vſu (factis faciendis ) conualuiffe. Ea equidem pro omni potu vte barur in quolibet paſtu, cum pauco vino al. bo, &cantiſudores mouebantur graueolen tes, vt vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera purgabantur, &magaa yrinæ copia excernebatur, quibus excretionibus fanus factus eft. Cyprinorum efum podagricis elle infeflum. Vamuis inter piſces, Cyprinusnobi. lifsimus exiftimetur, cum optimum præbeat nutrimentum, exquiſitiſsimigsexi Atat faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum eft. Nouit enim podagroſum Iulius Alexandrinus (vt retulit lib. 15.6. 6.. de salubr. ) cui Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu illi th effet, eo pacto accerfere, cùm vellet. G Puluere pellis leporine, perniones à Sep tentrionalibusfanari. Laus, lib. 2. Rerum Septentrionalium,, tilsimè perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur remediis, quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's calcaneis impofitúla. nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria, in quodam expertus ſum reme dium, & bene fucceflit. Accipit ille, ficos crematos, è quorum puluere, & cera yngné tum parat;hoc pernionibus impofitum bre uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte faſcinog corpora defendere. Arfilius Ficinus, & P. Droerus, in lib. M, fienim auellana perforatur, &extracto in. teriori nucleocum acicula, argento viuote pletur, & collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora tuta reddit: ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc eriam præfidio mulieres lactan. tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum, quo infantes alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte, prodidit. - Q " ppe multis experimentis obferuatum re, tulit (hoc fecum geſtao - ullas prorſus laga. ruin, lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus nocere. CNICO Meſpili lignum,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare. Wm quadam æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium, mei amantifsimun, ytpuerum curarem interef ſem, fortè inter me, & Doininam D. Man. já Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero gerentem, có: uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum mirè ab abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe expertum. Confiteor in plerifq;, tale lignum fuifle à me expertum, atq;certú, & rarum remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ aborrientes, & dolore, & fã. guinis fluxu (appeofo ligno reſtrictæ ſunt, &ab abortuſeruatæ, adeò quòdined parti cularem virtutem abortú prohibendiinefile seor, Qua induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis experimentis comprobatum re perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos vini faftidium inducere: & enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte mii fiunt. Infuper philoſtratus in vita Apol loni, ona noćtuæ elxaca, & infantibus pro cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit. Mizaldus, Ragam viridem, ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no fuffocatam, idem efficere, fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam Ariſtolochiam mirè piſces ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in piſces: ipfa enim illos odore ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi eius radicem contritam, calciq; commiſtam, fiue eius decoctionem cum calce pacato flumine aut maris littore piſcatores confpergent, piſces agminatim confluere videbunt. Ili autem puluere deguftata, veluti examina ti ſupernatantes capientur. Puellam veneno ab infantia nutritam, Alexandro ab Indorum Rege fuiße miffam. Ndorum Rex Alexandri fortunæ inuidés, vt illum interimeret, miræ pulchritudi nis mifit puellam, ratus forfitan Alexandru confeftim cum ea concubiturum. Illa au tem Nappelli veneno ferè à cunabulis erat educata, propterea more Serpentum ſcin tillances habebat oculos. Hos Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac (dixit ) 6 Alexan der; nam virus peftilentiſsimum alit, vode tibi exitium paratur. Poft paucos dies pleri q; proci huius commercio venenari periere ex quo Ariſtotelis praſagium mirabile fuit iudicatum. Ex Auerroe. Quale fitigneum prafidium, quodin morbis ab Aegyptis, & * Arab.bus vfurpatur. N lib. deMedicina Aegyptiorum prodi. dit Alpinus, quo pacto illiin morbis cor. pora adurant. Accipiunteniin lineam peti. am cubiti longitudine, latitudine verò tri um digitorum, quam ad formam pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius latior pars, parti adurendæ applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió; cam dia per miteant, ye faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur, ferro circumcirca accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur inflammatio.Hocinfuperinuolucro parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar fafciculi: ita enim euentatio fue refa piratio aliqua paratur, In vftione autem per aćta offium medulla in carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi modusAe. gyptiis &, Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam mirè faſes: natricesadfuiffe A quoſdam, tum fæminas in hiſce parti bus animalibus, pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por cileque quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare mirum haud eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando faſcinum is. ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur, & ex oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia,pueri, & grandiores faſcino maculantur. Laudando autem venenum promptiusoperatur: fiqui dem laus propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio oritur, & veneno. a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta Antypat.rer. Cyprint verticis oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N Cyprini caluarix vertice quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin ftar, quod in curanda Epilepſia; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim efficacia epi lepticicis fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc, vbifuturæ in vertice calua six Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea ſi illa capello penetratur, ſtacim fora profilit,Andernacushoc ofsiculum nummi Germanici cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit,atque ſalutare eſſe Epilep fiæ remedium, Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes interemerit. Nonnulliex veteribus in venenisnofçé & dili gentiam inter alia Aconitum venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot: fi quidem tactis huiufinoti veneno genitali bus lexus faninini animaliuin, eodem die mortem inferre viſiun eft.Hacvia Calphur nius beitia, veditaretur forſiçan, vxores dor mientes interemit, de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox peroratio eius in digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex, cum cuiuſdam medici Prochytami filiam adamaret, cum eaque concumberet, Florentinorum confilio ex cinctus eſt, AcetoStitillitieo Bythagoram vitam longiſsi meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá conſequi, & vfquead eius extremum: finem permanere integrè, & dextra valetu dine.lole cu quinquagefimum ageret awaum  hoc remedio vfus eft &eius vfu ad centefi. muum, & decimum ſeptimum productus et integer & nulla vnquam aduerfa valetudine tentatus: cuius optimam facultatem admira. tus, confanguineis co umuuicauit, vt illings vfum haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem tran fire. ' rmè experimen: o oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis ſpeciem tranfire, comprobatum eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum,oleum autem cum aêreum fit à lixiuio attenuatur, & proinde aerem con cipit,ex qua albedoiunaſcitur. In aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis ſpecies quædam exoritur ex confimili induſtria. huius indi. In cium ſpuma eft, quæ cun fic tenuis, aérem concipit, & dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria Scythe abſque cibo, potu per plures diesexiftant. Miraett herba Scythicæ operatio, qua scythæ per plures diesfiue cibo, po - tuque viliere dicuntur. Hanc ij circa Boeri. am inueniuntcreſcentem, & ad famem ficou timque tolerandam vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt liquiritia eft, & in ore detenta fa mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud cales C: Hippice præſtat, eò quòd hæc planta equis confimilem generet effectum. Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere, membros rumque dolores conſopire. P Ro excitando nativo calore, membro. rumque cruciatibus demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi(Galeni teſtimonio,7. Me thod med.)exiſtimantur:illorun autem hu. ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ cipuè,quibus pilus concolor eft. Propterea in Chiragra, podagra, & in omni Arthri. tis fpecie cruciatus, quamlibet efferatos, parti affectæ adhibitos s præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris. plurima è terra furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis, & id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari afpici. mus,, nobis præftant admiracionem, adeo quod à cafu infolito plerique perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio,fi eorúcauſas penfitamus:hæc enim pri mo mò ventorum effluuijs, ventorumque inipe tu terræ permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt. Propterea nec ſemper mirum,autinſolens à ſapientibusiu dicatur: CorneliusGemma, inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi. is habere prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum magnitu dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis, &Marfis, Serpentes haudbabere inimicitiam. M Irabile eft, Serpentes, quià mundi pri uerfam,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, & Marfis nec odium nec difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio non omnino contraria oriatur,auto dor, autaliud, è quo fpecies minus ingraca videatur; ita profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim fine cauſa nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram perue. niunte, quibus conuenientiam, & diſconnenientiain capta mus. Ex Fracastor rian - ) Oling Olim vasta, ego robuſtafuifle bominuincor pora. Vamuis Plinius,cæteriq;ſcriptores, ho ninum corpora, robur, vitam ſemper imminui conquerantur;tamen olim Gigan ces extitiffe, &vaſta hominum fuillecorpo. ra negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de Ciuit.Dei.dentem gigantis in quodam flu mine inuentum fuiffe prodidit,quiminutim diuiſus,centum ex noftris dentes ſuperabas. De Pailante ſcribitur admirandum.Hic Ae neam contra Turnum Regem Rutilorum adiuuit, mortuustandem, & fepultus, vbi nunc Roma eft, (reference Solino)Anno O. atingefimo poft Chriftum Dominum dam quiædam ædificia Romefierentcafu in ſepul chro quo arte mirabili cum lucerna ardenti códitus erat, inuétus eft, & integer erectus altitudinem nuricapite excellebat.Quid de Aiace, & quid de Turno; & de ingenti,faxo, quodvterque in hoftem conjecir, referatur nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte, filio Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub tirá longitudinem excedebat, atque de alijs in numerisdicatur,apud fcriptores reperitur. Idcirco præter ftirpem giganteam,quæ poft diluuiumimminuca eft, alia corpora vastitatem & robur maximum retinuiffe conce. dendum eft; in præfentiarum verò homi. num corpora huiuſmodi comparata, tam pufilla funt, vt præ illis inania effe videan tur. Ex Helinando Chronographo. Equum Phaleris accin&tum pulcbris, acri oremfieri., chris ornantur phaleris, tum acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his cla. rum exemplum de Bucephalo Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem præter Alexandrum (teftimonio Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur, & quoderat 18 illo mirabilius, veaſcenſus facilior effet, demittebatur cum dominus equitare vole bat.Phaleris autem remotis,quilibet medi. aftinus aſcendere, &tractare poterat. Ego quidem domimulam habeo,cuius tanta eft ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium parat, habenafque illa humilis,demiffa, & quafi gaudens perfiſtic,viAernatur, hilariſque in. cedit, & acrior: fin autem clitellas, calcitro fa, indomita, feraque confeftim fit, necta lem ſarcinam, niſi vinctis pedibus ferre ſu Atinet, adeò quòd feruus ab opere defiftere cogitur. Exitiofißimum effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere. Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu miditatem immittere: quare exitioſum elt,lub eius radijs diu dormire; quippè dor mientes obleruatum eft ægrè excitari, atque proximos infanis fieri, Lunæ vires in lignis, quæ ad ædificia colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim Luna creſcente, funt ferè emollira per humoris conceptionem, idcirco tanquam inepta à fabricis reijciun rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de agris in Lunæ diminutione colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus Lucina vocabatur, & à parturientibus inuocabatur: Lunæ enim diftendere rimas corporis,meatibuſgue viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui ſalutare, illum. queaccelerare putabant. Archelaum,Mithridatispræfe&tum, ligneam turrim incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum:hic enim turrim ligue. ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat currista. bulata alumine collinita, in ijs autem cruſta durior erat obducta, & alumen, plumbique albi  albicineres pigmentis copioſè commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili artificio,Ceſar ex larigna materia cir. ca Padum,Caftellum etiarn conftruxit, Ex Lemnio. Viſcum quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt, quod peonię maſculæ radix,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur, Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, & profuiffe quidem, non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum. Focabilis equidem difcordia inter braſsicam, & vites reperitur, propte reade Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque & fucco, &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum odore retrograditur. Infuper G inollam, vbi braſsica elixatur, vini vel mi nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit, & quod mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne à vini copia potenciaģ; offendantur (Germanorum inftar ) braſsicam crudam primò comedere debent: ita enim viruna ad ſatietatem, abfq; ebrietaris periculo haua rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum, homines dementare, Ericulofum eft, verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm prz bere: ad iufaniam enim homines ducit, & quod peius, cerebri meatus obftruit, ſpiri. Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis, huius efuadeò io ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur. Ponzertus pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem heoti cam induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices non modò ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung  Mha pariunt ardentem; quo fit, vepleriq; faces, pro noctis obſcuritate fuganda, ex iis com. ponaot, bene rati lucidiorem has flammam, quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar, qui dum vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur, cuius natura cùm facile accendatur, mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam contactu Hamer rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, & poté. tia in perfanandis Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes tanguntur, atq; illæ per diem circa fe. mur ferantur, & mox in camino fumanti (afpendantur, procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que atq; radices ex iccărur, fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen deduxir, nec immeritò: namin iftarum infiammatione, &doloribus, fi hu us radices contufæ applicantur, confeftim, & dolor, & inflammatio mulcentur. Ex Ex Tante. Marine Paltinuca radium,identium do loresmitigare. entium dolores multis experimentis ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi func; huius eniin radio, qui in piſcis cauda cpa, situr, dentes tanguntur, & gingina ſcari. ! x herbis non paucæ Ecale ſcar ficantur, quo præſidio quan cítiſsime dolor euanefcit. Prodidit Dioſcorides, lib. 2,64p. 9. radiuin hunc dentes frangere, & e urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it Plinius lib. 3. cap 4. Conteritur enim is, & cum Helleboro albo miſcetur, quorin miſtura fi dentes illiti fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg, berbas, Solisexortum, & occafuma ostendere, Solis ortum, & OC cafum noffe videntur tantaq;huius lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt Gr. miter inter kas, & folem magnam in ſe lym pathiam credamus. Profe&to fos calendula in Solis ortu aperitur, &in occafii clauditur; ex quo villicorum horologium à nuleis di citur. Sequuntur Solis fphæram non modo papauer, & illudtithymalli genus, quod vo. cant helioſcopon; ſed etiam malua, lupini & cichorea; intenſius autem Lotus herba re ctatur, &exortum quotidianum, &occafum noſcit. Hæc (Theophrafti teitimonio ) cau lem, &florem veſpere mergit, & circa me. diam noctem tota in lacum irruit, & adeo occulcatur, vt nec manu admiffa quis valeat inuenire, verciturmox panlatimg; erigitur, &in Solis exortu extra aquas confirrgit; for P 3 reing  Temą; aperit, & patefacit, caliterá; etiam num confulit, vc alièab aqua abeffe videa quarum Sodo Qualssin Sodomi, & Gomorriveſtigiso riantur fru & us. LtiſsimiDei decreto quinq; vrbes 211a ciquicus incentæ ſunt wuum, & Gomorrhum præftantifsimæ fiudj erbantur.Harum in fauillis quædam noſcú. tur veſtigia; Giquidem cæleftis ignis reliquiæ adhuc perfiftunt. Quod autem illic admira bile perfpicitur.viridancia fpectantur poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt, qui e dendi haud cupiditatem habeat: illa. autem manibus capta faciſcunt, & in cinerem refol. uuntur, fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib. 4. Magnam inter vterun, ammasinef Seſympathiam. On exiguus inter mulierum vterum, & mammas contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema oftendere on laruamus, A venis inter has partes coniunctis maximè ratio ošteditoriri ſympathiá:ex iis e nim materias ab vtrifq; contentis transferring &exonerari experimur.In menftruorum re dundantia Cucurbitula fub mammisappofita, fluxum cohiberi ab Hippocrate docemur,  Lactis copia in puerperis dum magna grauit q; fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10 nog; in vterum à naturaefunditur. Suppreisi menfes in virginibus, & viduis caftis, non femel io mammasrefiliunt, & la & tis copiam fuſcitant. In mulierum pubertate accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo artificio Solis defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria pleriq; conantur folis defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio illius defectionem fir miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur, quæ non aqua, fed aut oleo, aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem pinguem non facile curbari, atq; imagines perinde, quas recipit conſernare. Equidem in magines in liquido & immoto tantum appa rereconfueuerunt, propterea in olen, & pi. ce, commodius, & firmius, quomodo Luna Solilc opponat, & illum abſcondat accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft. Virginummammillarum tumorem acis cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet efficacia, vt contufa cum vmbeila, atq; virginü B H mammillis impofita, tumorem, & excref centiam valeat prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit, quo minus augeantur, vt in pu crorun tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur: ijenim reatibus alimenti obtufis facilè ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod à Bon doletio nultis experimentis comprobatum Teperio de piſce Squarina: hicenim mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò con. ftringit, ve virginum mammillæ appareant; credunt multi in genitalibus eundem fimili ter effectum producere. Quercusgallis, anniprafagia comparari. Napoleon Onmodò à Plinio, verùm atq; à plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus obſerua tum fuiffe comperio, à gallis quercus maio sibus præfagium aliud anni, quodapud vece res in magno fuiſſe pretio,&opinione legi. tur. Aperiuntur gallæ, quando integræ funt, ibig; muſca, aranea, aut vermiculus repe. ritur: fiquidem planta hæc in gallis huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca volar, angi fertilitatem & bellum futurum præſagiunt; ſin vermiculus repit, annonæ carentiam arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem, & peftilentes affectus prædicunt. His ego adderem, præfagia hu. iufmodi, fi Deo placuerit, confimiles ſecta. tur elientus. Vitri puluerem, calculos comminuere. ron folum Galenus, fed Anicenna, & mouendos vitri puluerem excollunt quomo do autem hæc fieret, plurimum infudiui; tandem quæ ab Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit, & vitrum adurere didici. Capitur vieri albi, & perſpicui fruftulum, quod terebinthina coll nire oporter totum, nyox tandiù in prunis detinere, veexcandel. cat; hoc demum in aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò tamen linitur, fecundò cxcoquitur, vltimò extinguitur; quo peracto, vitrum conteritur, & in puluerem lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus au rei pondus vel drach.j. cum vino albo, & ef ficaciter calculos comminui experimur. Quo artificio aëris naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem, & naturam cum ex plorare libuerit, fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno cælo per noctem fub diuo exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's P5 АБЫ  liceus & aër erit; fi humecta,nimbolus; fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané eadem induftria expofueris, di corrupto,ficuin contrahere videbitur;à fic co, fiec ficcus;ab Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit peftilens, carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam & adipes.Siaércraf fus erit,patebit in marmore, & filicibus, qnę in cali natura admodum madere folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet, hę enim in tali con ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines, mortui Š videantur. Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum, ffue aqua vitæ cum fale miſce tur, ac in patina (ſublata qualibet alia lua ce ) accenditur in cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem ipfi immobiles fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes fin gant, lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum, fi we calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim,lux eorû colores, quæ in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces adimere, Nerein VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas Ereides, quas vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę funt;quodauté cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, & capiant,nos. in lib. 1. de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de Tritonibus, Nereidibus, ho. minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant tractatur; Poetarumq; fabulæ eno. dantur, Vidithas Theodorus Gaza & Gee orgius Trapezont ius, homines nagnæ e ruditionis: Gaza in Pelepomeno exorta maris tempeftate, Nereidem proiectain in lidcore reperije viuentem, & fpirantem, ynleu hrniano, facie decora, corpore fqua mis hirto ad pubem vſq, cætera autem ia locuftæcaudam definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit concurſus, illa tamen e vac maefta, crebrog, ſuſpirio fatigata & frequentia hominum circumdata gemitus dedit & lacrymas emiſit,quibusmacus mi. fericordia,ad mare deduxit, vbimagno im petu fluctus fecauit, & ex oculis omnium cuanuit. Quid Trapezontius, pleriqs. alii viderint, in loco cita. to narrauimus De Apunx natura, earumque mirabiliſa gacitate. Tu quidem anceps fui in fcrutanda A pummellificatione,foetu, & cera:nam & apud auctores magna reperitur controuer. fia, num illæ ge nerent, & aliundeprolem habeant.Poft auem exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento Ariftoter lis opinionem veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos conftruunt, exar borum lacryma ceram fingunt, & mella ex aëris'rore captant.Hæ primum fauos confi. ciunt,mox fotin collocant, ore calidum ſpirantes,vt vitain recipiat.Mellificanræfta. te, & autūno cibi caufa;mel autem autinale cleatius eft.Foetus in vere ferotino debilis fit: nã & naiori ex parte emoritur. Multi aiunt oliuas, & examinum copiam cógenerem ha. bere nataram: nam fi altera augetur, alcera abundans fit: fi vna deficit,altera deprimitur ratio eft:nam mella ficcitates augent;lobo. lem verò imbres; quofit, vt ſimuloliuæ, & sopia examinam fit. Vinorum aliquot existere genera natura mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis naturæ quod? co A quod vua & guftu, & fenfuà cæteris minime diſcrepanr, nec vinum á ymis; tamen quod Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum, & mulieres fteriles: & apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: & in Thiffo vi num quoddam lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto lib.9. Plant. Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud plerofque fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari, fi tri. tomaluauiſco cum ouorum albumine, ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen inducitur.. Hoc autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem aliud legitur hu. ius negotijartificium:fi enim Ichthyocolle, & aluminis æquales partes capiuntur, & ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper funditur; quicquidtali miſcellanea illitum in ignem proijcitur, vtique non comburie tür. Menftrua in ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit tum Ariſtotelis, tum ali orum iudicium,quodin mulieribuscir ca quadragefimum annum,fiue quinquagefi mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat experiencia. Mulierem hic cognoui, Qyour P7 Victoriam nomine, eamque honeftam & bene morigeratamshuic in anno 45.méftrua ceffarunt, & faufta valetudine vixit,cum au tem fexagefimum ferè annum attingeret, ce teilli menfes rubei,bonique coloris redie. De vberague, quæ priusflaccida erant,more: virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta copia impleta,vt impulſu ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret àmeadmonita eft. Alteram cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa, & hodie viuit, & menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem raròcontingunt.. Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem. Pleriſque lcriptoribus excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem contra venena folo contactu valere expertü eft; propterea inflationes abeftijs venenatis illatas diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores, & dolores ex forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus, aliifuevenenofis 2. nimalibus caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef cere Aquarum Fluuios natur& mirabilis repe $ rire. N multis locis aquarum exortas, mira cfficaciæ inuenirilegimus Scribit Arift. in terra Aſsirithidæ aquas naſci, quas cum oues biberint,moxgs inierint, nigros agnos generare. In Arandria dnos ineffe fluuios ad.. notauit, quorum alter candorem, alter nio gritiem facit pecoribas:at Scamander am gis, quem Homerus Xanthuniappellauit, fia uas reddere oues creditur. Mirabilers in concepta imaginationis effe per rentiam Maginationis potentiam tam miram effe Phyfici confitentur ve viſa per cóceptum in partu fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi ftoriain admirandam ex Ludouico Vives 12; de Ciuit.Dei de huius negotio conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam vrbs eft, in qua more eiufdem Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum celebratur, quo tempore varii ludi apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die diuorum perſonas induunt:nönulli vera Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella exarfif. fet, & demúfaltado ſe ſe recepiſſet, & apreprā Vt er at perfonatus vxore fua in le &tum con. ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle di.. cells  D cens, concubuit, & concepit inulier: clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum editus eft, Calcitare cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium.stupores à portulaca confeftim amoueri: Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci confueuere,ex aqua aut luc co, vel frondibus portulacæ commanfis, quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe cum qua-. damæftate cùm fiti maxima, tùm dentium: ftupore affligeretur,cömanfis ipfius frondi bus, &à fit, &à ftupore fubito liberatussú, Ab amico quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum,abfque dubio verrucas exter minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex Aphrodiſeo, Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium. Ninitis experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari reperio propierea à loanneAgricola in lib.. Herbar.maximèetiam extollitur. Qua pro vita producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium (crucatores acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri fólia Saccharo cómilta degluci deglutientem ad iuglandis magnitudinenia in offenſam valetudinem, ad ſenectutem vſ. que conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin. teiſque parum madidis inuolutum,& pedi. bus applicitum,pernicioſos valetudinis vaki pores extrahere. Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores, copiofiores comparare paluamus. Nter ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum copiam generaodam ineffe cre duntur,Maluæ radix connumerari poteft:: fi enim caput mulierum livinio lauatur in quo elixa fit maluæ radix, & deinde fucco maluæ crines, inungantur, profecto ya bercim prouenient, & cicila fimé. Giulio Cesare Baricelli (n. San Marco dei Cavoti) è un filosofo.  De hydronosa natura sive de sudore umani corporis Hortulus genialis Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu  Indice   baricelli — implicatura sudorosa — de hydronosa natura — de medicinae praestantiae — amazones cur mammas dextras resecaverint — olearum sterilitatis praesagium — nili flumines proprietas — de mundi creatione — murium sagacitas — pluviosa tempestatis prognostica — agricolas non semper tempestates et serenitates praedictunt — valeriana miravis contra epilepsiam — transformationes hominum in bestias non esse reales — daemonis astutia apud indos — quid picus de scientiarum  varietatis sentiret — subditos principis vitam ut plurium imitari — rutam et allium serpentibus adversari — animalis oriri et vivere posse in igne compertum est — lacus asphaltritis mirabilis naturae — pisces marinos salubriores et rapidiores fulminibis esse — mulieris —  hominos — cibus — gigantes in orbem — mulieres — excellentia — falsissimum est salamandran in igne vivere posse — sabbatici — lactandis infantibus  menstrualis — pharmacum — animal — tauri — faxa — aegypti reges — sterilitatis praesagia — aeris salubritatem — lintea — hominibus — hydropes — plenilunio — nationibus — romulus — serpentaria — echinum — animi pudorem — animalia — alexandri morti — sanari — cervi sudori — vires — balnei — adam — rutam — verbenam — anima — aeris — sulphuris —  caraba — baccas — linguam — galli — homines — magis — fuco — cacoethica — vipera — traulos —  morbos — lupi — vitrum — pregnantes — periculo — pro corporis — corporum hominum — utero — paterna — araneus telas — menstruali — rutam — corpora — achatis — hominibus — hominem — utero —  praesagium — utero — tritico — scorpionum — hominibus — bubulo — epilepsiam —  arbores lapides — bardana — literas — homines — hominibus — hominibus — filios parentibus signum — mare rebrum — hydrargyri — lupum — epilepsia — flatu  corpora — pestilenti — efficacia — animalium — seminis — basilicum — torpedinem — animalia — armenia — febre — lumaca — amantissimam — astronomiam — martisque — passione  cantharides — adagium — parere fetus — iucundi —de amoris origine — aqua — virtutes — sagacitas — lapidis — naturam — partus — amorfus — equorum — spectacula — marinum vitulum  epilepsia — vinum — homines — homines — cervi — gagatis — epilepticos — hominum — laudano — mortem — pacto — a viro — hepaticos — mortem — mithridatis — ossa — bryonia — herpetes — vina alba — flores — absynthium — chalcantho — coralio — lethargicos — infantes — prunellae — catuli — gallum — corios — artificio — theodorus — radicem — dilligentes — canicula — quatuor elementis — phreneticos — digitum — carnes — vicera — testiculis — dentium —  hippocrate — animalibus — apii — satyrii testiculum — hominibus — radicem  hominis extractum — praesidia — hominem — antidotorum — cancri — quomodo — morbi — animantium — pulchritudine — septentrionalibum — hemorraghia —  lingua ardor  aegyptios — gentium — solis — animalium — cervorum — masculinum fetum — mirandulani — hydrargyro — incognita — tempestates — epiro — hecla — hominum — galenum — graecos — cane — athritide — lionem — iumenta — acutis — acetum — piscis — foeminas — corporis — alexandrum — hominum —  ruditas — angina — capillos — volucrum  agricolas — galege  infantis — oryalum — homines — lapides — collegium — alexandrum — laparhiorum — feminum — aegyptios — methodo — olivarum — admirandu — millepedum —  frequentem — mulieres  daemonum  carduum — infantes — menstrualem — corpori — medicina — animalia — unicornu — mulierum — naturalem — febris — precognosci  medicis — masculorum — hydrargiri — bryonia  consolidanda — chymicam — corpus — hominum — venenum — semen — lupos — homines — luna — leonardi — hominibus polypidium  ibidis — mulieres — industria  corpora — gallicam — hominis — hominibus — regem — homines — aquilone — usum — usum — oleo — genus — leones — artificio mergum  lacertas  educandis — artificio — serpentes — virginitatem  virginale — vitellos — humana vita — vena — materia — alexandri — mulieres — hydrophobos  puerorum   labiorum — utero  semine — aegyptorum — taxi — epilepsiam — aspides  infantes — vitrum — homines — vini — syrium — nuptis — agreste — hydrophobiam — hepatis — viventes — arundinem  cynanchem  parere filios  vino — praesagia  gallinarum — aquam —  mandragoram — corpora — vita hominibus — semina — infantium — vitam  philomelam  castorem — duces  lingua — vinum — equorum  croci  hominis — aspidum  hermaphroditos  imaginationis potentian — climactericos — inter homines — carolum  animantia  liberos — garamantes  caminus  horologium — infantium  praesagia — vinum — virorum — familiarem  romanos — ambarum — tympaniam — venenum —  toxica  socrati  magia — epistolam — aqua frigida  menstruorum  lapides — homines  testiculos  humanam salivam  homines ridendo —  parthi — partum accelerare — serpentum  hydrargyrum vim — anginam — vermes  mamillis lumbricos — infantis  elephantiasim  cyprinorum  leporine — hydrargyrum — gravidas  homines abstemios — aristolochiam — alexandro morbis — creta — cyprini  calphurnius bestia romanus — aceto oleum — scythae  catellos — plurima — martis — robusta hominum corpora — equum — homini lunae — mithridiatu — viscum — vites — betulae haemorrhoidalem — dentium dolores — sodomi — uterum — solis — virginum — praesagia — vitri — aeris — homines — facie humana apum natura vinorum ignem menstrua virtutem aquarum in conceptu imaginationis esse potentiam dentium stupores epilepsia pro vita producenda mulieribus Giulio Cesare Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano, sudore e la regola, stirgilo, amore, Socrate, Aristotele, controversia sull’origine del sentiment dell’amore, Socrate, l’idea di causa in Aristotele.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baricelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Baroncelli – compassione – filosofia ligure – filosofia italica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Savona). Filosofo italiano. Grice: “I like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda Platone,” surely he only requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is ‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my balance between conversational egoism and conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo  Nato e cresciuto a Savona, si laurea in filosofia all'Genova nel 1969 con relatore Romeo Crippa, di cui diventa assistente.  Insegna Storia dell'età dell'Illuminismo all'Trieste.  Dal 1977 al 1981 è di nuovo a Genova, dove tiene la cattedra di Storia della filosofia moderna.  Nel 1981 diventa ordinario all'Università della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di Filosofia morale.  Nel 1988 un grave incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel Wisconsin.  Nel frattempo collabora con molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il diario della settimana, il Secolo XIX.  Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti, segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte sopraggiunta nel 2007.  Il pensiero di Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato, invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso pianeta.  Pensiero e la ricerca Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza, il liberalismo e il politically correct.  Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano”  Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione" a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica,  "Come scrivere sulla tolleranza" in Materiali per una storia della cultura giuridica.  Note  Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, Manti, Diversity, Otherness and the Politics of Recognition, in Nordicum-Mediterraneum,  14, n. 2, Akureyri,, Ospitato su archive.is. Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I met only too late, / whose lively intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to appreciate.  Info dalla pagina del Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello scrittore Bruno Morchio e dell'amico Daniele Miggino. Sezione speciale della rivista Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio Baroncelli. Pagina di Wordpress su Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio Baroncelli. Keywords: compassione, filosofia ligure, Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barone – linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to describe philosophy! But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum., and I doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore, his views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously titled ‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc. have little to do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946 come allievo di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di Filosofia teoretica all'Pisa, dove fu preside della facoltà di Lettere e filosofia dal 1967 al 1968, fu poi docente di Filosofia della scienza nonché direttore dell'Istituto di Filosofia nella stessa università (1960-80). Insegnò anche Filosofia morale alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si dedicò soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza, pubblicando numerosi libri. Nel 1979 curò l'edizione italiana delle opere di Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino (dal 12 febbraio 1985), della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del Centro del C.N.R. di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi della scienza.  Pensiero Particolarmente interessato alla filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un confronto tra la dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione filosofica si sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della filosofia della scienza.  Come pubblicista affrontò temi etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di vista della ideologia liberale e liberista.  Il tema principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della scienza e la storia della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima pubblicazione in Italia di una monografia sulla filosofia neopositivistica.  Il suo pensiero si contraddistingue per lo stretto rapporto tra epistemologia e storiografia della scienza, settore, questo, in cui Barone ha preso in particolare considerazione il tema della nascita dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e Galilei.  Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi culturali, epistemologici e filosofici della nascente informatica.  Altre opere: “L'ontologia di Nicolai Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia: etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica trascendentale,  I, Da Leibniz a Kant, Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia, Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia, Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola Copernico, Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini filosofiche della scienza, Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz, Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note  Francesco Barone, Neopositivismo, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Barone, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sito ufficiale, su francescobarone.  Francesco Barone, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Barone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Francesco Barone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Barone,.  David Hume, il filosofo della non certezza di Francesco Barone, La Stampa, Addio a Barone il filosofo che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della Sera, Archivio storico. Francesco Barone. Keywords: linguaggio, assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica matematica, logica formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a Torino, simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barone – dialettica fiorentina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo italiano. Grice: “I like Barone; at last a priest that takes Italian humanism SERIOUSLY!” --  Dopo avere finito gli studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato sacerdote il 13 marzo del 1937. Frequentò, quindi, la Pontificia Università Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia trattando la tesi dal titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola.  Ebbe subito la nomina di Canonico della Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956 quella di Vicario foraneo e Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu nominato anche Canonico Onorario della cattedrale di Trapani.  Nel mese di novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara del Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di Alcamo.  Per diversi anni, è stato anche Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita; ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche; ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili; tip. Bosco, Alcamo). Note  trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_ e_saggistica_ in_provincia_di_Trapani_02.pdf  Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, trapaninostra,// trapaninostra/ libri/salvatoremugno/ Poesia_narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_ e_saggistica _in_ provincia_di_Trapani_ Vincenzo Regina Tommaso Papa Identities-Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Letteratura  Letteratura Categorie: Presbiteri italiani Insegnanti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone. Keywords: dialettica fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico, pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barsio – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo italiano. Grice: “I like Barsio – he reminds me of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial fellow in philosophy at St. John’s, and dedicating his life to Witters – So when reminiscing, in my “Predilections and prejudices” about them years, I said, “God forbid that you dedicate your life to the oeuvre of a minor philosopher like Witters – it’s good to introject into a philosopher’s shoes as you attain to grasp the longitudinal unity of philosophy, but look for a non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically minor philosopher – in that, he never had to grade – I always hated grading and seldom did it! – since he lived under the Gonzagas at Mantova – and he just phiosophised to the sake of the pleasure he derived from it! My favourite is his elegy to his enemy, Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is fantastical, but possibly true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano, frequentò le corti del marchese Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella d'Este, alla quale pare avesse dedicato il poemetto Silvia e la corte del marchese di Castel Goffredo Aloisio Gonzaga, al quale dedicò il poema latino Alba. Studia filosofia a Bologna. Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri, Pamphilus; Alba, dedicato al marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, Parma., su books.google. Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano, Giuseppe Coniglio, I Gonzaga, Varese, su books.google.  Vincenzo Barsio, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ICCU. Vincenzo Barsio., su edit16.iccu. Marsio. Vincenzo Barsio. Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio” – The Swimming-Pool Library.

 

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Grice e Barzaghi – scuola di anagogia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo italiano. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his “Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice: “Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf. Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene di Celesia, a stoic!” --  Direttore della Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del filosofo Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del cristianesimo.   Nella sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga dapprima sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente, anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17).  Nel pensiero barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.  Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella “dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto (compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p. 96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p. 98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in tutto).  Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino (1997), in cui l’autore cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un modo che egli definirà più tardi voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino, filosofo e teologo cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele, filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di reciproca conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999 Severino dedicò a Barzaghi un articolo sul Corriere della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore del più interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto cristiano da cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo ateo definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo di porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello a Milano e quello a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD); “L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis, Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna, ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso, Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo S.Tommaso d’Aquino, in “Communio”  L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline,  La potenza obbedienziale dell’intelletto agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica metafisica, in C. Ciancio, Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia epistemica, in R. Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel Logos, in T. Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma, Angelicum University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e approfondimento, in G. GrandiL. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli, Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in “Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica cristiana come estetica assoluta, in  Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia, in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in “Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi, Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V. Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press, Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Tommaso d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione fondativa, in S. PinnaD. Riserbato  Fenomeno & Fondamento. Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed. vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità dell’essente in teologia, in G. GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in “Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della musica di J. S. Bach. La Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas”. A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di Giuseppe Barzaghi...  Data l'importanza dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani), nonché, sul versante teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica dell’Editrice vaticana.  RaiCultura: Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto  Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe Barzaghiparte 1 e parte 2  E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Dionigi, I nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,, II, 3.  All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de 'La struttura originaria' (UniPa)  Apocalisse 13, 8  Cfr. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD, Santiago María Ramírez op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban, Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli,  UniPdL’eternità dell’essente  RaiScuola: Giuseppe Barzaghi. Dio e il concetto filosofico…  Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa  Dialogo Severino-Barzaghi a Milano  Giornata di studio dello Studio filosofico domenicano di Bologna  RaiCultura. Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su you tube.com. Giuseppe Barzaghi. Keywords: scuola di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’. Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza, Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barzellotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “The good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality – so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a ‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia nella XXII legislatura. Allievo di Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, entrambi filosofi spiritualisti, si professò poi seguace del Neokantismo. Si interessò soprattutto alla storia della filosofia con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e religiosa. Ebbe la cattedra di Filosofia morale alle Pavia e di Napoli. Divenne professore di Storia della filosofia all'Roma. Fu ammesso all'Accademia nazionale dei Lincei. Nominato senatore del Regno d'Italia.  Fu iniziato in Massoneria nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande Oriente d'Italia.  Altre opere: “La morale nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze: Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica” (Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna: Zanichelli);  “Monte Amiata e il suo profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna: Zanichelli); “Taine, Roma: Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo: R. Sandron). Note  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in Dizionario biografico degli italiani,  7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930, giacomo-barzellotti. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Barzellotti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Giacomo Barzellotti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca.  Opere di Giacomo Barzellotti, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti,.  Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica.  Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore Firenze PiancastagnaioAccademici dei Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo tentando, del movimento filosofico nella seconda metà del secolo XIX in Italia,dovesse rigida mente obbedire alle leggi di una storia della filosofia,alcuni scrit tori,che rientrano nel nostro quadro, ne andrebbero certamente esclusi. Lo notammo a proposito di T. Mamiani;e torna opportuno dichiararlo per Giacomo Barzellotti. La prima legge della storia della filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi.E però non potranno far parte di essa gli spiriti che a questa conce zione non abbiano comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che non abbia sentito il biso gno; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore: più accorto in ciò e sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. Il Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra quelli di scrittori di cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo Zanichelli: Santi, solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil., saggi psicologici, Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,ritratti?(1).A questa popolarità egliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e ha messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandone il valore. Ma nell'averlimessi intanto da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi, solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale. La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta» aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta «appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma s'è (1) St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema, per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che questo orrore dei sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz (tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti, riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la psicologia dello scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga esperienza,solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un librolatestadifilosofia c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di lettori s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa? Della filosofia o dei lettori? Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di gettarla tutta addosso alla prima; m a poichè una certa filosofia deve credere di coltivarla anche lui,una filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori, lamentando « quell'abito come lo chiamerò d'antipatia o di pigrizia mentale? – che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico ». Ma, s'intende, il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna. In Italia,un lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e dalla scienza contemporanea,è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso con cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime notizie di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente contemporanea? La filosofia, per vivere la vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello, secondo il Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare al loro pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo gergo e quest'oracoleggiare se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci anche la filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante nella sua astratta universalità, ma solidae concreta nellasuccessione progressiva delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del grado spirituale proprio della filosofia? Intendiamoci: non già che il filosofo debba scriver male. Il Barzellotti dice della Vita del Vico che « ha dal lato letterario il difetto di tutti i libri delgranfilosofo: èmalescritta»(2). E non è vero,com'è vero invece che è « mal composta,oscura,involuta ). Oscuro e involuto rimase appunto gran parte del pensiero delVico; e quindi l'oscurità e l'involuzione della forma. Ma il Vico scriveva benissimo,esprimendo con efficacia potente d'immagini i (1) Vedi lo scritto Il pessimismo filosofico in Germania e ilproblema m o. rale dei nostri tempi, nella N. Antologia  p. 56. (2) Dal rinascimento al risorgimento, Palermo, Sandron. suoi concetti; ma,s'intende,quando avevadeiconcetti:laddoveè certo, come lo stesso Barzellotti dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero, che è la parte prima ed essenziale dello scrittore ». In altri termini, egli non pervenne alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon i secondarii, rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente lavorìo intorno a una materia non veramente omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico scrive male dove e in quanto pensa male; e questo è il Vico che non conta nella storia. Ma ilVico che conta, il filosofo vero e proprio è uno scrittore sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia se non attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì per primo Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra disè.– Chiscrivemale,perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma lo scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure il gergo della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può farsi leggere,se si contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione, premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro: « lo vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco quello che un amico mio diceva ai lettori d'un giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie);perdonateglielaingrazia di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che quel che di più e di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52 n. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore di filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel che il Barzellotti stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo, niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di questa specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori o popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o sazia di sapere. Perchè, s e h o detto che il Barzellotti è u n artista più che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta una digressione letteraria che possa dirsi un artista finito, e che il suo capolavoro (Lazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il Barè al di qua della filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che può forse considerarsi come il capolavoro del Barzellotti, il quale i nesso si propos e ben sì di fare uno studio di psicologia religiosa,lo stesso autore dice che « vorrebbe essere,se pure non pretende troppo,un'opera d'arte,ma senzadar nel romanzo ».Vedi in questo fasc. l’art. del Croce, pp. 337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi annim. Ma anche lì quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi seguaci!L'azione, troppo povera,è una gita di caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in disparte ad almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche Barzellotti. Ma quale parte? Egli titrova nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere « molti particolari intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro Il lettore,nemico della filosofia, a cui il Barzellotti s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come ilBarzellotti,non avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia; sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da amici del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e poi i volumi d e l Renan, e l e opere dell’Hartmann e q u a l che fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino. Barzellotti,che pure ha scritto un bel saggio sulla sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si ricorda di quelle sue giustissime idee: e dopo aver detto come inducesse Filippo a parlare,continua: « Mi rispose con un leggero atto della testa che acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per:filo e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che più importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue infatti il corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine (1), in cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi l'autoreripiglia:«Questecosemi andavano per la mente cinque anni dopo la morte di David mentre co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B. non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle 140 paginediroba! L'elemento descrittivo e drammatico resta affatto estraneo e sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche, mentre egli realmente non si mette mai inunasituazionesinceramenteartistica, sono il maggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire »(1).Appunto,la esiguità del con tenuto spirituale del Barzellotti gli ha fatto scrivere molte e molte pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a cotesto difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto, tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al pensiero, che non si riesce afermare inuna formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo progresso nella storia (2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare d'esser tenuto a farvi qui. Il modo in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle scienze morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che pare presupposto da quanti oggi ponendo, (1)Dal rinascimento al risorgimento, p.206. (2)Rivista ital.difilos.del FERRI, con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione ideale del pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa; stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo impossibile però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione approssimativa di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito imperituro della filosofia del sec.XVI, latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur troppo riscontro alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della società. In questa l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a quello di un osservatore che da punti di prospettiva via via sempre nuovi studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che, tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a poco così: lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali spetta di seguire il processo storico del loro o g getto. Egli è che al Barzellotti, mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani, sono semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad apparire spirito moderno, del proprio tempo (come (1) Nella N. Antologia, Fil. Sc. Ital. egli ha detto di sè tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo scritto,che secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo per questa sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è riferito ogni volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso, che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni » non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della conoscenza e la metafisica dopo Kant, lavoro prevalentemente storico, per cui l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle fonti originali. In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un neokantiano vero non può non far apparire i suoi  criterii filosofici; e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant) della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito. Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione (2): un pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte. Al Barzellotti il partito di superare idealisticamentelaCritica,come fece ilFichte, dopo l'Enesidemo, pare «ogni giorno più,non che consigliato, imposto inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant alle loro ultime conseguenze». Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto;sibbene con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra che sia affare che tocchi l'animo del Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle dottrine filosofiche nei libri di Cicerone, in cui si vede ancora lo scolaro di A. Conti edi T. Mamiani. Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I collaboratori di quella Rivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione; anzi varii tra di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani; ma si raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di quel moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una inerzia intellettuale di più che due secoli » (3). Anche al Barzellotti, insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme col Mamianielasuaonrevolgente. Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo storico imparziale,se essa avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani; e io non potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina filosofica sua, che ne lo separasse. Vedi specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. (3) La filosofia in Italia, nella N. Antologia (4)  (1) Nella Rivista difilos,scientifica. Cosi nel libro sul Taine qui appresso cit.,p. 168 dirà sempre: « La dot trina idealistica chefa del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant ».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A. Schopenh. e la sua dottrina della percezione, nella Fil. dellesc.ital.; la cui conclusione favorevole ai filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi, a u n tempo, ideali ed empirici, subbiettivi e  obiettiv i, hanno il loro essere e la loro legge così nel pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc larsiconl'idealismo berkeleiano! Masipuòpar lare di contraddizione? (4) Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE. Cfr. La morale come scienza e come fatto, Riv. ital. di filos., e la pref. ai Santi,p.xxi n. Nella prolusione con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881, Le condizioni presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi ravvisare tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede neo-critica: l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di avere altresì dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la riflessione filosofica definita per artifizio(2); approvato- comegià nella Morale della filosofia positiva l'indirizzo psicologico-sperimentale dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo ricondotto addietro fino a Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito (4), e a cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto, superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede, esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e delle loro leggi. Nien t'altro che dati ! Non c e r t o «un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »; un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può prendere il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa immediata, da un che in somma non ragionato, m a sentito e intuito ». Contro chi cred e, come il Renan, che p o s s a la scienza un giorno trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che « delle due forme di conoscenza ond'è capace la nostra mente, la concreta e diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi nella pratica della vita. Se non che,tale appunto quale è, ottimo istrumento e guida all'azione, la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente proprio e suo e d'opposto all'indole del sapere scientifico; appunto perchè concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza immediata,la convinzione istintiva ». Quindi l'inefficacia della scienza; quindi il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla scienza, il Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può cacciar di nido la religione. Se la metafisica, l'alta veduta speculativa investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il più potente e il più vero è l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le potenze originarie e germinali » E al Taine tributa la gran lode di aver avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al l'astrazione » (2), E l'autore continua: « Qui sta con buona pace dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l a vita, il carattere e i sentiment i u m a n i. Si può esser certi infatti che nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di religioni, dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure— daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama uomini non p o sitivi » Ippolito Taine, Roma, Loescher E così ci accostiamo al po'di filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso negli scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota. La religione,dice in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento, è «qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni della ragione» (1).– Enellostudio La giovinezza e la prima educazione di A. Schopenhauer e di G. Leopardi: « L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non nella testa » Quindi quel sentimento,che in uno scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e colla realtà » (3). Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti? Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo ingenuo, appena larvato. Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a una critica gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando egli trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia trovato la sua strada quando ha comin ciatoa scrivere I suo studiieritrattiesaggi psicologici, intorno a scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto, l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) Dal rinasc. al risorg. Santi.  - l'artista, vedendo, come egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta la filosofia all'arte, cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro mentale del Barzellotti non mira al di là della rappresentazione individuale del concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a «unireilpiùpossibile- egli dice l'arte alla scienza » e « provarsi a ritrovare sui modelli vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera »(1). Da S. Agostino al Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella letteratura, il Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia raccolto tutte le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici di psicologia, cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini ed acute principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del popolo italiano.Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il mio giudizio, direi che per sif fatte indagini di storia psicologica al Barzellotti manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di tutto il centro vitale del suo organismo; laddove il Barzellotti gira troppo con considerazioni e divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati morali presi a studiare.E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato cercando. Santi. Di questa sua veduta estetizzante dello spirito umano bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino significato i motivi della comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al congresso romano di scienze storiche: contro la quale insorse il vecchio Lasson in nome della universalità della ragione e della scienza. Pel Barzel lotti la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di una nazione o di un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo dilui.E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal Barzellotti disconosciuta, per quel suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E poichè l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei conferma ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli vede i pensatori, e non vede il pensiero; e però non vede n è anche veramente i pensatori. Ne son prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma Barzellotti è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e morale italiana? Io non credo. Non è stato un filosofo, e neanche un artista riuscito. Ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è stato un lucido specchio di molta parte della cultura filosofica straniera contemporanea; ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai pedanteschi filosofanti italiani degli ultimi tempi. -- Di alcuni criteri direttivi dell'odierno concetto della storia, che restano tuttora da applicare pienamente e rigorosamente alla storia della filosofia, massime di quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negl’Atti del Congr. intern. disc. stor. (Roma).  -- Fra i più malagevoli ufficj della critica istorica è per certo il determinare come e quanto contribuisca l'ingegno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori, o alla civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua, e più che alla storia appartenente alla filosofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana della natura, onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e il patire, il conservare e il produrre, la reverenza alle tradizioni e la libertà dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d’un tale esame, la quale cresce a misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia de’ romani -- giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole, e avvalorati dal quasi comune consentimento, negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed originale alle manifestazioni dell'ingegno latino. Gl’argomenti che si allegano per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti [Questa ultima affermazione tanto più è conforme alla storia, in quanto, sebbene la maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo al senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e trasmesso nei principii dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dottrine della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori] concordi nel sostenere che ai Romani, poco atti sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e di stolti per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del dominare e dall'esercizio delle armi, e finalmente abbagliati dallo splendore della civiltà greca, manca una libera disposizione a ritrarre e a creare il vero ed il bello negl’esercizj della scienza e dell'arte. Degerando, Brucker, Tennemann, Ritter, Kuehner ed altri. Ai quali argomenti quando per sè non rispondesse abbastanza la ragione istorica, la quale vieta potersi sempre dedurre da ciò, che un popolo fa in certe condizioni di tempi e di civiltà, quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare. Se non mostrasse il contrario la scuola dei giureconsulti, che dalla coscienza del genere umano e dalle forme logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del gius costitutrice delle nazioni europee, se l’ “Eneide” emula all'Iliade, Lucrezio maggiore d'Esiodo, la Commedia di Plauto, le storie di Livio, di Sallustio, di Tacito, la satira togata di Giovenale e di Persio, l'elegie di Catullo non indicassero assai che il genio latino, libero nella imitazione, sa aggiungere all'ideale del vero e del bello un che d'universale e di solenne, un certo senso pratico e positivo, e un'intima rivelazione degl’umani affetti, ignota fin allora ai gentili e resa più perfetta dal cristianesimo, io mi restringerei alle sole opere filosofiche di CICERONE, che sono, parmi, una fra le prove maggiori del come la scienza dei nostri padri, modestamente operosa, recasse la sua parte alla civiltà universale.   e all'età del Rinnovamento. Ritter, Hist. de la Phil. ancienne, Paris, Ladrange. Kuehner, M. T. Cic. In phil. E jusq. Partes merita. Hamburgi. La storia della filosofia ci mostra di fatto che CICERONE fu a’ padri latini molto in pregio, e segnatamente a Lattanzio che lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle Institutiones divinæ più volte; poi a Agostino che ri conosce dall' “Ortensio” la preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio di cristiano, meritava chiamarsi “ciceroniano.” Fra iDottori più principali è noto come Boezio togliesse da Tullio il pensiero sulle consolazioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio che di questo egli fa sì da'pensieri e sì dallo stile; come Aquino ne arrechi l'autorità in più luoghi della sua Somma, come Alighieri lo meditasse. Più tardi Erasmo esalta CICERONE con lodi famose. Dopo, l’autore della “Scienza nuova” attinge in parte dal libro “De Legibus” la filosofia d’un gius ideale eterno celebrato nella città dell'universo col disegno della provvidenza. Ad una fama sì lunga e sì costante, e che per certo dove avere una causa non soltanto, come si afferma generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del filosofo latino si porge all'educazione morale e civile, ma nell'intrinseco loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj (Forsyth, Life of Cicero, London), contrastano singolarmente i giudizj di alcuni critici. La opinion e espressa da tali giudizj, a volerla riassumere in breve, è la seguente. M. T. Cicerone, ingegno universale, acutissimo e disposto ai combattimenti dell'eloquenza, più che alle severe indagini speculative, pensa e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio largo, chiaro, eloquente della filosofia in servigio dei suoi connazionali di giuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti esoteriche. Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio, dal fine pratico e letterario ch'e'sipropose, e dal difetto di studj preparatorj la Critica deduce la natura delle sue dottrine; le quali, benchè guidate sempre da criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune, non vanno troppo addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo, nè costituiscono, come le dottrine dei migliori filosofi, un largo e ben architettato disegno di scienza. Brucker, Hist. Crit. Phil., Tennemann, G. Bernhardy, Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig. Facendoci a cercare l'origine di tali giudizj abbastanza severi, parmi se ne potrebbe addurre innanzi tutto una causa assai remota, ma in parte relativa al modo ben differente, con cui gl’antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Bacone, che spezzando ogni autorità del passato, e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato a fastidio, proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta novità dei sistemi. Come s'intendessero quella libertà, e quella novità; e quali resultati ne seguitassero alle lettere, alle scienze, alle arti, al vivere privato e civile, come se ne avvantaggiasse o ne patisse la morale e la religione, la scuola, la famiglia e lo stato romano, non è qui luogo a mostrarlo, e le son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della riforma,e soprattutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali da Galilei, e da Bacone; chè, se la riflessione libera ed esercitata desunse mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le discipline morali e civili; perfeziona i suoi metodi la medicina, si levò gigante la chimica, la geologia sfogliando  il libro della natura vilesse le età del mondo. Se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle manifatture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con velocità più che umana, e in mend’un baleno il salutori congiunge gl’amici, benchè separati dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è debi trice l'Europa. Ma le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più impenetrabili misteri della conoscenza umana, e quel nuovo si cerca da molti nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia la licenza della riflessione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il panteismo superbo del Bruno e del Campanella. Poi, scontenti del panteismo, ci diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke, lo scetticismo dal Bayle e dall’ Hume; più tardi le sconfinate immaginazioni degl’alemanni,e un ridurre Dio e l'universo all'uomo, dall'uomo al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota senza raggiungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare! Posta in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla), l'indirizzo introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi, soffermata un istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia, quella storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi unico criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua filosofia, fosse l'assoluta indipendenza del pensiero esaminatore dallo stato della naturale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia comparata dei sistemi di Degerando,e la storia di Tennemann,dove si giudi cano le varie filosofie alla stregua del problema sull'origine dell'umane conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici più temperati e meno imparziali, segnatamente alemanni, e nei filosofi delle altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine speculative. C o n siderate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del decimosettimo,quando Italia e Francia, stanche dell'autorità abusata dagli scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come nota Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei romani e di CICERONE),se quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradizioni. E nel vero anche più tardi in tutto il secolo XVII, se n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj del Cartesio, ma tennero il suo metodo d'esaminare la coscienza, quali Bossuet, Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù negando i pregj dell'antichità, nemici d'ogni tradizione, non poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta e tranquillamente efficace che il grande oratore avea recato sulle verità eterne della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine temperate dal senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero di Tullio Pomponaccio e Campanella, citati dal Brucker. Ma d'altra parte, se per ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e la filosofia d'un popolo, che fu per eccellenza il popolo delle tradizioni, giova riportarci alle sorgenti diquella critica, ec cessivamente nemica al passato, questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo nella storia della filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed in Francia.Tra I francesi, per tacere dei più antichi, Degerando vi spende un capitolo nella sua Storia comparata dei Sistemi, dove enumerati prima gli ostacoli che impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla filosofia trapiantata, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi, nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e agli stati. Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés relativement aux principes des connaissances humaines, par Degerando. Giudizj assai meno temperati comparvero in Alemagna, dove fiorendo mirabilmente le discipline filosofiche e istoriche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali che illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale alle lettere e alle scienze  C   Tra i critici alemanni va innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero fondatore della storia della filosofia. Ma considerando però il capitolo dove egli parla della filosofia de'romani e di CICERONE, ti accorgi tosto che quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in Roma che una semplice continuazione delle scuole greche; e secondo le varie specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine romane annoverando CICERONE tra iseguaci della Nuova Accademia; quantunque confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta, ma inclina a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente Brucker nel proporsi il quesito,perchè mai i romani e CICERONE non crearono una filosofia propria, non ne accusa, come oggi Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino -- the unmetaphysical character of the Roman intellect. Life of Cicero. Ma quanto ai Romani in generale ei ne trova la causa nelle occupazioni della vita civile, e nella setta Accademica, che criticando e sindacando tutti isistemi, svogliava gl'intelletti da nuove speculazioni; e quanto a CICERONE, nella natura del suo ingegno, più immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico) prefere il probabile all'esame profondo del certo, e delle dottrine rappresenta nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e delle deduzioni,e la generale armonia del sistema. Brucker, Hist. Crit. Phil. Al giudizio dato da Brucker si avvicina in gran parte quello di Tennemann,e nelle loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella esposi  8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato, e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace l'Europa, ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli scrittori di quelle grandi e generose nazioni. zione dei fatti;ma per quanta possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della filosofia, come non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina, come quella di CICERONE, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? Ma se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece degli scritti filosofici di Tullio, Ritter nella sua storia della Filosofia antica. Le indagini dotte e meditate di Ritter movendo dai tempi antistorici della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche, da queste al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia delle due nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la costoro scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice nei tempi anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e costretta, per accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le sue dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme scientifiche, ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva il dotto alemanno) era ben naturale che, date quelle condizioni morali,civili e scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della quale è sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno inventivo, accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più importante manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò nella storia civile dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli dice, dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica, perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon volgimenti del primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli tudine colle meditazioni della scienza. Era quindi ben naturale che il grande oratore, vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende, non si ripo sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle cose civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj, e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di CICERONE deduce l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato scetticismo,espressione fe dele di animo titubante; scetticismo moderato,perchè seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre intemerata la nobiltà della vita, e il desiderio di una morte gloriosa; ma tuttavia scetticismo, perchè riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio della romana letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano le scuole greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti, e all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in un dubbio moderato sui principj delle umane conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che gli era stato maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che le dottrine della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la parola negli esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a questa di sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere stata sempre frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a un metodo disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della filo sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli a un sistema. Cice rone dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò le dottrine della Nuova Accademia; e va notato particolarmente, sì perchè questa è l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita filosofica di Tullio, e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia della filosofia, e perchè il comune degli storici ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni sulle parti principali in cui si divide la scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione plato nica della filosofia più comune agli antichi (egli avverte però che,stante l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e la loro qualità, tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre parti non è abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni dei filosofanti; dispute sulla natura delle cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa la più povera e la meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener fronte agli argomenti della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale, perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee, la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici lo lascia indeciso da un lato tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che pure lo segue nella politica, e nelle attinenze della politica colla morale. Talchè Ritter movendo dal presupposto che  la filosofia di Tullio non fosse che eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni certezza e ogni legame di scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro (perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale, posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di riflessione e criterio di scienza. (Hist. de la Phil. anc.) una manifestazione [Se noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni di Degerando, Brucker e Ritter, è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare non piccola luce intorno ad una questione che   abbiam preso ad esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa quel moto graduale dell'esame, e quel lento chiarirsi de' principj supremi, che governano i fatti, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di Cicerone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Accademia, e un ecclettico dubitante), e, quel che soprattutto importava,trattandosi di M. Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette all'Accademia francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda metà del secolo scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle dottrine tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si difende dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa non nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla loro forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des Inscript. et Bell. Lett.) A questi difetti sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone, contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi, la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno pratico della natura romana. Ma d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso e negli altriuomini,un criterio certo, universale, infallibile da costituirvi la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia; armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno 1825,quando rispondendo al quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui, ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine, ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur. Pars altera.Cap.VI; Utrum Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur) E questi pajono anche a m e i meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche, mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile, parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti della scienza, questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam proposti di chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna tamente:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle principali scuole tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse dalla deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore latino.  successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio avviso,l'ufficio della filosofia de’Giureconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e politici, alla Religione e all'Architettura, che è di comprendere in sè il buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può spiegarne la natura, che è appunto quella comprensione universale, tanto diversa dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul disegno della coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio, o all'esame arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. Gli storici più reputati della filosofia si accordano tutti in mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in pochi anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre nazioni può appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono, rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili anni ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene, un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia, le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano sentire, l'abuso scon II. umana  sigliato delle libertà cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco,nella quale raf forzatosi di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale, e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la discesa dei tempi non si poteva più tratte nere; e la Grecia passata dal dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia del secolo XVI,un legame di alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se colo XVI,di quella efficacia di salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti da libertà licenziosa. Non è quindi a maravigliare se quella stessa Atene, che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del popolo, oltrechè negli ordini politici,appariva in ogni altra parte della sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto quel solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse   guenza necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso; e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più diretta effi cacia sulla filosofia latina. Onde mossero dunque questi sistemi? Ritenendo essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca, ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo, retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile, l'ente e il non -ente, il necessario e il contingente, il relativo e l'assoluto; e più, da un pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0, meglio,immaginare quella conciliazione, bisognava porre un unico principio, in cui esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima. Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a quello dacuierano mossi Platone e Aristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. Ma che cosa era questa materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura, infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una finzione immaginativa, è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno) collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que' pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse, si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni delle cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός λόγον όντα ToŬ zoopov. Diog.L.,VII,136,e Cic., De N. D. La falsa induzione che per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose tutte, e l'universo rassomigliavano a u n grand e animale; perchè, diceno (usando un argomento di panteismo rigoroso adoperato più tardi dal Campanella ), se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli Stoici era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le facoltà del l'umano, concepissero Dio da un lato come principio prov vidente e ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo spirito divino abitatore della m a teria la divinazione delle cose future.(Cic.,De N. D.,De Divin., De Fato,pass.)Concependo in tal modo la materia come contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore (nepovezov ) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di contenuto,simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose tutte,ritiene ilsuo modo di conoscere,che conforme alla sua natură è un cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a, di grazia, sì gli uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione? Ne rimaneva una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e immaginare ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e di operazioni tutte sue proprie. M a in tal modo il sensista tira più là la questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista l'idea dell'obbietto sentito. Ma è qui appunto dov’io prego il sensista a darrestarsi. Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la  conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual proposito bene osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib. II), che coloro i quali s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque attentamente il sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo, dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo il Ritter, ne formava il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e finale delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la legge del Fato; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio anima del mondo e il corpo del mondo, tra la materia e la forma, il passivo e l'attivo, il più e m e n perfetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile, quanto dall'avere gli Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e del divino. E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e Aristotile,adombrando per via con trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e nelle anime la luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo desiderato dalla universale natura; peggiora E d ecco circa in quei medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine infette di panteismo e di dualismo (verso l'a. 300 prima di Gesù Cristo), apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine o anteriori o contemporanee; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno ai sofisti della stessa età italo-greca, e segnatamente a Democrito. Notammo anche come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri del senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si maturava negli ozj voluttuosi la servitù della rono in logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della scienza; peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e perfetta delle tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene diventò più che umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(Cic.,De Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) Grecia, quando la Nuova Commedia svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico; ma quel rigore, nota bene CICERONE (De Fin.), e r a un finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo gozzovigliante,era una sod disfazione ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto per Epicuro fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto, lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggiorasse il sensismo del Portico e non movesse un passo oltre la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi CICERONE nel secondo degli Accademici), Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine; negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola opposizione dei resultati sensibili la verità e la    falsità della sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la logica dell’Orto (Cic., De Nat. Deor.) Nè a diverso cammino si volgeva la fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito. Ora,se ben con sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto, laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse sotto l'apprendimento dei sensi; ma poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno nè intelligibili. (De Fin.,L. 1. 6.) Credè immaginando la spontanea diversione degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato; m a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto poco conto ei facesse dei veri i m m o r  tali presenti alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore,icieli sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (Lucr.,De rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani: 1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della superstizione.). Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delle dottrinesocratiche, ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett., tom.XLIII),e Sant'Agostino nel libro Contra Academicos, L. III, p. 111), ci rappresenta questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima nell'insegnamento del l'antica Accademia, e ristretto poi nel mistero all'appa rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di Platone: due essere i mondi, uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del primo per via delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una semplice opinione di verosimiglianza.M a quando io penso che il vescovo d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena dal dubbio della nuova Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più riposte armonie della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non potersi nè anche sapere di saper niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in tal modo il vero assoluto e ammettendo soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema; e che finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale degli Empirici; allora son tratto ad attribuire a un pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice accor gimento d'Arcesilao.(Cic.,De Oratore,III,18.)Socrate opponendo all'orgoglio del sofista la modesta affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito, dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del c o s. E qui (si noti) consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche. Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è l'opposto dell'ente,e alle Matematicheealla Fisicaindagatrice de'fattinegònome di scienza. Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità riconoscendo necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella mente dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio dalla opinione al sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva dalle premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì disparati possa darsi attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello studio della materia; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Critica della conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.)  La quale non ancora matura e compiuta in Arcesilao si svolse nei successori, perchè,laddove il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade? Sì; perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del bene,abbattevaifondamenti dellamorale(Cic., De Rep., L. 1. Ritter,L. XI,Cap.VI.) 5.E ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria splendeva quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità umana,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da principj d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St. Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come fino dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni ne'linguaggi primitivj d’Italia; il che,se non prova che presso quei popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le cause del fatto; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti la tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle mollezze d'Affrica e d’Oriente. Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV. Non èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi, dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento; chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato, Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto apparentemente efficace di letteratura e di scienza ma  era 3   nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e deiTolomei.Tranne inRoma, dove fino allamorte d'Au gusto durarono potente incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio ed altri) doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo (come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei si stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale della coscienza e delle sue relazioni fanno seguire un esame monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi. Questo è il pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia; che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d'Evemero. Ma la nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie dottrine sulle principali teoriche della scienza; gli Accademici negavano soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e affermazioni i n fisica e d i n moral e, restringevano il soggetto della filosofia al problema del conoscimento; ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da questa al d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che non sono più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini dottissimi che unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era la storia;e da questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli eccessi della critica Kanziana pullularono gli Empirici Alemanni, l'Ecclettismo del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto contrario alle cagioni del male, dovea consistere segnatamente nel tornare ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli ebbe occasione e conforto dalle qualità dell'ingegno latino, mosso da antiche tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche, dallo stato politico e civile di Roma, e dal contrasto ai dubbj che laceravano la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o m a, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura, le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a compire la m a e stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale, condizionenecessariaal na scere della Filosofia. D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro la storia; la filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel paralogisma, e sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío della negazione universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel senso;i Platonici e iPeripatetici,come Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla nuova Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da un lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio, ci siamo allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione; m a il rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del filosofo nostro,i suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano all'Ortensio, appariva,come ben notailRitter,una straordinariapo vertà di speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava al buon uso dei m e  37   todi sperimentali; la morale per ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo Gadarense, contemporaneo e famigliare di CICERONE, testimoniarono anche una volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu lanensium Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle condizioni di civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose, mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto, il teorematico dal problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine; e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone, solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica sulla coscienza morale. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj, fa manifesta a chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili,iquali, se hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto,ipostulatiedilmetodo. La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa, sembra doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali, evidente e misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di Cicerone; entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza; l'Ateniese divino in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora cessato;più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di CICERONE. E nel vero quel principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal  D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in ARPINO di famiglia provinciale il terzo giorno di gennajo -- coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione), venne a Roma per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli e via alle cause del foro e al pubblico arringo, sono tempi di più profondi rivolgimenti civili, conseguenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la storia romana, la prevalenza degl’OTTIMATI sopra la plebe, la prevalenza di Roma sopra il resto di Italia e del mondo. Cantù, St. Univ. Già sin da quando tonò la prima volta nel foro la potente parola de’ Gracchi, un moto profondo in favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'e venne propagando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e coll'ampliarsi della potenza repubblicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà, mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle lotte d'independenza; ma il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio amoroso del vero l'efficacia della filosofia italica, che avea recato dal l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti.   zioni delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore dei delitti narrati. Sall., Catil. Quellacorruzione,profondanegli ordini civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degl’OTTIMATI che manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta. M a qui c'imbattiamo subito in una questione importante. Cicerone e egli soltanto condotto a filosofare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? Parecchi critici tra i quali Ritter, Degerando, e Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi chiamare “filosofo” vero esso che studia la filosofia come semplice istrumento dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli e stata fatta da taluni fra i contemporanei, quandoudiamo lui stesso, il testimone più autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera, io era maggiormente intento a filosofare -- De Nat. Deor. -- parole che potrebbero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso, se i primiindizj che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non mostrassero assai che il suo ingegno sivolse'sui principj, sui metodi e sui più ardui problemi della scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i romani contemporanei affettavano verso la filosofia relativistica di Carneade. Ma in Cicerone apparisce un sentimento vivo, e quasi direi religioso, dell'unità della scienza; poeta elegante e vigoroso, poi traduttore di cose filosofiche, udiva i più eccellenti m a e stri d'ogni filosofia, studia con Q. Mucio Scevola il giure, coi più autoreroli cittadini la scienza delle cose una causa, vedreino essere immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che come riformatore filosofo, come riformatore civile.   civili, la declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone Rodio, e Demetrio di Siria. Cic. Bruto, Forsyth, The life of M. T: Cicero, London. Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut.93,e pro Archia, V I), ch e a costituire il perfetto oratore non e su f ficientela destrezzaelacopiadella parola, ma bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involuto e comprensivo come una scienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.); concetto univer sale, che apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel de Inventione, dove parla delle virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva Ritter) l'oratore preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore, il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione di scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e per conseguenza più filosofico,che Ci cerone avea del sapere, al concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che rappresenta l'opinione dell'Autore, movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie scientifiche,e che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o, e conferma questa sentenza coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e del dire erano state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte. Lo stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di Platone; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di Cicerone una vera e pro pria unità di concetto. Considerando questo principio universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci (Tusc., De divin., De off., Ad f a m. ). Chi considerasse partitamente un solo di questi fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso; a lui l'inclinazione oratoria e l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della scienza coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli consigliavano le dottrine morali e civili come riforma dei costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi, è notevole in Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che si crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano i fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che Ritter e Bernhardy han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al punto in cui concepisce chiaro l'ordine scienziale. Il primo e più notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina, si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e civile.(V.Hort.,fram.,e specialmente il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia) Ora siffatto concetto involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel principio regolatore risiede; e poi perchè il vero relative alla vita,sebbene manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico; la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento logico degli scritti morali. Dove si scorge com'egli procedendo di passo in passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed uomo per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una specie d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i non dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal soggetto,disputata a lungo dai critici    e storici della Filosofia, durante il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come seguace della Nuova Acca demia, ponesse il dubbio universale a fondamento di scienza. Così opinò Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono Brucker, Degerando e Bernhardy. Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi assoluto d'Arcesilao e di Carneade. L’alemanno mostra invece con maggior verità come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei libri morali come a quel precetto apparentemente negativo dinon cercare che il probabile,edirattenerel'assenso,con trappongasempre,ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e sistematico, il dubbio di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza. Egli,prima d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato, e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria,non priva d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. “Nam quum animus cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque discesserit, volupta  sed Delphico deo tribueretur. Nam quiseipsenorit,primum. A questo proposito ci giova riferire le sue parole tolte da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi, dove egli stesso in propria persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. Ita fit (così il testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia riveduta da Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore Græco verbo “philosophia” nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius, nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini cuipiam, aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit, tantoque munere deorum semper dignum aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damque sapientiam, quoniam principiorerumomnium quasi adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit, quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se beatum fore temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, omnem que mortis dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem su sceperit, et exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda et reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo dici aut cogitari poterit beatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit, ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit, in hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ, diimmortales, quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa pientium cum improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint, quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum parens est educatrixque sapientia. De Leg. Qui s'espone a dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e si  continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le scuole m i gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò che antecede; 2o ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. Lo stato che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio, capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato dalcuore (animo acmente) ravvisi nell'intellezione prima (adumbrata intelligentia), un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. Ciò posto, si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo alla notizia di sè stesso e del mondo, notizia comprensiva ed universale che lo palesa inferiore soltanto a Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen dono due dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro: la eloquenza civile e l'arte dello stato. Tali erano per Cicerone i fondamenti, ed il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni umane e divine.Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice ne' Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen sardellagente.»(Proem.) E nelleseguentiparolede' Tu scolani si vede com’ei raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum ); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun altro    paresse dotto. E dice più oltre che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut Plato ait,donum, ut ego, inventio deorum? » Nel che s'accenna il principio divino della Sapienza e della tradizione.(Conti, St. della Filo sofia) 4. Se per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della filosofia egli mosse direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale del soggetto scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo più propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si ricongiunse agli scettici dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando Galileo Galilei tornando al vero metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale; più peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i peripatetici de'tempi suoi. Riassumendo il tutto in poche parole, Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con significato più largo: scienza delle cose divine ed umane e delle loro cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai filosofi che Cicerone diè prova di scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un sistema ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con essa   si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla materia delle dottrine contemporanee, e che componesse le verità antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto sistema, ha ragione la cri tica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio cri terio per l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore; chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo corrispondente all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, m a si svolge nella stessa opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta come il considerare in tal modo questa temperata efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio positivo di paragone e di scelta,in contrapposto alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria,anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione citata. E tale è il metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole pel nostro esame. In primo luogo, poichè solo per nostro avviso, il contrapporre Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per isceverare dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e ordinarle in forma di scienza, terremo l'uso   d'esporre ogni volta le principali opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il filosofo latino.In secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute scritte, e, come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle opinioni, e le nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una m a teria,oquandosoltantol'accenna (V.Degerando, Brucker, Kuehner, Middleton.) Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni Oeconomica Xenophontis,Protagoras ex Platone, Timæus de Universo (trad., come app. dal proem., dopo gl’Accademici; i libri vriginali, Hortensius de philosophia,Consolatio de luctu minuendo (scritta poco prima dei Tuscolani), De Gloria, Commentarius de virtutibus,Cato,sivelausM. Catonis, Deiure civili in urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica,De legibus(composti dopo il De republica), Paradoxa,Academicorum (ne fece due edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709),De finibus bonorum et malorum; Tusculanarum disputationum (compiti avanti la morte di Cesare), De natura Deorum, De Divinatione, De fato, De officiis, Cato major de senectute, Lelius de amicitia (scritto dopo il Catone maggiore av.gliOfficj);furono variamente distinti dai critici secondo la loro materia e la forma. Ritter li distinse in riposti ed in popolari, clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle dale dei libri di Cicerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita dell'Autore. Forsyth lo dice nato il 3 di gennaio, ma aggiunge in nota a p. 2, che, secondo il calendario Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre. In questo anno pongono la sua nascita Middleton, Kuehner ed altri autori meno recenti;onde seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, e le opere De Natura deorum, De Divinatione, De Fato, De Offi riis, Cato Vajor e Lælius; il Forsyth e l'edizione di Lipsia (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque trattati. Noi stiam o col critico di Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wir ceb.), stabilisce avervi speso Cicerone oltre a dieci anni, Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi e francesi, citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci, a cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine.  un fine pratico,ad esempio gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri tici, e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico o sistematico o tematico  dei libri coll'ordine di tempo, tra le opere fisiche – filosofia naturalis -- De natura Deorum, De divinatione, De fato, e il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche -- Academicorum, Topica, De inventione, etc. --, le morali – De finibus,Tusculanarum, Paradoxa, De legibus, De officiis, De republica, De senectute, De amicitia). Avvertendo che la distinzione non siprenda troppo assoluta, ma che si guardi alla qualità che prevale. Fonti secondarj, ma dausarsiconmolto riserbo, sono,secondo nota opportunamente Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e noi vi aggiungiamo le opere rettoriche, segnatamente il De Ora tore e l'Orator. La distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. Il prendere ad esame con quella larghezza e diligenza,che è necessaria alla critica istorica, le varie parti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze scientifiche; perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si trovi nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg gere alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m a altresì quella riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri sono, come ben nota Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato, dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale, sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstesso in attinenza colle cose con Dio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo, considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane, e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva sempre più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia, dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti. Due fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il mondo si pensa non più finito e tem poraneo, m a infinito ed eterno, e animata la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle Pittagoriche, nelle Eleatiche, in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre la fisica superioreeledottrinesuDio, sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima corruzione laGentilità, si rinnovarono esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia delle sette contemporanee nelle tre parti della    scienza,e volendo mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbio dellaNuova Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad.) D a quel luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italico spingendo all'eccesso l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio, ond'e'consigliavaun piùmodestosapere; mostravacome la notizia, che noi acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per indagare i fondamenti su cui posa laterra. Procedendo di questo passo l'Autore faceva vedere negli Accademici, nei Tusculani e nel libro della Natura degli Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza. Nei luoghi citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi, attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza, professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato, come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi dal verosimile al certo. Acad .prior.e De repub. M a la prova maggiore si è che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio nutrito dall'ingegno potente e dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane cose,proviamo un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso (così scrive Cicerone) che sidebbano tor via tali questioni dei fisici; poichè viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che supremamente è degno dell'uomo.» (Acad.prior., De fin.,IV,5). Innamo rato quindi della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie grossolane di Democrito e d'Epicuro . De fin. Loda Zenone perchè imitatore dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (De fin.); e i quesiti del l a fisica che lo mossero a tradurre il Timeo di Platone, gli avevan det tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione. De rep., De fin., Tuscul.  Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi sopraccitati,e da una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone: 1o che il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene bre del gentilesimononardisse determinarle; 2ache,ofosse la dottrina stoica a cui pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella natura egli sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica della sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente   e l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e degli Stoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato da Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza. Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli enti, e li governa volgendo l i a d un fine immortale, che ne è prima legge,in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine scienziale;e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unità assolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai provata dal metodo di Socrate, che movendo dalla coscienza produsse in Platone una compiuta armonia di sistema, e aiuto il filosofo latino, venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato. Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale fosseilpensierodell'oratorelatinointorno a Dio.Se dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure larispostach'egli dell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità, della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura; e il suo criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di universale consenso.(Kuehner. Scholten, Dissertatio philosophico-critica de philosophiæ ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed. In questo criterioioravvisoil riformatore e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali, il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra iquali anche Ritter,considerando ilmodo ora dubitativo, oradommaticoconcui Cicerone si esprimeinsif fatta dottrina, ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj scientifici. (Ritter, Hist., Brucker, Degerando.)    M a questi storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno. Alloralavocedel senso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione scientifica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee, nèintendiamo ch'e'fossesì fortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non s e m pre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese dall'ateismo; redi Bayle, Diz. Art.Spinoza).E veramente la conclusione Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato. Or qual eraquelfine? Chiamare scenderebbe di necessità dai principj, quando si potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino diprogressivosvolgimentonellaetà dellastoria;e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse sempre una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. Ma la cosa procede ben altri menti; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi seguaci d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un prodotto spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma logicale e il fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni notevolmente imperfetto; d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le tradizioni e le verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del Verbo quelle tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non può non ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza, l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e d'espressioni il con cetto di Dio; anzi dirò di più che tal concetto in parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione sempre m a g giore di quel concetto divino.   ad esame le principali opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente occasione e pericolo di scetticismo. Con questo intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta come essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e suo familiare e trovatolo insieme con C. Vellejo, che allora avevavoced'esserein Roma ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo, stoico da paragonarsi ai più prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali; vale a dire: se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero nelle cose del mondo e degliuomini. La qual spar tizione è conservata in appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici, contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature, pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto; il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltiplicando il divino, l'annienta; il materialista e l'idealista l’un o affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si vedevano dileguare il concetto di Dio  tra i fenomeni della materia, o lo perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel discorso di Vellejo (Lib.I, dal C. VIII al XXI).Po neva egli come certo che gli Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata notizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma non da materia corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini simili rin novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte,ammettevano contenuta nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura, divisibile, capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e m o vevano per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano. Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Crisippo, ci si presenta la questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono risolutamente, alcuni più recenti come Scholten, Kuehner e Ritter, con qualche riserbo. M a sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza comprenderlo a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati dal concetto che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del De natura Deorum, partecipassequividel tutto il dubbio fon damentale e sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente il complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio della Nuova Accademia, moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao, più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da Carneade, doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa contradizione, non però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi sostiene la parte di con futatorecol metodo della NuovaAccademia,èdato occa sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni, raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che, sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo (I. 14); e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza sui fondamenti della certezza morale. Il dubbio di Cicerone nel libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia, quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice evidenza. Questa è la ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune. Ora siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova Accademia, non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato, allora soltanto si dava in essi l'errore. Un tal criterio, sostan zialmente negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun criterio positivo e assoluto desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui posa incardinata la necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.)  Un si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di qualche Accademico che confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella conclusione del De Natura Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti, termina dicendo: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo (Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei, mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e  gli opoteva eglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio citato la dignità dell'umana mente,ilbisogno innegabile della religione consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli affetti dell'animo,isupremi principj della ragione e la libertà del volere (Tusc., d e Nat. Deor., De Leg., passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal cielo. De Leg. Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose. Il vero intendimento di Cicerone nello scrivere il De Natura Deorum fu,esporre e confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò sè stesso nella per sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; 3o Il filosofo latino volle significare nelle parole del proemio, e della conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un alto concetto, che quel concetto nella sua mente era certo di certezza naturale, m a che in mezzo alle tenebre del Ge n tilesimo e alla discordia dei dotti,non ardiva determinarlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso questo concetto. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa dalla riflessione, le va si al concepimento delle cose infinite. Ma il concetto dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però seb bene un intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo sofoe dell'uomo volgareitre concetti del finito, dell'infinito e del non definito, merita di essere considerata quella ragione qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico, indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente determinato e imper fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie logica di concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio,in un continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che, a dir così,sono e non sono ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola, evidentemente nel suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè necessario, non limiti di tempo, perchè eterno, non limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un lato è negativo nella sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un che fornito di limiti, dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto sussistente e determinato; l'indefinito che è propria mente l ' i po y dei greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere;nell'essenza c o m e astratta potenzialità del finito, nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai; e dico che è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito consiste nell'essere determinato come atto individuo e concreto, l'indefinito che nega quella indeterminatezza, si riduce ad una pretta astrazione mentale e per ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore. Ma tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito. C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la parte più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine si ri connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di tutti isistemi gentili, per quanto con nessi consottilissime prove, eanimatidaun intimo principio diidealità,siannidava pur sempre una ragione dimateria lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran formati dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei fenomeni della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle altezze più metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la prima causa del l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten zione al moto, e perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le trasformazioni della natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della materia,dall'una sostanza e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipanteisti, e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila, degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m a nifesta efficacia,l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica,apparisce chiaro quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad altre,senzaorigine essa stessa e perciò senza fine. De Rep., e Tusc. Questa è la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; uomo, è il divino esso pure che governa e muove il corpo come il divino principe, l'universo;sempiterno,immortale, rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le remi niscenze di Platone e degli Stoici; ma degli Stoici v'è poco; laonde io non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul concetto della spiritualità divina (Hist. de la phil. anc.); perchè, sebbene Cicerone volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.» (Ritter, Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia, acutamente accennata l'opinione contraria.)   inadeguata, io dico, perchè l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi libri popolari e speculativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene alla sua pienezza nelle dottrine morali. Un primo passo di questa ardita speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa affermar che ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si dimostra movendo dalla tra dal dizione degli antichi, tradizione efficace quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie, negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea, affermava con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo, che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo ond'ella è discesa. In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato il vero senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante;onde,sebbenetra cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre, scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza, e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro, quando se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto spirituale. Concedansi queste incertezze, da cui non anda assoluto neanche Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti principj si leva il filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un carcere; colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il noto argomento platonico tolto dall'eternità de'principj motori, e chiama plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli eterni esemplari. Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali; e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter concepire l'essenza dell'anima separata dal  corpo,essiche pur tanto poco conoscevano dell'initimo operare della materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano chiamarsi seguaci delle discipline speculativ e. (T u sc., Cf. Cato M., de Am. Meditando i capitoli della Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e qualche squarcio delle Orazioni (Miloniana), si vede in tutta la psicologia del nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota importante di questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza di Dio e delle sue perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su questa terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali sostanze non sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m prendere il presente; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura dell'anima è perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite nature distinta; talchè, qualunque esso sia, ciò che in noi sente e gusta,vive e si muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni cosa, e sè stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa natura è l'anima umana.» Con queste parole conchiude Cicerone nel primo dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello, levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica del concetto, sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e la ventunesima del libro VI, ad Diversos)de    Principio etherio flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat, Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul. De Divin. dussero ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente Gautier de Sibert nell'Accademia di Francia,e Kuehner piùtardiloconfermava.Delresto per ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario, immutabile,e qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia: Oratornandoalla dottrinateologica, questosegregare la mente dell'uomo da ogni natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M. Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare sipossano arrecare due cause;l'una comune allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina la divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del panteismo quella che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la medesimezza dell'anima e di Dio infi niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto d'attinenza creatrice.(Vedi Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj ondeggiava di continuo da un termine all'altro di quella contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e la libertà dell'essere umano. (De Leg., Fin., Tusc., N. D., Catil., pro Marcello, ad Att., ad Div. Certo s'egli non fosse nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle età trapassate, (Conf.) ha tratto dalla notizia di Dio creatore un concetto chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo De Natura Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni divine. Esclusa la teorica del congiungimento tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal relativo. M a la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole pratica e positiva del politico e del cittadino; laonde egli la c o m battè acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo, che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro secondo; e quel dialogo è di somma importanza nella storia delle credenze umane,perchè trattando la gran questione del soprannaturale agitata ai tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio, console,  scritto, insieme coi due libri della Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile,menava al lora (come oggi) alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato (detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che da questa dottrina condotta alle ultime conseguenze, uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa. Che cos'è la libera volontà?  salità poi non dee intendersi costituita dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa;lacail   Stoici dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge della n a tura dall'operare dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè la causa di tutto ciò è la sua stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire qual fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè il libro De Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone. Nelle quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana, come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di Socrate,e sciolto,per quanto erapossibileallora, dallecondizionielimitazionidell'uomo, la natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento morale e di costumi nefandi. Su  questi principj fondava l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene Vannucci) « nella Divinazione ed altrove, allontanandosi dalle forme timide della Nuova Accademia con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle imposture sacerdotali; » Senatore e console di R o m a, egli voleva una fede ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse vero fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere, o della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa, ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare; l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini. È un fatto omai noto nella storia della filosofia come il quesito fondamentale della logica, qual sia la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono due scuole; il Criticismo francese e alemanno, e il Criticismo cristiano, che cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse sostanzialmente nei principj ontologici del sistema, dissentono pure nella logica. La prima desumendo le sue dottrine dal panteismo e dualismo antico, resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del Gentilesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura intercede tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e l'oggetto, e quell'attinenza ode naturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza, o riduce a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua litàdell'esteso elequalità del pensiero, d'onde il sistema delle cause occasionali del Malebranche, quello dell'armonia prestabilita del Leibnitz e lo scetticismo di Bayle e Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti creati. Or che si deduce da c i ò? Che se il principio del Criticismo, ond'è ridotto a problema il teorema della conoscenza, ha un intimo riscontro nei fondamenti della dottrina dell'essere, e i si. Ma qui cade per altro una considerazione importante. Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione del soggetto su cui cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice. Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si chiudono la via ad affermare intera la notizia dell'essere umano, denaturano il legame che intercede tra l'ideale e il reale, e rendono impossibile la psicologia, ingannatrice la logica. Un breveaccenno di questa legge necessaria che si riscontra nella storia delle controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei sistemi principali che apparvero dal primo scadere della scuola socratica fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato da noi come a n dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e dalle dottrine logiche della Nuova Accademia. Ora poi stemi che alterarono questa dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo deve essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India, d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila,gl'idoletti diDemocrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di Lucrezio.  ci sia permesso venire su questo proposito a maggior particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di Tullio dove conviene esaminare la controversia tra gli Stoici e l’Accademia sulle dottrine del conosci mento,rappresentatada luineilibriAccademici,importa massimamente il notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito, il sistema d'Epicuro e le dottrine dell’Accademia, non che lo scetti cismo e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco,che non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo universali, causa delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed inanimate le fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici dall'unità dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale, il pensiero cogl’oggetti, l'intendimento col senso. Considerato inquestegeneralità il sistema di Zenoneabbraccia tutto intero il complesso dei veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi, il divino e materia, anima e corpo,intelletto e senso, pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia. Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia, concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta in quella forza primitiva e in Dio stesso, che la pone in atto, le qualità corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il sensismo in psicologia; quindi,giàloaccennammo,alterato ilvero concettodi potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici, si nascondeva per fermo una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile  93   a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio essere in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali, ti doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile, oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del falso, facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre difetto) germinava quello dell’Accademia. Chè, se fu cattivo abito della riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu pessimo nella Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero vuoto,fenomenale, apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento. Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi, la polemica tra gli Stoici e la Accademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva.  94 Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta in fondo la lotta di tutti i tempi tra ildommatismo inconseguente e lo scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af fermative con altre assolutamente inquisitive era, come   dei nostri, un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice, dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto facili ai propositi gene rosi,quanto difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza; politici predicanti la severità antica nelle m o l lezze moderne; uomini a cui mancava la lena di levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra con animo non preoccupato, e poi non imiti il Cousin, che dall'accozzo fortuito degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di compirle ambedue colla pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio, Catulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e Cicerone. Lucullo sostiene le parti d'Antioco, del Portico, contro Filone, dell’Accademia. Tullio quelle di Filone contro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e quali i punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento? Qui occorre ridurci a memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua Storia della filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina sulle fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi, quando nota la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero razionale alla sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le quali si o p p o nevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero. Ritter. L'osservazione di Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio del l'età e il decadimento della forma e della materia scienti fica li inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la scienza; dall'altro la tradi zione socratica e la voce non muta del senso comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà dell'animo e i termini loro, e a rendere p o s sibilmente perfetta la forma scienziale; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora che ne veniva da ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione, fondamenti primi di tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn), ch'è un patire dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito, dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui, giova il ripeterlo, stave la fallacia dell'argomento; gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione, l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della scienza.Ma ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza. Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e da principj indubitabili ed evidenti -- Acad. Quindi la necessità di mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera; secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim habeat quam intendita deaquibus movetur. Da questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici,  [La prima parte cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del soggetto conoscitore. Posta in tal modo la questione, è chiaro che poichè il mezzo di passaggio del vero conosciuto dalla cosa, occasione del sentimento, alle potenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè: 1°,dato che i sensi siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso coll'esercizio e coll'arte aumen tarnemirabilmente laforza; 2°,ilsensoèdimostratovero ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io, diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile, questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. Ma Filone invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto, poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione de'sensi, dal germe del conoscimento spunta  98 il ragionamento d’Antioco si dirama in due capi: della percezione e dell'assenso. Il ragionamento di Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove l'umano intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se poi si volge ad aspettare la risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si fonda in special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti. Cicerone non sostiene egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere seguace della riforma il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua natura l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento,lanegazione dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento. Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura, ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»).   introdotta da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia, s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica, seguitò il dubbio dell’Accademia.(Brucker, Degerando, Bernhardy, Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel cap.Idi questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle consuetudini; bisogna immaginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci duole a confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie opere, ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che forse non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della dialettica di Tullio, sebbene non n e ghi che il filosofo latino si leva al concetto dei principj e delle idee universali, cardine dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza, e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti. Hist. Ma inprimo luogo, oltrechè Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato essenzialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto spirituale col vero -- De Fin. -- è poi esattaabbastanza l'asserzione di Ritter, checioèiprincipj fondamentali della sua filosofia naturale lo conducessero alledottrinelogicheperviadellasensibilità? Sefosselecito affermare risoluto contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointanta corruzionedi tempi) aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il dualismo semipanteistico da un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali, segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e da Tullio,rompeva l'attinenza tra il pensiero e I pensati, tra l'ideale e il reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava colla moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli avversarj. Qual era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la conosciamo;era l'eterna differenza che corre tra il sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza. Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici dal porre ch'essi face vano il conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 – “adsentio” -- e della 2.zténnyes – “comprehension” -- , movendo come da suo principio dalla suurusis, o rappresentazione sensibile – il “visum”. (Ritter; Cic.,Acad.). Ma, seconsideriamo meglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo della questione sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia; perchè,come os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della facoltàintellettivaeap petitiva il vero ed il bene; laddove gli Stoici susseguenti, al numero de'quali appartiene Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una grave difficoltà rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Crisippo. Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle potenze spirituali. Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti, vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile  [Il sistema cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e il termine materiale? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone, essi furono assai meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare la certezza delle umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del fenomeno sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come veretuttelepercezioni,ma soloquelle che presentavano in sè l'evidenza della cosa percetta, nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del senso, si chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei ragionamenti sofistici. Acad. -- germi immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel libro Contra Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj, ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace, d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana, ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla Accademia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci han serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea, nè per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in proposizioni (Asztóv). Distingueno quindi due specie di vero; il sensibile contenuto nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in tellezioni della mente,questo procedente da quello e a quello correlativo; volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj in cui cade la scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Accademia recava alle ultime loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica; dal principio del sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della percezione sen sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare la realtà del pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti) la dialettica non potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte, I Positivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della rifles sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova Accademia. Ac. Costituita dunque in questi termini, la controversia sulle fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito. Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les Stoïciens,en admettant la possibilité de saisir quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage; ils regardaient, au contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir véritable à tout le monde. Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir; mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas faire disparaître la différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain. C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude. On voit bien que cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale.Il avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor., vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il fondamento della teoria tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero; e qui, segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata verosimiglianza ne’ casi particolari, combattè gli uni e gli altri rigettando il dubbio assoluto sui principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off, De Div.,De Nat.Deor., Acad. La sua psicologia in quelle parti che si collega alla logica, sebbene qua e là infetta del dualismo socratico, fa fede com'egli emendasse il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione dell'animo -- Tuscul. Nell'animo distingueva la ragione dal senso;la ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u  tabile dei sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi soltanto può introdursi l'errore. De Leg., Tusc., Ac. Così col metodo induttivo di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono signifi cativi, Cicerone divide la logica in inventiva e giudica trice, la prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda li dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele quale più tardisimo dificòne gli StoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni Giuseppe Klein. (Bonnae) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio) di fare un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali, apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava a conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla  IV. natura, presupposto indispensabile della scienza; chè la riflessione posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai primordj della vita vege tativa e animale,manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su su agli inizj della vita razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo splen dore della conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine, legge; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia della coscienza, costituiscono l'ordito dell'Etica, allaquale, considerata per questo rispetto come scienza direttrice della più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici della filosofia. La Fisica, come la intendeno gl’antichi, la quale meditando il principio primo dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature. La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti eminentemente morali in quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della loro natura; dal l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la sanzione di quella legge,la quale osservando si sente capace d’immortali destini. Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius di natura si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra scienza meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura in telligibile e sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino, e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Serbatti. Considerate le quali cose, se alcuno mi domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca dere di costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj segnalati nelle Indie, in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti della medesima specie, che essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e civili, e infine la notevole differenza che corre fra l'apprensione astratta del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di rinnovamento, rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni, attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da selce,i principj della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche. M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista la civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione, era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano i germi. E i   germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di Roma, i Giureconsulti e le sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle scuole socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi egli mirando componeva il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai gne. M a il Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese, cercava forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo tra i bruti; Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio, per costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi. Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi, si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali, estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. U n a parte è teoretica e principalmente speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle tendenze n a    turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo (Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva; soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel filosofo nostro da quella del Dovere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. Ponendo mano impertanto all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla dottrinadeiFini, trattata ex professo, e con intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi.  Thorbecke in una sua dotta dissertazione universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito l'autorità stessa del nostro oratore, che più volte nelle sue opere, e segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce ilfondamento delle dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come  [Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma, consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà, tralasciando le altre, nell'offrire come opera compiuta del vero e di Dio un informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La quale avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia trovarono anche in questa parte della m o  [ termini identici d'una stessa relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura, comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della famiglia, come individuo e come membro della civil società.   rale di Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo. Ritter, Brucker. A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in mano le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore, argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il consolare L. M. Torquato, M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso Tuscolo,e in fine all'ombra silenziosa deplatani nell'Accademia d'Atene. Per cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza, manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri del corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo, riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo disentimento,ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in un'assemblea di matrone. De fin., De off. Tali sono gli argomenti, tolti altresì dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di rimando contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua risposta a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame del l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini, del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori dell'affrettata rovina di Roma. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri,in cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè mai v'è tanta contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? Ma badi, risponde Cicerone, che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere! Questo intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei filosofi, avea per Cicerone il valore di una prova scientifica, come testimo nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo, e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati solenni e infallibili del senso comune. Sennonchè, mentre nel secondo libro de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con   futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa dall'autorità e dalle parole di Catone Uticense.E invero,qualunquevolta a mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita, varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio avea fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura. Πρώτος ο Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio; e in quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo notammo più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso, nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose che sono secondo natura. Laonde dal concetto del bene come d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a sè stesso, venne poi il concetto della virtù, al quale il filosofo del Portico saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi dicevano, avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo l'infanzia, che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime inclina zioni della natura move il principio dell'operare, ma non però quelle cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era vero in parte, ma nel l'esagerarlo sta il vizio fondamentale della morale del Portico; l'esagerazione poi consisteva in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso, niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita privata o civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli affetti, onde il libero volere o è condotto o conduce; nel porre in petto al sapiente quella virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera più addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della virtù ci p a lesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse il secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi, colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro terzo; Kuehner e Thorbecke passim.)    Esponendo e confutando i principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico colle necessità e cogli usi della vita civile, procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da un metodo rigoroso d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico delle dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto; nè sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero a Kuehner, qualorasipensiche Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro lo stoico, e che inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame di lui sulle dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova di ciò Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio s'erano formati gli Stoici, e su cui fondano la morale, vi scopre il principio d'ogni lor paradosso, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo; poichè, se da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto intendimento civile, ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna che turbasse la tranquillità del suo spirito. Ritter, Morale des Stoïciens, Questa era un'ambiziosa ostentazione del sommo bene, così la chiama ilnostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a poi,avendo fatto nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse unica parte della umana persona. E qui è notevole davvero come ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma procedepiùinnanzi, indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto, l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata la statua per ridurla poi a compimento colla virtù del proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo instituere signum idque perficere, potest ab alio inchoatum accipere et absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa genuit hominem,sed accepit a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum ingenii quemdam, id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere: rationis enim perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa, valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse occu patum, alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant, quod sitextra nostram potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa prætermittentium, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta sententia. Atveroillaperfectaatqueplena eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque corporis partem vacuam tutela reliquerunt.»  Questa bella dimostrazione, che il Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio, e che trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge dell'universo, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva il Romano lascienzacome un ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa, era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica, intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze, a un tratto le abbandona per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura dell'uomo contraddiceva. Cf. De legibus. Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò consegue che la misura per determinare la bontà del metodo d'una scuola, e il suo avanzare o allontanarsi dall'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole successive dal principale istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il principio della morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è noto quale fosse la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo ateniese dava a quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il sentimento della perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie pitta goriche,traesse lui,uomo di smisurato intelletto, a im maginare la virtù costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento delle istituzioni civili tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento del bene assoluto non potersi dare q u a g g i ù, perchè il bene assoluto è l'ente i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beatitudine eterna (Quo i w s i s Sew. De rep. e Thea et. ). Aristotele, ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in cui, perduto il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice avviamento all'azione, della politica la parte principalissima della sua morale. Il concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle   dottrine del figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato; Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica; Aristotele lo ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo solo far notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due scuole, non già determinare una essenziale diver sità nei fondamenti della morale. Chè la pienezza dell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema, ne combatterono il metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente si comprende come il pensiero dell'oratore latino sulla teorica del bene morale, considerato sotto il rispetto o semplicemente speculativo, sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e sofistiche,  ai veri supremicostituenti la scienza. Da que ste considerazioni esce anche nuova luce sull’intendimento a cui mira il libro De finibus. Quest'opera è di una singolare importanza per la storia della scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria;pose cioè più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando il Socrate del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo libro confutava Epicuro mostrando quant  fosse difettivo il suo principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del principio spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Accademia e del Peripato. Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della vita intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli altrianimali,simuta inconoscimento; vis'insegna come debba la filosofia tener conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio. Vedi riassunto e citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di G. R. Thorbecke, e in quella di Kuehner, Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto di tutto il trattato l'importante dissertazione di Hinkel: De variis formis doctrine moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem, earumque cum cæterarum scho larum placitis comparatione. Marburgi Cattorum). Il concetto scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella dottrina, e unificando in un termine superiore, che era l'integrità del soggetto umano, le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica Accademia e col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se condasse talvolta gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva un argine saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal criterio, i libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono informati da un solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della vita con fine immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio le Questioni Tusculane, e il libro dei Paradossi. Manifestano un fine positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a studj più generosi; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in ciascuna a ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici le virtù dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel Proemio)  illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue opinioni coi principali sistemi contemporanei. Da quindi innanzi procederemo con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte della sua filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto romano.  mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai dalla scienza, potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia senza metodo più ragione i problemi e le controversie. Ma con si governa sicuro, e con più evidenti da sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice. Forse perchè in quella oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj morale di Cicerone la parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che per rispetto del della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge e del dovere. E proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto dall'esame e conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al concetto idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M. Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il sensibile,e passa principj morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote della scienza morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene attribuire quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj dei commentatori e dei filosofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile, applicandovi l'esempio di Roma e i larghi principj della Giurisprudenza e del d i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare, più acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via di rigorose indagini speculative. Ma niente è più contrario a questa opinione quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: « quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione, non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo, non debbo lasciare indietro come dal 490, età della prima guerra cartaginese, al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale, dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in forma di scienza; non già che molte massime generali delle XII tavole e dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone, si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti, che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con universalità di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone scriveva la Topica,eaRoma epertuttoildominiodella repubblica s'era da un pezzo largamente propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di Cicerone,vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi nel libro De claris oratoribus ; e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due rispetti    nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle coseumane.Da questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni degli uomini. Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo Cicerone, per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico savio, che pone a fondamento di sapienza il conoscer sè stesso. Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole, e va persuaso che la società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io lo citai augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino porgesse materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo luogo da annoverarsi l'incertezza del vero senso del giure per la moltiplicità delle massime,deglieditti, delle leggi,degl'interpretanti, onde spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del sofisma. Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj, gl'intelletti più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della realità oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi, e dettò le pagine più eloquenti di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo che quell'impero è universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al si stema della scuola critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo facemmo espressa menzione del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in un paragone per certo singolare e inaspettato delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine del Cartesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello scetticismo di Hume, Kant i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione fran cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina, oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta. Per Kant (osserva giustamente Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima, onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita (perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea. Cotal dovere e cotale legislazione assoluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano subbietto, appare nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che negli Stoici antichi e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere umano e la vita civile più che altra disciplina quale che sia. » Confessioni. Tale è pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli, seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia mediocremente versato nella storia della nostra scienza che l'oratore roman o, il quale rifiuta nel libro De finibus la parte soggettiva della morale del Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza ai beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e coll'effi]  [Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro De legibus, fu una ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj, più tardi usciti a fondamento della sapienza cristiana.cacia trascendente di quella virtù onde si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione assoluta che in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova di non lieve importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri fisici e morali del filosofo nostro.In quelli egli dubita il più delle volte,e,meno che nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel libro delle Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto del divino sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze. L'indagine tulliana della leggesuprema pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto nella perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans, sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid  una   licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit unusque erit communis quasi magisteret imperator omnium deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si cætera supplicia, quæ putantur, effugerit. De Repub. -- riportato da Lattanzio Instit.div. – Stupenda definizione èquestadel principio regolatore degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj dell'Etica romana. Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche; siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo nella ragione informatrice del sistema di Kant, e degli altri critici e razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della filosofia de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto morale assoluto dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire per necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile, necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo; egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore, solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla vita. L'uomo dunque è primitivamente simile a Dio; similitudine che può vedersi dal fine a che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento allascienza:Diede anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente scolpita l'effigie dell'animo. Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva) singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo della Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine politiche: « est igitur respublica]  [Il cardine della morale di Cicerone posa dunque manifestamente in questa dottrina della legge, il cui merito insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del nostro ora tore è tanto più manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili opinioni. La qual cosa, mentre è una prova di più per mostrare come l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv visamente la dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. Ma innanzi tutto noi d o m a n diamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni, quando esaminava quella controversia da parte dell'umano  res populi; populus autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge assoluta e soprammondana. cætus 1 soggetto, affermò nella vita presente non pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo e perfezionando ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono e dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario, l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto della dottrina sul buono. La diligente esposizione impresa da noi degli scritti del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali, e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle speculazioni più remote intorno al vero ed al buono. Premesse queste osservazioni, veniamo ora alla parte   positiva dell’Etica tulliana, nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero incondizionato che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente stretto all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio dunque (così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della virtù all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio comune,o medio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse scientificamente l'officio. Il Manuzio e il Facciolati difesero Cicerone; il Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e il Grysar avvisavano avere Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare espressamente nel suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de Stoic. doctrin. mor.ad Cic. libr.De off.,1, Kuehner. Fran. Binkes, Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq., Prolegomena ad Cic .libr. De Off. scripsit, Grysar, Köln). Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima che cosa è il bene nell'umano soggetto (De finibus), si leva alla nozione oggettiva di legge (De legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis, De republica, De amicitia, De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura dell'uomo,ma l'intendimento primo a   La gentilezza degli Attici educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava all'invisibile bellezza degli animi. Ma in Rom a dove ogni istituzione fu vôlta sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato, e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli Officj la conside  148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to nava per l'ultima volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di Roma. Tale è la dottrina del decoro (Tpétrov), esposta nel capitolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici: crcpovovaysoró 2.016; il solo buono è bello, collepa role: quod honestum sit,id solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si spiega assai facilmente ricorrendo alla Storia.   rava in un rispetto quasi esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis, mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino segue liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj, adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè dee far maraviglia che fosse cosìa chi consideri come il disgiungersi della morale dalla scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e che tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori. Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il filosofo latino alle attinenze della umana   morale colle altre scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine, desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra Cicerone citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge. La qual cosa apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al metodo di Cicerone, che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti pagando, nè restituiva il danaro; e prorompe con mobile sdegno: p i r a tarum enim melior fides quam senatus! Il De officiis accolto nelle scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato per la prima volta a Magonza, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo trattato, che Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della letteratura latina, » fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze morali e politiche di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro De officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al critico francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che risguarda i doveri verso il divino, la famiglia e noi stessi, e rappresentò il De officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della carità universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande rinnovamento dell'evangelo. Dai principj della filosofia civile e dai precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato. Questafuesposta da Ciceronenel De republica,giudicato universalmente dai critici come una delle opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi avea diffuse largamente le memorie della antichità greca, le grazie severe dell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno dell’Ateniese, poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.   Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera, spartita in sei libri, e condotta con larga unità di disegno, il grande oratore imitò Platone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera non solo utile alle lettere, ma vantaggiosaallapatriae alle più lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande esempio di Roma. L a dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma.  Da queste premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa sull'immortalità. E qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel problema una vera e compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia sui destini dell'anima i panteisti  [La quale, mentre ha bisogno per disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj uni versali della natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo razionale, si opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe culazione col senno civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio più fermo le armonie delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo avea condotto a creare la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori, li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica fonda mento della scienza civile. Ma a tali  prove di ragione e difatto altreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata alla patria nelle scienze,nelle lettere, nelle arti, nei pubblici negozj, li raccomanda alla riconoscenza di Roma. Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto, e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il ritorno della virtù e degli antichi costumi. Più tardi le sventure della patria lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati, e l'abito di conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno dell’Affricano e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio, connaturato nell'uomo, del divino e dell'assoluto.] e nel Catone Maggiore, dov'egli imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean preceduto, e si consolava di speranze immortali.  Un'altra occasione, opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie. Schneider ne ragionava in un saggio dove suppose Cicerone avere trattato a lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come apparisce in gran parte dal primo libro delle Tuscolane. La quale supposizione, che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo. Può sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo esameeapiùimparzialigiudizj. Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata come norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle opere di Cicerone. E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e di buono, che si trova sempre in ogni sistema, mentre costituisce un pregio capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola, e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filosofia tanto riguardosa e modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare famigliarmente in mezzo agli uomini.” (Mamiani). Tale è l'indole vera della filosofia di Marco Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle innovazioni, e giudicano   Marco Tullio una povera mente perchè dice egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri, ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali, concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle, vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima Cicerone adunque può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a ragione come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi, e perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla barbarie degli uomini. Ma d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e, sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il contingente e il necessario, la natura e il divino, l'esistenza del divino, dell'universo e dell'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle spirituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della] filosofia [nelle storie che la critica degli antichi scrittori, segnatamente per opera degli Alessandrini, fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de' Greci, da cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi scritti ai più culti ingegni di Roma.]  ragione, il libero arbitrio e l'immortalità. In Logica tenne salda la capacità del conoscimento a cogliere il vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune ricom pose  il sistema perfetto di quellascienza,e salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle verità fontali, contenute nella coscienza del genere uma n o e nei piùnobiliaffetti, aquest'uomo,parmi, non sipossanegare il nome di filosofo grande. L'indagine dei dommi primitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli voleva in Cicerone un ingegno forte e addestrato a meditare, e un uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio le Orazioni, l’Epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo e il quinto dei Fini e il proemio delle Leggi; che esposti senza preoc cupazione rettificherebbero d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi libri, e mostrerebbero com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie età, nelle diseguaglianze de'sessi, degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare. Parecchj critici di Cicerone, e segnatamente quelli che gli negano ogni facoltà d'ingegno speculativo, non hanno inoltre considerato qual uso ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo dalla coscienza, contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla coscienza; e questo fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta che egli prende a trattare importanti materie morali, non può mai andare disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno speculativo, e quella rara felicità degli ardimenti metafisici, che hanno Socrate, Platone, Aristotele tra gli antichi,e tra imoderni Cartesio, Emanuele Kant e Vico. Il suo ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra gionescientificacolsensocomune, e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere    alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano. Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle speculazioni dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta dini innamorati della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un ordine di pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta la scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « Difficile est in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.»  Noi dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a prendere in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso. Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo M. Terenzio Varrone suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien 11   tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche in una età in cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e della patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto credere e del tutto negare; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e dello stato romano si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto del divino, che pose nell'umana ragione,a testimonianza di sè stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col De legibus e col De officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica, e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della vecchiezza. Esaminando nella successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy (il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il dialogo delle Leggi.  Ma il por mente a questa unità informatrice delle dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo delle scuole particolari si risolvesse inun criterio intrinseco di ragione. Quistail divario essenziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici. L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine senz'armonia e senz'accordo. La verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali, apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva Kuehner, che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli dal greco, trasportando liberamente in latino, tanto (come egli stesso ci avverte nell'operetta “De optimo genere oratorum”) da serbare il colorito e la forza nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui principalmente un solo autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto perfettamente connesso ed armonizzato. Quindi,prosegue Kuehner,è necessario al critico di Cicerone avvertire con diligenza gli scrittori da lui citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture assennate e prudenti.  Esposte queste norme più generali di critica, noi non seguiremo più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti originali andarono perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo nella disputa sull'immortalità,seguì princi palmente Platone; nei libri logici e nella questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia; nei libri morali poi, discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che risguarda le dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie politi che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e Polibio. L a qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente; poichè, a considerare bene il metodo con cui egli compose i varj sistemi, si vede che, sebbene in più luoghi attinse separatamente dagli Stoici e da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe rare l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner: « Negari quidem non potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse; sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum ipse iis adjunxit judicium, suum scribendi ordinem,viam rationemque atque orationis lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philosophorum monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis, ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant saluberrimam.” Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole,non fu nè Stoico,nè Accademico, nè Peripatetico, ma fu vero Socratico con libertà di riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura; non chiuse tutta la scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente dell’Ateniese, la cui efficacia dura da ventiquattro secoli nell'indirizzo delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella storia della filosofia. Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo romano, ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del perfetto. La gente romana, sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero esteso a due terzi del mondo, e il vivere agiato, e la necessità di allontanare il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i Romani agli studj della filosofia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col facile diletto dell'imitazione. Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgilio, e che sappiamo esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era la servitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo, procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto. Amafinio e Rabirio epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tuscolane e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in modo informe ed incolto. Più tardi Tito LUCREZIO Caro esponeva splendidamente nelpoema De rerum natura la filosofia d'Epicuro; ma tutti questi scrittori, dei quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter, assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata, e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento ch'egli ha fra mano, il meno acconcio a compirla. Perchè non si trattava già d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il linguaggio latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a rola, come figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse, docti et intelligentis viri -- De fin. -- seguì uno stile che fosse egualmente lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj chiamò æquabile et temperatum. L'ingegno universale e comprensivo di Cicerone apparisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto in Roma, dove facevano capo le faccende d'Italia e del mondo, tollerante per natura delle altrui opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio. Intorno allo stile filosofico di Cicerone scrive con molta dottrina Ferrucci, in un suo discorso “De singolari meriti di Cicerone nella lingua ed eloquenza latina, edito recentemente in Pisa coi tipi del Nistri. La severità della meditazione scientifica è in lui sempre solenne, ma variamente temperata dall'indole del soggetto. E sobrio l'uso delle metafore. Il periodo procede ora maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a sconda della materia, e talvolta, come negli Accademici, imita il linguaggio familiare, talaltra, come nelle Tuscolane, sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti, osserverebbe potersi queste distin guere in più classi, modernamente in più manière, corrispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrive. Il “De republica” e il “De legibus”, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente occupato nei negozj pubblici e del foro, hanno più del carattere oratorio. “Gli Accademici”, il “De finibus”, il “De natura deorum”, scritti poco prima la morte di Cesare, palesano uno studio deliberato, continuo della severa forma speculativa; laddove nel “De officiis”, nel “Cato Major” e nel “De amicitial” t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari o avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore di Platone, ch'egli chiama il divino dei filosofi, lo segue non soltanto nella forma estrinseca de' suoi trattati, e nel metodo del dialogizzare, ma improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni delle lettere antiche imparziale che fa delle dottrine contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale d'osservazione, e quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti romane, in lui straordinario. Cresciuto intempi funesti alla libertà, e testimone di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare delle civili discordie applica dì e notte con ardore inestimabile ad ogni generazione di studj. Più tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla pratica del fôro, si reca in Grecia, dove udì le scuole migliori, peragra tutta l'Asia, si trattenne a Rodi, e torna in patria ammaestrato da una larga notizia d’uomini e di cose,e dalla famigliarità coi più pre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj dell'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi pensieri. Nella ragione intima dell'arte sua cirimane occulta, qualora si consideri nel “De oratore”, nel “Bruto” e nell'”Orator” il significato vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del “De oratore”, e meglio in quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come uomo di stato, egli vagheggiò la carità universale del genere umano, e ne scrisse mirabili parole negli “Offici” e nelle “Leggi.” Giovane ancora, patrocinando la causa di una donna Aretina, giustifica le pretensioni delle città italiane alla cittadinanza romana. Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina, salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della fazione plebea.Come avvocato e come oratore politico (così scrive di lui Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di più bello a Roma. Per giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo stile latino. Ricerca i modelli più famosi dell'eloquenza romana,svolse i Greci,ne tradusse per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi, si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi scritti didattici.» (Studi storici e morali sulla letteratura latina, Firenze, Le Monnier) Non è dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche, e tornando ai fondamenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame unitivo che desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione scientifica. Se in lui dopo l'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e studio con amore,quale un perfetto monumento di sapienza civile ,non gli tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del popolo che spesso trascorreva in licenza, l'abuso dell'autorità ne'patrizj, le guerre volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj, idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede, era un vero attentato alle basi della società civile. Dalla critica meno benigna si allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i principj della giustizia e della moralità lodando il tirannicidio, tentando giustificare col titolo della civiltà il primato oppressivo dei Romani sulle altre nazioni, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose conquiste; e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto, l'ha in parte giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen, furono non ha guari saviamente temperati in un bel saggio di Forsyth, venuto alla  luce in Londra, e di cui abbiam veduta quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non sem pre fu pari agli avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella di Pompeo, bisogna considerare quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e nella santità dei costumi civili il principio tutelare delle libere istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede sublimità vera alle sue dottrine morali; e ci spiega come nei libri degli Officj, della Repubblica e delle Leggi egli desunse i principj fondamentali della filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla giustizia assoluta, nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato, nel possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra e di pace. Tale pure è l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'Duc Mondi. Corre adesso in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori latini.Invero gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. Ma tal difetto venne largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si esaminò solo per negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in Germania il Bernhardy e il Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue   dottrine morali e della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e filosofica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e apprezzate, e la natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio solenne, ci apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la coscienza dei popoli antichi.Giacomo Barzellotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Basilide – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Member of the Porch. A teacher of Antonino

 

Grice e Basilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studied philosophy alongside the future emperor Giuliano.

 

Grice e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Aufidio Basso. According to Seneca, Basso was a follower of the philosophy of The Garden, who bore witness to his school’s teachings in the way he coped with coped with prolonged ill health.

 

Grice e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tito Avianio Basso Polieno. A member of the Porch.

 

Grice e Bataces – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. A pupil of Carneade.

 

Grice e Battaglia – valori italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo italiano. Grice: “You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot play in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A is worth B.’  -- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’”  Grice: “When I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di studi.  Si laurea con una tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la cattedra nella medesima disciplina.  Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente approdo allo spiritualismo.  Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale".  Altre opere:“Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto” (La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti: testi, lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (Istituto Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30 ottobre 1987), Nicola Matteucci e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB, A cent'anni dalla nascita, Bologna, Baiesi,  Dal filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13 maggio 1990), Giuseppe Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia italiana, in «Storia della Filosofia»,   (La filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini, Vallardi, Milano, Marchello, Felice Battaglia, Edizioni di Filosofia, Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe di Scienze Morali, Rendiconti, (ora rifuso in Id., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna, Polato, «BATTAGLIA, Felice» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scerbo, Felice Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de Battaglia. Felice Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona,  A. Anzalone, Felice Battaglia. Per una teoria giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte,  (290 ). A. Anzalone, Las aparentes contradicciones de la filosofía jurídica y política de Felice Battaglia, in «Studi in onore di Augusto Sinagra»,  VMiscellanea, Aracne, Roma,,  A. Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”, Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», Número 5, SFD, Córdoba,,  11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino, Onorificenze Dottore honoris causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiananastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana — Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, Università degli Studi di Bologna, fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici  (JPG), Bologna, Tipografia Compositori, 195419.  Dettaglio decorato, Presidenza della Repubblica. 27 giugno.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica cura di Battaglia L'opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO - Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES & C. Torino. R. BEMPORAD & Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè stessa nella sua storia. Il processo unitario. L'erudizione: Muratori. La filosofia: Vico. Antitesi al cartesianismo. Esperienza filologica. Italianismo di Vico. De antiquissima italorum sapientia. Vico impersona la nuova tradizione. A lui si ricollega  Cuoco. La fortuna di Vico nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. Cuoco e i suoi studiosi. La rivoluzione napoletana. La cultura rivoluzionaria e prerivoluzionaria. Razionalismo, astrattismo. La classe colta di Napoli. Riformismo governativo. Rottura tra stato e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. Le origini sacre della nuova Italia. Gli storici della letteratura e della vita del popolo italiano, che vogliano trattare del Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di cause e di effetti, devono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo XVIII sono le scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti, poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento, ripeto, che condurrà all'unificazione e all'indipendenza italiana. Mi rabile la continuità della vita di questo popolo antico d'Italia: i secoli, che ad una critica occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sappia investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon derosi d'esperienza: è tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È una preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di filosofi e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica ha il dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di concetti superiori di filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli XVII e XVIII per il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue Carducci. I secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando, attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia, preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse, se l'affer mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica figura di Vico, un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per ritro vare il particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La storia è l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato: non più Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra, Vienna. Mentre le altre genti si gettano tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere più italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi, per sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, per riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista pre rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89, è invece viva e desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa, di fronte all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di schietto pensiero italico, di sapienza civile antica, di esperienza politica nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa, notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una sua mirabile continuità, una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento, salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo, mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità, generano altre idee, seguendo la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de' popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica. Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica, lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano, particolaristico e nazionalista, è un fatto estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una storia vera della cultura, specie della cultura politica, non può non ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza, questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il mo mento (siamo nel secolo XVIII), guardando in modo sommario la distesa temporale della storia, è il più li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano, non Torino, non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani, ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della città di San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che nazionale. Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo italiano per rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta all'influenza straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che il rinnovamento si inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi anni (1 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, Torino, 1922, vol. I, p. 13 e sgg 9 dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola, arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa impersona la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre? Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia però non filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava, ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi polverosi i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il serio movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis « usciva di là dove si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano cri tici » (1 ). A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il Gravina; altrove Raf faele Fabretti, Francesco Bianchini, Scipione Maffei e con essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a Giambattista Vico bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza era la gran cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo umano, morale e sto rico. La conversione del vero col fatto (verum ipsum factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio, divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto dall'uomo, nel quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica, la poesia perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi (1 ) F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., 1917, v. II, p. 240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto: a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci: questo nuovo principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia pure, come scrive il De Sanctis (1 ), in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica? Io credo di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a conclusioni inattese. Il Vico, scritto il De ratione studiorum, il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura linguistica, di filologia. Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al nuovo orientamento della sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e cioè che quella materia di studio (1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 246. « La materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc. ». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali » (1 ). Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria » Il nuovo pensiero italiano s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la storia, Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto, delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, G. Laterza, G. Vico, La scienza nuova giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterzam GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizione della Critica, 1903, p. 34 e sgg. 13 natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ). Ora ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica, trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza, Ma intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno, dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità nella tra (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 248. (2) Vedi B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pag. 50 e sgg.; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione, nella storia. La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà, di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva ed universale. Il Vico (1 ) si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita (1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo secolo è necessario per colui, che voglia studiare il secolo XVIII, in cui senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain, autore di un dotto Étude sur l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ (Paris, Hachette), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX? Dobbiamo crederla davvero, mancando una tradizione italica, una fioritura estrinseca, mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica, e in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene al pensiero di chi legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante. Questo venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910 l'opera del Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani, Messina, Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (1657-1750) fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che, « dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita, e si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà come nazione ». Ora ciò sfugge all'autore del libro. 15 gora, a Platone, ai filosofi cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » (1 ). Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme, get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del Vico, proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi vichiani ). Non bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa; ed è anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita: e senza intendere l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare la vita nella morte: e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure progresso, se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata con la tradizione nostra, quale la troviamo p. e. nella poe sia del Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto del secolo XVIII e degli albori del seguente, [ quale la troviamo, mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro Vincenzo Cuoco] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia dal 1657 al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain.... ». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo. (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita; col Vico si presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito, donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico spirito del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate » (2 ). Lo stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche: il vichismo in Mario Pagano è mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pp. 270 e sgg. (2 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 286. (3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr. VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge - base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per LOMONACO, con @enni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, LOGOTETA E CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzo Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l'insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815, Milano, Vallardi, 8. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561 ); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D'Ayala ) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua critica. Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3 ) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901 ), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega », Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « törre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2 ). Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi » (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo » (2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I, p. 220 e sg. (2 ) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali » (1 ). Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3). Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3 ) Framm. II, p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2 ), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3 ). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (+), è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne ' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 87. (2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4 ) ROMANO, op. cit., p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa » (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese, Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219. 43 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » (1 ). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218, 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica. Ma la causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L. A. Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva,e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu, lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ». Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello. - Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ». Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per PAGANO, LOGOTETA e CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2 ) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1 ). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit., p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l ' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1 ). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo » (2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I, p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3 ) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore. Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano, nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I, (2) Framm.] cose e della loro importanza » E nel dispiacere del fallimento, che al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3 ). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. Framm. I, p. 220. (3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia » commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre » (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante. Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2 ). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica, rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ». Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione « ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe (1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano, Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. « L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare, che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de ' naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ». Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro, hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione, dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione » derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione », modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ». Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de' consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii, che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota forma senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e, purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è che il direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato, di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo. La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti, sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande, il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato » (2 ). Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac centramento in Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato entro gruppi politici più vasti, come il principato o signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 ) Framm. II, p. 223. (2 ) Framm. II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al sistema nostro. Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette neanche che si retroceda; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti suoi di ritti ! » (1 ). Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei bisogni complessi che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque, convocata in parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso è antico, è nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni per conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa. « La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58 nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl ' interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata. Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s ' ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale. Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera? Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... » (1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo. L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto, e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività; ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino, in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata, ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto, una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 ) Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi, posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo. L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un primo passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese, in cui gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie, ha un parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione. Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita (1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione, che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi: una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge, la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ). Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra, e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo » (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5 al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni, e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale, e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia, vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all ' intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l' esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari, ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ). Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 ) Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale, consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi, Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo: egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette: inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi, potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed. nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia, perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo, quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore, che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia segue una trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela, violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol significare fazione e campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati, ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura, anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini, fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo sta bilimento americano » (1 ). In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero politico del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere legisla tivo, offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale il giurista può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare. Difficoltà questa più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino nel pieno oblìo degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne conosciuti i princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta, una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai bisogni di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare quindi in via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i sensi, il trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera forma, che è vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un contenuto essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto con la vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi andate (1 ) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in Italia (a cura di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive: «.... In Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi. L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo stato delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo: cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario, secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi. » (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1 ) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi, perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute: la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri. Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi, plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi, conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui. « Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ). Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo. Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza, che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione ». Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali, e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio, l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità: non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante, imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi, la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p. 250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti, e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati. Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti » (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica delimitazione tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p. 442 e sgg. (2 ) Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino col costume della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile. D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita (v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo, tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni. Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona. Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo. Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà, quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società ! Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente, dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici, d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma, siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale, concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI, p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi, di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri » (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema: egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 ) Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo; e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ). È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola, dovrebbe insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne' suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3 ) Framm. VI, p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15 febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi, dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe. Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl. Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari (Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V. Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI, Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla, limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri. masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori affidamenti.  Il « Saggio storico sulla rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. – I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri, ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose, e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo, invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa: Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione; l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico] ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità (1 ). Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro bontà ! (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia greca (1). Ed il raf fronto non è davvero stiracchiato. La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile. Sono essi, gli uomini, che determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto motore? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed effetto: gli uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il Cuoco parla spesso di un vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è altro che la rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?: No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini possono averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto, la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il pensiero; la fantasia, laddove prima era l'intelletto, la fantasia che s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta in un processo d'obiet (1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano ed., 1882, v. III, p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico, Lettera dell'autore a N. Q., p. 11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84 tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde con l'artista, ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni, quanti interrogativi, quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani, quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni, ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di caricar di tinte fosche la storia, non esita un momento per indossare la toga dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò. (1 ) La questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta. Fausto Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e sgg., la riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio poi possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la nota del Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi Studi vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli, Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. « Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ). Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per far meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della storia, e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi: « la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1). Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo: gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno, rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno; una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari, in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra; contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono, se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi? No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta, vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione, poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni, se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva già acquistato. Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose? Così.a Napoli. Invece di fare una rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in piccolo. « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una co stituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » (1 ). La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 83, 92 francese, in sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi economici e politici; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa; il re di Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po ' moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo contegno un generico malcontento. Lo stesso atteggiamento politico estremo in due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e nei codini, nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia: effetto: la Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone, vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » (1 ). È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè tutta l'Europa: la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a cui i filosofi applau dono in buona fede; « sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari. Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1 ). « I nostri affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ). Gli uomini s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con un metodo diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali d'opinione si guariscono col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento: la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la ti (1 ) È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I, p. 43: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un portico per ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto: —Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi smascherar lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante? Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco, la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa » (1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ). Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano, nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. « Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani: la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza. La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali? Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea. Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre. Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione, che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de' governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti: egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia, Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione. Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, V, p. 29. 7 -- tando il paese perciò dalla dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli? Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito. Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione: audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura » (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia, la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto, l'ufficialità dànno il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri, giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione? Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare, che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del '99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue in due gruppi: coloro che vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p. 158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L. CONFORTI, op. cit., p. 21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia; i furbi, in somma, e i fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti. La memoria dello storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I patrioti sono uomini colti, superiori, il fior fiore della nazione: forse questa stessa loro origine è la causa prima che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni; i princípi che essi pro fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito romano, la loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi: quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ). Uomini i patrioti insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra alla posterità la loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito, esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste, la distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili: l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo della sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 84, nota. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica esclamare esaltato: « Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napoletana » (1 ). Ma lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo; non può, esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine. Si è detto (2 ) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto. No, il fine c'è: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori. I saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti i popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo: bisognava tenerne conto, inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso. Tutta la rovina della repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo, sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni (3 ). Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione, legarlo allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p. 188. (2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette ratura italiana, v. VI, (1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si sarebbero potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria, dubita, e chi dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti; il secondo per natura tradizionalista, attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico, e che compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto: la moda straniera è la causa di tutta la rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. (2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » (1 ). Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli nelle loro crisi. Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla natura delle genti galliche. In Italia c'era un comunali smo, che in Francia non era mai stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » (2 ). Il popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso: « i popoli si riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare ciò bisogna andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti esistenti assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » (5 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo; riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di libertà, su prin cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo un pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione: se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo Cuoco (4 ). Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa nazionale debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un superiore approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414 e sgg. (3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo in seguito: resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano aveva della religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore etico della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola loro volontà individuale » (2 ). Il governo in sostanza era agnostico, non conduceva ex professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile e laica. Si negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà, se non un mero astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo quelle popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era chiesta (1 ) Nel Platone in Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con: cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: « Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè? Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire. Se il popolo allora si trovasse senza co stumi e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131. -107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto, è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile barriera al legittimi smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca la sua natura. « Il popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello che si crede » (3 ). Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze, così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu » (4). Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi come salvatore il riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche, che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di sostanza. Ebbene, i repubblicani preferivano urtare contro questi apparati, anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più non vuole; egli allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 106. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » (1 ). Le rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso, sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare, d'una vita non interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza, presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare alle idee antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti. La rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco. Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo. Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia, sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria. Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che, non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma, nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1 ) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia, che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici, religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113 scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale, non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge, sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i lazzaroni oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione. Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa, secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese, la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato, che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua, nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore, un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione, mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo, desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco, invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 ) Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità, sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del 1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai, e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo, pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228; ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446), ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99 e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto, sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg., ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la trista figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere, e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè, confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio, come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, « li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano », venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s' intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione, il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119 mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt' i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de ' signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1 ). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito, tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ). Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica ! Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ). Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente, dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli. Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità, illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi, poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva. La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista, che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno: l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del loro spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii, quasi danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose, come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano più all' istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in cui le avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ). Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI. Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. - Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. cit., pp. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi, democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126 teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario..., quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri: il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono » scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale. Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm. III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I, p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino; se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi che non vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po litica. Il Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso tempo: « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita »; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male dei francesi? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente in Capua nel '99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran, diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle righe assai importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 ). Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la po (1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit., p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi vichiani, p. 350. (2 ). V. Cuoco, Saggio storico] sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione. Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca. Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo, che sapesse intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico, e si senti travolto in quel vortice che pur non amava; così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una affermazione è implicita nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia, è nella storia, e afferma la storia. Tutto il movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione. L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto nello spirito, che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora nella rivoluzione; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento storicista nella politica e nel diritto, sono già fuori dalla rivoluzione. La filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri filosofi della restaurazione. In Italia questa reazione, che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale e pedagogico; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo narchia. Affermazione questa, notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore: alla rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme una loro legittimazione; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino. Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla seconda edizione sono la conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente esplicando fin qui. In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata: ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato nella sua patria: il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo che non falla: lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe sopra citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge. « Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt' i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu stizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto al mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane parole; virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è ispirata ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche, lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia, dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo, esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo: quand'esso, anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato. È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia: la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di governo. Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto rico, portato a valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato, sa trovare i benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro: nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 ) Giorn. ital., 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere dal 1795, non potevano arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di governo, e ciascun governo ha in sé talune parti essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario; altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica, tende a cangiarsi da governo militare in governo civile. « Tale è l'ordine delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or dine costituito, cioè Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere, nello stesso tempo, il militare, il con quistatore. Il governo militare, che si erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla egli ha parteggiato nel '99 per la repubblica, ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice il nostro autore, è il peggiore dei governi, come quello, che, essendo odiato, sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni, gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno, di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario, che pone un limite insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi. Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è Stato di diritto, che importa e riposa su un contratto sociale, non storico ma immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali, come dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei gratia, superiore ad ogni volontà na zionale. Egli, ingegno storico, sente che tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda mano che per let tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e l'autonomia (2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali; il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè « noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai » (3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M. ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile. Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi. Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo, perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e, quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de ' romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso: spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue, d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione; sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione. Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto, ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141 rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de' governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso, occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco: ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88, 91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo? Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi, onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante, che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ), tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato. Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie, dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato. Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo terzo stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu distrutto ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne, perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità? Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non avrà alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione, che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe, in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa » scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi, gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè, dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16, 18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p. 51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti, dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s ' impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà, nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni. Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo, dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. Una classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi. Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che, pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive « divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale: l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che nell ' uomo è senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla proprietà, base degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e fantasia, bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre bisogna aver di mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro prietà !? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247, 148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori » (1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento comunistico. Io non faccio che rimandare il lettore, che si interessa del problema, allo studio su V. Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A. del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149 nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato, ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano (1 ). Sarebbe pur questo un tema interes santissimo; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto: tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici, che il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo della società post -rivoluzio naria, ed un intuito così immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto importante del sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo. Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi lizia, poichè essa non è perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino; e questo non può avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo Stato as (1) Giorn. ital., 1804, 6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica: a proposito di una cassa filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi connessi. 150 solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà dei subietti singoli, come tirannico e nemico: l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da ammettere, ed è un estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno della forza a suo sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può condividere questi princípi. Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè bisogna riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita civile stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà indi viduali (libero volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta sottomissione. In ogni atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della forza armata. Il principio è stato superato durante la guerra, date le condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola. 151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della forza, che integra il consenso; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa, sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena e sintetica nel monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani, dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII, permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo; e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1 ) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti. Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo, allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani esercizi bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene, l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale. Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile, diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s ' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato monopolistico, come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo, di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò che è, è quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc. non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non possono mutare queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni sociali e civili, di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed apriori stica, ma di fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi dell'economia sono (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della natura. La na tura determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze. Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale, mirino apriori sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di contrastanti interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo economico nativo, che li porta alla ricerca della soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato liberista: il prin cipio però notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura; i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo? Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con vantaggio, è necessaria una certa potenza politica nello Stato. È necessaria, perchè possa ottenere 155 dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime » (1 ). Come mai il Cuoco, di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all' impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e valevoli in eterno (2 ). Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5, 6, 7, 8; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in M. ROMANO, op. cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p. 155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da me sovra ci. tato aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che non renda infelice il cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero, si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che desidera, non sarà mai ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà, che ci fa risentire i mali altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo simile, perchè non gli serve: egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà anche generoso. Ma questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario: ed allora non si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per schiavo » (1 ). Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio possiamo dire soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità fisico - chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è felice, cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1 ) Framm. VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco. 157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni, aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi, che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per una pratica economica generale (1 ). (1 ) Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so stiene forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli. Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di sè stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? — E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato - consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ». L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il potere esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità: il diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La monarchia costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ». S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795, furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio; l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale, inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore. L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose: le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale, d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V. FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo. L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero.... ». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia. Quei tanti tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra; ma questa guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero. Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella maniera. Oggi la storia è cam biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce la gloria alla virtù. Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici, incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua stessa personalità la sanzione del l'impero? Nessuna. Tutte le cose invece additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario (1 ) (1) È curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell. In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul diritto delle genti (ri stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia quell'unità, e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè educativo, e poi un problema politico. Limitiamoci ora a vedere la cosa piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario. Quel che al Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente, a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al carro di Napoleone ! Che importa ciò, se quest'uomo grande ha di mira il bene comune dell'Italia, sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele zione. Il nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà reciproca, che lega il benefi cato al benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli, comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad intendere i benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo solo? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no stró scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti dell'Arabia,... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli descrive con così foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della sua rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è, però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed eterne, bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità, la volontà unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale » (1 ). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo, ovunque veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano, per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse, per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane, rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia, il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6 aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp. 149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza, preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato. Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale, bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni, leggi proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca. V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche, che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza. L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi, estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico, appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo; il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina, potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento, purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese, nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa, è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è determinato dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio. Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll' altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la guerra dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1 ) Giorn. ital., Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi in precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali, l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre, nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per conservar ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida decadenza spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. « Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa, nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi: così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama « naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de' popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è giunta ad un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli della Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima 175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e ferocia, erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù; perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi, e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito della tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti. Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i popoli hanno la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista, in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ), p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così. Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio « per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi, che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia, possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento s’è manifestato come un movimento altamente spirituale da un lato, come un problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria; l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò, e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte: sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni, volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. « Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene » (1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne' tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana. L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio, Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 23. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391. 181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà generale; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base della sua vita. La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione, anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera nel terreno vivo della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole. Che cosa è per il Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una delimitazione tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po tesse, e mille han risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla dignità dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste cose meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che, restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire: questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 ) G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653. 182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico, capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico, al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco. L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale, d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento, come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli, eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione. Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185 prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1 ). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr. Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili, edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ). Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie, che ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187 Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione, vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra, si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti, proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa, l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805; Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale (maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6 febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «.... Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804, e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico. Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo. Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza, riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi, l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel 1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più ! Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1 ) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni, per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il potere temporale? Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro, consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una sfera che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè presenti alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione. La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini pubblici ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura. Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ». Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista, che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista, sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma soltanto a risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195 mente sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385. Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp. 297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità, ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico, che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore, che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria. È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno 1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto la misera (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra alternativa, che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata, il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel centro dell'Italia, saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno sventati ancor questa volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si pensa che è esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto, enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà che non era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri popoli, forma una indissolubile unità geografica: è questo il primo elemento della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta di passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa religione: tutto li addimostra per membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ). Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al cittadino Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed., Bari, 1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell'an tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente; perchè si oppongano argini all'ambizione del l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità; avendo governo, diver ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutti beni che ne derivano; ecc. » (1 ). La ragione prima dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio europeo, quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste le sante origini di quel concetto di nazionalità (2 ), che troverà poi in Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli stessi senti menti. Ma questi da lui come vengono trasformati, in lui quanta nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi glia, Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano, ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi indugierò neppur brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina (poi italica ) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di (1). F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione napoletana del CROCE, ove vi è un largo studio sull'argomento, pp. 329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 3 ]. 202 studioso, di cui sono documento le Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L. Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato (1), del nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana, opera scientifica di vasto respiro (2 ), che dimostrano quanto alto fosse il bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio politico e legislativo. Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica, il problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia. Napoli, dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa, dopo il fiorire della sua Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo, caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla, dato che con le vit torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il centro più attivamente colto d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società patriot tica ”, divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione delle idee nuove ». Come rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G. Cogo, op. cit., pp. 13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1 ) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor quando il turbine rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di restare. A Milano aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove dottrine, che, reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche; il Verri aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia, poeti e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È il periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121, 204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al trettanti problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare, proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato. Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 ) Cfr. A. BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII); vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura. Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono; altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici, etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare, sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi. Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione, quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti, ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri, bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente, sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi, che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto. Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è, diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia » (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata: la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit., nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N. CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924, v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale. Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ). Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza, per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne' pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo Stato non è, ma diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico, la coscienza nazionale, si tratta di (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14  fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale: anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto; poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi, non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita. Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani, il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza; ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione, a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce: quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire. Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi, disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre. Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1 ). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio, da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia pubblica. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale, divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di questa nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni: sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa, abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1 ). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco. Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità (2 ) », e, come il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po' di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo, l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD, op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco. Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero, colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre », onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio 1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza » (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ». L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805, 27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2 ) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche, con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo. Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital., 1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato. Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto, di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). « Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese, 1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1 ). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico. La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. « Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51. Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico, laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p. 19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica ) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ». 220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi, invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù. Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano, spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche, ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo; Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione, per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 50). « Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 69 ). 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli italiani che hanno scoperto India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140); si tratta d'arte tipografica: il primato italico con i vari Bo doni è indiscusso (1805, n. 55): e così in materia di belle arti, di poesia, di teatro (1 ). Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei suoi connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da poco sono mancati ai vivi. E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu » scrive « sublime filosofo, profondo letterato; il primo storico della sua patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più di filosofia, di cri tica, di gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi interamente la vita politica della Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione » (2). Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 235. (2) Giorn: ital., 1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani. Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez. « Chi era questo Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia o per orgoglio; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si contiene la virtù » (1 ). In questa difesa del nome italico il molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono dispregiatori delle glorie nostre. Recen sendo infatti nel giornale un opuscolo di Vincenzo Monti, Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato menomare glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo loda assai di ciò. « Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse, non sanus juvet Ore stes » (2 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573: Economisti italiani. (2) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta qui: allorquando « un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»; allorquando il tragico -comico, drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn. ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è là, e s'appa lesa bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig. Akerblad », egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro » (1 ). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono. « Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma l'Italia rimane picciola » (2 ). E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi: scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo vilipese e trascurate. E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza (3 ); come, ancora, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805, 22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito della « Lettre » di L. Bossi allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p. 89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. (1 ) Giorn. ital., 1804, 28 marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia politica. (2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di campagna, ecc. (3) Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo delle pecore spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli stessi stranieri (1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine: la formazione della coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 ) Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90: Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso (e la scriveva circa il 1730, quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ), quest'uomo parla di una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura: essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra ragione può aver altro fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il cielo: però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano; i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia, che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ». (Giorn. it., 1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 244. 15 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »; « non importa: appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1 ). Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra, ma i piccoli nipoti, i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla, l'hanno abbando nata (2 ): gli italiani hanno creato i più splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta seco la decadenza della musica (3 ): gli italiani un dì maestri nella difficile arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da noi hanno appreso (4 ). Questa posizione critica, che tanto distingue l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare un sentimento unitario: il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode; cose le quali, sebbene opposte, pure per la natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5. (2 ) Giorn. ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato in Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p. 493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92, col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). 227 accenderci troppo, con scienza e ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv. An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica ». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda, in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2) Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc.  L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”, nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”,  mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso: creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte, disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico, perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa, ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS, Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163 del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia” di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno, per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici, e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L. SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia, innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico, perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto; e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno? — mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne' tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim. Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco; l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario, onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”. Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili. Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani, potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io! Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle, tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello.  È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli scogli.  La legge però resterà sempre un astratto, se gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî » dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi. Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola?  Da ciò scaturisce la necessità della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni (1 ). Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita del molisano, che, attraverso una fiera ma (1 ) B. LABANCA, op. cit., p. 409; N. RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G. GEN TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee profondamente maturate dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2 ) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una prima, senza data e senza frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e quindi non pubblica; una seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che porta il titolo: Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata di documenti e note bio -bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa gine 49-276 ). I criteri critici di collazione delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile, non furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II, pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore. Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce, allorquando questo lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi rivedute definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali del tempo suo » (1 ). Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza noti, vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati con tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili, alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola? Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita, era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà, della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’ cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di precetti, vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi. Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn. ital., 1804; n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304: Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che chiamasi popolo e diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per queste sue considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui istruzione, riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1 ). A chi noi daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli del loro posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva, somma di volontà individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato » osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre più le pro (1) Del resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno un significato ben più profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p. 32. « È.... massima (del Rous seau ) che nella realtà si distingua ciò che è fattizio, ossia sopravvenuto per arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico; rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza ». Ma questa concezione della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come nota il GENTILE (Studi vichiani, p. 419), con la concezione storica dello spirito. « Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta pedagogia del Vico, che aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo natu ralismo: l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo Stato democratico, è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a questa è per lo Stato un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1). Il compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende: l'ecclesiastico, il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli, e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione religiosa, fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo, perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408. Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore. « Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO, op. cit., p. 33) della « nature du corps politique », non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato si presenta nei fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta sanzione ». E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1 ); i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale. Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio significato; ed in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla pubblica istruzione » (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere pubblica. L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello Stato e al benessere della collettività. Poichè « la nazione non era istruita, essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria; tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di comunica zione » (3 ). Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e meglio ad un fine unico,. il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una storia nobilissima? No certo: le scuole private sussistano pure gestite da chiunque, ma (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. (3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine pubblico e alla moralità media della società. Il fatto però che l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al savio è necessaria la coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne? È questo un tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva » (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare l'ordine della natura e la sua essenza: educare le donne da donne, ed educarle secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno: e « quando le donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve essere questa gratuita per tutti? No. L'istruzione inferiore o primaria, appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più vasta generalità, è offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo luogo, l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità dell'istru zione appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un simile sistema: le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione e il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso: si può generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto, ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti di Stato. Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per le mani dei giovani. Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale (1). Posti questi princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto di riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna. Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con l'assunto politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]: altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital., 1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici. Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco, par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro, cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare, ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica, poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn. ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA. 274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice » (1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta » nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica, il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo: giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle, saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma « l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere, perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 25. (2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l' innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora, osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica; perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. 56.. II, (2 ) Qui più che mai si palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia, ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante rappresentante di quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni forma di vita, che italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante contenuto umano. È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me todo filosofico non possono prescindere: la politica, la storia, la giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire, potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile, nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine: l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico. Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le modificazioni della nostra medesima mente 280 umana » (1). Questo il nucleo profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli, riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti, una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p. 172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava, che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924), v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita, ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ». Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12. (2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v. XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C. Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo, che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti del Cuoco. (3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op. cit., p. 241 osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota agli Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di pensiero vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose di sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli, in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’ ispirò il Foscolo nei Sepolcri » (v. I, p. 254). (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 172. (2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico: à Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture. Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon avere un principio comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza nova, v. I, p. 173). « Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza, Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito ». (Scienza nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema filosofico che è certo quello del Vico (1 ), si stema che siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ). Onde tutta la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » (Opere, ed. Lemonnier, v. II, p. 21 ); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso destinato a divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda cruenta: indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo gran deserto dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857, p. 84). (1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni marittime: «.... gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinità; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e, finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano società, in mezzo ad essa infame comu nion delle cose, tutti soli e, quindi, deboli e, finalmente, miseri ed infelici, perchè bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de propri mali, sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova, v. I, p. 27 ). (2 ) Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella letteraria, Torino, 1872, ma certo non com preso, troppo imbevuto, com'era il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee d’un'arte pedago gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte (1). Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti col quale ebbe rapporti epi stolari (2 ), nonchè disappunti letterari, dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il carattere del poeta cesareo assai volubile in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza (1 ), il Discorso sulla storia longobarda del secondo (5 ), sono la prova sicura della dif fusione delle dottrine del Vico. (1 ) Vedi a proposito come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed., 1894, p. 267; G. A. BORGESE, Storia della critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., 1920, p. 248 e sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua parte ». (2 ) G. Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P. HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367, passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 ) V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. (5 ) A. MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d., p. 22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924. L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi, specie con i canoni romantici di Germania: a chi legge gli scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini. (1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente ». (2 ) BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche, Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,... quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori, segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico, que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si manifestano: Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo discepolo, e per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè e sulla (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e sg. 288 fiducia delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L. Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce come il genovese non solo si sia nutrito del Vico (2 ) per il tra mite del Michelet (3 ), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de ' numerosi e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 14. (2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo », disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura comprenderlo ». E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e l'inerzia degli animi». (3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgi. mento, Roma, ecc., 1919, p. 16, p. 23 e sg., p. 66 e sgg., p. 143. Il Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris, Renouard, 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese, CROCE. La filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava pubblicando sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ). E in questi zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero, attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (1 ) Il fatto che gli articoli non siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci (op. cit., p. 107, n. 101 ) che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio di V. Cuoco: così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo menzionò. 19 F. BATTAGLIA, 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente, diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale, meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico, cioè: VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con l'edizione milanese del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra, 1865; VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, ed., 1916-24, volumi due; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed., 1909. Gli articoli del Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Bari, Laterza ed., 1924, volumi due. Con questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso, 1864, I, pp. 1-36; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in Rivista Bolognese, a. II, v. I, fasc. IV, aprile 1868; F. BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I, fasc. 4-5, aprile 1923; A. BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi primi redattori (1804-1806), Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall' Arch. stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII ), alla quale operetta si riferisce la recensione di G. OTTONE in Riv, stor. it., a. XXIII, za serie, vol. V (1906 ), p. 341 e sgg.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri), Milano, Hoepli ed., 1904, p. 529 e sgg.; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi, Torino, Civelli ed., p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia, 1919 (1 ); (1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G. GENTILE in Archivio stor. nap. XXXIV (1909), pp. 588 e sgg., poi ristampata in ap pendice agli Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915; di G. GALLAVRESI in Il Risorgimento italiano, a. III, fasc. I - II, p. 223 e sgg.; e ancora di G. GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., a. VII, (1910), p. 462 e sgg. ); L. CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed., 1886, p. 21 e sgg., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, ed., 1903, p. 104 e sgg., nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 99 ); B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim; B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione, Bari, Laterza, 1912, passim; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1921, vol. I, p. 8 e sgg; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza ed., 1922, p. 166 e sgg.; F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., v. II, p. 309, p. 327 (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves, v. III, p. 291; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia, Milano, s. d., Vallardi, p. 557 e sgg.; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915 (in cui è ristampato lo studio Un discepolo di G. B. Vico: Vincenzo Cuoco pedagogista, già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II, 1908); G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg. G. B. GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino, pp. 30-44; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G. VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino, v. II, p. 314 e sgg.; 294 e P. HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815, Paris, Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cattolici, Na poli, Pierro ed., 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed., 1853, v. II, p. 259, p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919, (cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ); G. B. MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo, 1903; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F. Vallardi ed., 1901-5, Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); 0. MASTROIANNI, Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d' incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed., 1907, p. 196 e sgg.; P. MONROE ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA, Vallecchi ed., 8. d., Firenze, v. II, pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII (15 dic. 1923); G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma, 1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361 ); L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891, p. 433 e sgg. (1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 G. OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor. ital., a XXI, s. 3a, v. III, pp. 57-8; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it., a. XLIV (1904), p. 240 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it. a. IX (1904), p. 277 e sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per le prov. nap., a. XXX (1905), p. 73 e sgg. ); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel « Platone » di V. Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVII (1906), p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. XI (1906), p. 181 e sgg. ); G. OTTONE, Mario Pagano e la tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini, 1897; G. PEPE, Necrologia: Vincenzo Cuoco, in Antologia, a. XIV (1824), p. 99 e sgg. (riprodotta dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI, Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901, p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it., a. XII, v. XXIII (1894), p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico, storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1904 ), p. 147 e sgg.; di A. BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVI (1905), p. 412 e sgg; infine di G. GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani, p. 427 e sgg. ); M. ROMANO, Una pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi ed., 1908, p. 181 e sgg.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino, pp. 102-124; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli ed., 1903 (cfr. recensioni di B. CROCE, nella Critica, v. I (1903), ſ. pad 296 p. 298 e sgg.; di G. R[OBERTI), in Giornale st. d. lett. it., a. XLII (1903 ), p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it., a. XII (1904 ), p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1903), p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Mo rano ed., 1872 v. III, p. 279 e sgg.; R. SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della società pavese di storia patria, XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in Rass. crit. d. lett. it., v. VI (1901 ), p. 193 e sgg. (cfr. RUGGIERI, op. cit., p. 94; ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg. ); A. Zazo, Le riforme scolastiche di Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive il GENTILE (Studi vichiani p. 336), l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M. ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss. recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi F. PERSICO, Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema « Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch., 1905, pag. 3, nonchè RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo di essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e infine CROCE nella Critica, a. I (1903 ), p. 299. Del Cuoco si sono occupati varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814, in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d. passim; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano (1789-1815), Milano, Hoepli, 1906, passim; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.- editr. torinese, 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi, 1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim, in Storia letteraria scritta da una 297 società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano, Vallardi, 1915, v. III, p. 243; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della letteratura italiana, Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v. VI, p. 386-7 (1 ); F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze, Sansoni, 1918, v. III, p. II, p. 441 e sgg. Il primo centenario della morte di V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che dalla pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di F. Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo Cuoco, Roma, Alberti ed., 1924). Preannunziando o annunziando la ricorrenza scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (1823-1923 ), in Il popolo molisano, 15 marzo 1923; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in Il mondo, 13 dicembre 1923 (2 ); F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle Puglie, febbraio 1924; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma, Soc. Anonima Poligrafica 1925). Altra raccolta di scritti per uso scolastico. V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G. MARCHI. (1 ) A pag. 387 v'è una duplice inesattezza: ad A. BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, II, p. 337 e Una pagina inedita su G. B. Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181, la riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. (2) L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè vedere. INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II. I « Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica rivoluzionaria. 27 CAP. III. Il « Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua politica generale. 123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » 197 CAP. VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico.. >> 228 Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano 260 Conclusione 278 Nota bibliografica. ·Felice Battaglia. Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani,  “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. – spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il ‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling, volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una nazione.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Battaglia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Battista – la percezione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: Very good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”.  e inventò un orologio automatico.  Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo.  Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore Soliani, Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore Newton & Compton, 1998127. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Biografie:  di   biografie Categorie: Teologi italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria, orologio automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria nella matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale della percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bausola – solidarietà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ovada). Filosofo italiano. Grice: “I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons for solidarity,’ which is exactly the point I want to make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the rationale – i. e., literally, the rational basis – for conversational cooperation – People agree that conversation is rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than sociological perspective – and therefore into the compromise between self-love and other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che veramente fu per lui una rivelazione è la filosofia».  Sceglie così la facoltà all'Università Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui sono «maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero docente di filosofia morale nel 1962. Nel 1970 vincendo la cattedra di storia della filosofia viene chiamato alla Cattolica, dove dal 1974 al 1979 è ordinario di filosofia morale passando poi, nel 1980, ad ordinario di filosofia teoretica. È preside della facoltà di lettere e filosofia dal 1974 al 1983.  Nel 1982 è chiamato a far parte del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II per il periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ne diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998.  È stato anche direttore della Rivista di filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica.  Tra gli altri incarichi e funzioni è stato:  Socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica (fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico, politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste di cultura.  Altre opere: “Saggi sulla filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey, Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano, Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia. Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione. Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia); “Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto dell'uomo: riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla, Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero “La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981 Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana —Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno 1988 Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per uniforme ordinariaCavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno Note  Anna Maria Bausola Grillo, Adriano Bausola nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola, Accademia Urbense di Ovada, Avvenire, su swif . Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Emilio Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, in URBS Silva et flumen, Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini, Atti del Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno su archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, su accademiaurbense. Dal sito filosofico.net: Adriano Bausola Diego Fusaro, su filosofico.net. blogphilosophica.wordpress Lorenzo Cortesi PredecessoreMagnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro CuoreSuccessoreStemma UCSC.png Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia Università  Università Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore Ovada RomaBenemeriti della scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Adriano Bausola. Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo, utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love, benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di Filosofia – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bazzanella – il luogo dell’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication; he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept of contamination to elucidate that of structure .” Grice: “My favourite of his tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with ‘alter.’”  Partecipa a tre edizioni della Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl, nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault, Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico, storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al consumo.  Espone a Udine "Size".  Il suo sviluppo della performance introduce nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle installazioni di Tony Oursler. Alla  Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone) che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia" nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende a scardinare l'impianto della logica aristotelica.  L'echologia è un termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione "usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della "sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y.  Questo passaggio è decisivo poiché segna il definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia, Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione, dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla, suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s ‘obble’). x Fid y.  La relazione diadica x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva. L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica” od ‘ontica’ e fondata sull’ente e  articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella, sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia” (disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione, e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon” (‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a, non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una relazioni senza referenza a le due relati.  La preposizione "in" (‘jack IN the box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione "di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna). Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il "con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià” del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno. Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto,  sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’ ‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e, soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato" nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una "mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti (l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io" pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva, e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera  nello stalinismo. Il fascismo dai un presupposto  socialista diviene un totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note  A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut», n. 270, La Nuova Italia, Firenze, Bonami, La dittatura dello spettatore, Catalogo generale della 50. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Storr (a c. di), Pensa con i sensi, senti con la mente, Catalogo generale della 52. Esposizione Internazionale d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Birnbaum (a c. di), Fare Mondi, Catalogo generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, Feltrinelli, Milano, Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino, Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli, Milano, Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl e Merleau-Ponty, Guerini e associati, Milano, Contaminazione. L'idea di struttura in Heidegger, Franco Angeli, Milano, Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la televisione, Mimesis, Milano, Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano, Idee per un'echologia fenomenologica, Franco Angeli, Milano, Echologia. Introduzione a una fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios Editore, Trieste, Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste, La Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore,  Trattato di echologia, Mimesis, Milano, La fabbrica, FPE Editore, Trieste, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano). Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste, Etica del tardocapitalismo, Mimesis, Milano, Logica e tempo, Abiblio, Trieste, Autoscrittura, Asterios Editore, Trieste, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo, Mimesis, Milano  Religio II. La religione del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi, Asterios Editore Trieste. Oltre la decrescita. Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore, Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios, Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano. Eros e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore, Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore, Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste. Il tragico e il comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste. Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del fallimento. Simbolo e violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi. Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo dell’altro – etica e topologia, L’echologia di Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema, coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Beccaria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I would call Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a Beccarian!” Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian ideology is in the opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the implicaturum ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is explicated – he adds that ‘senses’ should not be multiplied because your addressee may get YOUR sense, but trust he will lose interest if you keep multiplying – “to the risk that he won’t get your sense in the last place!” – Grice: “Like me, Beccaria was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is delightful, very pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds and pubs, Beccaria met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately, only know him for his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians don’t even  consider Beccaria an Italian philosopher but as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the illuminismo Lombardo --.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of Italian philosophy is much diverse than our Oxonian dialectic!” --  One of the most essential of Italian philosophersReferred to by H. P. Grice in his explorations on moral versus legal right, studied in Parma and Pavia and taught political economy in Milan. Here, he met Pietro and Alessandro Verri and other Milanese intellectuals attempting to promote political, economical, and judiciary reforms. His major work, Dei delitti e delle pene “On Crimes and Punishments,” 1764, denounces the contemporary methods in the administration of justice and the treatment f criminals. Beccaria argues that the highest good is the greatest happiness shared by the greatest number of people; hence, actions against the state are the most serious crimes. Crimes against individuals and property are less serious, and crimes endangering public harmony are the least serious. The purposes of punishment are deterrence and the protection of society. However, the employment of torture to obtain confessions is unjust and useless: it results in acquittal of the strong and the ruthless and conviction of the weak and the innocent. Beccaria also rejects the death penalty as a war of the state against the individual. He claims that the duration and certainty of the punishment, not its intensity, most strongly affect criminals. Beccaria was influenced by Montesquieu, Rousseau, and Condillac. His major work was tr. into many languages and set guidelines for revising the criminal and judicial systems of several European countries. Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.»  (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo, economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica milanese.  La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene, in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana.  Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale.  nacque a Milano (allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel 1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni.  Nel 1760 Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese); da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772.  Il padre lo cacciò anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri, che lo mantenne anche economicamente per un periodo.  Teresa morì il 14 marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più celebre giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in Francia.  Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria, tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti.  Tornato a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica), creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata.   Antonio Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle), Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del sistema metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello Annibale, dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente complessa, coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma dei pesi non fu mai realizzata.)  Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua vita; ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandonò il marito, nel 1792, per andare a vivere a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre,  e temporaneamente anche con il figlio.  Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni (che riprenderà molte delle riflessioni del nonno e di Verri nella Storia della colonna infame e nel suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il figlio superstite ed erede, Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di valutazione di ogni azione umana.   Monumento a Cesare Beccaria, Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da intendersi in termini fenomenici (approccio sensista).  La natura umana si svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è caratterizzato dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi» messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore. L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni antisociali.  Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e rispettosa della persona umana.  «Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio»  (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII)  Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene: la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa:  non è un vero deterrente non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il senso di fiducia nelle istituzioni.  Questa condizione è assai più potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva).  Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile. Tale motivazione fu usata, per chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre, il quale era inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via ad un uso spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del tutto inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793.  La tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con varie argomentazioni:  essa viola la presunzione di innocenza, dato che «un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo, stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto, né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena preventiva, sproporzionata e comunque violenta).  Il carcere preventivo Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena.»  Può essere necessaria, ma essendo comunque una pena contro un presunto innocente, come la tortura (concezione garantista della giustizia), non deve essere attuata tramite arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minacce e la costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice».  Le prove dovranno essere quanto più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante: «A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare».  Egli raccomanda inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbono essere».  Il carattere della sanzione  Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910  Cesare Beccaria, incisione da Dei delitti e delle pene Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni requisiti:  la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle possibili nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto:  del danno subito dalla collettività del vantaggio che comporta la commissione di tale reato della tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere comunque una violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a possedere tutti i caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e sentimenti irrazionali di vendetta.  La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni in maniera analoga al fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile a uno riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale (premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio (cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei confessi dando loro l'impunità.  Per quanto riguarda l'istituto premiale nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non dell'esecutor delle leggi», scrive infatti.  Pertanto il fine della sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di "dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta:  «Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità, che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir la pena di uno solo.  I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico.»  Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di Beccaria sul porto di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni:  «Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale»  Influenza Anche Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene crescono coi supplizi".  L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre, influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale.  Il filosofo utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee.  Le idee del Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi.  Citazioni e riferimenti  Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Venne inaugurato un secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del deterioramento, nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a lui intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della pena” (Livorno, Marco Cortellini).  Giovanni Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi,  Genealogia Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con prosperità”;  Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano.    Galeazzo «I.C. causidico nel civile».   Francesco “cassiere generale del Banco Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»    Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco («rimaritata nel conte Isidoro del Careto»).   Francesco «Fece aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711 per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella Valtellina».  Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò  Teresa de Blasco Anna Barbò    Giulia Sposò Pietro Manzoni.   Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale    Margherita Teresa    Giulio Quarto marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò Giulio Cesare Isimbardi Tozzi.    Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco (1749-1856)Sposò  Rosa Conti (vedova Fè). Carlo Sposò Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate   Carlo Teresamonaca Chiaramonaca Nicola Francesco Laureato in legge, membro del collegio dei giurisperiti, fu anche giudice a Milano e a Pavia.    Giuseppe   Marianna   Ignazio   Anna Maria Sposò un Cattaneo «fisico»   Gerolamo«Canonico ordinario del Duomo»   AngiolaSposò Alberto Priorino nel 1619. Tendente al deismo  Il nome di «marchese di Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso e discorsi di economia politica, Paris, Philippe Audegean, Introduzione, in Lione, 20099. )  John Hostettler, Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and Punishments', Hampshire, Waterside Press, Indicata come "Ortensia" in Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane.  Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della Giustizia, Milano, Pirrotta, art. cit  C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..  Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e la riduzione delle misure lineari a Milano,' Nuova Informazione Bibliografica non riposa sul Lario  F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, Sambugar, Salà, Letteratura modulare,  I  Dei delitti e delle pene, capitolo XII  Cesare Beccaria, la scoperta della libertà, con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre  Dei delitti e delle pene, capitolo VI  Dei delitti e delle pene, Capitolo XLVII  Dei delitti e delle pene, Capitoli 38 e seguenti  Dei delitti e delle pene, capitolo 46, Delle grazie  Dei delitti e delle pene, capitolo 27  I. Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari, revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari, Laterza,   «Il marchese Beccaria, per un affettato sentimento umanitario, sostiene [...] la illegalità di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe essere contenuta nel contratto civile originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora questo consenso sarebbe impossibile perché nessuno può disporre della propria vita. Tutto ciò però non è che sofisma e snaturamento del diritto».  Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital Library.  Felice Calvi, Il patriziato milanese, Milano, 1875,  52-53.  Nella genealogia settecentesca è indicato un Nicolò abbate.  Pietro Verri, Scritti di argomento familiare e autobiografico, G. 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Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Beccaria," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.  Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano, non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra di loro, e scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti, o solamente ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono delle sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie, che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti  1 e terruzione al senso, e distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo., faranno i n 43 suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta, accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito', 'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario, se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro', 'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia; saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e 'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente!  Egli è evidente che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi occupa la mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più grande effetto. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant,  a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui osservare che molte espressioni non so no preferibili alle altre, se non appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione la parola cocchio della carrozza non per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle bocche di tutti sieno continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per meno belle son riputate, ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verremmo mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'idea principale dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio principale, pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, una sola sarà l'espressa, le altre taciute; perchè se tutte fossero espresse, ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso. In secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la mente ad una serie d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno le espresse, perchè non si destano reciprocamente, ed  effetto della ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara; quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate, la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese del   necessa  è necessaria l'espressione per eccitare, ossia perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale, in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza; ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute, ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spin  51 ľ 1 gertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento d'impressione; m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso *effetto* che una idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col termino corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata* nell'animo di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensaziona; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza ha la idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione esigono da noi quella le che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al tutto. Mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e debolissima è la percezione della *parte* o solamente ad alcune noi faremo idea accessoria e non espressa, accrescono della sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanee non deve eccedere che *tre o quattro* sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti non le concede una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque volessimo l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella mente, ed allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque un'espressione racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come 'spada', 'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti e l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle altre espressione in vece di aumentarlo., faranno in suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che, condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*, vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito' o  'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o 'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia -- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per forza di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di 'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale, l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite hanc animam, me que his exolvit e curis" --  quanta folla d'idee si risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette, 'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente!  Egli è evidente che una medesima idea per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto.  a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o 'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si rigettano, nè per meno bella è  riputata, ma soltanto perchè è espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa (l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se 'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando l'idea è  superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è, oltre l'analoga, quelle che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la sua rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di questa ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni, e è direi quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea accessoria *espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della ripetizione dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale nella mente, e divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto) ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola* espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del  necessa  è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una espressione E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni, tanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo. Se vi è  idea semplicemente destata e non espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stanchezza. Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica dalla quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto conversazionale) da interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella calligrafia) è  l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è  un pessimo filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del co-discorsante, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione di una idea ('è un pessimo filosofo?') a misura che è  più grande e più forte. Onde per questo tempo necessario, per questa dimora di processamento, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere un'idea quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea rapidamente risvegliata all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha bella calligrafia'). Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, puo facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla quale è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di rientrare in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spingertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciola e più debole è  l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra l'immaginazione non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile manifestazione ('-- è  un pessimo filosofo'). L'idea debola accessoria espressa debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la debolezza. Ma un'idea espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea taciuta o sottintesa ('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento di un'idea principale. L'idea accessoria forte, per una contraria ragione, debbe essere minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Dello espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non principale, ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuoce tra di se, e scema l’attenzione al tutto comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea -- non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della *espressione* che representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi dunque volessimo la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo ad offendere quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il tutto communicato (espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o solamente ad alcune, noi faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine o concetto o segnato o significato o senso corrispondente all'espressione si risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti* o superflua, fa inter- ruzione al senso della proposizione comunicata, e distrugge l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. Se dunque una proposizione espressa racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come "Questa spada e bella", "L'esercito e bravo", "La nave va," ec., cosicché la mente dalla proposizione espressa medesima noù sia determinata a considerar più l'una che 1'altra delle sensazioni componenti ma sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta accaderà che condensando due o tre di queste proposizioni intorno ad un proposizione *principale*, vi saranno non due o tre proposizioni accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza alla proposizione principale, ma invece un molto maggior numero quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto la proposizione espressa, "La spada e bella", "L'esercito e bravo," "La nave va", e tutte queste varie e uumerose sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che le altre suggerito, tutte concorirono contemporaneamente ad associarsi colla proposizione principale; onde l'effetto reale che ne succede è, che la fantasia di nostro conversatore resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece della proposizione "La spada e bela", "L'esercito e bravo", "La nave ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable", "Il soldato e bravo", "Le vele va", e che questi proposizioni si condensassero attorno ad una proposizione principale per formarne il senso complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio significato o senso delle tre suddette proposizione espresse piu specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano nella fantasia. Onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di associazione non tralascerà la parola di fer- ro di suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella di soldato quelle di;, esercito quella di vele quelle di navi.;, Ma non essendo queste sensazioni sug- gerite propriamente associate colie parole ferro, soldato e vele, ma Con le idee che queste immediatamen- te risvegliano non possono nuocere, alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io in- tendo per idee suggerite e per idee * espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi speciali ed appellativi, e de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite Digitj^ed by Google   3o non entrano nella sintassi della pro- posizione la quale regge senza di, quelle: non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dal- le parole immediatamente, quantun- que come le altre alla occasione di quelle si risveglino; onde con mino- re dispendio di tempo e di forze si ottiene uu più grande effetto. Quan- do Virgilio fa dire a Didone: Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque his exolvite curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole parole, in quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non tro- vasi affacceudata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll* accennar soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan-, to teneri e contrastanti sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la menta se siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo,   $T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto, nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa- zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più breve dell’ altra. E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno contiuuamente cionono-; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate, ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende-, rebbe annojaote e faticoso il netto, se non. Sa concepimento del tutto, oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem- pi ciò che per 1’ unità dell’ idea prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo 1* accessorio principale, produrrebbe e confusione nella chiarezza, e noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la successione delle idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver considera- zione perchè tutte le più fine e le; più sottili ed interiori egualmente, che le più complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni dell’ intel- letto, sotto l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reci- procamente ed infallibilmeute l* una l’ altra uua sola sarà 1’ espressa > le y peri sensibili ) Digitized by Google  33 altre taciute perchè se tutte fossero; espresse, ciascheduna espressione re- plicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che, fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano; come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara quelle ri-; petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione dalle principali: per lo contra- rio se una sola sia 1* espressa le al-,, tre analoghe semplicemente destate, la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa in una sola espressione di- viene più grande, e per* conseguenza più piacevole restando picciola la, insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che abbiamo visto che uu, tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’ immaginazione: così ve- niamo ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve tempo problema che; nonè solo l’oggetto de’meccanici ma della morale e della politica anzi, di tutta la filosofia. lu secondo luogo, tra la moltituaine dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe, quelle che sodo più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate; di queste ognuna apre la meu- te ad una serie d’impressioni, e sono direi quasi capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’ espresse perchè non, si destano reciprocamente ed è ne-, cessaria F espressione per eccitare ossia perchè la mente possa percorre- re tutte queste differenti progressioni d’ idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie col- la principale in cui tutte le accesso- rie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi od associati tra di loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicendevolmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno all* effetto delle idee espresse e ta- ciute; cioè che tra una espressione e F altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo del- F occhio quanto per mezzo del- F udito, corre un piccolo interval- lo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee;   35 queste come lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza; ma se tutte sono espresse, moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta diminuzio- mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi. Quanto più gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più numerose, destate e non espresse,; ne di piacere e stanchezza per 1* au. possono essere le idee taciute, ma necessariamente destate da quelle, perchè l* efficacia delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T immaginazione di chi legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbli- gata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a mi- sura che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora per così dire della,, mente su di un oggetto quantunque, egli medesimo per la forza e gran- dezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione ciononostan-, Digitized by Google   36 te la mente, dall’impeto concepito * percorrere una serie d’ idee quasi trat- tenuta più facilmente potrà ricevere, altre idee rapidamente risvegliate al- P occasione di espressioni forti ed energiche: chi ben considera torna sulla esperienza dell* animo suo» potrà facilmente scorgere che sempro che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improv- visamente P immaginazione, questa do- po considerato quell’oggetto, nell’at- to che si riscuote e si risveglia dal- Pintensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta non si, abbandona subito all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’ at- torno ma sibbene destasi in lei una, moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a,, ed alle passioui dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi e varj ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche de’ monti ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del, mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita immaginazione, sono ricer-, e ricati da coloro che piu amano di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar P animo liberamente e senza distra- - zioni dalla considerazione di se me- desimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero si, gettano nel minuto e sempre unifor- me vortice della vita comune, gli og- getti della quale sono atti bensì a spioger l’animo fuori di se stesso in un coutinuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pen- sieroso. Per lo contrario, più piccio- le e più deboli saranno le accessorie espresse, la scelta si farà su di quel- le che ne risvegliano un minor nu- mero, perchè la differenza tra le mie e le altre essendo minore, e sovente piu importanti e più forti potendo essere le destate che P espresse si, corre rischio che le idee dell’ autore siano perdute di vista e confuso ed, interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterno sensibili manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo ab- biamo dimostrato debbono essere, molte, acciocché il numero compenti la debolezza; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude molte idee taciute o sottintese, altrimenti di troppo alloutaneressimo il concepimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti, per una contraria ra- gione debbono essere poche in cia-, scun momento d’impressione; ma po- che forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che da molte idee non espresse debb’essere supplito. Cesare Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Becchi – l’incubo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo Italiano. Grice: “Becchi is pretty controversial; a good reason why he is not invited to the New World for “Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing! -- Paolo Becchi  -- Paolo Aureliano Becchi (Genova),  filosofo. Laureato in filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre fino al  è stato professore presso l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica.  Nel  si avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del movimento” ma a gennaio del  lo abbandona criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle & Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la Lega di Matteo Salvini.  I suoi interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà del  era noto al pubblico del piccolo schermo per le interviste e i talk show in cui dibatteva.  È attualmente editorialista di Libero e de Il Sole 24 ORE, oltre ad avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre opere: “Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica” (Morcelliana); “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi e prìncipi. Alle origini del diritto moderno” (Aracne); “Il principio dignità umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti corsari (Adagio Editore); “I figli delle stelle. L'Italia in moVimento” (Adagio); “Colpo di Stato permanente” (Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna); “Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano, re nella Repubblica. Per una messa in stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o no. Le ragioni per il no e il testo della «controriforma» (Arianna); “Come finisce una democrazia. I sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna); “Italia sovrana (Sperling & Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus ha travolto il Paese” (Historica)  Note    Biografia sul sito Genova Archiviato  in.  M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non ci rappresenta”. Lui: “Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano,  Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla Paolo Becchi, formiche.net, 5 M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio. 9 gennaio.  Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale, in "ParadoXa", Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale dell’orfano”. Bellasio lascia lo studio. La redazione della tv si scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, Paolo Becchi  Blog ufficiale, su paolobecchi. wordpress. Opere di Paolo Becchi,.  Registrazioni di Paolo Becchi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Filosofia Politica  Politica Filosofo del XXI secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani GenovaProfessori dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova. Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia politica, dignita, soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza, repubblica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bedeschi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alphonsine). Filosofo italiano Grice: “You gotta love Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered Philosophy, but in Italy, ‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and Bedeschi knows it – this is because Italians take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and while I did speak profusely of the Athenian versus the Oxonian dialectic or dialexis, I skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and Hegel leads to the reset of it!” --  Giuseppe Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente di storia della filosofia all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato all'Cagliari e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studioso di Hegel e del marxismo, ha approfondito in seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del Novecento, direttore dell'Enciclopedia delle scienze sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico della rivista "Nuova storia contemporanea" e collabora al supplemento domenicale de Il Sole 24 ORE.  Altre opere: “Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs” (Bari, Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte (Roma-Bari, Laterza); “Storia del pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari, Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau” (Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino,  Opere di Giuseppe Bedeschi,. Giuseppe Bedeschi, su Goodreads.  Registrazioni di Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16 marzo  21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia, liberalismo, conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references ‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.: Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library.

 

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Grice e Belluto – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Belluto; he shows that the philosopher is the master of grammar – his explanation of modi of the different ‘perfect’ orations—is genial and exactly what I tried to convey in my lectures on ‘mode’: vocativo, imperativo, optativo, indicativo – That this belongs in dialettica is obvious – since all modi share the same logic, and that’s Belluto’s point!” --  Bonaventura Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo.  Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò diritto civile all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali nel 1621, emise la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò teologia presso il Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il confratello Bartolomeo Mastri di Meldola del quale divenne compagno indivisibile di studio e di lavoro come reggente degli studi prima al convento di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova. Durante questo periodo, entrambi operarono per il rinnovamento della tradizione e per una nuova interpretazione della dottrina scotista tale da soddisfare la nuova cultura religiosa dell'epoca.  Pubblica a Roma con la collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica, dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros physicorum, quibus ab adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il fine di essere diffuso nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia di Scoto difendendola dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da altri interpreti tra i quali i gesuiti.  Successivamente pubblica un piccolo trattato di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt” (Venezia). Ad opera dei due filosofi fu pubblicato un “Cursus integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”,  le “Disputationes in libros de coelo et de metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria: argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione assoluta di Cristo.  Note  F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676). Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976  La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni: atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza, Officina di Studi Medievali, 2006 p.172  Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti. Duns Scoto Bartolomeo Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM. Nomina transcendentia infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum de Secundo adiacente sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi, De oratione, quid sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid sit propositio, seu Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel communi. falſa. Quæ dctiones fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit generi sin termini. Species. An dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum multiplicitate ratione fignifi Dub. 1, Qualis sit diuisio propusitionis in veram, falsam, affirmativam, negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex  uniuersalem o particularem qui sint termini mixti inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio modalis, & quotuplex, Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi qualis sit divisio propositionis modalis significandi  in compositam o diuitam. Quid fit terminus connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica, oquotuplex, D emultiplicitate terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas. Dubi. An bypotbetica propositio benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam  & disiunctiuam sit generis in species De prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An inter contradictoria detur medium, Varia terminorum supposition quod  sint species oppositionis, An suppositio competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto differente suppositio determinata, rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De oppositione, æquipollentia, &conuersione catbegoricarum, modalium, ac etiam hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione & eius affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum, pot.cies de Argumentatione, & eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur. nis. De fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n.An dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis de inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia, vel argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, & eius principis constitutiuis, dicendi per se. n.is obi de figuris eiusdem quo patto quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de essentia syllogismi nem per fe. detur quarta figura De demonstratione propter quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales cuiuscunque si quodque tale & illud magis. gure alignantur. De demonstratione quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio demonstrationis.corum exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere numerati. figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de syllogiſmo topico, de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis speciebus syllogiſmi cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi topici. detur syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi, de locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An detur diftin & tiomedia interdiftin & tionem reslem,orationis, de Fallaciis extra dictionem.  Impiegatura del segnare.  Ex variis capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in primis dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam, ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri", "buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita intelligi debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in secunda acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum et prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum [segnante, segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot order a cloud, 'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex August. De Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc vox "homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est, facit nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum [segnante] debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde veniamus in cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will do]. Hinc significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum *re-præsentare* potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad potentiam cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata, segnata], quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud, quod absque sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat & in eius cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa respectu proprii objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione facit nos in alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium respectu feræ transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14, hoc secundum signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem *signati* [segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat præcise rationem cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non quod cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et quod proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio etiam formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod facit nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio, quamvis sit ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus passim recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque impugnat quo ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante] esse id, quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit, quia non complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum. Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio est signum rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in cognitionem venire.  Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D. Augustini, quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non debet, quod saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti praeceptoris audeat impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes partes, si bene intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius, ut alterius rei signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei cognitionem, altera est, quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita, quarum conditionum utramque *optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi ab Augustino tradita. Nam per primam partem definitionis secundum exprimit conditionem. Vulc enim rem, quæ inservire debet pro alterius signo, prius nostris sensibus cognitionem sui ingerere debere, specificat autem signum esse debere *sensibile*, quia ut notat doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa sensibilia* sunt *maxime apta pro statu ipso excitare intellectum coniunctum a sensuum ministerio dependentem, ut in alterius rei cognitionem veniat. Per alteram vero partem definitionis altera quoque conditio exprimirur, contra quam nil urgent instantiæ a Poncio adducta, quia obiectum facit venire in cognitionem sui, non alterius, nec facit venire in cognitionem sui, quatenus cognitum, ut facit signum, sed quarenus cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo ad instar signi ducit nos in rerum cognitionem, quatenus cognitus, sed eas revelando, quod adhuc facere posset, etiamsi prius a nobis non cognosceretur. Cognitio denique esse signum rei cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non autem instrumentale, quod solum *proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur & ideo cognitio proprie loquendo non dicitur facere nos venire in cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in cognitionem illius rei, quatenus cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum autem signum instrumentale est illud, quod hic definitur. Et hoc signum instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and vice?] est, aliud *naturale*, et est quod *ex natura* sua independenter ab hominum voluntate [those spots mean measles] aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus ignem [where there is smoke, there's fire], et universaliter omnis *effectus* [causa/effectus] suam causum, qui præsertim si *sensibilis* [fumus] erit, dicetur signum causae juxta sensum definitionis allatæ. An vero ita e contra *causa* dici posse signum sui *effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4. quia etsi causa cognitio ducat in cognitionem *effectus*, tamen, non es ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane non minus ordinata est cognitio *causæ* ad nos ducendum in cognitionem *effectus* a priori, quam cognitio *effectus* sic *ordinata* ad notitiam *cautiam* a posteriori, quare ratio Hurtad. parum valet. At inquirare alii, quod licet ita res se habeat, sola tamen cognitio, quae per *effectum* habetur, dicitur haberi per signum, unde sola demonstratio a posteriori, quae est *per effectum*, dicitur *a signo* et ideo solum *effectus* dici potest signum *causæ*, non e contra. Verum neque hoc viget, licet enim cognitio habita *per effectum* veluti sensibiliorem *causa*, magis proprie dicatur *a signo*, nil tamen impedit, quin et cognitio habita *per causam* possit dici *a signo* absolute loquendo. Potest igitur etiam *causa* dici signum sui *effectus*, et praesertim quando *sensibilis* est, unde a theologis sacramenta dicuntur *signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare colligitur ex Doctore 4. d. 1. quaest. 2. De secundo principali et sequitur Casil. cit. & Arriaga disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum artificiale* [not conventional! ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex hominum impositione aliud re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini, sonus campanae est signum lectionis [the bell means the bus is full], et vox illius rei, ad quam *signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum etiam in vocibus ipsis non tamtum significationem ad placitum reperiri posse, sed etiam naturalem, ut patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo terminus vocalis *signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum naturaliter et ad placitum et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum suam realem entitatem, ut vox est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed secundum quod impositus est ad res ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces pertinere dicuntur ad institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi etiam declarabimus, per quid constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two sections. General definition of sign, following Augustine, but with objections by Ponzio. Second section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and mere natural signs. Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti. Bonaventura Belluto. Keywords: dialettica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell means that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes means that Grice is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’ is better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in terms of cause and effect. The problem of God, should sign be always ‘material’?—Etimologia di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bencivenga – il piacere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo italiano. Grice: You’ve got to love Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco – which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took philosophese too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all meant in fun – as a joke –“. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di Milano, Bencivenga ha lasciato presto l'Italia, trasferendosi prima in Canada per gli studi di dottorato e poi negli Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua carriera accademica insegnando, dal 1979, all'Università della California a Irvine.  I suoi interessi di studio, nel corso del tempo, hanno riguardato la logica formale (negli anni settanta), la storia della filosofia (negli anni ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha pubblicato numerosi testi sulla storia della filosofia e su specifici argomenti filosofici, come logica, estetica, filosofia del linguaggio, in forma dialogica, saggistica, trattatistica – “Teoria del linguaggio e della mente” (Bollati Boringheri --, con scrittura aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) -- o affrontando singole figure storiche (come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre diversi testi introduttivi alla filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico più vasto, e alcuni libri di poesie. “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Montadori)  è un saggio ripubblicato negli Oscar Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini, il saggio si pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande della filosofia. Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per forza: critica della società del divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato all'importanza del gioco e all'esame critico del sovvertimento di senso di cui esso è stato fatto oggetto nella società contemporanea: trasformato in industria, il divertimento ha perduto la sua naturale collocazione, quale manifestazione della sfera fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto in una dimensione 'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come attività passiva e ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici coattivi che snaturano completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan Huizinga: il gioco del lotto e l'intrattenersi con videogame o slot machine diventano forme di subire passivo, una dimensione alla quale è precluso il manifestarsi dell'agire ludico dell'uomo attraverso l'attività fantastica della psiche umana.  In un mondo in cui domina la dimensione organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva impoverita dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del gioco, una prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse parole, «se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità».  Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene.  L'Etica consiste nel negare la preminenza al nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e ruoli della nostra vita e della nostra professione.  L'Etica è come un "fuoco immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco", un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti.  Si pone poi il problema di come considerare l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla «banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete kantiana del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore, l'Unità, ecc.   Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro, Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano. Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa” (Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta” (Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo Mondadori Editore);  “La filosofia come strumento di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo Mondadori); “La logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere. Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica” (Editori Riuniti); “Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il Saggiatore  Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti  La scomparsa del pensiero. Perché non possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno” (Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo, tragedia in tre atti. Aragno  Case. Cairo  Il giorno in cui non tornarono i conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro, tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio. Poesia Panni sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia. Aragno  Poesia dei miei coglioni. Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice  Amore per Milla. Di Felice. Interventi di Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno  in. da SWIFTSito web italiano per la filosofia  premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com. Blog ufficiale, su sites.uci.edu.  Opere di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno Bencivenga,.  Profilo dal sito dell'UCI Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova.  Da un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale.  Questo dunque è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia: doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo Zorzato per i loro  commenti a una versione precedente del libro. Un ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza, il rigore e la sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola, le citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano autore o titolo è perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna immediatamente la citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto.  1. Il gioco Una bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante. Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è in  gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro, cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar); hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21). Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser verso problemi per cui le folle non provano  (ahimè) alcun interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione. Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola, astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi, avendo visto maturare anziché  spegnersi le nostre opinioni e i nostri sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si realizza attraverso questi um ili, intimi passi.  2. Il punto di partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga «solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata (presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama. Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,  quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza – un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti) come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si porge  attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi (parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti, l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto che esplora è il suo  ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada battuta. Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di «piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia, se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa, perseguita in  completa autonomia (in accordo con una delle possibili definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico: Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro, però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero, intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p. 195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile» (p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica, spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai più decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su  come il mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza, sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente» socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così (implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo, di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga condotta con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che occorre discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso; violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato – a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé stesso, e questo comportamento avventato implica  inequivocabilmente dei rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88; traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa. Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato, urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente, fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?  3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo, cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato un modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio, perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando, esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate; nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace – dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette. Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo  per quel che la scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano di trasformarsi in puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva, rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza più pura è andata dissolta. Col progresso dell’umanità, il numero delle dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la condizione di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così importante all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari – rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene a mancare, confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà della questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario agguerrito, impegnato a convertirlo. Con tutto il rispetto per Mill, però, siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo, nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in un altro punto. Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro. L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole: informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale, non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –  senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità; nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però, estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale, perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione. Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità (intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi», conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente fino a che punto siamo in grado di conoscerle),  finché non si sia deciso in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato; è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano, leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità, vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di vista autosufficiente che costituisce la  sua realtà, e non c’è una realtà neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di poter emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati; qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della situazione e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che sono stati gli esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non viceversa. Che cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da applicare prima che il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un computer) non può avere successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che, in contrasto con le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane: esercizio di quale pratica? esempio di quale comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al tema principale della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel vuoto. L’esercizio che  è opportuno per acquisire questa capacità deve dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più svariati e adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione) il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel prossimo capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con altre persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco, rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno) dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa. Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’ preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima o poi contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso – perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo «sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non conta,  che al momento è solo possibile.  4. Regole Avendo così tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti. La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto, e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare. Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di una specie biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere per libertà e risponderò che di solito non  s’intende un’infinita capacità di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di operare una scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà che noi conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello che mi è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese, all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p. 66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio) una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando «balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo (limitato) spazio di discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Quella che ho appena enunciato è una tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso nel labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di avventura ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione: esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli angoli  più diversi, perché questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le nostre esigenze. Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono trovar posto in un qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime ci porterà a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o vantaggioso ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite e ad azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e universalmente catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A rendere difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa considerazione cade a proposito con il termine che stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che il gioco trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo, dando luogo a una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la strada a una trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di quegli intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato nella più banale e televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non biecamente reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far saltare in aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che  avremo creato (e sotto la protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento essenziale della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e con la coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva. L’umile gioco della vite ci offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo; ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte (vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà, che possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come quello della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da scoprire, non come essenza di un gioco già in atto. Chi risulterà convinto da queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso paradigmatico, un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura che il gioco mette in discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della figura quando «figura» sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il normale uso di tale strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la sua forma e solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente, fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite.  A riprova della pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci, urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato, afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata. Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade, nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci, comparire o sparire,  senza che il gioco cambi, perché esso consiste proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco», dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86). Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma invece non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio giustapporre, nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio; si tratta chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi non c’è motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in inglese, sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice distinzione faccia supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della strategia intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi altrettanto importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è analitica perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che adotterò invece una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei confronti della contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la contraddizione è il più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio universale è appunto il divide et impera: il significato che sembrava contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati distinti, che  sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due distinte parole – se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione di una personalità e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma nessuno): è che la stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare parole diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica dialettica, invece, si nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale, ogni struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il suo desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame affettivo dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come membro della sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di «giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte, affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta [...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua  evoluzione da una fase all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza. Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura, si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti (essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto. Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30). Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte) quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua  volta trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati, qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno?  5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza, dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però, questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto, soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse «fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.) L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo costante: in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito mentale, con il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando una discesa da  centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre circostanze in cui ci sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo in considerazione il carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere il delicato equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia preziosa se nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve questa indispensabile funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare impreparati alla prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di compiere qualche avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le avventate manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica catastrofe, forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza di salvezza. In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del Principe di Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe, dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica? Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà  con orrore da manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri. Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»; voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora, e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si annidano in un universo caotico e  coltivare al tempo stesso, senza farsi troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra, o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo  alcuni movimenti e atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente. (In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro della sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito; in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso, potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente ludico; ma  qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è: valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi. Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un altro gioco. Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente fittizio e uno reale. Se per la bimba  non c’è niente di più serio del suo gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui confini una o più persone decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente. Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo, senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto: è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada. Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale, nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza, con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di un’automobile, dove incontrerà altre  resistenze che accetterà come regole di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione, che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere. Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me, d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso conto allora che avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco” stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè: quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi, analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione. L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p. 235).  Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per questo all’altro prima o poi si arrenderà.  6. Calma e gesso Nel gioco del biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo, prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto, un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo. Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non «sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto stesso di cui  volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente (e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa, alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois a p. 14). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E la spiega, anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54). In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente, l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio. Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su un’altra scimmia che con la  medesima casualità scopra come far cadere un cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità, riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p. 37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie: cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.) L’immagine che stiamo disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia organizzata in modo graduale: [Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto [...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget parla di polarità: il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso cui  converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del simbolo nel bambino, pp. 213-214). il gioco si riconosce da una modificazione, variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o meno differenziato (pp. 218-219). Io però intendo proporre qui un’operazione più radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il non-gioco in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra), intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le attività possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole) siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali. Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette, semplicemente,  alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire «tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più audace delle avventure s’incagli su un binario morto.  7. Illusioni Nel quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le «figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato, inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è, letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci. Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno, da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo («ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni, quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo, invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per esempio che abbiamo imparato a «vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di carattere intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva» che è un’interpretazione, non una direzione nello spazio. Esistono però anche casi come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato) ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che il pittore  voleva mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci – ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte sono diventate un teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che normalmente costringono a guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa per fargli vedere dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto, delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown). Quel che conserva una frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto particolari oggetti multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso, cominciando dal secondo. Abbiamo già incontrato il paradosso della rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa da sé stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario, «illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole; è legato a giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle norme che essi sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo nella visione del mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio usare la parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola con un richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che nubi di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per il cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il cielo abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e recita:  Talvolta noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito – metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione, ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna, traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne (dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra. «Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici. L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un coniglio –  è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte, che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere, cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona, sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra, in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale, per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni, ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione. Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich, dipende esattamente dallo sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi porta attraverso gli abissi dell’infinito su una  superficie piatta e fa sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è altro che una tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca anche con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio quella nostra visita a costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui ci siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni. In primo luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico, scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in prospettive e con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni, corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre per l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività (ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore maestria, non che si tratta di  attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per sé stessa (l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore, totalmente immerso nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca, come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di scopa: gli scrittori di estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al centro di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo luogo, l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta, usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma può godere dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco di società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana:  «Ma questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «Perfino se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa» (p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta «razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza, sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori interno per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola. Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro. L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti  più di una scrollata di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi, e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto) in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci) e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.  8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi. Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti? Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola. Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare, insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente. Basta osservare che, se stiamo giocando e se il  presunto oggetto del nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale? Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati scritti in proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel difficile compito di trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti in quest’area protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci, senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile per il prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi scorreggia più forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare radicalmente la nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e anche da quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti (e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che  ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole. Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho chiuso il capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che per molti autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia trattazione, finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo con la precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale, quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco: è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro. All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste, anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana  importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello adulto: I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino all’animale che i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto. Per il bambino, giocare è agire (p. 35). Buona parte dei giochi comunemente detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto. Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive del gioco, sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un cubo o di una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si può manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare, mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica, nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente torto, questi autori? Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati, ha l’unico effetto (e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e magari saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o con altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il suo senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la sua sopravvivenza e il suo benessere.  Depurato di ogni altro aspetto, qui il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando – o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero. Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio, insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici, numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità «ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e soprattutto «autorità competenti»  sentite come estranee e predatrici. Un ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise barriere (regole): «Formalmente la nozione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens). E sono d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è di natura una sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta dei dadi o la vittoria nella lotta. Giurisdizione e ordalìe sono radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale, ottenuta sia con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per se stessa. Quando è animata da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è dominata da concetti positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera della fede. Qualità primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125). La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e autori come Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi, gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in Amici miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono – sacri o meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un effetto paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno: da un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non voglio negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me laico, è la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a sua volta goduto che tessono per me la trama del gioco.  9. Compagni di gioco Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo gioco incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le resistenze sono offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli mentre giocano insieme. In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La palla non vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi inconvenienti possono causare violente frustrazioni (nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da scansare con abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una scatola o con la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà parte della struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.) Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un bambino si dia regole da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il sacro:  La regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed appare come il libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp. 22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco, che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole («Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore. L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo, e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale, non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo andare, fulminando la lampadina); il  tavolinetto è fatto per appoggiarci bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza. Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono; ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività. Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra  dover essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto, illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze, riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo» (o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie» a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali, addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita (direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile: meno gioco vuol dire meno umanità.  (c) Il gioco è tanto più gioco se giocato insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il «con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli e i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le conseguenze più gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia, è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali, come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui (senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla vittoria  dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario, di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione. Per capirci, supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di «funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi, magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La percezione del mio «avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere  invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte.  10. Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione, sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore, sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo, imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni di Flushing Meadows, qualche  anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria Sharapova. Il piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di cui ho parlato nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico: l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità (magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché comprendiamo che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la naturale teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in un mondo privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai testi poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione: il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a proseguire nel nostro cammino. La teoria si compone di due tesi principali, una descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un ruolo significa identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua. Qualcuno vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone, quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni altra  indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso, per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna, però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione (Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’ il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il  loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi, spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti: quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente scoperta dei neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto, non come atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano (ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani, traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto e ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo intimamente consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e sentiremo un profondo impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di quegli impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere, fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino, servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme. C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che, inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino a  raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il “bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90; traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio «solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti, eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso, rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da escludere: anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque non è escluso che in esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così che il mio comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno sistematicamente e consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un certo numero di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare mossa – e confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale sia la mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri diversi: qualcuno sarà più  audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune. Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a metterla appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli autentici solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa, applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro «corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta; coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di fare, e tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché «Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato origine alla battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta, perché se è rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda, illuminante giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno regolamentati, più o meno  vincolati a parametri fissi, e per converso più o meno espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!».  11. Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi. Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto ciò che occupa spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco» dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza astratta e abbandoni al suo destino tutta la  zavorra – in particolare la zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva in Malebolge, con tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale non è una bestia mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene associato a mentale si tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più precisamente, si tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si associa, che su tale fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi accetti la radicale distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso, ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel deserto emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero», quella non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende «albero» una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente (che, presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle cose astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i significati. Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica contemporanea Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto di significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche (un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie, ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali. Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B (un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un linguaggio che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio significano B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti (cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria? Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo: introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente, più elegante e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian, professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira, quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere. Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso (privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione, ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti, echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E, invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma, si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato: in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica; e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere? Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili, non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro, dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare, potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio, invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica. Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine «scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto, comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa; bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline (ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa) normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e (altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale (cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico. L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali, costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo, direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che incontriamo nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura fanno ossequio alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente) e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze personali, immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività più raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile, come il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva la forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi, la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto, improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato, invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente (a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente: l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione, delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale? Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile, ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione» nel senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti immateriali a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate, le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio: solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo puramente rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05 la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi, per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto. E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme – «Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio (fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non esistono i significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e che non è il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati astratti ed è la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno. Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato, ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina; ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura, la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca. All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono venuto sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un importante elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle poetiche o letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in un universo che non ha più nulla di spirituale – un universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una mia confusione, come se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste domande a provare qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza», purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente rituale e aperta ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla routine più inflessibile, sono comunque una mente, una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta guardare al mondo accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e in parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che «il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco (cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza, ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma, per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo, un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale – ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di «mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del) suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio, unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri; e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama «pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni). Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero, più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro, trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento: non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa; certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura, i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia, perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume, scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio, la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio, occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]», Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo «tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo, un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre, usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio – lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio. Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza. Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale, pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica. In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto: si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie. Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano? Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo, intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei, mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita. Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che, sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta: che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge, giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere, non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco» filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile. Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente, diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro, dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente, peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri, eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato, dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco (palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita, allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse – devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive, allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra, allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no. Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di una foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo giocare con un altro: trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un altro da strumento significa trattarlo come un oggetto inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei) sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura minaccia e sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno però un ruolo significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione a un incontro, quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere. Possiamo giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il riscaldamento globale), oppure come con un compagno, raccogliendone i suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire insieme un bel castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il mare ti avverte quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che congedarmi con una provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso di un’attività che è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello che sembrava il termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in buona parte misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata divertita per farlo scomparire.Ermanno Bencivenga. Keywords: il piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo della logica, calcolo di predicati di primo ordine, logica di termini singolari, piacere, bello, logica dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bencivenga” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bene – Tancredi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Maruggio). Filosofo italiano. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine dei Teatini e fu professore. Lascia importanti opere come l'Apologia del Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio, in sua memoria è stato intitolato l'istituto comprensivo e una via cittadina.  Opere: “Apologia del Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S. inquisitionis circa haeresim” “De immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”, “Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso del Bene. Nacque in Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della diocesì di Taranto, come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi dirli, ed è Commenda della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le latine lettere, e le greche, la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini, e ne professa l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di lettore di filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per cui ebbe in Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi pensando e scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte, e fu predo decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del S. Uffìzio, e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine co’Tea- tini Vincenzio Riccardi, ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y emendazione dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di modedamente rifiutare. On-? de terminò di vivere da semplice religioso in Roma. (b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di Ascanio Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag. i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate, Dubitationes morale!. Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill. Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi 3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte! di/lributttm. Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud, <5* Claud. Rigaud 1650. in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan, O* Mar. Ant. Ravaud in f. 5. Trattarui morale!: videlicet de Conscientia; de radice re/litu- rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii & irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti!, ubi etiam da alagiti (5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo. Avtnione Guill. Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi fregia in virj suoi libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i reijitlri di S.Ao'* ea della Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli attribuire a quell’ Opera le aggiunte fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y. Inquisitionit.  (d) Il Vezzofi lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il Mazzucchelii d’aver det-. t». Digjtized by Google   BENE BENEDETTI.,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti- bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore poi compose, e vi uni le seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de Officio S. Inquisitionrs perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi riftampò in 8. fenz’ alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c. cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan, 0" G. Barbier. in f, CXI.  da Capoa, ha rime nel Sello libro delle Rime di diverfi eccell. Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli. Vene*. G.M- Bottelli 1553. in 8. (a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce: L' Imprefe della Mae/là Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel tumolo ptr la Jua, morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila Lepido Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI (Giuf. dilettò di Poefia volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino, di cui fu Vicecuftode, e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’ Velati di fua patria egli era Principe  (r). Fu anche accademico Infenfato di Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti BENEDETTO, Arciv. di Milano. V. Crifpo (Benedetto ), BE-. to, edere (lato il libro de Comìtiis unito dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti moralts: elfendo quello un libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a quello unito. Ora in primo luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di tutto ciò; e foltanto riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io pure ho fatto, unendovi deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come ognun vede. Ma poi non fo, fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione. Io non’ ho il libro, ma lo trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce Detiene (sbaglio prefo pure dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de Comìtiis; e ciò, eh' è più, il Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente dice:,, Io oltre l’ultima edizione del libro de Co-,, mitiis etc. fi regillri nel modo, che fiegue: Tbeologia moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc. II. de Alagiis etc. Un trattato fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai, Tafuri. Tommaso Del Bene. Keywords: Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale, cavalleria. Il santo cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia, abiuratio, conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Benedetto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crema). Flosofo italiano. Insegna a Padova, di cui divenne in seguito rettore. È ritratto in un dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani, allievo del Giorgione. Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Benincasa – il nudo maschile nell statuaria italiana all’aperto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Eboli). Filosofo italiano. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la svolta dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò a lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von Balthasar) per poi organizzare e curare mostre d'arte.  Membro della Commissione Consultiva Arti Visive della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali.  Insegna a Macerata, Firenze e Roma. Scrisse saggi storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e storia di Suhard e il Concilio Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra futuro e utopia” (Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa, Milano); “Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi sul pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C, Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C, Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock: opere” (mostra, Bari, Castello Svevo) Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori, Milano; Spirali/Vel,  "Alfio Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti: arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano). La citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio  repubblica biennale-il- psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca.repubblica. it repubblica/archivio/ repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni. html2 lacittadisalerno/ cronaca /benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto %20ieri%20a%20 Roma, autore importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni Culturali%20e%20 Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori giudiziari, su errorigiudiziari.com  Carmine Benincasa. Keywords: il nudo maschile nella statuaria italiana all’aperto, implicatura plastica, la svoglia dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile, statuaria, il segno del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita, futurismo, arte futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Benvenuti – filosofia italina – Luigi Speranza (Montodine). Filosofo italiano. Grice: “A good thing about Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that Benvenuti has a strictly philosophical background, rather than in grammar or linguistics or belles lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine as *I* do!” --  Grice: “You gotta love Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs, and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno scritto).” --. Cesare Benvenuti   Cesare Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città di Dio  Biografia Cesare Benvenuti nacque dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII.  Cesare Benvenuti era anche dotato di particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu colpito da apoplessia e quivi morì.  Altre opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e dottore di S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico della vita comune dei chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere la poca forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita comune e votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e. De' terapeuti, che se ne dice. Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino. SE G10LO 1L Comunità de' beni nello stato dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del clero di Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità del clero ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli Eclesiastici cosa scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di Corinta ed Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III.  Clemente Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva, triferita da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI. III. praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui convertitieconfa. gratialculeo del Signore on    la Cornunità de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici. Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a' CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo Sulpizio della Povertà d'u n Prece, Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici. Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli Ecclesiastici della  Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo, Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1 Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que' tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in comune de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note  Fonte: Francesco Sforza Benvenuti, Storia di Crema, p.37Filosofia Filosofo del XVII secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords: paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda, cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante, segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Benvenuto – il grido – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e grido,’ the functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get the manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s one which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is like a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers, ‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e diretto l'European Journal of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi universitari all'Università Paris VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha ottenuto la Maîtrise in Psicologia. Nel frattempo, ha seguito i seminari di Roland Barthes e di Jacques Lacan. In seguito ha preparato un dottorato in Psicoanalisi con Jean Laplanche all'Università Parigi 7. A Milano si è formato in psicoanalisi attraverso gli psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppo-Analitica Italiana.  Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra la ricerca in psicologia sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista, e il lavoro di pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista Lettera Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore del trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest. Nel 1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European Psychoanalysis, divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che tuttora dirige. Dal  insegna psicoanalisi all'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto di Psicoanalisi Moderna di Mosca.  Pensiero Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica, psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista (interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una Verità che si dipana nella storia umana).  Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo, irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si arresta.  In Dicerie e pettegolezzi (dove articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla “depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato diversamente.  In “Sono uno spettro, ma non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti, notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della “carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione come sorgente opaca e non-significante della soggettività.  Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli, Liguori);  "Traduzione / Tradizione" in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano, Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan); Dicerie e pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo); Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri); “Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore, Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido, Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno. Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis,  Leggere Freud. Dall'isteria alla fine dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan, su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante, segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised, stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico, convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale, procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia, popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei, positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico, confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berardi – telepatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Berardi, but I wonder if his background is in the classics – he has written on ‘il futuro della comunicazione,’ and coined some nice neologisms, like ‘psiconautica,’ – which is like my telementationalism, only different – and dialogued with Guattari --  While Berardi is into ‘il futuro della comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are usually into the PAST of communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto “Bifo” -- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive alla FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo". Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove nel '67 conosce Toni Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a Potere Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura di spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975 fonda la rivista A/traverso, un foglio che era espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese del 1977; nei suoi scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra movimenti sociali e tecnologie comunicative.  Nel 1976 partecipa alla fondazione dell'emittente libera Radio Alice e subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione, Radio Alice organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader dell'"ala creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura della radio da parte della polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato per "istigazione di odio di classe a mezzo radio", per sottrarsi all'arresto fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari e Michel Foucault e pubblica il libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre (Éditions du Seuil).  Negli anni ottanta rientra brevemente in Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora alle riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in Messico, India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della crescita delle reti telematiche e preconizza la futura esplosione della rete quale vasto fenomeno sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in veste di protagonista, partecipa al documentario Il trasloco di Renato De Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla storia del suo appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui Virus mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la Castelvecchi e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per MediaMente, la trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta da Carlo Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di comunicazione.  Collabora alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Cura con Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002 fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali del nuovo sindaco di Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese Adbusters. Anima la mailing-list Rekombinant con Pasquinelli.  Altre opere: “Contro il lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani); “Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano, Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"” (Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano, Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza” (Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna, Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna, A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk. Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel & Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi. Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi); “Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit. il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri); “Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata. Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna (serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo. Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo, edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita, ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte,  Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini & Castoldi,  Asma, C&P Adver Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare. Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”.  Note  Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto.  Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto.  E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente: Franco Berardi, su mediamente.rai.).  Bifo: "Con la Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento | Bologna la Repubblica  Cominciamo a parlare del collasso europeo, alfabeta2   rekombinant@liste.rekombinant.org, su rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile.  A/traverso | Casa Editrice Etichetta Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. Félix Guattari Gilles Deleuze Movimento del '77 Radio Alice Telestreet Internet Movie Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul  Through Europe Interregno[collegamento interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco (scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org. podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu, Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social Imagination San Marino; scepsi.eu. 13 agosto  27 novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd. Franco Berardi su Bookogs. Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Politica  Politica Categorie: Saggisti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore BolognaMilitanti di Potere OperaioMovimento del '77Studenti dell'BolognaFondatori di riviste italianeAttivisti italiani. Franco Berardi. Keywords: telepatica, implicatura del presagio, poetica ariosa, progetto ario, telepatia, pre-sagio, sagio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bernardi – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo italiano. Grice: “We discussed Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring on ‘Categoriae’ – “Surely this is not propedeutic logic! This is pure metaphysics, and even pure physics!” Bernardi held the same view! On top, I love Bernardi because he does not use ‘logica,’ which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico, nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese, dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo aristotelico e letterato.  Consacrato vescovo di Caserta. Poi a  Parma nel monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola.  In occasione del 5º centenario della sua nascita, il Centro Internazionale Giovanni Pico della Mirandola gli dedicò un convegno.  Lo scrittore Antonio Saltini ha utilizzato la figura di Antonio Bernardi come personaggio del suo romanzo storico L'assedio della Mirandola.  Atre opere: “La Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la ragione e la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista religioso. Note  Vedi Google Libri.  Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della Mirandola (1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti del convegno "Antonio Bernardi nel V centenario della nascita" (Mirandola, 30 novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, Aristotelismo Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio Bernardi  Paola Zambelli, «BERNARDI, Antonio», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia Categorie: Vescovi cattolici italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore Mirandola Bologna.  EVERSIONIS SINGVLARIS CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen, quantum quidem poterimus, fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe nitus ex animis hominum extirpare, (utpote quod ab homine qui Chriſti ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia edituseſtliber quidam, infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio agorti{ eup vxbés oszy: tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò uerborum faciem intuentes, interius autem non expendentes reconditam rerum ueritatem, putauerunt eius libri quem diximus, auctorem, Ariſtotelis ſenten tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no. ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam tantum abeſleut ille (quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium, uoluntas, quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ fundamétum efle,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera. Verùm antequam ueniamus adipfius uerba, uideamus quam facilè hoc eius fundamentum peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma, quibus eius impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed quia nos, qui deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem Ariſtotelem conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis, ponentes ea ante oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam, deſtinatis ſententijs addicti confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile intelligant quam iniuſtè, quàm etiam con. tra hominum utilitatem, iſte in me quali grauiſsimum aliquod facinus admiſillem, inuaferit. Sed iam ad rem ueniamus. Omnia ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ, non ex fancta noftra religione permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte loquitur:)ergo fun damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura genera: & quòd ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum, &aliud nõ permiſſum. Ex quo poftmodum emanat, me in libro Dehonore non eſſe lapſum, quia ignorauerim nomen &no. tionem, uim; & originem fingularis certaminis,cum dixerim eius nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam,apud Romanos Singulare certamen: quia non fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm nomina unius fpeciei uel generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod antecedit, probemus in hunc modum. Illa certamina quorum eft idem finis, effe etiam eiuſdem generis uel ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur genus & ſpecies. Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a diltinctione finium ſumpſit diſtin, a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem illorum certaminum:ut ex fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2. Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit: Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia iuſtum eſt. Item inquit: Determinatur enim & definitur u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem &ſuperabundantia ut nominetur ad finem, &excellen " tia uirtutum oporter. Si ergo unumquodq; determinatur &definitur fine: ſingu laria ergo certamina decerminabuntur & definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una erit ſpeciesſingularis certaminis:ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item Ariſtoteleshæcſcripta reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű mundo,tex.116 eſt ipſum eſt illius ſubſtātia. Quæ ergo certamina habent eundē finē, ut fint etiam 1.Oeconom. eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé fubftantiæ & formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia illa ſingularia certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ, & illud etiam genus quod nos conceſsimus in libris Deho. nore, ſunt certamina ſingularia, quorum eſt idem finis:ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel ſpeciei,neceſſe eſt. Minor probaturſic:llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt eiuſdem finis. Propofi tio iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe conceſsit (utpugnare pro pa tria,pro coniuge,pro regnis, honeſtum eſt finis:ergo habent eundem finem. Sed oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem. Sienim honeſtum non effet eo. rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene inſtituta: quandoquidem Rer publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta, alioquin nõ eſec bene inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc fimpliciter bona ſunt honeſta, & quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui ergo facit pro patria, facit propter honeltatem. " Item, Viri fortis finis eſt honeſtum. Qui pugnant pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore. gno,ſuntuirifortes:ergo eorum quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro filijs, pro regnis,eſt finis honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt, declaraturtamen ab Ariſtotele his uerbis, quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam citauimus ad aliud probandum: Finis enim, inquit, omnis actionis eft fe., cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft honeſta, &talis eſt finis: determinatur, ' & definitur unumquodq; fine.Honeſtienim gratia fortis ſuſtinet &agit ea quę funt, ' ſecundum fortitudinem Ergo uiri fortis eſt finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit: Oportet autem non propter neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt. Item paulo poſt inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira aūtadiuuatipſos." 1. Rhet... Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis, funt honeſta & iufta: & opera iu. ftè facta,ſupple ſunt honeſta.  Bernardi (Ant., Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani, epiſcopi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certaminis Libri XL. / In quibvs cvm omnes inivriæ ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum, & côtentionum, quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio traditur: & præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui ſunt difficilimi, obiter explicatos. Animi etiā immor talitas ex ipfius ſententia oſten- / ditur: Aſtrologiæ quoq; diuinatio omni pene autoritate fpoliatur, atque libertas humana ſtabilitur. Ad amplißimum uirum Alexandrrm Farnesium Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere memorabilium, Index. --- Basilea, Per llenricum Petri. [ W - 1 '] In folio, al princ. Di queste: 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum locuple tibimus Index. Nel testo alcune iniziali con vignette. La stessa opera di questo autore, detto da alcuni il Mi randola, dalla patria, e da altri il Caserta dalla dignità, è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo: - Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm ex professo / Monomachia (quam Singulare certamen Latini, recentio- res Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, &  mox. diuina authoritate labefactata penitùs euertitur: omnes quoq: iniuriarum ſpecies declarantur, easq'; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes traduntur. Deinde uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ quàm actiuæ, Loci obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. Ad amplißimum uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium, Basileae, Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA Bryling. |  - (In fine:) Finis Qvadragesimi et vltimi i libri Euerfionis fingularis certaminis. / [ Fer] In folio p. 694 con iniziali con vignette. Al princ. 18 p. 1. n. pel titolo, pella dedica al Cardinale Far nese (nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index. Il Tiraboschi nel t. 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere, che questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione, della quale essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa del Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il duello, stampa il Maffei (op. cit., 1.a ed., a p. 252), che è stata stesa; « con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori, che si chiamano di Filosofia; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion di vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e talvolta manifesti e palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei (a p. 264 ), che dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo. In quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto, quella di Venezia per il Valvassori, « sol per poche righe, che in alcuni luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo ». - In quanto all'accusa di plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino, essa è abbastanza giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo, ma il Pos sevino non si fece alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio. È vero peró, che la pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del Possevino, ma di suo fratello Antonio, che appartenne alla Compagnia di Gesù, ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata, ma Antonio Possevino non avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più, che al dire del Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta all'orecchio la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero autore del trattato sul duello, ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata. Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti, mono machia, duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bernardo – la tradizione iniziatica italica -- filosofia italiana --  Luigi Speranza (Benne). Filosofo italiano. Grice: “I like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian philosophers are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare d'Italia. Diplomato in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in Sociologia presso l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì la carriera accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza e di Logica, nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e pubblicazioni sul tema della filosofia delle scienze sociali e della logica delle norme.  Fu iniziato alla massoneria nella loggia bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro venerabile della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno chiese e ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di riservatezza legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di riservatezza ebbe la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese antico e accettato. Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni della sua maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa cattolica, dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista Italiano, e dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta Cordova" (dal nome del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al centro di polemiche anche con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di dimettersi dalla carica di Gran maestro al termine della Gran Loggia annuale a Roma alla quale si era presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto di una nuova Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI gli succedette il reggente Eraldo Ghinoi.  La neonata Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge fuoriuscite dal GOI, caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese Emulation. Otto anni dopo la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede alla guida dell'Obbedienza Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine paramassonico, denominato Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza regolare. Pur dichiarando di essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo da anni si presta a rilasciare interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a giornalisti che ad organi inquirenti. Nel  ha polemizzato con il GOI dopo aver reso una dichiarazione alla Commissione Antimafia relativa a presunte rivelazioni di Loizzo (vedi ). Il GOI ha annunciato l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione e calunnia. Il lo stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il Gran Maestro del GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a carico di Bisi viene archiviata per insussistenza.  Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn.  Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo. Aldo A. Mola.  Pubblicazioni di Giuliano Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del deserto, GOI.   Aldo A. Mola,  801 e ss.  Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order, dignityorder.com. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Gran loggia regolare d'Italia Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su Giuliano Di Bernardo  Intervista a Giuliano Di Bernardo del, Predecessore Gran maestro del Grande Oriente d'Italia Successore Square compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore Gran maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università  Università Filosofo del XX secolo Filosofi italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di Bernardo. Keywords. la tradizione iniziatica italica, logica dei sistemi normativi, normativa sociale, l’implicatura del massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berneri – filosofia italiana nel ventennio fascista – filosofia italiana (Lodi). Filosofo italiano. Grice: ‘I like Berneri; of course we need to know more about his philosophical background and education – he represents the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia militante,’ but then I fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre originario di Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in provincia di Brescia) e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la famiglia dapprima a Milano, poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in provincia di Vercelli) e, infine, a Reggio nell'Emilia.  Qui, da una testimonianza di Angelo Tasca risulta che Camillo Berneri militava nella Federazione Giovanile Socialista di Reggio Emilia già dal 1912 (da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag 109). Dopo essere stato membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver collaborato all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato convinzioni anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le dimissioni, vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le ragioni del suo dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del mio catecumenato socialista". Nel 1916 si trasferisce ad Arezzo dove frequenta il liceo.  Chiamato alle armi ed escluso dall'Accademia Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel 1918; quindi, ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione dello sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona.  Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare. Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana. Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale "Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso. In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni, si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma: vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la sostanza di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta alla ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre anarchici era nel governo di Largo Caballero.  Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le giornate di Maggio. Berneri fu prelevato insieme con l'amico anarchico Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le rispettive compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati crivellati di proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui caduto in Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni scrisse: "Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro Nenni, Nuovo Avanti, Parigi).  Altre opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico” (Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze); “Un federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore, Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia);  “Nozioni di chimica antifascista”; “L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora:  Mussolini normalizzatore La donna e la garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Edizioni Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, Mirella Serri, I profeti disarmati. 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e criteri di edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,,  XVII-XIX , Enciclopedia POMBA. Camillo Berneri, Anarchia e società aperta, Pietro Adamo, M&B Publishing, Milano 2006. Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il "programma minimo" dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri e la tragedia dei libertari italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti disarmati. La guerra tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Flavio Guidi, "Nostra patria è il mondo intero". Camillo Berneri e "Guerra di Classe" a Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore, Milano. Giampietro Berti, Giorgio Sacchetti, Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo, Archivio famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia. Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,,  Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Camillo Berneri.TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Berneri, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Camillo Berneri, su Liber Liber.  Opere di Camillo Berneri, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri,. Camillo Berneri, su Goodreads.  Altri particolari sul sito dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. ). Carlo De MariaUn convegno e una nuova stagione di studi su Camillo Berneri, su storiaefuturo). Socialismo LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario. Abolizione ed estinzione dello stato, Anarchismo e federalismo di Camillo Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia  Anarchia Biografie  Biografie Politica  Politica Storia  Storia Filosofo del XX secoloScrittori italiani del XX secoloAnarchici italiani  Lodi BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime di dittature comuniste. Camillo Berneri. Keywords: normalizazzione, delirio racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berti – la morte di Cicerone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Valeggio sul Mincio). Filosofo italiano. Grice: “I like Berti; of course he has philosophised on the only two philosophers worth philosophising about Plato and Aristotle – his interest is in the ‘number idea’ in Plato, the unity in Aristotle, and various other things – notably Socratic dialectic as the basis for both!” --  Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla filosofia,” – for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and extro-ducted to and fro’!”  Professore emerito di storia della filosofia, presidente onorario dell'Istituto internazionale di filosofia.  Laureatosi in filosofia all'Padova, è stato allievo di Marino Gentile.  Assistente presso l'Padova. Nel diventa professore di storia della filosofia antica all'Perugia e di storia della filosofia nella stessa Università.  Si trasferisce all'Padova, dove insegna storia della filosofia. È poi docente anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di Teologia di Lugano.  Presiede la Società Filosofica Italiana. Vince il premio dell'Associazione internazionale "Federico Nietzsche" per la filosofia, il premio Iannone per la filosofia antica, nel 2007 il premio Santa Marinella e il premio Castiglioncello per la filosofia, il premio "Athene Noctua" e nel  il premio giornalistico Lucio Colletti.  Nel  è nominato "doctor honoris causa" dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel  Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco.  Pensiero Interessato particolarmente alla filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il problema della contraddizione e della dialettica.  Berti si è poi inserito nella dibattuta questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera» della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità (comprendente scienza, storia, individuo e società).  Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica della filosofia presocratica” (scuola di Crotone,  la porta di Velia); “La filosofia del primo Aristotele” (Padova, Milani); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”; “Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Milani); “Ragione scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola);  “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino); “Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos);:Le ragioni di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza); “Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica, Torino, POMBA); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza, Roma-Bari);  Sumphilosophein. La vita nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici” (Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un "falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza: dialogo perduto contro i governanti ricchi.  Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E. Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana  È membro delle seguenti accademie e istituzioni scientifiche:  Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note  festivalfilosofia, su festivalfilosofia).  Enciclopedia multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai.).  Biografia Enrico Berti  [collegamento interrotto], su comune.ancona.  Aristotele  Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Enrico Berti,.  Registrazioni di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore Valeggio sul MincioProfessori dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli Studi di PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei LinceiStorici della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati -- Parmenide --  Zenone, Melisso -- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res publica – “De republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”, Cicerone e la filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bertinaria – l’indole e le vicende della filosofia italiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified ‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’ has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo. Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer, professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel 1892.   Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino); “Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp. sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour, Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione, Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il positivismo e la metafisica” «Riv. cont.»,  Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale” (Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi, FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice, Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda, FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova” (Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di letture e conversazioni scientifiche di Genova»,  Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi, Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F. Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R. Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione, Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria, «Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani, T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia trascendente.Discorso, Genova FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi ultima del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, Estr.: Roma 1882. Tolomio,  249-266.  Note  Bertinaria, su dif.unige.  Piero Di Giovanni, Un secolo di filosofia italiana attraverso le riviste, FrancoAngeli. Opere di Francesco Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore Genova. TAVOLA GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA  (Secondo la legge di creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionalmente un essere razionale, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente ossia all'orga namento terrestre. = UOMO MORTALE. A ) Teoria o Autotesia; quello che v’ha di dato nello spirito dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create. a ) Contenuto, ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale ossia neutro; facoltà di sapere, = COGNIZIONE (Kenntniss]. (I) 64) Elementi primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non - Io. = RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung]. (II) (1 ) Per la lettura delle nostre Tavole genetiche noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a siffatta esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica, ch'è la sola rigorosamente logica, le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa sono notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b); ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 ); ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto classi, designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna di queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA GENETICA 65) Cognizione dell'Io. = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia distinti. a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV) Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale (quella che si trova incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo). 64) Elementi derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla Sensibilità all'Intelletto. = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla Sensibilità. = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA. (VII) Nota. — Qui hanno luogo la Costruzione e la Fantasia. 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella Coscienza. = SENTIMENTO. (I) 65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta zione. = COGNIZIONE. (II) b4) Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e la Coscienza per mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle Cognizioni. = COMPRENSIONE. (III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio teleologico (per la cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico (per la cogni zione del bello e del sublime). DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63) Identità finale nella riunione sistematica dei due ele menti distinti, della Sensibilità e dell'Intelletto, per mezzo dell'elemento fondamentale ossia neutro, for mante la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo, nell'aspetto speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il GENIO, e nel l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità, la VOLONTÀ. b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte elementare della costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE) Per gli elementi primordiali: a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5) Forma della Coscienza. = SUBJETTIVITÀ. 63 ) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE (An schauung). 65) Forma dell'Intelletto. = CONCETTO (Begriff) Mediate o transitive. a5) Forma dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE. 65) Forma dell’Immaginazione produttiva. = SCHEMA. Nella parte sistematica della costituzione psicologica. a3) Nella diversità sistematica. a4 ) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma del Sentimento. = APPRENSIONE. 65) Forma della Cognizione. = APPERCEZIONE. 64) Per la loro influenza reciproca; forma della Com prensione. = RIFLESSIONE. 63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma della Potenzialità. = AZIONE [Thaetigkeit ).TAVOLA GENETICA B) Tecnia o Autogenia; quello che bisogna fare pel compimento delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel contenuto ossia nella costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. ' a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al) Compimento della Sensibilità. = PERFEZIONE ESTE TICA. Compimento dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA. I caratteri di questa doppia perfezione, estetica e logica, sono: l'estensione, la chiarezza, la varietà, la precisione, il complesso e la certezza. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento dell'Immaginazione riproduttiva, per la legge d'associazione delle immagini. = As SIMILAZIONE (spiritualizzazione delle intuizioni). 64) Compimento dell'Immaginazione produttiva, per la legge di schematizzazione delle idee. = MOSTRA (corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Rappresentazione e nella Coscienza; la quale armonia prestabilita fornisce le ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca (facultas signatrix ) dei concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti. = LINGUAGGIO (in generale). Per il compimento dell'identità primitiva negli ele menti distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto; la quale identità fornisce il compimento della Potenzialità per via d'indefinita ascensione ai principii, e per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema delle umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA Nella parte elementare di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane, siccome regola ossia canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro blema universale della Psicologia. = IDEE (trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II. Facoltà spirituali ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in condizionatamente un essere razionale, vale a dire un ente assoluto, indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO IMMORTALE. Nota. - Questa seconda parte della vera psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire poste fuori del mondo creato, dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia; quello che vha di dato nell'ipostasi dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue facoltà iper fisiche ossia creatrici. a) Contenuto ossia costituzione eleuterica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale o neutro; principio ipo statico nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE. Elementi primordiali o polari. a5 ) Coscienza potenziale del Non - 10. = ALTERIETÀ. (II) 65) Coscienza potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. (III) 38 TAVOLA GENETICA. Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. Elementi derivati immediati o distinti. a5) Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al terietà. = ETERONOMIA. (IV) 65) Combinazione della Coscienza potenziale con l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati mediati o transitivi. a5) Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia. = RELIGIONE RIVELATA. Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia. = RELIGIONE ASSOLUTA. (VII) 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. = ETEROTELIA. (Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA. Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra l’Alterietà e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione propria dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. (III) Nota. Questo è il principio più alto della filosofia di Hegel; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem meno l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente peristilio. Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro, formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA ASSOLUTA. Forma o relazione eleuterica. Nella parte elementare della costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; formadella Coscienza potenziale. = GENIALITÀ. Per gli elementi primordiali. a5) Forma dell'Alterietà. = RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. = PROPRIETIVITÀ (nella co scienza ). 63) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma dell'Eteronomia. = MORALITÀ. 65) Forma dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 ) Mediate o transitive. a5) Forma della Religione rivelata. = GRAZIA. 65) Forma della Religione assoluta. = MERITO. Nella parte sistematica della costituzione eleuterica. a3) Nella diversità sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE. 65 ) Forma dell'Autotelia. = INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca; forma dello Spirito. = SPONTANEITÀ. Nell'identità finale degli elementi distinti; forma dell'Assoluto nella coscienza. = RAZIONALITÀ CREATRICE) Tecnia o Autogenia; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso, del suo essere assoluto. = AUTOTESIA. 40 TAVOLA GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto. = AUTOGENIA. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata. = Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO. Compimento della Religione assoluta. = Per mezzo della LEGGE DI CREAZIONE) Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e nell'Ipseità; armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione della Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO) Per il compimento dell'identità primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia; identità che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo della sua identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria dell'ờomo. = ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della coscienza umana ). Nella forma o nella relazione eleuterica. Nella parte elementare di questa relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico per la liberazione dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO. 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel risultamento della propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità assoluta dell'uomo, come problema universale di questa parte eleuterica della Psi cologia. = CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO (Immortalità ). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA. PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO WRONSKI  PARTE PRIMA PSICOLOGIA FISICA Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionatamente un ESSERE RAZIONALE, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente, ossia all'organamento terrestre. - UOMO MORTALE. In questa prima parte della Tavola genetica della Filosofia della Psicologia l'Autore tratta solamente delle facoltà spirituali da lui dette fisiche per ciò ch'esse sono date immediatamente dalla natura, e si svolgono per necessità della costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare delle facoltà iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa. L'Autore dice che le facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere razionale, e spiega l'avverbio, chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente fornito di tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita presente. Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente iniziato alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo d'inarcare le ciglia udendo queste espressioni; ma colui il quale sappia che l'Autore ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente supremo, e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine eterono mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito creato, e costituisce, rispetto allo spirito stesso, l'ordine autonomico governato dalla libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che l'uomo, quale creatura di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza soggetto alle condizioni dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo; e quale autore del proprio svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di se stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini di umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi, sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia.  Presso le colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna; imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per l'arte orato ria e la poesia lirica, per un'eccellente scuola me dica stabilita in Crotone, città salita a prospera for tuna, e per molti vincitori ai giuochi olimpici, che quivi ebbero i natali. PITAGORA portossi a Crotone e dimora per lo più nella Magna Grecia. La sua vita è oscura e molto favolosa. Egli fu dotto particolarmente in matematica, musica teoretica, astronomia e ginnastica. Le favole lo dicono tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere figlio d'Apollo e d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi nello stesso tempo. Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il dono della ricordanza della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe ridestare la medesima in altri. Egli sentiva l'armonia delle sfere celesti, e venne considerato come una divinità. Però è che si parla di un culto sacro e di orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete, ed essere stato educato dai sacerdoti egiziani; ma da se stesso si procacciò la maggior parte di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui si professavano i principii politici dell'aristocrazia: Pri ma che un individuo venisse accettato in quella do veva subire prove. I membrisi distinguevano in eso. terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale società praticavanşi esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e regole, parole simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (ovo oltia ) e funerali; ma non già comunione di beni. I fini principali della società erano prima la mo rale religiosa, poi la scienza, particolarmente la matematica e la musica. La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli interessi politici nelle città di Crotone, Sibari, Metaponto, Locri e Tarento; ma essendo stata cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e fors’anche lo stesso Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I Pita gorici perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica. A molti di essi, come Timeo, Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti scritti, e le lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano, come pure i versi d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici i migliori sono Filolao ed Archita, e dei primi scritti riman gono ancora frammenti. Quantunque la filosofia pitagorica abbia seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua unità. L'esporre la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute de'varii scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi vasi quella scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui s'impiegavano. -Come Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo aveva dato forma al Caos e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità generata dall'unità, ossia dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il principio (apxn) di tutte le cose. Il numero è pensato come uno, però anche quale unità di due antitesi, del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono i principii delle cose. La diade è il principio della sostanza informe, ossia il numero indeterminato; la monade è il principio ordinatore. La sostanza informe viene alla pluralità ed alla varietà per mezzo dell'unità; però tutte le cose si fanno ad imitazione del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il numero. è il principio generale tanto della natura, quanto della cognizione. Cosi l'uno è l'essenza del numero, il numero semplicemente, il fondamento di tutti i numeri, l'unità suprema, la divinità nel mondo. I Pitagorici dissero triade il numero del tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e fine. La tetrattisi è importante, perchè i primi quattro nu meri formano assieme dieci, ed i primi quattro pari e dispari formano trentasei; parimente im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio di tutte le cose. Nell'essenza del numero, ossia nell'unità suprema, si contengono tutti i numeri, e per conseguenza gli elementi della natura e dell'universo. Questa teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo inventato da Pitagora. Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce l'ottava; cosi il tono fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2: 1, che è la perfetta proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà 2/3 della corda divisa, la quinta che sta al tono fondamentale come 2: 3; così 3/4 della corda dà la quarta, che sta al tono fondamen tale come 3: 4. Questi tre intervalli formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei segni 1, 2, 3, 4. L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura sono compresi nelle seguenti dieci antitesi: 1. Limitato, illimitato: 2. Dispari, pari: 3. Uno, più: 4. Destro, sinistro: 5. Mascolino, femminino: 6. Quiete, moto: 7. Retto, curvo: 8. Luce, tenebra: 9. Buono, cattivo: 10. Quadrato, rettangolo. Tuttavia non furono escluse altre antitesi. L'uno è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati, come principio e come sintesi di tutte le an titesi. Nelle antitesi il primomembro significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri, perchè è pari e dispari nello stesso tempo, non solamente è il principio del perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto, ossia il buono, non è dunque primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade; perciò avviene in prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile; imperocchè l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato. Il limitante è secondo loro, rispetto ai corpi, una pluralità di punti che formano un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo spazio di mezzo; la quale espressione aveva grande significato nella musica e geometria loro. Dagli spazii musicali mezzani, ossia intervalli, essi derivavano l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio e la fine, l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la geometria secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli, la superficie da due, la linea da un solo; il punto non ha intervallo, è l'u nità. Dal limite e dall'illimitato, ossia dalle unità e dagli intervalli, viene la grandezza dello spazio. Ma d'onde lo spazio mezzano? Il secondo membro delle loro antitesi è il negativo; perciò l'illimitato, o lo spazio mezzano, è il vacuo. La separazione delle unità, ossia numeri, avviene per mezzo del vacuo; questo è dunque principio e solamente un'altra espressione dell'illimitato o pari, perchè tutti i membri posteriori delle antitesi possono es sere mutati, e cosi anche i membri anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno l'origine del mondo? Le cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani, esse formano un numero di unità, ed in ciò consiste la loro natura e la loro origine, non 'secondo il tempo, ma secondo la maniera umana di pensare. L'unità suprema come circon data dall'infinito, ossia dal vacuo, si sforza di di vidersi in antitesi e di ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una pluralità di cose per mezzo dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce in più parti affinchè entri nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo fondamento nel limite. L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto l'alito ossia la vita del mondo. Perciò bisogna prendere il mondo come numero, come unità, le quali sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva, e separate dallo spazio mezzano. Dalla composizione delle unità provengono diverse relazioni, che sono ordinate armonicamente e con simmetria. Il legame di ogni relazione è l'armonia. Ora l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità suprema, essa è il principio dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed anche l'armonia è di bel nuovo il principio dell'unità di tutte le cose. Ma nell'armonia è pur anco compreso il concetto di ordine. Avuto riguardo all' importanza della deca, adottavano dieci corpi mondani che si trovano in armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono fondamentale all'ot tava adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la diade la linea, la triade la superficie, la tetrat tisi il corpo geometrico, la pentattisi i corpi fisici. In questo modo arbitrario continuavano essi a porre cinque elementi, e dicevano paragonando: Il cubo significa la terra, la piramide il fuoco, l'ottaedro l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto elemento. Il migliore di questi ele menti è il fuoco, probabilmente perchè fra le dieci antitesi la luce e l'inerte significano il perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo del mondo ed è la guardia ο castello di Giove (Διός φυλακή.Ζηνός πύργος), ha la forma di un cubo, perché questo, essendo consi derato il corpo più perfetto a cagione dei tre inter valli simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u niverso; il qual fuoco si forma prima da sè e guida poi la formazione del mondo. Dal mezzo il fuoco si spande per tutto l'universoe lo abbraccia. Attorno al fuoco centrale sono ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e la controterra (artiyJabí), il quale ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad eccezione della terra im mobile nel mezzo (probabilmente con la contro terra ), e la quale contiene il fuoco; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla deca è una palla: onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla nostra so stanza, e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del silenzio, l'armonia delle sfere è senza pausa. I corpi circolanti sono otto solamente, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni, talchè la sfera delle stelle fissé ha il tono più basso, quello della luna il più alto. L'imperfezione è particolarınente sulla terra; però la luna e gli altri mondi sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato ed in appa renza molto fortuito; essa stessa è soggetta all'in stabilità. S 67 Si annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in senso morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale. L'anima dell'uomo è parimenti un numero od armonia, l'intelletto o pensiero è l'uno, la scienza il due, l'immaginazione il tre, il sentimento il quattro. L'anima è inserita nel corpo pel número e relazione armonica del corpo, perciò non è corporea, ma solo apparente in una relazione corporale. Vi sono anche anime prive di corpo che hanno vita di fan tasma, e le quali non sono mai entrate in alcun corpo o di nuovo ne sono uscite; queste sono i de moni. A questo si riferisce la dottrina esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa dopo morte, a cui conseguita la personalità e l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con un corpo è la pena di qualche empietà; la vita terrena è uno stato d'infelicità, ma necessario ed ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto. L'anima umana possiede l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle bestie solamente la seconda, però ha qualche germe d'intelligenza. La virtù è armonia, la giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la cura divina: il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei Pitagorici si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico; essi inculcavano la moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore, l'amicizia, il lavoro, la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina pitagorica è in parte etica, rappresentata dall'armonia e dalla musica, in parte fisica per la matematica, pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della sensibilità; la quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in una pluralità di cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve unire ambe queste parti. L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua attività, nello sviluppo mondano della sensibi lità è composta; il soprasensibile ossia l'unità su prema è indeterminato. In ciò sta riposta senza dubbio l'idea di Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato con cui si presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle cose singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente matematica della provvidenza divina. Onde l'applicazione di questa dottrina alla parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina pitagorica è nell'etica tanto difettosa, quanto pare siano stati eccellenti i parti giani di essa nell'esercizio della virtù.  I lonii e Pitagorici tentarono spiegare l'origine del mondo; essi ammettendo la produzione delle cose riuscirono realisti. Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono alla cognizione del non -sensibile ed affermano: Nulla viene all'essere, tutto esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia, dov'era la sede principale di questa scuola filosofica. SENOFANE da Colofone, sede della poesia epica e gnomica, contemporaneo di Pitagora, si portò verso il 536 ad Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo frammenti delle sue opere. La sua tesi fondamentale è questa: Dio è, e non può divenire; come pure in generale nissuna cosa può cominciare ad esistere; imperocchè il generato dovrebbe essere uguale al generante, epperò ambi non sarebbero fra loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio, che il più pic colo nasca dal più grande e vi ritorni, si deve attri buire all'opinione insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta da ciò che esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio, il quale forma col cielo e la terra un essere solo, unico (in TÒ öv xai tò Tây). Per conseguenza il politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i miti immorali. Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e limitato, nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie della pluralità, le altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente uguale perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza, considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii era impossibile una spiegazione della natura. Cosi egli oppose alla verità l'opinione, ossia l'intuizione sensibile; ep però non seppe trovare il nesso tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista; ma importante il suo pensiero dell'essere assoluto. PARMENIDE da Elea fece con Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate. Egli sviluppò il sistema di Senofane; tuttavia non prese le mosse dal concetto di Dio, ma da quello dell'essere e del non -essere, della certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio siccome quella che è riposta nell'esistente. Secondo lui v'ha un doppio sistema di conoscenza, quello della ra gione ossia del vero, e quello dei sensi ossia del l'apparenza. Il suo poema sulla natura trattava di ambe le maniere, ma dai frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della seconda. Es sere, pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto l'essere è identico; perciò il reale non lią cominciamento, è invariabile, indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita, sussi ste per legge di necessità: onde qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera apparenza. Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui le rappresentazioni delle cose sono costanti (80% a ). A fine di spiegare la natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii, il caldo, ossia il fuoco etereo, il freddo ossia la notte della terra; il primo è penetrante, positivo, reale, pensante (Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il secondo è denso, pesante (@an), negativo, sola mente una limitazione del primo. Questa dottrina della natura è meccanica. Da tali due principii de rivò egli tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è un composto di fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla cognizione della verità ed all'apparenza. MELISSO da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come politico e capitano di flotta contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e prese a combattere particolarmente la filosofia naturale della scuola ionica. Non si deve far parola degli dei, perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna di tali enti. Presso Melisso ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste è infinito, non è prodotto, nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione, perché avvi un essere solo e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la densità. L'esistente non può essere diviso, cosi non ha parti, non è corporeo. La plu ralità è sola apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato di vita. ZENONE d'Elea, discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo un viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile dialettica, quanto per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la propria vita a difesa della patria. Egli sostene va il sistema di Parmenide in ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la pluralità delle cose, ne dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima condizione perchè risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggregato non può produrre grandezza; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità infinita di parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il sofisma consiste in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità, nel secondo la rigetta. In seguito diceva: la pluralità è ad un tempo limitata ed illimitata; limitata perchè più o meno determinata, illimitata perchè ogni distanza da un punto di una grandezza fino all'altro è infinito, avuto riguardo all'infinita quantità di parti di mez Egli contestava il movimento per le contrad dizioni inerenti a questo concetto; imperocchè bi sogna che lo spazio misuratore, il quale consta di parti infinite, venga percorso in un intervallo limi tato. Onde l'argomento detto l'Achille, con cui af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio d'un passo avanti, non potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza non cesserebbe mai appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi che non dovevasi accettare la dottrina del movimento, risultando da semplici momenti di quiete, in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in qualche parte. Lo spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità ed il mo vimento non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale, esso dovrebbe trovarsi in uno spazio, giac chè ogni realità è compresa in quello, epperò una continuazione senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la contenesse. Queste prove apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione con traria, sono sofistiche per lo scambio delle forme rappresentative logico -matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo. Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione, ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo, che ben presto venne continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la filosofia greca. $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia, verso l'anno 460, naturalista, medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli Eleati, siccome Zenone la metafisica. L'unità delle cose è il mondo, simile ad un globo, ragione per cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui governata, a lui iden tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità: dipende da tutto pel con trasto delle forze. Essendo l'uomo solamente una parte della divinità, la cognizione umana non può essere che imperfetta,''e quantunque conosca gli elementi del tutto, non può penetrarne l'unità, che Dio solo può comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza movente. Le forze solamente movono, ma non variano le cose; però questa dottrina della natura è meccanica. Egli è impossibile che il nulla produca alcuna cosa, e che venga a mancare ciò che esiste. Egli ammette quattro elementi, fra i quali dà preferenza al fuoco, considerandolo come l'essenza divina delle cose; imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La sepa razione avviene per odio, ma senza che riman gano intervalli vacui. L'amore congiunge le cose eterogenee, l'odio le omogenee, operando la sepa razione del composto. Vi sono periodi nella for mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola mente una parte del tutto, il dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche solo presente nella rappre sentazione. Prima si formano le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la terra, poi da questi pro vengono le organiche per mezzo dell'amore; le piante e gli animali si formano dal concorso degli elementi, ma in principio le membra esistendo se paratamente hanno prima luogo i mostri. La na tura organica essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto, epperò sono neces sarie le purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e partecipa alla conoscenza. Gli elementi non godono di vita pacifica, essendo svelti dallo sfero, mossi dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza propria metempsicosi. Tale migrazione per tutte le forme è la miseria delle cose, conseguenza dell’o dio. Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a more. Non v'ha guarentigia d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La cognizione de' corpi ha per fondamento l'osservazione sensibile, ed è opera dell'unione meccanica de'corpi per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e delle correnti che pene trano in altri corpi per via de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili nella coscienza, spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore. Questa co gnizione procura l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è somministrata dalla ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu rificazione. — La filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per rettificare le nozioni sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere dai feno meni fisici la cognizione del vero reale, ossia il fondamento sensibile delle cose. La sua fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica della na tura. Anch'egli si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò la morte nel cratere dell'Etna. Empedocle aveva scritto un poena didattico sulla natura, ma non ne perven nero a noi che frammenti. GORGIA da Leonzio, discepolo d’Empedocle, e anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e buono. Egli si portò in Atene in qualità d'ambasciatore, si attirò gli sguardi per una nuova maniera oratoria, viaggið all'intorno, raccolse molto danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue orazioni sono meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde. Egli si vantava di parlare all'im provviso di tutto, sia brevemente sia a lungo, e di sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria consiste in artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù, tenendo l'arte di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati pose il non - esistente. Egli sosteneva tre tesi: 1 ° egli v'ha niente, nè l'essere nè il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve aver principio o deve averlo, od ambi assieme. Se non ha principio è eterno, perciò un non - essere, è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od in se stesso od in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo contenente e contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito; però ambi i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o dall'esistente o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la presupposizione eterno e non avrebbe principio, nel secondo dovrebbe il nulla come non esistente, produrre alcuna cosa. Ma il nulla esistendo, l'es sere dovrebbe essere non esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti. L'essere poi non po trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per essere un'antitesi. Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti l'essere stesso non potrebbe essere. 2° Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe conoscere, perchè non si può pensare che il pensabile, non il reale che è fuori del pensiero. Vi ha differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è vera, maGorgia ne fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile, essa pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso si possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli ele menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a frontedella verità puramente razionale; Gorgia si prevalse degli elementi della dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa, essendo contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo solamente produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della filosofia greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come dellaforza prima della natura o della vita; imperocchè per essa solamente intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica, finchè Anassagora separò Dio dalla materia, però ad ambi attribuendo pari originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo, cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap parente. Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente Dio, la religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale in un canto. Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col suo ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate, quantunque egli non abbia seguito la direzione scientifica, ma solo la pratica e religiosa. A ciò conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la natura, Dio e la moralità; ma anche questi uomini dovettero soccombere al grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il secondo. Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul finire del primo periodo, a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera degli Scettici prese a domi nare il dubbio; si cercò invano di risolvere il pro blema dell'unione della materia e dello spirito, dell'intuizione e del pensiero, e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la fi losofia greca, avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione intellettuale e morale. I Romani non ebbero mente filosofica. Essi ac colsero la filosofia greca, particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e Tito LUCREZIO TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. ne fece soggetto di un poema didattico, cui diede l'antico titolo: Della natura delle cose; anche più famigliare si resero la dottrina stoica, che accor dandosi all'antico carattere romano, esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed amministrazione, e trovò ancora rinomati partigiani al tempo del l'impero, cioè Lucio ANNEO SENECA, maestro di Nerone, autore di molti scritti filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia, verso lo stesso tempo, schia vo, il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compilò in greco un piccolo manuale (éyxezpidcov) secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO, imperatore romano dall'anno 164 fino al 180, autore di meditazioni in lingua greca sotto il titolo: Eis éautóv. Seneca fu più eclettico, Epit teto si attenne ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον και απέχου, 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di dolcezza e pietà; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della filosofia stoica. Che se questi Epicurei e Stoici romani si mantennero fedeli ad un solo sistema, MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di un compiuto eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a rendere acces sibile ai Romani la filosofia greca, quanto gli mancò originalità filosofica. Nella pratica preferi il sistema stoico, nella teoretica l'accademico, accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico. In generale poi le dottrine di Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani tesori nascosti. Francesco Bertinaria. Keywords: l’indole e le vicende della filosofia italiana. Refs.: determinazione dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berto – reductio ad absurdum – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “I like Berto, but then, my first unpublication is on negation and privation! Against my tutee, Sir Peter, I always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but the consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano used to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” --  Grice: “If Peirce (I lectured on him for years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as ‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical question: che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!” – “He is friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato Chaire d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia all'École Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della Scienza e della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute San Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van Amsterdam.  Premio Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani, con il libro Teorie dell'assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione.  Nel  l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha assegnato il Premio Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani ricercatori.  Nel  ha ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento di 240.000 sterline per il progetto "The Metaphysical Basis of Logic".  Nel  ha ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro per il progetto "The Logic of Conceivability".  Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza); “Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”; “Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il Giornale di metafisica.  Comune RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno ).  Università Ca'Foscari di Venezia, su unive. Aberdeen  Amsterdam Archiviato il in.  Aberdeen Archiviato il 9 settembre  in.  PhilPapers.org  Stanford Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23 aprile  23 aprile ).Filosofia Filosofo del XXI secoloLogici italianiAccademici italiani Professore VeneziaProfessori dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti dell'Università Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad absurdum, pegaso, il quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G, Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione, negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto, incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Betti – la lupa; ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e sociale nell’antica Roma – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Camerino). Filosofo italiano. Studia a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi del principato in Roma).  Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di Camerino e vince il concorso per la libera docenza presso l'Università di Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse di studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e altre).  Nel 1917 diviene professore ordinario all'Università degli Studi di Camerino. In seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di Macerata, Pavia, Messina, dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma, Firenze, Milano, Roma. Come Gastprofessor e visiting professor svolge corsi nelle Università di Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei più importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i principali artefici del codice civile italiano del 1942 tuttora vigente. Collocato fuori ruolo 1960, emerito dal 1965, è chiamato a insegnare ius romanum alla Pontificia Università Lateranense.  Nel corso della sua attività accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in particolare il diritto romano, civile, commerciale e processuale[2]. Nel 1955 ha fondato presso le Università di Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione. È stato socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa delle Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas.  Per il suo sostegno intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu messo agli arresti nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per decisione del CLN[3]. Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni imputazione.  Produzione scientifica Le sue scelte politiche comunque non hanno compromesso il pregio e l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del negozio giuridico, Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della interpretazione.  Fa parte delle commissioni ministeriali che hanno redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu determinante nella soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi, dell'abbandono del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, che negli intenti originari del piano per la nuova codificazione avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto libro del codice civile.  Altre opere: “Sulla opposizione dell'exceptio sull'actio e sulla concorrenza tra loro”; “La vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo”; “L'antitesi storica tra iudicare (pronuntiatio) e damnare (condemnatio) nello svolgimento del processo romano”; “Studii sulla litis aestimatio del processo civile romano”; “Sul valore dogmatico della categoria contahere in giuristi proculiani e sabiniani”; “La restaurazione sullana e il suo esito: contributo allo studio della crisi della costituzione repubblicana in Roma”; “La struttura dell'obbligazione romana e il problema della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano”; “La tradizione nel diritto romano classico e giustinianeo”; “Esercitazioni romanistiche su casi pratici”, “Anormalità del negozio giuridico”; “Diritto romano”; “Diritto processuale civile italiano”; “Teoria generale del negozio giuridico”; “Interpretazione della legge e degli atti giuridici: teoria generale e dogmatica”; “Teoria generale delle obbligazioni”; “Teoria generale della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni in diritto romano”; “L'ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità di una teoria generale dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la genesi del principato in Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di studio approfondito da parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del Novecento: Emilio Betti: il ruolo del giurista, Milano: Franco Angeli, Ritorno al diritto: i valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a suo favore di Giuseppe Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il Fatto quotidiano, Bibliografia Crifò, Giuliano (1978). Emilio Betti. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 7Ciocchetti, Mario, Emilio Betti, Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo (2015). Emilio Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci correlate Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni Dizionario Biografico, su treccani.it. Portale Biografie Diritto Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani del XX secoloStorici italiani del XX secoloAccademici italiani del XX secoloMorti l'11 agostoNati a CamerinoAccademici dei LinceiProfessori della Sapienza - Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di CamerinoProfessori dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di MacerataProfessori dell'Università degli Studi di MessinaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di ParmaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università di MarburgoProfessori dell'Università di ViennaStudiosi di diritto romanoStudenti dell'Università degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di BolognaStudenti dell'Università di FriburgoStudenti dell'Università di MarburgoStudiosi di diritto civile del XX secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi di diritto processuale civile del XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: la lupa; ovvero, problemi di storia della costituzione politica e sociale nell’antica Roma, auslegung, auslegungslehre, storia della repubblica romana, diritto romano, exception, action, vindication, dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare, condemnation, processor omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer, giurista proculiano, giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico, diritto romano guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico, interpretazione, genesi del principato, lingua romana, lingua latina, base etnica della antica Roma, i latini, l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’ (regere, cf. lex, legare), l’eta repubblicana, res pubica used during l’eta monarchica, Romolo, il primo re, Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la stirpe dei patrizi, patrizio, cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio di Caesar, il principato, Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto Ottaviano’, imperio, imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario, il fuhrer, l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita, diritto romano ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione romana, romano e sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini, vocabulario del diritto romano, dizionario di diritto romano, lexicon di diritto romano, concetto autenticamente romano di auctoritas, lex, legare, eddictum, decretum, suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio, diritto penale, diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano, stato autoritario, concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu, pontificex massimo, laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bianco – filosofia dello spirito; ovvero, la morte di Patroclo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervinara). Filosofo italiano. Grice: “I like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but ‘della vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a ‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto il mondo.   Laureato in lettere, filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo, dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane.  Nel corso della sua carriera ricevette per tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri. Accademico di Francia, membro della Columbia Academy, nella sua lunga attività letteraria conseguì diversi diplomi e riconoscimenti. Premio "Elsa Morante" che gli venne consegnato da Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore della Campania nel mondo. Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue straniere, compresi alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi africani, che aveva avuto modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva conseguito, inoltre, una laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di Parigi gli conferì una laurea honoris causa in lettere.  Un saggio biografico del 2001 e una raccolta di poesie curata da Alfredo Marro, direttore del Caudino (mensile cervinarese col quale il filosofo ha a lungo collaborato), si occupano del filosofo cervinarese. Nell'autunno, Franco Martino gli dedicò una poesia dal titolo "A Carlo Bianco" nel suo libro Paese mio carissimo.  Bianco morì il 9 aprile  a 99 anni mentre stava lavorando su un testo di Tommaso d'Aquino. la città di Cervinara gli ha dedicato una piazza nella natia frazione dei Salomoni.  Altre opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria, Bergamo); “Saggio di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui confini dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale come scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di Sofistica” (Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini Editore, Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche Internazionale, Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto Fiorentino. Vedi Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3 settembre, Sezione Napoli, Archivio storico.  Vedi È morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel articolo de la Repubblica, Sezione Napoli, Archivio storico.  Alfredo Marro, Un gigante del pensiero, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie scelte di Carlo Bianco, Edizioni Il Caudino, Cervinara, Filomena Stanzione, Carlo Bianco nella Cultura Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino, Rotondi 2000.  Carlo Bianco, poeta della fede e del dolore biografia e  nel sito "carlobianco.blogspot". Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX secolo Filosofi italiani del XX secoloLetterati italiani Cervinara Cervinara. Carlo Bianco. Keywords: la filosofia dell spirito; ovvero, la morte di Patroclo, Centro Ricerche Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia dello spirito, kantismo, spiritualismo, morale, vita, liberta, piazza bianco, cervinara. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bianco” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Blossio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Cumae) Gaio Blossio. Blossio. Alla stoa romana si collega Blossio di Cuma (il nome ha origine osca), che e scolaro dello stoico Antipatro di Tarso. Dopo la morte di Tiberio Gracco, Blossio dove difendersi davanti ai consoli.. Poi, Blossio fugge da Roma, e si reca in Asia presso Aristonico di Pergamo e, quando questo e sconfitto, si da la morte. Blossio was a member of the Porch who is thought to have had an influence on the reformes introduced in Rome by Tiberio Gracco.

 

Grice e Bobbio – il bisogno del bisogno del senso del senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “My favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he is into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there is a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general – is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting – Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher, who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense, meaning meaning.  «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.»  (Norberto Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato «al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo [italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu «sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura filosofico-giuridica e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi, anche di formazione assai diversa, hanno considerato come un maestro». Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e Rosa Caviglia.  Una condizione familiare agiata gli permise un'infanzia serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma svilupperà, per causa di una non ben determinata malattia infantile «la sensazione della fatica di vivere, di una permanente e invincibile stanchezza» che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium vitae, in un sentimento malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua maturazione intellettuale.  Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, poi divenute figure di primo piano della cultura dell'Italia repubblicana. Dal 1928, come molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al Partito Nazionale Fascista.  La sua giovinezza, come da lui stesso descritto fu: "vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti come Leone Ginzburg e Vittorio Foa".  Allievo di Gioele Solari e Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11 luglio 1931 con una tesi intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto, conseguendo una votazione di 110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932 seguì un corso estivo all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e Ludovico Geymonat, ove conoscerà le teorie di Jaspers e i valori dell'esistenzialismo. L'anno seguente, nel dicembre 1933, conseguì la laurea in Filosofia sotto la guida di Annibale Pastore con una tesi sulla fenomenologia di Husserl, riportando un voto di 110/110 e lode con dignità di stampa, e nel 1934 ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935 all'insegnamento, dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal 1940 al 1948). Nel 1934 pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al regime gli valsero, il 15 maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli amici del gruppo antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a seguito di una intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale della Prefettura per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La chiara reputazione fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una piena riabilitazione, tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di Mussolini e di Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a Camerino, che era occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle leggi razziali. Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni prima, fu reintegrato grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di famiglia, mentre era presidente di commissione il cattolico e dichiarato antifascista Giuseppe Capograssi.  È in questi anni che Norberto Bobbio delineò parte degli interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei suoi studi futuri: la filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli studi sociali, uno sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al contesto politico temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti, esattamente il 3 marzo 1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la cattedra all'Siena. E rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per prendere il posto del professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi nel 1938 nella cattedra del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché ebreo. Questo episodio della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse preso direttamente il posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche.  Nel '42, un giovane Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia del Diritto che Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX secolo, nel nostro campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più, criticamente fondato da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al movimento liberalsocialista fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e, nell'ottobre dello stesso anno, aderì al Partito d'Azione clandestino.  Nei primi mesi del 1943 respinse l'"invito" del ministro Biggini (che poco dopo redasse, su impulso di Mussolini, la costituzione della Repubblica di Salò) a partecipare a una cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe dedicata una lampada votiva da collocare al sacrario dei caduti della rivoluzione fascista nel cimitero della città.  Nel 1943 sposò Valeria Cova: dalla loro unione nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Arrestato a Padova per attività clandestina e rimase in carcere per tre mesi. Nel 1944 venne pubblicato il saggio La filosofia del decadentismo, nel quale criticò l'esistenzialismo e le correnti irrazionalistiche, rivendicando al contempo le esigenze della ragione illuministica.  Dopo la liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e Libertà, quotidiano torinese del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi. Collaborò all'attività del Centro di studi metodologici con lo scopo di favorire l'incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, e poi con la Società Europea di Cultura.  Nel 1945 pubblicò un'antologia di scritti di Carlo Cattaneo, col titolo Stati uniti d'Italia, premettendovi uno studio, scritto tra la primavera del 1944 e quella del 1945 dove sosteneva che il federalismo come unione di stati diversi era da considerarsi superato dopo l'avvenuta unificazione nazionale.  Il federalismo a cui pensava Bobbio era quello inteso come "teorica della libertà" con una pluralità di centri di partecipazione che potessero esprimersi in forme di moderna democrazia diretta.  Nel 1948 lasciò l'incarico a Padova e venne chiamato alla cattedra di filosofia del diritto dell'Torino, annoverando corsi di notevole importanza come Teoria della scienza giuridica (1950), Teoria della norma giuridica (1958), Teoria dell'ordinamento giuridico (1960) e Il positivismo giuridico (1961).  Dal 1962 assunse l'incarico di insegnare scienza politica, che ricoprirà sino al 1971; fu tra i fondatori della odierna facoltà di Scienze politiche all'Torino insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al quale subentrò nella cattedra di filosofia politica nel 1972 mantenendola fino al 1979 anche per l'insegnamento di Filosofia del diritto e Scienza politica. Dal 1973 al 1976 divenne preside della facoltà ritenendo che mentre gli incarichi accademici fossero «onerosi e senza onori» era l'insegnamento l'attività principale della sua vita: «un abito e non solo una professione».  La politica, del resto, divenne via via un tema fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente alla pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla scienza politica in Italia.  Nei venticinque anni accademici all'ombra della Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke, lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di saggi, scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in seguito a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy. Divenuto condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire dal '53, fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della quale entrò a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato socio nazionale e residente dal 26 aprile 1960.  Significativa la collaborazione, sul tema pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo Capitini, le cui riflessioni comuni sfoceranno nell'opera I problemi della guerra e le vie della pace (1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta dal movimento di Unità Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel 1967 alla Costituente del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle contestazioni giovanili, Torino fu la prima città a farsi carico della protesta, e Bobbio, fautore del dialogo, non si sottrasse a un difficile confronto con gli studenti, tra i quali il suo stesso primogenito Luigi che militava all'epoca in Lotta Continua. Nel contempo, venne anche incaricato dal Ministero per la Pubblica Istruzione quale membro della Commissione tecnica per la creazione della facoltà di sociologia di Trento.   Guido Calogero e Norberto Bobbio alla Rencontres internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu tra i firmatari della lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul caso Pinelli. Nel 1998 Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri pubblicata su La Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato nell'appello ma senza ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti legati a Piazza Fontana.  Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò intorno al problema democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato, sempre più esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno a un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto con la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili degenerazioni».[25]  A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo.  L'8 maggio 1981, alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una "politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991.  Delle venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25 febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a un'aggressione.» Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da parte di "pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse Bobbio, avesse autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva "legale", in questo senso, "giusta".  Bobbio però riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata, come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal 1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi divenuto dei Democratici di Sinistra.[27]   Norberto Bobbio e Natalia Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole dibattito culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il libro toccò le cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato l'anno successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici.  A riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto, della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.  Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel 2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003, ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno politico e il contributo alla riflessione storica e culturale".  Dopo avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il 9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.Il pensiero di Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una temperie filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi torinesi, non abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo accostamento alla fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere sulla filosofia di Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e neoempirista fiorito in Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al Circolo di Vienna.  Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in contatto con la filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di analisi del linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola analitica italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto figura eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due saggi: Scienza del diritto e analisi del linguaggio e Essere e dover essere nella scienza giuridica.  Dedica studi specifici a Hobbes, a Pareto e a molti filosofi e teorici della politica di cui già s'è detto. Vede nell'Illuminismo un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo di cui riprende l'ideale razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del sistema democratico e parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi quali la guerra e la legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la filosofia giuridica, la storia della filosofia e i temi di attualità politica.  Durante gli ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la convinzione della necessità di uno Stato democratico, che sgombri il campo dal pericolo della politica ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di destra che di sinistra; auspica una gestione laica della politica e un approccio filosofico-culturale ad essa, che aiuti a superare la contrapposizione fra capitalismo e comunismo e a promuovere la libertà e la giustizia.  Nel saggio Quale socialismo? (1976), Bobbio critica sia la dialettica marxista sia gli obiettivi dei movimenti rivoluzionari, sostenendo che le conquiste borghesi dovevano estendersi anche alla classe dei proletari. Bobbio ritiene fallimentare solo l'esperienza marxista-leninista, mentre prevede che le istanze di giustizia rivendicate dai marxisti possano, in futuro, riaffiorare nel panorama politico.  Il pensiero di Bobbio diviene così, soprattutto tra gli intellettuali dell'area socialista, un modello esemplare, grazie al suo 'sapere impegnato', certamente «più preoccupato di seminare dubbi che di raccogliere consensi». Egli stesso riprenderà la riflessione su un tema a lui caro, quello del rapporto tra politica e cultura, proponendo, tra le pagine di Mondoperaio, una «autonomia relativa della cultura rispetto alla politica» secondo la quale «la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del politico».  Nel 1994 esce l'opera Destra e sinistra, nella quale Bobbio focalizza le differenze fra le due ideologie e i due indirizzi politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è caratterizzata dalle tendenze alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è ispirata da interessi, mentre la sinistra persegue l'uguaglianza, la trasformazione, ed è sospinta da ideali. In quest'opera, Bobbio si esprime anche in favore dei diritti animali[36].  Nell'opera L'età dei diritti (1990), Bobbio individua i diritti fondamentali che consentono lo sviluppo di una democrazia reale e di una pace giusta e duratura. Una partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni comunitarie, una contrattazione delle parti, l'allargamento del modello democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli avversari, l'alternanza senza l'ausilio della violenza, una serie di condizioni liberali, vengono indicati da Bobbio come capisaldi di una democrazia, che seppur cattiva, è preferibile ad una dittatura.  Per tutta la vita scrittore di numerosissimi articoli, anche tramite interviste, Norberto Bobbio incarna l'ideale della filosofia critica e militante che lo vede protagonista anche del Centro di studi metodologici di Torino e tra i fondatori del Centro studi Piero Gobetti di Torino che conserva la sua biblioteca e il suo archivio, «Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.»  (Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.) Contrario alla figura dell'intellettuale «Profeta»[37], preferendo il ruolo del «Mediatore» impegnato «nella difficile arte del dialogo» (e ciò è anche testimoniato dal colloquio intrattenuto con i marxisti per un riesame critico del loro «dogmatismo e settarismo» che coinvolse anche Togliatti), il suo atteggiamento teoretico fu segnato da una positiva «ambivalenza» fra una posizione realista e una idealista che non rifuggiva le complessità del discorso, ricorrendo sovente al paradosso. Ciò gli valse, in virtù dell'amore per il dibattito che consideri «il pro e il contro» di ogni questione, la qualifica di filosofo «de la indecisión» (Rafael de Asís Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su una delle grandi domande [si concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo libro che raccoglie saggi, scritti e testimonianze su maestri, amici ed allievi, Bobbio comincia ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero Martinetti e Tommaso Fiore. L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di studio come Antonino Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e colleghi come Nicola Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e Giovanni Tarello. Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo Ghezzi, Amedeo Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive, nel 1972 fu naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del diritto.  Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni Bobbio", svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale Democrazia" di Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46] Gran Croce del Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del Merito Civile — Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per uniforme ordinaria Laurea honoris causa in Scienze Politiche — Università degli Studi di Sassari, 5 maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Aztecanastrino per uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Azteca — Torino,  Intitolazioni A Norberto Bobbio è stata intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo Dora Siena, 100 A.  Gli è stato inoltre intitolato un istituto di istruzione superiore a Carignano, nella provincia di Torino, denominato appunto "I.I.S Norberto Bobbio".  A lui è intitolata la biblioteca civica di Rivalta Bormida, paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere: “Saggi” (Roma-Bari, Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica” (Di Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del diritto” (Torino, Istituto giuridico della Regia Università); “L'analogia nella logica del diritto” (Di Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto normative” (Torino, Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino, Chiantore); “Stati Uniti d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma, Donzelli); “Teoria della scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e cultura” (Torino, Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli); “Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria dell'ordinamento giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del diritto” (Torino, Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia civile. Ritratti e testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e positivismo giuridico” (Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento italiano” (Milano, Garzanti); “La scienza politica in Italia”  (Roma-Bari, Laterza); “Diritto e Stato in Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante” (Torino, Einaudi); “La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico” (Torino, Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di un'alternativa” (Torino, Einaudi); “Il problema della guerra e le vie della pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi hegeliani. Diritto, società civile, Stato, Torino, Einaudi); “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri e compagni, 3ª ed., Firenze, Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra” (Casale Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età dei diritti, Torino, Einaudi,  “Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci); “Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore); “Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma, Donzelli); “Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma, Donzelli); “Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri scritti autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né con Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A. Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M. Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino” (Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo” (Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio "Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su giovanipace.sermig.org. 3 dicembre  (archiviato dall'url originale l'8 dicembre ).  Premi e riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org  Hegel-Preis der Landeshauptstadt StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de  Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia, in Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo.  Scrive Bobbio: «[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute, Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio (SB)centrogobetti, su centrogobetti,   N. Bobbio18.  Cesare Maffi, Massimo Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in ItaliaOggi, n. 206, 1º settembre 11.  Nello Ajello, Una vita per la democrazia nel secolo delle dittature, su ricerca.repubblica, Anna Pintore, RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico degli italiani,  86, Torino, Treccani,. 28 aprile.  A puro titolo d'esempio si veda Diego Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del professore ebreo Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in ItaliaOggi,  Francesco Gentile, Società italiana di filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra e il problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e della pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,  "Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto,  Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, POMBA, Torino   Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore.  Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo  Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi, Torino  Ricordo di Norberto bobio, in Rivista di Filosofia,  Bologna, Società Editrice Il Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze,  N. Bobbio, decima tavola fuori testo.  "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza Fontana"  Guido Fassò, La democrazia in Grecia, Giuffrè Editore, Milano   «con l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a Bobbio)  Senato della Repubblica, su senato.  N. Bobbio, ventesima tavola fuori testo.  Centenario Norberto Bobbio, su centenariobobbio 5 aprile 2009).  Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com.  I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa Repubblica  Ha lasciato scritto Norberto Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione 'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo della morte. Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei figli. In un appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto: vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di Bobbio.)  Né ateo né agnostico ma lontano dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004.  Norberto Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 2, giugno 1950,  342-367. 5 luglio.  Norberto Bobbio, Essere e dover essere nella scienza giuridica, in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre 1967,  235-262. 5 luglio.  «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare, il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra e sinistra, Donzelli, Roma 1994)  N. BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’ come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato ‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico, Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’. (N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano, Storia della filosofia,  IX, POMBA per Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi anni Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista, provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti' che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal titolo molto significativo Democrazia e dittatura».  Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 2009618)  Sul pensiero di Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo Bosetti, «No, non c'è mai stato il comunismo giusto», in l'Unità, 3 aprile 1998. Segue alla pagina successiva Archiviato N. Bobbio203.  N. BobbioXVII.  N. Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.  Antonino Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida Repaci  Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo, su beniculturali.ilc.cnr:8080. 19 febbraio  26 aprile ).  Sito della Presidenza della Repubblica, quirinale  Comune di Rivalta Bormida | La Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14 luglio.   Norberto Bobbio, Giuseppe Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori Riuniti,  Pier Paolo Portinaro, Introduzione a Bobbio, Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in, Biografie e bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma, Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Norberto Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della ragione, "Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore, Bari-Roma 1995 Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini alla Lega Nord, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino, Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino (1940-1979), Pantograf (CNR), Genova Morris Lorenzo Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamento de Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de Colombia, Bogotá, Tommaso Greco, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica, Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia, Zagrebelsky, Massimo L. Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005 Marco Revelli, Norberto Bobbio maestro di democrazia e di libertà, Cittadella Editrice, Assisi, Pazé, L'opera di Norberto Bobbio. Itinerari di lettura, Milano, Franco Angeli, Roberto Giannetti, Tra liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul pensiero politico di Norberto Bobbio, Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi, Omaggio a Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio, Scienza del diritto, Giuffrè, Milano, Agosti, Marco Revelli, Bobbio e il suo mondo. Storie di impegno e di amicizia nel '900, Aragno, Torino, Peyretti, Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza, Claudiana, Torino () Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900 italiano", Vincenzo Grasso editore, Padova,  Pier Paolo Portinaro, «Bobbio, Norberto» in Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Ruiz Miguel Alonso, Politica, historia y derecho en Norberto Bobbio [Fontamara ed.],. Mario G. Losano, Norberto Bobbio. Una biografia culturale, Carocci, Roma, Tommaso Greco, Norberto Bobbio e la storia della filosofia del diritto, in Diacronìa. Rivista di storia della filosofia del diritto, Norberto Bobbio; Franco Pierandrei, Introduzione alla costituzione, Roma, Laterza, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Norberto Bobbio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Norberto Bobbio, su Find a Grave.  Opere di Norberto Bobbio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione),. Norberto Bobbio, su Goodreads.  Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione), su senato, Senato della Repubblica.  Registrazioni di Norberto Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e Archivio "Norberto Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti" di Torino), su erasmo. Commemorazione di Norberto Bobbio, su giornaledifilosofia.net. Epistolario Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo accesso del 15 ottobre 2009) I presupposti filosofici nell'opera di Norberto Bobbio di Franco Manni V D M Antifascismo V D M Senatori a vita di nomina presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio. Keywords: il bisogno del bisogno del senso del senso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bobbio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Boccadiferro – luogo comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “Boccadiferro is a good one; he is what Oxonians call ‘a Renaissance man,’ and all’italiana, he has a beautiful carved grave – He was into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell would call ‘stone-age metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’ and he was surely an Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather than a Bolognese thing – no wonder the first stadium ever in Italy started in Bologna, not Firenze, whose Accademia platonica was the place to see and be seen!” --  Ludovico Boccadiferro   Bologna: la tomba di Boccadiferro nella basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea,  Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527 quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte, avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna.  Scrisse diverse opere, in buona parte edite postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices, nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in.  Fonte Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Antonio Rotondò, «BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The Aristotle commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république des lettres, 1984, pp. 107-18.  Alessandro Achillini Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ludovico Boccadiferro  Ludovico Boccadiferro, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ludovico Boccadiferro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Ludovico Boccadiferro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro,.  Ritratto di Ludovico Boccadiferro Quadreria dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo. Averroismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo Professore Bologna Bologna Umanisti italiani. E ex decem illis capitibus, quæ præmittenda esse alias diximus, cetera, ut mi- Quz præmis nus necessaria huic tra & ationi, prætermittentes, hæc potissimú attingemus, tenda sunt an te expolitio quodnam fit philosophi propositum in his libris topicorum, quæ ſit huius nem Topico partis utilitas, quæ inscriptio, qui ordo, & quæ operis diuiſio: quibus abso- rum lutis, ad textus expofitionem accedemus. Propolitum igitur in his libris est, quod fit phi diale & icam methodum trader quare, ut, quid hoc propofitum nobis polli positum in li ceatur, intelligamus, cognoſcendum est quid fit diale & ica. & quoniam tunc bris Topico rem unamquanque optime cognoscimus, fi ipsam à ſui fimilibus sciamus rum. diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe uidetur rhetoricæ; ideo ui debimus, quo modo conueniant, differantg; inter ſe dialectica, & rhetorica. Dialecticam Stoici definiunt scientiam bene dicendi. bene dicereautem quidfit diale effe uolunt uera dicere, ac rei conſentanea.cum autem folus philoſophus corum ſente Čtica ex Stoia hoc efficiat, ipfi ad philosophiam solum diale &ticæ nomen referunt, ac ſolus cia. philosophus, ex eorum ſententia, diale&icus est. Plato vero, ut Alexander refert, dialecticam esse existimavit divisiuam me quid iterum fit thodum: cuius opus est, & ex uno plura facere, & plura in unum compone- Placonis fena ex re hanc enim in Phædro dialectica appellat, ubi eam summis laudibus extollit. tentia, vervm alia forte eſt Platonis ſententia: uult enim ipſe, ut patet in dialogo alia, et uera, de iufto, dialecticam esse facultatem, qux conatur ordinecerto, circa unum Platonis fen: quodque, quid ipſum ſit, inuenire. cum autem hæc facultas dupliciter tentia de dia lectica, quid conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta ſeorſum conſiderantur; lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipsis applicantur; dialecticam Plato à rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphysicum appellauit, qui rationem capit cu iuſlibet essentiæ, & non ſolum regulas, & præceptiones callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed, & interrogare fic, & reſpondere, quod eſt diale & ici proprium. cum autem huius fit uel præcipuum inſtrumentum diuifio, ideo eam in Phædro tantopere commendauit. Aristoteles autem dialecticam poſuit ſyllogiſticã methodum ex proba- Aristotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita. methodum appellat fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus, quoniammultipliciter fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica, quid ſecundum propofitionis ſpecies, uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam,in qua ſunt. ſecundum quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii hypothetici.ſecundum modos, & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe& i, aliiimperfecti, alii in aliis figura, & modo. fecundum autem materiam cundum mo differunt, quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui demonſtratiuidicun- dos & figu tur; atque ars, quæ huiuſmodi ſyllogiſmos docer conſtruere, appellaturme ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua. Alexander eam dicit appellari demonstrationem. quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex probabilibus probant, qui diale &tici appellantur; at cundum ma que ars, quæ huiuſmodi fyllogiſmos docet conſtruere, diale & ica methodus teriam. A eſt EXPOSITIO LIB. 1. tedicta declarat. est peripateticis, de qua philoſopho propoſitum eſt agere in his topicorum libris. at uero ſyllogiſmi, qui ex apponentibusprobabilibus procedunt, ſo exemplis an phiſtici ſunt; ac ſophiſtica ars eft, quæ de ipſis agit, horum autem differen tia hinc perſpici poteſt. ſienim dicamus, nullum bonum eſt imperfe & um,uo luptas eſtquid imperfe & um, ergo uòluptas non eſt bona, hic eſt demonſt ra tiuus ſyllogiſmus, quiex uoluptatis diffinitione procedit. at ſi dicamus, om ne bonum bonos efficit poſsidentes, fed uoluptas bonos non efficit, ergo uoluptas non eſt bona: hic erit dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos efficiat, eſtquidem probabile, non tamen neceſſario uerum. ſcien tia enim bona eſt, quæ tamen bonos poſsidentes non efficit. at ſi quis dicat, quod eft bonum, eſt appetibile, ſed uoluptas eſt appetibilis, ergo uoluptas quare diale- elt bona: ettfyllogiſinus ſophiſticus, quiex apparentibus probabilibus pro ética ex pro- cedit: fallit autem ex loco à conſequenti.quòd fi quis cauſam quærat, cur babilibus,& dialectica ex probabilibus tantú procedat,hæcnimirum eſſe uidetur, quòd, te propolita cum diale&tica interrogare doceat,acreſpondere,(id quod uerbum Sráneye agat. sou, à quo dialectica di& a eft, nobis indicat ) oportet, utdiale & ica de rebus omnibus differat, cum res omnes interrogando, & reſpondendo tractari poſsinc. ſi igitur diale & icus de quacunque re propoſita agit, neceſſe eſt, de rebus etiam fallis quandoque diſſerat. quod li ita fit, impoſsibile eſt, ut ex rebus ueris ſemper probet: neque enim ex ueris falſum colligi aliquo mo: do poteſt. ad probabilia igitur diale&icus conuertitur, quæ élicit à reſpon quare diale- dente, ex illisq; propofitum concludit: neque enim probabilia omnino ue etica lit à phi ra ſunt. ita igitur patet, quid peripateticis dialectica fit. lofopho ap- Quæ cum ita fint, re& e di& um eſt à philosopho, diale &ticã eſſe avtispoçor rhet pellata avtitoricæ. tribus enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica, & diale &tica: primo quidem, quia definitum genus non habent circa quod uerſentur, ſicut & modis inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina, & mathematica,& naturalis philofo fe conueniát phia, & ciuilis ſcientia, & artes omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica & tra cuius ambitum continentur. nihil enim, quod ad humanum corpus non rhetorica. pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica, quod ad numerum.at diale &tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet. ſecüdo, conue niunt dialectica, & rhetorica, quia utraque non ex propriisrerum princi piis, ſed ex rebus communibus probat. aliter enim deremedica agit diale Žicus, quam medicus. hic ex propriis eius artis principiis diſſerit:diale&ti cus uero ex communibus: eodé modo & orator. Tertio conueniunt, quia circa oppoſita æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur. ſimiliter enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam, &non bo,: nam, animam effe mortalem, & immortalem:& orator, aliquid effe iuſtum, & non iuſtum, utile & non utile, laudabile, & uituperabile, eodem modo de fendet. aliæ autem omnes artes, etfi utrunque oppoſitorum cognofcant, non tamen utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius eſt, ſemper ſibi pro ponunt.medicus, exempli cauſa, quæ ſanitatem efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet, non tamen fanitatem, & morbum indifferenter effi cit, ſed ſanitatem ſibi ſemper proponit.eodem modo & aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale & ica, ac oratoria ars circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à philo tur.atque hinc eſt, quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent appel fophis lint ap lari. poteftas enim proprie oppofitorumeſt: hæ autem artes non unum mat pellatę pote- gis oppofitorum, quam alterum tuentur, licet alii iccirco ipſas appellari po ſtate; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt eos, qui ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim tur. enim non poteſt, qui hominibus probare, ac perſuadere, quod libeat; pofsit? alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã ad bonú æque busci nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque hinc eft, quòd neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint: ficut enim,fiad honeſtas rariones dedu cantur, ut ueritatis inuentionem, iuſtitiæ defenfionem, ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita trahantur, maxime obelle ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, & rhetorica, quòd definitum genus ſub je& um non habent, quod non ex propriis, ſed ex communibus probant, & quòd utranque oppofitorum æque tuentur. TOTIDEM etiã modisinter fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot modis cunque materiam uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter fediffe dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica, & reſpondendo de re- rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens quambreuiſsime differit: rhe- lectica: torica uero continuata, ac diffuſa oracione uritur, quod confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ, dialecticam uero eidem in pu gnum contractæ comparauit. tertio differunt, quia diale&ica circa séris: quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur. eft autem Siois quæſtio nullis certiş is; & quid finibus temporum locorum, perſonarum concluſa. úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus, uel pluribus horum, ut fi quæramus, an philoſophiæ ope ra fit danda, siois eſt, fi quæramus, an nobis hoc temporephiloſophiz ſiç uacandum, utóðeris eft. IT A igitur paret, quod ſie philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere, ſcilicet de dialecticamethodo, uidimusý;, quid eſſet diale &tica, & quid cum rhetorica conueniat, quid ue ad ipfa differat. AlterVM, quod diſcutiendum propoſuimus, eft, quænam ſit huius operis diale &icz u. utilitas eftautem eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes, tilitas, & ad fecundo ad oratoriam facultatem,tertio ad ueritatis inuentionem, ultimo quot res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea demoliri tentet, ad difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt diale&ica, quoniam loca nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur argumenta ad quodlibet problema conſtruendum, uel deftruédum. ad diſputa - præterea docer quomodo interrogare, ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones. alios interrogabimus, quodlibet probare poţerimus: fiautem interroganti reſpondebimus, fententiam noſtram egregie ſuſtinebimus, atque ad ircon ueniens non deducemur.quàm autem adrhetoricam conferat,hinc patet', quàm confen quod omnes fere, qui de rhetorica conſcripſerunt, non aliunde, quam ex riam faculta docis, qui hic traduntur, probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis cor, de- cem, ſumi tradunt, neque tamen eo minor eft hæc utilitas, quòd plerique rhe cores ex his Ariſtotelis libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua cti ſunt.magni enim intereſt, fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex fonte, id autem uel hinc patere poteſt, quòd, cum apud Ariſtotelem tradi ti ſint tercentum, atque eo amplius loci, ita diſtincte ſecundum quæſtionum differentias, ut nihilmagisrhetores eos omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam ampla facultas in quantascoa&a anguſtias. Ad ueritatis autem inuent quàm confe tionem dialectica confert, quoniã cum in unaquaquere poſsimus ad utran- rat ad uerita quepartem diſputare ex probabilibus. probabilia autem non fint exomni tis inucntio parte falſa, ideo ex ipſis aliquid ueri colligere poterimus, quod Ariftotelis reſtimonio confirmatur, qui plerunque in rebusdifficillimis diale & icos fyl logiſmos pro utraque parte præmittit.deinde fententiam ferens folet often quim confe dere quoquo modo rem ita ſe habere, & quoquomodo non. Confert de rat ad ſciena mum diale & ica ad ſcientiarum principia defendenda: nulla enim ſciétia pro A 2 pria nem. Iteriorum. tiarum prima pria principia poteſtprobare, fed ea pro ueris aſſumens, alia omnia ex illis pendapaa pro probat: at fi huiuſmodi principia negentur, nullus præter dialecticum,& metaphyſicum poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet, eſt diale &ticæ utilitas,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, & fuftulerunt.fie quòd quidã nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones intulerunt, ut Protagoras, dialectica im qui cum in dialecticis excelleret, Deos in dubium reuocauit, unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius libros arſerunt,ipſumą; Athenis ablegarunt, tan narint, idq; Protagoræ e quam hominem reipublicæ, ac philoſophicæ ueritati perniciofum, id non xemplo. dialecticæ contigit uitio, ſed eorum potius, qui dialecticam à rerum cogni tione ſepararunt, quod profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma ſeparet, aut oculum à uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica ad deteriorem partem abufi fuerint. quæ fit hu - SEQUITUR, ut inquiramus,quæ ſit huius operis inſcriptio, et inſcriptionis ius operis in- caula. inſcribuntur autem hi libri Torine, græco nomine, à uerbo Tótosi, infcriptionis. quodlocum nobis ſignificat. eſt autem locus, ut Rodulphus definit,com munis quædam reinota, cuius admonitu, quid in quaque re probabile ſit; poteft inueniri, atq; hinc libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica appellati. Iam illuduidendum eſt, qui ſit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui fit ordo facultatis. primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi debeant libros huius libri. pofteriorum reſolutoriorum: deinde an etiam ſequi debeant libros priorú, et primo an Primo quidem, quòd pofteriorum libri, qui de demonſtratione agunt, To cedere debe- pica conſequi debeant; ex eo probatur, quoniam demonſtratio eft finis to ant libros Po tius logicæ tractationis, ut Græci atteſtantur, de ea igitur ultimo loco agen dum eſt.præterea cum probabilia uiam nobis aperiant ad ipſam demonſtra tionem, fintq; inuentu, ac cognitu faciliora, dehis igitur priori loco agen huius ratio dum eſt. his itaque rationibus Topica præcedere Poſteriora ſtatuamus. an uero præcedant, an ſequantur Priora, non minor eſt difficultas. Marcus Ci Topica cero, cuius fententiam ſequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili - Lebeidlibros gentem rationem diſſerendi appellat, in duas partes dicit efle diductam, u. Priorum, nam inueniendi,alteram iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ priorem idậ; ex fen- dicit. ſi hæcita ſunt, cum inueniendi ars in Topicis libris tradatur, iudican tentia Cice- diuero in Prioribus, ergo Topica procedut Priora.quæ enim priora ſuntin ronis, & Boe doctriva ordinata, prius etiam tradi debent.uerum quoniam plerique ne çit. fciunt qua ratione pars illa appelletur iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0. ſtendamus. Appellatur hæc pars inuentiua eo quòd locos, utdiximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur.pars uero altera iudicatiua dicitur, altera inuen- quoniam doceſ, quo pacto, probabilia illa, quæ inuenimus, fint conne& en tiua,altera ne da, qua ſcilicet figura, & quomodo, ut aliquid concludamus, non ſolum ma appellentur. teria opuseft, qua id efficiamus, ſed etiam recto, & artificioſo connexu., non aliter, quam qui cercas, autáreasimagines fundunt, non ſolum materia indlgent, fed etiam typis quibuſdam,per quos fuſa materia debitam formam fufcipiat.pars igitur illa, quæ de locis agit, inuentiua, quæ uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum, atque inſuper decautionibuscaptioſarum argumen opinionis fu- tationum, iudicatiua eſt appellata. ſed, ut ad rem propoſitam redeamus, perioris effi - concludebat prior ratio Topica debere præcedere librospriorum, ſed huic cax oppofi - fententia opponitur efficax ratio.in Prioribus enim agitur de ſyllogiſmo in. communi, in Topicis autem de ſyllogiſmo dialectico.cum autem commu niora femper præcedere debeant, ergo priorum libri præcedent Topica, hancq; ſententiam peripateticiomnes, Græci, Latini, & Arabes concordes cui caméopi conſequuntur.Si cui tamen prior ſententia magis arrideat, quòd ſcilicet TO nis confirma tio. an qua ' ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio. $ Topica præcedane, non concedet; quod oppoſita ratio aſſumit, quòd fcili- nioni magis cet in Topicis de diale&ico ſyllogiſmo agatur, ſed dicețibi agi de materia & eiustatio diale & ici fyllogiſmi, quæ ſunt ipſa probabilia.hæc poſtea quomodo ſyllogif- nis confirma mosautalia argumentationis fpecieconnecti debeant,in prioribus traditur. tio. quòd Gi philoſophus Topicoru initio dicit ſe in propoſita tractatione diale &icum fyllogiſmum quærere, hoc propterea dicit, quoniam hæc omnia gra- niobiectio. huic opinio tia diale & ici ſyllogiſmitra & antur: quid enim conferent probabilia, nifi ipfi huius obie– recte componere, ac connectere ſciamus? non tamen ſupponunt do &trinam ctionis diflo de fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur: Id neque ex eo oſtendi poteſt, hanc lutio. tračiationem eam fupponere, quæ eſt de fyllogiſmo, quoniam philoſophus alia huius ra obie initio primi Topicorum de ſyllogiſmo, atque eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his agit, niſi ut dialectici fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc loco nou diffiniret, eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e- ftionis dißio lutio alia, giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione conſequentur, Priorum conclufio. autem, ac Pofteriorum libros præcedent. Illvd deniū uidendum ſuperelt, quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ fic huius tem in tres partes. in primo enim libro oſtendit partes, ex quibus compo- operis diui – nuntur orationes dialecticæ, & partium partes, uſque ad fimpliciſſimas. in fio. fecunda parte oitendit loca, ex quibus fumantur argumenta ad conſtruen dum, & deftruendum omnegenus quæſiti, quod fit in ſex ſequentibus libris. in tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro interrogantem inftruit, quo-. modo debeat interrogare, ac reſpondentem, quomodo debeat reſpódere. In hoc primo capite proponitphiloſophus propoſitum ſuum in his Topicis libris. &quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine tractantur, gratia diale quid in hoc Etici fyllogiſmi tractantur, ideo præmittit, quid ſit fyllogiſmus, & quæ fint agendum pro eius differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum, deinde definit ſyllogiſ- ponac philo mum demonſtratiuum: & quoniam demonltratio conſtat exprimis, & ueris, fophus. oftendit, quænam ſint hæc prima, & uera, definit etiam diale &ticum ſyllogif mum. & quoniam conſtat ex probabilibus,oftendit quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum fyllogiſmum, poftremo definit paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, ac concludens dicit ſe ſummatim dehis egiſſe, admonetą; ſe non effe de rebus his exactam do & rinam traditurum, ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit. Propoſitum ) Duæ ſunt apud philoſophos uoces cognatæ, propofitum, & fub- quid inter se iectum. ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur: propoſitum differantpro uero eſt id, quod artifex ſibiproponit, & quo effe & to ceſſat ab opere, exem- pofitum; & plicauſa,fubie& um in medicina efthumanum corpus, propoſitum uero eſt ſubiectum. fanitatem efficere in humano corpore, & femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum, quare Græci interpretes, cum ſemper expofitum quæ rant, de ſubiecto nunquam fere uerba faciunt notandum autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes factiuæ à diſciplinis contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium faciuarum tria complectuntur, effectio primum, quæ eſt cu- ctiuz artes à juſlibetartis finis, deinde forma, quæ ab artifice introducitur, quæ & ipſa differant. fubie & um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in medicina ſanitas: ptäte rea ipſum ſubiectum, atque hæc tria in propoſito artis explicantur, nilicon tingat formæ illi, &fubiecto unum eſſe nomen impofitum. in propofito au tem contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio, quæ eſt cuiuſlibet fcientiæ contemplatiuæ finis, & ipſum ſubie & um licet fiquis in his etiam diligentius inſpiciat, uidebit formam quandam latere naturalis philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere, fed forma latet modus 1 1 торт сок у м ARIST, di, dus, ſcilicet & character quo illas cognofcit, nempe phyſice eodem modo, &arithmetici propoſituni eſt numeros cognoſcere ledlatet illud mathema tice, quod eſt quali forma eius cognitionis. notandum etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam aliquam tradit, &ipſius ſcientiæ, exempli se àpropoſ- cauſa,philoſophipropofitum eſt in hoc uolumine de dialectica agere, ipfius to ſcientiæ, uero diale &ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de quacunque propofi quä ipfe fcri- to problemate. utrunque autem propofitum indicant uerba philoſophi. ptor tradit. quid ſit me Methodum. utcognoſcamus quid methodusſit, quæ res, ſicuti non facilis eſt; thodus. ita digniſsima eft cognitione, notandum eſt,quòd methodus, ficut nomen indicat, elt uia quædam, qua unum poft aliud certo quodam ordine poſitum eft, quare diſciplinæ omnes, quæ certum quendam ordinem obſeruant, me: quæ fint pro- thodi appellantur: ſed inter ipſas diſciplinas aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis deſeruiunt, & iccirco diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi ſunt definiendiars, & diuidendi, & aliæ quædam. aliæ uero ſunt di ſciplinæ, quibus illæ deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis deſeruientibus conuenit, quæ omnes ad logicam tractationem pertinent, quæ etiam in cauſa ſunr, cum aliis diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé accipiant: unde & medendimethodus, & phylica methodus dicitur, cum ſci licethæ diſciplinæ certo quodam ordine traduntur, quod non aliunde ha bent, quam ex illis logicis mechodis. quod hæc ars Inuenire. dixit hoc philoſophus, quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat nondum inué conſtituta: etſi multa apud Platonem, & alios ueteres philoſophos reperi ta erat,ſed ip rentur, illa tamen erant præcepta quædam ſparſa, & difie & a,neque colle ſe primus ea inuenit, & p &a in artem. primus omnium Ariftoteles hæc diligenter perſecutus artem fecit, hanc inſtituit, fimul & perfecit. A quapoterimus etc, cum diale & icainterrogando, & reſpondendo conſiſtat, quid diale & i- oftendit philoſophus, quidnam ipſa conferac tum interroganti, tum reſpon ca cöferat in denti.confert enim interroganti, quoniam docet ipſum diſſerere de qua reſpondenti cunque re, quæ à reſpondente proponi poſsit: confert reſpondenti, quonia inftruit ipſum, ne abinterrogante deducatur ad inconueniens:ſed ſenten tiam ſuam egregie ſuſtinear, De omni, hoc dicens philoſophus quodam modo diale & icam d rhetorica ſe parauit. etſi neutra earum habeatſubie & um limitatum,non æque tamen rhe torica de omni quæſtione diſputat, ſicut dialectica.circa ciuilia enim nego cia magis uerſatur, quod quædā Propoſito problemate. Quid ſit problemainferius oftendet philoſophus. diſpu non ſunt dia- tat diale & icus de rebus ciuilibus, de rebus naturalibus, de rebus medicis lettica pro- aliisg;, in his tamen quædam ſunt, quæ non ſuntdialectica problemata, ne blemata. que enim diſputabit de his, quæ indigentſenſu, aut pæna,utquòd ignis fic callidus, neque de his, quæ propinquam habent demonſtrationem, led de his quæ dubitationem aliquam habent. Ex probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus diſſerat, ſuperius diximus. quid philofo. Primum igitur. particula igitur coniungit hanc partem cum eo, quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim docet hæc ars fyllogizare ex probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet, utcognoſcamus, quid fit fyllogiſmus; præterea debemus uidere, quæ igitur. ſint ſyllogiſmorum differentiæ, ut manifeſtum fiat, quòd fit hic fyllogiſinus ex probabilibus, quo dialectica methodus utitur. dubitatio an Hunc enim quærimus. dubitant quidam, cum diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului operis fubie& um, quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus, quo fit dialecticus niam fubie & um debet præcognoſci in qualibet ſcientia, cuiuseſt ſubie & um: 1 1 1 quod TOPIC Q R VM. ARIS 1.: 4 tionem. quod autem eft præcognitum, non poteſt eſſe quæſitum: ſed dicendum eft, fyllogiſmus, quòd in hoc uolumine fubie & um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale & i- methodus. ca methodus, cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus diale&icus. ſed li folutio Tupe etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum diale& icum,nó tamen eſt in- rioris dubita conueniens, quòd quæratur, quoniam ſubie &tum in ſciétia ſupponitur, quod aliaetiam for fit, & quid ſignificet. ſed poteſt poſtea quæri, quid fit, quæ ſint eius partes, lutio. paſsiones, &proprietates.non igitur idem erit ſuppofitum, & quæſitum. Eft itaque ſyllogiſinus. fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem, quid nobis fi in eius definitione orationem poſuit philoſophus loco generis (cum enim gnificet fyllo aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro oratione )non folu gulmus: enim ſyllogiſmum, fed & alia plura oratio comprehendit.quæ omnia à fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor adiectisdifferentiis: eam enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam, aliud quid neceſſario accidit, propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum appellat. Quibufdampoſitis, per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in quibus quid ſeparec nihil ponitur, qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem ſignificat fumptis, hac particula & conceſsis: oportet enim, ut quæ ad ſyllogizandum ſumuntur, etiam con atis. quibufdá po cedantur, uel ſcilicet ab alio, fi cum alio quis ratiocinetur, uel faltem à ſe ipſo, ſiſecum ratiocinetur,uelab audiente non expetit reſponſionem. præ utrú illud, po terea illud, poſitis, comprehendit non folum affirmatiuas propoſitiones, ſitis,compre uerum & negatiuas.nam & negatiuæ nihilo fecius ad fyllogizandum ſumun- hendat & af tur, quàm affirmatiuæ.præterea illud, poſitis, proprie reſpicit categoricas negatiuas p propoſitiones. hypotheticæ enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde ca politiones: tegorici ſyllogiſmi ſimpliciter, acproprie fyllogiſmi dicuntur. hypothetici utrú illud po ſitis compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed hoc totum ſyllogiſini hypothetici. dixit præterea pofitis, & non pofito, quoniam ex uno pofito nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi, ſed utminimum ex duobus.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid concludunt, uti ſunt enthymemara, & quæ Antipatri ſe- quomodo co &tatores Moronéquata appellarunt, defectuoſa funt,quod deprehenditur,quiasnofcai qua fi id, quod prætereunt, ſuppleamus, nihil eft in argnmentatione ſuperuaca veum, quod profe & o fieret,fi huiuſmodi argumentationes non eflent defi- etuoſa. cientes, ut in ſyllogiſmis uidere eft.fiuntautem enthymemata, ubi propofi quando pof lint fieri en tio aliqua præteriri poteſt, quoniam euidens eſt, & manifefta, ut reſpirat, thymemata ergo uiuit: at ſi huiuſmodi propoſitio latens ſit, tunc no poſſunt effici enthy- quando non memata, ut fi dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ appellantur poſsint fieri illationes, & conſequentiæ, non etiam enthymemata. enthymema Aliud quid à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi utilitatem.nul fyllogiſmi uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum, quàm fyllogiſmus: cú litas. enim nos fimus cognitionis participes, non tamen fine diſcurſu res cogno- quotuplici - fcamus, ſicuti beatæ métes, quæ intuitiue cognoſcunt, ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc quadrupliciter fieri pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad ignotum,uel ab ignoto ad notum, uel à noto ad ignotum; tres primi modi nihil ad cognitionem conferunt, ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum, hoc autem fit per fyllogiſmum:quare cum im poſsibile fit, ut idem fit notum, & ignotum, ideo oportet, ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his, quæ poſita ſunt: quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit ſyllogiſmus, quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon dicimus, qui uidendi uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito igitur à fyllogiſmi definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror pellari Siepo iſtoicis appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur, ut uel dies pouuevos. eſt, do argu menta defe ta. aliud proce TOPIC OR VM ARI S. T. 1 obie &tio. eſt, uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet quis, liſyllogiſmi funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt, uel dies eſt, uel nox eít, ſed dies eſt, non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi fyllogiſmi erunt. uidetur e nim quòd idem ſit, nox non eſt, & dies eſt, etſi in uerbis fit differentia.uer borum enim differentia, fi idem ſit ſignificatum, nihil omnino facit. dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum illud noxnon eſt, ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis. men primario, ſed ſecundario. primo enim ſignificat no &is negationem, ſe cundario autem ſignificat diei præſentiam, eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies eſt:quemadmodum & nox eſt, primo ſignificat no &i præſen tiam, ſecundario uero diei priuationem. cum igitur aliqua fit inter hæc dif · ferentia, quoniam non eandem rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd fyllogif ſunt. illiuero, in quibus nulla prorſus eſt differentia, inter aſſumptum, et illa mi,quifiunt tum non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione & fyllogiſmi illi ſunt, qui ex contradi- ex contradi& tione fiunt, ut uel dies eſt, uel dies non eſt, ſed dies eſt, non er merentur di- go non eſt.aſſumptum enim illud primario ponit diem efle, fecundario au ci ſyllogiſmi. temnegat diem non eſſe. quæna fit ha Ex neceſſitate accidit. declarat hac uoce philoſophushabitudinem,quæ eſt in bitudo inter ter concluſionem, & præmiſſas, quas appellauit pofita. oportet enim quòd præmillas, & concluſio à pofitis neceffario inferatur. notandum autem eſt,aliud eſſe con quid differat cluſionem neceſſariam, quàm quæ ex neceſsitate accidit.conclufio enim eſt inter conclu- neceſſaria, quæ eſt in neceſariamateria, uthomoeft mortalis: concluſio ue fioné necella ro ex neceſsitate eſt, quæ à poſitis neceſſario dependet, quod non minus riá, & de ne: uerum eſt in materia neceſſaria, quam in contingenti. ſeparauit autem hoc dentem,& de dicens philoſophus, ſyllogiſmum ab indu & ione, in qua, quoniam non om neceffario, nia ſingularia inducuntur, & fi inducantur, non tamen oportet, quòd eodem ſcilicet é hæc modo fe habeat uniuerfale, ficut unumquodque ſumptorum, ideo conclu conclufio in lio in ea non accidit ex neceſsitate. fiigitur conclufio non accidit ex neceſsi Cario, tate, non erit ſyllogiſmus: atquehinc merito litigioſus ſyllogiſmus in forma peccans nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau- Propter poſita. quatuor de cauſis hoc adiecit Philoſophus, primout deficien lis philoſo - tes fyllogiſmos ſepararet, in quibus deficit altera propofitio ad ſyllogiſtica il phus poſuerit lationem, ut lac habet, ergopeperit. ſecüdo, ut ſepararet ſyllogiſmos ſuper in definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus aſſumitur propofitio aliqua ad concluſionem non necef particulă hâc faria, ut fi dicamus, omne iuſtum eſt honeſtum, omne honeftum eft bonum, ſcilicet Pro- omne bonum eſt eligibile, ergo omne honeftum eſt eligibile.tertio,ut ſepa pter poſita raret orationes, in quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid alie tuor de cap - num, ut, quod eſt ſecundum naturam, eſt eligibile, uoluptas eſt ſecundum na Gis. turam, ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio, de morte diſſolutum non ſentit: quod non ſentit, nihil ad nos pertinet:mors ergo nihil ad nos pertinet. quarto, ut ſepararet eas orationes, in quibus non ponitur aliqua propoſitio uniuerſalis,utſi dicamus, linea a eſt æqualis lineæb, &linea c eſt æqualis eidem lineæb, ergo linea a, & linea c funt æquales inter ſe. hæc enim concluſionon ſequitur expofitis, fed ex uniuerſali prætermiffa, quæ dicit, quæ ſunt æqualia uni tertio,funt æqualia inter ſe. quid differae Demonſtratio igitureſt, quando ex ueris, & primis ſyllogiſinus eft. Aliud eft demon inter demon- ftratio, & demonſtratiua methodus.eſt enim demonſtratiua inethodus ip deinonitrati ſa ars, & diſciplina, quæ demonſtrationes efficit. demonftratio uero eſt uam metho demonſtratiux methodiopus.cum igitur uelit philoſophus fyllogiſmi dif duin. ferentias definire, à demonſtratione incipit, quæ eft omnibus aliis nobiliſſi ma. dicit autem ipſam eſſe fyllogiſmum, qui conſtat exprimis, & ueris, uel. hoc eft qua 1 ex торгсок у м AA 5 R I S T. ex his, quæ pro aliqua prima,& uera ſuæ cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur, fi definitionem aliquam cognofcere debemus, icire quænam ſint prima, & uera, quod ipſe paulo poſt oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia diſciplinarum, quæ nonex aliis, ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent. hxc enim quoniam funt principia,non poſſunt ex aliis demonſtrari, exte, non au quia non amplius eflentprincipia, ſi ex aliis poflent demonſtrari. & cum ex tem ex aliis ipfis alia demonftrentur,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant, alioqui o- fidem habét. mnia demonſtrata eſſent incerta. ſunt igitur ipſa principia ſcientiarum cer ta, & euidentia: ex his autem quædam funt nobiſcum innata, & quæ à præce ptore non diſcuntur, ac proinde appellantur communes animi conceptio nes, dignitates, & proloquia, ſeu profata. alia uero ſunt, quæ non poſſunt quidem demonſtrari, nobiſcum tamen non ſunt inſita, ſed admonitione quadam, & declaratione indigent.leui enim declaratione ipfis affentimur, & hæc appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt, uel enim dicunt aliquid ef quotuplices lint politio ſe, uel non eſſe, &dicuntur petitiones, uel poftulata, uel quid fit res indi- nes. cant: ſed non dicunt aliquid efle, uel non efle, & appellantur definitiones, quæ omnia apud mathematicos manifefta funt. Quod autem dicit philoſophus, Non enim oportet in diſciplinalibus principijs inquirere propter quid. Videri poſſetali- obie &tio, 9 cui dubium, cum Themiftius primo poſteriorum dicat, prima principia fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam, propter quam illis affentimur lumen, ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis: præterea principia cognoſcimus per terminos, ſed ter- habent,pro mini ſunt cauſamaterialis principiorum, ergo principia habent cauſam.di- pterquam il cendum eſt, quòd prima principia habent quidem cauſam, quæ affentimur ip nöautem ex ſis, non tamen habent caufam,propterquam poffintdemonſtrari. ad ſecun- fe habentcau dum dicendum eft, quòd ex terminis quidem cognofcuntur priucipia, non fam. tamen ex illis poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt incomplexi: ne que omnis cauſa dicitur propter quid, ſed ea, ex qua poſſit aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur, quæ ſint prima, & uera: addit uel ex his, quæ per aliqua quare philo prima, & uera, &c. niſi enim hoc eſſet additum, primæ ſolum illæ effentde- fophus in de monſtrationes, quæ ex principiis demonſtrantur, cum non minus etiam de- nis definitio monſtrationes ſint, quæ demonſtrantur ex demonſtratis primis, ſed quamuis ne poſuerit ca, ex quibus fit demonſtratio, prima non fint ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc uer concluſione. ſemper enim debent eſſe caufæ conclufionis, non folum in in- ba, uel ex his, ſerendo, ſed etiam in eſſendo. propterea dubitat Alexander, fi quis ab effe- quæ penalina &u ad cauſam procedat, utrum debeat dici demonſtratio,andiale& icus ſyl- uera luz co logiſmus, quia enim procedit ex ueris, non uidetur, quòd fit diale & icus; qui gnitionis prin ex probabilibusprocedir: & quoniam ex pofteriori procedit, non uidetur, сіруй fumple quòd fit demonitratio, quæ ex primis procedit. ſoluit Alexander, quòdu trunque tueri poſſumus, & quòd ſit dialecticus fyllogiſmus, quoniam huiuf modi uera ſumuntur pro probabilibus, ut lac habet, ergo peperit. luna de ficit, ergo terra inter ipſam, & folem eſt interpofita. poffumus etiam dice re, quod fit demonſtratio, fed demonſtratio quo ad nos, quia in ea accipi mus ea.quæ nobis notiora ſunt.eſt igitur demonſtratio imperfe & a, & im proprie dicta. Dialecticus autem ſyllogiſmusex probabilibus ſyllogizans.Non poflumus autem hanc quænam fint definitionem intelligere, niſi cognoſcamus,quæ fint probabilia, ideo fubdit probabilia. philoſophus,probabilia ſunt, quæ uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel ſapientibus,& his uel omnibus, uel pluribus, uel maxime cognitis, & pro- omnibus pro batis, omnibus quidem probabilia ſunt, ut fanitatem eſſe expetendam,ui- babilia. runt. quænam ſint B tam торт сок у м ARIST.. tam eſe expetendam, fcire pulchrum eſſe, parentes eſſe honorandos: hæc e nini omnibus probantur, quòd fi quialiter affirmant,id aduerſus intrinſeca rationem dicunt. plurimis autem probabilia ſunt, prudentiam effe diuitiis plurimis quænam fint eligibiliorem, & animam corpore præftantiorem. notató; hoc loco Alexan pro babilia. der, quòd fi diale&icus de his ſoluni diſputaret, quæ in communi notione uerfantur, ea ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus probātur: fed quo niam plerunque etiam de his, quæ à communi notitia remota ſunt, ideo ea quænam fint etiam probabilia aſſumit, quæ ſapientibus uidentur.omnibusautem ſapien pbabilia om- tibus uidentur, quæanimi bona ſcientia, ſcilicet & uirtus fint præftantiora nibusſapien- bonis corporis,quòd ex nihilo nihil fiat. plurimis autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe per ſe expetibilem: & fi aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute fieri, quòd non detur aliquod corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat Democritus, quòd non ſint mundi infiniti; & ſi contra Anaxagoras quænam fint opinatus ſit; celeberrimis autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im probabilia ce mortalē, quæ fuit Platonis opinio, uel effe quoddam quintum corpus,quam leberrimis fa- dicit Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam, quod & M. Tullius eidem at pientibus. quòd etiam tribuit, licet alii omnes aliter ſentiant de Ariſtotelis opinione. ſunt autem,pbabilia ſunt hæc probabilia, & fiuel pauciadmodum, uelunus tantum forteita ſit opina ea, quæ uel tus, quoniam ſicut illi probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime pro unus, uel pau babiles eſſe uidentur. notandum autem eſt differre probabile à uero, non eo fenferint-, quòd probabile falſum ſit,utplurimum enim probabile, neque omnino eft illi probabi- uerum, neque omnino falſum, ſed differunt iudicio.dicitur enim uerum ex les fuerint. ipſa re, quando ſcilicet cum re conſentit. probabile autem dicitur ex audie tium opinione: fi enim ita audientes opinentur, probabile dicitur.probabi lia enim quatenus probabilia ſunt, neque uera, neque falſa ſunt: quædam e nim uera probabilia ſunt, ut Deos eſſe: quædã etiam uera ſunt,quæ non funt probabilia, ut quòd extra cælum nihil ſit: quædam etiam ſunt falſa, & proba bilia, ut quòd Deus omnia pofsit, neque enim mala poteſt, ſicut & pleraque ſunt, &faiſa, & non probabilia: ſed ex his nulla fit argumentatio. notandum etiam eft, pleraque probabilia eſſe inter ſe oppoſita. fæpe enim quod proba turuulgo,non probatur à fapientibus, ut quòd bona animi præſtentcorpo quid fit pro- ris bonis. M. Tulius primode inuétione probabile dicit effe id, quod fere fie babile ex M. ri ſolet, ut matres diligere filios ſuos, & id, quod in opinione pofitú eft, ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe paratas:&quòd ad hochabetquandã ſimilitu dinem, ut ſi his, qui imprudenter ceſſeruntignoſci,conuenit: his, qui ne in quot par- ceſſario profuerunt, haberigratiam non oportet. hoc autem probabile in tes diuidatur quatuor partesdiuiditur, in lignum, quod uel negocium præcedit, uel comi probabile. tatur,uel conſequitur. credibile iudicatum, quod eſt uel religioſum, uel commune, uel approbatum: & comparabile, cuius partes tres ſunt, imago, collatio, exemplum, quotuplex ſit Litigioſus autem ſyllogiſmus. duplicem oftendit philoſophus eſſe ſyllogiſmum fyllogiſmus litigiofum, & qui procedit ex apparenter probabilibus, ſed re&am ſeruar litigiofus. connexionem: & quiconnexionem prauam habet, uel fit ex uere probabi libus. ftatuita; philoſophus eum, quiin connexione fyllogiſtica peccat, non eſſe dicendum ſyllogiſmum, fed hoc totum fyllogiſmum contentioſum, quemadmodum homo mortuus non dicitur homo, fed hoc totum homo mortuus. qui uero ſyllogiſticam connexionem ſeruat, ſed procedit ex ap parentibus probabilibus, dici poteſt ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit fyllogiſmus, hic uero non eſt, quoniam uitiatur fyllogiſtica connexio, pe rit fyllogiſmi natura non aliter, quam homo deſinit elle, quod eſt, li anima priuetur, ne. priuetur, quoniam non poterat hæc definitio intelligi, nifi cognoſceremus quid etient apparenter probabilia, & quid differrenta uere probabilibus, quid fint ap ideo hocipfum declarabit philofophus. dicit enim, quòd nihil eorum, quæ bilia; & quid funt probabilia in ſuperficie idem, funtapparenter probabilia, habet omni differant à ue no fantaſiam idem, funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re probabili le & in ſuperficie, quòd facile redarguitur,quia ſcilicet promptam habet bus. inſtantiam, ut ſi dicamus, quod uidet, oculoshabet.ſi quis enim hoc admit -tat, fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur, quæ loque ris, ex ore exeunt, audire poterit, currũ loqueris ergo: currus ex ore exit. eodem modo qui oculos habet, uidet, fed dormiens habet oculos, ergo uidet.in his fi quis parum infpiciat, mox deprehendet mendacium, quod nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur:neque enim hoc facile quis redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt,maius malum eft: in multis eniin hoc uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius malum, quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum, quàm bona habitudo. Principii litigioſarum orationum. per hoc intelligit philoſophus propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt, non autem horum argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum, ſeu contentioſum ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim eſt,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat:fophifticusautem, qui gloriam. ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico. riam captat, ut inde pecunias acquirat,ut dicitur,primo Elenchorum ca pite decimo. Adhuc autem præter dictos omnes fyllogiſmos. aliam ſyllogiſmidifferentiam affert quidfit para philoſophus, qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is, atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas ſtereometriam,per- fcientiæ geo fpe &tiuam, aſtrologiam, arithmeticam,muficam, archite & uram, chofmo- metriä сo graphiam, mechanicen, & alias quaſdam.quòd autem huiuſmodi ſyllogiſmi gnatæ. à ſuperius di&is differant, patet: non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam etſi propria principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt, eo tamenmodo intellecta, quo falſus deſcriptor illis utitur, ſunt falla. neque etiam huiuſmodi ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici; quoniam ex proba bilibus non ſunt: neque enim quæ omnibus probantur, neque quæ pluribus affumunt, neque quæ omnibus fapientibus, neque quæ plurimis, neque celeberrimis, ſed nequedicipoffunthi ſyllogiſmi litigiofi,quoniam non af fumunt apparenter probabilia. propria enim principia non uulgo, ſed his, qui in ſcientia ſunt uerſati,cognoſcuntur quare probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum ſenſum deducuntur, non etiam dici poterunt apparen ter probabilia. Λημμάτων. λήμματα funt apud Αriftoteleim propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα. nos præmiffas appellamus, & ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana qua ſint. tantū propoſitioni conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt appellati.notan dum eft paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, qui pſeudographusappellatur;ita quonam mo fe habere ad demonſtrationem, quemadmodum fe habet contentiofus ad do paralogiſ diale& icum.notandum præterea eſt paralogiſmi nomine, comprehédi utrun- mus habeat que modum ſyllogiſmi contentiofi, fyllogiſmum ſophiſticum pſeudogra- ftrationen phum, & tentatiuum. Species igitur fyllogiſmorum, ut figura quadam complecti licet. Plures affert ratio. rationes qua nes Alexander, quare dixerit philoſophus, ut figura quadam comple & i licet, re philofo B 2 uel phus dixerit, quænam Gnt tiuus. ut figura qua uel quoniam non tradiderit diligentem, & exquiſitam horum definitionem, dam comple Eti licet. nonenim ad hoc inſtitutum pertinebat, uel quia non omnes fyllogiſmorum differentias eſt perſecutus.eas enim prætermiſit, quæ fumuntur pencs dif ferentias propofitionum, & quæ penes earum connexionem, uel quoniam prætermiſit enthymema, quod quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus, eſt tamen ſyllogiſmus rhetoricus, uel quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta quid fit fyllo tiuum,dequo alibi fa&a eſt mentio.eft autem fyllogiſmus tentatiuus, qui gıſmus tenta procedit ex probabilibus, non ſimpliciter, ſed reſpondenti. eft enim ten tatiuus ſyllogiſinus ad eos refellendos, qui fingunt fe aliquid ſcire, quod ne ſciunt: fed dubitat Alexander,ac fere affirmat idem effe Tyllogiſmum tenta tiuum, ac pſeudographum. philoſophus enim in Elenchorum libro tenta tiuum fyllogiſmum definit, quod fit ex his, quæ reſpondenti probantur: & quæ neceſſario tenere debetis, qui profiteturſe habere ſcientiam. hoc au qua in re ten tem idem eſt, ac fi diceret ex peculiaribus fcientiæ principiis. hæc enim tene tatiuus fyllo- re debet, qui ſcientiam habere profitetur. appellatur autem tentatiuus à Fat a pſeudo propoſito, & inftituto interrogantis, pſeudographema autem ab effe& u. grapho. Vtautem uniuerſaliter dicamus. Admonet philoſophus in his, quæ di &a ſunt, ac quòdnon in in omnibus, quæ ſunt dicenda, non eile expectandam certam, ac demon omnibus re- ftratiuam ſcientiam, quia propoſita tra & atio id non fert, cum de probabili renda demó- bus fit, quorum certa, atque exquiſita fcientia haberi non poteft, ut dicebat ftratiua fcien in ſecundo metaphyſices, certitudo mathematica non eſt in omnibus expe tenda, neque omnium poteſt haberi demonſtratio. dubitatio Q- QVAER VNT quidam, cum philoſophus attulerit duos fyllogiſmos con phus attule- tentiofos,alterum,qui peccat in materia,alterum, qui peccat in forma, fit du os fyllo cur unum tantum pſeudographum, qui in materia peccat, foluunt, quòd giſmos con- peccatum formæ eſt commune omnibus ſyllogiſmis: quoniam igitur ipſum tentiofos, & expoſuit in fyllogiſmo contentioſo: ideo hoc loco ipſum prætermiſit, at pſeudogra- peccatum materix eſt fingulis proprium. Sequitur, ut inquiramus, quæ sit huius operis inscriptio, et inscriptionis ius operis incausa inscribuntur autem hi libri topice, græco nomine, a verbo topos inscriptionis munis quædam rei nota, cuius admonitu, quid in quaque reprobabile sit, potest inueniri, atq hinc libri, quide huiusmodi loci sagut, topica appellati. Iam illud videndum est, quisit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui sit ordo facultatis primo q; inquirendum est, an libri topici se qui debeant libros huius libri ant libros totius logicæ tractationis, ut græci attestantur de eaigitur ultimo loco agen Iteriorum.dumest. prætere a cum probabilia viam nobi saperi anta dipsam demonstrationem, ling inventu, accognitu faciliora, dehi sigitur priori loco agen huius ratio, dumest his itaque rationibus topica præcedere posteriora statuamus: an uero præcedant, ansequantur priora, non minor est difficultas. Marcus Cicero, cuius sententiam sequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili-, posteriorum resolutoriorum: deinde an etiam sequi debeant libros priori et primo an Primo quidem, quod posteriorum libri, qui de demonstratione agunt, Topica cedere debe-   consequi debeant, ex eo probatur, quoniam demonstratio est finisto præcedere gentem rationem differendi appellat, in duas partes dicites sedidu &am, unam inveniendi, alteram iudicandi: ioveniendi artem ordine naturæ priorem ida; exfen- dicit si hæc ita sunt, cum inveniendi ars in topicis libris tradatur, iudican tencia Ciceronis diueroin prioribus, ergo topica procedúr priora quæ enim priora sunt in sciunt qua ratione pars illa appelletur iudicativa, ideo hoci p sum nunc o qua ratione stendamus. Appellatur hæc pars inventiva eo quod locos, ut diximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars vero altera iudicatiua dicitur, altera inven quoniam docer, quo pa & t o probabilia illa. Locus sigitur, ut definit Alexander, est principium, & occasio epicherema- secundumA eo  tis, cum inprimo ea omnia tradiderit, quæ præcognoscenda erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit explicare locos sed hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla dixerimus, minandaante examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius explicatione libri, hoc ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis, par est, explicandum cum enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est autem in ixeípnucdiale & icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo lexandrum. do definivit locum, quod est principium quoddam, u elelementum, a quo principia, quæ circa unum quodque sunt, accipimus, ratione quidem circumscriptionis universalium definitum, ratione vero singularium indefinitum in hac definitione per illud, quæ sunt circa unum quod que principia, intelligere debemus, quæ de uno quoque problemate afferri possunt argumenta per illud autem rationem quidem circumscriptionis universalium definitum, rationeuero singularium indefinitum, intelligeredebemus, quod huius modi principium & elementum universale ipsum definit & determinat singularia autem indefinite comprehendit, neque enim de hoc, aut de illo singulari loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia singularia indefinite comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui contrario aliquod inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum contrarium inerit in hac propositione universale est determinatum, singularia vero indefinite comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que eorum, quæ subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit, ab eo loco accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si enim malum obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo loco & est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum albus color sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum proposito problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus, ergo album est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si enim tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura alia in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est locus, si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod minus videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est, universale quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim de hoc, aut illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum philosophi exponamus, videamus priuseiuspro } H   roncm. quando que ingrediuntur argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi tribuunt. Cicero autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime propositiones desumuntur cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini autem,unde sumuntur, longe pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos illos terminos collecta est, ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere, aliæ in roto, at que aliæ in aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur differentiæ, eo quod maxime proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus per differentias maximæ enim propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus, aliæ ex genere, &c & sicut maximæ illæ propositiones minorum propositionum copiam intra suum ambitum continent, ita termini ili, in quos maximæ illæ propositiones convenienti ratione re ducuntur, illas continere quodam modo videntur ideoq loci dicuntur ita igitur locum intelligit M. Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum Aristoteles priori modo locum intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc loco non indigna contemplatio quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius rem hanc tractaverit, an Aristoteles, qui universales, & maximas illas propositiones explicaverit; an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter missis eos tantum terminos, in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita investigari psse videtur siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione argumenta sibi consicere, cum ad argumenta conficienda necessariæs intpropositiones id eo oportet, ut exterminis illis propositiones inveniat, ex quibus argumenta construat sed hoc dificilli mum est, & multa indiget prudentia, & longa consideratione quis enim possetstatim inspecto termino propositionum, quæ probabiles sint & indubita txcopiam inuenire; atque ex hiseas, quæ propositæ quæstioni conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe consultius, & præstantiu segisse philosophum, qui has propolitiones nobis invenerit, & explicauerit; easq; secundum unum quodque quæstionis genus certo ordine ita digesserit, ut quam vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis pariant, sed maximam, accertamin una quaquere argumentorum copiam suppeditant neque tamen prætermit tit philosophus terminos, exquibus maximæ propositiones desumuntur: hoc enim facile ad modum est exeiusdi & iselicere sed noluit ipse terminorum ordinem sequi, quoniam ordo ille problematum ordine minterturbasset, qui longe præstantior est & ad usum accomodatior qai igitur terminorum do &rinam sequitur, primo propositiones ignorat; quarum præcipuus est usus in argumentis & fine quibus nullus est terminorum usus deinde nullum secundum quæstionum genera ordinem habet, quo sit, utinomni qux sionis genere per omnia loca temere vagaricoa & us sit atque ita patet lon dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota mende his omnibus possumus argumentari, ut si velimus probare diuitias non esse bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si sanitas, quæ magis videtur esse bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo neque divitiæ bonæ sunt si enim deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo forte, quod aliquibus sit causa mali, ex loco proposito ostensumerit divitias non esse bonas. probare uule NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod. Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico Boccadiferro. Keywords: luogo comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boccadiferro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Boccanegra – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Boccanegra is a good one; we often laugh at Aquinas because he is a saint – but we have to recall that Aquinas never knew it – for centuries after his death he ain’t one! Boccanegra prefers to call him ‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra is like me a systematic philosopher: dalla metafisica alla etica – is that possible? Yes, what is the ‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza, alla Locke! And co-experience in my conversational model!” --  Alberto Boccanegra   (n. Venezia),  filosofo.  Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio primogenito di Antonio e Ida Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale come sottotenente del Regio esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni successivi all'armistizio di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie naziste e si ricongiunse all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò servizio presso la Croce rossa.  Formazione Durante gli anni della leva trovò il tempo per dedicarsi allo studio dell'intero Organon di Aristotele. Ottenne il dottorato in filosofia presso l'Università Cattolica di Milano con una tesi dal titolo I primi principi in Duns Scoto. Presupposti e corollari. Nell'ateneo milanese, dove Boccanegra frequentava la cerchia dei neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo Bontadini, gli venne offerta la cattedra di filosofia teoretica che lui, tuttavia, rifiutò. In quegli anni scrisse e divulgò le sue idee alternative sulla rivista filosofica Vita e Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine Domenicano a San Domenico di Fiesole con il nome religioso di frà Alberto, che lo accompagnò di lì in poi anche in occasione della pubblicazione delle sue opere.  Entrò al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma per lo studio delle materie filosofiche e teologiche dove discusse la sua tesi dottorale in filosofia (De dynamismo entis) e ottenne il lettorato in teologia grazie al suo Fundamenta metaphisica, tractatus de Deo secundum S. Thomam. Ordinato sacerdote a San Marco di Firenze non abbandonò più il convento di San Domenico di Fiesole.  Attività filosofica, teologica e critica Boccanegra lasciò per sempre incompiuto il suo trattato dottorale in teologia, ma nel 1969 pubblicò comunque una esauriente sintesi del suo pensiero su vari numeri della rivista filosofica “Sapienza”. Fu per anni vice direttore della Commissione per la traduzione della Somma Teologica di Tommaso d'Aquino in Italiano presieduta da Tito Centi. Gli imponenti schemi riassuntivi sono consultabili nei 35 volumi editi dalle ESD di Bologna. Degne di nota furono le sue corpose introduzioni alla Summa di d'Aquino pubblicate in più edizioni.  Neotomista, è considerato da alcuni filosofo metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre altri lo ricordano tra i teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita tuttavia, fu l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè professore di filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso ci restano le dispense dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di vent'anni ha insegnato filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico Bolognese e nello Studio Teologico Fiorentino.  Migliaia di pagine manoscritte sono conservate dopo la sua morte nell'archivio conventuale di San Domenico di Fiesole. Fu autore di pubblicazioni ed articoli filosofici comparsi o recensiti su riviste italiane ed internazionali.  Fu confessore ricercato soprattutto dai giovani. Nonostante una malattia che lo ha accompagnato e provato per quasi tutta la vita costringendolo a cure costanti, riusciva quotidianamente a fare escursioni per diversi chilometri. Quando negli ultimi anni le sue forze non gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò alla preghiera costante, sia di giorno che di notte.  Saggi e pubblicazioni La beatitudine Gli atti umani, Edizioni Studio Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza di Dio e i suoi rapporti con l'antropologia, Osservazioni sul fondamento della moralità, Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, Circa la relazione di G. Bontadini, La persona umana centro della metafisica tomistica,  Nome di battesimo.  Angelo Belloni, Biografia di Alberto Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana di S. Caterina da Siena, luglio   Relatore Amato Masnovo.  Alberto Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su “Sapienza”,Boccanegra, “La Somma teologica”,  VIII, La Beatitudine; Gli Atti umani, Giuseppe Del Re, The cosmic dance: science discovers the mysterious harmony of the universe, Templeton, Barzaghi, Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3, Studio Domenicano, Giovanni Cavalcoli, Enrico Maria Radaelli, La questione dell'eresia in Rahner. Archiviato in., articolo uscito su «Divinitas», anno LI, n. 3, III quadrimestre 2008.  Alberto Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su "Sapienza", Boccanegra, Il rinnovamento metodologico nell'insegnamento della filosofia, "Revue internationale de philosophie", Edizioni L'homme et la moraleOrigine et sources de la morale thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de saint Thomas, "Revue thomiste", recensione, Saint-Maximin (France), École de théologie pour les missions"Revista nacional de cultura", recensione, Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto Nacional de Cultura y Bellas Artes, Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Filosofo del XX secoloTeologi italiani Venezia FiesoleDomenicani italiani. Alberto Boccanegra. Boccanegra. Keywords: esperienza. The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bocchi – solidarii – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Bocchi is a good one; and Bocchi is a good one – Gianluca Bocchi is a curator who lives in a Roman palazzo and whose expertise is ‘natura morta.’ Gianluca Bocchi is also a philosopher of science – as he calls it – My favourite piece by Bocchi is about collective thinking, -- solidarieta – Surely when I wrote ‘In defense of a dogma’ with my tutee we were being solidary with each other, and we own each sentence – collective thinking --.” Grice: “I could have called my desideratum the principle of conversational solidarity – I am thinking of course Butler in mind, and the whole bit is to see why (if at all – cf. Stalnaker) an utilitarian justification is insufficient, and we need recourse to Kant!” -- Gianluca Bocchi  «La nostra età non ha soltanto vissuto l'esperienza della relatività da ogni punto di vista. Ha fatto soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di ogni punto di vista. La contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni punto di vista sono condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per dialogare con gli altri punti di vista, per creare nuovi mondi»  «Per noi, raccogliere la sfida della complessità significa considerare la scienza una via importante per riannodare i legami con le altre tradizioni, per riscoprire con interesse i loro significati profondi, per esplorare la varietà delle esperienze cognitive, emotive, estetiche, spirituali della specie umana»  «Il nostro continente è sempre stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra popoli e stirpi differenti, e questa diversità di radici è un elemento integrante dei suoi sviluppi passati e presenti.»  Niente fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n. Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un filosofo della scienza e della storia, esperto di scienze biologiche ed evolutive, di storia globale, di storia urbana, di geopolitica, di storia delle idee, delle culture, delle lingue. Ha fra l'altro introdotto in Italia, con Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le scienze dei sistemi complessi e la connessa epistemologia della complessità, contribuendo altresì alla loro diffusione a livello internazionale.  Pubblicazioni Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo (con Mauro Ceruti), Bari, Dedalo, La sfida della complessità (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con nuova introduzione, Milano, Bruno Mondadori, 2007). Un nouveau commencement (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Seuil, Paris, L'Europa nell'era planetaria (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991. Origini di storie (con Ceruti), Milano, Feltrinelli, The Narrative Universe, NJ, Hampton Press; tr. spagnola El sentido de la historia, Editorial Débate, Madrid; tr. portoghese Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona). La formazione come costruzione di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, Le radici prime dell'Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, Origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, Educazione e globalizzazione (con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, Una e molteplice. Ripensare l'Europa (con Mauro Ceruti), Milano, Tropea, Le città di Berlino (con Laura Peters), Bologna, Bononia University Press,  Le vie della formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco Varanini), Milano, Guerini,. L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Roma, Studium,,  Borderscaping: Imaginations and Practices of Border Making (a cura di, con Chiara Brambilla, Jussi Laine, James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate,. Note  Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Origini di storie, Prefazione, Milano, Feltrinelli, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La sfida della complessità, Introduzione alla nuova edizione, Milano, Bruno Mondadori, Gianluca Bocchi, L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma, Studium, gianlucabocchi. 10 aprile  (archiviato dall'url originale). CE.R.CO, su cercounibg. Filosofia Filosofo Professore Milano. Oddly, my favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi! Keywords: solidarii, Francesco Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bodei – geometria delle passioni – filosofia sarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cagliari). Filosofo Italiano. Grice: “Bodei is a good one; of course he is sardo -- my favourite of his tracts is one on ‘condivisione’ and ‘beni communi’ – which is what my conversational pragmatics is all about --; he has also philosophised on the tricky Grecian concept of ‘harmony’, and the very charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and he has explored the diagogic form of philosophy in his historical analysis of ‘la dialettica,’ – he has explored ‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the ‘geometria delle passioni,’ and he has also shed light on the univocity or lack thereof of ‘virtu cardinali” – virtue is unitary, but some virtues are more unitary than others!” Grice: “Bodei has explored ‘coraggio,’ and other virtues.” – “In his geometry of passions, he sheds light on Plato’s convoluted idea that in my head I have the reason of a man; in my heart I have the will of a lion-like warrior, and in my gut I have the love of a multi-headed monster!” --  Essential Italian philosopher. Remo Bodei (n. Cagliari) filosofo e accademico italiano. Laureato all'Pisa, perfezionò la sua preparazione teoretica e storico-filosofica a Tubinga e Friburgo, frequentando le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg, con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma di licenza e il diploma di perfezionamento della Scuola Normale Superiore.  Fu visiting professor presso le Cambridge, Ottawa, New York, Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA (Los Angeles) e tenne conferenze in molte università europee, americane e australiane.  Comitato redazionale della rivista Laboratorio politico.  Dal 1995 collaborava con Massimo Cacciari, Massimo Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni nell’iniziativa La filosofia nei luoghi del silenzio, un tentativo di coniugare filosofia e contemplazione nella forma del ritiro comunitario.  Docente di ruolo in Filosofia alla UCLA di Los Angeles, dopo aver a lungo insegnato Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore e all'Pisa, dove continuò a tenere, sia pur saltuariamente, qualche corso.  Era anche membro dell'Advisory Board internazionale dello IEDIstituto Europeo di Design.  Dal 13 novembre  Remo Bodei fu socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Era marito della storica Gabriella Giglioni.  I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue.  Pensiero Si interessò a fondo della filosofia classica tedesca e dell'Idealismo, esordendo con la fondamentale monografia Sistema ed epoca in Hegel, dopo aver già tradotto in italiano l'importante Hegels Leben (Vita di Hegel) di Johann Karl Friedrich Rosenkranz. Appassionato cultore della poesia hölderliniana, all'autore dell'Hyperion dedicò saggi di notevole interesse. Con il volume Geometria delle passioni estese la sua meditazione anche a protagonisti della filosofia moderna come Cartesio, Hobbes e soprattutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del Novecento, in particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori 'francofortesi' come Theodor Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella discussione sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola Badaloni. Nei suoi studi sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto di Johann Karl Friedrich Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali come le categorie del bello e del tragico. Costante la sua attenzione per Sigmund Freud e gli sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e per fenomeni in apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà vu. Filosofo di una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo nel cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare, Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di assicurarci quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo noi stessi pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno saremo noi stessi").  Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione Saggistica.  Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione italiana di testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch, Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Michel Foucault.  Molti suoi lavori hanno per oggetto lo spessore e la storia delle domande che riguardano la ricerca della felicità da parte del singolo, le indeterminate attese collettive di una vita migliore, i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro vincoli politici, domestici e ideali. Già in Scomposizioni, affrontò alcuni temi della genealogia dell'uomo contemporaneo e propose la metafora della geometria variabile per indagare le strutture concettuali ed espositive che, contraendosi o espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la formulazione di problemi. La sua analisi dell'interazione di queste configurazioni mobili proseguì in Geometria delle passioni (1e in Destini personali che hanno avuto rilevante successo di pubblico.  Alla divulgazione dell'amore per la filosofia dedicò alcune conferenze e un libro (Una scintilla di fuoco).  Negli ultimi tempi stava lavorando sulla storia e sulle teorie della memoria.  Citazioni «Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza. (citato in Corriere della sera, )»  «Malgrado i ripetuti annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'. Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamentee spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e sentire»  (Remo Bodei, La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, Nel passato il progresso delle civiltà umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita»  (Remo Bodei, Limite, Il Mulino) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino,. Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, (con Franco Cassano), Bari, De Donato, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, Riedizione ampliata, Bologna, Il Mulino,. Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Madrid, Visor, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, Geometria delle passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, Le prix de la liberté, Paris, Éditions du Cerf, Le forme del bello, Bologna, Mulino,. La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, La politica e la felicità (con Luigi Franco Pizzolato), Roma, Edizioni Lavoro, Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari, Laterza, I senza Dio. Figure e momenti dell'ateismo, Brescia, Morcelliana, Il dottor Freud e i nervi dell'anima. Filosofia e società a un secolo dalla nascita della psicoanalisi, Roma, Donzelli, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, Delirio e conoscenza, Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane, Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Bologna, Zanichelli, Piramidi di tempo. Storie e teoria del déjà vu, Bologna, Il Mulino, 2006. Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani, Il sapere della follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo per FestivalFilosofia, 2008. Il dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale in A.A. V.V., Foucault oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, Ira. La passione furente, Bologna, Il Mulino,. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (con Sergio Givone), Torino, Lindau,. Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano, Feltrinelli,. Limite, Bologna, Il Mulino,. Le virtù Cardinali (con Giulio Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca), Roma-Bari, Laterza,. Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Bologna, Il Mulino,. Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.nastrino per uniforme ordinaria Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana. Di iniziativa del Presidente della Repubblica. Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademichenastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademiche immagine del nastrino non ancora presente Cittadino onorario di Siracusa, Modena, Carrara e Roccella Jonica. Note  È morto il filosofo Remo Bodei, su fanpage, 7 novembre.  Repubblica 18/08/  Albo d'oro, su premionazionaleletterariopisa. onweb. 7 novembre.  «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Remo Bodei,.   Pubblicazioni di Remo Bodei, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.  Registrazioni di Remo Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Scheda del professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su fls.unipi. V D M Vincitori del Premio Dessì  Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1938  3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici dei LinceiAccademici italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della Scuola Normale SuperioreProfessori dell'Università della California, Los AngelesProfessori dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: geometria delle passioni, filosofia sarda, I concordati, Concordia, armonia, condivisio. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bodei," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Boezio: -- classico -- Grice: “Boezio is possibly my favourite Italian philosopher, only that he wasn’t really Italian – he found Vittorino’s Latin translation from the Grecian urn of Aristotle ‘rough,’ and provided a ‘newish’ one – but actually Vittorino had better intuitions about the lingo than Boezio did – and that is why Strawson preferred to tutor with the Vittorino translation – we covered all that Boezio wrote – and we never used the Patrologia edition, since we are protestant!” -- Possibly the most important Italian philosopher of all time. Grice loved Boethius“He made Aristotle intelligible at Clifton!” -- Anicius Manlius Severinus, Roman philosopher and Aristotelian translator and commentator. He was born into a wealthy patrician family in Rome and had a distinguished political career under the Ostrogothic king Theodoric before being arrested and executed on charges of treason. His logic and philosophical theology contain important contributions to the philosophy of the late classical and early medieval periods, and his translations of and commentaries on Aristotle profoundly influenced the history of philosophy, particularly in the medieval Latin West. His most famous work, The Consolation of Philosophy, composed during his imprisonment, is a moving reflection on the nature of human happiness and the problem of evil and contains classic discussions of providence, fate, chance, and the apparent incompatibility of divine foreknowledge and human free choice. He was known during his own lifetime, however, as a brilliant scholar whose knowledge of the Grecian language and ancient Grecian philosophy set him apart from his Latin contemporaries. He conceived his scholarly career as devoted to preserving and making accessible to the Latin West the great philosophical achievement of ancient Greece. To this end he announced an ambitious plan to translate into Latin and write commenbodily continuity Boethius, Anicius Manlius Severinus taries on all of Plato and Aristotle, but it seems that he achieved this goal only for Aristotle’s Organon. His extant translations include Porphyry’s Isagoge an introduction to Aristotle’s Categories and Aristotle’s Categories, On Interpretation, Prior Analytics, Topics, and Sophistical Refutations. He wrote two commentaries on the Isagoge and On Interpretation and one on the Categories, and we have what appear to be his notes for a commentary on the Prior Analytics. His translation of the Posterior Analytics and his commentary on the Topics are lost. He also commented on Cicero’s Topica and wrote his own treatises on logic, including De syllogismis hypotheticis, De syllogismis categoricis, Introductio in categoricos syllogismos, De divisione, and De topicis differentiis, in which he elaborates and supplements Aristotelian logic. Boethius shared the common Neoplatonist view that the Platonist and Aristotelian systems could be harmonized by following Aristotle in logic and natural philosophy and Plato in metaphysics and theology. This plan for harmonization rests on a distinction between two kinds of forms: 1 forms that are conjoined with matter to constitute bodies  these, which he calls “images” imagines, correspond to the forms in Aristotle’s hylomorphic account of corporeal substances; and 2 forms that are pure and entirely separate from matter, corresponding to Plato’s ontologically separate Forms. He calls these “true forms” and “the forms themselves.” He holds that the former, “enmattered” forms depend for their being on the latter, pure forms. Boethius takes these three sorts of entities  bodies, enmattered forms, and separate forms  to be the respective objects of three different cognitive activities, which constitute the three branches of speculative philosophy. Natural philosophy is concerned with enmattered forms as enmattered, mathematics with enmattered forms considered apart from their matter though they cannot be separated from matter in actuality, and theology with the pure and separate forms. He thinks that the mental abstraction characteristic of mathematics is important for understanding the Peripatetic account of universals: the enmattered, particular forms found in sensible things can be considered as universal when they are considered apart from the matter in which they inhere though they cannot actually exist apart from matter. But he stops short of endorsing this moderately realist Aristotelian account of universals. His commitment to an ontology that includes not just Aristotelian natural forms but also Platonist Forms existing apart from matter implies a strong realist view of universals. With the exception of De fide catholica, which is a straightforward credal statement, Boethius’s theological treatises De Trinitate, Utrum Pater et Filius, Quomodo substantiae, and Contra Euthychen et Nestorium show his commitment to using logic and metaphysics, particularly the Aristotelian doctrines of the categories and predicables, to clarify and resolve issues in Christian theology. De Trinitate, e.g., includes a historically influential discussion of the Aristotelian categories and the applicability of various kinds of predicates to God. Running through these treatises is his view that predicates in the category of relation are unique by virtue of not always requiring for their applicability an ontological ground in the subjects to which they apply, a doctrine that gave rise to the common medieval distinction between so-called real and non-real relations. Regardless of the intrinsic significance of Boethius’s philosophical ideas, he stands as a monumental figure in the history of medieval philosophy rivaled in importance only by Aristotle and Augustine. Until the recovery of the works of Aristotle in the mid-twelfth century, medieval philosophers depended almost entirely on Boethius’s translations and commentaries for their knowledge of pagan ancient philosophy, and his treatises on logic continued to be influential throughout the Middle Ages. The preoccupation of early medieval philosophers with logic and with the problem of universals in particular is due largely to their having been tutored by Boethius and Boethius’s Aristotle. The theological treatises also received wide attention in the Middle Ages, giving rise to a commentary tradition extending from the ninth century through the Renaissance and shaping discussion of central theological doctrines such as the Trinity and Incarnation.  «Nulla è più fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo all'apparire dell'autunno.»  (Boezio, citato da Umberto Eco ne Il nome della rosa) Severino Boezio Boetius.png Magister officiorum del Regno Ostrogoto Durata mandatosettembre 522 – agosto MonarcaTeodorico il Grande Console del Regno Ostrogoto Durata mandato510 Monarca Teodorico il Grande PredecessoreFlavio Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore romano Durata mandato510 – settembre 524 Dati generali Professionefilosofo San Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da Montefeltro   Padre della Chiesa Martire    NascitaRoma, MortePavia, Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Ricorrenza23 ottobre Attributipalma Manuale Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (in latino: Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius; Roma, – Pavia, è stato un filosofo e senatore romano.   Inter latinos aristotelis interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC, biblioteca digitale Noto come Severino Boezio, o anche solo come Boezio, con le sue opere ha avuto una profonda influenza sulla filosofia cristiana del Medioevo, tanto che alcuni lo collocarono tra i fondatori della Scolastica[1]. Fu principale collaboratore del re Teodorico, ricoprendo la carica di magister officiorum. Boezio, nel clima di rilancio della cultura che la pace rese possibile durante il regno del re goto, concepì l'ambizioso progetto di tradurre in latino le opere di Platone e di Aristotele. Teodorico, nei suoi ultimi anni, divenne sospettoso di tradimenti e congiure, e Severino venne imprigionato a Pavia e giustiziato.  Papa Leone XIII ne approvò il culto per la Chiesa in Pavia, che ne custodisce i resti nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro e lo festeggia il 23 ottobre[2].Discendeva da una nobile famiglia, i cui membri avevano avuto carriere prestigiose. Suo padre fu probabilmente Manlio Boezio, prefetto del pretorio d'Italia, due volte prefetto di Roma e console nel 487; probabilmente suo nonno fu il Boezio prefetto del pretorio sotto Valentiniano III, ed è verosimile che fosse imparentato col Severino console nel 461 e col Severino Iunior console nel Boezio era anche imparentato con la nobile e antica gens Anicia (gens a cui apparteneva san Gregorio Magno e san Benedetto da Norcia), oltre che con lo scrittore Magno Felice Ennodio.Alla morte del padre fu affidato ad una nobile famiglia romana, probabilmente quella di Quinto Aurelio Memmio Simmaco, la cui figlia Rusticiana Boezio sposerà intorno al 495; la coppia ebbe due figli, Boezio e Simmaco, che proseguirono la tradizione di famiglia di ricoprire ruoli prestigiosi diventando entrambi consoli nel 522.  L'evento fondante della vita politica di Boezio fu la vittoria (493) del re degli Ostrogoti Teodorico il Grande su Odoacre, re degli Eruli e sovrano d'Italia; fu l'inizio del regno degli Ostrogoti sull'Italia (con Ravenna come capitale e Pavia e Verona come sedi reali) e della difficile convivenza tra questi e la popolazione romana.  Boezio studiò alla scuola di Atene, retta dallo scolarca Isidoro di Alessandria, dove si insegnavano soprattutto Aristotele e Platone insieme con le quattro scienze fondamentali per la comprensione della filosofia platonica, l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica; qui conobbe forse il giovane e futuro grande commentatore di Aristotele, Simplicio. S'iniziava con lo studio della logica aristotelica, preceduta dall'introduzione, l'Isagoge, di Porfirio; è il piano che Boezio seguirà nel compito che un giorno vorrà assumersi di tradurre in latino, commentare e accordare i due pensatori greci.  Al periodo intorno al 502 si fa risalire l'inizio della sua attività letteraria e filosofica: scrisse i trattati del quadrivio, le quattro scienze fondamentali del tempo, il De institutione arithmetica, il De institutione musica e i perduti De institutione geometrica e De institutione astronomica. Qualche anno dopo tradusse dal greco in latino e commentò l'Isagoge di Porfirio, un'introduzione alle Categorie di Aristotele, che avrà un'enorme diffusione nei secoli a venire.  La sua erudizione era ben nota e apprezzata: nel 507 Teodorico lo interpellò riguardo alla richiesta ricevuta dal re burgundo Gundobado per un orologio ad acqua, e menzionò la sua conoscenza del greco e la sua opera di traduzione dal greco al latino;[4] quello stesso anno Teodorico consultò Boezio riguardo a un suonatore di lira, richiestogli dal sovrano franco Clodoveo I, in quanto era al corrente della conoscenza della teoria musicale da parte dell'erudito romano. La fama così ottenuta gli procurò il rango di patricius  e la nomina al consolato sine collega da parte della corte imperiale di Costantinopoli, carica biennale che gli dà diritto a un seggio permanente nel Senato romano.  Da questi anni fino al 520 tradusse e commentò le Categorie e il De interpretatione di Aristotele, scrisse il trattato teologico Contra Eutychen et Nestorium, il perduto commento ai Primi Analitici di Aristotele, un De syllogismis categoricis, un De divisione, gli Analytica posteriora, un De hypotheticis syllogismis, la traduzione, perduta, dei Topica di Aristotele e un commento ai Topica di Cicerone. Partecipò ai dibattiti teologici del tempo: compose il De Trinitate, dedicato al nonno Simmaco, l'Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur, il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint substantialia sint. L'interesse di Boezio e di molta parte del patriziato romano per i problemi teologici che avevano il loro centro soprattutto in Oriente, con i dibattiti sull'arianesimo, misero in allarme Teodorico, che sospettava un'intelligenza politica della classe senatoria romana con l'Impero, la cui ostilità verso i Goti ariani era sempre stata appena malcelata.  Appena terminati i De sophisticis elenchis, perduti, e i De differentiis topicis, Boezio fu chiamato alla corte di Teodorico, per discutere della non facile convivenza fra gli elementi gotici e italici della popolazione. Nel 522 i suoi due figli ebbero l'onore del consolato; in tale occasione Boezio pronunciò un panegirico in onore di Teodorico di fronte al Senato romano.[6] Nel settembre di quello stesso anno fu nominato magister officiorum, carica che tenne fino all'agosto successivo, e Boezio stesso elenca tra gli atti che compì in tale carica, come l'aver impedito ad alcuni militari ostrogoti di vessare i deboli, l'aver osteggiato la pesante tassazione che gravava sulla Campania in periodo di carestia, l'aver salvato le proprietà di Paolino, l'aver difeso da un processo ingiusto l'ex-console Albino;[7] proprio quest'ultima azione causò la caduta in disgrazia di Boezio, e la composizione della sua opera più famosa.  Era infatti accaduto che a Pavia il referendarius Cipriano aveva sequestrato alcune lettere dirette alla corte di Bisanzio, in base alle quali Cipriano accusò il nobile romano Albino di complottare ai danni di Teodorico. Boezio difese Albino, affermando che le accuse di Cipriano erano false, e che se Albino era colpevole, allora lo erano anche Boezio stesso e tutto il Senato.[8] Gli furono avanzate delle nuove accuse fondate su sue lettere, forse falsificate, nelle quali Boezio avrebbe sostenuto la necessità di «restaurare la libertà di Roma»; fu allora sostituito nella sua carica da Cassiodoro e, nel settembre 524, incarcerato a Pavia con l'accusa di praticare arti magiche; qui ebbe inizio la composizione della sua opera più nota, il De consolatione philosophiae.   La tomba di Severino Boezio nella Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. Boezio fu giudicato a Roma da un collegio di cinque senatori, estratti a sorte, presieduto dal praefectus urbi Eusebio. Questi, nell'estate del 525, notificò la sentenza di condanna a morte di Boezio, che fu ratificata da Teodorico ed eseguita presso Pavia, nell'Ager Calventianus, una località che non si è potuta identificare con certezza. Secondo alcuni studiosi, l'Ager Calventianus sarebbe da identificare con la scomparsa località di Calvenza, presso Villaregio dove, nel XIX secolo, venne scoperta una grande epigrafe del VI secolo, ora conservata nei Musei Civici di Pavia, che fu forse la lastra tombale di Boezio[9]. Lo storico bizantino Procopio racconta che, poco dopo l'esecuzione di Boezio e Simmaco, a Teodorico fu servito un pesce di sproporzionate dimensioni nella cui testa gli parve di vedere il teschio del secondo che lo fissava minaccioso. Sconvolto da ciò, Teodorico si ammalò e morì poco dopo in preda ad allucinazioni e rimorsi. Un'altra leggenda post mortem di Boezio narra che un cavallo nero si presentò da Teodorico, che volle a forza montarlo. Il cavallo, insensibile alle redini, iniziò a correre con il cavaliere incollato alla sella, finché arrivò al Vesuvio, nel cratere del quale rovesciò Teodorico.  Severino Boezio ebbe due mogli. La prima fu la poetessa siciliana Elpide, morta nel 504. La seconda fu Rusticiana.[10]  Il pensiero di Boezio Le discipline filosofiche  Boezio e l'Aritmetica in un manoscritto tedesco del XV secolo  Boezio insegna agli studenti, miniatura, 1385 Consapevole della crisi della cultura latina del suo tempo, Boezio avvertì la necessità di tramandare e conservare le conoscenze elaborate nel mondo greco. Data alla filosofia la definizione di amore della sapienza, da lui intesa come causa della realtà e perciò sufficiente a sé stessa, la filosofia, come amore di quella, è anche amore e ricerca di Dio, che è la sapienza assoluta. La filosofia è conoscenza di tre tipi di esseri. Gli intellettibili - termine tratto da Mario Vittorino - sono gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si occupa è propriamente la teologia.  Gli intelligibili sono invece gli esseri presenti nelle realtà materiali, le quali sono percepite dai sensi ma quelli sono concepibili dall'intelletto: gli intelligibili sono dunque gli intellettibili in forma materiale. La natura è infine oggetto della fisica, suddivisa in sette discipline: quelle del quadrivium - aritmetica, geometria, musica e astronomia - e del trivium - grammatica, logica e retorica. Le scienze del quadrivio sono per Boezio i quattro gradi che portano alla sapienza: il quadrivio «deve essere percorso da coloro la cui mente superiore può essere sollevata dalla sensazione naturale agli oggetti più sicuri dell'intelligenza». La prima delle discipline del quadrivio, «il principio e la madre» delle altre è, per Boezio, l'aritmetica; il De institutione arithmetica, scritta intorno al 505 e dedicata al suocero Simmaco, è ripresa dall'Introduzione all'Aritmetica di Nicomaco di Gerasa.  Nel suo De institutione musica, la cui fonte sono gli Elementi armonici di Tolomeo e un'opera perduta di Nicomaco, distingue tre generi di musica: una musica cosmica, mundana, che non è percepibile dall'uomo ma deve derivare dal movimento degli astri, dal momento che l'universo, secondo Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali, la cui armonia è fondata sull'equilibrio dei quattro elementi presenti in natura - acqua, aria, terra e fuoco; una musica humana, espressione della mescolanza, nell'uomo, dell'anima e del corpo e derivante dal rapporto fra l'elemento fisico e l'elemento intellettuale e pertanto percepibile con un'attività di introspezione in noi stessi; la musica ha una profonda influenza sulla vita umana: è l'armonia dell'uomo con sé stesso e di sé con il mondo. Infine, esiste naturalmente la musica pratica, strumentale, musica instrumentis constituta, ottenuta dalle vibrazioni degli strumenti e dalla voce. Le altre due opere di geometria e di astronomia, tratte dagli Elementi di Euclide e dall'Almagesto di Tolomeo, sono andate perdute.  La logica L'acquisizione delle discipline del trivium - grammatica, retorica e logica - è utile per esprimere al meglio la conoscenza che già si possiede. La logica di Boezio è in sostanza un commento della logica di Aristotele, dal momento che egli segue l'Isagoge, il commento alla logica aristotelica del neoplatonico Porfirio, che Boezio conobbe dapprima nella traduzione latina di Vittorino e poi direttamente dal testo greco di Porfirio, oltre a tradurre le Categorie e il De interpretatione di Aristotele. Le categorie, secondo Aristotele, sono i diversi significati che i termini (όροι) usati in una discussione possono assumere; un medesimo vocabolo - per esempio uomo - può significare un uomo reale, l'uomo in generale, un uomo rappresentato in una scultura; per evitare confusioni, al termine "uomo", che è una categoria sostanza, aggiungendo altre nove categorie, ossia colore, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, stato, azione e passione, un discorso, che ha per soggetto la sostanza "uomo", sarà chiaramente individuato.  Al soggetto sostanza si possono unire dei predicati, distinti da Aristotele in cinque modi diversi: il genere, la specie, la differenza, la proprietà e l'accidente. Il genere è il predicato più generale di un soggetto: al soggetto "Socrate" appartiene allora il genere "animale" e, caratterizzando più in particolare con l'indicare la specie come sottoclasse del genere, si potrà dire che Socrate è un animale di specie "uomo". Le sostanze "prime", quelle che indicano le cose, gli oggetti sensibili, esistono di per sé, secondo Aristotele, mentre il genere e la specie sono indicate da Aristotele come sostanze "seconde", e non è chiaro se esse esistano di per sé. A questo proposito «non dirò», scrive Porfirio, «riguardo ai generi e alle specie, se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici pensieri; se siano realtà corporee o incorporee; se siano separate dai sensibili ovvero poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di più vaste indagini».   Boezio in un manoscritto medievale. Allo stesso modo Boezio si pone il problema se i generi e le specie siano realtà esistenti di per sé, come esistono realmente i singoli individui, e se, in questo caso, siano realtà spirituali o materiali e, se materiali, esistano in unione con le realtà sensibili o se siano separate; oppure, non esistendo di per sé, se siano semplici categorie dello spirito umano che le abbia concepite per necessità di linguaggio.  La risposta di Boezio è che «Platone ritiene che i generi, le specie e gli altri universali non siano soltanto conosciuti separatamente dai corpi, ma che esistano e sussistano indipendentemente da quelli; invece Aristotele pensa che gli incorporei e gli universali sono sì oggetto di conoscenza, ma che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di queste opinioni sia la vera, io non ho avuto l'intenzione di decidere, perché è compito di più alta filosofia. Noi abbiamo deciso di seguire l'opinione di Aristotele, non perché l'approviamo totalmente ma perché questo libro l'Isagoge di Porfirio è scritto seguendo le Categorie di Aristotele».  Tuttavia Boezio dà una risposta al problema degli universali, prendendola da Alessandro d'Afrodisia: il pensiero umano è in grado di separare dagli oggetti sensibili nozioni astratte, come quelle di "animale" e di "uomo"; anche se il genere e la specie non potessero esistere separati dal corpo, non per questo ci è impedito di pensarli separatamente da esso. I cinque predicabili o universali, se non sono delle sostanze, come vuole Aristotele, sono allora dei concetti (intellectus): «uno stesso soggetto è universale quando lo si pensa ed è singolare quando lo si coglie con i sensi nelle cose»; platonicamente, egli riafferma così l'esistenza di oggetti propri della mente che non possono essere conosciuti sensibilmente. Boezio non riprende la teoria aristotelica dell'intelletto agente, che spiegherebbe come sia possibile al pensiero separare ciò che è unito: nel suo commento all'Isagoge questa operazione di astrazione resta inspiegata ma verrà ripresa, in diversa forma, nel De consolatione philosophiae. Sono quattro gli scritti boeziani che trattano di questioni teologiche: il Contra Eutychen et Nestorium, o De persona et duabus naturis in Christo, dedicato a un diacono Giovanni, che potrebbe essere il futuro papa Giovanni I, fu composto nel 512 come contributo al controverso dibattito sulla persona e sulla natura, umana e divina, di Cristo. Eutiche sosteneva l'esistenza in Cristo di una natura divina in una persona divina, mentre Nestorio, sostenendo l'identità di persona e natura, sosteneva che Cristo avesse avuto due nature, una divina e una umana e perciò anche due persone, una divina e una umana. Boezio si preoccupa innanzi tutto di chiarire i significati delle parole, affinché non si creino contrasti dovuti a semplici fraintendimenti.  Distingue tre diversi significati del termine «natura», natura come «predicato di tutte le cose esistenti», natura come «predicato di tutte le sostanze corporee e incorporee» e natura come «differenza specifica che dà forma a qualsiasi realtà»; definisce poi con "persona" una «sostanza individua di natura razionale» riferibile agli uomini, agli angeli e a Dio. Scrive infatti (Contra Eutychen, 2, 3): «la persona non si può mai applicare agli universali, ma soltanto ai particolari e agli individui: non esiste infatti la persona dell'uomo in genere o dell'uomo in quanto animale. Pertanto se la persona appartiene soltanto alle sostanze e soltanto a quelle razionali, se ogni natura è una sostanza, e se la persona sussiste non negli universali ma soltanto negli individui, essa si può così definire: "la sostanza individua di natura razionale"».  Ma Boezio non pretende di aver dato una parola definitiva sulla controversia: occorre che sia «il linguaggio ecclesiastico a scegliere il nome più adatto»; per quello che lo riguarda, egli dichiara di non essere «tanto vanitoso da anteporre la mia opinione a un giudizio più sicuro. Non è in noi la sorgente del bene e nelle nostre opinioni non vi è nulla che dobbiamo preferire a ogni costo; da Colui che solo è buono derivano tutte le cose veramente buone». Intorno al 518 fu composto il De hebdomadibus, o Ad eundem quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint, cum non sint substantialia sint, ossia In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali, ove Boezio distingue, nell'ente, l'essere e il «ciò che è» l'id quod est, ciòe il soggetto individuale che possiede l'essere: per Boezio «l'essere non è ancora, ma ciò che ha ricevuto la forma dell'essere, quello è e sussiste».  Stabilito che «tutto ciò che è tende al bene», si pone il problema se possano definirsi buoni gli enti finiti, la cui essenza non è la bontà; distingue allora i beni che sono tali in sé dai «beni secondi», ossia quelli che lo sono in quanto partecipano della bontà, per giungere alla conclusione che anche il «bene secondo» è buono, essendo «scaturito da quello il cui essere stesso è buono», ossia dal primo Essere che è anche e necessariamente il primo Bene. Nel De sancta Trinitate o Quomodo trinitas unus Deus, uno scritto successivo al 520, si pone il problema se a Dio, come a tutte le persone della Trinità, si applichino le categorie della logica, e se dunque siano una sostanza e se sia possibile che abbiano degli attributi; lo stesso tema, in forma sintetica, è espresso nell'Ad Johannem diaconum utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur.  Il De consolatione philosophiae  La consolazione della filosofia, miniatura del 1485.  Boezio in prigione, miniatura, 1385. Scritta durante la carcerazione, i cinque libri del De consolatione si presentano come un dialogo nel quale la Filosofia, personificata da «una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e d'inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni da non credere che potesse appartenere alla nostra epoca», dimostra che l'afflizione patita da Boezio per la sventura che lo ha colpito non ha in realtà bisogno di alcuna consolazione, rientrando nell'ordine naturale delle cose, governate dalla Provvidenza divina.  Si può dividere l'opera in due parti, una costituita dai primi due libri e l'altra dagli ultimi tre. È una distinzione che corrisponde a quanto raccomandato dallo stoico Crisippo nella cura delle afflizioni: quando l'intensità della passione è al culmine, prima di ricorrere ai rimedi più efficaci, occorre attendere che essa si attenui. Così infatti si esprime la Filosofia (I, VI, 21): «siccome non è ancora il momento per rimedi più energici, e la natura della mente è tale che, respingendo le vere opinioni, subito si riempie di errori, dai quali nasce la caligine delle perturbazioni che confonde l'intelletto, io cercherò di attenuare a poco a poco questa oscurità in modo che, rimosse le tenebre delle passioni ingannevoli, tu possa conoscere lo splendore della luce vera».  Una medicina leggera, «qualcosa di dolce e di piacevole che, penetrato al tuo interno, apra la strada a rimedi più efficaci», è la comprensione della natura della fortuna, esposta nel II libro utilizzando temi della filosofia stoica ed epicurea. La fortuna (II, I, 10 e segg.) «era sempre la stessa, quando ti lusingava e t'illudeva con le attrattive di una felicità menzognera se l'apprezzi, adeguati ai suoi comportamenti, senza lamentarti. Se aborrisci la sua perfidia, disprezzala [...] ti ha lasciato colei dalla quale nessuno può essere sicuro di non essere abbandonato ti sforzi di trattenere la ruota della fortuna, che gira vorticosamente? Ma, stoltissimo fra tutti i mortali, se si fermasse, non sarebbe più lei». Del resto, quello che la fortuna ci dà, saremo noi stessi a doverlo abbandonare in quell'ultimo giorno della nostra vita che (II, III, 12) «è pur sempre la morte della fortuna, anche della fortuna che dura. Che importanza credi allora che abbia, se sia tu a lasciarla morendo, o se sia lei a lasciarti, fuggendo?».  Se dunque ci rende infelice tanto il suo abbandono durante la nostra vita, quanto il fatto che, morendo, dobbiamo abbandonare i doni che quella ci ha elargito in vita, allora la nostra felicità non può consistere in quei doni effimeri, in cose mortali, e neppure nella gloria, nel potere e nella fama, ma deve essere dentro noi stessi. Si tratta allora di conoscere «l'aspetto della felicità vera», dal momento che ciascuno (III, II, 1) «per vie diverse, cerca pur sempre di giungere a un unico fine, che è quello della felicità. Tale fine consiste nel bene: ognuno, una volta che l'abbia ottenuto, non può più desiderare altro». Dimostrato che (III, IX, 2) «con le ricchezze non si ottiene l'autosufficienza, non la potenza con i regni, non con le cariche il rispetto, non con la gloria la fama, né la gioia con i piaceri», tutti beni imperfetti, occorre determinare la forma del bene perfetto, «questa perfezione della felicità».  Ora, il bene perfetto, il «Sommo Bene», è Dio, dal momento che, secondo Boezio, sviluppando una concezione neoplatonica (III, X, 8) «la ragione dimostra che Dio è buono in modo da poterci convincere che in lui vi è anche il bene perfetto. Se infatti non fosse tale, non potrebbe essere l'origine di ogni cosa; vi sarebbe altro, migliore di lui, in possesso del bene perfetto, a lui precedente e più prezioso; è chiaro che le cose perfette precedono quelle imperfette. Pertanto, per non procedere all'infinito col ragionamento, dobbiamo ammettere che il sommo Dio sia del tutto pieno del bene sommo e perfetto; ma s'era stabilito che il bene perfetto sia la vera felicità: dunque la vera felicità è posta nel sommo Dio».  Nel IV libro (I, 3) Boezio pone il problema di come «pur esistendo il buon reggitore delle cose, i mali esistano comunque ed siano impuniti e non solo la virtù non venga premiata ma sia persino calpestata dai malvagi e punita al posto degli scellerati». La risposta, secondo lo schema platonico, della Filosofia, è che tutti, buoni e malvagi, tendono al bene; i buoni lo raggiungono, i malvagi non riescono a raggiungerlo per loro propria incapacità, mancanza di volonta, debolezza. Perché infatti i malvagi (IV, II, 31 - 32) «abbandonata la virtù, ricercano i vizi? Per ignoranza di ciò che è bene? Ma cosa c'è di più debole della cecità dell'ignoranza? Oppure sanno cosa cercare ma il piacere li allontana dalle retta via? Anche in questo caso si dimostrano deboli, a causa dell'intemperanza che impedisce loro di opporsi al male? oppure abbandonano il bene consapevolmente e si volgono al vizio? Ma anche così cessano di essere potenti e cessano persino di essere del tutto». Infatti il bene è l'essere e chi non raggiunge il bene è privo necessariamente dell'essere: dell'uomo ha solo la parvenza: «tu potresti chiamare cadavere un uomo morto, ma non semplicemente uomo; così, i viziosi sono malvagi ma nego che essi siano in senso assoluto».  Nel quinto e ultimo libro Boezio tratta il problema della prescienza e provvidenza divina e del libero arbitrio. Definito il caso (I, I, 18) «un evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose fatte per uno scopo determinato», per Boezio il concorrere e confluire di quelle cause è «il prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile connessione, discende dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi determinati». Il caso, dunque, non esiste in sé stesso, ma è l'evento di cui gli uomini non riescono a stabilire le cause che lo hanno determinato. È compatibile allora il libero arbitrio dell'uomo con la presenza della prescienza divina e a cosa dovrebbe servire pregare che qualcosa avvenga o meno, se già tutto è stabilito? La risposta della Filosofia è che la previdenza di Dio non dà necessità agli eventi umani: essi restano la conseguenza della libera volontà dell'uomo anche se sono previsti da Dio.  Ma questo stesso problema, così posto dall'uomo, non è nemmeno corretto. Dio è infatti eterno, nel senso che non è soggetto al tempo; per lui non esiste il passato e il futuro, ma un eterno presente; il mondo, invece, anche se non avesse avuto nascita, sarebbe perpetuo, ossia soggetto al mutamento e dunque soggetto al tempo; nel mondo esiste pertanto un passato e un futuro. La conoscenza che Dio ha delle cose non è a rigore un "vedere prima", una pre-videnza, ma una provvidenza, un vedere nell'eterno presente tanto gli eventi necessari, come sono quelli regolati dalle leggi fisiche, che gli eventi determinati dalla libera volontà dell'uomo.  La fortuna della Consolazione fu notevole per tutto il Medioevo, così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli del pensiero cristiano, per quanto l'opera si fondi sulle tradizioni stoiche e soprattutto neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole affermazione della libertà del pensiero in complementarità con la fede espressa in sue altre opere, come dimostra il fatto che Boezio non abbia mai citato Cristo in un'opera di tale natura e composta a un passo dalla morte - tanto che già nel X secolo il monaco sassone Bovo di Corvey dirà, a questo riguardo, che nella Consolazione sembra che la Filosofia abbia scacciato Cristo. Allievo della scuola neoplatonica di Atene, Boezio trovò negli insegnamenti della classica tradizione neoplatonica esempi di direttiva morale pienamente sufficienti rispetto a quanto poteva trovare nel Cristianesimo, del quale, non a caso, come mostrano i suoi Opuscoli teologici, si occupò soltanto per problemi relativi unicamente alla dogmatica e mai alla morale e al destino dell'uomo.  Lo stile La De Consolatione philosophiae è un esempio di prosimetro, una composizione in cui la poesia si alterna alla prosa, secondo un modello che viene fatto risalire al filosofo cinico Menippo di Gadara nel III secolo a.C. e introdotto a Roma nel I secolo a.C. da Varrone; molto probabilmente Boezio tenne presente il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella, opera di struttura analoga, composta circa un secolo prima. Boezio, nelle opere precedenti, frutto di elaborazioni teologiche, di commenti e di traduzioni, non si era preoccupato di dare dignità letteraria ai suoi scritti; nella Consolazione ha voluto affermare la propria appartenenza alla tradizione latina, con una trasparente imitazione del dialogo platonico attraverso i modelli di Cicerone e di Seneca, così da porsi, nel versante sia letterario che filosofico, come l'ultimo classico romano.  Le opere discusse A Boezio furono attribuite altre opere, come la De fide catholica o Brevis fidei christianae complexio, che sembra appartenere a quel suo allievo Giovanni nel quale si è voluto riconoscere Papa Giovanni I. Anche se ancora oggi vi è discussione sull'attribuzione a Boezio, l'impostazione catechistica dell'opera, che tratta delle verità essenziali del Cristianesimo, quali la Trinità, il peccato originale, l'Incarnazione, la Redenzione e la Creazione, porterebbero a escludere una paternità boeziana. Attribuita a Mario Vittorino la De definitione e a Domenico Gundisalvo la De unitate et uno, resta tuttora non definito l'autore della De disciplina scholarium, anch'essa attribuita a suo tempo a Boezio.  Culto La figura di Boezio fu molto stimata nel Medioevo. Le sue vicissitudini avevano molte analogie con la vita di San Paolo, ingiustamente imprigionato e martire.  Il poeta Dante Alighieri nomina Boezio nella Divina Commedia e nel Convivio, dove afferma (II, 12) di averne iniziato gli studi quando, dopo la morte di Beatrice, si era dedicato alla filosofia. Nel Paradiso di Dante, Boezio è uno degli spiriti sapienti del IV Cielo del Sole (Par., X, 124-126), che formano la prima corona di dodici spiriti in cui è presente anche san Tommaso d'Aquino.  Dal Martirologio Romano al 23 ottobre: "A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio, martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re Teodorico".  Opere Le date di composizione sono tratte da Philip Edward Phillips, "Anicius Manlius Severinus Boethius: A Chronology and Selected Annotated Bibliography", in Noel Harold Kaylor Jr., & Philip Edward Phillips, (a cura di), A Companion to Boethius in the Middle Ages, Leiden, Brill, Opere matematiche De institutione arithmetica, adattamento delle Introductionis Arithmeticae di Nicomaco di Gerasa. De Institutione musica -- si basa su un'opera perduta di Nicomaco di Gerasa e sulla Harmonica di Tolomeo. Opere logiche A) Traduzioni dal greco Porphyrii Isagoge (traduzione dell'Isagoge di Porfirio) In Categorias Aristotelis De Interpretatione vel Periermenias Interpretatio priorum Analyticorum (due versioni) Interpretatio Topicorum Aristotelis Interpretatio Elenchorum Sophisticorum Aristotelis B) Commenti a Porfirio, Aristotele e Cicerone In Isagogen Porphyrii commenta (due versioni, la prima basata sulla traduzione di Gaio Mario Vittorino, la seconda sulla sua traduzione. In Aristotelis Categorias, In librum Aristotelis de interpretatione Commentaria minora, In librum Aristotelis de interpretatione Commentaria majora, In Aristotelis Analytica Priora, Commentaria in Topica Ciceronis (incompleta: manca la fine del sesto libro e tutto il settimo) Opere originali De syllogismo cathegorico, De divisione, De hypotheticis syllogismis, In Ciceronis Topica, De topicis differentiis, Introductio ad syllogismos cathegoricos, Opuscola Sacra (trattati teologici), De Trinitate, Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur (Se "Padre" "Figlio" e "Spirito Santo", siano predicati sostanzialmente della Divinità) Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint cum non sint substantialia bona conosciuto anche col titolo De Hebodmadibus (In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali) De fide Catholica Contra Eutychen et Nestorium De consolatione Philosophiae. Frammenti di un trattato sulla geometria sono pubblicati in: Menso Folkerts (a cura di), Boethius' Geometrie II. Ein mathematisches Lehrbuch des Mittelalters, Wiesbaden, Franz Steiner, Edizioni Severino Boezio, Dialectica, Venetiis, apud Iuntas, Manlii Severini Boethii Opera Omnia, Patrologiae cursus completus, Series latina, Anicii Manlii Severini Boethii Opera, I-II, Turnholt  Anicius Manlius Severinus Boethius Torquatus, De consolatione philosophiae. Opuscula theologica, ed. C. Moreschini, editio altera, Monachii – Lipsiae. Delle consolazione della filosofia, Tradotto dalla Lingua Latina in Volgar Fiorentino -- Varchi, Con Annotazioni a margine e Tavola delle cose più segnalate. Si aggiunge la Vita dell'Autore..., in Venezia, presso Leonardo Bassaglia, Venezia, La consolazione della Filosofia, traduzione di Umberto Moricca, Firenze, Salani, Philosophiae consolatio, testo con introduzione e trad. di Emanuele Rapisarda, Catania, Centro di Studi sull'antico Cristianesimo, La consolazione della filosofia, traduzione di R. Del Re, Roma, Edizioni dell'Ateneo, Trattato sulla divisione, traduzione di traduzione, introduzione e commento di Lorenzo Pozzi, Padova, Liviana Editrice, De hypotheticis syllogismis, testo latino, traduzione, introduzione e commento di Luca Obertello, Brescia, Paideia, La consolazione della filosofia, introduzione di Christine Mohrmann, trad. di Ovidio Dallera, Collana BUR, Milano, Rizzoli, La Consolazione della filosofia. Gli Opuscoli teologici, traduzione di A. Ribet, a cura di Luca Obertello, Collana Classici del pensiero, Milano, Rusconi, De Institutione musica, testo e traduzione di Giovanni Marzi, Roma, La consolazione della filosofia, a cura di Claudio Moreschini, Collezione Classici Latini, Torino, POMBA, La consolazione di Filosofia, A cura di Maria Bettetini. Traduzione di Barbara Chitussi, note di Giovanni Catapano. Testo latino a fronte, Collana NUE, Torino, Einaudi, I valori autentici, a cura di M. Jovolella, Collana Oscar Saggezze, Milano, Mondadori,  La ricerca della felicità (Consolazione della Filosofia III), A cura di M. Zambon, Collana Letteratura universale.Il convivio, Venezia, Marsilio, Il De topicis differentiis di Severino Boezio, a cura di Fiorella Magnano, Palermo, Officina di Studi Medievali, Le differenze topiche. Testo latino a fronte, A cura di Fiorella Magnano, Collana Il pensiero occidentale, Milano, Bompiani, Mondin, La prima Scolastica: Boezio, Cassiodoro, Scoto Eriugena  Martirologio romano, citato in Severino Boezio, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.  Ennodio, Epistole, Cassiodoro, Variae, Cassiodoro, Variae, De consolatione philosophiae, De consolatione philosophiae, Anonimo Valesiano, Il sepolcro di Boezio, su academia.edu.  Alessio Narbone, Sicola sistematica o apparato metodico alla storia letteraria della Sicilia, Il libro contiene una iniziale dedica a ""Cosimo De' Medici Gran Duca di Toscana"", poi la ""VITA DI ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO BOEZIO scritta latinamente da Giulio Marziano Rota ed ora nuovamente volgarizzata"", ed infine la traduzione in fiorentino "" volgare fiorentina"" di Benedetto Varchi che traduce in italiano anche le parti non in prosa con versi in rime alternate: ultima cosa curiosa, alla fine ci sono due ''''Inni d'ELPIDE, Matrona Siciliana Consorte di Boezio''''. 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Boezio, Roma, Bulzoni, Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, Napoli, Micaelli, Studi sui trattati teologici di Boezio, Napoli, Milani, Boezio. L'ultimo degli antichi, Milano, 1994 Christine Mohrmann, Introduzione alla Consolazione della filosofia, BUR, Mondin, La prima Scolastica: Boezio, Cassiodoro, Scoto Eriugena, Euntes docete. Commentaria Urbaniana, Roma, Moreschini, Boezio e la tradizione del Neoplatonismo latino, in «Atti del Convegno Internazionale di Studi Boeziani», Roma, Moreschini, Neoplatonismo e Cristianesimo: «partecipare a Dio» secondo Boezio e Agostino, Catania, Moreschini, Varia boethiana, D'Auria M., Obertello, Severino Boezio, 2 voll., Genova, 1Pinzani, La logica di Boezio, Milano, Rapisarda, La crisi spirituale di Boezio, Catania, Troncarelli, Boethiana Aetas. 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PredecessoreConsole romanoSuccessore Flavio Importuno, sine college Flavio Arcadio Placido Magno Felice, Flavio Secondino V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica Severino Boezio Boetius.png Magister officiorum del Regno Ostrogoto MonarcaTeodorico il Grande Console del Regno Ostrogoto Durata mandato510 MonarcaTeodorico il Grande PredecessoreFlavio Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore romano. Dati generali Professionefilosofo San Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da Montefeltro   Padre della Chiesa Martire    NascitaRoma, 475/477 MortePavia, Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Ricorrenza23 ottobre Attributipalma ManualeInter latinos aristotelis interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC, biblioteca digitale. Boezio raffigurato col proprio suocero, Quinto Aurelio Memmio Simmaco, nobile e letterato romano. Filosofia Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura Lingua latina Portale Lingua latina Categorie: Filosofi romaniSenatori romaniNati a RomaMorti a Pavia Anicii Consoli medievali romani Filosofi Cristiani Filosofi giustiziati Martiri cristianiMagistri officiorumPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi romani del VI secoloTeorici della musica italianiTraduttori dal greco al latino[alter. Refs.: Boethiius, in Stanford Encyclopaedia. Luigi Speranza, "Grice e Boezio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Bollettino della Società filosofica italiana. Cum sit necessarium, Chrisaorie, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam nosse quid genus sit et quid differentia quidque species et quid proprium et quid accidens, et ad definitionum assignationem, et omnino ad ea quae in divisione vel demonstratione sunt utilia, hac istarum rerum speculatione compendiosam tibi traditionem faciens temptabo breviter velut introductionis modo ea quae ab antiquis dicta sunt aggredi; altioribus quidem quaestionibus abstinens, simpliciores vero mediocriter coniectans. Mox de generibus et speciebus illud quidem sive subsistunt sive in solis nudis purisque intellectibus posita sunt sive subsistentia corporalia sunt an incorporalia, et utrum separata an in sensibilibus et circa ea constantia, dicere recusabo. Altissimum enim est huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis. Illud vero quemadmodum de his ac de propositis probabiliter antiqui tractaverint, et horum maxime Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare. Videtur autem neque genus neque species simpliciter dici. Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad se invicem collectio, secundum quam significationem Romanorum dicitur genus, ab unius scilicet habitudine -- dico autem Romuli -- et multitudinis habentium aliquo modo ad invicem eam quae ab illo est cognationem secundum divisionem ab aliis generibus dictam. Dicitur autem et aliter rursus genus quod est uniuscuiusque generationis principium vel ab eo qui genuit vel a loco in quo quis genitus est. Sic enim Oresten quidem dicimus a Tantalo habere genus, Illum autem ab Hercule, et rursus Pindarum quidem Thebanum esse genere, Platonem vero Atheniensem; et enim patria principium est uniuscuiusque generationis quemadmodum pater. Haec autem videtur promptissima esse significatio; Romani enim qui ex genere descendunt Romuli, et Cecropidae qui ex genere descendunt Cecropis et horum proximi. Et prius quidem appellatum est genus uniuscuiusque generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno principio; ut a Romulo, dividentes et ab aliis separantes, dicebamus omnem illam collectionem esse Romanorum genus. Aliter autem rursus dicitur genus, cui supponitur species ad horum fortasse similitudinem dictum. Etenim principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum, videturque et omnem eam multitudinem continere quae sub ipso sunt specierum. Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo, quod etiam describentes assignaverunt, dicentes, genus esse quod de pluribus et differentibus specie, in eo quod quid sit praedicatur, ut animal. Eorum enim quae praedicantur alia quidem de uno dicuntur solo, sicut individua sicut Socrates et hic et hoc, alia vero de pluribus, quemadmodum genera et species et differentiae et propria, et accidentia communiter sed non proprie alicui. Est autem genus quidem ut animal, species vero ut homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere. Ab his ergo quae de uno solo praedicantur differunt genera, eo quod haec de pluribus dicuntur. Ab his autem rursus quae de pluribus, a speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedicentur, non tamen de differentibus specie, sed numero: homo enim cum sit species, de Socrate et Platone praedicatur, qui non specie a se invicem differunt, sed numero. Animal vero cum sit genus, de homine, equo, et boue praedicatur, qui differunt a se invicem specie, non numero solum. A proprio quoque differt genus, quoniam proprium de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur, et de iis quae sub una specie sunt individuis, quemadmodum risibile de homine solo, et de particularibus hominibus: genus autem non de una solum specie praedicatur, sed de pluribus et differentibus. A differentia vero et ab iis quae communiter sunt accidentia differt genus, quoniam etsi de pluribus et differentibus specie praedicentur differentiae, et communiter accidentia, non tamen in eo quod quid sit praedicantur, sed potius in eo quod quale est, et quomodo se habet. Interrogantibus enim aliquibus quid est illud de quo praedicantur haec? genus respondebimus: differentias autem et communiter et accidentia non respondebimus. Non enim in eo quod quid est praedicantur de subiecto, sed magis in eo quod quale sit. Interrogantibus enim qualis est homo? dicimus rationalis, et qualis est corvus, dicimus niger. Est autem rationale, differentia: nigrum vero, accidens. Quando autem quid est homo interrogamur, animal respondemus: est autem genus hominis animal. Quare genus de pluribus praedicari dividit ipsum ab iis quae de uno solo dicuntur, sicut individua; de differentibus vero specie, separat eumdem ab iis quae sicut species praedicantur, vel sicut propria: in eo autem quod quid sit praedicari, dividit ipsum a differentiis et communiter accidentibus, quae singula non in eo quod quid sit praedicatur, sed in eo quod quale est, vel quomodo se habet. Nihil igitur neque superfluum, neque minus continet generis dicta descriptio. Species autem dicitur quidem, et de uniuscuiusque forma, secundum quam dictum est: primum quidem species digna est imperio: Dicitur autem species, et ea quae est sub assignato genere, secundum quam solemus dicere, hominem quidem speciem animalis, cum sit genus animal; album autem coloris speciem, triangulum vero figurae speciem. Quod si etiam genus assignantes speciei meminimus, dicentes quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid praedicatur, et speciem dicimus id quod sub assignato genere ponitur. Nosse oportet quod quoniam genus alicuius est genus, et species alicuius est species, idcirco necesse est et in utrorumque rationibus utrisque uti. Assignant ergo et sic speciem: Species est quae sub assignato genere ponitur, et de qua genus in eo quod quid sit praedicatur. Amplius autem sic quoque: Species est quae de pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit praedicatur; sed haec quidem assignatio specialissimae est, et eius quae solum species est, non etiam genus: aliae vero et non specialissimarum esse possunt. Planum autem erit quod dicitur hoc modo: In unoquoque praedicamento sunt quaedam generalissima, et rursus alia specialissima, et inter generalissima et specialissima sunt alia quae et genera et species eadem dicuntur. Est autem generalissimum quidem supra quod non est aliud aliquod superveniens genus. Specialissimum autem post quod non est alia aliqua inferior species. Inter generalissimum autem et specialissimum, alia sunt quae et genera et species sunt eadem, ad aliud tamen et aliud sumpta. Sit autem manifestum in uno praedicamento quod dicitur substantia: est quidem et ipsa genus, sub hac autem est corpus, et sub corpore animatum corpus, sub quo animal: sub animali vero, rationale animal, sub quo homo: sub homine vero, Socrates et Plato, et qui sunt particulares homines. Sed horum substantia quidem, generalissimum est, et genus solum: homo vero specialissimum, et solum species; corpus vero, species quidem est substantiae, genus vero corporis animati, sed et animatum corpus, species quidem est corporis, genus vero animalis. Rursus animal species quidem est corporis animati, genus vero animalis rationalis, sed rationale animal, species quidem est animalis, genus autem hominis: homo vero species est rationalis animalis, non autem etiam genus particularium hominum, sed solum species. Ac omne quod est ante individua proximeque de ipsis praedicatur, species erit solum, non etiam genus. Quemadmodum igitur substantia cum suprema sit, eo quod nihil supra eam sit, genus est generalissimum, sic et homo, cum sit species, postquam non est alia species, neque aliquid eorum quae possunt dividi in species, sed solum individua (individuum enim est Socrates et Plato, et hoc album), species erit solum, et ultima species (et ut dictum est) specialissima: quae vero in medio sunt, eorum quidem quae supra se sunt species erunt, eorum vero quae post genera sunt, quare haec quidem duas habent habitudines, illam quae est ad superiora, secundum quam species dicuntur esse ipsorum, et eam quae est ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. Extrema vero habent unam habitudinem, nam et generalissimum ad ea quae posteriora sunt, habet habitudinem, cum genus sit omnium supremum: eam vero quae est ad superiora non habet, cum sit supremum, et primum principium, et (ut diximus) supra quod non est aliud superveniens genus: et specialissimum etiam unam habet habitudinem, ea quae est ad superiora, quorum est species: eam vero quae est ad posteriora non diversam habet sed eandem, nam et individuorum species dicitur. Sed species quidem individuorum, velut ea continens, species vero superiorum, ut quae ab illis contineatur. Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit non est species: et rursus, supra quod non est aliud superveniens genus: specialissimum vero, quod cum sit species, non est genus, et quod cum sit species, non amplius in species dividere possumus, et hoc modo quod de pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit, praedicatur. Ea vero quae sunt in medio extremorum, subalterna vocantur genera et species, et unumquodque eorum species esse potest et genus, ad aliud quidem, et ad aliud sumpta. Ea vero quae sunt supra specialissima usque ad generalissimum ascendentia, vicissim genera dicuntur et species, ut Agamemnon, Atrides, Pelopides, Tantalides, et ultimo Iovis. Sed in familiis quidem plerumque reducuntur ad unum principium, verbi gratia ad Iovem. In generibus autem et speciebus non sic se habet; neque enim unum commune genus omnium est ens, nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus, quemadmodum dicit Aristoteles, sed sint posita, quemadmodum dictum est in praedicamentis, prima decem genera, quasi decem prima principia. Et si omnia quis entia vocet, aequivoce inquit nuncupabit, non univoce: si enim ens unum esset commune omnium genus, univoce omnia entia dicerentur: cum vero sint decem prima, commune est ens secundum nomen solum, non etiam secundum rationem, quae secundum entis nomen est. Decem quidem igitur generalissima sunt, specialissima vero in numero quidem quodam sunt, non tamen infinito. Individua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt quapropter usque ad specialissima a generalissimis descendentes iubebat Plato quiescere. Descendere autem per media dividendo specificis differentiis, infinita vero relinquenda suadet, neque enim eorum posse fieri disciplinam. Descendentibus igitur ad specialissima necesse est, dividendo per multitudinem ire, ascendentibus vero ad generalissima necesse est colligere multitudinem in unum: collectivum enim multorum in unam naturam species est, et magis etiam genus. Particularia vero et singularia e contrario, in multitudinem semper dividunt id quod unum est, participatione enim speciei, plures homines, sunt unus homo, in particularibus autem et singularibus, unus et communis, plures, divisivum enim est semper quod singulare est, collectivum autem et adunativum quod commune est. Assignato autem genere, specie quid sit utrumque, et genere quidem uno existente, speciebus vero pluribus: semper enim divisio generis in species plures est, genus quidem semper de speciebus praedicatur, et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere, neque de superioribus, neque enim convertitur. Oportet enim aut aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine, minora vero de maioribus minime: nec enim animal dicis esse hominem, quemadmodum dicis hominem animal. De quibus autem species praedicatur, de his necessario et speciei genus praedicatur et generis genus, usque ad generalissimum. Si enim verum est dicere: Socratem hominem, hominem autem animal, animal vero substantiam, verum est Socratem animal dicere atque substantiam: semper igitur cum superiora de inferioribus praedicentur, species quidem de individuo praedicabitur, genus autem et de specie et de individuo; generalissimum autem et de genere, et de generibus, si plura sunt media et subalterna, et de specie, et de individuo: Dicitur enim generalissimum quidem de omnibus sub se positis generibus et speciebus et individuis; genus autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et de individuis, solum autem species de omnibus individuis, individuum autem praedicatur de uno solo particulari. Individuum autem dicitur Socrates, et hoc album, et hic veniens Sophronisci filius, si solus sit ei Socrates filius). Individua autem dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unumquodque eorum, quarum collectio numquam in alio quolibet eadem erit. Socratis enim proprietates nunquam in alioquo quolibet erunt particularium eaedem. Hae vero quae sunt hominis proprietates: dico autem eius qui est communis, erunt eaedem pluribus, magis autem in omnibus particularibus hominibus in eo quod homines sunt. Continetur igitur individuum quidem sub specie, species autem sub genere. Totum enim quidem est genus, individuum autem pars, species vero totum et pars: sed pars quidem alterius, totum vero non alterius, sed in aliis. In partibus enim totum est. De genere quidem et specie, et quid sit generalissimum, et quid specialissimum, et quae genera, et species eadem sunt, et quae individua, et quot modis genus et species dicatur, sufficienter dictum est. Differentia vero communiter, proprie, et magis proprie dicitur. Communiter quidem differre alterum ab altero dicitur, quoniam alteritate quadam differt quocunque modo, vel a seipso vel ab alio; differt enim Socrates a Platone alteritate quadam, et ipse a se puero iam vir factus, et a se faciente aliquid cum quiescit, et semper in aliquo modo habendi se alteritatibus spectatur. Proprie autem differre alterum ab altero dicitur, quando inseparabili accidente alterum ab altero differt. Inseparabile vero accidens est, ut nasi curvitas, caesitas oculorum, et cicatrix cum ex vulnere occalluerit. Magis autem proprie alterum differre ab altero dicitur, quando specifica differentia differt, quemadmodum homo ab equo specifica differentia differt rationali qualitate. Universaliter ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adveniens, sed ea quae est communiter et proprie, alteratum facit: illa autem quae est magis proprie, aliud. Differentiarum enim, aliae quidem alteratum faciunt, aliae vero aliud. Illae igitur quae faciunt aliud, specificae uocantur; illae vero quae alteratum, simpliciter differentiae: animali enim rationalis differentia adveniens aliud facit, et speciem animalis facit. Illa vero quae est movendi, alteratum facit a quiescente. Quare haec quidem aliud, illa vero alteratum solum facit. Secundum igitur aliud facientes differentias et divisiones fiunt a generibus in species, et diffinitiones assignantur, quae sunt ex genere, et huiusmodi differentiis: secundum autem eas quae solum alteratum faciunt, alterationes solum consistunt, et aliquo modo se habentis permutationes. A superioribus rursus inchoanti dicendum est, differentiarum alias quidem esse separabiles, alias vero inseparabiles. Moveri enim et quiescere, et sanum esse, et aegrum, et quaecunque his proxima sunt, separabilia sunt. At vero aquilum esse, vel simum, vel rationale, vel irrationale, inseparabilia sunt. Inseparabilium autem, aliae quidem sunt per se, aliae vero per accidens; nam rationale per se inest homini, et mortale, et disciplinae esse susceptibile. At vero aquilum esse vel simum, per accidens et non per se. Illae igitur quae per se sunt, in ratione substantiae accipiuntur, et faciunt aliud: illae vero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione accipiuntur, nec faciunt aliud, sed alteratum. Et illae quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et minus: illae vero quae per accidens, et si inseparabiles sint, intentionem accipiunt et remissionem: nam neque genus magis et minus praedicatur de eo cuius est genus, neque generis differentiae, secundum quas dividitur: ipsae enim sunt quae uniuscuiusque rationem complent: esse autem unicuique unum et idem, nec intentionem nec remissionem suscipiens est, aquilum autem vel simum esse, vel coloratum aliquo modo, et intenditur et remittitur. Cum igitur tres species differentiae considerentur, et cum hae quidem sint separabiles, illae vero inseparabiles, et rursus inseparabilium, hae quidem sint per se, illae vero per accidens, et rursus earum quae per se sint differentiarum, aliae quidem sunt, secundum quas dividimus genera in species aliae vero secundum quas haec quae divisa sunt specificantur; ut, cum per se differentiae omnes huiusmodi sint animalis, animati et sensibilis, rationalis et irrationalis, mortalis et immortalis, ea quidem quae est animati et sensibilis differentia, constitutiva est animalis substantiae: est enim animal substantia animata sensibilis, ea vero quae est mortalis et immortalis differentia, itemque rationalis et irrationalis, divisivae sunt animalis differentiae, per eas enim genera in species dividimus. Sed hae quidem quae divisivae sunt differentiae generum, completivae fiunt et constitutivae specierum: dividitur enim animal rationali et irrationali differentia, et rursus mortali et immortali differentia, sed ea quae sunt rationalis differentiae et mortalis, constitutivae sunt hominis, rationalis vero et immortalis, Dei: illae vero quae sunt irrationalis et mortalis, irrationabilium animalium. Sic et suprema substantia, cum divisiva sit animati et inanimati differentia, sensibili et insensibili, animata et sensibilis congregatae ad substantiam, animal perfecerunt, animata vero et insensibilis perfecerunt plantam. Quoniam ergo eaedem aliquo modo acceptae fiunt constitutivae, aliquo modo autem divisivae, omnes specificae dicuntur: et his maxime opus est ad divisiones generum et diffinitiones specierum, sed non his quae secundum accidens inseparabiles, nec magis his, quae sunt separabiles. Quas etiam determinantes dicunt: Differentia est qua abundat species a genere. Homo enim ab animali plus habet rationale et mortale: animal enim ipsum nihil horum est, nam unde haberent species differentias? nec enim omnes oppositas habet, namque idem simul habebit oppositas, sed quemadmodum probant, potestate quidem habet omnes differentias sub se, actu vero nullam. Et sic nec ex his quae non sunt, aliquid fit, nec in eodem simul opposita erunt. Definiunt autem eam et hoc modo: Differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quale sit praedicatur rationale enim et mortale, de homine praedicatum in eo quod quale quiddam est homo dicitur sed non in eo quod quid est; "Quid est" enim "homo?" interrogatis nobis conveniens est dicere "Animal"; quale autem animal inquisiti, quoniam rationale et mortale est convenienter assignabimus. Rebus enim ex materia et forma constantibus vel ad similitudinem materiae specieique constitutionem habentibus (quemadmodum statua ex materia est aeris, forma autem figura), sic et homo communis et specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est quemadmodum illic statua. Describunt autem huiusmodi differentiam et hoc modo: Differentia est quod aptum natum est dividere quae sub eodem sunt genere rationale enim et irrationale hominem et equum, quae sub eodem sunt genere quod est animal, dividunt. Assignant autem etiam hoc modo: Differentia est qua differunt a se singula nam secundum genus non differunt; sumus enim mortalia animalia et nos et irrationabilia sed additum rationabile separavit nos ab illis; rationabiles sumus et nos et dii sed mortale appositum disiunxit nos ab illis. Interius autem perscrutantes et speculantes differentiam, dicunt non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere dividentium esse differentiam sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit hominis differentia, etsi proprium sit hominis. Dicimus enim: animalium haec quidem apta nata sunt ad nauigandum, illa vero minime dividentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat completiuum substantiae nec eius pars sed aptitudo quaedam eius est (idcirco quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae). Erunt igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est accipiuntur. Et de differentiis quidem ista sufficiunt. Proprium vero quadrifariam dividunt. Nam et id quod soli alicui speciei accidit, etsi non omni (ut homini medicum esse vel geometrem), et quod omni accidit, etsi non soli (quemadmodum homini esse bipedem), et quod soli et omni et aliquando (ut homini in senectute canescere), quartum vero in quo concurrit et soli et omni et semper (quemadmodum homini esse risibile; nam, etsi non ridet, tamen risibile dicitur, non quod iam rideat sed quod aptus natus sit; hoc autem ei semper est naturale; et equo hinnibile). Haec autem proprie propria perhibent, quoniam etiam convertuntur; quicquid enim equus, et hinnibile, et quicquid hinnibile, equus. Accidens vero est quod adest et abest praeter subiecti corruptionem. Dividitur autem in duo, in separabile et in inseparabile; namque dormire est separabile accidens, nigrum vero esse inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit (potest autem subintellegi et corvus albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem). Definitur autem sic quoque: Accidens est quod contingit eidem esse et non esse uel: Quod neque genus neque differentia neque species neque proprium, semper autem est in subiecto subsistens. Omnibus igitur determinatis quae proposita sunt, dico autem genere, specie, differentia, proprio, accidenti, dicendum est quae eis communia adsunt et quae propria. Commune quidem omnibus est de pluribus praedicari; sed genus quidem de speciebus et de individuis, et differentia similiter, species autem de his quae sub ipsa sunt individuis, at vero proprium et de specie et cuius est proprium et de his quae sub specie sunt individuis, accidens autem et de speciebus et de individuis. Namque animal de equis et bubus et canibus praedicatur quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue quae sunt individua; irrationale vero et de equis et de bubus praedicatur et de his qui sunt particulares; species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares praedicatur; proprium autem, quod est risibile, de homine et de his qui sunt particulares; nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod est accidens inseparabile; et moueri de homine et de equo, quod est accidens separabile sed principaliter quidem de individuis, secundum posteriorem vero rationem de his quae continent individua. Commune est autem generi et differentiae continentia specierum; continet enim et differentia species, etsi non omnes quot genera; rationale enim, etiam si non continet ea quae sunt irrationabilia ut genus quemadmodum animal sed continet hominem et deum quae sunt species. Et quaecumque praedicantur de genere ut genus, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur; quaeque de differentia praedicantur ut differentiae, et de ea quae ex ipsa est specie praedicabuntur. Nam, cum sit genus animal, non solum de eo praedicantur ut genus substantia et animatum sed etiam de his quae sunt sub animali speciebus omnibus praedicantur haec usque ad individua; cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum de eo quod est rationale sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus praedicabitur ratione uti. Commune autem est et perempto genere vel differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum, si non sit animal, non est equus neque homo, sic, si non sit rationale, nullum erit animal quod utatur ratione. Proprium autem generis est de pluribus praedicari quam differentia et species et proprium et accidens; animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes vero de solis quattuor pedes habentibus, homo vero videtur de solis individuis, et hinnibile de equo et de his qui sunt particulares; et accidens similiter de paucioribus. Oportet autem differentias accipere quibus dividitur genus, non eas quae complent substantiam generis. Amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud vero irrationale. Amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positis differentiis propter quod simul quidem eas aufert, non autem simul aufertur (sublato enim animali aufertur rationale et irrationale), differentiae vero non auferunt genus (nam, si omnes interimantur, tamen substantia animata sensibilis subintellegi potest quae est animal). Amplius genus quidem in eo quod quid est, differentia vero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum dictum est, praedicatur. Amplius genus quidem unum est secundum unamquamque speciem (ut hominis id quod est animal), differentiae vero plurimae (ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile) quibus ab aliis differt. Et genus quidem consimile est materiae, formae vero differentia. Cum autem sint et alia communia et propria generis et differentiae, nunc ista sufficiant. Genus autem et species commune quidem habent de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari; sumatur autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem species et genus. Commune autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur et totum quiddam esse utrumque. Differt autem eo quod genus quidem continet species sub se, species vero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam species est (genera enim praeiacere oportet et formata specificis differentiis perficere species, unde et priora sunt naturaliter genera et simul interimentia sed quae non simul interimantur). Et species quidem cum sit, est et genus, genus vero cum sit non omnino erit et species. Et genera quidem univoce de speciebus praedicantur, species vero de generibus minime. Amplius quidem genera abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia, species vero generibus abundant propriis differentiis. Amplius neque species fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum. Generis autem et proprii commune quidem est sequi species (nam, si homo est, animal est, et, si homo est, risibile est), et aequaliter praedicari genus de speciebus et proprium de his quae illo participant (aequaliter enim et homo et bos animal, et Cato et Cicero risibile). Commune autem et univoce praedicari genus de propriis speciebus et proprium quorum est proprium. Differt autem quoniam genus quidem prius est, posterius vero proprium (oportet enim esse animal, dehinc dividi differentiis et propriis). Et genus quidem de pluribus speciebus praedicari, proprium vero de una sola specie cuius est proprium. Et proprium quidem conversim praedicatur cuius est proprium, genus vero de nullo conversim praedicatur (nam neque si animal est, homo est, neque si animal est, risibile est; sin vero homo, et risibile est, et e converso). Amplius proprium omni speciei inest cuius est proprium et uni et semper, genus vero omni quidem speciei cuius fuerit genus et semper, non autem soli. Amplius species quidem interemptae non simul interimunt genera, propria vero interempta simul interimunt quorum sunt propria, et his quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur. Generis vero et accidentis commune est de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari sive separabilium sit sive inseparabilium; et enim moueri de pluribus, et nigrum de coruis et hominibus et Aethiopibus et aliquibus inanimatis. Differt autem genus accidente quoniam genus ante species est, accidentia vero speciebus inferiora sunt; nam si etiam inseparabile sumatur accidens sed tamen prius est illud cui accidit quam accidens. Et genere quidem quae participant aequaliter participant, accidente vero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit accidentium participatio, generum vero minime. Et accidentia quidem in individuis principaliter subsistunt, genera vero et species naturaliter priora sunt individuis substantiis. Et genera quidem in eo quod quid est praedicantur de his quae sub ipsis sunt, accidentia vero in eo quod quale aliquid est vel quomodo se habeat unumquodque; "Qualis est" enim "Aethiops?" interrogatus dicis "Niger", et quemadmodum se Socrates habeat, dicis quoniam sedet vel ambulat. Genus vero quo aliis quattuor differat dictum est. Contingit autem etiam unumquodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut, cum quinque quidem sint, unum autem ab aliis quattuor differat, quater quinque uiginti fiant omnes differentiae; sed, semper posterioribus enumeratis et secundis quidem una differentia superatis (propterea quoniam iam sumpta est), tertiis vero, duabus, quartis vero tribus, quintis vero quattuor, decem omnes fiunt (quattuor, tres, duae, una). Genus enim differt differentia et specie et proprio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes differentiae. Differentia vero quo differt genere dictum est quando quo differret genus ab ea dicebatur; relinquitur igitur quo differat specie et proprio et accidente dicere, et fiunt tres. Rursus species quo quidem differat a differentia dictum est quando quo differret specie differentia dicebatur, quo autem differt species genere dictum est quando quo differret genus specie dicebatur; reliquum est igitur ut quo differat proprio et accidente dicatur; duae igitur etiam istae sunt differentiae. Proprium autem quo differat accidente relinquitur, nam quo specie et differentia et genere differt praedictum est in illorum ad ipsum differentia. Quattuor igitur sumptis generis ad alia differentiis, tribus vero differentiae, duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes; quarum quattuor quae erant generis ad reliqua superius demonstravimus. Commune ergo differentiae et speciei est aequaliter participari; homine enim aequaliter participant particulares homines et rationali differentia. Commune vero est et semper adesse his quae participant; semper enim Socrates rationalis et semper Socrates homo. Proprium autem differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei vero in eo quod quid est; nam, et si homo velut qualitas accipiatur, non simpliciter erit qualitas sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam constituerunt. Amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus consideratur (quemadmodum quadrupes in pluribus animalibus specie differentibus), species vero in solis his quae sub specie sunt individuis est. Amplius differentia prima est ab ea specie quae est secundum ipsam; simul enim ablatum rationale interimit hominem, homo vero interemptus non aufert rationale, cum sit deus. Amplius differentia quidem componitur cum alia differentia (rationale enim et mortale compositum est in substantia hominis), species vero speciei non componitur ut gignat aliquam aliam speciem (quidam enim equus cuidam asino permiscetur ad muli generationem, equus autem simpliciter asino numquam conveniens perficiet mulum). Differentia vero et proprium commune quidem habent aequaliter participari ab his quae eorum participant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et risibilia risibilia sunt. Et semper et omni adesse commune utrisque est; sive enim curtetur qui est bipes, non substantiam perimit sed ad quod natum est semper dicitur; nam et risibile, eo quod natum est habet id quod est semper sed non eo quod semper rideat. Proprium autem differentiae est quoniam haec quidem de pluribus speciebus dicitur saepe ut rationale de homine et deo, proprium vero in una sola specie cuius est proprium. Et differentia quidem illis est consequens quorum est differentia sed non convertitur, propria vero conversim praedicantur quorum sunt propria idcirco quoniam convertuntur. Differentiae autem et accidenti commune quidem est de pluribus dici, commune vero ad ea quae sunt inseparabilia accidentia semper et omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis, et nigrum esse similiter. Differunt autem quoniam differentia quidem continet et non continetur (continet enim rationalitas hominem), accidentia vero quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sint, quodam vero modo continentur eo quod non unius accidentis susceptibilia sunt subiecta sed plurimorum. Et differentia quidem inintendibilis est et inremissibilis, accidentia vero magis et minus recipiunt. Et impermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mista vero contraria accidentia. Huiusmodi quidem communiones et proprietates differentiae et caeterorum sunt. Species vero quo quidem differat a genere et differentia dictum est in eo quod dicebamus quo genus differt caeteris et quo differentia differret caeteris. Speciei autem et proprii commune est de se invicem praedicari; nam, si homo, risibile est, et si risibile, homo est (risibile vero quoniam secundum id quod natum est dicitur, saepe iam dictum est); aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et propria quorum sunt propria. Differt autem species proprio quoniam species quidem potest et aliis genus esse, proprium vero et aliarum specierum esse impossibile est. Et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium vero postea fit in specie; oportet enim hominem esse ut sit risibile. Amplius species quidem semper actu adest subiecto, proprium vero aliquando potestate; homo enim semper actu est Socrates, non vero semper ridet quamuis sit natus semper risibilis. Amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei quidem sub genere esse et de pluribus et differentibus numero in eo quod quid est praedicari et caetera huiusmodi, proprii vero quod est soli et semper et omni adesse. Speciei vero et accidentis commune quidem est de pluribus praedicari; rarae vero aliae sunt communitates propterea quoniam plurimum a se distant accidens et cui accidit. Propria vero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est praedicari de his quorum est species, accidentis autem in eo quod quale quiddam est vel aliquo modo se habens. Et unamquamque substantiam una quidem specie participare, pluribus autem accidentibus et separabilibus et inseparabilibus. Et species quidem ante subintellegi quam accidentia vel si sint inseparabilia (oportet enim esse subiectum ut illi aliquid accidat), accidentia vero posterioris generis sunt et aduenticiae naturae. Et speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis vero, vel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio Aethiope habebit colorem vel intentum amplius vel remissum secundum nigritudinem. Restat igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim proprium specie et differentia et genere differt, dictum est. Commune autem proprii et inseparabilis accidentis est quod praeter ea numquam consistant illa in quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter nigredinem subsistit Aethiops. Et quemadmodum semper et omni adest proprium, sic et inseparabile accidens. Differunt autem quoniam proprium uni soli speciei adest (quemadmodum risibile homini), inseparabile vero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi sed etiam coruo adest et carboni et ebeno et quibusdam aliis. Quare proprium conversim praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile vero accidens conversim non praedicatur. Et propriorum quidem aequalis est participatio, accidentium vero haec quidem magis, illa vero minus. Sunt quidem etiam aliae communitates vel proprietates eorum quae dicta sunt sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum communitatisque traditionem.  Hiemantis anni tempore in Aureliae montibus concesseramus atque ibi tunc, cum violentior auster eiecisset noctis placidam atque exturbasset quietem, recensere libitum est ea ƿ quae doctissimi viri ad illuminandas quodammodo res intellectus densitate caliginantissimas quibusdam quasi introductoriis commentariis ediderunt. Eius vero rei Fabius initium fecit, qui cum me lectulo recumbentem et quaedam super eisdem rebus cogitantem meditantemque vidisset, hortatus est, ut, quod saepe eram pollicitus, aliquam illi eius rei traderem disciplinatu. Complacitum est igitur, quoniam tunc et familiarium salutationes et domestica negotia cessabant. Interrogatus ergo a me super quibus vellet rebus enodare atque expedire, tunc Fabius: Quoniam, inquit, tempus ad studia uacat et hoc otium in honestum negotium converti licet, rogo ut mihi explices id quod Victorinus orator sui temporis ferme doctissimus Porphyrii per Isagogen, id est per introductionem in Aristotelis Categorias dicitur transtulisse. Et primum didascalicis quibusdam me imbue, quibus expositores vel etiam commentatores, ut discipulorum animos docibilitate quadam assuescant, utuntur. Tunc ego: Sex omnino, inquam, Magistri in omni expositione praelibant. Praedocent enim quae sit cuiuscumque operis intentio, quod apud illos skopou" vocatur; secundum, quae utilitas, quod a Graecis crhusimon appellatur; tertium, qui ordo, quod tauxin vocant; quartum, si eius cuius esse opus dicitur, germanus propriusque liber est, quod gnhusion interpretari solent; quintum, quae sit eius operis inscriptio, quod eipigrafhun Graeci nominant. In hoc etiam quod intentionem cuiusque libri insollerter interpretarentur, de inscriptione quoque operis apud quosdam minus callentes haesitatum est. Sextum est id dicere, ad quam partem philosophiae cuiuscumque libri ducatur intentio quod Graeca oratione dicitur eii" poi~on meuro" filosofiva" ainaugetai. Haec ergo omnia in quolibet philosophiae libro quaeri convenit atque expediri. Tunc Fabius quae esset introductionis intentio interrogavit. Et ego inquam: Aristoteles, cui factus est introductionis pons, non aliter intellegi potest, nisi ipsas res de quibus disputaturus est ad intellegentiam praeparemus. Videns enim Porphyrius quod in rebus omnibus essent quaedam prima natura, ex quibus omnia velut ex aliquo fonte manarent, et illa quae prima essent, et substantia esse et generis vocabulo nuncupari; porro autem numquam esse genus posse, nisi ei quaedam aliau subderentur, et quae essent subdita, species appellari; porro autem numquam genus uni speciei genus esse posse sed pluribus; plures autem species non posse esse multiplices, nisi eas aliqua discretio separaret -- si enim nihil sibi dissimiles forent, una species, non multiplices viderentur; illa igitur divisio et dissimilitudo specierum ƿ differentiae nomine vocitatur, omnia vero quae aliqua re differunt, fieri aliter non potest, nisi quibusdam propriis solitariisque naturis insignita sint. Atque haec hactenus -- videns ergo quod omnis omnium disparilitas in gemina rerum principia secaretur, in substantiam atque accidens, ita ut neque accidens sine substantia neque sine accidenti substantia esse posset -- accidens quippe sine aliquo substantiae fundamento esse non potest, substantia vero ipsa sine superiecto accidenti videli nullo modo potest. Ut enim color sit, quod est accidens, in corpore erit, quod est substantia. Porro autem cum corpus, id est substantiam videris, insignitam eam accidenti, id est aliquo colore respicies. Itaque fit ut neque substantia praeter accidens sit neque accidens a substantia relinquatur; ubi enim substantia fait, mox accidens consecutum est -- speculatus igitur Porphyrius in his duabus rebus, id est accidenti et substantia, genera, species, propria differentiasque versari et quod ipsa per se sint genera subiectis et subiacentibus speciebus, quae differentiis et propriis insignitae sunt, statuit principaliter de genere, specie, differentia propriisque tractare. Et quoniam tractatus hic in definitionibus, ut post docebimus, proderit, si quis autem in definitione generali ponat accidens, eum non recte definire manifestum est, quod suo loco tractabitur, statuit pauca de accidentibus praelibare. Ita enim nos prudentissimus doctor instituit, ut tunc in definitionibus quibuslibet plenam scientiam queamus accipere, cum quod prosit, dictum sit et quod non sit utile, segregetur. Haec igitur huius operis est intentio, de genere, specie, differentiis, propriis accidentibusque tractare. Hic Fabius: Expedisti, inquit, de intentione, nunc utilitatem explica. ÐVaria, inquam, et multiplex in hoc corpore commoditas utilitasque versatur. Primum enim in Aristotelis Categorias perquam uberrime prodest. Quid autem prosit, dicemus, cum de eius libri inscriptione tractabimus sed in quibus aliis prosit, paucis philosophiae ipsius divisione facta perstringam. Et prius quid sit ipsa philosophia considerandum est. Est enim philosophia amor et studium et amicitia quodammodo sapientiae, sapientiae vero non huius, quae in artibus quibusdam et in aliqua fabrili scientia notitiaque versatur sed illius sapientiae, quae nullius indigens, vivax mens et sola rerum primaeua ratio est. Est autem hic amor sapientiae intellegentis animi ab illa pura sapientia illuminatio et quodammodo ad se ipsam retractio atque aduocatio, ut videatur studium sapientiae studium divinitatis et purae mentis illius amicitia. Haec igitur sapientia cuncto equidem animarum generi meritum suae divinitatis imponit et ad propriam naturae vim puritatemque reducit. Hinc nascitur speculationum cogitationumque veritas et sancta puraque actuum castimonia. Quae res in ipsius philosophiae divisionem sectionemque convertitur. ƿ Est enim philosophia genus, species vero duae, una quae theoretica dicitur, altera quae practica, id est speculativa et activa. Erunt autem et tot speculativae philosophiae species, quot sunt res in quibus iustae speculatio considerationis habetur, quotque actuum diversitates, tot species varietatesque virtutum. Est igitur theoretices, id est contemplativae vel speculativae, triplex diversitas atque ipsa pars philosophiae in tres species dividitur. Est enim una theoretices pars de intellectibilibus, alia de intellegibilibus, alia de naturalibus. Tunc interpellavit Fabius miratusque est, quid hoc novi sermonis esset, quod unam speculativae partem intellectibilem nominassem. Nohtau, inquam, quoniam Latino sermone numquam dictum repperi, intellectibilia egomet mea verbi compositione vocavi. Est enim intellectibile quod unum atque idem per se in propria semper divinitate consistens nullis umquam sensibus sed sola tantum mente intellectuque capitur. Quae res ad speculationem dei atque ad animi incorporalitatem considerationemque verae philosophiae indagatione componitur: quam partem Graeci qeologivan nominant. Secunda vero est pars intellegibilis, quae primam intellectibilem cogitatione atque intellegentia comprehendit. Quae est omnium caelestium supernae divinitatis operum et quicquid sub lunari globo beatiore animo atque ƿ puriore substantia valet et postremo humanarum animarum quae omnia cum prioris illius intellectibilis substantiae fuissent corporum tactu ab intellectibilibus ad intellegibilia degenerarunt ut non magis ipsa intellegantur quam intellegant et intellegentiae puritate tunc beatiora sint, quotiens sese intellectibilibus applicarint. Tertia theoretices species est quae circa corpora atque eorum scientiam cognitionemqtle versatur: quae est physiologia, quae naturas corporum passionesque declarat secunda vero, intellegibilium substantia, merito medio collocata est, quod habeat et corporum animationem et quodammodo vivificationem et intellectibilium considerationem cognitionemque. Practicae vero philosophiae, quam activam superius dici demonstratum est, huius quoque triplex est divisio. Est enim prima quae sui curam gerens cunctis sese erigit, exornat augetque virtutibus, nihil in vita admittens quo non gaudeat, nihil faciens paenitendum. Secunda vero est quae rei publicae curam suscipiens cunctorum saluti suae providentiae sollertia et iustitiae libra et fortitudinis stabilitate et temperantiae patientia medetur; tertia vero, quae familiaris rei officium mediocri componens dispositione distribuit. Sunt harum etiam aliae subdivisiones, quas nunc persequi supersedendum est. Ad haec igitur ut fieri possint et ut superiora intellegi queant, necessarius maxime uberrimusque fructus est artis eius quam Graeci logikhun, nos rationalem possumus dicere. Quod ƿ recta orationis ratione quid verum quidque decens sit, nullo erroris flexu diverticulove fallatur. Quam quidem artem quidam partem philosophiae, quidam non partem sed ferramentum et quodammodo supellectilem iudicarunt. Qua autem id utrique impulsi ratione crediderint, alio erit in opere commemorandum. Haec autem generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis disputatio in omni nobis philosophiae cognitione quas quandam viam parat. Nam cum quid genus sit docemur, quid species, intellegimus genus esse philosophiam, species vero indubitanter theoreticen et practicen. De logica vero, utrum sit species, eadem hac possumus ratione perpendere. Prodest nobis differentiae cognitio ad ipsarum philosophiae specierum differentias cognoscendas. Prodest proprii scientia ad cognoscendum quid unicuique philosophiae differentiae solitaria natura videatur substantia innatum. Prodest accidentis cognitio quid principaliter in rebus sit cernere et quid secundo contingentique loco veniat, discernere. Ita nobis harum quinque rerum scientia ramosa quadam et multifida vi in omnes sese philosophiae partes infundit. Ad grammaticam vero non minor huius rei usus est, quando per orationem genus, octo vero partes orationis per genera, species, differentias propriaque metimur. Est vero huius rei perquam rhetoricae amica coniunctaque cognitio. Ita enim rhetoricam in tribus causarum possumus separare generibus et eas in subiectis constitutionibus dissecare. Definitionum quoque, quod ad logicam pertinet, magna ƿ atque utilis uberrimaque cognitio est; quas definitiones nisi per genera, species, differentias proprietatesque tractaveris mlllus umquam definitionibus terminus imponetur. Nam si quid definies, ex quo sit genere primum tibi dicendum est, atque in hoc genus speciesque consummata sit. Nam cuiuscumque rei genus dixeris, ad quam rem illud dixeris, speciem facis, ut si quid sit homo definias, dicas hominem esse animal igitur quoniam ad hominem aptasti animal, genus esse animal et hominem speciem a te declaratum est. Sed non sufficit sola generis in definitione monstratio. Si enim solum animal hominem esse dixeris, non potius hominem quam bovem aut equum definitione depinxeris. Prodest igitur etiam differentias adhibere, per quas id quod definies ab speciebus aliis seiungatur, ut dicas hominem esse animal rationale. Et quoniam sub eadem differentia plures frequenter species inveniuntur, ut sub rationali deus atque homo, utilissimus proprietatis usus est, ut id dicas quod sola quam definis species suum propriumque retineat. Fit ergo huiuscemodi hominis definitio: homo est animal, id est genus, homo vero species; rationale, quod differentia est; risus capax, quod proprium est. Accidentium vero in definitionibus nullus usus est. Prodest ergo in definitionibus harum quinque rerum cognitio; ut nec ea quae sunt utilia praetermittas nec ea quae nihil praestant commoditatis adiungas. In divisione vero tantum prodest, ut nisi per horum scientiam nulla res recte distribui secarique possit. Nam quae generum vel specierum recta distributio divisiove erit, ubi ipsarum per quas dividitur rerum nulla scientiae cognitione dirigimur? ƿ Probationum vero veritas in his maxime constituta est, quod per ea quae dividis, id quod dividis vel quid aliud probas. Nam Marcus Tullius in Rhetoricorum primo, quoniam divisionem generum causarum rite atque ordinate faciebat, eius rei probationem ita esse debere per species generaque disposuit, cum ait easdem res aliis superponi, aliis supponi posse, eisdem et subiectas et superpositas esse non posse. Haec fere de utilitate ad tempus dicenda credidimus. Tunc Fabius: Demiror, inquit, cur inchoanti mihi tam subtilius inventas exercitatasque res edideris. Sed dic, quaeso, quodnam hoc tuum fuit consilium? Ego dicam tibi: quod assuescendus animus auditoris et mediocri subtilitate imbuendus est, ut cum sese hic primum exercuerit palaestra ingenii, quasi quodammodo prius luctatus ea quae sequentur sine ullo labore conficiat. Sed 'quid restat?' dicas licebit. Et Fabius: Ordinem, inquit, restare arbitror, si bene commemini. ÑAtqui, inquam, hic ordo valde cum inscriptione coniunctus est. Si enim alterutrum noris, ambo noveris. Ordo tamen est quod omnes post Porphyrium ingredientes ad logicam huius primum libelli traditores fuerunt, quod primus hic ad simplicitatem tenuitatis usque progressus, quo procedentibus viandum sit, praeparat. Aristoteles enim quoniam dialecticae ƿ atque apodicticae disciplinae volebat posteris ordinem scientiamque contradere, vidit apodicticam dialecticamque vim uno syllogismi ordine contineri. Scribit itaque priores Resolutorios, quos Graeci iAnalutikouu" vocant, qui legendi essent antequam aliquid dialecticae vel apodicticae artis attingerent. In primis enim Resolutoriis de syllogismorum ordine, complexione figurisque tractatur. Et quoniam syllogismus genus est apodictici et dialectici syllogismi, dialecticam vero in Topicis suis exercuit, aipoudeixin in secundis Resolutoriis ordinavit, horum disciplina, quam ille in monstrandis syllogismis ante collegerat, prius etiam in studiis lectitatur. Itaque prius primi Resolutorii, qui de syllogismi sunt, quam secundi Resolutorii, qui de apodictico syllogismo, vel Topica, quae de dialectico syllogismo sunt, accipiuntur. Traxit igitur Aristoteles dialecticam atque apodicticam scientiam adunavitque in syllogismorum resolutoria disputatione. Sed quoniam syllogismum ex propositionibus constare necesse est, librum Peri; eIrmhneiva" qui inscribitur, 'de propositionibus' adnotavit. Omnes vero propositiones ex sermonibus aliguid significantibus componuntur. ƿ Itaque liber quem de decem praedicamentis scripsit, quae apud Graecos kathgorivai dicuntur, de primis rerum nominibus significationibusque est. Vidit enim Aristoteles infinitam miscellamque esse rerum omnium verborumque disparilitatem et, ut eorum ordinem reperiret, in decem primis sermonibus prima rerum genera significantibus omne quicquid illud vel rerum vel sermonum poterat esse, collegit. Sed Aristoteles hactenus. Speculatus autem Porphyrius si categoriae genera sunt rerum, rerum vero sermonumque diversitas speciebus, differentiis propriisque insigniretur, videns etiam quod accidentium in categoriis magna vis esset -- omnes enim res Aristoteles in duas primum dividit partes, in accidens atque substantiam, et accidens in novem membra dispersit dicens aut substantiam esse quamcumque illam rem aut si accidens esset, quoniam aut qualitas aut quantitas aut ad aliquid aut ubi aut quando aut iacere aut habere aut facere esset aut pati -- praelibat igitur nobis Porphyrius ad horum verissimam cognitionem hoc de generibus, speciebus, differentiis, propriis accidentibusque tractatu. Sic igitur cum ante apodicticam dialecticamque rem syllogistica praelegatur, ante syllogisticam in propositionibus primus labor sit, ante propositiones in categoriis pauca desudent, ante categorias quae generibus, speciebus, differentiis, propriis accidentibusque censentur, ordo est de his ipsis rebus pauca praelibare. Recte igitur et filo lineae quodam hic Porphyrii liber primus legentibus studiorum praegustator et quodammodo initiator occurrit. Quodsi in hac re quod dictum est sat est, rem etiam de inscriptione confecimus. Quo enim alio melius quam introductionis nomine nuncuparetur hic liber? Est namque ad Categorias Aristotelis introitus et quaedam quasi ianua venientes admittet. Tunc Fabius: Perge, quaeso te, et si eius hoc proprium germanumque opus est collige. ÑHoc, inquam, indubitatum est, omnibus enim Porphyrii libris stilus hic convenit. Et mos hic Porphyrio est, ut in his rebus quae sunt obscurissimae, introducenda quaedam et praegustanda praecurrat, ut alio quodam libro de categoricis syllogismis fecit et de multis item aliis quae in philosophia gravia illustriaque versantur. Et hoc apud superiores indubitatum est, quibus nos nolle credere inscitia est. ÑTunc Fabius: Restat, inquit, ut ad quam partem philosophiae ducatur, edisseras. Ego dicam tibi. Quoniam categoriae ad propositiones aptantur, syllogismi de propositionibus componuntur, apodictici vero vel dialectici syllogismi in logicae artis disciplina vertuntur, constat quoque categorias, quae ad propositiones syllogismosque pertinent, logicae scientiae esse conexas. Quare introductio quoque in categorias ad logicam scientiam convenienter aptabitur. Quoniam ea quae praedicuntur explicui, nunc textus ipsius ratio atque ordo videatur. Tunc Fahius: Priusquam explanatio sensus procedat, id scire desidero, cur cum posset dicere 'cum necessarium sit', praeposterato ordine cum sit necessarium dixit. Et ego: Quoniam, inquam, nullum accidens est, quod non substantiae fundamento nitatur. Porro autem quicquid ad cuiuslibet superiecti firmitatem est, id antequam ipsum esset, fuisse necesse est. Ut enim in domibus, nisi prius fundamenta subicias, nulla umquam fabrica, sic, nisi prius substantiae fundamenta sint, nulla umquam accidentia superponentur. oportet enim prius esse aliquid, ut formam qualitatis arripiat, nam 'necessarium' qualitas est. Non absurde igitur prius 'esse' posuit, post etiam 'necessarium', id est post substantiam qualitatis nomen aptavit. Hic Fabius: Subtilissime, inquit, et lucide sed nunc ordo ipse operis testusque videatur. CUM SIT NECESSARIUM, MENANTI, SIVE AD ARISTOTELIS CATEGORIAS SIVE AD DEFINITIONIS DISCIPLINAM, NOSSE QUID GENUS SIT QUIDVE SPECIES, QUID DIFFERENTIA, QUID PROPRIUM, QUID ACCIDENS, OMNINO ENIM AD EA QUAE SUNT DIVISIONIS VEL QUAE PROBATIONIS, QUORUM UTILITATIS EST MAGNAE COGNITIO, BREVITER TIBI EXPLICARE TEMPTABO. QUAE APUD ANTIQUOS QUIDEM ALTE ET MAGNIFICE QUAESTIONUM GENERA PROPOSITA SUNT, EGO SIMPLICI SERMONE CUM QUADAM CONIECTURA IN RES ALIAS ISTA EXPLICABO MEDIOCRITER. Nunc ego: Praediximus quidem pauca superius sed vel his quaedam addere vel haec eadem rursus commemorare absurdum esse non arbitror. Totus autem sensus talis est. Scribens ad Menantium de utilitate libri summatim pauca praedixit, quo elucubratior animus auditoris exercitatiorque ad haec capienda perveniat. Prodesse autem ad Aristotelis Categorias dicit, quod, cum omnem sermonum significantium varietatem diversa rerum summa divideret et in substantiam atque accidens omnes res secaret atque dispergeret, accidens in novem secuit partes, quod superius demonstravi, et haec genera generalissima nominavit, id est genikwutata, quod super ista alia genera inveniri non possint. Igitur si sunt genera, sine speciebus esse non possunt. Si sub his species supponuntur, differentiis non uacabunt. Quodsi differentias retinent, propriis indigebunt. Accidentis vero novem praedicamenta sunt. Quocirca non absurdum fuit hinc introductionem in Praedicamenta componi, ut de generibus, speciebus, differentiis propriisque tractaret, quae in ipsis Praedicamentis inseparabiliter videntur inserta. Amplius, quod Aristotelica subtilitas, priusquam ad praedicamentorum ordinem veniretur, de aequivocis univocisque tractavit, definit vero aequivoca sic: AEQUIVOCA SUNT QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO ALIA ut si qua sunt quae nomine tantum communicent, substantia vero dissimilent, univoca vero, quae sub eodem nomine et sub eadem substantia continentur. omne igitur genus ad species quae sunt sub ipso positae, univoce praedicari potest. Porro autem quicquid ad quaslibet res aequivoce praedicatur, in his sola differentia est, genus vero speciesque non convertitur. Animal enim et homo univocum est. Animal enim animalis nomine dicitur, porro autem nomini nomen etiam convenit animalis, ut dicatur animal: uno ergo nomine animalis homo et animal appellatur. Animalis vero definitio est 'substantia animata sensibilis': quam si ad hominem vertas, nihil absurdum feceris; potest enim esse homo substantia animata sensibilis sed animal genus, homo vero species. Univoce igitur genus et species praedicantur. Aequivoca vero quae fuerint, quoniam definitionibus differunt et eorum quorum definitiones aliae sunt, alia est etiam et substantia, quorum alia substantia est, alia sunt etiam omnino genera, in his, id est aequivocis, constat quod neque genus neque species possit aptari. Ut enim si quis hominem marmoreum et hominem vivum hominis nomine appellet, idem nomen fecerit substantiae, differentia vero definitioneque dissimili. Porro autem hominis et statuae non unum genus est sed statuae inanimatum, hominis animatum. Quare constat quoniam numquam sub eisdem generibus continentur quaecumque aequivoce praedicantur. Quam vim, nisi prius de generibus, speciebus, propriis et differentiis notitiam scientiamque perceperis, nullo umquam tempore discernes. Idem Aristoteles ait quid sint primae substantiae, quid secundae. Et primas substantias dicit esse individuorum corporum et singulorum, ut est Cicero aut Plato aut Socrates, secundas vero substantiis species appellavit, ut est homo, vel genera, in quibus ipsae species continentur, ut est animal. Haec igitur nisi praelibata generis specieique cognitione sciri non possunt. Idem ait substantiam ad aliam substantiam in eo quod substantia sit, nulla differentia disgregari. Idem substantiae proprietates requirit, ut quasi inpresso aliquo signo, sic proprietate nota facilius quid substantia sit invenire atque expedire possimus. Atque hoc idem in accidentibus fecit. Nam et quantitatis et qualitatis et ad aliquid relationis propria collegit, et idem magna apud Aristotelem cura diligentiaque conspicitur. Videsne ut sese quinque harum rerum vis in categorias interserat et praedicamentorum virtutibus inseparabiliter colligetor? non mendax igitur Porphyrius de hac quinque harum rerum nobis in Categorias utilitate promisit. Definitionis vero disciplinam superius diximus praeter genela, species, differentias et propria non posse tractari. Sed quoniam sunt quaedam genera quae genus habere non possunt, ut est substantia vel alia quae Aristoteles in praedicamentis constituit. Dicat quis ad haec horum cognitionem nihil omnino prodesse. Quod non sit in his a genere trahenda definitio in quibus genus inveniri non possit, quod, si qua res genus non ƿ haberet, species non esset; hoc ita posito ad generalissimarum generum definitionem nihil genera et species utilitatis habere. Ridicula mehercule atque absurda propositio! Praeter scientiam enim generum specierumque magis genera illa generalissima cognoscere qui potis est, cum, haec sola generum specierumque cognitio si amissa sit, nihil de generibus speciebusque noscatur? In illis igitur in quibus genus aliud superius inveniri non potest, nullus umquam terminus definitionis aptabitur et in ipsius definitione genera speciesque cessabunt et solae differentiae propriaque illius terminum definitionis informant. Cum enim id quod dicis, ab aliis rebus omnibus adiunctis differentiis segregaveris et propriis inpressis formam eius figuramque monstraveris, genus quod invenire non poteris. Perquirere non labores. Sed in his species et genera non requiruntur in quibus, quod ipsa generalissima sint genera, genus inveniri non queat. Porro autem in his quorum genus est aliquid, nisi a genere definitio ducatur, finis eius definitionis vitiosa conclusione colligitur. Accidens vero ad definitiones nihil prodesse non dubium est. Definitio enim substantiam informare desiderat, accidens vero substantiam non designat. Accidens igitur in definitione nihil prodest. Est itaque necessaria generis specieique cognitio, ut si generalissima non sint quae quisque definiturus est, a genere definitionem trahat, si vero generalissima sint, ut genus quaerere, quod inveniri non potest, non laboret. Aeque enim vitiosum est vel in generalissimis genera quaerere vel subalternis generibus a generibus definitionem ducere supersedere. Differentiae vero et propria, vel si magis genera sunt vel si subalterna, maximam retinent utilitatem. Et quoniam ad definitiones quae pertinent quaedam dicta sunt, pauca etiam de his ipsis rationabilius subtiliusque colligemus. Sit genus animal, sit species homo, sit differentia rationale vel mortale, sit proprium risibile; accidens vero quoniam ad definitiones in commodum est, praetermittamus. Quisquis ergo speciem definit, ita genere ab aliis eam generibus separat, ut si quis dicat 'quid est homo?' 'animal' dicat. Dicens enim animal separavit hominem ab omnibus generibus quaecumque animalia non sunt. Si quis vero differentiam dicat et eam ad speciem accommodet, res sub eisdem generibus per differentias disgregavit. Nam cum dicis hominem esse animal rationale, eum etiam et bos et equus species animalis sint, additum tamen rationale homini ab aliis sub eodem genere speciebus hominis speciem segregavit atque distinxit propria vero cum dederis, res quae sunt sub eisdem differentlis segregabis. Nam cum dixeris hinnibile vel risibile, illud est equi proprium, illud hominis. Et cum equus cum bove atque cane sub eadem differentia sit, quod irrationabilia sunt omnia, adiectum hinnibile a caeteris equum sub eadem differentia speciebus dividit. Homo vero et deus sub eadem differentia, id est rationali, quod utrique rationales sunt, quamvis homo et deus adiuncta mortali differentia separentur, proprio tamen, id est risibili, quod solus habet homo, naturalius ƿ substantialiusque disiungitur. Quod in aliis rebus in quibus nullas species talis differentia separat, melius cognosci potest. Nam cum sub eadem differentia sint irrationabilia, equus, bos, canis, nec sit ulla alia quae eos separet differentia substalltialis -- possunt enim accidentis differentiae esse quae eos separent, quales sunt formarum -- additum proprium hinnibile equum ab aliis sub eadem differentia speciebus proprietatis ipsius separatione disiunxit. Repetendum est igitur a primordio quod genera in definitionibus ab aliis generibus separant, differentiae ab ipsis speciebus quae sub eisdem generibus positae sunt, propria ab speciebus quae sub eisdem differentiis supponuntur. Sed quoniam plenede definitione tractatum est, probationis vel divisionis vim subtilitatemque tractemus. Sed omnis divisio duplex est, aut cum totum corpus in diversa disiungis aut cum genera per species distribuis. Si quis igitur harum quinque rerum minus sollers divisiones rerum facere voluerit, non est dubium quin eas per inscientiam saepe ab speciebus in genera solvat, quod est factu foedissimum. Quod Hermagorae in prima Rhetoricorum disputatione usu venit. In tales enim erroris nebulas incidit, ut duo genera sub aequalis generis parte supponeret. Quodsi divisionum vim veritatemque vidisset et disciplinam generum, specierum, propriorum et ƿ differentiarum suscepisset, numquam tam insulsae divisionis errore tam vivacissime a Marco Tullio culparetur. In probationibus vero tantus est huius operis fructus, ut praeter hoc nullius umquam rei possit provenire probatio. Quid enim digne monstrare queas, cuius si differentias nescias, id ipsum quale sit scire non possis? Quid autem digne exequeris, cuius si genus nescias, ex quo id ipsum fonte manet ignores? vel quid in probationibus ratione possis ostendere, cuius si speciem nescias, id ipsum de quo aliquid probare vis, quid sit non possis agnoscere? Quodsi propria praetermittas, nullas umquam res valebis propriae termino probationis includere. At vero si non vim accidentium naturamque perspicias, cum de cuiusque substantia tractes, inane accidentis nomen aeque in definitionibus probationibusque miscebis. Ita his rebus cognitis integra stabilisque divisio et definitio permanebit, incognitis debilis lababit et trunca probatio. Haec se igitur Porphyrius, non enim Victorinus, breviter mediocriterque promittit exponere. Nec enim introductionis vice fungeretur, si ea nobis a primordio fundaret ad quae nobis haec tam clara introductio praeparatur. Servat igitur introductionis modum doctissima parcitas disputandi, ut ingredientium viam ad obscurissimas rerum caligines aliquo quasi doctrinae lumine temperaret. Dicit enim apud antiquos alta et magnifica quaestione disserta quae ipse nunc parce breviterque ƿ composuit. Quid autem de his a priscis philosophiae tractatoribus dissertum sit, breviter ipse tangit et praeterit. Tunc Fabius: Quid illud, inquit, est? Et ego: Hoc, inquam, quod ait se omnino praetermittere genera ipsa et species, utrum vere subsistant an intellectu solo et mente teneantur, an corporalia ista sint an incorporalia, et utrum separata an ipsis sensibilirbus iuncta. De his sese, quoniam altior esset disputatio, tacere promisit, nos autem adhibito moderationis freno mediocriter unumquodque tangamus. Eorum ergo quae se transire et praetermittere pollicetur, prima est quaestio, utrum genera ipsa et species vere sint an in solis intellectibus nuda inaniaque fingantur. Quae quaestio huiusmodi est. Quoniam hominum multiformis est animus, per sensuum qualitatem res sensibus subiectas intellegit et ex his quadam speculatione concepta viam sibi ad incorporalia intellegenda praemunit, ut cum singulos homines videam, eos quoque me vidisse cognoscam et quia homines sint, me intellexisse profitear. Hinc igitur ducta intellegentia velut iam sensibilium cognitione roborata sublimiori sese intellectu considerationis extollit et iam speciem ipsam hominis, quae sub animali est posita, et singulos homines continere suspicatur et illud incorporeum intellegit cuius aote particulas corporales in singulis hominibus sentiendis et intellegendis assumpserat. Nam hominem quidem illum specialem, qui nos ƿ omnes intra sui nominis ambitum cohercet, non est dicere corporalem, quippe quem sola mente intellegentiaque concipimus. Sic igitur mens rerum nixa primordiis altiori atque incomparabili intellegentia sublimatur. Hinc ergo animus non solum per sensibilia res incorporales intellegendi est artifex sed etiam fingendi sibi atque etiam mentiendi. Inde enim ex forma equi vel hominis falsam Centaurorum speciem sibi ipsa intellegentia comparavit. Has igitur mentis considerationes quae a rerum sensu ad intellegentiam profectae vel illtelleguntur vel certe finguntur, fantasiva" Graeci dicunt, a nobis visa poterunt nominari. Ita ergo nunc de generibus, speciebus et caeteris quaerunt, utrum haec vere subsistentia et quodammodo essentia constantiaque intellegantur, ut a corporalibus singulis vere atque integre ductam hominis speciem intellegamus, an certe quadam animi imaginatione fingantur, ut ille Horatii versus est: HUMANO CAPITI CERUICEM PICTOR EQUINAM IUNGERE SI VELIT  quod neque est neque esse poterit sed sola falsa mentis consideratione pingitur. Nimis acute subtilis inquisitio atque ad rem maxime profutura! Scienda enim sunt utrum vere sint nec esse de his disputationem considerationemque, si non sint. Sed si rerum veritatem atque integritatem perpendas, non est  dubium quin vere sint. Nam cum res omnes quae vere sunt, sine his quinque esse non possint, has ipsas quinque res vere intellectas esse non dubites. Sunt autem in rebus omnibus conglutinatae et quodammodo coniunctae atque compactae. Cur enim Aristoteles de primis decem sermonibus genera rerum significantibus disputaret vel eorum differentias propriaque colligeret et principaliter de accidentibus dissereret, nisi haec in rebus intimata et quodammodo adunata vidisset? Quod si ita est, non est dubium quin vere sint et certa animi consideratione teneantur. Quod ipsius quoque Porphyrii probatur assensu. Nam quasi iam probato et scito quod ista vere subsistant, aliam quaestionem inferre non dubitat, cum dicit: an corporalia ista sint an incorporalia. Quae nimis esset frivola atque absurda quaestio, utrum essent corporalia, nisi prius esse constaret. Haec quoque non mediocriter utilis inquisitio ita resolvitur: incorporalia esse quae ipsa quidem nullis sensibus capiantur, animi tamen qualia sint consideratione clarescunt. Nam quia incorporeorum prima natura est, potest res incorporea parens esse quodammodo corporeae. Corporea vero incorporeis praeesse non poterunt, quod, quoniam substantia genus est, corporale vero et incorporale species substantiae, corporale non esse genus haec res declarat, quod substantiae, id est generi, incorporale supponitur. Quodsi corporale esset genus, numquam sub eo species incorporea poneretur. Animadverte igitur vehementissime, quam numquam ƿ quicquam a te animadversum fuit. Genus ipsum quoniam species habet, species vero differentiis disiunguntur et proprietatibus informantur, quoniam quaedam species reperiuntur quae in contraria sub genere divisione contrarias obtineant vices, ut sub animali rationale atque irrationale contraria sunt et sub rationali mortale atque immortale et haec quoque contraria, quaeritur, si animal solitario intellectu neque rationale neque irrationale sit, unde hae differentiae in speciebus natae sint, quae in genere ante non fuerant. Quodsi genus, id est animal, utrasque res in se habet, ut et rationale et irrationale sit, in uno eodemque duo contraria eveniunt, quod est impossibile. Accingam igitur breviter quaestionem et dicam quod non genus utrumque sit, id est rationale vel irrationale, vel quicquid aliud inter se species per contrarietates dividunt sed vi sua et potestate genus, hoc continet, ipsum vero nihil horum est. Ita ergo genus tale est, ut ipsum neque corporale neque incorporale sit, utrumque tamen ex se possit efficere, quod secundo libro melius liquebit. Species alias corporalis, alias incorporalis est. Nam si hominem sub substantia ponas, corporalem speciem posuisti, sin deum, incorporalem. Eodem modo etiam differentiae. Nam si corporales vel incorporales ƿ species dividunt, erunt alias incorporales, alio tempore corporales, ut si dicas 'quadrupes' ad bipedem, corporalis differentia est sed 'rationalis' ad irrationalem, incorporalis differentia est. Et propria nihilominus eodem modo. Nam aequale speciei proprium fuerit: si corporalis, corporale erit proprium, si incorporalis, incorporale vindicabitur. Et accidens eodem modo. Nam si incorporalibus quid accidit, incorporale esse manifestum est, ut in animo accidens est scientia, incorporalis scilicet, corporalibus vero quae accidunt, corporalia esse manifestum est, ut si quis dicat accidens me habere capillum crispum. Si igitur genus neutrum per se ipsum est sed utrasque res es se ipso efficere potest, species, differentia, propria et accidentia ut accepta in contrarias species fuerint, proinde vel corporalia vel incorporalia vocabuntur. Sed sunt quibus hoc ipsum integrum videri possit, et haec solum incorporalia esse definiunt. Qui sic dicunt, non considerari genus in eo quod quaeque res suapte natura constat sed in eo quod genus sit. Itaque si substantia genus est, non consideratur in eo quod substantia est sed in eo quod sub se species habet. Item si species corporeum et incorporeum est, non in eo quod deus vel homo dicitur, consideratur sed in eo quod est sub genere. Eodem modo etiam differentiae non cons'iderantur in eo quod bipes vel quadrupes sit sed in eo quod est differentia. Nam quadrupes hoc ipsum nulla differentia est, nisi sit bipes a quo differat. Itaque non quadrupes vel bipes respicitur sed id quod medium est in bipede et quadrupede, id est differentia: et de proprio idem. Nam quod cuiusque est proprium, in eo proprium consideratur quod eius cuius dicitur esse proprium speciei solius est. Nam 'risibilis' non in eo proprium hominis quod risus est sed in eo quod solus homo potest ridere. Quae manifeste incorporalia esse indubitatum est. Deinde accidentia proinde sunt, qualia fuerint ea quibus accidunt, ut superius dictum est. Sed hi probare videntur hoc ipsius Porphyrii sententia, qui, veluti iam probato quodi ncorporea sint, ita ait: ET UTRUM SEPARATA AN IPSIS SENSIBILIBUS IUNCTA, quod, si esse haec aliquando corporalia extitisset, absurdum esset quaerere utrum incorporalia seiuncta essent a sensibilibus an iuncta, cum sensibilia ipsa sint corpora. Talis autem est quaestio, ut quoniam quaedam incorporales sunt res, quae omnino corpora non patiuntur, ut ƿ animus vel deus, quaedam vero quae sine corporibus esse non possunt, ut prima post terminos incorporalitas, quaedam autem quae in corporibus sunt et praeter corpora sese esse patiuntur, ut anima -- quaeritur ergo hae quinque res ex quo incorporalitatis sint genere, utrum eorum quae omnino separantur a corpore an quae a corporibus separari non possunt an quae iungantur aliquotiens, aliquotiens segregentur. Videtur autem quod et segregari et iungi possint. Nam quando corporalium divisio per genera in species fit et eorum propria et differentiae nominantur, haec circa sensibilia, id est corporalia esse non dubium est; cum vero de incorporalibus rebus tractatus habetur et per ea ipsa dividuntur quae corpore carent, circa incorporalia versantur. Quodsi boc est, non est dubium quod quinque haec ex eodem sunt genere, quod et praeter corpora separata esse possint et corporibus iungi patiantur sed ita, ut si corporibus iuncta fuerint, inseparabilia a corporibus sint, si vero incorporalibus, numquam ab incorporalibus separentur et utrasque in se contineant potestates. Nam si corporalibus iunguntur, talia sunt, qualis illa prima post terminos incorporalitas, quae numquam discedit a corpore, si vero incorporalibus, talia sunt, qualis est animus, qui numquam corpori copulatur. Haec sese igitur Porphyrius tacere pollicitus breviter ƿ mediocriterque super his rebus tractare promittit habita in res alias consideratione aut coniectura, quod simile est ac si diceret: quoniam haec ad praedicamenta et ad definitiones et ad divisiones et ad probationes pertinent, ideo haec tractaturus assumo et eatenus de his disseram, quatenus in supra dictis rebus proficiunt, non quatenus de his ipsis generibus speciebusque et caeteris tractari possit. SUNT ENIM ILLA, ut ipse ait, GRAVIORIS TRACTATUS; QUAM DOCTRINAM A PERIPATETICIS ACCEPTAM, id est ab Aristotelicis, SE SEQUI confessus est. Nam Stoici, qui de his quoque rebus tractare voluerunt, non omnino a Porphyrio suscipiuntur, atque ideo ait se a Peripateticis rationem disputationis accipere. Tunc me Fabius ita percunctatus: Quid est, inquit, quod dudum dixeras, cum a te de incorporalibus tractaretur, esse quasdam incorporalitates quae circa corpus semper consisterent, ut sunt primae incorporalitates post terminos? Quae est haec incorporalitas aut quos terminos dicis? Non enim intellego. ÑEt ego: Longas, inquam, tractatus est et nihil nobis ad hanc rem quam quaerimus profuturus. Sed dicam breviter terminos me dixisse extremitates earum quae in geometria sunt figurarum, de incorporalitate vero quae circa terminos constat, si Macrobii Theodosii doctissimi viri primum librum quem de Somnio Scipionis composuit in manibus sumpseris, plenius uberiusque cognosces. Sed nunc ad sequentia transeamus. Tunc Fabius: Ut placet, inquit, simulque sic incipit: VIDETUR ENIM NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER APPELLARI, ID EST UNO MODO. GENUS NAMQUE DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO, PER QUAM DARDANIDUM DICITUR GENUS. DICITUR RURSUS GENUS UNIUSCUIUSQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE AUT AB EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Caetera, inquit, fere nota sunt. Tunc ego: Si vim prius aequivocationis aspicias, divisionem generis diligenter agnosces. Placet enim per generis nomen cum sibi subectis aequivoca nominare. Aequivoca vero sunt quae, cum nomine una sint, longe diversa substantiae ratione et definitione discreta sunt, ut si quis hanc verbi gratia statuam Veneris <Venerem> appellet. Congruunt igitur Venus ipsa et statua Veneris unius nuncupatione vocabuli, quod utrisque Veneris nomen est. Si quis vero qui sit utrumque definiat, longe aliam Veneris, aliam lapidis rationem definitionemque constituet. Speciebus igitur illa esse aequivoca quae uno vocabulo appellentur, definitionibus vero diversis ƿ constituantur, clarescet, ut opinor, participatione generis quam Porphyrius fecit, non Victorinus, visa. Omne enim quicquid a genere in species ducitur, univocum. non aequivocum est. Univocum est quod et eodem nomine vocari et eadem definitione constitui potest, ut est animal genus, homo vero species sed idem homo animal est. Genus igitur et species, id est animal atque homo, possunt unius animalis nomine nuncupari, ut utrumque animal vocetur sed eadem definitionibus non discrepent. Nam si definitionem reddas animalis, dicas id esse animal quod est substantia animata sensibilis; quam si definitionem ad hominem vertas, non erit absurdum dicere hominem substantiam esse animatam atque sensibilem sicut animal, sicut iam superius dictum est. Si enim univoca sunt quae uno nomine atque eadem definitione constituuntur, aequivoca vero quae uno nomine sunt et non sunt una definitione substantiae, quicquid univocum est, in his genera speciesque versantur, quicquid aequivocum est, non est in eis talis participatio, ut speciebus et generibus censeantur quae enim erit in his generis specieique cognitio, in quibus substantiae definitio atque integerrima ratio disgregatur? Ita ergo Porphyrius nomen generis ƿ in tres dividit formas sed ut aequivoca, non ut univoca, id est ut hae formae uno quidem generis nomine contineantur, sui autem proprietate disgregata dissentiant. Sed Porphyrius nomen generis hoc modo in tres dividit partes, ut dicat vocari semel genus de eorunr inter se plurimorumque collectione qui ab uno quocumque nomen generis trahunt, ut Romani a Romulo trahentes genus ex eodem genere esse dicuntur. Secundo vero loco dici genus affirmat, ut cuiuscumque est nationis principium aut a generante aut a loco in quo quis natus est, ut Aeneam ab Anchisa et genere dicimus esse Troianum. TERTIUM VERO GENUS DICIT ILLUD CUI SPECIES SUPPONITUR. Victorinus vero duo superiora genera in unum redigit. Nam et multitudinis congruentiam inter se per eandem generis nuncupationem et quorumcumque a genere lineam et locum in quo quis natus est, uno generis vocabulo et designatione esse declarat. Addit autem ipse quod soli Latinae linguae congruere possit: dicit enim SECUNDO MODO GENUS DICI. UT EST GENUS CAUSAE HONESTUM. Quae genera causarum Graeci in rhetorica arte genera esse non putant sed schumata vocant id est figuras, genera autem sola principalia accipiunt, demonstrativum, deliberativum scilicet et iudiciale. Quae ipsa ƿ ei[dh rIhtorikh`" vocant, id est species rhetoricae, genera vero causarum. Tertium vero genus est id quod Porphyrius ponit, id est sub quo differentiis distributae species supponuntur. Sed quoniam de tertio genere tractaturus est, Victorini culpam vel, si ita contingit, emendationem aequi bonique faciamus. Nunc ergo ad priorem apud Victorinum generis significationem reuertamur et eius ut sunt verba enodanda atque expedienda sumamus. GENUS NAMQUE inquit DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO. Hic ergo utrumque monstravit, et cognationem inter se multitudinis et lineae ductum. Nam cum dicit genus esse quorundam collectionem ad se invicem quodammodo habentium, id est aliqua inter se cognatione, iunctorum, et quod addidit ET AD ALIQUID, generis lineam significat, quam singuli contingentes et ad unum sese ipsius generationis applicatione iungentes plures ex eadem linea iuncti atque cognati sunt, ut sit hic ordo: genus dicitur quorundam collectio quodammodo ad aliquem habentium, id est alicuius lineam per genus contingentium, ut per collectionem cognationem demonstret et per habitudinem quodammodo ad aliquem colligatam lineam generis ductumque designet. Sequitur ergo et id planius lucidiusque significat, cum dicit: DICITUR RURSUS GENUS CUIUSCUMQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE ƿ AUT AB EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Id ipsum latius expedit quod superius stricto et sentuoso brevitatis vinculo colligaverat. Dicit enim rursus dici genus aut a generante aut a loco in quo quis natus est. Sed rursus particula si ad hoc conectatur quod ait aut ab eo in quo quis genitus est, intellectus non titubat, ut sit ordo: dicitur genus uniuscuiusque nativitatis principium aut a generante aut rursus ab eo in quo quis genitus est. Vel certe erit simplicior expositio. Si priorem generis significationem, id est quorundam ad aliquem quodammodo habentium collectionem, ad solius cognationem multitudinis accipiamus, lineae vero ductum et loci generationem in subteriore significatione distribui, ita tamen, ut una quodammodo generis significatiolle et multitudinis cognationem et a generante lineam et loci nativitatem significet. Haec enim omnia de sola cuiuslibet natione tractantur. Quare non absurdum est quae omnia ad ortum genitalem cuiuslibet pertineant. Una significatione generis contineri. Propriae tamen et simplicissimae expositionis est quattuor significationes generis constituisse Victorinum, ut ad tres Porphyrii unam ipse addiderit generis causae, ut sint hae quattuor significationes, multitudinis cognatio, lineae ductus, genus causae, genus specierum. Sequitur secunda generis divisio apud Victorinum UT EST GENUS CAUSAE: quae Graeci, ut dictum est, Non genera sed schumata vocant. Tertiae vero significationis generis, hic modus est GENUS DICI CUI SUPPONITUR SPECIES, id est genus illud a quo species derivantur, quod ait ad superiorum fortasse similitudinem aequitatemque dispositum. Sic enim genus speciebus suis principium est, ut Romulus his, qui ab eo cognati sunt iunctique Romani item eodem modo nomen Romuli Romanos omnes continet, quemadmodum nomine generis species continentur. Nam sicut a Dardano Dardanidae prioris nomen Dardani in sese ipsos posteriores accipiunt, ita et animal cum verbi gratia species habeat hominem atque equum, equus scilicet atque homo animalis in se vocabulum capere, ut dicantur ipsa animalia non recusant. Eodem igitur modo species sub generibus continentur, quemadmodum cognati homines sub illo a quo illam cognationem forte traxerunt. Nam et genus speciebus principium est et plurimarum in se specierum collectivum est. Rursus primum cognationis nomen et ipsius generationis est principium et in illius solius vocabulo diversitas hominum vocabuli et generis participatione colligitur, atque hoc est quod ait his verbis: ALITER DICITUR GENUS CUI SUPPONUNTUR SPECIES, IUXTA SIMILITUDINEM FORTE SUPERIORUM APPELLATUM ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST GENUS HIS QUAE SUB IPSO SUNT ET VIDETUR MULTITUDINEM CONTINERE OMNIUM QUAE SUB SE SUNT. Sed cautissime additum est videtur. Si enim nihil haec omnia distarent, una significatio generis esset et ea quae in species funditur et ea quae in cognatione dividitur. Sed est inter haec ƿ genera talis diversitas, quod genera earum specierum quae sub se habent alias species, aequaevis speciebus aequaliter sunt genera. Hominem enim et equum, qui sub animali sunt, neutrum neutro possumus dicere prius ad tempus inchoationemque nascendi. Nam si qua res una sit prior, altera posterior et eas sub uniuscuiusque generis nomine quis velit aptare, non poterit; genus enim speciebus suis aequaliter genus est. Quodsi genus speciebus suis aequaliter genus est, species ipsae eius ordinis inter se aequali tempore ortuque censentur. At vero in generibus quae cognationes efficiunt, non ita est. Quisquis enim fuit Capis pater, qui Capuam condidit, si solum filium Capin progenuit et ab uno Capuanorum cognatio iunctioque cuncta manavit, distat a genere cui species supponuntur, quod genus uni speciei genus numquam esse potest nisi pluribus, quod quoniam est idoneum genus illud, id est principium cognationum, etiam ab uno filio colligere et congregare cognationem, quod genus per species ductum facere non potest, nisi plures species supponantur, constat in hoc distare genus quod cognationem colligit, ab eo a quo species dividuntur. Potest autem distare in hoc etiam, quod genus, id est principium cognationis, potest habere sub se duos ex se non aequali temporis conditione progenitos sed alium posterioris ortus, alium vero senioris, quod in generibus speciebusque non convenit. Nam, ut ƿ superius dictum est, species nisi sibi aequales fuerint, non merito sed natura, sub genere poni non possunt. His igitur expeditis sequitur: TOTIENS IGITUR DE GENERE DICTO DE POSTREMA SIGNIFICATIONE INTER PHILOSOPHOS DISPUTATIO EST, QUOD DEFINIENTES ITA DECLARANT -- Quod dicit TOTIENS, tertio demonstrare vult atque hoc propter lucidam operis seriem admissum est, ut, quoniam genus plurimorum nomen est, omnis eius primum significatio diceretur, ut de qua disputandum esset, aliis reiectis eligeret. Quod ait hoc modo: cum totiens, id est tertio, genus dicatur, apud philosophos, id est unde ipse tractaturus est, de postrema generis significatione quam dixit, id est de illo genere quod sub se species habet, disputatio consideratioque vertitur. At vero de superioribus generibus id est de cognatione et loco in quo quis genitus est, aut historicorum aut poetarum spectatio est secundi vero generis rhetorum, tertii philosophorum consideratio est. Etiam hic in disputationibus ordo est, quod, cum inciderent res quae multis possit nominibus nuncupari et de unoquoque eorum vocabulo tractari disserique, necesse est dici prius in ordinem omnia, ut id quod eligitur et reicitur distinguatur. Sed illa quae reicienda atque explodenda sunt, prius dicantur, illud vero quod disserendum tractandumque, ƿ capitur, posterius nominetur, ut hic illa posterior generis significatio posita est, quam disserendam accepturus prius definiendam et termino quodam circumscribendam demonstrandamque suscepit. Omnis enim res, nisi quid prius sit constiterit. Eius tractatus uacuo modo speculationis habebitur. Definit igitur sic: genus esse quod ad plures differentias specie distantes in eo quod quid sit praedicatur, velut animal. Quod definitionis talis est. Omnia quae distant, habent inter se quandam differentiam qua distare et differre videantur. Porro autem si quid sit genus et sub eo species supponantur, duas vel plures necesse est species poni sub genere, quoniam unius speciei genus esse non potest. Sed si plurimae species erunt, aliqua necesse est differentia dividantur, aliter cnim plures esse non possunt. Nam si nihil distent, non erunt plures species et nomen generis perit. Constat igitur eas sub genere poni species quae differentiis distributae plures numero ipsarum differentiarum divisionibus componantur. Ergo, quoniam superius dictum est in omnibus definitionibus a genere definitionis trahendum esse principium, si quam cuiuslibet speciem definile volueris, genus primo necesse est nominabis et ad illam speciem quam definis, generis ipsius nomen prius aptabis. Et hoc illam principaliter dicis esse, quod est illud genus sub quo ipsa species quam definis est posita. Post autem differentiis propriisque eam ab aliis circumscriptione quadam definitionis ƿ excludis. Nam si dicis animal esse hominem, animal genus est, species vero homo. Nomen igitur animalis, id est generis, de homine, id est specie, praedicasti, cum dixeris hominem esse animal. Quodsi nomen generis in definitionibus ad unam speciem dicere posses, de ea nomen generis praedicares. Species autem aequali modo generibus suis species sunt, nihil uetat, immo etiam necesse est semper quaecumque sunt genera, de sibi subiectis speciebus in definitionibus vel in quibuslibet interrogationibus praedicari. Sed quoniam praedicatur genus de speciebus, quomodo praedicetur agnoscendum est. Nam si dixeris: quid est homo? Et aliquis responderit animal, bene et integre respondisse videtur, et certe. Nam cum tu quid sit homo interrogaveris, ille respondit animal, genus scilicet de specie in eo quod quid sit species praedicavit. Nam tu quid esset species interrogasti, ille vero in eo quod quid sit species quam interrogasti, animalis nomen, id est generis accommodavit. Plena igitur et propria definitio facta est generis, 'hoc esse genus quod ad plurimas differentias specie distantes in eo quod quid sit appellatur, velut animal'; animal enim ad hominem, equum, bovem, coruum, anguem et alia plura quae differentiis speciebusque differunt, in eo quod quid sit appellatur. Sed utrum sic dixisset, genus esse quod ad plurimas species differentia distantes in, eo quod quid sit praedicetur, an, sicut dixit, 'genus esse quod ad plurimas differentias specie distantes in ƿ eo quod quid sit praedicatur', nihil interest. Nam sive differentiae specie distent sive species differentiis distent, utrumque idem est. Nam sive rationale et irrationale, quae sunt differentiae, specie hominis verbi gratia atque equi distent, sive species homo atque equus differentia rationali atque irrationali dividantur et distent, nihil interest. Quare plena perfectaque facta est generis definitio. Sed definitiones duplicibus modis fiunt. Una enim definitio est quae, sicut dictum est, a genere trahitur. Sed quoniam sunt quaedam magis genera, quae super se genus aliud habere non possunt, ut sunt praedicamentas decem quae Aristoteles constituit, eorum igitur definitio quae haberi potest quorum genus inveniri non potest, quod omnium quaecumque sunt, ipsa sunt genera? horum ergo quos Graeci vipografikou;" lougou" dicunt, Latini subscriptivas rationes dicere possunt, reddemus. Subscriptivae autem rationes sunt demonstrativae et quodammodo insignitivae proprietatis illius rei quae cum ipsa generalissima sit et genus eius nullum reperiri possit, eam tamen definire necesse est. Et Aristoteles, quoniam substantiam genus generalissimum definire volebat et eius nullum genus poterat invenire, proprietatem quandam et demonstrationem subscriptionemque ipsius rei dixit esse subiectum. Substantia enim omnibus subiecta est. Accidens enim, quod in novem ƿ dividitur partes, praeter substantiam esse non potest. Atque ideo omnia quaecumque definienda sunt, si genus non habeant, eorum subscriptivam quandam et demonstrativam rationem reddi necesse est. Sic igitur nunc generis, quoniam rem ipsam definiendam putabat, non duxit a genere definitionem sed dedit quandam generis demonstrationem proprietatemque. Dico autem quod Porphyrius vel subalternorum generum vel illorum quae generalissima sunt, hanc dederit definitionem et quodammodo subscriptionem demonstrationemque. Nam si quod genus habeat aliud genus et item hoc ipsum aliud et item aliud si nullum erit supra genus quod genus non habeat, in infinitum procedit ratio. Sin vero non habuerit, necesse est quoque istam definitionem apte ordinateque congruere. Dico autem genus non animal homini atque equo sed illud quo ipsum animal homini atque equo genus est. Animal enim ipsum per sese nulli genus est neque homo ipsum per sese ulli species est neque equus ipsum per sese ulli species est sed sunt genera et species ad alterius participationem. Nam quoniam sub animali est equus atque homo, non ad se ipsum animal genus est sed ad equum atque hominem. Et item species quae vocantur, homo scilicet atque equus, non ad equum atque hominem sed ad animal, species sunt. Dico igitur genus <et species> non ipsas substantias in quibus genus et species sunt. Sed ipsam participationem priorum ad subteriores et subterioram ad priores. Haec igitur participatio quoniam et in magis ƿ generibus et in magis speciebus et in subalternis generibus et in subalternis speciebus una atque eadem est et huius participationis inveniri genus non poterat. Haec definitio generis quae facta est, non a genere tracta est sed subscriptiva ratio et demonstrativa et designatitla quodammodo generis est reddita. Hic Fabius: Subtiliter mehercule et quod numquam fere ante haec audivimus. Sed perge, quaeso te. Iam enim certant sidera quodammodo et nox luce superatur. ÑTunc ego: Sequitur rerum omnium prima brevisque divisio. Ita enim ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD UNITATEM DICUNTUR, SICUT SUNT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD, ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS SUNT. Brevis, ut supra dictum est, et distincta divisio. Omnis enim res aut unius rei nomen est aut plurimarum, et hoc est quod ait: eorum quae dicuntur, alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia individua. Quid autem sit, breviter explicandum est. Omne genus quoniam sub se ƿ species habet, species vero differentiis distinguuntur et proprietatibus explicantur -- accidunt autem in speciebus accidentia secundo loco, principaliter vero in individuis quae sunt sub speciebus. Quid autem sit, posterius dicendum est -- genera igitur et de speciebus dicuntur et de differentiis, quae ipsas species distribuunt, et de propriis. Quae species componunt. Et de his accidentibus quae, cum principaliter in individuis fuerint, in speciebus esse dicuntur. Hoc autem monstremus exemplis. Et sit nobis genus animal, sit species homo, sit differenti rationale, sit proprium risibile, sit accidens stans vel ambulans vel aliquid in mensura corporis, ut tripedalis. Animal ergo, quod genus est, dicitur de specie, id est de homine; dicis enim hominem esse animal. Porro autem de speciei differentia nihilominus dicis genus: dicis enim rationale esse animal. Nihil autem prohibet eodem modo et de proprio genus dicere. Nam si dicas: quid est risibile? non absurdum est animal nominare. Accidentia vero hoc modo principaliter in individuis, secundo vero loco in speciebus sunt. Nam si quis dicat ad singulos homines, ut puta Ciceronem sedere vel stare vel quod aliud libet, in specie hominis eadem quoque convenire necesse est. Nam si Cicero sedet sedet etiam homo, si Cicero ambulat, ambulat etiam homo. Ergo si qua accidentia venerint ab individuis et ea tracta in speciebus consederint, ad ipsa quoque accidentia dici poterit genus. Quid est enim ambulans, si quis interroget, merito animal dicitur. Nihil enim ambulare nisi animal potest. Porro autem sub speciebus individua sunt, ut Cicero et Virgilius sub homine, atque de individuo ƿ genus speciei praedicari potest. Nam si interrogaveris, quid est Cicero, merito animal dicas. Genus igitur et ad speciem et ad differentias et ad accidentia et ad propria et ad individua nominatur. Porro autem species non iam de genere neque de differentiis sed de solis propriis et subiectis individuis appellatur, in illis, id est individuis, quia superest. In propriis vero, quia aequalis est. Quid autem sit, hoc modo videamus. omnia genera speciebus suis supersunt et abundant. Abundare autem genera dicimus speciebus plus habere genera virtutis quam species. Homo enim quod est species, solum homo est, animal vero quod est genus, non solum homo est sed et equus vel bos vel quod aliud libet animali supponere. Ita maior vis generis recte de minori sibi et subiecta specie praedicatur. Alia vero sunt quae sibi sunt paria, ut sunt propria et species. Species est homo, proprium risibile. Quicquid ergo fuerit risibile, hoc est homo, quicquid homo, hoc risibile. Itaque neque risibile hominis neque homo risibilis potentiam superuadit sed aequalia sibi ad se invicem praedicari possunt, ut dicas: quid est homo? risibile; quid est risibile? homo. Ita igitur quaecumque superiora fuerint, ad illa quae subteriora sunt, praedicantur et quaecumque aequalia fuerint. Aequaliter sibi ad se invicem praedicantur. Illa vero quae subteriora sunt et minora, de superioribus et abundantibus, ut sunt genera et species -- genera enim abundantia, species minores -- praedicari non possunt. Numquam enim recte speciem de genere praedicabis. Ita ergo species de proprio praedicatur ut pari sed quoniam sub speciebus singillatim individua sunt -- individua autem vocamus quae in nullas species neque in aliquas iam alias partes dividi possunt, ut est Cato vel Plato vel Cicero et quicquid hominum singulorum est; hos enim in nullis partibus dividis, ut animal in species, hominem scilicet atque equum, hominem ipsum specialem et singulos circumplectentem in Catonem, Platonem, Virgilium et omnes singillatim homines distributos; hominem vero ipsum singulum, id est Ciceronem, in nullos alios distribuere possumus atque ideo a[tomon, id est individuum, vocitatum est -- species ergo, quae ad propria aequaliter praedicatur, ad individua, quoniam maior est species hominis quam quodlibet individuum, ita praedicatur, ut superius ad id quod est subterius. Cicero enim solus Cicero est, homo autem non solum est Cicero quod si ad individua praedicatur, et ad individuornm accidentia praedicabitur. Ita igitur species ad genus eo quod superius est, non praedicatur neque ad differentiam, quia differentia, ut nunc monstraturi sumus, super speciem est, ad proprium vero, cui par est, vel ad individuum, cui superest, praedicatur. Differentia vero et ad species et ad propria et ad individua praedicatur. Namque rationale, quod est differentia, ad hominem praedicatur, quod est species. Item rationale, id ƿ est differentia, praedicatur ad risibile, id est proprium. Dicitur enim id esse risibile, quod rationale. Nam si homo rational et homo risibile, constat id quod est risibile, etiam rationale posse nominari. Quodsi ad species differentia dicitur, species autem ad individua praedicatur. Necesse est ut differentia quoque ad individua praedicetur. Dicis enim: qualis est Cicero? rationalis. Quodsi differentia ad individua praedicatur, accidentia vero in individuis accidunt. Necesse est differentias et ad accidentia praedicari. Proprium vero quoniam semper unius speciei proprium est, et ad ullam speciem praedicatur solam. Cuius est proprium. Risibile namque, quod proprium est ad solam hominis speciem praedicatur. Quod si ad hominis speciem praedicatur. Species vero ad individua dicitur. Non est dubium quin proprium quoque de individuis praedicetur. Nam si homo risibile animal est, Cicero quoque et Virgilius risibilia animalia recte dicuntur. Quodsi proprium ad individua recte dicitur, recte etiam et de accidentibus praedicatur quae in ipsis accidunt individuis. Accidentia vero ipsa et de speciebus et de aliis omnibus praedicantur et de ipsis maxime individuis. Namque et albus equus et albus homo dicitur et iterum niger equus et niger Aethiops. Quod si ita est, animal quoque nigrum dicitur. Dicitur etiam rationale nigrum et irrationale nigrum, quippe si equus et homo Aethiops nigri sunt. Dicitur etiam risibile nigrum, cum homo quis niger fuerit. Dicitur etiam individuum nigrum, cum quis unus homo ex Aethiopia nominatur. Quod cum ita sit, constat genus ad plurima praedicari, id est ƿ speciem, differentias, accidentia propriaque et individua, nihilominus et differentiam ad plurima praedicari, id est ad speciem, propria, individua et accidentia, et proprium ad plurima, id est speciem, individua et accidentia, et speciem ad plurima, id est proprium, individua et accidentia, accidens vero et ad genus et ad speciem et ad proprium et ad differentiam at ad individua. Quod si ita est, has quinque res constat ad plurima praedicari. At vero individuum quoniam sub se nihil habet, ad singularitatem quandam et unitatem praedicatur. Cicero enim unus est et ad unum nomen istud aptatur. Ita individua quae ad unitatem dicuntur, cunctis superioribus supposita sunt, ut genus, species, differentia, propria vel accidentia, quamvis ad se invicem dici possunt, ad individua tamen aequaliter praedicantur, ut superius demonstratum est. Individua vero quoniam sub se nihil habent ubi secari distribuique possint, ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una sunt. Atque hoc est quod ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD UNITATEM DICUNTUR, SICUT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD, ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS SUNT. Simile est ac si diceret: haec enim communiter ad plurima praedicantur, non ad unitatem sicut individua. Et quid sint genera vel species vel differentiae vel propria ƿ vel accidentia, exemplum supponit dicens: EST ENIM GENUS, UT ANIMAL, SPECIES, UT HOMO -- quam dudum hominis speciem cum aliis animantibus sub animali posuimus -- DIFFERENTIA, UT RATIONALE -- qua species scilicet hominis ab irrationali distat animal -- PROPRIUM, UT RISIBILE, quod nullum aliud animal neque rationale neque irrationale habet. Nullum enim animal ridet nisi solus homo. Quare, cum quaedam caelestium potestatum animalia rationabilia sint, eorum tamen proprium risibile non est, quoniam non rident. Recte igitur risibile solius hominis proprium praedicatur. ACCIDENS, UT ALBUM, NIGRUM ET SEDERE: quia ista in substantia hominum non sunt, merito accidentia vocantur. Nam si substantiae cuiuscumque speciei inesset id quod accidens dicimus, interempto accidenti periret etiam eius speciei substantia cui accidit. Nam quoniam rationale in hominis substantia est, si rationalitas interimatur, hominis quoque substantia necessarlo peritura est idcirco, quod in ipsius speciei substantia naturaque nersatur. At vero nigrum et album vel quaecumque sunt accidentia si interimas, species ipsa in qua illa accidebant, manet. Nam neque omnis homo candidus neque omnis niger est, et cui alterutra defuerint, eius species non peribit. Atque idcirco haec accidentia, veluti non innata in substantia sed a foris venientia, recte nominata sunt. Nunc ergo, quoniam quid sit genus ostendit et ea quae ƿ ad unitatem dicuntur, ab his quae de plurimis praedicantur distinxit atque distribuit. Ipsius generis differentias vel ab his quae ad unitatem dicuntur vel ab eis quae ad pluralitatem congruunt, id est differentis, specie, proprio accidentique, declarat et dicit genus ab illis quae ad sola individua prae dicantur, id est quae ad unitatem, hoc differre, quod genus ad plurima praedicetur, individua vero ad singula. Sed quoniam haec differentia generis ad individua communis erat differentiis speciebusque, propriis et accidentibus, ab illis ipsis aliis differentiis genus dividit atque disiungit. Quod ita demonstrat: AB HIS IGITUR QUAE AD UNITATEM DICUNTUR, DIFFERT GENUS, QUOD GENUS EST HOC QUOD DE PLURIMIS PRAEDICATUR. AB HIS VERO RELIQUIS GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO PRAEDICATUR. Ac primum generis specieique distantiam monstrat, quae propior est generi. Nam quamvis differentia super speciem sit, super speciem specialissimam differentia ponitur. Nam quamvis rationalis differentia super hominem ponatur, quae species specialissima est, tamen ante speciem specialissimam ƿ ipsa differentia species est eius generis, cui species snecialissima supponitur; nam sub animali ante hominem rationale ponitur. Igitur cum genus et species utraque ad plurima praedicentur, genus vero ad plurimas species in eo quod quid sit praedicetur, species non iam ad plurimas species sed ad plurima individua praedicatur. Sunt autem quaedam genera generalissima, ut dictum est, supra quae aliud genus inveniri non possit. Sunt autem species sub quibus alia species inveniri non possit, et integra species illa nominatur quae numquam genus est, id est sub qua species nullae sunt. Nam si sub ea species essent, ipsa etiam genus esse posset. Species ergo quae vere species est, alias sub se species non habebit, nt est homo. Namque homo quoniam species est, singuli homines qui sub ipso sunt, non eius species sed individua nominantur. Nam si homo genus esset hominum singulorum, genus autem, sicut dictum est, ad plurimas res specie differentes in eo quod quid sit appellatur, homo, id est species, si sicut genus praedicaretur ad singulos homines, singuli homines specie ipsa differrent. Sed quia singuli homines specie non differunt, quod autem specie non differt, si quid ad hoc praedicatum fuerit, non praedicatur ut genus ad species, id est homo non praedicatur ad singulos homines ut genus ad res plurimas specie differentes, quid igitur? Ad res plurimas numero differentes; singuli enim homines numero a se tantum, non specie distant. Atque ideo, quoniam genus sic ad subiecta praedicatur, ut ad plurimas res specie differentes praedicetur, species autem ad subiecta ita praedicatur, ut ad plurimas res numero differentes praedicetur, genus in hoc ab specie distat, quoniam genus ad plurimas res specie differentes praedicatur. Species autem ad plurimas res numero differentes dicitur. Congruunt ergo sibi genus et species, quod genus et species ad plurima praedicantur et utraque in eo quod quid sit. Nam si interroges: quid est Cicero? Animal dicitur, id est genus. Et si interroges: quid est Cicero? Homo dicitur, id est species distant autem, quod quamvis utraque ad plurima praedicentur et in eo quod quid sit, genus praedicatur ad res specie differentes, species vero dicitur ad res tantum numero differentes quod Porphyrius sic demonstrat: AB HIS VERO RELIQUIS QUAE DE PLURIBUS APPELLANTUR, GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICATUR, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO. HOMO ENIM SPECIES CUM SIT, DE SOCRATE, PLATONE, CICERONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE SED NUMERO DIFFERUNT, ANIMAL VERO QUOD GENUS EST, ET BOVIS ET EQUI PRAEDICATIO EST QUAE ETIAM DIFFERUNT SPECIE A SE INVICEM, NON NUMERO SOLO. Quod simile est ac si diceret genus ab specie unam differentiam plus habere. Congruunt namque genera speciebus, quod utraque in eo quod quid sit praedicantur, ut dictum est. Congruit item et genus et species, quod utraque ad res plulimas praedicantur. Congruit item genus ad species, quod utraque ad les numero differentes praedicantur. Nam et singuli homines sta a se divisi sunt, quantum ad numerum, ut homo ab equo vel a bove vel a coruo vel a quibuslibet aliis animantibus. At vero distat ab specie genus, quod genus de pluribus rebus specie differentibus praedicatur, quod species non habet. Nihil autem differre arbitrator, utrum ita dicatur 'aliam rem ad aliam praedicari' an 'aliam de alia praedicari'. Utrumque enim idem intellectus est. Nam si animal praedicatur ad hominem, idem etiam animal de homine praedicatur. Nam cum interrogaveris: quid est homo? Respondeas de hominis interrogatione hominem esse animal. Sed nunc oportet nos ea quae secuntur aspicere. Quid ergo sequitur? A PROPRIO AUTEM GENUS DIFFERT, QUOD PROPRIUM IUXTA UNAMQUAMQUE SPECIEM PROPRIUM APPELLATUR CUIUS EST PROPRIUM, ET IUXTA EA QUAE SUB SPECIE SUNT, SCILICET INDIVIDUA; NAMQUE RISIBILE HOMINIS SOLUM EST ET SINGULORUM UTIQUE HOMINUM. GENUS AUTEM NON AD UNAM SPECIEM SED AD PLURES DIFFERENTES SEMPER APTATUR. Ergo hoc videtur hic dicere, quoniam omne proprium si fuerit speciei unius, tunc vere est proprium. Nam si unius speciei non fuerit sed duarum vel plurium, tunc duabus vel pluribus non proprium sed erit in substantiae ratione commune. Constat ergo proprium ei cuius est proprium soli speciei singulariter adhaerere. Unde quia hominis species sola est quae ridet, risibile homini proprie et singulariter aptatur. Ad unam semper igitur speciem proprietas adhibetur. Distat igitur proprium a genere, quod genus semper ad plurimas species appellatur, proprium vero de una tantum specie cuius est proprium. Nam si risibile dicas, ad unam tantum speciem hominis appellatur. Congruit autem genus cum proprio in hoc, quod genus et proprium de pluribus appellantur. Namque genus ad plures species appellatur, appellatur etiam genus de his quae sub specie sunt individuis. Nam si homo et equus animal est, erit etiam Cicero animal et quilibet equus singulariter animal nominatur. Similiter et proprium ad plurima dicitur. Dicitur enim ad unamquamque speciem et ad ea individua quae sunt sub specie praedicatur. Nam si homo risibilis est, risibilis est etiam Cicero et Virgilius, et quicumque singulariter nominantur, risibiles sunt. Congruunt etiam, quoniam utraque in eo quod quld sit praedicantur. Nam genus de specie in eo quod quid sit praedicatur. Nam si dicis: quid est homo? Animal appellabis. Item proprium in eo quod quid sit praedicatur. Nam ƿ si dicis: quid est homo? Merito risibile praedicabis. Congruunt autem, quod genus et proprium ad plurimas res numelo differentes praedicantur. Nam ita a se differunt singula animalia, id est homo, equus et coruus et caetera, ut singuli homines, quantum ad numerum. Distat autem a genere, quod genus ad plurimas species praedicatur, proprium vero ad unam solam cuius est proprium nominatur. Sed non est inter genus et proprium eadem differentia, quae est inter speciem et genus. Nam species de nulla omnino specie praedicatur, proprium vero licet non ad plures, ad unam tamen solam speciem, cuius est proprium, semper aptabitur. Post hoc igitur de differentiae accidentisque a genere distantia disserit dicens: A DIFFERENTIA VERO ET AB ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI ETIAM ISTA DE PLURIBUS SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICANTUR, DIFFERENTIAE SCILICET ET ACCIDENTIA QUAE COMMUNITER ACCIDUNT, NON TAMEN IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR, CUM INTERROGANTIBUS NOBIS FIT SECUNDUM EA RESPONSIO; MAGIS ENIM QUALE QUID SIT OSTENDUNT. Differentiam vero et accidens idcirco posterius reservavit, quod eorum unam differentiam erat distantiamque dicturus. Differentia enim et accidens qualitatem cuiuscumque speciei demonstrant. Illa substantiae qualitatem, id est differentia, illud, ƿ id est accidens, non substantiae. Ergo quoniam genus super speciem est et species supposita generi, genus speciem, species individuum quid sit ostendit. Porro autem solae possunt species differentiae segregare quae qualitatibus eas substantialibus, id est substantias declarantibus, seiungunt atque dispertiunt. Nam cum animal genus sit, homo vero vel equus species, quales utraeque species sint monstrat differentiae segregatio, ut dicamus speciem esse hominis rationalem, speciem vero equi irrationalem. Si enim quis interroget: quid est homo? Animal dicitur. Si autem quis dicat: qualis est homo? Rationalis respondetur. Ita semper differentia non in eo quod quid sit sed in eo quod quale sit appellatur. De accidenti vero non dubium est, cum ipsa qualitas in accidentis partibus componatur. Namque in praedicamentis inter alias novem partes accidentis etiam qualitas nominatur. Nam etiam si quis interroget qualis corui species sit, nigra continuo respondetur. Congruunt ergo genera differentiis et accidentibus, quod de speciebus pluribus praedicantur. Nam sicut genus plures sub se species habet, ita differentia. Nam rationale dicimus deum et hominem. rursus etiam accidens de pluribus speciebus praedicatur. Nam nigrum dicimus et hominem et equum et coruum et hebenum et plurimas alias species. Rursus congruit genus differentiae, quod, sicut genus, sic differentia aequaliter ad indiniduum praedicatur. Nam si Cicero animal est, quod est genus, et rationale avimal est. Quod est differentia. Congruunt etiam, quod de numero differentibus praedicantur, quod ƿ superius de aliis monstratum est. Distant autem quod, sicut dictum est, genus in eo quod quid sit appellatur, differentia vero vel accidentia in eo quod quale sit praedicantur. Nam si dicas: quid est homo? Appellabis genus et dicis animal esse hominem, si vero qualis sit ad differentiam interrogaveris, rationale respondebis, vel <ad> accidens, nigrum vel album vel qualis quisque sit de quo interrogatur. His igitur distributis distantias ipsas a primordio rursus orditur dicens: UNDE HOC QUOD DE PLURIBUS PRAEDICATUR GENUS DISTAT AB HIS QUAE DE SINGULIS PRAEDICANTUR, HOC EST AB INDIVIDUIS; ILLO QUOD DE SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICATUR, DISTAT AB SPECIEBUS ET A PROPRIIS; ILLO ETIAM IN QUO QUID SIT APPELLATUR, SECERNITUR A DIFFERENTIIS ET A COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUOD HAEC DUO QUALE QUID SIT DECLARANT. Hoc dicit distare genus ab individuis, quod genus de pluribus, ut dictum est, praedicatur. Colligit autem et in unum redigit proprii specieique differentias. Nam quoniam species de pluribus non specie sed numero differentibus praedicatur, proprium vero de una tantum specie et de his quae sub eadem specie sunt individuis praedicatur, quamvis de una specie praedicetur, tamen aequa est illi cum specie a genere differentia de pluribus specie differentibus non praedicari. Nam neque species omnino de speciebus aliquibus poterit praedicari ƿ neque proprium, quoniam proprium non de pluribus speciebus sed de una tantum cuius est specie praedicatur. Quod si ita est, una differentia a genere species et propria seiunguntur accidens vero et differentia eadem quoque una a genere differentia separantur, quod genus in eo quod quid sit dicitur, differentia vero vel accidentia in eo quod quale appellantur. Has Porphyrius ad constituendam generis rationem differentias quam parcissime potest colligit et ipsas differentias multis modis posterius probaturus, nunc vero quantum sat est dicit se <neque deminutam neque> abundantem generis constituisse rationem hoc dicens: HOC SI ITA EST, NULLO MINUS AUT PLUS EFFECTA EST GENERIS DEFINITIO. Perfectam plenamque se generis definitionem fecisse dicit, quoniam neque plus neque minus facta sit definitio sed aequaliter ad genus pariterque composita. Quod unde sit, hoc modo monstrandum est. Novimus quod quaedam res quae ad alia praedicantur, his de quibus praedicantur, abundant, ut genera et species. Namque animal, quod genus est, de homine, quod est species, hoc abundat, quod nomen generis etiam in equum atque bovem atque in alia valet aptari. Ergo si quis ad quamlibet rem abun dantem fecerit maioremque definitionem quam ipsa res fuerit quam definit, non erit integra propriaque definitio, quoniam non solum illam rem amplectitur quam definit, ƿ si maior fuerit definitio sed etiam alias quascumque res, quibus ipsius definitionis terminus abundabit. maiorum igitur praedicamentorum maior erit definitio, minorum vero minor erit etiam definitio; animal ergo, quod maius est, ita definiunt: animal est substantia animata sensibilis, hominem vero, quod ab animali minus est, ita definiunt: animal rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile quoniam maius est animal ab homine, maior etiam erit animalis definitio ab hominis definitione. Plus enim erit dicere 'substantia animata sensibilis' quam 'animal rationale et mortale'. Nam substantia animata sensibilis, sicut ipsum animal, non solum hominem complectitur sed etiam equum vel bovem atque alias huiusmodi species. Si quis ergo ad hominem maiorem definitionem aptaverit, quae est animalis, ut ita definiat hominem: homo est substantia animata sensibilis, non est plena definitionis ratio, cum equus atque bos substantia animata atque sensibilis esse possint, quae species hominis non sunt. Si quis vero maiori rei minorem definitionem aptaverit, curtam et deminutam quodammodo faciet rationem. Nam si quis animal definire volens dicat: animal est res rationalis, risus et disciplinae perceptibilis, non erit integra definitio, quoniam sunt quaedam animalia quae istius definitionis rationem subterfugere atque euadere possunt. Est enim animal bos, quod neque rationale sit neque risus perceptibile. Sola igitur relinquuntur bene definiri quaecumque aequalibus definitionibus constituuntur. Ubi autem aequalis definitio sit, hoc modo possumus reperire. Praedicamenta quaecumque fuerint, si maius praedicamentum de minore aliquo praedicatur, converti non potest, ut minus de maiore praedicetur. Semper enim maiora de minoribus, numquam minora de maioribus praedicantur. Nam si quis dicat hominem esse animal, non poterit convertere animal esse hominem. Nam homo nihil aliud, quantum ad genus, nisi animal est, animal, quantum ad species, potest esse etiam non homo. Paria vero praedicamenta semper sibi ipsa invicem convertuntur. Nam quoniam risibile solius est hominis, risibile ad hominem praedicatum etiam converti potest, ut homo ad risibile praedicetur dicitur enim: quid est homo? Risibile. Quid est risibile? Homo. Ergo quascumque definitiones convertere potes, illae verae atque pares sunt, quascumque vero convertere non potes, aut maiores sunt aut minores, pares inveniri non possunt. Nam si dicas hominem substantiam esse animatam atque sensibilem, verum est. Item si convertas et dicas substantiam animatam atque sensibilem esse hominem, non omnino verum dixeris potest enim et substantia animata esse atque sensibilis et homo non esse. Item si dixeris rem rationalem, mortalem, risus et disciplinae capacem esse animal, verum dixeris. Si autem dicas atque convertas animal esse rem rationalem mortalem, risus et disciplinae perceptibilem, non omnino verum dixeris. Potest enim esse animal et non esse rationale et risus capax. Ergo quotiens est maior definitio quam id quod definitur si prius dicitur id quod definitur et maior definitio adhibetur vera esse poterit definitio. Si enim prius dixeris hominem, rem minorem, et ad ipsum posterius adbibueris definitionem maiorem, ut prius dicas 'homo est', et post subiungas 'substantia ƿ animata sensibilis', verum est. Homo enim necessario est substantia animata sensibilis. Si vero prius dixeris definitionem et postea dixeris id quod definies, vera esse non omnino potest. Nam si definitionem maiorem prius dixeris dicens 'substantia animata sensibilis' et postea rem minorem intuleris, ut dicas 'homo est', ut sit 'substantia animata sensibilis homo est', non omnino verum est. Potest enim esse et substantia animata sensibilis, non tamen homo. At vero si minor fuerit definitio quam illa ipsa res quae definitur, si prius dicta sit definitio, vera est, posterius, falsa. Nam si dixeris definitionem quae est minor 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae capax' et post intuleris 'animal est', ut sit 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae capax animal est', vera est. Omnis enim res quae rationalis et mortalis est et risus et disciplinae capax, necessario animal est. At vero si converteris et rem maiorem prius dixeris, post vero minorem definitionem adhibueris, vera omnino esse non potest. Nam si dicas prius 'animal est', postea autem iunxeris 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae perceptibilis', non omnino verum est. Potest enim esse animal et rationale vel mortale non esse. Itaque si maior est definitio quam res fuerit, si prius rem dixeris, postea definitionem intuleris, vera est, si vero prius definitionem dixelis, post rem intuleris, falsa est. In minoribus vero definitionibus et maioribus rebus contra ƿ est. Nam si definitionem prius dixeris, postea rem subieceris vera est, si vero rem prius dixeris, postea definitionem sub ieceris, vera omnino esse non potest. At vero in aequalibus definitionibus converti aequaliter potest. Nam quoniam solius hominis haec est definitio 'animal rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', aequalis est haec ad hominem definitio, quoniam non est cui alii possit aptari. Itaque vel si prius rem dixeris, postea definitionem subieceris, vera erit, ut est 'homo est animal rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', sin vero converteris et prius definitionem, postea rem dixeris ut si dicas 'animal quod fuerit rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile homo est', haec quoque vera est. Ita semper ut definitiones verae sint, neque plus neque minus in defini tionibus oportet aptari sed aequalitter definitiones convenienterque disponi. Quod Porphyrius scilicet non ignorans ait se neque plus neque minus effecisse generis definitionem. Et Fabius: Sequitur, inquit, te de specie disputare. ÑDic, inquam, quid sequitur? ÑEt Fabius: Hic, ut opinor, ordo est: SPECIES QUOQUE MULTIS DICITUR MODIS. NAM ET UNIUSCUIUSQUE HOMINIS FORMA SPECIES APPELLATUR. RURSUS IGITUR ET PULCHRITUDO UULTUS, UNDE PULCHERRIMOS QUOSQUE SPECIOSOS DICIMUS. DICITUR SPECIES ET EA QUAE ƿ SUPPOSITA EST GENERI, UNDE ANIMALIS SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT, ET ALBUM COLORIS SPECIEM. Tunc ego: Speciei quoque nomen sicut generis aequivocum puta. Nam et hoc quoque multifariam appellari designat. Dicitur enim, inquit, species et figura corporis et fortasse alia plura. De quibus quoniam nullus tractatus habebatur, iure praetermissa sunt. Hic tamen a Victorino videtur erratum, quod cum idem sit cuiuscumque hominis species et uultus, quasi in alia appellatione speciei uultus iterum pulchritudinem dixit, quasi vero non proinde pulchlitudo uultus sit ac tota species fuerit; nam si quispiam pulcher fuerit toto corpore, etiam uultu. Sed praemissis his ad illam speciem quae sub genere ponitur atque genus efficit veniamus. Namque, ut dictum est, substantiae ipsae nullo speciei nomine generisue censentur, nisi quadam ad se invicem collatione sint comparationeque compositae. Nam quod animal est, non idcirco est genus, quoniam animal est sed idcirco, quod hominis sub se atque equi et caeterorum animantium species habet. Atque idcirco ait: UNDE ANIMALIS SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT; neque enim homo species diceretur, si super ipsum animalis appellatio non praedicaretur. Sed ut monstraret non in unis solis substantiis genera speciesque versari sed etiam in omnium praedicamentorum nuncupationibus ƿ esse conexa, non solius substantiae dedit exemplum sed etiam eius quod reliquum remanserat, accidentis. Quid enim ait et album coloris speciem: quae sunt in accidentis divisione qualitatis. Sed quoniam inter se quaedam conexio est et talis comparatio atque relatio, ut praeter ad se invicem latitudinem genera et species esse non possint -- nihil enim in eorum definitionibus concludi potest, nisi ad alterutrum nominata sint; nam si substantia generis specie supposita species vero genere superposito et ad ipsam praedicato perficitur, non est dubium quin cum genus definire necesse it iure speciem, et cum speciem, iure nobis genus praedicare necesse sit -- haec igitur etiam in generis subscriptione servatur distinctio, cum generis definitio habita est. Hoc enim dictum est tunc, esse genus quod ad distantes species diceretur, nunc vero dicendum est id esse speciem quae sub genere ponitur. Sed multiplex eius definitio haberi potest. Potest enim rursus dici id esse speciem, ad quam genus in eo quod quid sit praedicatur. Quae res utraeque id significant, speciem poni sub genere. Nam prima quidem definitia id aperte designat, secunda vero talis est: quoniam semper ƿ maioribus minora supponuntur, genus ab eo, ad quod in eo quod quid sit praedicatur, maius esse non dubium est. Quod si ita est, nullus est obscuritatis error, quin species quae minor est, maiori sibi generi supponatur. Nihil igitur haec secunda definitionis significatio a priore differt; si enim species sub genere non poneretur, genus ad speciem in eo quod quid sit non praedicaretur. Tertia vero definitio speciei integra ratione collecta est et ipsius speciei vim naturamque demonstrat. Dicit enim speciem esse quae ad plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicatur. Quae definitio etiam ex superiore genere debuit esse planissima sed ego nunc quantum castigata permittit brevitas explicabo. Sed prius de ipsis generibus speciebusque pauca dicenda sunt. Cum sint quaedam genera quae species habeant atque ipsa aliis generibus species esse possint, non est dubium ea gemina comparationis habitudine fungi, ut ad alia species, ad alia genera nominentur. Sed si in uno filo atque ordine speculemur et quodcumque genus alicuius rei repertum sit, eius rursus genus aliud requiramus et rursus aliud atque aliud iterum, si nihil sit quod intellectus ratione consistat, inesplicabilis ratio interminabilisque tractabitur. Sed quoniam nulla sunt in his scientiae fundamenta quae nulla consideratione animi in infinitum procedentia concluduntur, dicendum necessario est posse nos ascendentes usque ad tale aliquid pervenire cuius, cum ipsum caeteris genus sit, ƿ aliud genus invenire non possumus, quod genus primum et magis genus et generalissimum nuncupetur. Sed si hoc in genere contingit, ut ascendentes alicubi consistamus, non est dubium quin descendentes iterum per species ad aliquem quodammodo calcem offenso termino consistamus. Igitur cum descendentes per species usque ad illam speciem venerimus quae sub se species nullas habet, illam speciem ultimam speciem et magis speciem et specialissimam nuncupemus. Sed quoniam species aliquorum est continens, si aliquorum specie differentiam continens esset, non magis species sed genus merito vocaretur. Sed quoniam continet et non specie differentes res continet, similes necesse est sibi contineat pluralitates. Sed si continet pluralitatem et maius semper est id quod continet quam id quod continetur, de pluralitate illa species praedicabitur. Appellabitur igitur species de pluribus rebus numero differentibus in eo quod quid sit. Species enim cum appellatur de subterioribus, superiorem speciem substantiamque declarat nam cum dicimus: quid est Cicero? Homo continuo respondetur. Cum ergo tribus modis speciei facta sit definitio, superiores duae non tantum sunt speciei sed etiam subalternae speciei, quae et ipsa genus. generalissimum substantia et sub ea corpus animatum, sub animato corpore animal et sub animali ƿ homo, sub homine individua. Sed hanc divisionem plenius posterius exequemur, nunc autem hoc nobis tantum sufficit. Substantia igitur magis genus est, homo magis species, ita ut neque substantia species aliquando esse possit nec homo genus. Corpus vero animatum vel animal ad superiora species, ad subteriora genera nominantur. Si quis ergo corpus animatum vel animal vel hominem velit exprimere et dicat: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET AD QUAM GENUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, haec definitio et magis speciem, id est hominem, et subalternam speciem continet, id est corpus animatum vel animal. Nam corpus animatum et animal et homo sub genere sunt posita, et ad eas omnes in eo quod quid sit appellatur, ut dictum est. Si quis vero illam speciem definitione monstrare velit quae vere species est, id est specialissimam speciem, quae tantum species, numquam et genus sit, hoc modo definiet, speciem esse quae ad plurimas res numero differentes in eo quod quid sit praedicetur. Sed haec definitio subalternis speciebus numquam conveniet. Illae enim quae subalternae sunt species, possunt etiam pro generibus accipi, si ad subiecta praedicentur. Quodsi possunt pro genelibus accipi, cum pro generibus acceptae fuerint, non tantum ad plurimas res numero differentes praedicabuntur sed etiam ad plurimas res specie differentes, quippe cum sint genera. Sed quia hoc in magis speciebus non evenit, ut aliquando de specie differentibus praedicentur, haec definitio posterior solius magis speciei definitio est et eam caeterae subalternae species excludunt atque reiciunt. Quod Porphyrius ita demonstrat: SED HAEC DEFINITIO EIUS SPECIEI EST QUAE MAGIS SPECIES DICITUR, ALIAE VERO DEFINITIONES ERUNT ETIAM ILLARUM QUAE NON SUNT MAGIS SPECIES. Horum ergo ipsam subscriptionem demonstrationemque clarius se ipsum dicere promittit cum dicit: MANIFESTIUS AUTEM FIET HOC QUOD DICIMUS HOC MODO. IN OMNIBUS PRAEDICAMENTIS SUNT QUAEDAM MAGIS GENERUM ET MAGIS SPECIERUM, SUNT ALIA MIXTA. MAGIS GENERA SUNT SUPRA QUAE NULLUM ALIUD GENUS POTERIT INVENIRI, MAGIS SPECIES RURSUS, SUB QUA NULLA SPECIES REPERITUR. HORUM INTERUALLA QUAE POSSIDENT, ET GENERA ET SPECIES SUNT, SINGULA SUPERIORIBUS INFERIORIBUSQUE COLLATA, UT ALTERI GENUS, ALTERI SPECIES APPELLENTUR Huiusmodi sunt, inquit, quaedam quorum genera inveniri non possunt, haecque ipsa merito magis genera nominantur, quoniam maius ipsorum aliquid inveniri non potest. Nam si ista sunt genera, genus autem omnibus sub se positis maius est, quorum genus nullum est, nihil eorum maius poterit reperiri. At quorum genus nihil poterit inveniri, merito ipsa magis genera vocitantur. Sunt autem quaedam alia quae magis spe cies appellentur, sub quibus non aliae species locatae sunt. nam plus videtur esse species ea et integrior vere species est ƿ quae genus numquam est quam ea quae aliquando genus esse potest. Quodsi verior species est quae sola species, numquam genus est, merito magis species appellata est. Igitur inter magis speciem et magis genus quod est interuallum, subalterna genera et subalternae species impleuerunt. Nam subalterna vocamus quaecumque ad superiora species, ad inferiora pro generibus accipiuntur, idcirco quoniam, si omnes res ad inferiora componas, genera, si ad superiora, species, et si ad superiora et inferiora eadem ducas, genera et species invenientur. Atque ideo subalterna genera et species nominata sunt, quod filo quodam atque ordine ad inferiora composita genera et ad superiora species agnoscuntur. Sed haec ita genera speciesque esse possunt, non ut cui genus est, eidem iterum velut species supponatur. Nam si, ut prius ostensum est, specie sua maius est genus, non est dubium quin maior res sub minore poni non possit. Atque ideo ait ut alteri genus, alteri species appellentur, quod nequaquam eandem rem et genus esse et speciem conveniret. Dat igitur huius rei exemplum, quo quod dicit, facilius possit agnosci. Facit igitur hanc divisionem. Ponit substantiam magis genus, supponitur substantiae corpus et incorporeum, corpori animatum corpus et inanimatum, animato corpori animal sensibile et insensibile -- ut sunt ostrea vel conchilia vel echini vel arbores et alia huiusoemodi, quae vivendi animam habent, non etiam sentiendi -- sub animali animal rationale et irrationale, sub rationali mortale et inmortale, sub mortali hominem, gub homine singulos homines, hoc est corpora individua, Ciceronem et Virgilium scilicet et eos ƿ qui iam in partes sunt singuli. Substantia ergo quae prior est magis generis accipitur loco; genus enim solum, non etiam species est, quod numquam eius genus superius invenitur. Homo vero solum species est, nullas enim alias species sub se cohercet; singuli enim homines non specie, ut dictum est, numero differunt. Corpus vero, quod pridem sub genere posuimus, id est substantia, ad substantiam quidem species, ad animatum corpus genus accipitur. Animatum autem corpus ad corpus species est, ad animal genus, animal autem ad animatum corpus species videtur, ad rationale animal genus. Rationale item animal mortalis genus est, species animalis. Mortale autem genus hominis est, species rationalis animalis. Homo autem quod super individua est, nihil de generis natura sortitus est sed tantum sola species appellatur. Sed hanc divisionem sicubi in aliis rebus transferri et aptari placeat, ita considerandum est, ut quicquid fuerit cuius genus inveniri non potest, magis id genus appelletur et quicquid cuius nulla species fuerit, id est ut super individua collocetur, illam magis speciem esse. Oportet enim, si quod genus sit. Super differentes specie res poni, quod autem magis species non super specie res differentes ponitur, numquam digne genus poterit appellari. Ergo quemadmodum quod ƿ superius genus super se nullum genus habet, magis genus dicitur, ita et species quae sub se species non habet sed tantum individua, merito magis species appellatur. Illa autem quae in medio posita sunt, non eiusdem sunt habitudinis. Nam quoniam species esse possunt, non sunt magis genera, et quoniam genera possunt esse, idcirco numquam magis species praedicantur. Nam illis quae supersunt, species sunt, illis vero quae subsunt, loco generis praeponuntur. Cum igitur duae formae sint omnium rerum, aut ut genera praeponantur aut ut species supponantur, summitates, id est generalissimum genus et specialissima species, singulas tantum continent habitudines, illud, ut tantum genus, numquam species videatur, illud, ut sola species, numquam etiam genus appelletur. Subalterna vero, quae media sunt, duas formas habent, id est utrasque. Namque, ut frequentius inculcatum est, et generis quodammodo parentelam et speciei derivationem sortita sunt. Nec hoc fortasse nos turbet, quod species specialissima habet sub se aliquid. Namque homo cum sit magis species, habet sub se singulos homines. Haec enim quamvis individuis supersit, numquam formam specialitatis inmutat. Cum enim sub se individua habeat, quod ea contineat quae sub una specie sint et nulla substantiae proprietate discrepent, species eorum vocatur quae continet. Ita homo et animalis species dicitur, quia continetur, et hominum singulorum species est, quia eos continet qui nulla umquam specie discrepabunt. Definitio ergo magis generum magisque specierum talis est: magis genus ƿ esse dicitur quod genus semper sit, numquam species, et quo superius nullum genus sit; rursus magis species est quae semper species sit, tumquam genus, et iterum, quae numquam dividitur in species et quae ad plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicatur. Illa vero alia, ut saepe dictum est, et genera et species esse possunt, superioribus scilicet inferioribusque collata. Hoc autem attentissime respiciendum est, quod in diversis longe nationibus in eo genere ubi ex sanguine aliqua cognatio deducitur, diversarum cognationum gens ad unum caput generis duci potest. Nam quoniam Romani a Romulo sunt, Romulus autem a Marte, Mars a Iove, poterit gens Romanorum ad Iovem duci. Item quoniam Athenienses a Minerua, Minerua a Iove, potest Atheniensium gens ad eundem Iovem duci. Item quoniam Persae a Sole, Sol autem a Iove, possunt Persae quoque ad eundem Iovem velut ad originem propriam deduci. Ita diversissimae gentes ad unius cognationem erigi possunt, quod idem speciebus generibusque non fit. Numquam enim diversa genera sub uno genere poterunt accommodari. Aristoteles enim primorum generum decem praedicamenta constituit, quae velut aliquis fons, ita subterioribus omnibus ortum quodammodo nationemque profuderint. Haec igitur decem genera quoniam generalissima sunt et superius eis nullum inveniri genus potest, ad unum genus reduci non poterunt. Quodsi decem genera prima ad unum genus ƿ reduci non poterunt, nec illa quae sunt sub eisdem generibus, id est species subalternaque genera, ad unum genus aliquando poterunt applicari. Nam si prima eorum genera ad unum superius duci non possunt, non est dubium quin ea ipsa quae sub ipsis sunt, ab uno genere coherceri continerique non patiantur. Nam si substantia, qualitas et quantitas et caetera sub alio communi genere poni non possunt, quod ipsa magis sunt genera, nec quicquid sub substantia fuerit, id est sub eodem genere, ut animal vel homo, vel item sub qualitate vel quantitate, ad aliquod genus commune se poterunt applicare. Numquam enim inveniri genus poterit quod haec decem genera solitario et proprio intellectu intra se possit velut species continere. At dicat quis haec omnia decem genera si vere sunt subsistentia, quodammodo vel entia dici posse. Flexus enim hic sermo est ab eo quod est esse, et in participii abusionem tractum est propter angustationem linguae Latinae compressionemque haec igitur, ut dictum est, entia poterunt appellari, et ens hoc ipsum, id est esse, genus eorum fortasse dici videbitur. Sed falso. Namque omnia quae inter se aequivoce nominantur, numquam eiusdem continentiam generis sortiuntur, quippe quorum substantia discrepat, non est dubium quin generis quoque ipsius definitio discrepabit; haec autem ut entia nominentur, non univoce sed aequivoce praedicantur. Nam quoniam substantia ens est et item qualitas ens, sed si quis rationem definitionemque qualitatis dixerit, ƿ eadem natura utriusque non poterit convenire, non est dubium quin substantia et qualitas non univoce sed aequivoce praedicentur. Quodsi aequivoce praedicantur, sub eiusdem generis fonte poni non poteront. Non est igitur in generibus speciebusque aliquod genus solum quod possit diversa remm genera cohercere. Tunc Fabius: Abundanter haec, inquit, omnia, et de his ipsis rebus frequentius inculcatum est. Sed perge ad sequentia. Faciam, inquam. Haec enim, ut arbitror, secuntur: ERGO DECEM GENERA CONSTITUIT ARISTOTELES IN PRAEDICAMENTIS QUAE MAGIS GENERA SUNT, AT VERO ILLAE QUAE MAGIS SPECIES SUNT, SEMPER IN PLURIMO QUIDEM NUMERO SUNT, NON TAMEN IN INFINITO. AT INDIVIDUA QUAE SUB MAGIS SPECIEBUS SUNT, INFINITA SUNT SEMPER. Hoc enim dicere vult quod multo plures species sunt quam genera; habet enim genus sub se plurimas species. Et quoniam decem genera rerum omnium prima sunt, species specialissimae non solum decem sunt sed plures, non tamen infinitae individua vero quae sub magis speciebus sunt, infinita sunt et eorum intellegentia nulla umquam capi potest. Quae enim infinita sunt, nullo scientiae termino concluduntur. Igitur omnis nobis divisio omnisque scientia a magis generibus per subalterna genera usque ad magis species deducatur; ibi enim consistentes integram, superiorum scientiam capere possumus ac retinere. Si quis autem individua velit scientia disciplinaque comprehendere, frustra laborat sed ita iubemur a magis generibus ƿ usque ad magis species per media interualla decurrere, ut specificis differentiis dividentes subalterna genera a magis generibus usque ad magis species descendamus. Specificae autem differentiae sunt quae speciem quamcumque declarant. Declaratur autem species differentiis hoc modo. Si quis enim dicat substantiam, ut ponat sub substantia corpus, sub corpore animatum corpus, sub animato corpore animal, sub animali rationale, sub rationali mortale, has omnes species, quae sunt substantiae, cum pro differentiis posuerit, hominis scilicet species informabitur. Nam corpus animatum ab inanimato corpore differentia est, porro autem animal ab insensibilibus et rationale ab irrationalibus et mortale ab immortalibus differentiae sunt. Haec igitur omnia cum iunxeris, unam speciem declarabis, id est hominem. Nam cum dicis corpus animatum, animal rationale et mortale, quae scilicet differentiae in subalterno ordine sibi suppositae sunt, hominem demonstrasti. Sunt autem quaedam aliae differentiae, quae tales sunt ac si dicas animal rhetoricum, quod solus homo rhetor esse possit. Sed haec differentia non specifica differentia est et substantiam hominis naturamque non perficit sed tantum artem quandam scientiamque esse commendat. Illae igitur in divisionibus differentiae speciesque prosunt ex quibus illa quae dicitur magis species informatur, et haec vocatur specifica differentia quae magis speciem possit efficere. Ergo cum per haec descensum fuerit ad magis species, relinquenda sunt sub magis speciebus individua nec eorum aliqua scientia requirenda. Nam illa non ƿ solum infinita sunt sed etiam quaecumque in sese continverint infinita fiunt. Rhetorica enim species est sed cum venerit in singulos homines, tunc per singulos et infinitos divisa singula etiam fiet et infinita. Si enim omnes quicumque sunt vel fuere numerentur rhetores, nullus umquam huiusce numerationis finis erit, cum praesertim etiam per infinita tempora in futurum singuli homines rhetores esse possint. Hic Fabius: Hoc igitur, inquit, erat quod ait: PORRO AUTEM VEL ARTIUM VEL DISCIPLINARUM CUM INDIVIDUA PER HOMINES SINGULOS ESSE COEPERINT, RATIONEM AD PERCIPIENDUM CAPERE VEL HABERE OMNINO NON POSSUNT. Et ego: Hoc, inquam, est quod 'cum artes vel disciplinae quae in sua specie una ante collecta fuerant, in individua venerint', id est per singulos homines in infinitam multitudinem innumerabilemque sese dispertiunt; hoc autem idcirco evenit, quod haec eadem ratio est quam Porphyrius ipse dicere non neglexit. Genus enim cum unum sit, plurimarum specierum progenitivum est; namque sub uno genere plures species inveniuntur. Idcirco species genus illud unde profluunt. In plurima segregant atque dispertiunt. Genus autem plurimas colligit res, sicut ipsum a plurimis iterum speciebus dividitur. Namque homo, coruus et equus, quae sunt species, quantum ad animal aequaliter animalia sunt. Ita nomen animalis omnes suas species intra se continet. Quodsi et in homine animalis ƿ nomen est et in coruo et in equo, non est dubium quoniam illud genus quod sub se ipsum ea continet, species divisae inter se dividant multiplicentque. Colligit igitur genus species in se, species vero genus ipsum suapte natura dispertiunt. Est igitur genus collectivum specierum suarum et quodammodo adunativum, species vero divisivae generis et quodammodo multiplicativae. Igitur quicumque ad magis genera ascendit, omnem specierum multitudinem per genera colligit adunatque. Cum vero a magis generibus usque ad magis species decurritur, omnis unitas generum superiorum in multifidas ramosasque species segregabitur. Quod autem ait multitudo capieuda, proinde est ac si diceret 'multitudo facienda' est; nam cum dividis genus in species, easdem species multas esse accipis, quas tu idem fecisti. Species quoque ab hac generis adunatione ac quodammodo collectione non discrepant. Namque et ipsae infinitatem individuorum ad unam reuocant formam. Singulorum enim hominum species, quae est homo, collectiva est hoc modo. Ad hominis enim speciem cuncti singuli homines unus homo sumus, id est prima species quae nos continet cohercetque. Porro autem ipsa species in nos multos scissa dividitur. Omne enim quod singulum est atque individuum, illud unde nascitur dividit, omne quod non est singulum atque individuum sed dividi potest, non ipsum magis dividit subteriora quam colligit. His igitur expeditis constat genus plurimarum esse specierum genus et speciem plurima sub se individua cohercere. Nam si qua sunt subteriora, illa quae sunt superiora dispertiunt et in multitudinem dissipant dividuntque; quare non est dubium quin superiora semper inferioribus pauciora sunt. Praedicamenta vero aliud de alio vel ad se invicem quae torquentur, hoc modo sunt. Omnis enim res alia aut maior erit aut minor aut aequa. Omne quod est maius, de minore poterit praedicari; nam cum animal sit maius ab homine, poterit animal de homine praedicari. Minus vero de maiore non dicitur: nam quoniam animal est et homo et equus, ad animal hominem si praedicare volueris, tantum haec convenit praedicatio, quantum convenit animalis partem esse super hominem. Age enim, converte et dic hoc esse animal quod hominem: quantum igitur pars est animalis, quae hominis speciem contineat, tantum animal homo est. In illis autem aliis partibus animalis quae aliud continent quam est species hominis, hominis appellatio non convenit. Nam si dicas 'animal hoc est quod homo', in illa parte in qua equus est animal et coruus, ista talis praedicatio non aptatur atque ideo universaliter non convertuntur. Nam si dicis 'omnis homo animal', verum est, si dixeris 'omne animal homo', falsum est. Quodsi maiora de minoribus idcirco praedicantur, quia omne minus in se continent, et minora de maioribus idcirco non praedicantur, quia maiora minoris definitionem superuadunt et ƿ quodammodo exsuperant. Non est dubium quin illa quae sunt aequalia, sibi possint ipsa converti. Aequalia autem illa sunt quae neque minora neque maiora sunt, id est, ut si in quamlibet speciem apponantur, et omni illi speciei adsint et nulli alii; nam omnis homo risibile est et nulla alia species risibili potest proprio nuncupari, atque ideo quoniam aequalia sunt, convertuntur. Dicis enim: quid est homo? Risibile. Quid est risibile? Homo. Et item: quid est hinnibile? Equus. Quid est equus? Hinnibile. Quodsi semper maiora de minoribus praedicuntur, superiora necesse est genera esse et omnia subalterna minora fiunt. Quodsi subalterna omnia minora sunt, non est dubium quin, si quis per subdivisionem descendat ad ultimam speciem. Quodcumque genus de vicinis sibi praedicabitur, etiam de subalternis. Namque substantia habet sibi vicinum ad subteriora genus, ad se vero speciem, quod est corpus; de hoc igitur substantia praedicatur. Si quis enim interroget: quid est corpus? Dicitur substantia. Sub corpore vero est animatum corpus et sub eo animal ergo quoniam substantia idcirco praedicatur de corpore. Quia illi est superior, necesse est, quibus corpus superius fuerit, eisdem etiam sit substantia superiol. Nam si corpus praedicatur de animato corpore et de animali, praedicabitur etiam substantia de animato corpore et de animali. Sic igitur quaecumque superiora fuerint, de subterioribus non solum sibi vicinis sed etiam longe subterioribus praedicantur. Nam si maiora sunt his quae sibi vicinae sunt speciebus, multo maiora erunt etiam illis quibus ƿ illae vicinae species fuerint ampliores. Ergo de quibuscumque species praedicatur, de ipsis praedicabitur et illius speciei genus. Nam si species aliqua alicui maior est, multo genus speciei ipsius illa re qua species maior est, maius erit. Atque ita ad id praedicabitur, quemadmodum ipsa species antea praedicata est. Quod si ita est, non est dubium genus quoque generis illius quod ad illud ad quod species praedicabatur, poterat praedicari, etiam id, quoque de eo <ad> quod species et genus speciei praedicabatur, praedicari posse. Nam si quis dicat Ciceronem esse hominem, cum animal hominis genus sit, non erit absurdum Ciceronem animal praedicari. Et cum animalis ipsius substantia genus sit, non erit inconveniens Ciceronem substantiam praedicari, quoniam quae supersunt, de subterioribus praedicantor et ea quae subteriora sunt, si qua alia sibi subteriora habeant, illud primum genus habebunt etiam ista subteriora et de his non inconvenienter praedicabitur. Igitur species de individuo praedicatur ut maius, magis genus vero de omnibus subalternis et de magis specie praedicatur. Aequo enim modo dicitur et corpus substantia et animatum corpus substantia et sensibile corpus substantia et rationale animal substantia et mortale substantia et homo substantia. Et de ipsis etiam magis genus individuis praedicatur. Potest enim Cicero dici substantia, species vero sola de nullis aliis nisi de individuis praedicatur, ut dictum est, individua autem ipsa de nullo alio praedicantur nisi de ipsis, id est singulis. Natura autem individuorum haec est, quod ƿ proprietates individuorum in solis singulis individuis constant et in nullis aliis transferuntur atque ideo de nullis aliis praedicantur. Ciceronis enim proprietas cuiuslibet modi fuerit, neque in Catonem neque in Brutum neque in Catulum aliquando conveniet. At vero proprietates hominis quae sunt idem quod est rationale, mortale, <sensibile>, risibile, in pluribus et in omnibus individuis possunt et singulis convenire. Omnis enim homo et singulatim individuus et rationalis est et mortalis et sensibilis et risibilis. Atque ideo illa quorum proprietates possunt <in> aliis convenire, possunt de aliis praedicari, haec autem quorum proprietas in aliis non convenit, nisi ipsis tantum singulariter, de aliquibus aliis praeter se singulariter praedicari non possunt. Repetendum est igitur quod omne individuum specie continetur. Species vero ipsa cohercetur a genere et ullum quasi omnium corpus magis genus est et numquam est pars, individuum vero pars semper est, numquam est totum. Species autem et pars et totum merito nuncupatur, nam ad genus pars est, ad individua totum: dividit enim genus, ut dictum est, et individua colligit. Sed species pars est alterius, id est generis, totum vero non est partis sed partium. Namque genus unum est et plures species unius rei, id est unius generis species pars est. Et quoniam individua plura sunt et infinita sub una specie, quae illa individua colligit, species illa non est unius totum, id est non est partis totum sed plurimorum, id est partium; plures enim partes ƿ sub ea individuorum sunt, quarum totum species, id est homo appellatur. Sed de genere et specie sufficienter dictum. Et quoniam matutinae salutationes vocant, in futuras noctis vigilias quod est reliquum transferamus. Multa nobis a parente natura excelsius quam caeteris animantibus gravia illustliaque concessa sunt. Quae nos ita quasi quaedam benigna artifex hllmanitatis excoluit, ut primum nobis reputandi considerandique animos rationemque concederet, post vero ratione reperta proloquendi conferret usus iussissetque nos non corpolis sensibus a beluis sed mentis divinitate distare. Quae cum se sibi adiunxerit et a suae vivacitate naturae non discesserit, tunc vero sicut ipsa est aeterni generis, ita quoque famam in posteros vitamque gloriae infinitissimis temporibus coaequat. Sin vero se pravis libidinibus corporis obnoxilam perdendam corrumpendamque permiserit, naturam corporis sequitur. Nam nihil eius vivacitatis post corpora remanet cui omnis labor et studium de rebus corporis atque in corpus impensum est. Quare annitendum est, ut nos meliores curatioresque reddamus, non ea re qua pecudibus nihil distare possumus sed quo caelestium virtutum similitudine aeternitatis gloriam factis egregiis dictisque mereamur. Sed de his alias, nunc ad propositum reuertar. Cum igitur alterius noctis consueta lucubratio vigiliaeque venissent, credo hesternae rationis subtilitate captus vel qua ipse est cupiditate discendi audiendique studio vigilantius quam umquam surrexerat, Fabius ad me perrexit. Qui postquam consalutatus sequentis a me operis plomissam continuationem reposceret, Faciam, inquam, non inuitus, quippe cum nec mihi sit in vita quicquam melius agere et tu hanc mihi iucunditatem studio tuo augeas, quod mihi perquam glatissimum est. Placuit igitur ut, quoniam hesterna dissertio speciem explicuerat, alterius expositionis principium de sequenti differentia sumeretur. ÐHic Fabius: Uberrime, inquit, a te hesternis vigiliis de generibus et speciebus expositum est. Sed, ut dici audio, subtilior de differentiis tenuiorque tractatus est. ÑNon, inquam, immerito. Nam varie acceptae differentiae varias babebunt etiam potestates. Erunt namque alias genera, alias species, alias vero differentiae. Sed hoc postea demonstrabitur, nunc nero ita, ut arbitror, textus est: OMNIS DIFFERENTIA ET COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS PROPRIE DICITUR. Differentiam quoque, multis modis appellari designat. Dicit autem tribus his modis fieri differentiam, cuius aut communes sunt aut propriae aut magis propriae. Communes sunt quibus omnes aut ab aliis differimus aut a nobis ipsis. Nam sedere vel ambulare vel stare differentia est; nam si tu ambules, ego vero sedeam, in situ ipso atque ambulatione differimus. Et item ego cum nunc sedeo, postea vero si ambulem, communi a me ipso differentia discrepabo. Propriae vero sunt ƿ quae uniuscuiusque individui formam aliqua naturali proprietate depingunt, ut si quis sit caecis oculis vel crispo capillo; etenim propria uniuscuiusque singuli hominis sunt quoquomodo ista nascuntur. Magis propriae sunt quae in substantia ipsa permanent et totam speciem differentia descriptioneque permutant, ut est rationalis vel mortalis hominis differentia. Harum autem communes et propriae differentiae sub eadem specie singulos a se faciunt discrepare, illa propriis differentiis, illa communibus, magis propriae vero totam naturam cuiuslibet speciei substantiamque permutant et ab aliis speciebus segregant atque disiungunt. Harum ergo communes et propriae differentiae, quoniam speciem non permutant sed formam quodammodo et habitudinem solam faciunt discrepare, alteratum facere dicuntur, id est non integrum alterum facere, id est non integre permutare sed quodammodo discrepantiam distantiamque faciunt, atque ideo non vocantur alterum facientes, id est permutantes sed magis alteratum, id est non integrum alterum facientes. Illa vero tertia, id est magis propria, quoniam substantialis est et ipsius speciei inserta naturae, alterum facit. Nam quoniam homo atque equus quantum ad quod animalia erant, una illis erat substantia, veniens rationale disgregavit omnino speciem et funditus alteram fecit. Ergo communes et propriae differentiae alteratum facientes vocantur, magis propriae alterum facientes. Constat igitur differentiarum alias facere alterum, alias alteratum. Illae quae faciunt alterum, substantiales sunt et omnes naturam speciemque ƿ permutant et specificae praedicantur; valent enim quamlibet speciem constituere et ab aliis omnibus segregare et eius formam paturamque componere. Nam si dicas mortale et rationale differentias et eas animali supponas, non est dubium quin hominis speciem, facias et speciei huius sint perfectrices. Atque ideo specificae nominantur, quod et permutant naturam et ipsam substantiam cuiuslibet illius speciei constituunt illae vero aliae nihil aliud efficiunt nisi alteratum, quippe cum aut proprietate quadam formae alius distet ab alio aut aliqua habitudine et dispositione aliquid faciendi. Illa igitur magis propria differentia, quam specificam nominamus, sola poterit in generis divisione congruere. Etenim caeterae nihil ad substantiam sed ad quandam quodammodo eiusdem similitudinis discrepantiam distantiamque ponuntur. Nihil enim in illis praeter alteritatem solam reperire queas, quippe quae non constituunt species sed constitutas iam et effectas magis propriis suis qualitatibus ipsae discriminant. Quod autem dicit: REPETENTI NUNC A SUPERIORIBUS DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES. hoc est quod hic nunc divisio alia rursus assumitur. Nam cum prius differentiam in tribus partibus separaret et postea tres illas in duarum tantum namerum quantitatemque colligeret, ut alias alterum facientes esse diceret, alias alterantes, ipsarum rursus trium tertia sumitur facienda divisio. Dicit enim alias esse separabiles, alias vero inseparabiles, et sicut in priore divisione alteratum facientes duae fuerant communes et propriae. Sola vero magis propria remanserat quae alterum faciebat, eodem nunc etiam modo in separabilibus et in inseparabilibus communis tantum separabilis differentia est, aliae vero differentiae utraeque, ut caecitas oculorum vel flaua caesaries vel corporis proceritas, quae sunt propriae differentiae, vel certe rationabilitas vel mortalitas. Quae sunt magis propriae differentiae, possunt numquam ab hominis specie segregari. Sedere vero vel currere, quae communes sunt, separantur a singulis et item rursus adduntur. Earum vero quae sunt inse pal abiles, aliae per se veniunt, aliae vero per accidens. Et illae quae per se veniunt, a magis propriis manant, illae quae per accidens, a solis propriis effunduntur. Et inseparabile accidens est quicquid per inseparabilem propriam differentia unim cuique speciei contigerit. Sed quamquam propria et magis propria inseparabiles differentiae sint, numquam tarnen illam superiorem formam naturamque commutant. Nam magis propria semper alterum, propria vero solum semper efficit alteratum. Huc accedit quod inseparabiles propriae possunt alicui plus minusue contingere, inseparabiles magis propriae nec cumulis intentionis augentur nec imminutione decrescunt. Potest enim alius procerior, alius fuscior, deductioribus alius capillis, alius ƿ flavioribus nasci, quae sunt inseparabiles propriae differentiae at vero magis propria, id est rationale, neque plus neque minus admittit. Omnes enim homines in eo quod homines sunt, aequaliter sunt rationales atque mortales. Nam si genus alicui plus minusue esse posset genus, possent etiam differentiae vel intentione crescere vel remissione decrescere. Nam quoniam animal non est plus homini quam equo neque equo quam caeteris, et aequaliter subiectis omnibus genus est. Sic specierum differentiae quas specificas appellamus, maius minusue non capiunt. Nam si animal rationale mortale hominis definitio est et hominum nihilominus singulorum, non est dubium quin haec definitio ad omnes homines singulos aequaliter semper aptetur et nulli neque plus neque minus conveniat quod si ita est, partes quoque totius definitionis, quae sunt differentiae, tales erunt, ut nulli neque plus neque minus sed aequaliter semper et convenienter aptentur. Partes autem huius definitionis sunt rationale et mortale. Rationale igitur et mortale, quae sunt magis propriae differentiae, plus minusue non capiunt. Ab hac igitur, id est separabilium inseparabiliumque differentiarum divisione tribus modis differentias speculamur nam aut separabiles sunt aut inseparabiles, inseparabilium vero aut per se veniunt aut per accidens. Quae per se veniunt, aliae sunt quae genus dividunt, aliae quae speciem informant atque constituunt. Sed de superioribus prius dictum est, nunc autem de his quae genus dividunt et speciem constituunt. Disseramus. Omnis quaecumque fit generum divisio in species, si earum specierum alia snbdivisio fiat et a magis generibus ƿ per subalterna genera usque ad magis species decurratur, gemina in his erit duplexque divisio. Namque si contrarias specierum differentias respicias. Generum est divisio, si suba-ltemorum generum, fit specierum constitutio. Si enim genus dividamus id est sublstantiam, ut iam speciei disputatione e divisa est, et sit substantia, post substantiam animatum corpus et inanimatum, sub animato corpore sensibile et insensibile, sub sensihili, id est animali, rationale vel irrationale, sub rationali mortale vel immortale, hae igitur differentiae eaedem species sunt, si contra se ipsas in divisione respiciantur. Et dividunt genus hoc modo. Nam quoniam sub substantia animatum corpus et inanimatum posuimus, si animatum corpus contra inanimatum respicias, substantiam divisisti. Si vero subalterna genera in ipsis differentiis aspicias, speciem constitues. Nam si animatum corpus et quod sub ipso est sensibile corpus aspeseris, animal respexisti. Item si rationalem differentiam contra hlrationalem acceperis, genus quod est utrorumque, id est animal divisisti. Si vero sub eodem ordine rationalem differentiam et mortalem accipias, hominis sine dubio speciem demonstrasti. Ita hae differentiae alio modo acceptae fiunt generis divisibiles, id est genera dividentes, alio vero modo fiunt constitutivae specierum, id est quae species declarent atque constituant, nam si contrarias differentias respexeris, divides genus, si vero subalternas, speciem constitues. Differentiarum igitur vis et separabilium et inseparabilium caeteras tres res, id est genus, speciem aceidensque sic retinet, ut permutata comparatione per haec eadem ipsa etiam permutentur. Nam rationale et mortale differentias si contra irrationale et immortale respexeris. Divisibiles sunt et generis differentiae, sin vero idem ipsum rationale et mortale ad superiora comparaveris, species erunt eius quod eas continet animalis. Si vero rationale atque mortale ad subiectum hominem consideres, genera eius constitutivasque differentias contemplabere. At vero de illis aliis inseparabilibus. Id est propriis, cadunt differentiae inseparabilis accidentis. Inseparabile namque est accidens caecitas oculorum et, nasi curuitas et alia huiusce modi. Et idem de separabilibus accidentibus, id est de communibus. Separabile namque est accidens vigilare, dormire et currere vel sedere. Quod autem dicit: SIC IGITUR COMPOSITA SIT SUPER OMNIA SUBSTANTIA ET SINT EIUS DIFFERENTIAE DIVISIBILES ANIMATUM ET INANIMATUM, contrarias differentias in species monstrat. Quod autem dicit: HAEC DIFFERENTIA ANIMATA ATQUE SENSIBILIS SOCIATA SUBSTANTIAE PERFICIET ANIMAL, constitutivas specierum diffetentias monstrat. Sic igitur variis modis acceptae varias virtutes formasque sortitae sunt. Sed et divisibiles et constitutivae utraeque specificae nominantur ƿ et in divisione generum definitionibusque solae sunt utiles, caeterae vero inseparabiles per accidens inutiles, et multo magis illae sunt inutiles quae separabili differentia discretioneque formatae sunt. Has autem specificas differentias qui de differentiarum definitione tractaverunt, tales esse declarant quibus species a genere abundant. Quid autem sit, breviter explanandum est. Controversia est utrum genus differentias specierum suarum in se habeat an minime, ut puta: animal sub se habet species rationale et irrationale, id est hominem et verbi gratia equum; rationabilitatem igitur et irrationabilitatem, id est hominis vel equi differentias, quibus a se species sub animali positae differunt, utrum habeat utrasque animal an non habeat. Nam si animal, quod genus est, neque rationale neque immtionale est, species quae sub ipso sunt positae, istas differentias non habebunt. Nam si genus istas differentias non habebit, unde erunt speciebus differentiae, quibus a se ipsis differunt? Sed si quis dicat esse in genere istas differentias, non enim haberent species, nisi prius genus habuisset, aliud maius continget incommodum. Nam quoniam aeque sunt species quae sub aliquo genere supponuntur, et aequaliter homo atque equus sub animali genere ponuntur neque homo prius est neque equus sed uterque aequaliter animati species nominantur. Igitur si rationale atque irrationale aequaliter sub eodem genere sunt, ƿ erunt etiam uno tempore. Quodsi uno tempore et genus istas differentias habet, ut genus suapte natura id est animal rationale sit et irrationale, noo est dubium quod eadem res uno tempore duas contrarietates in sese substantialiter retineat. Quod fieri nequit. Quid igitur? Dicendum est quoniam genus actu quidem ipso, quod Graeci eineurgeian vocant, istas differentias non habet, at vero potestate ab his ipsis differentiis, quas in suas species fundit, non uacat. Quid autem sit actus et potestas, castigatius explicandum est. tantum interest aotus a potestate, quantum homo ridens ab eo qui ridere possit, non tamen rideat. Ille enim agit ipsam rem, ille tantum potest, non etiam agit. Sic igitur et animal. Namque homo actu ipso rationalis est, semper enim homo rationalis et nihil aliud est; et equus semper irrationalis, et eius irrationabilitas in actu posita est. At vero ipsum animal rationale vel irrationale non ipsum agit neque est in eorum actu positum sed in potestate. Potest ellim es se rationale atque irrationale profundere. Quare quoniam species actu differentias continent, genus vero potestate, species a genere merito differentiis abundare dicuntur, quoniam quod genus potest, id est differentias facere, species non solum possunt sed etiam agunt; in ipsis enim speciebus positae informataeque sunt. Est autem alia differentiae definitio talis, quae dicat differentiam esse quae ad plurimas species in eo quod quale sit praedicetur. Differentia ad res plurimas dici potest, ut rationale dicitur ad hominem -- homo enim rationalis -- dicitur ad deum; deus enim rationalis dicitur sed non in eo ƿ quod quid sit sed in eo quod quale sit. Nam si qualis homo sit interrogetur, rationalis continuo respondetur, qualis deus sit si interroges, rationalem non absurde dixeris. Eodem modo etiam irrationabilitas. Dicitur enim et ad equum et ad bovem et ad piscem et ad avem, quae omnia si qualia sint interrogaveris, irrationabilia praedicantur. bona igitur et recta haec est definitio, id est: DIFFERENTIA EST QUOD AD PLURIMAS RES SPECIE DISTANTES IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Et de mortali vero et de aliis differentiis eadem est ratio. Sequitur locus perdifficilis sed transferentis obscuritate Victorini magis quam Porphyrii proponentis, qui huiusmodi est. Dicit omnem rem quaecumque est corporea, ex materia et forma constare. Namque si statuam dicas, constat statua ex aere verbi gratia et figura illa quam ei suus fictor imposuit, et est materia ex quo facta est aeris, figura vero, id est forma, qua aes ipsum formatum est. Nam si hominem formabis ex aere, erit hominis forma, aes vero materia. Eodem modo etiam genus. Namque genus in modo materiae accipitur, differentia vero in modo formae. Etenim quemadmodum quaecumque illa res ex materia et forma consistit, sic etiam omnis species ex genere et differentia. Namque genus ita est hominis, ut est statuae aes, differentia vero sic est hominis, ut est forma illa es qua aes effictum est. Nam sicut ex aliqua figura quae es aeris materia efficta est, cuiuscumque illius species statuae ƿ fit, sic etiam cum in genus, id est in animal venerit differentia, id est rationale, hominis species fingitur. Ista igitur sibi proportionaliter sunt. Proportio autem est cuiuscumque, illius rei similis ad aliquam rem cognatam comparatio, ut puta si duo compares ad quattuor, dupla proportio est, sin vero viginti ad quadraginta, eadem dupla. Sub eadem ergo proportione sunt quattuor ad duo, sub quali quadraginta ad viginti quod utrique duplex est numerorum! comparatio. Sic igitur qualis proportio est, id est comparatio materiae et figurae talis est proportio generis et differentiae, et ista quattuor sibi proportionaliter sunt. Eodem enim modo ex materia et figura species cuiuscumque illius fictionis fortnata est, quemadmodum ex genere vel differentiis species cuiuscumque illius animantis inanimantisue formatur. Quod Victorinus scilicet intellexisse minus videtur. Nam quod Porphyrius ainaulogon dixit, id est proportionale, ille sic accepit quasi a[logon diceret, id est irrationale. Atque ideo in loco ubi habet hoc modo scriptum: OMNES NAMQUE RES EX FORMA ET MATERIA CONSISTUNT IPSA AUTEM FORMA IRRATIONABILIS EST, tollendum est irrationabilis est et dicendum proportionabilis est. Et subterius paululum ubi habet: IAM OMNE GENUS SIMILE MATERIAE EST ET CONSISTIT IRRATIONALE, tollendum irrationale et ponendum est proportionale, ut sit et consistit proportionaliter. Nam quae proportio est figurae ad materiam in efficienda cuiuslibet corporis fictione, eadem est proportio diffelrentiae ad genus in efficienda cuiuslibet specie animati atque inanimati. Sequitur item alia definitio, quae est huiusmodi. Dicunt enim esse differentiam quod possit separare quicquid sub eodem genere est, et recte dicunt. Nam dum syb eodem genere sit homo atque equus, quia utrumque est animal, cum venerit rationale vel irrationale, equum atque hominem, quae sub eodem genere sunt, dividunt atque discerllunt. Sunt igitur illae differentiae quae possunt res sub eodem genere separare. Est autem alia definitio: differentiae sunt quibus quidque ab alio distat. Nam homo atque equus rationali atque irrationali differentia discrepant, cum unum sint quantum ad genus. Et hoc est quod dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA, QUIA PER SE IPSUM GENUS EST ET ILLA QUAE RATIONABILIA SUNT, NOS SCILICET, ET ILLA QUAE IRRATIONABILIA SUNT. NAMQUE ET HOMO ET EQUUS ET AVIS HAEC OMNIA GENUS UNUM SUNT, ID EST ANIMAL. NAMQUE ANIMAL HORUM OMNIUM GENUS EST. Sed si de hoc loco in quo positum est quia per se ipsum ƿ genus est, mutes et facias 'quia per se ipsa animalia sunt', plenior sensus erit -- generis enim hic nomine pro animalis abusus est -- et erit huiusmodi ordo: 'differentia est qua differunt singula, quia per se ipsa animalia sunt et illa quae rationabilia sunt animalia, nos scilicet, et illa quae irrationabilla sunt'. Quod si sic esset, nullus esset error omnino. Nunc vero genus quod ait, pro animalis nomine intellegendum est. Item dii atque homines cum utrique rationales sint, mortalitatis tamen nomine adiecto differunt discrepantque. Sic igitur differentia est qua singula differunt sed hoc non simpliciter sed illas tantum differentias huiusmodi esse putandum est quae ad substantiam prosunt et quae ad id quod est et quaecumque speciei possint esse aliqua pars. Quod huiusmodi est si equus atque homo, quorum utrorumque unum genus est animal, a se differunt rationali atque irrationali qualitate attamen ista rationabilitas et irrationabilitas in substantia ipsarum specierum est hoc modo. Nam neque equus potest esse sine irrationabilitate, neque homo sine rationabilitate. Atque ideo istae differentiae prosunt ad aliquid esse speciei illi cui fuerint accommodatae et substantiae ipsius partes sunt. Nam cum homo ex his differentiis constet, id est ex rationali et mortali, rationale et mortale solum positum pars est substantiae hominis. Nam si utraque simul unum hominem faciunt, non est dubium quin ad substantiam hominis efficiendam unaquaeque earum res pars esse videatur. Quare illae ƿ differentiae quaecumque non prosunt ad esse nec partes substantiae cuiuslibet speciei sunt, specificae differentiae dici non habent, quamvis sola hoc una species habeat. Nam si homo navigat, potest dici animal navigabile sed navigare in substantiam hominis non convertitur. Neque enim homo inde subsistit, quia navigat, quamvis hoc nullum aliud animal habere possit, id est nullum possit animal navigare. Eodem modo et esse rhetorem vel grammaticum. Has igitur differentias quae ad esse non prosunt sed tantum artem aliquam scientiamque commemorant, non ponimus specificas esse, quamvis una quaelibet animalis id species habeat. Ergo considerandum est, ut quotiens dicimus definitionem differentiae illam, 'differentiam esse qua differant singula', illam significari differentiam intellegamus quae ad aliquid esse prodest et quae est alicuius pars substantiae speciei, illas vero quae ad esse non prosunt, a in hoc genere differentiarum, quamvis singulae cuiusque sint, non ponamus. Sed quoniam de differentia dictum est, de proprio explicemus. ÑTunc Fabius: Ut arbitror, consequens est: PROPRIUM QUATTUOR DICITUR MODIS. DICITUR NAMQUE PROPRIUM QUOD UNI SPECIEI ACCIDIT, ETIAMSI NON OMNIBUS. Et ego: Quattuor ergo modis propria dividuntur. Est enim proprium quod uni accidit, etsi non omnibus, ut est rhetor vel geometer vel grammaticus. Haec vero omnia uni soli speciei, id est homini accidunt, non tamen omnibus. Neque ƿ enim omnes homines grammatici vel rhetores vel geometres sunt, atque ideo vocabitur hoc proprium quod uni sit, etiamsi non omnibus. Est item alia proprietas quae est omnibus etiamsi non soli. Nam bipes omni homini accidit, omnis enim homo bipes est sed non soli hominum speciei accidit sed etiam avibus. Est item tertium proprium quod omni et soli et aliquo tempore accidit, ut est in pubertate pubescere et in senecta canescere. Namque et umnibus hominibus evenit et nulli alii speciei nisi soli hominum et aliquo tempore; constitutum enim tempus est vel adolescentibus pubescendi vel senescentibus canescendi. Neque enim a sexto anno vel septimo aliquis pubescit aut a vicesimo canescit, nisi forte aliquid accidit novi quartum proprium est quod uni speciei accidit et omnibus sub eadem specie individuis et omni tempore. Nam risibilem esse hominem et uni speciei solum, id est homini, contingit et omnibus sub eadem specie individuis; omnes enim singuli homines rident et omni tempore. Numquam enim tempus fuit ut quicumque ridere non posset. Sed risibile dico potestate, non actu. Namque etsi non rideat homo, tamen quia ridere potest, risibilis appellatur. Et sunt integre et vere propria ista quae et uni et omnibus et omni tempore insunt, namque haec speciebus suis converti possunt. Si enim dicas: quid est homo? Risibile. Si: quid est risibile? interroges, homo praedicabis. Illa vero alia, bipes vel grammaticus, propria quidem sunt sed converti non possunt. Nam grammaticus semper homo, homo vero non semper grammatices, et e contrario homo ƿ semper bipes est, non e contra bipes semper homo est. Et hinnibile similiter magis proprium equi est. Nam eodem modo haec proprietas ad suam speciem converti potest. Nam si dicas: quid est equus? hinnibile respondebis, si: quid est hinnibile? equus praedicabitur. Sed quoniam de propriis dictum est, de accidentibus sequens tractatus habeatur. Tum Fabius: Definit Porphyrius accidens sic: ACCIDENS EST QUOD INFERTUR ET AUFERTUR SINE EIUS IN QUO EST INTERITU. Hoc autem dicere videtur, illud esse accidens sine quo potest constare illud cui accidit; ut puta si forte casu aliquo cuiquam facies inrubuerit, abscedente rubore inlaesa facies permanebit, sicut eveniente non laesa est. Dividit ergo accidens in separabile et in inseparabile. Namque separabile accidens est, ut puta si quis sedeat vel ambulet, inseparabile est, ut si dicas coruum nigrum, cygnum album; a quibus haec accidentia separari non possunt. Nascitur autem huiusmodi dubietas, utrum superior definitio vera sit et omnium accidentium nomen includat. Nam quoniam sunt quaedam, ut ipse ait, accidentia inseparabilia, in his talis definitio videtur convenire non posse. Nam si separari non possunt, non est in illis vera definitio quae dicit accidens esse quod et inferri et auferri potest sine eius in quo est interitu. Nam cum inseparabilia sunt, auferri non possunt. Sed haec tam uehemens quaestio solvitur sic, quod haec ipsa definitio de accidentibus facta est potestate, non ƿ actu, et intellegentia, non veritate, non quia Aethiops et coruus colorem amittunt sed sine isto colore ad intellegentiam nostram possunt subsistere. Nam verum est quoniam Aethiopem aut coruum color niger numquam deserit. Sed si quis subintellegat colorem istum Aethiopem vel coruum posse amittere plumarum tantum color in coruo mutabitur et erit avis alba specie et forma corui, si quis hoc intellegat, at vero hominis, id est Aethiopis, amisso nigro colore, elit eius species candida sicut etiam aliorum hominum. Ergo hoc non ideo quia fiat dicitur sed ideo quia, si posset fieri, huius accidentis susceptrix substantia non periret. Quod ipse hoc modo demonstrat: POTEST AUTEM SUBINTELLEGI ET CORVUS ALBUS ET AETHIOPS COLOREM SUUM PERDITURUS SINE INTERITU SUO IN QUO COLOR FUIT. Nihil enim ad speciem impedit, si Aethiops vel coruus amisso colore in propriae substantiae natura permaneat. Est autem alia definitio, quae est huiusmodi: ACCIDENS EST QUOD CONTINGIT ALICUI ET ESSE ET NON ESSE. Nam quod in substantiam non convertitur, id accidens esse dicimus, id est non in substantia insitum sed extrinsecus veniens. Ergo ea quae contingunt et esse et non esse, ideo accidentia vocata sunt, quoniam in substantiae ratione non accipiuntur. Si enim in substantiae ratione ponerentur, numquam non essent, et si non essent, numquam esse possent. Nam quoniam verbi gratia ratio in substantia hominis est, numquam homo esse potelit irrationalis, quoniam irrationabilitas in substantia hominis non est. Ex hoc ergo venit etiam alia definitio, ƿ accidens esse illud quod neque genus sit ueque species neque differentia neque proprium. Nam quoniam genus, species, differentia et proprium in substantia sunt et cuiuscumque illius rei substantiam monstrant, idcirco quicquid horum aliquid non fuerit, id accidens merito praedicatur. Explicitis igitur atque expeditis his quae proposuit, id est genere, specie, propriis, differentiis accidentibusque, tractare a nunc exequitur illa quae inter haec communia omnia vel quae differentiae sint. Et primo omnium simul inter se communiones explicat, post etiam singulorum, et dicit omnium esse commune de pluribus praedicari. Namque genus praedicatur de speciebus et de individuis, eodem modo praedicatur et differentia de speciebus et de individuis, etiam proprium et de speciebus et de individuis praedicatur, at vero species de solis tantum individuis appellatur. Genus enim praedicatur de equis, hominibus, bobus et canibus, id est speciebus, praedicatur item et de his quae sub ipsis speciebus individua continentur; nam sicut species ipsae canis vel equi vel hominis ƿ animalia sunt, sic et unusquisque equus vel homo animalia praedicantur. Differentiae vero praedicantur de speciebus et de individuis hoc modo. Namque homo et equus species sunt sed rationalis dicitur et ad speciem hominis differentia praedicatur eodem modo et ad Ciceronem. Nam cum sub hominis specie individuum sit, et ipse rationalis appellatur proprium autem de specie praedicatur. Cum dicitur species; quod est homo, risibilis et cum dicitur Cicero risibilis, quod est individuum, monstratur proprium de individuis praedicari. Species vero de suis tantum solis individuis praedicatur interrogatur enim: quid est Cicero? et homo respondetur. Accidens vero ante praedicatur de individuis et postea de speciebus. Nam si quis dicat: homo sedet, quod est accidens separabile, cum quicumque singulum hominem, id est'individuum sedere viderit, tunc id et de specie praedicat, ut dicat: quoniam Cicero sedet Cicero autem homo est, homo sedet. Eodem modo inseparabile de speciebus et de individuis praedicatur. Expeditis ergo omnium communionibus, generis et differentiae primum communiones differentiasque declarat. Et primum dicit generi cum differentia esse commune quod ab utrisque species continentur. Nam genus, quod est animal, continet speciem hominis atque equi. Porro autem rationale, quod est differentia, continet et hominem et deum, et irrationale, ƿ quod est differentia, continet equum, bovem atque avem sed ita continet, ut genus semper plures species contineat quam continet differentia. Namque genus et ipsas differentias continet. Genus enim, id est animal, rationale atque irrationale continet illasque species quae sunt sub rationali; etiam eas <quae sunt sub> irrationali, continet genus, lid est animal. At vero differentia, id est rationale, in rationale non continet sed tantum hominem atque deum. Plus igitur genus continet quam differentia. Est autem et alia communio. Si quid enim ad quodlibet genus ita praedicatur, ut eius genus sit, et de illis speciebus quae sunt sub illo genere ad quod praedicatur, illud genus appellatur et de individuis quae sub illis speciebus sunt. Namque animal genus est hominis, et de animali praedicatur ut genus substantia; genus enim substantia animalis est. Ergo illa substantia quae ad hominis genus, id est animal, ita praedicatur ut genus, praedicatur etiam et ad ipsum hominem; dicitur enim homo substantia. Praedicatur item illud generis genus etiam de bis quae sunt sub specie individuis; dicitur enim Cicero, quod est sub hominis specie individuum, substantia. Differentia eodem modo. Nam si qua differentia dicta fuerit de alia differentia, ut differentia intellegatur, praedicabitur et ad speciem quae sub illa differentia est ad quam praedicatur, et de illis individuis quae sub eadem specie sunt. Nam 'ratione uti' differentia ad rationalem differentiam veluti cognata differentia praedicatur, rationabile autem praedicatur ad hominem: ƿ ergo et ratione uti praedicatur ad hominem. Idem etiam ratione uti praedicatur ad Ciceronem, quod est individuum sub illa specie ad quam speciem illa differentia, id est rationalis, praedicabatur, de qua praedicabatur ut cognata illa differentia, id est ratione uti. Igitur est ista generis differentiaeque communitas, quod ea quae de genere speciei praedicantur ut genus, et de sub eodem genere specie praedicantur et de indiaiduis, et illa quae de differentia praedicatur ut differentia, et de sub eadem differentia specie praedicatur et de individuis. Est autem alia communio, quod quemadmodum interempto genere species interimuntur, sic interempta differentia species sub eadem differentia interimuntur. Nam si interielit animal, homo atque equus continuo periturus est, sin vero differentia, id est rationale, dii atque homines interibunt et nihil eorum erit quod uti ratione possit. Post demonstrationem igitur communium proprietates eorum differentiasque designat et dicit differentiam primam eam qua genus non solum <a> differentiis sed etiam speciebus vel propriis vel accidentibus differat. Namque dicit genus multo de pluribus praedicari quam praedicetur differentia vel species vel accidens vel proprium. Namque genus dicitur, id est animal, de quadrupede, de bipede, <de> reptili, id est ƿ de serpentibus, vel de natabili, id est de pisce. Quadrupes autem, quod est a bipede differentia, de solis illis dicitur quae quattuor pedes habent, id est equus vel bos, de caeteris autem aliis, id est bipede vel reptili vel natabili, unde genus aequaliter praedicatur, appellari non potest. Plus autem genus ab speciebus praedicatur, quod, cum hominis species sit et de solis individuis praedicetur, idem tamen homo de equo vel bove vel cane non praedicatur. At vero animal, quod est genus, de pluribus speciebus praedicatur, id est de homine et de equo et cane et bove et de omnibus quae sunt sub ipsis posita individuis. Genus autem a proprio praedicationibus abundat, quod proprium unius speciei semper est et de sub eadem individuis, genus vero de multis speciebus et propriis praedicatur et de sub eisdem individuis. Ab accidentibus vero genus magis de plurimis praedicatur, quod, cum unius cygni inseparabile fortasse accidens sit album, animal non solum de cygno praedicatur sed de omnibus animalibus, etiam non albis, at vero accidens de solis tantum illis quibus inseparabiliter continetur vel quibus separabiliter; nam principaliter de individuis dicitur. Quare constat multo de pluribus praedicari genus quam accidentia praedicantur, quod accidentia principaliter de individuis, genera vero de individuis et de speciebus et de differentiis praedicantur. SED NUNC ILLAS DIFFERENTIAS ACCIPIAMUS QUIBUS GENUS DIVIDITUR, NON QUIBUS SPECIES FORMANTUR. Hoc autem tale est. Quoniam duas diximus differentiarum esse formas, ut aliae sint divisibiles, aliae constitutivae, constitutivas illas diximus quae sub eodem filo positae et a subalternis generibus descendentes speciem quandam informant atque efficiunt, ut est rationale vel mortale; quae hominis speciem constituunt, alias vero divisibiles, quae genus dividunt, non speciem informant, id est rationale et irrationale, mortale et immortale. Nunc de illis differentiis iste tractatus habetur quae genus dividunt, non quae speciem constituunt. Nam illae quae genus dividunt, 1n differentiarum integro loco accipiuntur, illae vero quae speciem constituunt, in generum specierumque substantia recipiuntur. Namque rationale mortalis genus est, porro mortale hominis genus est, et istae constituunt speciem, at vero rationale irrationalis species non est neque genus, nec mortale immortalis neque genus neque species est. Atque ideo quoniam propriam vim differentiarum ista retinent quae neque genera neque species sibi invicem esse possunt, ipsas nunc differentias accipiamus in quibus nulla quantum ad genus est speciemque communitas. Est etiam generis differentia. Namque genus a propriis differentiis prius est. Namque si abstuleris genus, omnes simul differentias abstulisti. Nam si abstuleris animal, rationale atque irrationale non remanent. Porro autem si rationale abstuleris, remanet ƿ animal. Sed si utrasque interemeris differentias, id est rationale vel irrationale, potest tamen quiddam intellegi, quod sit substantia animata sensibilis, id est animal. Ita genus sublatum omnes secum auferet differentias, sublatae differentiae genus secum non interimunt, quod intellegentia genus remanet, id est quoniam potest animal intellegi praeter differentias, ut eius tantum definitionem animo capias et esse dicas substantiam animatam atque sensibilem. Quae autem talia sunt, ut ipsa interempta interimant, non simul aliis interemptis ipsa interimantur, priora sunt illis quae possunt interimere. Est etiam alia differentia, quod genus semper in eo quod quid sit praedicatur, ut dictum est, differentia vero in eo quod quale sit. Sed hoc frequentius inculcatum est atque ideo a nobis praetermittendum est. Est etiam alia differentia, quod ad omnem speciem unum semper genus aptatur. Homo enim unum tantum genus habet, ut animal appelletur, in unam autem speciem plurimae differentiae poterunt commodari. Namque homo et rationale est, quae differentia est, et mortale, quae eadem differentia est, et sensibile, quibus scilicet omnibus ab aliis differt. Differt enim his omnibus, quod sensibilis est ab insensibilibus, quod rationalis ab irrationabilibus, quod mortalis ab immortalibus. Est etiam alia differentia, quae superius dicta est. Nam genus speciei ita est ut materies, differentia vero ut figura. Nam sicut in aeris materiem veniens figura statuam efficit, ita animali, id est generi, veniens differentia, id est rationale vel irrationale, facit hominis vel pecudis speciem. Quae autem communitates ƿ vel proprietates generis <et differentiae> fuerunt, hactenus dixit. Et fortasse erunt etiam aliae, quae propter brevitatem supersedendae atque omittendae sunt. Nunc autem de generis vel speciei communitatibus proprietatibusque tractatur. Et dicit genus et speciem commune habere de pluribus praedicari, sicut dictum est. Nam genus et de speciebus pluribus praedicatur et earum individuis et item species de sub se plurimis individuis appellatur. Et hic quoque illae species accipiuntur quae magis species sunt. Nam si subalternae accipiuntur, non magis species quam genera videbuntur. Nam quae subalternae species sunt, etiam genera sunt, et erit absurdum et huic propositioni inconveniens de generum inter se differentiis communibusque tractare. Accipiantur illae tantum species quae vere species et magis species appellantur. Est etiam alia eorum communio, quod sicut gentls ab specie primum est, sic species ab individuis primae sunt. Nam si genus auferas, species abstulisti, si species abstuleris, genera non peribunt. Porro si species abstuleris, individua morientur, si individua interierint, species manent. Est etiam his alia communio, quod quemadmodum genus quid sit totum declarat, sic etiam species. Nam totum quod est rationale atque irrationale, a genere declaratum est; dicitur enim quicquid fuerit rationale vel irrationale, id esse animal. ƿ Sic igitur totum quid sit, a genere declaratur. Porro autem quid sit tota hominum diversitas, id est individuorum, a sola specie declaratur, cum dicitur homo. Nam et Scytha et Indus et totum quisquid in individuis est, uno solo hominis, id est speciei nomine continetur. Dissertis igitur generis specieique communibus ad proprietates eorum vel differentias transitum fecit dicens differre inter se genus et species, quod genera species continent, numquam rursus genera ab speciebus propriis continentur. Oportet autem, ut dictum est, in hoc tractatu non subalternas sed magis species considerari. Genus enim plurimarum specierum est continens et unum omnium et totum et omnibus et singulis. Quod si ita est et genus a suis speciebus singulis maius est atque ideo eas dicitur continere, non est dubium quin ea ipsa genera quae continent species, ab his ipsis contineri non possint. Insuper omnia genera praeiacent. Hoc videtur dicere quod omnia genera prius sint ab his speciebus quae sub ipsis positae continentur. Nam sicuti materies prima est ab illa re quae veniens in materiem formam constituerit atque figuravexit, sic etiam prius est genus ab illa specie quam veniens differentia formabit atque constituet. Nisi enim in generibus differentia venerit, species numquam constituentur. Quare praeiacent, id est praesunt et antiquiora sunt genera speciebus suis. Atque ideo si genera interimantur, ƿ species quoque peribunt; nam si animal sustuleris, hominem pecudemque sustulisti. Si vero species interimantur, non continuo genus interibit; nam si homo perierit, animal continuo non interemptum est, alia enim remanebit species de qua ipsum animal, id est genus praedicetur. Atque ideo genera ab speciebus suis priora dicuntur. Et quod omnia genera univoce de speciebus praedicentur, species ipsae de generibus numquam. Hoc, ut arbitror, in hesterna lucubratione iam dictum est. Nam genera semper de speciebus univoce praedicantur. Homo enim et homo est et animal. Porro autem animal genus est hominis et praedicatur animal de lmmine. Quoniam ergo animal Ac homine praedicatur et dioitur homo animal, animal et homo uno animalis nomine nuncupantur. Sed his ipsis definitio una conveniet. Est enim animal snbstantia animata sensibilis, quod non absurdum est in homine dici. Nam si homo ipse animal dicatur, non erit absurdum dici de homine 'substantia animata sensibilis'. Igitur genus de speciebus suis univoce praedicatur, quod eodem nomine et eadem definitione conveniat. At vero species non modo univoce non praedicantur de generibus suis sed nec omnino praedicantur; nulla enim res minor de maiore poterit prxedicari. Atque ideo, quoniam species minores sunt suis generibus, de generibus suis neque univoce neque aliquo modo poterunt appellari. AMPLIUS OMNIA GENERA ABUNDANT COMPLEXIONE SUB SE POSITARUM SPECIERUM, IPSAE SPECIES ABUNDANT GENERUM SUORUM PROPRIIS DIFFERENTIIS. Quod dicit proinde est ac si diceret: Omne quod genus est, plures sub se species continet, omne quod species, plures in se differentias habet. Genus enim, id est animal, in hoc homine, id est specie, superabundat et superest, quod homo solum homo est, animal vero non solum homo sed etiam bos vel avis vel alia huiusmodi. Species vero in eo superant genera sua, quod eas differentias quas species in actu habent, eas genera non habents nam, sicut superius dictum est, genera differentias illas quas habent sub se species positae, potestate continent, non etiam re. Atque ideo species quae est homo, vel alia species, sicut est equus, a genere suo, animali, in hoc abundant et supersunt, quod animal ipsum per se neque rationale neque irrationale est, at vero homo vel equus hoc rationale. Illud vero rationis expers. ILLUD ETIAM, QUOD SPECIES NUMQUAM MAGIS GENUS FIET, RURSUS ET GENUS NUMQUAM MAGIS SPECIES FIT. Et ut sciremus hic non de subalternis speciebus. Sed de illis magis speciebus specialissimisque tractari, quid ait? Quod ea quae sunt genera, magis species fieri numquam possunt neque magis species aliquando fieri magis genus. Nam species numquam genus est. Quicquid enim fuerit species, genus non erit neque quicquid fuerit genus, species erit. Quare constat in his eum tractatibus de speciebus solis, non etiam de subalternis disserere. Subalternae enim possunt esse etiam genera. Magis species vero, ut ipse ait, numquam genera esse possunt. Sed postquam de generum specierumque communitatibus differentiisque tractatus est habitus, ad genera propriaque transgressus est. GENERIS ET PROPRII COMMUNE HOC EST, ADHAERERE SPECIEBUS ET AMPLECTI. Dicit geners et propria in hoc sibi esse consimilia, quod omne genus a suis speciebus numquam recedit. Eodem modo et propria. Nam si dixeris 'homo', cum ipso homine continuo animal nominasti, quod ipsius hominis, id ost speciei genus est. At vero etiam si hominem dixeris, eius etiam proprium continuo cum bomine nominasti; omnis enim homo risihilis est. Ita semper genus et propria suis speciebus inselta et quodammodo conglutinata sunt. SIMILITER ET GENUS PRAEDICATUR DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE HIS QUAE SUI PARTICIPANTIA SUNT. Et aequaliter, inquit, omnes species eidem generi supponuntur et ad eas genus illud appellatur, sicut propria ad ea praedicantur quae sui participare possunt. Namque aequaliter genus animal de homine dicitur et de equo et de bove et de caeteris animantibus, quemadmodum et risibile, id est proprium, de Hortensio dicitur et Cicerone et de singulis individuis quae sub eadem specie continentur, ad quam speciem proprium, id est risibile, poterit praedicari. Adhuc commune est ipsis univoce praedicari. Nam genus ƿ de suis speciebus, ut dictum est, univoce praedicatur et risibile de ea specie cuius est proprium, univoce praedicatur; namque et homo est et risibile. Porro autem si quis dicat hominem esse animal rationale et mortale et dixerit risibile esse animal rationale et mortale, non errabit. Aequaliter igitur et genus de speciebus suis et propria de ea specie cuius sunt propria, univoce praedicantur. Differt autem utrumque, quod genus primum et secundum est proprium. Genus enim si ab specie primum est, proprium autem uni tantum speciei adhaeret et eidem aequale est, non est dubium quoniam genus, quod specie maius est, proprio etiam speciei maius sit. Nam ut sit risibile, animal prius est. Namque ut aliqua species informetur, propriis et differentiis primo erit genus, ubi illa conveniant, sicut *equentius inculcatum est. Accedit etiam quod genus de plurimis speciebus praedicatur. Namque genus, id est animal, de pluribus, at vero propriums id est risibile, de sola tantum hominis specie praedicatur. Unde fit ut semper propria de speciebus suis conversim praedicari possint, species autem de generibus numquam. Neque enim omne quod animal est, homo est neque omne quod animal est, risibile est. Potest enim esse et equus et hinnibile id ƿ quod animal nominatur. Porro autem omne quod est homo, id risibile est et omne quod risibile est, id homo est. Possunt autem propria et species sibi ipsa converti et conversim ad se invicem praedicari. Praeterea omni speciei quicquid fuerit proprium, omni et soli est. Namque risibile et omnibus hominibus est et solius hominis speciei evenit. At vero animal, qmld genus est, etsi uni speciei inest, non tamen soli. Namque animal omni homini inest, non soli tamen homini, quia inest etiam pecudi et caeteris animantibus. Oportet autem hic illa propria intellegere quae magis propria sunt, id est quae integre propria nominantur; quae sunt huiusmodi, ut et uni speciei et omnibus insint. Differunt ergo in hoc quoque genera et propria, quod propria et uni speciei et omnibus individuis in ea specie sunt, genera vero omnibus quidem individuis in ea specie sunt sub eodem genere, non tamen uni soli speciei, quoniam genus semper de plurimis praedicatur. Unde fit ut sublata propria non auferant genus, sublatis vero generibus ipsa quoque propria auferantur. Nam si sustuleris proprium, id est risibile, remanet hinnibile remanet natabile. Si vero genus snstuleris, simul quoque species sustulisti si species sustuleris, propria etiam quae sunt speciebus, simul interibunt. Itaque sublatis generibus propria sustuleris, sublatis propriis simul genera non auferuntur Peractis igitur generum propriorumque differentiis ad generum accidentiumque communitates vel proprietates transitum ƿ fecit et unam eorum praedicat communitatem, quae est quod de pluribus praedicantur. Namque sicut genus de plurimis speciebus praedicatur, ita etiam separabile accidens vel inseparabile de plurimis speciebus appellatur. Dicitur enim et de coruo et de homine Aethiope nigrum et de equo et de homine moveri, quod illud est inseparabile accidens, illud vero separabile. Et quoniam longius a se distant, idcirco unam eorum solam communionem dixit et alias si quae forte essent quaerere supersedit. Differt autem genus ab accidenti, quod genus ante species est, accidentia vero speciebus posteriora sunt. Semper genera super species et his praeiacere et esse maiora superius demonstratum est. Namque prius est animal ab homine, atque ideo consumptum animal species quoque consumit, consumptae species non interimunt genera. At vero accidens postea necesse est ut sit, quam sunt ipsae species. Erit enim prius aliquid cui possit accidere. Omne enim accidens praeter illud cui accidit, esse non potest. Atque ideo prius erit aliqua res ubi accidat, quam est ipsum accidens. Necesse est igitur omne accidens post species inveniatur et magis post individua, quibus principaliter possit accidere. Huc accedit quod generis participantia aequaliter participant. Sicut omne genus speciebus suis aequaliter genus est, ut saepius dictum est, ƿ et species omnes aequaliter suo generi participant. Namque equus et homo aequaliter animalia sunt neque equus homine plus neque homo equo. At vero accidentia non aequaliter participant nam cum separabile accidens sit moveri, possunt aliae inter se species eodem accidenti participantes tardius velociusque moveri. Et de inseparabili accidenti eodem modo. Est enim ut aliquis nigrioribus oculis sit et alius quamvis nigris, tamen purpureis. Atque ideo et intentionem et remissionem recipit accidens. Nam et candidum quod dicitur, et magis et minus dicitur et alia huiusmodi. Quare distant haec duo, quod genere quae participant, aequaliter participant, accidenti fortasse non aequaliter. Huc accedit quod genera non modo ante individua sed ante species sunt, accidentia vero non modo post species sed etiam post individua sunt; ipsis enim principaliter necidunt, ut dictum est. Est etiam differeutia quae iam superius dicta est. Nam genus in eo quod quid sit praedicatur, accidens vero in eo quod quale sit aut quomodo se habeat. Nam si quid sit Socrates interroges, 'homo' atque 'animal' respondetur, si vero qualis sit, fortasse 'caluus' aut 'simus', quae accidentia sunt inseparabilia. Sin vero quomodo se habeat, aut 'iacet' respondetur aut 'sedet' aut quod aliud faciens contigerit. Ergo quoniam generis ad speciem et differentiam, ad proprium et accidens divisa substantia est, nunc vero posteriora persequitur. Sunt autem omnes differentiae viginti. Nam cum quinque res sint et unaquaeque ipsarum ad alias quattuor quattuor item differentias habeat, quinquies quaternis viginti differentiae efficiuntur. Nam si genus differt ab specie, proprio, differentia, accidenti, quattuor differentiae fiunt. Sin vero species differt a genere, proprio, differentia, accidenti, item quattuor; quae iunctae cum superioribus octo fiunt. Et si differentia distat ab specie, proprio, genere. Accidenti, aliae quattuor supercresculat; quae iunctae cum octo prioribus duodecim faciunt. At vero si proprium differt a genere, specie, differentia et accidenti, aliis quattuor differentiis super duodecim positis omnes sedecim differentiae fiunt. Quodsi accidentis quoque differentias ad quattuor reliqua duxeris, quattuor super sedecim crescentibus viginti omnes differentiae perficiuntur. Quarum ita viginti sunt, ut ad sufficientem doctrinae cumulum decem tantum differentiae numerentur. Nam quod dictum est genus differre a differentia, specie, proprio et accidenti, quattuor fuere differentiae. Si autem differentiam dicamus differre <ab> specie, proprio et accidenti, superuacuum ƿ est differentiae cum genere differentias commemorare, cum iam prius commemoraverimus, quando generis ad differentiam differentias dicimus. Eisdem enim, ut opinor, differt differentia a genere quibus differebat genus a differentia. Itaque relinquenda est haec differentia qua distat differentia a genere, quoniam iam superius dicta est, cum diceretur quid genus, distaret a differentia. Remanent igitur tres differentiae, quibus ipsa differentia ab specie, proprio et accidenti distat. Et cum superioris generis ad alia quattuor differentiae fuerint. Nunc vero differentiae ad alia tres distantiae videantur, septem hae distantiae fiunt. At vero species quid a genere distet, iam tunc dictum est, cum dicebatur quid genus distet ab specie. Quid autem a differentia discreparet, tunc demonstratum est, cum diceremus in quo differentia ab specie discerneretur. Remanent igitur duae speciei, id est cum proprio et accidenti differentiae, quae iunctae cum superioribus septem novem differentias efficiunt. Restat igitur una proprii et accidentis differentia quae dicatur. Nam quid a genere distet dictum est, cum quid genus distaret a proprio diceretur, porro quid ab specie, dudum dicebatur, cum quid species a proprio differret enumerabatur, porro autem quid a differentia, etiam id dictum est, cum a proprio differentia separaretur. Sed nunc quemadmodum differentia ab specie, proprio accidentique discernatur, videamus. Et est communio differentiae et speciei quod aequaliter species sub se individuis se permittit et aequaliter individua specie ipsa participant; namque omnes homines aequaliter homines sunt et hominis participatione aeque participant. Eodem modo etiam differentia; namque omnes homines aequaliter rationales sunt et rationabilitate, quae est differentia, omnes qui ratione participant, aeque participant. Est etiam alia communitas. Quod quemadmodum species numquam deserit ea quorum species est et quibus superest, sic et differentia numquam ea deserit quae distare ab aliis facit. Namque Socrates quoniam sub specie hominis est, numquam ab hominis specie deseritur; semper enim Socrates homo est. At vero differentia Socratem, quoniam Socrates rationalis est, numquam deserit; semper enim Socrates rationale animal est. Differunt autem inter se species et differentia, quod differentia semper in eo quod quale sit praedicatur -- nam dicitur quale animal sit <Socrates>, ut rationale respondeatur. Species vero in eo quod quid sit praedicatur; nam dicitur quid sit Socrates, ut homo respondeatur. Namque hominis qualitas rationale est. Sed non simpliciter. Illa enim qualitas pro differentia accipitur, quae veniens in ƿ genere speciem constituit et de qualitate substantiali facta est substantialis et specifica differentia. Ista igitur talis qualitas differentia nominatur et ea in eo quod quale sit ad hominem praedicatur. Hoc etiam est in eorum differentiis. Namque differentia frequenter in pluribus speciebus consideratur. Differentia enim quadrupes in bovis et in equi et in canis specie est et differentia rationalis hominis et dei. Species vero numquam aliis nisi solis sub se individuis praeest. Numquam enim alia res homo est nisi quod est individuum, ut est Socrates et Plato et Cicero. Unde fit ut sublata differentia species quoque tollatur. Nam si sustuleris rationale, hominem sustuleris. Si vero sustuleris speciem, differentia manet. Nam si sustuleris hominem, rationalis dei differentia remanebit. Est vero etiam haec differentia, quod differentia cum alia differentia iungi potest, ut aliqua ex his species informetur. Namque rationalis differentia et mortalis differentia iunctae hominis unius speciem reddiderunt, iunctae vero species numquam aliquam ex se speciem constituent. Si enim iungas hominem bovi, nulla ex his species informabitur. Sed fortasse dicat quis: asini atque equi coniunctione mulus nascitur. Sed non ita est: namque individui coniunctione natum est aliquid individuum. Si autem sic simpliciter speciem ipsam asini atque equi coniungas, nulla ex his umquam species constituitur. Neque enim si se possunt individua commiscere, ideirco etiam species individuorum in alterutram substantiam transeunt. ƿ Atque ideo constat iunctas species unam speciem non posse componere, quod differentiae iunctae unius speciei constitutivae sint. His itaque transactis ad differentiae et proprii communia veniamus. Differentia et proprium commune habent quod quibus differentia est et a quibus ipsa differentia participatur, aequaliter participatur, sicut etiam et quibus proprium est, proprium ipsum participatur. Nam rationalis differentia quoniam est hominibus et omnes homines rationali differentia participant, non est dubium quia omnes homines aequaliter sint rationales atque aequaliter rationabilitate participent. At vero proprium, quod risibile est, aequaliter omnibus hominibus est; omnes enim homines aequaliter risibiles sunt. Est etiam haec eorum communitas, quod sicut potestate risibile dicitur, etiamsi non rideat, ita etiam potestate bipes dicitur, etiamsi quis uno pede minuatur. Non enim quod est dicitur sed quod esse possit; nam quoniam ille ridere potest, risibilis nominatur, quod ille duos pedes habere possit, bipes. Atque ideo numquam ab illis in quibus sederint, proprium differentiaque discedunt. Semper enim homo risibilis est, etiamsi non rideat, semper bipes, etiamsi uno pede minuatur. In his enim differentiis et propriis, ut dictum est, quod potestate esse possit, non quod vere sit consideratur. Differunt autem inter se, quod differentia de pluribus speciebus praedicatur, proprium vero de una. Namque differentia quae est mortalis, praedicatur de homine et de bove et equo et caeteris animantibus et rationale praedicatur et de deo et de homine, at vero risibile de sola tantum specie hominis praedicatur. Unde evenit ut omnis differentia, quoniam plurimarum continens est specierum, a suis speciebus maior sit, atque ideo ipsa de speciebus praedicari potest. Porro autem de ipsa species praedicari non possunt, neque conversim dini potest. Nam quoniam homo dicitur rationalis, non contra dicitur 'quod rationale est, id homo est'; potest enim esse etiam non homo sed deus. At vero proprium, quoniam aequaliter et ad unam speciem semper aptatur, aequa vice atque appellatione convertitur. Dicitur enim: quid est homo? risibile; quid est risibile? homo. Quibus pertractatis ad differentiam et accidens transgressa disputatio est. Differentia et accidens commune habent de pluribus praedicari. Namque differentia dicitur et de homine et de deo, quoniam utrique rationales sunt, et accidens dicitur de homine et de equo, ut homo Aethiops niger et equus niger. Est etiam ista communio, quod inseparabile accidens, cuicumque speciei fuerit, inseparabiliter et omnibus inest ut differentia. ƿ Namque inseparabile accidens quod est nigrum coruo, inseparabiliter accidit coruo et omnibus coruis. Eodem modo etiam differentia. Nam quoniam accidit homini ut bipes sit, semper et omnibus hominibus est esse bipedibus. Differunt autem inter se, quod omnis differentia species continet, non contra ipsa ab speciebus continetur. Nam si differentia plures sub se species habet, ut dictum est, maior erit sub se positis speciebus, si maior etit, numquam eam quaelibet species continet; maior enim a minori numquam continetur. Namque quod est rationale, continet hominem et deum homo vero rationale non continet. Accidentia vero aliquotiens continent, aliquotiens continentur. Namque continent; quoniam frequenter unum accidens duas sub se species habet. Ut nigrum habet Aethiopem, habet et coruum, continentur vero. Quoniam species una habet duo vel tria vel quamlibet plurima accidentia. Si quis enim sit glaucus vel crispus vel candidus vel procerus, haec omnia accidentia ille unus cui accesserunt complectitur et continet. Atque ideo species illa quae illud individuum continet quod individuum plura in se accidentia suscepit, accidentis illius complexiva est. DEHINC DIFFERENTIA NUMQUAM INTENDITUR NEQUE RELAXATUR. Quod dicit hoc est. Rationale in unaquaque specie neque plus neque minus est. Nullus enim homo alio homine ad substantiam ƿ plus rationalis est neque minus. At vero accidens et intenditur et relaxatur. Dicitur enim quicumque procerior, dicitur quicumque velocior, dicitur quicumque crispior, quae omnia accidentia esse non dubium est. PRAETEREA IMMIXTAE SEMPER SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE. Immixtae ait, id est immixtibiles, quae misceri non possunt. Neque enim rationale cum irrationali misceri potest neque in una specie convenire. At vero contraria accidentia manifestum est in una specie posse congruere. Namque nigrum vel album potest in una non modo specie sed etiam individuo congruere. Potest enim quicumque homo, cum ipse sit candidus, nigros tamen capillos habere. Ergo <quoniam> quemadmodum species differat a genere vel differentia dictum est, cum de generis ad speciem et differentiae ad speciem distantia diceremus. Nunc dicemus, id quod reliquum est, de speciei propriique communibus. Et est una eorum communio, quod de se ipsa invicem praedicantur. Nam quoniam aequa sibi sunt, neque species hominis alii proprio convenit nisi risibili neque risibile alii convenit speciei nisi horhini, atque ideo dicitur: ƿ quid homo? quod risibile; quid risibile? quod homo. Commune est etiam illud, quod omne proprium aequaliter ad sub se posita praedicatur, namque omnes homines aequaliter risibiles sunt, et species aequaliter ad sub se posita praedicatur, namque omnes homines individni aequaliter uno nomine homines nuncupantur. Differunt autem a se, quoniam species potest etiam genus alteri esse, proprium esse non potest. Sed hic illam speciem intellegamus quae subalterna est, non illam quae magis species est et genus esse numquam potest. Atque ideo nos illam modo solam quae subalterna species est intellegamus, quae scilicet poterit esse et genus: namque mortale cum rationalis generis species sit, hominis genus est, at vero risibile de nulla umquam specie alia poterit praedicari neque alii esse proprium, sicut est hominis. Illa enim semper, ut dictum est, propria sunt quae nulli alii nisi ad unam speciem semper aptantur. DEINDE SPECIES PRAECEDIT ET SIC PROPRIUM SEQUITUR. Quod dicit tale est. Omnis species ut habeat proprium, primo eam esse et constare necesse est. Oportet enim prius esse hominem, ut sit risibilis, non prius esse risibile, ut sit homo. Nam quoniam proprium dicitur, per se proprium non constat, nisi alicuius speciei sit. Atque ideo prius esse necesse est illud cuius est proprium, quam sit proprium. Huc accedit quod species semper in opere intellegitur cuiuscumque subiecti. Species enim semper in actu est, non solum potestate. Homo enim re vera et opere et actu homo est, id est numquam poterit esse non homo. At vero risibile, quod est proprium, potestate tantum dicitur, etiamsi in actu non sit. Potest enim quilibet ille non ridere, tamen quia ridere potest, risibile nominatur. Distant igitur in hoc, quod semper species in actu est et in opere, proprium vero aliquotiens potestate. Deinde quorum definitiones diversae sunt, necessario etiam ipsa quoque diversa sunt. Omnis definitio substantiam definit. Ergo si qua eiusdem substantiae fuerint, eadem etiam definitione monstrantur, si qua eadem definitione fuerint, eadem substantia praedicantur. At vero si qua definitionibus differant, differunt etiam substantiis, quae substantiis difforunt, longe a se ipsis alia sunt. Nunc igitur quoniam definitiones proprii et speciei differunt, species quoque ipsa et propriurn a se differunt. Est autem speciei definitio sub genere esse et ad plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicari, at vero proprii uni tantum inesse speciei et sub ipsa de omnibus individuis praedicari. Sed quoniam et definitiones differunt, ipsa quoque species a proprio distabit. Post haec ad communitates speciei et accidentis disputationem transtulit et dicit eorum raras esse alias communitates ƿ nisi has solas, quod de pluribus praedicantur. longe enim a se distare videntur in substantia sui et in potestate patiendi atque faciendi id quod alicui accidit et id cui accidit. Namque illud cui accidit, quasi quoddam accidentis est fundamentum, illud vero quod accidit, praeter id cui accidit, esse in sui substatltiÇ non potest. Propria vero singulorum sunt haec, quod species in eo quod quid sit praedicatur, accidens vero in eo quod quale sit et quodammodo se habens. Nam si quis dicat: quid Socrates est? homo dicitur; si quis dicat, qualis sit, caluus vel simus appellatur, si quis vero, quomodo se habens sedens aut iacens appellabitur. Item quod unaquaeque substantia unam speciem habet. Namque hominis substantia unam solam hominis speciem habet, substantia vero equi unam solius equi speciem habet. At vero una substantia plura frequenter accidentia continebit. Nam et in eodem equo quaedam pars frequenter nigra, quaedam alba et est in eo proceritas, est altitudo, est aquilum caput et alia huiusmodi. Habet etiam non solum inseparabile accidens eadem substantia sed etiam separabile. Nam fortasse quidam velos est et idem etiam corpore validus eat, idem etiam sagittator et caetera. Huc accedit quod species praenoscuntur, ƿ id est praeintelleguntur, hoc est ante esse cognoscuntur quam accidentia. Et prius erit aliqua res ubi accidat, quam illa quae accidat. Et quoniam species est subiectum accidentis ubi accidens accidat, ideoque ante species intellegitur esse quam accidens. Accidentia vero postnativa sunt, id est a foris venientia et estranea a qualibet illa substantia, etiamsi inseparabilia sunt. Haec quoque est eorum separatio, quod semper omnia quae participant specie, aequaliter participant; aequaliter enim et Socrates et Cicero et Plato homines sunt. At vero illa quae participant accidenti, etiamsi inseparabile accidens sit, tamen non aequaliter participant. Namque quamvis inseparabile sit accidens Aethiopibus nigros esse, tamen est aliquis inter ipsos nigrior nec omnes illa nigredine aequaliter participant. Relinquitur igitur de communibus proprii accidentisque tractare; nam proprium quid distaret vel ab specie vel a genere vel a differentia, superius demonstratum est. Proprium autem et inseparabile accidens commune habent, quod sine his numquam consistunt ea quae ƿ eorum participant et in quibus ipsa considerantur. Nam neque homo amittit risibile esse nec Aethiops aut coruus nigrum. Atque ideo sine his ipsis, id est propriis et accidentibus, quae eorum participant, constare non possunt, ne forte contra superiorem definitionem accidentis venire videatur ista communio -- est enim ita definitum: accidens est quod infertur et aufertur sine eius in quo est interitu -- quod nunc dici videtur sine his constare non posse, cum superius sine eorum interitu posse dicerentur auferri. Sed hoc modo dicitur, non quod, si auferatur hoc accidens inseparabile, intereat illud cui accidit sed quoniam separari non potest, idcirco sine hoc constare non possit. Est etiam in separabilis accidentis et proprii alia communio, quod sicut et omni et semper inest proprium cui inest, id est homini -- semper enim et omnis homo risibile est -- sic etiam quodlibet accidens inseparabile et semper et omni est accidens inseparabile; namque et omnis coruus et semper niger est. Sola autem separabilibus accidentibus illa communio est, quod quemadmodum de multis individuis proprium praedicatur, ita etiam accidens de multis individuis potest praedicari. Plures etiam currunt, plures ambulant, quae scilicet accidentia separabilia sunt, quemadmodum plures possunt esse risibiles. Differunt autem ista, quod proprium semper uni speciei inest, accidens vero et pluribus. Namque accidens ƿ pluribus speciebus et animatis et inanimatis evenit, ut est hebeno nigrum, coruo nigrum, homini Aethiopi nigrum, risibile vero nulli nisi soli homini. Atque ideo conversim proprium praedicatur, quia unius speciei continens est et illi speciei soli aequalis est, at vero accidens conversim praedicari non potest, quia plures sub se species habet. Non enim potes dicere id esse nigrum quod hebenum, cum dicas hoc esse hebenum quod nigrum; potest enim esse nigrum et non esse hebenum. Deinde omne proprium aequaliter se his rebus quae sub se fuelint dat et ab his aequaliter participatur -- Socrates enim et Cicero et Vergilius aequaliter et risibili participant et aequaliter risibiles sunt -- at vero accidens non semper aequaliter; potest enim quicumque esse procerior et alius esse velocior, quod scilicet illud separabile est accidens, illud inseparabile. Et fortasse aliae eorum quaedam proprietates vel communiones esse videantur sed nunc quantum introductioni sat est, ista sufficiant. Sed iam tibi, mi Fabi, omnia quaecumque ad Introductionem Porphyrii pertinent, plenius uberiusque tractata sunt. Post vero si quid umquam mei egueris, studiis praesertim tuis, quae nulla umquam honestate caruerunt, libens animo hortatorque ad easdem cupiditates parebo. Hic Fabius: Tu, inquit, paterno haec mihi animo polliceris, verum ego numquam deficiam ab his studiis, te praesertim docente, ƿ a quo totam fortasse logicae Aristotelis, si vita suppetet, capiam disciplinam. Et ego: Faciam, inquam, libentissime. Sed quoniam iam matutinus, ut ait Petronius, sol tectis arrisit, surgamus, et si quid illud est, diligentiore postea consideratione tractabitur.  Secundus hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua quidem vereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum verbum verbo espressum comparatumque reddiderim. Cuius incepti ratio est quod in his scriptis in quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis lepos sed incorrupta veritas exprimenda est. Quocirca multum profecisse videor, si philosophiae libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem nihil in Graecorum litteris amplius desideretur. Et quoniam humanis animis excellentissimum bonum philosophiae comparatum est ƿ ut via et filo quodam procedat oratio, ex animae ipsius efficientiis ordiendum est. Triplex omnino animae vis in vegetandis corporibus deprehenditur. Quarum una quidem vitam corpori subministrat ut nascendo crescat alendoque subsistat; alia vero sentiendi iudicium praebet; tertia vi mentis et ratione subnixa est. Quarum quidem primae id officium est ut creandis nutriendis alendisque corporibus praesto sit, nullum vero rationis praestet sensusue iudicium. Haec autem est herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus affixum tenetur. Secunda vero composita atque coniuncta est ac primam sibi sumens et in partem constituens varium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. Omne enim animal quod sensu viget, idem et nascitur et nutritur et alitur. Sensus vero diversi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt. Itaque quicquid tantum alitur non etiam sentit, quicquid vero sentire potest ei prima quoque animae vis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. Quibus vero sensus adest non tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibilibusque se positis cognitarum sensu formarum imagines tenent memoriamque conficiunt, et prout quodque animal valet longius breviusque custodit. Sed eas imaginationes confusas atque inevidentes sumunt ut nihil ex earum coniunctione ac compositione ƿ efficere possint. Atque idcirco meminisse quidem possunt nec aeque omnia, admissa vero oblivione memoriam recolligere ac reuocare non possunt. Futuri vero his nulla cognitio est. Sed vis animae tertia, quae secum priores alendi ac sentiendi trahit hisque velut famulis atque oboedientibus utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque vel in rerum praesentium firmissima conceptione vel in absentium intellegentia vel in ignotarum inquisitione versatur. Haec tantum humano generi praesto est, quae non solum sensus imaginationesque perfectas et non inconditas capit sed etiam pleno actu intellegentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque confirmat. Itaque, ut dictum est, huic divinae naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, verum etiam et insensibilibus imaginatione concepta et absentibus rebus nomina indere potest, et quod intellegentiae ratione comprehendit vocabulorum quoque positionibus aperit. Illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non solum unumquodque an sit sed quid sit etiam et quale sit necnon cur sit, optet agnoscere. Quam triplicis animae vim sola, ut dictum est, hominum natura sortita est. Cuius animae vis intellegentiae motibus non caret, quia in his quattuor propriae vim rationis exercet. Aut enim aliquid an sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat. Quodsi etiam utriusque scientiam ratione possidet, quale sit ƿ unumquodque uestigat atque in eo caetera accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilominus uestigatur. Cum igitur hic actus sit humani animi ut semper aut in <rerum> praesentium comprehensione aut in absentium intellegentia aut in ignotarum inquisitione atque inventione versetur, duo sunt in quibus omnem operam vis animae ratiocinantis impendit, unum quidem ut rerum naturas certa inquisitionis ratione cognoscat, alterum vero ut ad scientiam prius veniat quod post gravitas moralis exerceat. Quibus inquirendis permulta esse necesse est quae uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis evenit Epicuro qui atomis mundum consistere putat et honestum voluptate metitur. Hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est quoniam per imperitiam disputandi quicquid ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas evenire arbitrabantur. Hic vero magnus est error; neque enim sese ut in numeris ita etiam in ratiocinationibus habet. In numeris enim quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est evenire, ut si ex calculo centum esse contigerit, centum quoque res illi numero subiectas esse necesse est. Hoc vero non aeque in disputatione servatur: neque enim quicquid sermonum decursus invenerit, ƿ id natura quoque fixum tenetur. Quare necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent. Nisi enim prius ad scientiam venerit quae ratiocinatio veram teneat disputandi semitam quae veri similem, et agnoverit[1] quae fida quae possit esse suspecta, rerum incorrupta veritas ex ratiocinatione non potest inveniri. Cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria in disputatione colligerent -- atque id fieri impossibile videretur ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent vera quae sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret esset ambiguum -- visum est prius disputationis ipsius veram atque integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per disputationem inveniretur, an vere comprehensum esset, posset intellegi. Hinc igitur profecta est logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes internoscendi ias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa nunc autem vera sit, quae vero semper falsa quae numquam falsa, possit agnosci. Huius autem vis duplex esse perpenditur, una quidem in inveniendo, altera in iudicando. Quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est, evidenter espressit dicens Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partes, unam inveniendi alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem videtur, Aristoteles fuit. Stoici ƿ autem in altera elaboraverunt; iudicandi enim vias diligenter persecuti sunt ea scientia quam *dialektiken* appellant, inveniendi artem, quae *topike*; dicitur quae et ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in utraque summa utilitas est et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima est ordiemur. Cum igitur tantus huius considerationis fructus sit danda est huic tam sollertissimae disciplinae tota mentis intentio, ut primis firmati in disputandi veritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehensionem venire possimus. Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus, reliquum videtur adiungere: an omnino pars quaedam sit philosophiae an (ut quibusdam placet) supellex atque instrumentum per quod philosophia cognitionem rerum naturamque deprehendat. Cuius quidem rei has e contrario video esse sententias. Hi enim qui partem philosophiae putant logicam considerationem his fere argumentis utuntur. Dicentes philosophiam indubitanter habere partes speculativam atque activam, de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte ponenda. Sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari. Nam sicut de naturalibus caeterisque sub speculativa positis solius philosophiae uestigatio est itemque de moralibus ac ƿ reliquis quae sub activam partem cadunt sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. Quodsi speculativa atque activa idcirco philosophiae partes sunt quia de his philosophia sola pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam philosophiae soli haec disputandi materia subiecta est. Iam vero inquiunt: cum in his tribus philosophia versetur cumque activam et speculativam considerationem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis, haec de moribus quaerit, non dubium est quin logica disciplina a naturali atque morali suae materiae proprietate disiuncta sit. Est enim logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et caeteris huiusmodi, quod neque ea quae non de oratione sed de rebus speculatur neque activa pars quae de moribus inuigilat aeque praestare potest. Quodsi in his tribus (id est speculativa, activa, atque rationali) philosophia consistit quae proprio triplicique a se fino disiuncta sunt, cum speculativa et activa philosophia partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur. Qui vero non partem sed philosophiae instrumentum putant haec fere afferunt argumenta. Non esse inquiunt similem logicae finem speculativae atque activae partis extremo. Utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat ut speculativa ƿ quidem rerum cognitionem, activa vero mores atque instituta perficiat; neque altera refertur ad alteram. Logicae vero finis esse non potest absolutus sed quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. Quid enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari nisi quod propter investigationem rerum huius effectio artis inventa est? Scire enim quemadmodum argumentatio concludatur vel quae vera sit quae veri similis, ad hoc scilicet tendit, ut vel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum vel ad invenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitudinem pariunt. Atque ideo quoniam speculativae atque activae suus certusque finis est, logicae autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae partem sed potius instrumentum. Sunt vero plura quae ex alterutra parte dicantur quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc litem vero tali ratione discernimus. Nihil quippe dicimus impedire ut eadem logica partis vice simul instrumentique fungatur officio. Quoniam enim ipsa suum retinet finem isque finis a sola philosophia consideratur, pars philosophiae esse ponenda est. Quoniam vero finis ille logicae quem sola speculatur philosophia ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse philosophiae non negamus. Est autem finis logicae inventio iudiciumque rationum. Quod scilicet non esse mirum videbitur quod eadem pars, eadem quoddam ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum reducamus quibus et fit aliquid ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore partium obtinent locum. Manus enim ad tractandum, oculi ad videndum, caeteraeque corporis partes proprium quoddam videntur habere officium. Quod tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit. Ita quoque logica disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philosophia sola magistra est, supellex vero quod per eam inquisita philosophiae veritas uestigatur. Sed quoniam, quantum mihi quoque brevitas succincta largita est, ortum logicae et quid ipsa logica esset explicui, nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem in praesens sumpsimus exponendum. Titulo enim proponit Porphyrius introductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere. Quid vero valeat haec introductio vel ad quid lectoris animum praeparet breviter explicabo. Aristoteles enim librum qui De decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit ut infinitas rerum diversitates quae sub scientiam cadere non possent paucitate generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub disciplinam venire non poterat per generum, ut dictum est, paucitatem animo fieret scientiaeque subiectum. Decem igitur genera rerum esse omnium consideravit -- id est unam substantiam et accidentia novem (quae sunt qualitas, quantitas, relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere) -- quae quoniam genera essent suprema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem necesse est multitudinem rerum horum decem generum species inveniri. Quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam videntur habere commune nisi tantum nomen, quoniam omnia esse praedicantur. Quippe substantia est, qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus 'est' verbum communiter praedicatur sed non est eorum communis una substantia vel natura sed tantum nomen. Itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt. Sed quae aliquibus differentiis disiunguntur necesse est ut habeant proprium quiddam quod ea in singularem solitariamque vindicet formam. Non est autem idem proprium quod accidens: accidentia enim et venire et abesse possunt, propria ita sunt insita ut absque his quorum sunt propria esse non possint. Quae cum ita sint cumque Aristoteles decem rerum genera repperisset quae vel intellegendo mens caperet vel loquendo disputator efferret (quicquid enim intellectu capimus id ad alterum sermone uulgamus), evenit ut ad horum decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret, scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. Generis quidem quoniam oportet ante praediscere quid sit genus ut decem illa quae Aristoteles caeteris anteposuit rebus genera esse possimus agnoscere. Speciei vero cognitio plurimum valet ut quae cuiusque generis sit species possit agnosci. Si enim quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. Fieri enim potest ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in relatione ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cuilibet ƿ generi subdamus atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat quae sit natura speciei ante noscendum est. Nec vero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda natura ne priorum generum species invicem permutemus, verum etiam ut in eodem quolibet genere proximas species generi noverimus eligere, ut ne substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis hominem potius quam animatum corpus. At vero differentiarum scientia in his maximum retinet locum. Qui enim omnino qualitatem a substantia vel caetera a se genera distare cognoscimus nisi eorum differentias viderimus? Quomodo autem discernere eorum differentias possumus si quid ipsa sit differentia nesciamus? Nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, verum etiam specierum quoque tollit omne iudicium. Nam omnes species differentiae informant; ignorata differentia species quoque necesse est ignorari. Quomodo vero fieri potest ut quamlibet differentiam possimus agnoscere si omnino quae sit nominis huius significatio nesciamus? Iam vero proprii tantus usus est ut Aristoteles quoque singulorum praedicamentorum propria perquisiverit. Quae propria esse quis deprehenderit antequam quid omnino sit proprium discat? Nec in his tantum propriis haec cognitio valet quae singulis nominibus efferuntur, ut hominis risibile, verum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur. Omnia enim propria rem subiectam quodam termino descriptionis includunt, quod suo quoque loco ƿ oportunius commemorabo. Accidentis quoque cognitio quantum afferat quis dubitare queat, cum videat inter decem praedicamenta novem accidentis naturas? Quae quomodo accidentia esse putabimus si omnino quid sit accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota sit nisi accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? Fieri enim potest ut differentiae loco vel proprii per inscientiam accidens apponatur. Quod esse vitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex differentiis constent et fiant uniuscuiusque definitiones propriae, accidens tamen non videntur admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset quae nimirum diversas sub se species continerent, quae species numquam diversae forent nisi differentiis segregarentur, cumque omnia in substantiam atque accidens, accidens vero in alia novem praedicamenta solvisset, cumque aliquorum praedicamentorum fere sit propria persecutus -- de his ipsis quidem praedicamentis docuit. Quid vero esset genus, quid species, quid differentia, quid illud accidens de quo nunc dicendum est, vel quid proprium, velut nota praeteriit. Ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis venientes quid significaret unumquodque eorum quae superius dicta sunt ignorarent, hunc librum Porphyrius de earum quinque rerum cognitione perscripsit, quo perspecto et considerato quid unumquodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret. Haec quidem intentio est huius libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse ipsa, ut ƿ dictum est, tituli inscriptione signavit. Sed licet ad hoc unum huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est verum multiplex et in maxima quaeque diffusa est. Quam idem Porphyrius in principio huius libri commemorat dicens: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST APUD ARISTOTELEM PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM, NOSSE QUID GENUS SIT ET QUID DIFFERENTIA QUIDQUE SPECIES ET QUID PROPRIUM ET QUID ACCIDENS, ET AD DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM ET OMNINO AD EA QUAE IN DIVISIONE VEL DEMONSTRATIONE SUNT UTILIA, HAC ISTARUM RERUM SPECULATIONE COMPENDIOSAM TIBI TRADITIONEM FACIENS TEMPTABO BREVITER VELUT INTRODUCTIONIS MODO EA QUAE AB ANTIQUIS DICTA SUNT AGGREDI; ALTIORIBUS QUIDEM QUAESTIONIBUS ABSTINENS, SIMPLICIORES VERO MEDIOCRITER CONIECTANS. Utilitas huius libri quadrifariam spargitur. Namque ad illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui ƿ est et ad caetera: quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus utilitas comparatur. Est enim per hoc opusculum et praedicamentorum facilis cognitio et definitionum integra assignatio et divisionum recta perspectio et demonstrationum veracissima conclusio. Quae res quanto difficiles atque arduae sunt tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. Dicendum vero est quod in omnibus libris evenit. Nam primum si quae sit intentio cognoscatur, quanta quoque utilitas inde provenire possit expenditur; et licet extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime utilitatem videtur habere ad quod eius refertur intentio ipso libro quem sumpsimus exponente. Cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non minores sint comites definitio, divisio, ac demonstratio, quorum nobis quaedam hic principia suggeruntur. Sensus vero totus huiusmodi est Cum sit, inquit, utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam assignationem, ad divisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum utilis uberrimaque cognitio, compendiosam, inquit, traditionem ƿ faciens ea quae ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breviter aperire. Neque enim esset compendiosa nisi totum opus brevitate constringeret. Et quoniam introductionem scribebat: Altiores, inquit, quaestiones sponte refugiam, simpliciores vero mediocriter coniectabo -- id est simpliciorum quaestionum obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota quidem sententia huiusce prooemii talis est quae et utilitate uberrima et facilitate incipientis animo blandiatur; sed dicendum videtur quidnam celet amplius altitudo sermonum. NECESSARIUM in Latino sermone, sicut in Graeco *anagkoion*, plura significat. Diversa enim significatione Marcus Tullius dicit necessarium suum esse aliquem atque nos cum nobis necessarium esse dicimus ad forum descendere, qua in voce quaedam utilitas significatur. Alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse moveri, id est necesse esse. Et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. Hae vero duae huiusmodi sunt ut inter se certare videantur quae huius loci obtineat significationem in quo dicit Porphyrius: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI; namque, ut dictum est, necessarium ƿ et utilitatem significat et necessitatem. Videntur autem huic loco utraque congruere. Nam et summe utile est ad ea quae superius dicta sunt de genere et specie et caeteris disputare, et summa est necessitas quia nisi sint haec ante praecognita illa ad quae ista praeparantur non possunt cognosci. Nam neque praeter generis vel speciei cognitionem praedicamenta discuntur, nec definitio genus relinquit et differentiam, et in caeteris quam sit utilis iste tractatus, cum de divisione et demonstratione disputabitur, apparebit. Sed quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad cognitionem venire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio positum est qua necessitatem significari vellet ac non potius utilitatem. Ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione significat. Neque enim quisquam ita utitur ratione ut aliquam necessitatem referri dicat ad aliud. Necessitas enim per se est, utilitas vero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque. Ait enim: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST APUD ARISTOTELEM PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM. Si igitur hoc necessarium 'utile' intellegamus et id nomine ipso vertamus dicentes: Cum sit utile, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum ƿ doctrinam, nosse quid genus sit... etc. recte se habebit ordo sermonum; sin vero id ad 'necesse' permPombaur atque dicamus: Cum sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam, nosse quid genus sit... etc. rectae intellegentiae sermonum ordo non convenit. Quocirca hic diutius immorandum non est. Quamquam enim sit summa necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur perveniri, non tamen de necessitate hic dictum est NECESSARIUM sed potius de utilitate. Nunc vero, licet idem superius dictum sit, tamen breviter quid ad praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit agnitio, disputemus. Aristoteles enim in praedicamentis decem genera constituit rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem venire posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis inscribitur. Hoc ipsum vero referri ad aliquid velut ad genus tale est, quale si quis speciem supponat generi. Hoc vero neque praeter cognitionem speciei ullo modo fieri potest. Nec vero ipsae species quid sint vel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur. Sed differentiarum natura incognita, quae uniuscuiusque ƿ speciei sint differentiae modis omnibus ignorabitur. Quare sciendum est quoniam si de generibus Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei quoque comitatur agnitio. Sed hoc cognito quid sit differentia non potest ignorari, quamquam in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino intellectus patebit ut cum ipse Aristoteles dicit: Diversorum generum et non subalternatim positorum diversae secundum species et differentiae sunt quod his ignoratis intellegi impossibile est. Sed idem Aristoteles proprium uniuscuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero contrariorum susceptibile sit, vel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque inaequale dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dissimile aliud alii esse proponimus, et in caeteris eodem modo, ut quae sit proprietas contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae privationis et habitus, quae affirmationis et ƿ negationis. In quibus ita tractat tamquam iam peritis scientibusque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea quae de his dispusantur aggreditur. Iam vero illud manifestum est quod accidens maximum praedicamentorum obtineat locum, quod proprio nomine novem praedicamenta circumdat. Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri utilitas ex his manifestum est. Quod vero ait ET AD DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM facile cognosci potest si prius substantiae rationum divisio fiat. Substantiae ratio alia quidem in descriptione ponitur, alia vero in definitione. Sed ea quae in descriptione est, proprietatem quandam colligit eius rei cuius substantiae rationem prodit -- ac non modo proprietate id quod monstrat informat, verum etiam ipsa fit proprium, quod in definitionem quoque venire necesse est; si quis enim quantitatis rationem reddere velit, dicat licebit: Quantitas est secundum quam aequale atque inaequale dicitur. Sicut igitur proprietatem quidem quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis propria est, ita descriptio et proprietatem colligit et propria fit ipsa descriptio. Definitio vero ipsa quidem propria non colligit sed ipsa quoque fit propria. Definitio namque substantiam monstrat, genus differentiis iungit et ea quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam definit reddit aequalia. Ita igitur ad descriptionem utilis est proprii cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit propria sicut definitio quoque, ad definitionem vero genus (quod primum ƿ ponitur), et species (ad quam genus illud aptatur), et differentiae (quibus iunctis cum genere species definitur). Sed si cui haec pressiora quam expositionis modus postulat videbuntur, eum hoc scire convenit, nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reservasse iudicio ut ad intellegentiam simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad interiorem vero speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis vocabulis rerum haerentibus haec postelior colloquatur. Ad divisionem vero faciendam tam hic liber est utilis ut praeter earum scientiam rerum de quibus in hac libri serie disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio. Hoc autem manifestum erit si divisionem ipsam dividamus, id est si nomen ipsum divisionis in ea quae significat partiamur. Est namque divisio generis in species, ut cum dicimus: Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud vero medium. Rursus divisio est quotiens vox plura significans aperitur et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut si quis dicat: Nomen canis plura significat, et hunc latrabilem quadrupedemque et caeleste sidus et marinam bestiam quae omnia a se definitione disiuncta sunt. Dividi autem dicitur et quotiens totum in partes proprias separatur, ut cum dicimus: Domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud tectum. Et haec quidem triplex divisio secundum se partitio nuncupatur. Est autem ƿ alia quae secundum accidens dicitur. Ea quoque fit tripliciter aut cum accidens in subiecta dividimus, ut cum dico: Bonorum alia sunt in animo, alia in corpore vel rursus cum subiectum in accidentia, ut Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris rursus cum accidens in accidentia separamus, ut cum dicimus: Liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris et rursus: Alborum alia sunt dura, alia liquentia quaedam mollia. Cum igitur ita omnis sit divisio aut secundum se aut per accidens, utraque vero partitio tripliciter fiat cumque in superiore secundum se triplici partitione sit una divisionis forma genus in species separare, id neque praeter generum scientiam fieri ullo modo potest neque vero praeter differentiarum, quas necesse est in specierum divisione sumi manifestum est igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc divisionem sit quae primo aditu genus ac species et differentias tractat. Secunda vero ea divisio quae est secundum se in vocis significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. Uno enim modo cognosci poterit utrum vox cuius divisionem facere quaerimus, aequivoca esse videatur an genus si ea quae significat definiantur. Et si ea quae sub communi nomine sunt definitione clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus. Quodsi illa quae proposita ƿ vox designat non possunt una definitione concludi, nemo dubitat quin illa vox sit aequivoca neque ita sit communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi. Si igitur ex definitione manifestum fit quid genus sit, quid vero nomen aequivocum, definitio vero per genera differentiasque discurrit, quisquamne dubitare potest aeque in hac divisionis forma plurimum huius libri auctoritatem valere? Illa vero secundum se divisio quae est totius in partes, quemadmodum discernitur ac non potius generis in species divisio esse putabitur, nisi sint genus et species et differentiae earumque vis ante disciplinae ratione tractata? Cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes fundamenta, parietes, et tectum? Sed cum occurrit generis nomen in unaquaque specie totum posse congruere, totius vero in unaquaque parte sua nomen convenlre non posse, manifestum fit aliam divisionem esse generis in species, aliam totius in partes. Convenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur. Neque tectum vero neque parietes aut fundamenta singillatim domus nomine appellari solent sed ƿ cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt. De ea vero divisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti incognitaque vi generis ac differentiarum facile evenire possit, ut accidens ita in subiecta solvatur quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem partitionis foedissime permiscebit inscientia. Et quoniam quid hic liber ad divisionem prosit ostendimus, nunc de demonstratione dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina vigilantissimo ingenio et sollertissimo labore sudaverit. Fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex convenientibus, ex primis, ex causa, ex necessaliis, ex per se inhaerentibus. Sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt. Item species sub se positis vel speciebus vel individuis priores naturaliter esse manifestum est. Quae vero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter. Duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et secundum naturam. Nobis enim illa magis cognita sunt quae sunt proxima, ut individua, dehinc species, postremo genera, at vero natura converso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima. Atque ideo quamlibet se longius ƿ a nobis genera protulerint, tanto magis erunt lucida et naturaliter nota. Differentiae vero substantiales illae sunt quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus. Praecedere autem debet generum ac differentiarum cognitio ut in unaquaque disciplina quae sint eius rei quae demonstratur convenientia principia possit intellegi. Necessaria vero esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem sine genere et differentia intellegit esse non posse. Genera vero et differentiae sunt causae specierum. Idcirco enim species sunt quia genera earum et differentiae sunt quae in syllogismis posita demonstrativis non rei solum, verum conclusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii locupletius dicent. Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud circumscribere et divisio ne dissoluere et demonstrationibus comprobare, haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi neque exerceri valeant, quis umquam poterit dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem caetera quae in ea magnam vim tenent, nullum doctrinae aditum praebent? Sed meminit Porphyrius introductionem sese conscribere neque ultra quam institutionis modus est formam tractatus egreditur. Ait enim se altiorum quaestionum nodis abstinere, simplices vero mediocri coniectura perstringere. Quae vero sint altiores quaestiones quas se differre promittit ita proponit: MOX, INQUIT, DE GENERIBUS AC SPECIEBUS ILLUD QUIDEM SIVE SUBSISTUNT SIVE IN SOLIS NUDISQUE INTELLECTIBUS POSITA SUNT SIVE SUBSISTENTIA CORPORALIA SUNT AN INCORPORALIA ET UTRUM SEPARATA A SENSIBILIBUS AN IN SENSIBILIBUS POSITA ET CIRCA EA CONSTANTIA, DICERE RECUSABO. ALTISSIMUM ENIM EST HUIUSMODI NEGOTIUM ET MAIORIS EGENS INQUISITIONIS. Altiores, inquit, quaestiones praetereo ne eis intempestive lectoris animo ingestis initia eius primitiasque perturbem. Sed ne omnino faceret neglegentem ut nihil praeterquam quod ipse dixisset lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre promisit addidit ut de his minime obscure penitusque tractando nec lectori quicquam obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure posset agnosceret. Sunt autem quaestiones quas sese reticere ƿ promittit et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis viris nec a pluribus dissolutae. Quarum prima est huiusmodi. Omne quod intellegit animus aut id quod est in rerum natura constitutum intellectu concipit et sibimet ratione describit aut id quod non est uacua sibi imaginatione depingit. Ergo intellectus generis et caeterorum cuiusmodi sit quaeritur -- utrumne ita intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus verum capimus intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus cum ea quae non sunt animi nobis cassa cogitatione formamus. Quodsi esse quidem constiterit et ab his quae sunt intellectum concipi diserimus, tunc alia maior ac difficilior quaestio dubitationem parit cum discernendi atque intellegendi generis ipsius naturam summa difficultas ostenditur. Nam quoniam omne quod est aut corporeum aut incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse oportebit. Quale erit igitur id quod genus dicitur -- utrumne corporeum an vero incorporeum? Neque enim quid sit diligenter intenditur nisi in quo horum poni debeat agnoscatur. Sed neque cum haec soluta fuerit quaestio omne excludetur ambiguum. Subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus ac species dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolvi postulans: utrum circa corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse videantur. Duae quippe incorporeorum formae sunt: ut alia praeter corpora esse ƿ possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent (ut deus, mens, anima); alia vero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non possint (ut linea vel superficies vel numerus vel singulae qualitates), quas tametsi incorporeas esse pronuntiamus quod tribus spatiis minime distendantur, tamen ita in corporibus sunt ut ab his divelli nequeant aut separari aut si a corporibus separata sint, nullo modo permaneant. Quas licet quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen aggrediar ut nec anxium lectoris animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris suscepti seriem sunt tempus operamque consumam. Primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post vero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut intellectu et sola cogitatione formantur. Sed genera et species esse non possunt. Hoc autem ex his intellegitur. Omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non poterit. Multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in multis uno tempore tota sit. Quantaecumque enim sunt species in omnibus genus unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant sed singulae uno tempore totum genus habent. Quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut cum in pluribus totum uno sit tempore in semet ipso sit unum ƿ numero. Quod si ita est, unum quiddam genus esse non poterit. Quo fit ut omnino nihil sit; omne enim quod est, idcirco est quia unum est. Et de specie idem convenit dici. Quodsi est quidem genus ac species sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum genus sed habebit aliud superpositum genus quod illam multiplicitatem unius vi nominis includat. Ut enim plura animalia quoniam habent quiddam simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus quod in pluribus est atque ideo multiplex habet sui similitudinem quod genus est; non est vero unum quoniam in pluribus est -- eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque fuerit inventum eadem ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium uestigatur. Itaque in infinitum ratio procedat necesse est cum nullus disciplinae terminus occurrat. Quodsi unum quiddam numero genus est commune multorum esse non poterit. Una enim res si communis est aut partibus communis est et non iam tota communis sed partes eius propriae singulorum; aut in usus habentium etiam per tempora transit ut sit commune ut seruus communis vel equus; aut uno tempore omnibus commune fit, non tamen ut eorum quibus commune est substantiam constituat, ut est theatrum vel spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. Genus vero secundum nullum horum modum commune esse speciebus potest, nam ƿ ita commune esse debet ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est constituere valeat et formare substantiam. Quocirca si neque unum est quoniam commune est, neque multa quoniam eius quoque multitudinis genus aliud inquirendum est, videbitur genus omnino non esse. Idemque de caeteris intellegendum est. Quodsi tantum intellectibus genera et species caeteraque capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta ut sese res habet aut ut sese res non habet (nam ex nullo subiecto fieri intellectus non potest) -- Si generis et speciei caeterorumque intellectus ex re subiecta veniat ita ut sese res ipsa habet quae intellegitur, iam non tantum in intellectu posita sunt sed in rerum etiam veritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum natura quod superior quaestio uestigabat. Quodsi ex re quidem generis caeterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est intellegitur. Sic igitur quoniam genus ac species nec sunt nec cum intelleguntur verus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit deponenda de his quinque propositis disputandi cura, quandoquidem neque de ea re quae sit ƿ neque de ea de qua verum aliquid intellegi proferrive possit, inquiritur. Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio, quam nos Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. Non enim necesse esse dicimus omnem intellectum qui ex subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum videri. In his enim solis falsa opinio ac non potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. Si enim quis componat atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse nullus ignorat -- ut si quis equum atque hominem iungat imaginatione atque effigiet centaurum. Quodsi hoc per divisionem et per abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet ut intellectus est, intellectus tamen ille minime falsus est. Sunt enim plura quae in aliis esse suum habent ex quibus aut omnino separari non possunt aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. Atque ut hoc nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet. Quod docetur ita: si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo separatam a corpore lineam cepit? Sed animus cum confusas res permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria vi et ƿ cogitatione distinguit. Omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at vero animus, cui potestas est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et corporibus coniuncta traduntur ita distinguit ut incorpoream naturam per se ac sine corporibus in quibus est concreta speculetur et videat. Diversae enim proprietates sunt incorporeorum corporibus permixtorum, etsi separentur a corpore. Genera ergo et species caeteraque vel in incorporeis rebus vel in his quae sunt corporea reperiuntur. Et si ea in rebus incorporeis invenit animus, habet ilico incorporeum generis intellectum. Si vero corporalium rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur. Ita haec cum accipit animus permixta corporibus, incorporalia dividens speculatur atque considerat. Nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit. Non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae res habent, falsus esse putandus est sed, ut superius dictum ƿ est, ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum hominem atque equum iungens putat esse centaurum, qui vero id in divisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, verum etiam solus id quod in proprietate verum est invenire potest. Sunt igitur huiusmodi res in corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia ut eorum natura perspici et proprietas valeat comprehendi. Quocirca cum genera et species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur -- ut ex singulis hominibus inter se dissimilibus humanitatis similitudo, quae similitudo cogitata animo veraciterque perspecta fit species; quarum specierum rursus diversarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in earum individuis esse non potest, efficit genus. Itaque haec sunt quidem in singularibus, cogitantur vero universalia. Nihilque aliud species esse putanda est nisi cogitatio collecta ex individuorum dissimilium numero substantiali similitudine, genus vero cogitatio collecta ex specierum similitudine. Sed haec similitudo cum in singularibus est fit sensibilis; cum in universalibus fit intellegibilis -- eodemque modo cum sensibilis est in singularibus permanet; cum intellegitur fit universalis. Subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora. Neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto sint ratione diversae, ut linea curua atque caua, quae ƿ res cum diversis definitionibus terminentur diversusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. Ita quoque generibus et speciebus, id est singularitati et universalitati, unum quidem subiectum est; sed alio modo universale est cum cogitatur, alio singulare cum sentitur in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut arbitror, quaestio dissoluta est. Ipsa enim genera et species subsistunt quidem alio modo, intelleguntur vero alio. Et sunt incorporalia sed sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus. Intelleguntur vero ut per semet ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia. Sed Plato genera et species caeteraque non modo intellegi universalia, verum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat, Aristoteles vero intellegi quidem incorporalia atque universalia sed subsistere in sensibilibus putat. Quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae. Idcirco vero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam maxime probaremus sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est quorum Aristoteles est auctor. ILLUD VERO QUEMADMODUM DE HIS AC DE PROPOSITIS PROBABILITER ANTIQUI TRACTAVERUNT ET HORUM MAXIME PERIPATETICI, TIBI NUNC TEMPTABO MONSTRARE. Praetermissis his quaestionibus quas altiores esse praedixit, ƿ exoptat mediocrem introductorii operis tractatum. Sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio vitio daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus auctoritate subnixus aggrediatur ante denuntiat. Cum mediocritatem quidem tractatus promittit detracta obscuritatis difficultate, animum lectoris inuitat, ut vero acquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum auctoritate confirmat. Atque ideo ait DE HIS, id est de generibus et speciebus de quibus superiores intulerat quaestiones, AC DE PROPOSITIS, id est de differentiis, propriis atque accidentibus, sese PROBABILITER disputaturum. PROBABILITER autem ait veri similiter, quod Graeci *logikos* vel *endoxos* dicunt. Saepe enim et apud Aristotelem *logikos* veri similiter ac probabiliter dictum invenimus et apud Boethum et apud Alexandrum. Porphyrius quoque ipse in multis hac significatione hoc usus est verbo quod nos scilicet in translatione, quod ait *logikos* ita interpretari ut rationabiliter diceremus, omisimus. Longe enim melior ac verior significatio ea visa est ut probabiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opinionem ingredientium atque lectorum, quod introductionis est proprium. Nam cum ab imperitorum hominum mentibus doctrinae secretum altioris abhorreat, talis esse introductio debet ut praeter opinionem ingredientium non sit. Atque ideo melius ƿ probabiliter quam rationabiliter, ut nobis videtur, interpretati sumus. Antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus sed <se> eorum illum maxime tractatum insequi quem Peripatetici Aristotele duce reliquerint, ut tota disputatio ad Praedicamenta conveniat. Quaeri in ei positionum principiis solet, cur unumquodque caeteris in disputationis ordine praeponatur, velut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei, differentiae, proprio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat. Respondebimus itaque iure factum videri; omne enim quod universale est, intra semet ipsum caetera concludit, ipsum vero non clauditur. Maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita caetera cohercet, ut ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri. Genus igitur et species intra se positas habet et earum differentias propriaque, nihilominus etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod caetera naturae suae magnitudine cohercet et continet. Praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat quis, caetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae caeterorum substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et caeteris. Nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens, non manebit et ƿ interemptum genus cuncta consumit. Si vero hominem esse constituas vel grammaticum vel rationale vel risibile, animal quoque esse necesse est. Sive enim homo est, animal est, sive rationale, sive risibile, sive grammaticum, ab animalis substantia non recedit. Sublato igitur genere et caetera consumuntur, positis caeteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior caeterorum. Iure est igitur in disputati*one praepositum. Sed quoniam generis nomen multa significat -- hoc est enim quod ait: VIDETUR AUTEM NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER DICI. Ubi enim non est simplex dictio, illic multiplex significatio est -- prius huius nominis significationes discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat. Sed cum neque genus neque species neque differentia nec proprium nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? Dicendum est quoniam longitudinem vitans tantum speciem nominavit eamque idcirco, ne solum genus significationis esse multiplicis putaretur. Enumerat autem primam quidem generis significationem hoc modo: GENUS ENIM DICITUR ET ALIQUORUM QUODAMMODO SE HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET HABITUDINE, DICO AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM EAM QUAE AB ILLO EST COGNATIONEM SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE. Una, inquit, generis significatio est quae in multitudinem venit a quolibet uno principium trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se invicem per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus; multitudo enim Romanorum ab uno Romulo vocabulum trahans et ipsi Romulo et ad se invicem quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. Eadem enim quae a Romulo societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine devincit et colligat. Videtur autem secuisse hanc generis significationem in duas partes, cum copulativam coniunctionem admiscuit dicens: GENUS DICITUR ET ALIQUORUM QUODAMMODO SE HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur, quod ad se invicem unius generis significatione coniuncti sint. Hoc vero minime; eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam ƿ inter se multitudinem uno generis nomine conectit et continet. Quocirca non est putandus divisionem fecisse sed omne quicquid in hac generis significatione intellegendum fuit, aperuisse. Ordo autem verborum ita sese habet (qui est hyperbaton intellegendus): 'genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et ad se invicem aliquo modo habentium' -- rursus 'collectio' subaudienda; est enim zeugma -- cuius significationis adiecit exemplum: SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET HABITUDINE, DICO AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS RURSUS HABITUDINE HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM COGNATIONEM, EAM SCILICET QUAE AB ILLO EST, ID EST ROMULO, SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE, scilicet multitudinis. Haec enim multitudo aliquo modo ad unum et ad se invicem habens genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium caeterorumque separatur, ut sit integer verborum ordo: 'genus enim dicitur et aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se invicem, secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis secundum divisionem ab aliis generibus dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad invicem eam quae ab illo est, id est Romulo, cognationem.' ƿ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis significatione dicendum est. DICITUR AUTEM ET ALITER RURSUS GENUS, QUOD EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS PRINCIPIUM VEL AB EO QUI GENUIT VEL A LOCO IN QUO QUIS GENITUS EST. SIC ENIM ORESTEM QUIDEM DICIMUS A TANTALO HABERE GENUS, HYLLUM AUTEM AB HERCULE, ET RURSUS PINDARUM QUIDEM THEBANUM ESSE GENERE, PLATONEM VERO ATHENIENSEM; ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS, QUEMADMODUM ET PATER. HAEC AUTEM VIDETUR PROMPTISSIMA ESSE SIGNIFICATIO; ROMANI ENIM SUNT QUI EX GENERE DESCENDUNT ROMULI, ET CECROPIDAE, QUI A CECROPE, ET HORUM PROXIMI. Quattuor omnino sunt principia quae unumquodque principaliter efficiunt. Est enim una causa quae effectiva dicitur, velut pater filii, est alia quae materialis, velut lapides domus, tertia forma, velut hominis rationabilitas, quarta, quam ob rem, velut pugnae victoria. Duae vero sunt quae per accidens uniuscuiusque ƿ dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus. Quoniam enim omne quod nascitur vel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco vel tempore natum factumue fuerit, eum locum vel id tempus accidenter dicitur habere principium. Horum omnium in hac secunda generis significatione duo quaedam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis videbuntur accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectivum,; ex his vero quae accidentia, locum. Ait enim 'genus dicitur et a quo quis genitus est', quod est effectiva principalium causa, 'et in quo quis loco est procreatus', quae est accidens causa principii. Itaque haec secunda significatio duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe Pelopem, Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. Itaque a procreatione genus hoc dictum est. At vero Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit. Sed quoniam diversum est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis editus, videtur diversa esse generis significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. Sed ne videretur duplex, per similitudinem coniunxit dicens: ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS, ƿ QUEMADMODUM ET PATER. Sed quoniam in significationibus evenit fere, ut sit aliquid quod intellectui significatae rei propinquius esse videatur, quoniam duas generis apposuit significationes, multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen convenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens hanc esse promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. Quae cum ita sint, confundi rursus generis significationes videntur. Si enim hi sunt maxime Romani qui a Romulo originem trahunt, et haec significatio illa est quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumeravit, quae est 'multitudinis ad unum et ad se invicem quodammodo se habentium collectio'? Sed acutius intuentibus plurimae admodum differentiae sunt. Aliud est enim a quolibet primo procreante genus ducere, aliud unum genus esse plurimorum. Illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima vero illa non nisi in multitudine consistit. Illud quoque est, quod prima procreationis principium non requirit sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda vero significatio nullam vim nisi procreante sortitur. Item in illa primae significationis multitudine huius secundae particularitas continetur, ut in ƿ Romanorum genere Scipiadarum genus; nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. Quoniam enim ad Romulum et ad caeteros Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Seipiadae vero dicuntur ad secundam generis significationem, quia eorum familiae Scipio et sanguinis principium fuit. ET PRIUS QUIDEM APPELLATUM EST GENUS UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS PRINCIPIUM, DEHINC ETIAM MULTITUDO EORUM QUI SUNT AB UNO PRINCIPIO, UT A ROMULO; NAMQUE DIVIDENTES ET AB ALIIS SEPARANTES DICEBAMUS OMNEM ILLAM COLLECTIONEM ESSE ROMANORUM GENUS. Sensus facilis et expeditus, si tamen ambiguitas una solvatur. Cum enim prius multitudinis significationem retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc contrario modo illam prius a se enumeratam significationem dicere videtur quae est procreationis, illam vero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium videri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit. Sed hic non de se loquitur sed de humani consuetudine sermonis, in quo prius eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente vero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodammodo ad aliquem fuisse translatum, hoc vero idcirco, quoniam ƿ superius dixerat: haec enim videtur promptissima esse significatio, ut ab hac, id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque nuncupata videretur, quae est multitudinis. Prius enim genus inter homines appellatum est quod quis a generante deduceret, post autem factum est, ut per loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem quodammodo se habentis genus diceretur propter divisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis societatisque discretio. His igitur expletis venit ad tertium genus quod inter philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus usus est. Horum quippe generum historia magis vel poesis tractat exordium, tertium vero genus apud philosophos consideratur. De quo hoc modo loquitur: ALITER AUTEM RURSUS GENUS DICITUR CUI SUPPONITUR SPECIES, AD HORUM FORTASSE SIMILITUDINEM DICTUM. ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST HUIUSMODI GENUS EARUM QUAE SUB IPSO SUNT SPECIERUM, VIDETUR ETIAM MULTITUDINEM CONTINERE OMNEM QUAE SUB EO EST. Duplicem significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc autem ad superiorum similitudinem ƿ dictam esse arbitratur. Superius autem dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii antiquitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia vero, cum genus ab unoquoque procreante duceretur, quod eorum quae procreantur principium est. Cum igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui supponitur species, quod idcirco genus vocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam habet aliquam similitudinem superiorum. Nam sicut illud genus quod ad multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus plurimas species cohercet et continet. Item ut genus illud quod secundum procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur, ita genus speciebus suis est principium. Ergo quoniam utrisque est simile, idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum esse veri simile est. TRIPLICITER IGITUR CUM GENUS DICATUR, DE TERTIO APUD PHILOSOPHOS SERMO EST; QUOD ETIAM DESCRIBENTES ASSIGNAVERUNT ƿ GENUS ESSE DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, UT ANIMAL. Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt; hoc enim solum est quod substantiam monstrat, caetera vero aut unde quid existat aut quemadmodum a caeteris hominibus in unam quasi populi formam dividatur ostendunt. Nam illud quod multitudinem continet genus, illius multitudinis quam continet substantiam non demonstrat sed tantum uno nomine collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segregetur. Item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. At vero genus id cui supponitur species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. Et quia inter philosophos haec maxima est quaestio, quid unumquodque sit -- tunc enim unumquodque scire videmur, quando quid sit agnoscimus -- idcirco reiectis caeteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam describentes assignaverunt ea descriptione quam subter annexuit. Diligenter vero ait describentes, non definientes; definitio enim fit es genere, genus autem aliud genus habere non poterit. Idque obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. Fieri autem potest ut res quae ƿ alii genus sit, alii generi supponatur, non quasi genus sed tamquam species sub alio collocata. Unde non in eo quod genus est, supponi alicui potest sed cum supponitur, ilico species fit. Quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus est, genus habere non posse. Si igitur voluisset genus definitione concludere, nullo modo potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. Descriptio vero est, ut in priore volumine dictum est ex proprietatibus informatio quaedam rei et tamquam coloribus quibusdam depictio. Cum enim plura in unum convenerint, ita ut omnia simul rei cui applicantur aequentur, nisi ex genere vel differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. Est igitur descriptio generis haec: genus est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur. Tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo qund quid sit de qua re quoniam ipse posterius latius disputat, nos breviter huius rei intellegentiam significemus exemplo. Sit enim nobis in forma generis animal. Id de aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo, bove et caeteris. Sed haec plura sunt. Animal igitur de pluribus praedicatur, homo vero, equus atque bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet mediocri re sed tota specie, id est tota forma suae substantiae. De quibus dicitur animal; homo enim et equus et bos animalia nuncupantur. Praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. Sed quonam modo fit ƿ haec praedicatio? Non enim quicquid interrogaveris, mox animal respondetur: non enim si quantus sit homo interrogaveris, 'animal' respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam. Item si 'qualis' interrogess ne huic quidem responsio convenit animalis, caeterisque omnibus interrogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque inutilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit interroget. Interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit bos, 'animalia' respondebitur. Ita nomen animalis ad interrogationem 'quid sit' de homine, equo atque bove ac de caeteris praedicatur, unde fit ut animal praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. Et quoniam generis haec definitio est, animal hominis, equi, bovis genus esse necesse est. Omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud quod alterius praedicatione. Sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad alterum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras, dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. Haec igitur definitio rem monstrat per se sicut est, non tamquam referatur ad aliud. At vero cum dicimus animal genus esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus sed de ea relatione qua potest animal ad caeterorum quae sibi subiecta ƿ sunt praedicationem referri. Itaque character est quidam ac forma generis in eo quod referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in earum tamen substantia praedicatur. Huius autem definitionis rationem per exempla subiecit dicens: EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR, ALIA QUIDEM DE UNO DICUNTUR SOLO, SICUT INDIVIDUA UT SOCRATES ET HIC ET HOC, ALIA VERO DE PLURIBUS, QUEMADMODUM GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA COMMUNITER SED NON PROPRIE ALICUI. EST AUTEM GENUS QUIDEM UT ANIMAL, SPECIES VERO UT HOMO, DIFFERENTIA AUTEM UT RATIONALE, PROPRIUM UT RISIBILE, ACCIDENS UT ALBUM, NIGRUM SEDERE. Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius divisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac separet, hoc modo. Omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate, alia de pluralitate dicuntur. ƿ De singularitate vero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt individua, ut Socrates, Plato, ut hoc album quod in hac proposita nive est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne scamnum -- hoc enim universale est -- sed hoc quod nunc suppositum est, nec album quod in nive est -- universale est enim album et nix -- sed hoc album quod in hac nive nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio albo praedicari quod in hac nive est, quia ad singularitatem deductum est atque ad in dividuam formam constrictum est individui participatione. Alia vero sunt quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et accidentia communiter sed non proprie alicui. Genera quidem de pluribus praedicantur speciebus suis, species vero de pluribus praedicantur individuis; homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus appellari possit. Item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet individuos equos de quibus praedicetur. Differentia vero ipsa quoque de pluribus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo corpolibusque caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione vigentia. Proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen individuis dicitur, quae sub convenienti specie collocantur, ut risibile de Platone, Socrate et caeteris individuis quae homini supponuntur. Accidens etiam ƿ de multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se genere specieque seiuncta sunt. Sedere etiam de multis dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aves quoque, quorum species longe diversae sunt. Accidens autem quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco determinavit dicens et accidentia communiter sed non proprie alicui. Quae enim proprie alicui accidunt, individua fiunt et de uno tantum valentia praedicari, ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. Ut enim de nive dictum est, illud album quod in hac subiecta nive est, non est communiter accidens sed proprie huic nivi quae oculis ostensionique subiecta est. Itaque ex eo quod communiter praedicari poterat -- de multis enim album dici potest, ut albus homo, albus equus, alba nix -- factum est, ut de una tantum nive praedicari illud album: possit cuius participatione ipsum quoque factum est singulare. Omnino autem omnia genera vel species vel differentiae vel propria vel accidentia, si per semet ipsa speculemur in eo quod genera vel species vel differentiae vel propria vel accidentia sunt, manifestum est quoniam de pluribus praedicantur. At si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et substantiam metiamur, evenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem videantur adduci. Animal enim, ƿ quod genus est, de pluribus praedicatur sed cum hoc animal in Socrate consideramus -- Socrates enim animal est -- ipsum animal fit individuum, quoniam Socrates est individuus ac singularis. Item homo de pluribus quidem hominibus praedicatur sed si illam humanitatem quae in Socrate est individuo consideremus, fit individua, quoniam Socrates ipse individuus est ac singularis. Item differentia ut rationale de pluribus dici potest sed in Socrate individua est. Risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur, in Socrate fit unicum. Communiter quoque accidens, ut album, cum de pluribus dici possit, in unoquoque singulari perspectum individuum est. Fieri autem potuit commodior divisio hoc modo. Eorum quae dicuntur, alia quidem ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum vero quae de pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum accidens. Eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac species, in eo quod quale sit, differentia. Item eorum quae in eo quod quid sit praedicantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime; de speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis vero species. Eorum autem quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus praedicantur, ut accidentia, ƿ alia quae de uno tantum, ut propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi divisio. Eorum quae praedicantur, alia de singulis praedicantur, alia de pluribus. Eorum quae de pluibus, alia in eo quod quid sit, alia in eo quod quale sit praedicantur. Eorum quae in eo quod quid sit, alia de differentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus praedicantur, alia quidem de differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una tantum specie, ut propria. Eorum vero quae de differentibus specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut differentiae, alia in communiter evenientibus, ut accidentia. Et per hanc divisionem quinque barum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. Genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Species est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in substantia praedicatur. Proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Accidens est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Et nos quidem has divisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio vero alia fuit intentio. Non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat sed tantum ut caetera a generis forma et proprietate separaret. Idcirco divisit quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de singulis praedicantur, aut in ea quae de pluribus, ea vero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse dilit aut species aut caetera, horumque exempla subiciens adiungit: AB HIS ERGO QUAE DE UNO SOLO PRAEDICANTUR, DIFFERUNT GENERA EO QUOD DE PLURIBUS ASSIGNATA PRAEDICENTUR, AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS, AB SPECIEBUS QUIDEM, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICANTUR SED NON DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO; HOMO ENIM CUM SIT SPECIES, DE SOCRATE ET PLATONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE DIFFERUNT A SE INVICEM SED NUMERO, ANIMAL VERO CUM GENUS SIT, DE HOMINE ET BOVE ET EQUO PRAEDICATUR, QUI DIFFERUNT A SE INVICEM ET SPECIE QUOQUE, NON NUMERO SOLO. A PROPRIO VERO DIFFERT GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM, PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS, QUEMADMODUM ƿ RISIBILE DE HOMINE SOLO ET DE PARTICULARIBUS HOMINIBUS, GENUS AUTEM NON DE UNA SPECIE PRAEDICATUR SED DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE PRAEDICANTUR DIFFERENTIAE ET COMMUNITER ACCIDENTIA SED NON IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR SED IN EO QUOD QUALE QUID SIT INTERROGANTIBUS ENIM NOBIS ILLUD DE QUO PRAEDICANTUR HAEC, NON IN EO QUOD QUID SIT DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT. INTERROGANTI ENIM QUALIS EST HOMO, DICIMUS RATIONALIS, ET IN EO QUOD QUALIS EST CORUUS, DICIMUS QUONIAM NIGER. EST AUTEM RATIONALE QUIDEM DIFFERENTIA, NIGRUM VERO ACCIDENS. QUANDO AUTEM QUID EST HOMO INTERROGAMUR, ANIMAL RESPONDEMUS; ERAT AUTEM HOMINIS GENUS ANIMAL. Nunc genus a caeteris omnibus quae quolibet modo praedicantur ƿ separare contendit hoc modo. Quoniam enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent individuum ac singulare subiectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur, communis ei est cum caeteris, id est specie, differentia, proprio atque accidenti idcirco, quoniam ipsa quoque de pluribus praedicantur. Horum igitur singulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale sit sub animi deducat aspectum, dicens: AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS PRAEDICANTUR, DIFFERT GENUS, AB SPECIEBUS QUIDEM PRIMUM, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICANTUR, NON TAMEN DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO. Species enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species appellaretur. Si enim genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid sit, huic si adiciatur ut de specie differentibus praedicetur, speciei forma transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. Homo enim praedicatur de Socrate, Platone et caeteris quae a se non specie disiuncta sunt, sicut homo atque equus sed numero: quod quidem habet dubitationem quid sit boc quod dicitur numero differre. Numero enim differre aliquid videbitur quotiens numerus a numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boves, differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boves; in eo enim quod grex est, non differunt, in eo quod boves, ne eo quidem: numero igitur differunt, quod illi plures, illi vero sunt pauciores. Quomodo igitur Socrates et Plato specie non differunt sed numero, cum et Socrates unus sit et Plato unus, unitas vero numero ab unitate non differat? Sed ita intellegendum quod dictum est numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est dum numerantur differentibus. Cum enim dicimus 'hic Socrates est, hic Plato', duas fecimus unitates, ac si digito tangamus dicentes 'hic unus est' de Socrate, rursus de Platone 'hic unus est', non eadem unitas in Socrate numerata est quae in Platone. Alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato etiam monstraretur. Quod non fit. Nisi enim tetigeris Socratem vel mente vel digito itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur ergo differunt qute sunt numero differentia. Cum igitur species de numero differentibus, non de specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie dicitur, ut de bove, de equo et de caeteris quae a se specie invicem differunt, non numero solo. Tribus enim modis unumquodque vel differre ab aliquo dicitur vel alicui idem esse, genere, specie, numero. Quaecumque igitur genere eadem sunt, non necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. Si vero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque equus idem sint genere -- uterque enim animal nuncupatur -- differunt specie, quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates vero atque Plato cum idem sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub animalis praedicatione ponuntur. Si quid vero vel genere vel specie idem sit, non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie et genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie hominis idem sint, num ero tam en reperiuntur esse disiuncti. Gladius vero atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius. Sed nec specie diversi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere, utrumque enim instrumentum est, quod est gladii genus. Quoniam igitur homo, bos atque equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos differre necesse est. Idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie differentibus praedicatur. Nam si integram generis definitionem demus, dabimus hoc modo: genus est quod de pluribus ƿ specie et numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, at vero speciei sic: species est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A PROPRIO VERO DIFFERT GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM, PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS. Proprium semper uni speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est proprium praedicatur et de his individuis quae sub illa sunt specie, ut risibile de homine dicitur et de Socrate et Platone et caeteris quae sub hominis nomine continentur. Genus vero non de una tantum specie, ut dictum est sed de pluribus. Differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus praedicatur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae sub illa sunt individuis. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS. Differentiae atque accidentis discrepantiam a genere una separatione concludit. Omnino enim quia haec in eo quod quid sit minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in caeteris quidem propinqua sunt generi, nam et ƿ de pluribus praedicantur et de specie differentibus sed non in eo quod quid sit. Si quis enim interroget: qualis est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis: qualis est coruus? dicitur niger, quod est accidens. Si autem interroges: quid est homo? animal respondebitur, quod est genus. Quod vero ait: HAEC NON IN EO QUOD QUID SIT DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT, hoc magis quaestioni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in substantis putat oportere praedicari. Quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur, non quale sit sed quid sit ostendit. Unde non videtur differentia in eo quod quale sit praedicari sed potius in eo quod quid sit. Sed solvitur hoc modo. Differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem determinet, id est substantialem proferat qualitatem. Quod ergo dictum est magis, tale est tamquam si diceret: videtur quidem substantiam significare atque idcirco in eo quod quid sit praedicari sed magis illud est verius, quia tametsi substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur. QUARE DE PLURIBUS PRAEDICARI DIVIDIT GENUS AB HIS QUAE DE UNO SOLO EORUM QUAE SUNT INDIVIDUA PRAEDICANTUR, DIFFERENTIBUS VERO SPECIE SEPARAT AB HIS QUAE ƿ SICUT SPECIES PRAEDICANTUR VEL SICUT PROPRIA; IN EO AUTEM QUOD QUID SIT PRAEDICARI DIVIDIT A DIFFERENTIIS ET COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUAE NON IN EO QUOD QUID SIT SED IN EO QUOD QUALE SIT VEL QUODAMMODO SE HABENS PRAEDICANTUR DE QUIBUS PRAEDICANTUR. Tria esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent, id est de pluribus praedicari, de specie differentibus et in eo quod quid sit. Quae singulae partes genus a caeteris quae quomodolibet praedicantur distribuant ac secernunt, quod ipse breviter colligens dicit; id, enim quod' de pluribus praedicatur, genus ab his dividit quae de uno tantum praedicantur individuo. Individuum autem pluribus dicitur modis. Dicitur individuum quod omnino secari non potest, ut unitas vel mens; dicitur individuum quod ob soliditatem dividi nequit, ut adamans; dicitur individuum cuius praedicatio in reliqua similia non convenit, ut Socrates: nam cum illi sint caeteri homines similes, non convenit proprietas et praedicatio Socratis in caeteris. Ergo, ab his quae de uno tantum praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur restant igitur quattuor, species et proprium, differentia et accidens, ƿ quorum a genere differentias colligamus. Singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. Ea quidem differentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat ab his quae sicut species praedicantur vel sicut propria. Species enim omnino de nulla specie dicitur, proprium vero de una tantum specie praedicatur atque ideo non de specie differentibus. Item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum est. Itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate praedicationis, ab speciebus vero et proprio in subiectorum natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium vero et species minime. Item genus in qualitate praedicationis a differentia accidentique dividitur. Qualitas enim praedicationis quaedam est vel in eo quod quid sit vel in eo quod quale sit praedicari. NIHIL IGITUR NEQUE SUPERFLUUM NEQUE MINUS CONTINET GENERIS DICTA DESCRIPTIO. Omnis descriptio vel definitio debet ei quod definitur aequari. Si enim definitio definito non sit aequalis et si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem ƿ substantiae non pervenit. Omnia enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal de homine, minora vero de maioribus minime; nemo enim vere dicere potest 'omne animal homo est'. Atque idcirco si sibi praedicatio convertenda est, aequalis oportebit sit. Id autem fieri potest, si neque superfluum quicquam habet neque diminutum, ut in ea ipsa generis descriptione. Dictum est enim esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere converti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. Quodsi converti potest, ut ait, nec plus neque minus continet generis facta descriptio. Superior de genere disputatio videatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. Nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. Sed quoniam diversa est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diversa in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita dividere cuncta persequitur. Ac primum post generis disputationem de specie tractat. De qua quidem dubitari potest. Si enim haec fuit ratio praeponendi generis reliquis omnibus, quod naturae suae magnitudine caetera contineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine tractatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cum praesertim differentiae ipsas species informent. Prius autem est quod informat quam id quod eius informatione perficitur. Posterior igitur est species a differentia, prius igitur de differentia tractandum fuit. Etenim prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocavit quem naturalis ordo suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. Huic respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque ƿ ad aliquid praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. Ut igitur non potest esse pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie videre licet. Species quippe nisi generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec vero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species, ut superius quoque dictum est sed quicquid illud est quod in naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum vel ad inferiora vel ad superiora referatur. Quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum continens factus est iure tractatus. De specie igitur inchoans ait hoc modo: SPECIES AUTEM DICITUR QUIDEM ET DE UNIUSCUIUSQUE FORMA, SECUNDUM QUAM DICTUM EST: 'PRIMUM QUIDEM SPECIES DIGNA IMPERIO'. DICITUR AUTEM SPECIES ET EA QUAE EST SUB ASSIGNATO GENERE, SECUNDUM QUAM SOLEMUS DICERE HOMINEM QUIDEM SPECIEM ANIMALIS, CUM SIT GENUS ANIMAL, ALBUM AUTEM COLORIS SPECIEM, TRIANGULUM VERO FIGURAE SPECIEM. Sicut generis supra significationes distinxit aequivocas, ita idem in specie facit dicens non esse speciei simplicem significationem. Et ponit quidem duas, longe autem plures esse ƿ manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate confunderet. Dicit autem primum quidem speciem vocali uniuscuiusque formam, quae ex accidentium congregatione perficitur. Cautissime autem dictum est uniuscuiusque, hoc enim secundum accidens dicitur. Quae enim unicuique individuo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species sed ex accidentibus venit. Alia est enim substantialis formae species quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali sed tamquam ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab bac diversa est quae uniuscuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes. Postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diversis tamen modis ad aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem determinat qualitatem; si sub animali eam intellegendo locaveris, deducit animalis in sese participationem separaturque a caeteris animalibus ac fit generis species. Quodsi uniuscuiusque proprietatem consideres, id est quam virilis uultus, quam firmus incessus caeteraque quibus individua conformantur et quodammodo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum imperio esse aptum propter formae ƿ eximiam dignitatem. Huic aliam adiungit speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. Nos vero triplicem speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae qualitatem, aliam cuiuslibet individui propriam formam, tertiam s de qua nunc loquitur, quae sub genere collocatur. Credendum vero est propter obscuritatem eius quam nos adiecimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum, ea, tacita praetermissaque caeteras edidisse. Cuius quidem speciei haec exempla subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album, autem coloris, triangulum vero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera animal quidem hominis, albi autem color, trianguli figura. QUODSI ETIAM GENUS ASSIGNANTES SPECIEI MEMINIMUS DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, ET SPECIEM DICIMUS ID QUOD SUB GENERE EST. Dudum cum generis description em assignaret, in generis definitione speciei nomen iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. Nunc vero cam speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse quae sub genere ponatur. Cui quidem dicto illa quaestio iure videtur opponi. Omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. Ex notioribus igitur fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. Cum igitur per speciei nomen describeret vel definiret genus, abusus est vocabulo speciei velut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. Nunc vero cum speciem vellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque convertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei vocabulum, in speciei autem descriptione sit notius generis, quod fieri nequit. Si enim generis vocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei nomine uti non debuit. Quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis, in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. Cui quaestioni occurrit dicens: NOSSE ASTEM OPORTET <QUOD>, QUONIAM ET GENUS ALICUIUS EST GENUS ET SPECIES ALICUIUS EST SPECIES, IDCIRCO NECESSE EST ET IN UTRORUMQUE RATIONIBUS UTRISQUE UTI. Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio uniuscuiusque substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in his quae invicem referuntur. Ergo quoniam genus speciei genus est et substantiam suam et ƿ vocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam vero species id quod est sumit el genere, nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. Quoniam vero diversae sunt specierum qualitates -- aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola speciei permanent proprietate neque in naturam generis transeunt -- idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens: ASSIGNANT ERGO ET SIC SPECIEM: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET DE QUO GENUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDIAATUR. AMPLIUS AUTEM SIC QUOQUE: SPECIES EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR. SED HAEC QUIDEM ASSIGNATIO SPECIALISSIMAE EST ET QUAE SOLUM SPECIES EST, ALIAE VERO ERUNT ETIAM NON SPECIALISSIMARUM. Tribus speciem definitionibus informavit, quarum quidem duae omni speciei conveniunt omnesque quae quolibet modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia vero non ita. Cum enim duae sint specierum formae, una quidem, cum species alicuius aliquando etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in formam generis ƿ transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conveniunt. Id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. Nam et ea quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur, eam vim significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex generis praedicatione. Idem est autem et poni sub genere et de eo praedicari genus, sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. Quodsi omnis species sub genere collocatur, manifestum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis includi. Sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus est et quae solum species restat. Haec autem species ea est quae de differentibus specie minime praedicatur. Nam si id habet genus plus ab specie, quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de subiectis sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis species, subiectorum vero non erit genus. Igitur praedicatio ea quam species habet ad subiecta, si talis sit, ut de differentibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his speciebus ƿ quae genera esse possunt et monstrat eam solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. Illa igitur tertia descriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc modo: SPECIES EST QUOD DE PLURIBUS NUMERO DIFFERENTIBUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, UT HOMO; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et caeteris qui a se, ut dictum est, non specie sed numero discrepant. Ex tribus igitur definitionibus duae quidem et specialissimis et non specialissimis aptae sunt, haec vero tertia solam ultimam speciem claudit. Ut autem id apertius liqueat, rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis: PLANUM AUTEM ERIT QUOD DICITUR HOC MODO. IN UNOQUOQUE PRAEDICAMEUTO SUNT QUAEDAM GENERALISSIMA ET RURSUS ALIA SPECIALISSIMA ET INTER GENERALISSIMA ET SPECIALISSIMA SUNT ALIA. EST AUTEM GENERALISSIMUM QUIDEM SUPER QUOD NULLUM ULTRA ALIUD SIT SUPERVENIENS GENUS, SPECIALISSIMUM AUTEM, POST QUOD NON ERIT ALIN INFERIOR SPECIES, INTER GENERALISSIMUM AUTEM ET SPECIALISSIMUM ET GENERA ET SPECIES SUNT EADEM, AD ALIUD ƿ QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. SIT AUTEM IN UNO PRAEDICAMENTO MANIFESTUM QUOD DICITUR. SUBSTANTIA EST QUIDEM ET IPSA GENUS, SUB HAC AUTEM EST CORPUS, SUB CORPORE VERO ANIMATUM CORPUS, SUB QUO ANIMAL, SUB ANIMALI VERO RATIONALE ANIMAL, SUB QUO HOMO, SUB HOMINE VERO SOCRATES ET PLATO ET QUI SUNT PARTICULARES HOMINES. SED HORUM SUBSTANTIA QUIDEM GENERALISSIMUM EST ET QUOD GENUS SIT SOLUM, HOMO VERO SPECIALISSIMUM ET QUOD SPECIES SOLUM SIT, CORPUS VERO SPECIES QUIDEM EST SUBSTANTIAE, GENUS VERO CORPORIS ANIMATI; ET ANIMATUM CORPUS SPECIES QUIDEM EST CORPORIS, GENUS VERO ANIMALIS. ANIMAL AUTEM SPECIES QUIDEM EST CORPORIS ANIMATI, GENUS VERO ANIMALIS RATIONALIS SED RATIONALE ANIMAL SPECIES QUIDEM EST ANIMALIS, GENUS AUTEM HOMINIS, HOMO VERO SPECIES QUIDEM EST RATIONALIS ANIMALIS, NON AUTEM ETIAM GENUS PARTICULARIUM HOMINUM SED SOLUM SPECIES. ET OMNE QUOD ANTE INDIVIDUA PROXIMUM EST, SPECIES ERIT SOLUM, NON ETIAM GENUS. Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse disposita, ƿ quae idcirco praedicamenta vocaverit, quoniam de caeteris omnibus praedicantur. Quicquid vero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio converti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. Itaque haec praedicamenta maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur, ostensa sunt. In unoquoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima sunt genera et est longa series specierum atque a maximo decursus ad minima. Et illa quidem quae de caeteris praedicantur ut genera neque ullis aliis supponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum aliud superponitur genus, infima vero quae de nullis speciebus dicuntur, specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei vocabulum illa suscipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur proprietate sunt constituta. At quoniam species id quod species est ex eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. Species enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species sed habet quandam generis admixtionem, illa vero species quae ita supponitur generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum species simplexque est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. Inter genera igitur quae sunt generalissima et species, quae specialissimae sunt, in medio ƿ sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt. Inferioribus vero genera. Haec subalterna genera nuncupantur. Quod ita sunt genera, ut alterum sub altero collocetur. Quod igitur genus solum est, id dicitur generalissimum genus, quae vero ita sunt genera, ut esse species possint, vel ita species, ut sint genera nonnumquam, subalterna genera vel species appellantur. Quod vero ita est species, ut alii genus esse non possit, specialissima species dicitur. His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exemplum. Ut ab eo in caeteris quoque praedicamentis atque in a caeteris speciebus in uno filo atque ordine quid eveniat possit agnosci. Substantia igitur generalissimum genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. Ac primum huius species duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et item quod incorporeum est, substantia praedicatur. Sub corporeo vero animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua vero pars, id est species, continet animatum insensibile corpus. Sub animali autem rationale atque irrationale, sub rationali homo atque deus; nam si rationali mortale subieceris, hominem feceris, si immortale, deum, deum vero corporeum; hunc enim mundum ueteres deum vocabant et Iovis eum appellatione ƿ dignati sunt deumque solem caeteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus doctorum chorus arbitratus est. Sub homine vero individui singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et caeteri, quorum numerum pluralitas infinita non recipit. Cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum: incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile animal rationale | irrationale rationale animal mortale | immortale homo | Plato Cato Cicero Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo usque ad individua praedicationis ostendit. In qua quidem substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus, nulli vero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species solum, quoniam Plato, ƿ Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non differunt specie sed numero tantum. Corporeum vero, quod secundum a substantia collocatur, et species esse probatur et genus, substantiae species, genus animati. At vero animatum genus est animalis, corporei species. Est enim animatum genus sensibilis, animatum vero sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter propriam differentiam, quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. Animal vero rationalis genus est et rationale mortalis. Cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo, rationale fit animalis species. Hominis genus. Homo vero ipse Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus sed est solum species. Nec solum differentiae rationalis species est homo, verum etiam Platonis et Catonis caeterorumque species appellatur, propter diversam scilicet causam. Nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale atque immortale dividitur, cum sit homo mortale. Idem vero homo species est Platonis atque caeterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima similitudo. Est autem communis omnium regula eas esse species specialissimas quae supra sola individua collocantur, ut homo, equus, coruus -- sed non avis; avium enim multae sunt species sed hae tantum species esse dicuntur -- quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere non possint. In omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam ƿ ut sit corpus substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus. Item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est animatum substantia corporea habens animam. Item ut sit sensibile, eidem tria illa superiora iunguntur. Nam quod est sensibile, tantum est, quantum substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. Item superiora omnia rationi iuncta efficiunt rationale postremumque hominem superiora omnia nihilominus terminant; est enim homo substantia corporea, animata. Sensibilis, rationalis, mortalis. Nos vero definitionem hominis reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. Et in caeteris quidem speciebus atque generibus ad hunc modum vel genera dividuntur vel species describuntur. QUEMADMODUM IGITUR SUBSTANTIA, CUM SUPREMA SIT, EO QUOD NIHIL SIT SUPRA EAM, GENUS ERAT GENERALISSIMUM, SIC ET HOMO, CUM SIT SPECIES POST QUAM NON SIT ALIA SPECIES NEQUE ALIQUID EORUM QUAE POSSUNT DIVIDI SED SOLUM INDIVIDUORUM -- INDIVIDUUM ENIM EST SOCRATES ET PLATO -- SPECIES ERIT SOLA ET ULTIMA SPECIES ƿ ET, UT DICTUM EST, SPECIALISSIMA. QUAE VERO SUNT IN MEDIO, EORUM QUIDEM QUAE SUPRA IPSA SUNT, ERUNT SPECIES, EORUM VERO QUAE POST IPSA SUNT, GENERA. QUARE HAEC QUIDEM HABENT DUAS HABITUDINES, EAM QUAE EST AD SUPERIORA, SECUNDUM QUAM SPECIES IPSORUM ESSE DICUNTUR, ET EAM QUAE EST AD POSTERIORA, SECUNDUM QUAM GENERA IPSORUM ESSE DICUNTUR. EXTREMA VERO UNAM HABENT HABITUDINEM. NAM ET GENERALISSIMUM AD EA QUIDEM QUAE POSTERIORA SUNT, HABET HABITUDINEM, CUM GENUS SIT OMNIUM ID QUOD EST SUPREMUM, EAM VERO QUAE EST AD SUPERIORA, NON HABET, CUM SIT SUPREMUM ET PRIMUM PRINCIPIUM, SPECIALISSIMUM AUTEM UNAM HABET HABITUDINEM, EAM QUAE EST AD SUPERIORA, QUORUM EST SPECIES, EAM VERO QUAE EST AD POSTERIORA, NON DIVERSAM HABET SED ETIAM INDIVIDUORUM SPECIES DICITUR SED SPECIES QUIDEM INDIVIDUORUM VELUT EA CONTINENS, SPECIES AUTEM SUPERIORUM, VELUT QUAE AB EIS CONTINEATUR. Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. Nam ut genus, quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub se speciem sed individua, specialissima species dicitur, ut homo. Quid est autem species non habere? His praeesse quae neque in dissimilia dividi possunt, ut genera dividuntur, neque in similia secantur, ut species. Quae vero inter genera generalissima speciesque specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et ipsa aliis supponuntur et his alia subiciuntur, quorum vel in dissimilia vel in similia possit esse partitio. Cumque duae sint habitudines et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque versentur, una quidem quae ad superiora respiciat, ut specierum, quae suis generibus supponuntur, alia vero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum retinent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam vero quae ad praeposita comparatur, non habent. Generalissimum enim genus nulli supponitur. Item species specialissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola gellera comparatur, illam vero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. At vero quae subalterna sunt genera, utraque habitudine funguntur. ƿ Nam et illam possident quae ad superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest poni sub genere, ad animatum vero eam qua potest de specie praedicari. Specialissimae vero species licet ipsae individuis praeponantur, tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non habentia substantialem differentiam sed accidentibus efficitur, ut numero saltem distare videantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. Nam cum species substantiam monstret unam, quae omnium individuorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo nulli praeposita est, si ad substantiam quis velit aspicere. At si accidentia quis consideret, plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae diversitate sed accidentium multitudine itaque fit ut genus quidem semper plurimas sub ƿ se habeat species; de differentibus enim specie praedicatur, differentia vero nisi pluralitati non convenit. At vero species etiam uni aliquando individuo praeesse potest. Si enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de uno tantum individuo praedicatur; solis etiam species unum solem intellegitur habere subiectum. Ita nullam multitudinem species per se continet, cum etiam si unum sit tantum individuum, speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus partibus praeest, ut si aeris virgulam dividas, secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum. Idcirco dictum est speciem, licet sit individuis praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. Quoniam enim praepositis subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta inferiorum quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. Speciem vero substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia individuorum, quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo. Reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo vero Socratis atque Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur differentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut Cicero, ƿ sicut additur animali rationale atque mortale, ut homo integra definitione claudatur. Idcirco igitur species specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora vero, quoniam eorum substantiam format et continet. DETERMINANT ERGO GENERALISSIMUM ITA, QUOD CUM GENUS SIT, NON EST SPECIES, ET RURSUS, SUPRA QUOD NON ERIT ALIUD SUPERVENIENS GENUS, SPECIALISSIMUM VERO, QUOD CUM SIT SPECIES, NON EST GENUS ET QUOD CUM SIT SPECIES, NUMQUAM DIVIDITUR IN SPECIES ET QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR. EA VERO QUAE IN MEDIO SUNT EXTREMORUM, SUBALTERNA VOCANT GENERA ET SPECIES, ET UNUMQUODQUE IPSORUM SPECIEM ESSE ET GENUS PONUNT, AD ALIUD QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. EA VERO QUAE SUNT ANTE SPECIALISSIMA USQUE AD GENERALISSIMUM ASCENDENTIA, ET GENERA DICUNTUR ET SPECIES ET SUBALTERNA GENERA, UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS. Posteaquam naturam generum ac specierum diversitatemque monstravit, eorum ordinem definitionis descriptionisque commemorat. Ac primum quidem generalissimi generis terminum ƿ inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus, supra quod non erit aliud superveniens genus. Si enim haberet aliud genus, minime ipsum generalissimum vocaretur. Specialissima vero species hoc modo: quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex oppositis describuntur interdum. Nam quoniam praepositio opposita est suppositioni, genus autem praeponitur, species vero supponitur, si idcirco erit primum genus, quia ita superponitur, ut minime supponatur, idcirco erit ultima species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio: quod cum sit species, numquam dividatur in species, id est genus esse non possit. Si enim omne genus specierum genus est, si quid non dividitur in species, genus esse non poterit. Est rursus alia definitio: quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. De qua definitione saepe est superius demonstratum. Nunc illud attendendum est. Si, ut paulo superius dictum est, speciei unum individuum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli corpus hoc lucidum, ut mundo vel lunae, quorum species singulis suis individuis superponuntur, qui convenit dicere speciem esse quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur? Sunt enim quaedam quae de numero differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. Sed de his illa ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa commodissime nodum quaestionis absolvit. Omnia enim quae sub speciebus specialissimis sunt, sive infinita sint sive finito numero constituta sive ad singularitatem deducantur, dum est aliquod individuum, semper species permanebit neque individuorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint individua, substantiales differentias non habebunt. Id vero in genere dici non convenit, quod his praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunti praeest enim speciebus quae diversis differentiis informantur. ƿ Si igitur earum una perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia de differentibus specie praedicatur. Non ita in speciebus. Si enim omnium individuorum natura consumpta sit et ad unius singularitatem individul superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet. Talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et subiacet quod vero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo plures sunt species quae de numerosis individuis praedicantur, quam hae quibus unum tantum individuum videtur esse suppositum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur; etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. Ita igitur species de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. Item solis species de hoc uno sole quem novimus, nunc dicitur, at si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilominus de pluribus solibus in dividuis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. Idcirco igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari cum sint aliquae quae de singulis individuis appellentur. Illa vero quae subalterna vocantur ita definiri queunt: subalternum ƿ genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat exemplum: UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi Agamemnonis genus est. Item Agamemnon Pelopides et Tantalides, cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iovem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse videantur, cum Iuppiter veluti sit horum generalissimum genus. SED IN FAMILIIS QUIDEM PLERUMQUE AD UNUM REDUCUNTUR PRINCIPIUM, VERBI GRATIA AD IOVEM, IN GENERIBUS AUTEM ET SPECIEBUS NON SE SIC HABET. NEQUE ENIM EST COMMUNE UNUM GENUS OMNIUM ENS NEC OMNIA EIUSDEM GENERIS SUNT SECUNDUM UNUM SUPREMUM GENUS, QUEMADMODUM DICIT ARISTOTELES. SED SINT POSITA, QUEMADMODUM ƿ IN PRAEDICAMENTIS, PRIMA DECEM GENERA QUASI PRIMA DECEM PRINCIPIA; VEL SI OMNIA QUIS ENTIA VOCET, AEQUIVOCE, INQUIT, NUNCUPABIT, NON UNIVOCE. SI ENIM UNUM ESSET COMMUNE OMNIUM GENUS ENS, UNIVOCE ENTIA DICERENTUR; CUM VERO DECEM SINT PRIMA, COMMUNIO SECUNDUM NOMEN EST SOLUM, NON ETIAM SECUNDUM RATIONEM, QUAE SECUNDUM NOMEN EST. Cum de subalternis generibus diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone pervenit ad Iovem, quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. Quantum enim ad ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus vero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est. Ne igitur quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes possint ad unum sui nominis redire principium, idcirco determinat hoc in generibus ac speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam omnium rerum unum esse principium potest. Fuere enim qui hac opinione tenerentur, ut rerum omnium quae sunt umlm putarent esse genus quod ens nuncupant, tractum ab eo quod dicimus 'est'; omnia enim ƿ sunt et de omnibus esse praedicatur. Itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas caeteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae praedicamenta dicuit tur, esse constaret. Quae cum ita sint, ultimum omnium genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur. Ab eo autem quod dicimus 'est' participium inflectentes Graeco quidem sermone *on* Latine ens appellaverunt. Sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diversa sint, tum ad nullum commune principium reducantur. Haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. Quod vero occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur -- omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur -- ita discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune praedicaretur. Quibus enim definitio communis nominis convenit, illa communis nominis iure species iudicabuntur et communi illo vocabulo univoce praedicantur, quibus vero non convenit, vox his communis tantum est, nulla vero substantia. Id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. Animal hominis atque equi genus esse praedicamus; demus igitur ƿ animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. Rursus si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque verum est. Convenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. Ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia univoce nuncupentur. At si quis hominem pictum hominemque vivum communi animalis nomine nuncupaverit, definiat si libet animal hoc modo, substantiam animatam esse atque sensibilem. Sed haec definitio ei quidem homini qui vivus est convenit, ei vero qui pictus est, minime; neque enim est animata substantia. Igitur homini vivo atque picto, quibus communis nominis definitio, id est animalis, non potest convenire, non est animal commune genus sed tantum commune vocabulum diciturque hoc nomen animalis in vivo homine atque picto non genus sed vox plura significans; vox autem plura significans aequivoca nuncupatur, sicut vox ea quae genus ostendit, univoca dicitur. Itaque id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis, quoniam tam en nulla eius definitio inveniri potest quae omnibus praedicamentis possit aptari, idcirco non dicitur univoce de praedicamentis, id est ut genus sed aequivoce, id est ut vox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque ratione id quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse. ƿ Unius enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato velut species supponatur. At si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri supponatur. Haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. Ens igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. Nam quod dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime convertuntur. Si igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur etiam unum. Nam substantia unum est, qualitas unum est. Quantitas unum est caeteraque ad hunc modum. Si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. Sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum alteri praeponitur; duo igitur aequalia singulorum praedicamentorum genera sunt, quod fieri non potest. Cum haec igitur ita sint, id Porphyrius determinavit dicens non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli placet; SED SINT POSITA, inquit, QUEMADMODUM IN PRAEDICAMENTIS dictum est, PRIMA DECEM GENERA QUASI DECEM PRIMA PRINCIPIA, scilicet ut nulla interim ratio perquiratur sed auctoritati Aristotelis concedentes haec decem genera nulli ƿ alii generi esse credamus subiecta, quae si quis entia nuncupat, aequivoce nuncupabit, non univoce; neque enim una eorum omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. Quae res facit, ut non univoce de his aliquid praedicetur. Si enim univoce praedicaretur, genus esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset. Definitio generis conveniret in species. Quod quia non fit, commune his id quod dicimus ens, vocabulum est vocis significatione, non ratione substantiae. DECEM QUIDEM GENERALISSIMA SUNT, SPECIALISSIMA VERO IN NUMERO QUIDEM QUODAM SUNT, NON TAMEN INFINITO, INDIVIDUA AUTEM QUAE SUNT POST SPECIALISSIMA, INFINITA SUNT. QUAPROPTER USQUE AD SPECIALISSIMA A GENERALISSIMIS DESCENDENTEM IUBET PLATO QUIESCERE, DESCENDERE AUTEM PER MEDIA DIVIDENTEM SPECIFICIS DIFFERENTIIS; INFINITA, INQUIT, RELINQUENDA SUNT; NEQUE ENIM HORUM POSSE FIERI DISCIPLINAM. Quoniam specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse non potest -- nullus enim intellectus infinita circumdat -- idcirco de multitudine generum, specierum atque individuorum rectissima raitione persequitur dicens supremorum generum numerum notum -- decem enim praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco praeferenda sint -- species vero multo plures esse quam genera. Nam cum decem suprema sint genera cumque uni generi non una sed multae species supponantur proximaeque species supremis generibus subalterna sint genera usque dum ad ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse est utrobique diffusas, specialissimas vero multo plures esse quam subalterna, quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specialissimas descenditur species. Quas multo plures esse quam genera subalterna hoc maxime ostenditur, quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta dividuntur. Decem vero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, verum tamen etsi plures sunt, certo tamen numero continentur; quem facile si quis discutiat omniumque generum species persequatur, possit agnoscere. Individua vero quae sub unaquaque sunt specie, infinita sunt vel quod tam multa ƿ sunt diversisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non possint, vel quod in generatione et corruptione posita nunc quidem incipiunt esse, nunc vero desinunt. Atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et species eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, individua vero nullo modo idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas praecipiebat facere sectionem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat descendere dividentem, ubi autem ad individua veniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. Ita vero genera in species dividi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. De specificis autem differentiis melius in eo tituro ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus. Hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas differentias quibus species informantur, ut rationale vel mortale hominis. Cum igitur dividimus animal, rationali atque irrationali, mortali immortalique separamus. <Hoc ergo> caeteraque genera talibus differentiis quae subiectas species informent, Plato censuit esse dividenda usque dum ad specialissima ƿ veniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam individuorum numquam esset nec disciplina nec numerus. DESCENDENTIBUS IGITUR AD SPECIALISSIMA NECESSE EST DIVIDENTEM PER MULTITUDINEM IRE, ASCENDENTIBUS VERO AD GENERALISSIMA NECESSE EST COLLIGERE MULTITURDINEM. COLLECTIVUM ENIM MULTORUM IN UNAM NATURAM SPECIES EST ET MAGIS ID QUOD GENUS EST, PARTICULARIA VERO ET SINGULARIA E CONTRARIO IN MULTITUDINEM SEMPER DIVIDUNT QUOD UNUM EST; PARTICIPATIONE ENIM SPECIEI PLURES HOMINES UNUS, PARTICULARIBUS AUTEM UNUS ET COMMUNIS PLURES; DIVISIVUM EST ENIM SEMPER QUOD SINGULARE EST, COLLECTIVUM AUTEM ET ADUNATIVUM QUOD COMMUNE EST. Dividere est in multitudinem quod unum fuerat ante dis soluere, omoisque divisio e contrario compositionem coniunctionemque meditatur. Quod enim, cum sit unum, dispertiendo dividitur, id ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius dictum est, individuorum quidem similitudinem species colligunt, specierum vero genera; similitudo vero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. Ergo substantialem similitudinem individuorum species colligere manifestum est, substantialem vero similitudinem specierum genera contrahunt et ad se ipsa reducunt. Rursus ƿ generis adunationem differentiae in species distribuunt, specieique adunationem in singulares individuasque personas accidentia partiuntur. Cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis ad speciem, dividendo semper facere multitudinem, cum vero ab speciebus ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis fuerant similitudine qualitatis adunare. In speciebus etiam idem considerari potest. ut enim ipsae individua, quae sunt infinita, una similitudine substantiali colligunt, ita individua speciem propria infinitate distribuunt Omnia enim individua disgregativa sunt et divisiva, species vero et genera collectiva, species quidem individuorum collectiva atque adunativa, specierum vero genera, ut ita dicendum sit: genus quidem species distribuunt et species ab individuis in multitudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad singularitatis deducit unitatem. Igitur plus genus adunativum est quam species. Species namque sola individua colligit, genus vero tam species quam ipsarum quoque specierum individuas contrahit singularesque personas. Sed in hoc convenienti utitur exemplo dicens quoniam PARTICIPATIONE SPECIEI, id est hominis, Cato, Plato et Cicero PLURESQUE RELIQUI HOMINES UNUS, id est milia hominum ƿ in eo quod sunt homines, unus homo est; at vero unus homo, qui specialis est, si ad homivum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur, plures fiunt. Ita et plures homines in speciali homine unus est et specialis unus in pluribus infinitus sic igitur quod singulare quidem est, divisivum est, quod vero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectivum atque adunativum. ASSIGNATO AUTEM GENERE ET SPECIE, QUID EST UTRUMQUE, ET GENERE QUIDEM UNO, SPECIEBUS VERO PLURIBUS -- SEMPER ENIM IN PLURES SPECIES DIVISIO GENERIS EST -- GENUS QUIDEM SEMPER DE SPECIE PRAEDICATUR ET OMNIA SUPERIORA DE INFERIORIBUS, SPECIES AUTEM NEQUE DE PROXIMO SIBI GENERE NEQUE DE SUPERIORIBUS; NEQUE ENIM CONVERTITUR. OPORTET AUTEM AUT AEQUA DE AEQUIS PRAEDICARI, UT HINNIBILE DE EQUO, AUT MAIORA DE MINORIBUS, UT ANIMAL DE HOMINE, MINORA VERO DE MAIORIBUS MINIME; NEQUE ENIM ANIMAL DICES ESSE HOMINEM, QUEMADMODUM HOMINEM DICES ESSE ANIMAL. DE QUIBUS AUTEM SPECIES PRAEDICATUR, ƿ DE HIS NECESSARIO ET SPECIEI GENUS PRAEDICABITUR ET GENERIS GENUS USQUE AD GENERALISSIMUM; SI ENIM verUM EST SOCRATEM HOMINEM DICERE, HOMINEM AUTEM ANIMAL, ANIMAL VERO SUBSTANTIAM, VERUM EST ET SOCRATEM ANIMAL DICERE ATQUE SUBSTANTIAM. SEMPER IGITUR SUPERIORIBUS DE INFERIORIBUS PRAEDICATIS SPECIES QUIDEM DE INDIVIDUO PRAEDICABITUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO, GENERALISSIMUM AUTEM ET DE GENERE ET DE GENERIBUS, SI PLURA SINT MEDIA ET SUBALTERNA, ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO. DICITUR ENIM GENERALISSIMUM QUIDEM DE OMNIBUS SUB SE GENERIBUS SPECIEBUSQUE ET DE INDIVIDUIS, GENUS AUTEM QUOD ANTE SPECIALISSIMUM EST, DE OMNIBUS SPECIALISSIMIS ET DE INDIVIDUIS, SOLUM AUTEM SPECIES DE OMNIBUS INDIVIDUIS, INDIVIDUUM AUTEM DE UNO SOLO PARTICULARI. INDIVIDUUM AUTEM DICITUR SOCRATES ET HOC ALBUM ET HIC VENIENS, UT SOPHRONISCI FILIUS, SI SOLUS EI SIT SOCRATES FILIUS. Breviter quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo. Cum, inquit, assignaverimus quid sit genus et quid species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum genus semper in plurimas species solvi, illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de inferioribus praedicantur, inferiora vero de superioribus minime. Et ea quae sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. Ostendit autem genus in plurimas species semper solvi assignata generis definitione. Quod enim de pluribus rebus specie differentibus in eo quod quid sit praedicaretur, esse definivit genus. Nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissolvitur. Ostensum est igitur es definitionis assignatione unius generis esse species plures. Quae cum ita sint, genus quidem de specie praedicatur, species vero de individuis omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. Id quare eveniat paucis absolvam. Quae superiora sunt, substantialiter ea genera esse praediximus, qua vero sunt genera, ampliora sunt quam unaquaeque species. Neque enim in plurima divideretur genus, nisi ab unaquaque specie maius existeret. Id cum ita sit, nomen generis toti convenit speciei; non enim coaequatur solum speciei generis magnitudo, verum etiam speciem superuadit. Idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis vocabulum et homo et caetera continentur. At vero nullus dixerit: omne animal homo est; non enim pervenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis vocabulo coaequatur. Itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae minora, non convertuntur, ut de maioribus praedicentur. At vero si qua sint aequalia, ea secundum naturae parilitatem converti necesse est, ut hinnibile atque equus, quoniam ita sibimet ƿ coaequantur, ut neque equus non sit hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. Fit ergo ut omne hinnibile equus sit et omnis equus hinnibilis. Quae cum ita sint, ea quae superiora sunt, non modo de sibi proximis inferioribus praedicantur, verum etiam de inferiorum inferioribus. Nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de inferioribus praedicentur, inferiorum inferiora superioribus multo magis inferiora sunt, velut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed animali inferius est homo, praedicabitur igitur etiam substantia de homine. Rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de Socrate. Itaque species quidem de individuis praedieantur, genera vero et de speciebus et de individuis. Quod converti non potest; nam neque individua de speciebus aut generibus praedicantur nec species de generibus. Ita fit ut genus quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedicari et de speciebus et de individuis possit, de ipso nihil. Ultimum vero genus id est quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus specialissimis dici potest, species vero de individuis, ut dictun est, individua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt ƿ individua quae sub ostensionem indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic veniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem significatione velit ostendere, non dicat 'Socrates', ne sit alius qui forte hoc nomine nuncupetur sed dicat 'Sophronisci filius', si unicus Sophronisco fuit. Individua enim maxime ostendi queunt, si vel tacito nomine sensui ipsi oculorum digito tactuue monstrentur, vel el aliquo accidenti significentur vel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, vel ex parentibus, si illorum est unicus filius, vel ex quolibet alio accidenti singularitas demonstratur. Eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum vero ad individua. INDIVIDUA ERGO DICUNTUR HUIUSMODI, QUONIAM EX PROPRIETATIBUS CONSISTIT UNUMQUODQUE EORUM, QUARUM COLLECTIO NUMQUAM IN ALIO EADEM ERIT. SOCRATIS ENIM PROPRIETATES NUMQUAM IN ALIO QUOLIBET ERUNT ƿ PARTICULARIUM, HAE VERO QUAE SUNT HOMINIS, DICO AUTEM EIUS QUI EST COMMUNIS, PROPRIETATES ERUNT EAEDEM IN PLURIBUS, MAGIS AUTEM IN OMNIBUS PARTICULARIBUS HOMINIBUS IN EO QUOD HOMINES SUNT. Quoniam superius individuum appellavit, huius nominis rationem conatur ostendere. Ea enim sola dividuntur quae pluribus communia sunt; his enim unumquodque dividitur quorum est commune quorumque naturam ac similitudinem continet. Illa vero in quae commune dividitur, communi natura participant proprietasque communis rei his quibus communis est convenit. At vero individuorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si fuit caluus, simus, propenso aluo caeterisque corporis lineamentis aut morum institutione aut forma vocis, non conveniebat in alterum; hae enim proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in nullum alium conveniebant. Cuius autem proprietates in nullum alium conveniunt, eius proprietates nulli poterunt esse commones, cuius autem proprietas nulli communis est, nihil est quod eius proprietate participet. Quod vero tale est, ut proprietate eius nihil participet, ƿ dividi in ea quae non participant, non potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non convenit, individua nuncupantur. At vero hominis proprietas, id est specialis, convenit et in Socratem et in Platonem et in caeteros, quorum proprietates ex accidentibus venientes in quemlibet alium singularem nulla ratione conveniunt. CONTINETUR IGITUR INDIVIDUUM QUIDEM SUB SPECIE, SPECIES AUTEM SUB GENERE. TOTUM ENIM QUIDDAM EST GENUS, INDIVIDUUM AUTEM PARS, SPECIES vero ET TOTUM ET PARS SED PARS QUIDEM ALTERIUS, TOTUM AUTEM A NON ALTERIUS SED ALIIS; PARTIBUS ENIM TOTUM EST. DE GENERE QUIDEM ET SPECIE ET QUID GENERALISSIMUM ET QUID SPECIALISSIMUM ET QUAE GENERA EADEM ET SPECIES SUNT, QUAE ETIAM INDIVIDUA, ET QUOT MODIS GENUS ET SPECIES DICITUR, SUFFICIENTER DICTUM EST. Hic retractat omnia breviter quae supra latius absolvit dicens individuum ab specie contineri, species vero ipsas a genere, huiusque causam reddens ait: OMNE ENIM GENUS TOTUM EST, INDIVIDUUM PARS. Totum enim genus in eo quod genus est. Continet, tametsi species esse potest; totum enim non ut genus species est sed ut ea quae supponitur generi. Genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet eas. At vero individuum pars semper est, numquam ƿ enim ipsum aliquid sua proprietate concludit. Species vero et totum est et pars, pars quidem generis, totum vero individuis. Et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum, ad pluralitatem. Quoniam enim unum genus pluribus speciebus superest, una quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species pluribus individuis praeest, non est uni individuo totum sed plurimis. Idcirco enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. Nam ut pars sit aliquid, una ipsa unius pars esse poterit, ut vero totum sit, unum ipsum unius totum esse non poterit. Idcirco alterius quidem pars est species, aliis vero totum. Et de genere quidem et specie dictum est et quid sit generalissimum genus, quoniam id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam ea cui species nulla supponitur, et quae genela eadem sunt, eadem et speries scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid vero supponitur, quae etiam individua, ea scilicet quorum proprietates alteri nequeunt convenire, et quot modis genus vel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in procreatione aut in participatione substantiae. Species vero aut ex figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum est. Quibus absolutis modum voluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur. De differentia disputanti non aeque illud debet occurrere quod in generis specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. Illic enim meminimus inquisitum, cur esset omnibus praepositum genus, ut id primum ad disputationem veniret, cur post genus species esset iniecta, nunc vero superuacuum est dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. Quodsi mirum videbatur speciem differentiae in disputationis loco fuisse praepositam, quod differentia continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocaverit, cum proprium unius semper sit speciei, ut posterius demonstrabitur, accidens vero exteriorem quandam ostendat naturam nec omnino in substantia praedicetur, differentia vero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii verba veniamus. DIFFERENTIA VERO COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS ƿ PROPRIE DICITUR. COMMUNITER QUIDEM DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUOD ALTERITATE QUADAM DIFFERT QUOCUMQUE MODO VEL A SE IPSO VEL AB ALIO. DIFFERT ENIM SOCRATES A PLATONE ALTERITATE ET IPSE A SE VEL PUERO VEL IAM viRO ET FACIENTE ALIQUID VEL QUIESCENTE ET SEMPER IN ALIQUO MODO HABENDI ALTERITATIBUS. PROPRIE AUTEM DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUANDO INSEPARABILI ACCIDENTI AB ALTERO DIFFERT. INSEPARABILE VERO ACCIDENS EST UT NASI CURUITAS, CAECITAS OCULORUM, CICATRIX, CUM ES UULNERE OBCALLUERIT. MAGIS PROPRIE DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUANDO SPECIFICA DIFFERENTIA DISTITERIT, QUEMADMODUM HOMO AB EQUO SPECIFICA DIFFERENTIA DIFFERT RATIONALI QUALITATE. Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere, specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. Nam quae genere vel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. Nam quod homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qualitas in eo differentiam facit. Addita enim sensibilis qualitas ƿ animato animal facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quod virgulta sunt. Igitur homo atque arbor genere differunt -- utraque enim sub animalis genere poni non possunt -- differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. Illa vero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque irrationabilitate. Ea vero quae individua sunt et solo numero discrepant, solis accidentibus distant. Haec autem sunt vel separabilia vel inseparabilia, separabilia quidem, ut moveri, dormire; distat enim alius ab alio, quod ille somno prematur, hic vigilet. Distat item inseparabilibus accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint, in ternarium numerum has differentiarum diversitates Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens: OMNIS DIFFERENTIA VEL COMMUNITER VEL PROPRIE VEL MAGIS PROPRIE NUNCUPATUR, communiter quidem eam differentiam sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in quadam alteritate consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, vel quod ille sit senex, hic ƿ ivvenis. A se ipso etiam saepe aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit, vel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera vixisset infantia. Communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse possunt differentiae sed separabilia accidentia sola significant. Nam et stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et separabilia esse accidentia manifestum est. Quibus si qui differunt, communibus differentiis distare dicuntur. Praeterea puerum esse atque adulescentem vel senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. Nam ex pueritia ad adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. Illud forsitan sit dubitabile de uniuscuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. Sed ea quoque est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma perdurat. Idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux viderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diversa est. Constat igitur hanc communem differentiam separabilibus maxime accidentibus applicari, propria vero est quae inseparabilia significat accidentia. Ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. Atque haec per naturam. Sunt vero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus ƿ inflictum cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit. Propriam differentiam facit; distabit enim alter ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille vero minime. Postremoque in his omnibus vel separabilibus accidentibus vel inseparabilibus alia sunt naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia vel ivuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. Et superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora vero inseparabilis. Item extrinsecus vel ambulare vel currere; id enim nou natura sed sola affert voluntas, natura vero posse tantum dedit, non etiam facere. Atque haec sunt separabilis accidentis extrinsecus venientis exempla, illa vero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens sed substantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a caeteris, quod rationalis est vel quod mortalis. Hae sunt igitur magis propriae, quae monstrant uniuscuiusque substantiam. Nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt, aliae autem propriae. Quoniam separari non possunt, quamvis sint in accidentium numero, illae iure magis propriae praedicantur, quae non modo a subiecto separari non possunt, verum subiecti ipsius speciem substantiamque perficiunt. Ex his igitur tribus differentiarum diversitatibus, id est communibus, propriis ac magis propriis, fiunt secundum genus vel speciem vel numerum discrepantiae. Nam ex communibus et propriis secundum numerum distantiae nascuntur, ex magis propriis vero secundum genus ac speciem. UNIVERSALITER ERGO OMNIS DIFFERENTIA ALTERATUM FACIT CUILIBET ADVENIENS SED EA QUAE EST COMMUNITER ET PROPRIE, ALTERATUM FACIT, ILLA AUTEM QUAE EST MAGIS PROPRIE, ALIUD. DIFFERENTIARUM ENIM ALIAE QUIDEM ALTERATUM FACIUNT, ALIAE VERO ALIUD. ILLAE QUIDEM QUAE FACIUNT ALIUD, SPECIFICAE VOCANTUR, ILLAE VERO QUAE ALTERATUM, SIMPLICITER DIFFERENTIAE. ANIMALI ENIM DIFFERENTIA ADVENIENS RATIONALIS ALIUD FECIT ET SPECIEM ANIMALIS FECIT, ILLA VERO QUAE EST MOVENDI, ALTERATUM SOLUM A QUIESCENTE FECIT; QUARE HAEC QUIDEM ALIUD, ILLA VERO ALTERATUM SOLUM FECIT. Omnis differentia alterius ab altero distantiam facit. Sed haec vel est communis et continens vel cum quodam proprio et magis proprio differentiarum modo. Quare quicquid qualibet ratione ab alio diversum est, alteratum esse dicitur. Si vero accesserit illi diversitati ut etiam specifica quadam differentia sit diversum, non alteratum solum, verum etiam aliud esse praedicatur. Alteratio igitur continens est, aliud vero intra alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alteratum est sed nou omne quod alteratum est, aliud dici potest. Itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta diversitas, alteratum ƿ quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo vel ex quibuslibet differentiis considerata diversitas alterationem facit intellegi, aliud vero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero fuerit dissociatum. Itaque communes et propriae differentiae, quoniam accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum. Aliud vero minime, magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma prnedicantur, non modo alteratum, quod est commune vel substantiali vel accidenti differentiae sed etiam aliud faciunt, quod ea sola retinet differentia quae substantiam continet formamque suhiecti. Atque ilae quidem differentiao quae faciunt aliud, specificab nuncupantur idcirco, quod ipsae efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informaverint, faciunt ab aliis ita esse diversam, ut non aiterata solum sit, verum etiam tota alia praedicetur. Itaque fit huiusmodi divisio, differentiarum ut aliae alteratum faciant, aliae vero aliud. Et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter pro nomine differentiae nuncupantur, illae vero quae aliud, specificae differentiae praedicantur. Atque, ut planius liqueat quid sit alteratum, quid aliud, tali describuntur termino vel declarantur exemplo: aliud est quod tota speciei ratione diversum est, ut equus ab homine, quoniatll rationalis differentia animali advenieus hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. Item si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diversus ab homine sed eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui ƿ sedet faciat alteratum. Item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad formam humanitatis attinet, permutatum est. Ita secundum has differentias alteratio sola consistit. At si equus quidem iaceat, homo vero ambulet, et aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel vero aliud. Alteratum est enim, vel quod omnino specie diversum est -- et est aliud; omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est -- vel quod accidentibus distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel vero est aliud, quod rationabili atque irrationabili differentiis disgregatur, quae specificae sunt et substantiales dicuntur. Est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione diversum est. SECUNDUM IGITUR ALIUD FACIENTES DIVISIONES FIUNT A GENERIBUS IN SPECIES ET DEFINITIONES ASSIGNANTUR, QUAE SUNT EX GENERE ET HUIUSMODI DIFFERENTIIS, SECUNDUM AUTEM EAS QUAE SOLUM ALTERATUM FACIUNT, ALTERATIO SOLA CONSISTIT ET ALIQUO MODO SE HABENDI PERMUTATIONES. Quoniam in principio operis huius generis, speciei, differentiae, ƿ proprii accidentisque notitiam ad divisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc differentiarum ipsarum facta divisione easdem partitur et segregat, quaenam differentiae divisionibus ac definitionibus accommodentur, quae vero minime. Quoniam igitur divisio generis ita in species facienda est, ut illae a se species omni substantiae ratione diversae sint, idcirco non probat assumendas esse eas ad divisionem differentias quae vel separabilis vel inseparabilis accidentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est, solum faciunt alteratum, aliud vero perficere et informare non possunt. Inutiles igitur sunt ad divisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. Segregandae igitur sunt communes et propriae a generis divisione, illae assumendae tantum quae sunt magis propriae. Illae enim faciunt aliud, quod generis divisio videtur exposcere. Ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum valent, communes et propriae velut inutiles segregantur; communes enim et propriae, quoniam accidens diversi generis ferunt, nihil substantiae ratione conformant, definitio vero omnis substantiam conatur ostendere. Specificae vero differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. Eaedem igitur sicut in divisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem differentiae ƿ nunc quidem constitutivae ad definitionem specierum sunluntur, nunc divisivae ad partitionem generis accommodantur. Ita igitur cum divisivae sunt generis, aliud constituunt. In substantiae vero definitione speciei informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae sint, eo quidem quo aliud faciunt. Divisionibus aptae sunt. Eo vero quo speciem informant. Definitionibus accommodatae sunt. Communes autem et propriae quoniam neque aliud faciunt sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a divisione ut a definitione disiunctae sunt. A SUPERIORIBUS ERGO RURSUS INCHOANTI DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS QUIDEM ESSE SEPARABILES, ALIAS VERO INSEPARABILES. MOVERI ENIM ET QUIESCERE ET SANUM ESSE ET AEGRUM ET QUAECUMQUE HIS PROXIMA SUNT, SEPARABILIA SUNT, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM VEL RATIONALE VEL IRRATIONALE INSEPARABILIA. IN SEPARABILIUM AUTEM ALIAE QUIDEM SUNT PER SE, ALIAE ƿ VERO PER ACCIDENS; NAM RATIONALE PER SE INEST HOMINI ET MORTALE ET DISCIPLINAE ESSE PERCEPTIBILE, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM SECUNDUM ACCIDENS ET NON PER SE. Superius differentias triplici divisione partitus est dicens aut communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia divisione in duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas vero alteratum. Nunc tertiam earum quidem facit divisionem dicens alias esse separabiles, alias inseparabiles, posse autem de unoquoque cuius multae sunt differentiae, plurimas fieri divisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. Nam si omnis divisio differentiis distribuitur quorum multae sunt differentiae, multas etiam divisiones esse necesse est. Fit autem ut animal dividatur quidem hoc modo: animalis alia quidem sunt rationabilia, alia irrationabilia, item alia mortalia, alia immortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia herbis uescentia, alia carnibus, alia seminibus. Ita nihil mirum videri debet, si multiplex differentiae est facta partitio. Ac primum quidem cum in ternarium numerum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias nuncupavit. Secunda vero divisio communes et proprias intra nomen alteratum facientis inclusit, magis proprias vero intra aliud facientis. Haec vero tertia divisio, quae ait DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES, unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus differentiis adiungit, caeteras vero intra inseparabilis differentiae vocabulum claudit. Una quidem ex alteratum facientibus, id est propria differentia, et reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur. F quarum subdivisio fit. Inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis propriae, secundum accidens vero propriae. Per se autem aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam informat. Si enim idcirco quaelibet species est, quoniam substantiali differentia constituitur, illa differentia per se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium sed sui praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas, homini enim huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si discesserit, species hominis non manebit. Et has quidem quae substantiales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti. Secundum accidens vero inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse vel simum; quae idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commodantes. ILLAE IGITUR QUAE PER SE SUNT, IN SUBSTANTIAE ƿ RATIONE ACCIPIUNTUR ET FACIUNT ALIUD, ILLAE VERO QUAE SECUNDUM ACCIDENS, NEC IN SUBSTANTIAE RATIONE DICUNTUR NEC FACIUNT ALIUD SED ALTERATUM. ET ILLAE QUIDEM QUAE PER SE SUNT, NON SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS, ILLAE vero QUAE PER ACCIDENS, VEL SI INSEPARABILES SINT, INTENTIONEM RECIPIUNT ET REMISSIONEM; NAM NEQUE GENUS MAGIS AUT MINUS PRAEDICATUR DE EO CUIUS FUERIT GENUS, NEQUE GENERIS DIFFERENTIAE, SECUNDUM QUAS DIVIDITUR; IPSAE ENIM SUNT QUAE UNIUSCUIUSQUE RATIONEM COMPLENT, ESSE AUTEM UNI CUIQUE UNUM ET IDEM NEQUE INTENTIONEM NEQUE REMISSIONEM SUSCIPIENS EST, AQUILUM AUTEM ESSE VEL SIMUM VEL COLORATUM ALIQUO MODO ET INTENDITUR ET REMITTITUR. Differentiis rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius dixit. Cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis proprias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud mimme sed hoc solis magis propriis reservavit. Nunc igitur idem repetit dicens quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae vero ƿ quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt nec aliud faciunt sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. Item alia distantia est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam monstrant, intendi aut remitti non possunt, quae vero sunt secundum accidens, et intentione crescunt et remissione decrescunt. Id autem probatur hoc modo. Unicuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est, humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. Nam neque ipse a se plus aut minus hodie vel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo rursus ab alio homine plus homo potest esse vel animal. Utrique enim aequaliter animalia, aequaliter homines esse dicuntur. Quodsi uni cuique esse suum nec cremento ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id facile monstrari potest, quoniam quae genera sunt vel species. Nulla intentione vel remissione variantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae uniuscuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec intentionis augmenta. Itaque substantiales differentiae neque intentionem neque remissionem suscipiunt. Huius causa haec est. Quoniam esse unicuique unum et idem est, et intentionem remissionemue non suscipit huius exemplum. Genus ƿ enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter superponitur. Differentiae quoque quae dividunt genus et informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem recipiunt nec remissionem. Quae vero secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum esse vel simum vel coloratum aliquo modo, et intentionem suscipiunt et remissionem. Fieri enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic vero amplius simus, ille minus aquilus, at vero quod non omnes homines aequaliter rationales mortalesque sint nec specierum nec differentiarum natura videtur admittere. CUM IGITUR TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR ET CUM HAE QUIDEM SINT SEPARABILES, ILLAE VERO INSEPARABILES, ET RURSUS INSEPARABILIUM CUM HAE QUIDEM SINT PER SE, ILLAE VERO PER ACCIDENS, RURSLLS EARUM QUAE SUNT PER SE DIFFERENTIARUM ALIAC QUIDEM SUNT SECUNDUM QUAS DIVIDIMUS GENERA IN SPECIES, ALIAE VERO SECUNDUM QUAS EA QUAE DIVISA SUNT SPECIFICANTUR, UT CUM PER SE DIFFERENTIAE OMNES HUINSMODI SINT, ANIMATI ET INANIMATI, ƿ SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, RATIONALIS ET IRRATIONALIS, MORTALIS ET IMMORTALIS, EA QUIDEM QUAE EST ANIMATI ET SENSIBILIS DIFFERENTIA. CONSTITUTIVA EST SUBSTANTIAE ANIMALIS -- EST ENIM ANIMAL SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS -- EA VERO QUAE EST MORTALIS ET IMMORTALIS DIFFERENTIA ET RATIONALIS ET IRRATIONALIS, DIVISIVAE SUNT ANIMALIS DIFFERENTIAE; PER EAS ENIM GENERA IN SPECIES DIVIDIMUS. Fit nunc differentiarum plena et suprema divisio, quae est huiusmodi. Differentiarum aliae sunt separabiles, aliae inseparabiles, inseparabilium aliae sunt secundum accidens, aliae substantiales. Substantialium aliae sunt divisibiles generis, aliae constitutivae specierum. Quod vero ait: CUM IGITUR TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum divisione partim eas communes esse, partim proprias, partim magis proprias disit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse monstravit, alias inseparabiles, separabiles quidem commlmes, inseparabiles vero proprias ac magis proprias. Inseparabilium vero fecit divisionem dicens alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias vero secundum substantiam considerari. Earum vero quae secundum substantiam sunt, subdivisionem facit, quod ƿ aliae earum genus dividant, aliae speciem informent. Ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum generumque dispositio transcribatur. Sitque primum substantia, sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale atque irrationale, sub rationali mortale atque immortale et sub mortali species hominis, quae solis deinceps individuis praeponatur. In hac igitur divisione omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim specierumque differentiae sunt sed generum quidem divisivae, specierum autem constitutivae. Id autem probatur hoc modo. Substantiam quippe corporei atque incorporei differentiae partiuntur, corporeum vero animati atque inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. Ita igitur genera substantiales differentiae partiuntur et dicuntur generum divisivae. At velo si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus dividunt, colligantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. Nam cum animal species sit substantiae -- omnia enim superiora de inferioribus praedicantur et quicquid inferius fuerit, species erit etiam superioris -- animatum tamen atque ƿ sensibile quae sunt differentiae, si referantur ad genera, divisivae sunt, constitutivae vero fiunt animalis eiusque substantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut sit animal substantia animata sensibilis. Substantia quidem genus, animatum vero atque sensibile eiusdem differentiae constitutivae. Item animal rationabilitas atque irrationabilitas dividit, mortali etiam atque immortali dividitur sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis divisivae fuerant, fiunt hominis constitutivae eiusque perficiunt speciem atque omnem eius rationem definitionis informant atque perficiunt. At si irrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quodlibet animal, quod ratione non utitur, rationabilitas vero atque immortalitas copulatae dei substantiam informant. Ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera, divisivae generum fiunt, si vero ad inferiores species considerentur, informant species earumque substantiam convenienti copulatione constituunt. In hoc quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae differentiae ƿ specierum constitutivae, cum irrationabilis differentia atque immortalis nullam speciem videantur efficere. Respondemus primum quidem placere Aristoteli caelestia corpora animata non esse: quod velo animatum non sit, animal esse non posse; quod vero non sit animal, nec rationale esse concedi. Sed eadem corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat. Est igitur aliquid quod ex duabus his differentiis conficiatur, irrationabili scilicet atque immortali. Quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia corpora animata esse credendum, nullum quidem his differentiis potest esse subiectum -- quicquid enim irrationabile est corruptioni subiacens et generationi, immortale esse non poterit -- sed tamen hae differentiae, quoniam substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent, earum naturam et speciem quoque possent efficere. Atque ut intellegatur, quae sit haec potentia effieiendae substantiae specieique formandae respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iungantur, speciem substantiamque nulla ratione constituunt. Si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae communes differentiae, vel si albus ac longus, num idcirco isdem eius substantia constituitur? Minime. Cur? Quia non eiusdem sunt generis, quae alicuius possint constituere et conformare substantiam. ƿ Ita igitur hae, id est irrationale atque immortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent. Praeterea irrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit: est igitur constitutiva irrationalis differentia. Item immortale ac rationale coniuncta efficiunt deum: est igitur immorlale quod speciem formet. Quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur. SED HAE QUIDEM QUAE DIVISIVAE SUNT DIFFERENTIAE GENERUM, COMPLETIVAE FIUNT ET CONSTITUTIVAE SPECIERUM; DIVIDITUR ENIM ANIMAL RATIONALI ET IRRATIONALI DIFFERENTIA ET RURSUS MORTALI ET IMMORTALI DIFFERENTIA. SED EA QUAE EST RATIONALIS DIFFERENTIA ET MORTALIS, CONSTITUTIVAE FIUNT HOMINIS, RATIONALIS VERO ET IMMORTALIS. DEI, ILLAE vero QUAE SUNT IRRATIONALIS ET MORTALIS, IRRATIONABILIUM ANIMALIUM. SIC ETIAM ET SUPREMAE SUBSTANTIAE CUM DIVISIVA SIT ANIMATI ET INANIMATI DIFFERENTIA ET SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, ANIMATA ET SENSIBILIS CONGREGATAE AD SUBSTANTIAM ANIMAL PERFECERUNT. Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum quidem quo genera dividuntur, alium vero quo species informantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur, verum etiam dum genera dividunt, species in quas genera deducuntur efficiunt. Itaque quae divisivae sunt generum, fiunt constitutivae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod ipse subiecit: animalis quippe differentiae sunt divisivae rationale atque irrationale, mortale atque immortale, his enim praedicatio diniditur animalis. Omne enim quod animal est, aut rationale aut irrationale aut mortale aut immortale est. Sed istae differentiae quae dividunt genus quod est animal speciei substantiam formam quae constituunt. Nam cum sit homo animal, efficitur rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur. Item cum sit equus animal, irrationali mortalique differentiis constituitur, quae dudum animal dividebant. Deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus. Rationali immortalique efficitur differentiis, quas dividere genus habita partitio paulo ante monstravit. Sed hic, ut diximus deum corpoleum intellegi oportet, ut solem et caelum caeteraque huiusmodi, quae cum animata et rationabilia Plato esse confirmat, tum in deorum vocabulum antiquitatis veneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur venire. Nam cum eius divisivae sint differentiae ƿ animatum atque inanimatum, sensibile atque insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt substantiam animatam atque sensibilem, quod est animal. Iure igitur dictum est, quae divisivae sunt differentiae generum, easdem esse constitutivas specierum. QUONIAM ERGO EAEDEM ALIQUO MODO QUIDEM ACCEPTAE FIUNT CONSTITUTIVAE, ALIQUO MODO AUTEM DIVISIVAE, SPECIFICAE OMNES VOCANTUR. ET HIS MAXIME OPUS EST AD DIVISIONES GENERUM ET DEFINITIONES SED NON HIS QUAE SECUNDUM ACCIDENS INSEPARABILES SUNT, NEC MAGIS HIS QUAE SUNT SEPARABILES. Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo procedunt, dividere nullus ignorat. Ipsae autem quae dividunt genus, si ad posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt. Eaedem igitur sunt constitutivae specierum, eaedem divisibiles generum, alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in contrariam divisionem spectentur, divisibiles generis inveniuntur, si vero iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutivae sunt. Quae cum ita sint, hae differentiae quae genus dividunt, rectissime divisivae nominanturÑquae enim constitumlt speciem, specificae sunt sed constituunt speciem hae differentiae quae ƿ sunt generis divisivae Ñ eaedemque sunt specierum constitutivae. Quare iure quae generum divisivae sunt et quae specierum constitutivae, specificae nuncupantur. Has igitur in divisione generis et in definitione specierum accipi oportere manifestum est. Quoniam enim divisivae sunt, per eas dividi oportet genus, quoniam autem constitutivae, per eas species definiri; quibus enim unumquodque constituitur, isdem etiam definitur. Constituitur autem species per differentias generis divisivas, quae sunt specificae. Iure igitur specificae solae et in generis divisione et in specierum definitione ponuntur. Et de specificis quidem haec ratio est, de his autem quae vel separabilia vel inseparabilia continent accidentia, nihil in generum divisione vel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam quae divisibiles sunt, substantiam generis dividunt, et quae constitutivae sunt. Substantiam speciei constituunt. Quae vero sunt inseparabilia accidentia, nullius substantiam informant. Unde fit ut multo minus separabilia accidentia ad divisiones generum vel specierum definitiones accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus differentiis. Nam inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae. Separabilia autem accidentia ne hoc quidem; separari ƿ enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione sed actus etiam praesentia, et omnino veniendi vel discedendi varietatibus permutantur. QUAS ETIAM DETERMINANTES DICUNT: DIFFERENTIA EST QUA ABUNDAT SPECIES A GENERE. HOMO ENIM AB ANIMALI PLUS HABET RATIONALE ET MORTALE: ANIMAL ENIM NEQUE IPSUM NIHIL HORUM EST -- NAM UNDE HABEBUNT SPECIES DIFFERENTIAS? -- NEQUE ENIM OMNES OPPOSITAS HABET -- NAM IN EODEM SIMUL HABEBUNT OPPOSITA -- SED, QUEMADMODUM PROBANT, POTESTATE QUIDEM OMNES HABET SUB SE DIFFERENTIAS, ACTU VERO NULLAM. AC SIC NEQUE EX HIS QUAE NON SUNT, ALIQUID FIT NEQUE OPPOSITA CIRCA IDEM SUNT. Specificas differentias definitione concludit dicens substantiales differentias a quibusdam tali descriptionis ratione finiri: DIFFERENTIA SPECIFICA EST QUA ABUNDAT SPECIES A GENERE. Sit enim genus animal, species homo: habet igitur homo differentias in se, quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutivas formae suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum congregatione perfecta est. Si igitur animal quidem solum genus est, homo vero est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est atque mortale. Quo igitur abundat species ƿ a genere, id est quo superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia. Sed huic definitioni quaedam quaestio videtur occurrere habens principium ex duabus per se propositionibus votis, una quidem, quoniam duo contraria in eodem esse non possunt, alia vero, quoniam ex nihilo nihil fit. Nam neque contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari. Quae propositiones talem faciunt quaestionem. Dictum est differentiam esse id qua plus haberet species a genere. Quid igitur? Dicendum est genus eas differentias quas habent species, non habere? Et unde habebit species differentias quas genus non habet? Nisi enim sit unde veniant, differentiae in speciem venire non possunt. Quodsi genus quidem has differentias non habet, species autem habet, videntur ex nihilo differentiae in speciem comlenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri non posse superius dicta propositio monstravit. Quod si differentias omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissoluuntur, fiet ut rationabilitatem atque irrationabilitatem, mortalitatem atque immortalitatem simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod fieri non potest. Neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se consideratum partes non habet, nisi ad species referatur. Quicquid igitur habet, non partibus sed tota sui magnitudine retinebit. Nec illud dubium est, quin in partibus suis genus habeat ƿ contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in bove contrarium. Sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat sed an ipsum per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra suae substantiae ambitum continere. Hanc igitur quaestionem tali ratione dissolvimus. Potest quaelibet illa res id quod est non esse sed alio modo esse, alio vero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet sedet quidem potestate, actu vero non sedet. Cum enim stat, manifestum est eum pon agere sessionem sed potius standi immobilitatem. Sed rursus cum stat sedet, non quia iam sedet sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate vero sedet. Et ouum animal est et non est animal. Non est quidem animal actu, adhuc namque ouum est nec ad animalis processit vivificationem sed idem tamen est animal potestate, quia potest effici animal, cum formam ac spiritum vivificationis acceperit. Ita igitur genus et habet has differentias et non habet, non habet quidem actu sed habet potestate. Si enim ipsum per se animal consideretur, differentias non habebit; si autem ad species reducatur, habere potest sed distributim atque ut eius speciebus separatim nihil possit evenire contrarium. Ita ipsum genus si per se consideretur, ƿ differentiis caret; quod si ad species referatur, per distributas species vel in partibus suis contraria retinebit, atque ita nec ex nihilo venerunt differentiae quas genus retinet potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias differentias in eo quod dicitur genus, actu non habet: impossibilitas enim eius propositionis quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria actu in eodem esse non possunt. Nam potestate et non actu duo contraria in eodem esse nihil impedit. Quae vero nos contraria diximus, Porphyrius opposita nuncupavit. Est enim genus contrarii oppositum; omnia enim contralia, si sibimet ipsis considerantur, opposita sunt. DEFINIUNT AUTEM EAM ET HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR; RATIONALE ENIM ET MORTALE DE HOMINE PRAEDICATUM IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST HOMO DICITUR SED NOLL IN EO QUOD QUID EST. QUID EST ENIM HOMO INTERROGATIS NOBIS CONVENIENS EST DICERE ANIMAL, QUALE AUTEM ANIMAL INQUISITI, QUONIAM RATIONALE ET MORTALE EST, CONVENIENTER ASSIGNABIMUS. Tres sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens respondetur, haec autem sunt: quid sit, quale sit, quomodo se habeat. Nam si quis interroget: quid est Socrates? Responderi per genus ac speciem convenit aut animal aut homo. Si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut caetera. Si quis vero qualis sit Socrates interroget, aut differentia aut proprium aut accidens respondebitur, id est vel rationalis vel risibilis vel caluus. Sed in proprio quidem illa est observatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie praedicatur, accidens vero tale est quod qualitatem designet quae non substantiam significet, differentia vero talis est quae substantiam demonstret. Interrogati igitur qualis unaquaeque res sit, si volumus reddere substantiae qualitatem, differentiam praedicamus. Quae differentia numquam de una tantum specie praedicatur, ut mortale vel rationale sed de pluribus. Quod igitur de pluribus speciebus inter se differentibus praedicatur ad eam interrogationem, quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem posuit definitionem: DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ƿ SPECIE DIFFERENTIBUS IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Cuius definitionis causam rationemque pertractans ait: REBUS ENIM EX MATERIA ET FORMA CONSTANTIBUS VEL AD SIMILITUDINEM MATERIAE ET FORMAE CONSTITUTIONEM HABENTIBUS, QUEMADMODUM STATUA EX MATERIA EST AERIS, FORMA AUTEM FIGURA. SIC ET HOMO COMMUNIS ET SPECIALIS EX MATERIA QUIDEM SIMILITER CONSISTIT GENERE, EX FORMA AUTEM DIFFERENTIA, TOTUM AUTEM HOC ANLMAL RATIONALE MORTALE HOMO EST, QUEMADMODUM ILLIC STATUA. Dixit superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem causas exequitur, cur speciei qualitas differentia sit. Omnes, inquit, res vel ex materia formaque consistunt vel ad similitudinem materiae atque formae substantiam sortiuntur. Ex materia quidem formaque subsistunt ƿ omnia quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat formam, nihil omnino esse potest. Si enim lapides non fuissent. Muri parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex ligni materia est, esse potuisset. Igitur supposita materia ac praeiacente cum in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis figura perficitur. Atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex materia formaque subsistere, ea vero quae sunt incorporalia, ad similitudinem materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super quas differentiae venientes efficiunt aliquid quod eodem modo sicut corpus tamquam ex materia ac figura consistere videatur, ut in genere ac specie additis generi differentiis species effecta est. Ut igitur est in Achillis statua aes quidem materia, forma vero Achillis qualitas et quaedarn figura, ex quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui superveniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem fecit. Igitur speciei materia quaedam est genus, forma vero et quasi qualitas differentia. Quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere ƿ figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque coniungitur. Quodsi materia quidem speciei genus est, forma autem differentia, omnis vero forma qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur. Quae cum ita sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur. DESCRIBUNT AUTEM HUIUSMODI DIFFERENTIAS ET HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUOD APTUM NATURA EST DIVIDERE QUAE SUB EODEM SUNT GENERE; RATIONALE ENIM ET IRRATIONALE HOMINEM ET EQUUM, QUAE SUB EODEM SUNT GENERE, QUOD EST ANIMAL, DIVIDUNT. Haec quidem definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius dilucideque declaravit. Omnes enim differentiae idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut homo atque equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant. Quae igitur secundum genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur. Additum enim rationale quidem homini, irrationale vero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere; distribuuntur et discrepant, additis scilicet differentiis. ASSIGNANT AUTEM ETIAM HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA; NAM SECUNDUM GENUS NON DIFFERUNT. SUMUS ENIM MORTALIA ANIMALIA ET NOS ET IRRATIONABILIA SED ADDITUM RATIONABILE SEPARAVIT NOS AB ILLIS, ET RATIONABILES SUMUS ET NOS ET DII SED MORTALE APPOSITUM DISIUNXIT NOS AB ILLIS. Vitiosa ratione et non sana quod uult explicat definitio quorundam. Id enim esse dicunt differentiam qua unaquaeque res ab alia distet. In qua definitione nihil interest quod ita dixit an ita concluserit: differentia est id quod est differentia. Etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est ƿ definitione dicens: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA. Quodsi adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere? Ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine id eiusdem usus est definitione. Est autem communis et uaga nec includens substantiales differentias sed quaslibet etiam accidentes hoc modo: DIFFERENTIA EST QUA A SE DIFFERUNT SINGULA; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in animalis genere, quoninm utraque sunt animalia, differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt mortalitate. Rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur. Quodsi Socrates sedeat, Plato vero ambulet, erit differentia ambulatio vel sessio, quae substantialis non est. Namque istam quoque differentiam definitio videtur incllldere, cum dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA; quocumque enim Socrates a Platone distiterit -- nullo autem alio distare nisi accidentibus potest -- id erit differentia secundum superioris terminum definitionis. Quam rem scilicet viderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes certae conclusionis terminum subiecerunt. INTERIUS AUTEM PERSCRUTANTES DE DIFFERENTIA DICUNT, NON QUODLIBET EORUM QUAE SUB EODEM SUNT GENERE DIVIDENTIUM ESSE DIFFERENTIAM SED QUOD AD ESSE CONDUCIT ET QUOD EIUS QUOD EST ESSE REI PARS EST; NEQUE ENIM QUOD APTUM NATUM EST NAVIGARE ERIT HOMINIS DIFFERENTIA, ETSI PROPRIUM SIT HOMINIS. DICIMUS ENIM 'ANIMALIUM HAEC QUIDEM APTA NATA SUNT AD NAVIGANDUM, ILLA VERO MINIME', DINIDENTES AB ALIIS SED APTUM NATUM ESSE AD NAVIGANDUM NON ERAT COMPLETIVUM SUBSTANTIAE NEC EIUS PARS SED APTITUDO QUAEDAM EIUS EST, IDCIRCO, QUONIAM NON EST TALIS QUALES SUNT QUAE SPECIFICAE DICUNTUR DIFFERENTIAE. ERUNT IGITUR SPECIFICAE DIFFERENTIAE QUAECUMQUE ALTERAM FACIUNT SPECIEM ET QUAECUMQUE IN EO QUOD QUALE EST ACCIPIUNTUR. -- ET DE DIFFERENTIIS QUIDEM ISTA SUFFICIUNT. Sensus propositionis huiusmodi est. Quoniam superius disit determinasse quosdam differentiam esse qua a se singllla discreparent, ait alios diligentius de differential perscrutantes non ƿ fuisse arbitratos recte esse superius propositam definitionem. Neque enim omnia quaecumque sub eodem posita genere differre faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id est specificae, numerari queunt. Plura enim sunt quae ita dividunt species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime conforment, quia non videntur esse differentiae specificae nisi illae tantum quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte ponuntur. Hae autem sunt nt rationale hominis. Nam et substantiam hominis conformat et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. Ergo nisi ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica differentia nullo modo poterit nuncupari quid est autem esse rei? Nihil est aliud nisi definitio. Unicuique enim rei interrogatae 'quid est?' si quis quod est esse monstrare voluerit, definitionem dicit. Ergo si qua definitionis pars fuerit, eius erit pars quae uniuscuiusque rei quid esse sit designet. Definitio est quidem quae quid unaquaeque res ƿ sit, ostendit ac profert, demonstraturque quid uni cuique rei sit esse per definitionis assignationem. Illae vero differentiae quae non ad substantiam conducunt sed quoddam quasi extrinsecus accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas species faciant discrepare, ut si quis hominis atque equi hanc differentiam dicat, aptum esse ad navigandum. Homo enim aptus est ad navigandum, equus vero minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita differentia 'aptum esse ad navigandum' equum distinxit ab homine. Sed aptum esse ad navigandum non est huiusmodi, quale quod possit hominis formare substantiam sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum aliquid vel non faciendum oportunitatem. Idcirco ergo specifica differentia esse non dicitur. Quo fit ut non omnis differentia quae sub eodem genere positas species distribuit, specifica esse possit sed ea tantum quae ad substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur. Concludit igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per differentias substantiales. Nam si uni cuique id est esse quodoumque substantialiter fuerit, quaecumque differentiae substantialiter diversae sunt, illas species quibus assunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes, atque hae in definitionis parte sumuntur. Nam si definitio substantiam monstrat ƿ et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales differentiae erunt partes definitionum. PROPRIUM VERO QUADRIFARIAM DIVIDUNT. NAM ET ID QUOD SOLI ALICUI SPECIEI ACCIDIT, ETSI NON OMNI, UT HOMINI MEDICUM ESSE VEL GEOMETREM, ET QUOD OMNI ACCIDIT, ETSI NON SOLI, QUEMADMODUM HOMINI ESSE BIPEDEM ET QUOD SOLI ET OMNI ET ALIQUANDO, UT HOMINI IN SENECTUTE CANESCERE, QUARTUM VERO, IN QUO CONCURRIT ET SOLI ET OMNI ET SEMPER, QUEMADMODUM HOMINI ESSE RISIBILE. NAM ETSI NON SEMPER RIDEAT, TAMEN RISIBILE DICITUR, NON QUOD IAM RIDEAT SED QUOD APTUS NATUS SIT; HOC AUTEM EI SEMPER EST NATURALE ET EQUO HINNIBILE. HAEC AUTEM PROPRIE PROPRIA PERHIBENT ESSE, QUONIAM ETIAM CONVERTUNTUR. QUICQUID ENIM EQUUS, HINNIBILE, ET QUICQUID HINNIBILE, EQUUS. Superius dictum est omnia propria ex accidentium genere descendere. Quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substftntiam informat aut secundum accidens inest. Nihil vero est quod cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et differentia speciei, species vero individuorum. Quicquid ergo reliquum est, in accidentium numero ponitur. Sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore atque antiquiore nomine accidentia nunlcupantur. Et de accidentibus paulo post, nunc de propriis. Quae quadrifariam dividuntur, non tamquam genus aliquod proprium in quattuor species dividi secarique possit sed hoc quod ait dividunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret 'nuncupant', id est propria quadrifariam dicunt. Cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat, ut quae sit conveniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat. Dicit ergo proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur proprium medicum esse, idcirco quoniam nulli alii inesse animalium ƿ potest. Nec illud attendimus, an hoc de omni homine praedicari possit sed illud tantum, quod de nullo alio nigi de homine dici potest medicum esse. Et haec quidem significatio proprii dicitur inesse SOLI, ETSI NON OMNI; soli enim speciei, etsi non omni coaequatur, ut medicina soli quidem inest homini sed non omnibus hominibus ad scientiam adest. Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat. Et quoniam quidem nihil est subiectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni, quoniam vero transcendit in alias, dicimus non soli: hoc huiusmodi est quale homini esse bipedem, proprium est enim bomini esse bipedem. Omnis enim homo bipes est etiamsi non solus, aves enim bipedes sunt. Geminae igitur significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima quidem quia non omni, secunda vero quia non soli. Quas si iungimus, facimus omni et soli. Sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando, ut sit haec tertia proprii nuncupatio 'omni et soli sed aliquando', ut est in senectute canescere vel in ivuentute pubescere; omni enim homini adest in ivuentute pubescere, in senectute canescere, et soli. Pubescere enim solius hominis est sed aliquando, ƿ neque enim omni tempore sed in sola tantum ivuentute. Haec igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli inest, absoluta est sed ex eo minuit aliquid vel contrahit, cum dicimus ALIQUANDO. Quod si auferamus, fit proprii integra simplexque significatio hoc modo: proprium est quod omni et soli et semper adest. Omni autem et soli speciei et semper intellegendum est ut hornini risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo risibilis est et semper. Neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis sed esse risibile, quod non in actu sed in potestate consistit. Ergo etiamsi non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur, convenienter proprium nuncupatur. Nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione disiungitur. Quattuor igitur significationes proprii dixit. Nam prima quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda vero, ƿ cum soli quidem non adest, omni vero semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia vero, cum omni et soli sed aliquando, ut omni homini in ivuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et semper adest, ut esse risibile. Atque ideo caetera quidem converti non possunt: neque enim coaequatur quod soli sed non omni speciei adest. Species quidem de ipso dici potest, ipsum vero de specie minime. Qui enim medicus est, potest dici homo, homo vero qui est, medicus esse non dicitur. Rursus quod ita est alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli, ipsum quidem de specie praedicari potest, species vero de eo minime. Nam bipes praedicari de homine potest, homo vero de bipede nullo modo. Rursus quod ita adest, ut omni et soli sed aliquando assit, quoniam de tempore, habet aliquid deminutum nec simpliciter semper adest, reciprocari non poterit. Possumus enim dicere 'omnis qui pubescit homo est', non 'omnis homo pubescit': potest enim minime ad inllentutem nenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere hominis proprium sed in ivuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in ivuentute aut etiam praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale tunc fieri possit, cum praeter ivuentutem est sed quale cum in ivuentnte consistit. Atque ideo hoc ƿ quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut omni speciei assit, quod tamen in tempus aliquod differatur, integrum atque absolutum proprium esse von dicitur. Quartum est quod ita alicui adest, ut et solam teneat speciem et omni assit et absolutum sit a temporis conditione, ut risibile quod a superiore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere potest. Rursus qui potest in ivuentute pubescere, cum ipsa ivuentus non sit semper, non ei adest semper ut in ivuentute pubescat. Haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est atque ideo etiam convertitur et de se invicem proprium atque species praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo. ACCIDENS VERO EST QUOD ADEST ET ABEST PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM. DIVIDITUR AUTEM IN DUO, IN SEPARABILE ET IN INSEPARABILE. NAMQUE DORMIRE EST SEPARABILE ACCIDENS, NIGRUM VERO ESSE INSEPARABILITER CORUO ET AETHIOPI ACCIDIT, POTEST AUTEM SUBINTELLEGI ET CORUUS ALBUS ET AETHIOPS AMITTENS COLOREM PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM. DEFINITUR AUTEM SIC QUOQUE: ACCIDENS EST ƿ QUOD CONTINGIT EIDEM ESSE ET NON ESSE, VEL QUOD NEQUE GENUS NEQUE DIFFERENTIA NEQUE SPECIES NEQUE PROPRIUM, SEMPER AUTEM EST IN SUBIECTO SUBSISTENS. OMNIBUS IGITUR DETERMINATIS QUAE PROPOSITA SUNT, DICO AUTEM GENERE, SPECIE, DIFFERENTIA, PROPRIO, ACCIDENTI, DICENDUM EST QUAE EIS COMMUNIA ADSINT ET QUAE PROPRIA. Quoniam, ut superius dictum est, quae de aliquo praedicantur, vel substantialiter vel accidentaliter dicuntur cumque ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam substantiamque formabant. Quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint praeter subiecti corruptionem. Ea enim tantum cum absunt subiectum corrumpere poterunt, quae efficiunt atque conformant quae sunt substantialia, quae vero ƿ non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt vel absunt, nec informant substantiam nec corrumpunt. Est igitur accidens quod adest et abest praeter subiecti corruptionem. Id autem dividitur in duas partes. Accidentis enim aliud est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire sedere. Inseparabile vero ut Aethiopi atque coruo color niger. In qua re talis oritur dubitatio. Ita enim est definitum: accidens est quod adesse et abesse possit praeter subiecti corruptionem. Idem tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit. Frustra igitur positum est accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a subiecto non valeant separari. Sed fit saepe ut quae actu disiungi non valeant, mente et cogitatione separentur. Sed si animi ratione disiunctae qualitates a subiectis non ea perimunt sed in sua substantia permanent atque perdurant, accidentes esse intelleguntur. Age igitur, quoniam Aethiopi color niger auferri non potest. Animo emn atque cogitatione separemus. Erit igitur color albus Aethiopi. uum idcirco species consumpta sit? minime. Item etiam coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen avis nec interit species. Ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re sed animo intellegendum est. Alioquin et substantialia, quae omnino separari non possunt, si animo et cogitatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus -- ƿ quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione disiungimus -- statim perit hominis species quod idem in accidentibus non fit: sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis definitio caeterorum omnium privatione, ut id dicatur esse accidens quod neque genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga est valdeque communis sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species ac differentia et proprium. Cum autem eadem similitudine definitionis plura definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie, differentia, proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum postulabat institutionis brevitas, ea ipsa communiter pertractanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius disputatum est, quas vero communiones, mediocri consideratione demonstret, ut non solum ƿ quid ipsa sint, verum etiam quemadmodum inter se comparentur, appareat. Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in uniuscuiusque consideratione poterat, ad scientiae terminum breviter adductis nunc iam non de singulorum natura, id est vel generis vel differentiae vel speciei vel proprii vel accidentis sed de ad se invicem relatione pertractat. Nam qui communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat sed ut ad alias comparentur. Id autem duplici modo, vel similitudine, dum communitates sectatur, vel dissimilitudine, dum differentias. Quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his communionibus quae assunt generi et speciei et differentiae vel proprio et accidenti. COMMUNE QUIDEM OMNIBUS EST DE PLURIBUS PRAEDICARI, ƿ SED GENUS QUIDEM DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS, ET DIFFERENTIA SIMILITER, SPECIES AUTEM DE HIS QUAE SUB IPSA SUNT INDIVIDUIS, AT VERO PROPRIUM ET DE SPECIE CUIUS EST PROPRIUM ET DE HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS, ACCIDENS AUTEM ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS. NAMQUE ANIMAL DE EQUIS ET BOBUS [ET CANIBUS] PRAEDICATUR, QUAE SUNT SPECIES, ET DE HOC EQUO ET DE HOC BOVE, QUAE SUNT INDIVIDUA, IRRATIONALE VERO ET DE EQUIS ET DE BOBUS PRAEDICATUR ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, SPECIES AUTEM, UT HOMO, SOLUM DE HIS QUI SUNT PARTICULARES PRAEDICATUR, PROPRIUM AUTEM, QUOD EST RISIBILE, ET DE HOMINE ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, NIGRUM AUTEM ET DE SPECIE CORUORUM ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, QUOD EST ACCIDENS INSEPARABILE, ET MOVERI DE HOMINE ET DE EQUO, QUOD EST ACCIDENS SEPARABILE SED PRINCIPALITER QUIDEM DE INDIVIDUIS, SECUNDUM POSTERIOREM VERO RATIONEM DE HIS QUAE CONTINENT INDIVIDUA. Antequam singulorum ad unumquodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes ad se invicem habere videantur. Haec est autem una communio quae propositarum quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit omnia enim de pluribus praedicantur. In hoc ergo sibi cuncta communicant. Nam et genus de pluribus praedicatur, itemque species ac differentia et proprium et accidens. Quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus plaedicari. Disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in singulis fiat, quod unumquodque propositorum de quibus pluribus praedicetur ostendit. Ait enim genus quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac specierum individuis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his individuis quae sub homine sunt atque sub equo. Item genus praedicatur de differentiis specierum atque id iure. Quoniam enim species differentiae informant, cum genus de speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt. Quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non de una sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et rursus quod irrationabile est, esse animal. Ita genus de speciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt individuis. Differentia vero de speciebus dicitur pluribus ac de earum individuis, ut irrationabile et de equo praedicatur ac bove, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis sunt individuis eodem modo dicitur; nam quod de universali praedicatur, praedicatur et de individuo. Quodsi differentia de speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei subiectis. Species vero de suis tantum individuis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae species est ultima quaeque vere species ac magis species nuncupatur, haec alias deducatur in species. Quod si ita est, sola post speciem individua restant. Iure igitur species de suis tantum individuis praedicantur, ut homo de Socrate, Platone, Cicerone et caeteris. Proprium item de specie praedicatur cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim unaquaeque res 'et soli et omni et semper' dicitur, eiusdem proprium esse monstratur. Quae cum ita sint proprium de specie dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. Dicitur etiam de individuis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis. Accidens vero et de speciebus pluribus dicitur et de diversarum specierum individuis. Dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic coruus et hic Aethiops, qui sunt individui, nigri secundum nigredinis qualitatem vocantur. Atque hoc quidem est accidens inseparabile. Sed multo magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moveri homini et bovi -- uterque enim movetur -- et rursus ea quae sub homine sunt atque bove individua, moveri saepe praedicantur. Sed advertendum est auctore Porphyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in quibus sunt individuis, secundo vero loco ad universalia individuorum referuntur. Atque ita praedicatio ƿ superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest accidentis nigredinis inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam speciem, nigrum esse. In quibus omnibus mirum videri potest, cur genus de proprio praedicari non dixerit nec vero speciem de eodem proprio nec differentiam de proprio sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis, differentiam vero de speciebus atque individuis, speciem de individuis, proprium de specie atque individuis, accidens de speciebus atque individuis. Fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus praedicentur, et quae aequalia sunt, sibimet convertuntur, eoque fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de accidentibus praedicetur, ut cum dicimus 'quod rationale est, animal est', genus de differentia, 'quod homo est, animal est', genus de specie, 'quod risibile est, animal est,' genus de proprio, 'quod nigrum est', si forte coruum vel Aethiopem demonstremus, 'animal est,' genus de accidenti praedicamus. Rursus 'quod homo est, rationale est', differentia de specie, 'quod risibile est, rationale est,' differentia de proprio, 'quod nigrum est, rationale est', si Aethiopem demonstremus, differentia de accidenti; item 'quod risibile est, homo est', species de proprio, 'quod nigrum est, homo est,' si Aethiopem designemus, species de accidenti. Qua in re etiam 'quod nigrum est, risibile est' in Aethiopis demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. Converti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in individuis singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor reliquis praedicetur. Sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredientium intellegeutia expectet, quod alia quidem recto ordine praedicantur, alia vero obliquo, quoniam moveri hominem rectum est, id quod movetur hominem esse conversa locutione proponitur. Quocirca rectam Porphyrius in omnibus propositionem sumpsit. Quodsi quis vim praedicationis et solutionis attenderit in singulis praedicationibus comparans, eas quidem ƿ prolationes quae rectae sunt, inveniet a Porphyrio esse enumeratas, eas vero quae converso ordine praedicantur, fuisse sepositas. COMMUNE EST AUTEM GENERI ET DIFFERENTIAE CONTINENTIA SPECIERUM. CONTINET ENIM ET DIFFERENTIA SPECIES, ETSI NON OMNES QUOT GENERA. RATIONALE ENIM ETIAMSI NON CONTINET EA QUAE SUNT IRRATIONABILIA QUEMADMODUM ANIMAL SED CONTINET HOMINEM ET DEUM, QUAE SUNT SPECIES. ET QUAECUMQUE PRAEDICANTUR DE GENERE UT GENERA, ET DE HIS QUAE SUB IPSO SUNT SPECIEBUS PRAEDICANTUR, ET QUAECUMQUE DE DIFFERENTIA PRAEDICANTUR UT DIFFERENTIAE, ET DE EA QUAE EX IPSA EST SPECIE PRAEDICABUNTUR. NAM CUM SIT GENUS ANIMAL, NON SOLUM DE EO PRAEDICANTUR UT GENERA SUBSTANTIA ET ANIMATUM SED ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB ANIMALI SPECIEBUS OMNIBUS PRAEDICANTUR HAEC USQUE AD INDIVIDUA. CUMQUE SIT DIFFERENTIA RATIONALIS, PRAEDICATUR DE EA UT DIFFERENTIA ID QUOD EST RATIONE UTI. NON SOLUM AUTEM DE EO QUOD EST RATIONALE SED ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB RATIONALI SPECIEBUS PRAEDICABITUR RATIONE UTI. COMMUNE AUTEM EST ET PEREMPTO GENERE VEL DIFFERENTIA SIMUL PERIMI QUAE SUB IPSIS SUNT; QUEMADMODUM ELLIM SI NON SIT ANIMAL, NON EST EQUUS NEQUE HOMO, ITA SI NON SIT RATIONALE. NULLUM ERIT ANIMAL QUOD UTATUR RATIONE. Post eam quae cunctis adesse visa est communitatem, singulorum ad se similitudines ac dissimilitudines quaerit. Et quoniam inter quinque proposita genus ac differentia universalioris praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias, differentiae vero species continent neque ab his ullo modo continentur, primum generis ac differentiarum similitudines colligit. Ac primam quidem ponit hanc. Dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species claudant; ƿ nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia tametsi non tantas quot habet genus. Etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non unam tantum sub se differentialn cohercet ac retinet, plures necesse est habeat sub se species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit. ut animal praedicatur de rationabili et irrationabili. Quodsi ita est, praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his quae sub irrationali. Est ergo commune animali et rationali, id est generi et differentiae, quod sicut genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam rationale. Quod est differentia, de deo ac de homine dicitur. Sed non in tantum haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis. Animal enim non de deo solum atque homine sed de equo et bove praedicatur, ad quae rationalis differentia non pervenit. Sed quandocumque deum supponimus animali, secundum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum millium animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellaverunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque praedicantur de genere ut genera, eadem de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem ƿ quaecumque de differentia praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur. Cuius sententiae talis est expositio. Sunt plura quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut genera. Haec igitur praedicantur et de his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat animalis. Item in ipsis differentiis quaedam differentiae inveniuntur quae de ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur. Quod enim rationale est, utitur ratione vel habet rationem. Aliud est autem uti ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu. Habet quippe sensum et dormiens sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem sed minime utitur. Ergo ipsius rationabilitatis quaedam differentia est ratione uti sed sub ratioaabilitate homo positus est: praedicatur igitur de homine ratione uti ut quaedam differentia. Differt enim a caeteris animalibus homo, quia ratione utitur. Demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia praedicantur, dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium commune est quod ƿ sicut absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de quibus differentiae praedicantur, intereunt. Commune enim est hoc, universalium in substantia pereuntium perire subiecta. Sed prima communio demonstravit genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias. Propter hanc igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species perire necesse est quae sub differentiis sunt, si universales earum differentiae consumantur. Cuius exemplum est: si enim auferas animal, hominem atque equum sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si auferas rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali differentia collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae dissimilitudine perpendit. PROPRIUM AUTEM GENERIS EST DE PLURIBUS PRAEDICARI QUAM DIFFERENTIA ET SPECIES ET PROPRIUM ET ACCIDENS; ANIMAL ENIM DE HOMINE ET EQUO ET AVE ET SERPENTE, QUADRUPES VERO DE SOLIS QUATTUORPEDES HABENTIBUS, HOMO vero DE SOLIS INDIVIDUIS ET HINNIBILE DE EQUO ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, ET ACCIDENS SIMILITER DE PAUCIORIBUS. OPORTET AUTEM DIFFERENTIAS ACCIPERE QUIBUS DIVIDITUR GENUS, NON EAS QUAE COMPLENT SUBSTANTIAM GENERIS. AMPLIUS GENUS CONTINET DIFFERENTIAM POTESTATE; ANIMALIS ENIM HOC QUIDEM RATIONALE EST, ILLUD VERO IRRATIONALE. AMPLIUS GENERA QUIDEM PRIORA SUNT HIS QUAE SUNT SUB SE POSITAE DIFFERENTIIS, PROPTER QUOD SIMUL QUIDEM EAS AUFERUNT, NON AUTEM SIMUL AUFERUNTUR; SUBLATO ENIM ANIMALI AUFERTUR RATIONALE ET IRRATIONALE. DIFFERENTIAE VERO NON AUFERUNT GENUS; NAM SI OMNES INTERIMANTUR, TAMEN SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS SUBINTELLEGITUR, QUAE EST ANIMAL. AMPLIUS GENUS QUIDEM IN EO QUOD QUID EST, DIFFERENTIA vero IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICATUR. AMPLIUS GENUS QUIDEM UNUM EST SECUNDUM UNAMQUAMQUE SPECIEM, UT HOMINIS ID QUOD EST ANIMAL, DIFFERENTIAE VERO PLURIMAE, UT RATIONALE, MORTALE. MENTIS ET DISCIPLINAE PERCEPTIBILE, QUIBUS AB ALIIS DIFFERT. ET GENUS QUIDEM CONSIMILE EST MATERIAE, FORMAE VERO DIFFERENTIA. CUM AUTEM SINT ET ALIA COMMUNIA ƿ ET PROPRIA GENERIS ET DIFFERENTIAE, NUNC ISTA SUFFICIANT. Proprium quidem quid sit, convenienti atque integro vocabulo definitum est. Sed per abusionem illa etiam propria quorumlibet dicuntur quae in unaquaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia. Per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut risibilitas, per usurpatam vero locutionem etiam proprium hominis rationabilitas dicitur non per se proprium quippe quod ei cum deorum est natura commune sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis, quod rationale non est; id vero propter hanc causam, quoniam id proprium uniuscuiusque dicitur quod habet suum. Quo igitur quis ab alio differt, proprium eius non absurda usurpatione praedicatur. Sed nunc quod dicit proprium generis esse de pluribus praedicari quam caetera quattuor, id ipsum generis tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper <et> omni et soli adsit generi. Generi enim soli adest, ut differentia, specie, proprio, accidenti uberius atque affluentius praedicetur. Sed de his differentiis, speciebus, propriis, atque accidentibus id dici potest quae sub quolibet ƿ genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet dividunt genus, species vero quae divisibilibus generis differentiis informatur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est divisum, accidentiaque quae his haereant individuis quae sub ea specie sunt quam designatum genus includit. Hoc facilius exempla declarant. Sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem specierum, velox vero vel bellator accidentia quae his individuis accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur: animal igitur, quod est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes vero de bipede non dicitur sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia. Rursus homo de Platone ac Socrate praedicatur, animal vero non modo de hominibus individuis, verum etiam de caeteris irrationabilibus individuis dicitur; plus igitur genus quam species praedicatur. Sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cumque ƿ genus quam species uberius praedicetur, praedicatio quoque generis proprii supergreditur praedicationem. Accidens quoquo etsi pluribus inesse potest, tamen saepe genere contractius invenitur, ut bellator non proprie nisi homo dicitur, ut velocitas in paucis animalibus invenitur. Quo fit, ut genus differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedicetur. Atque haec est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet. Oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus dividitur genus, non quibus informatur. Illae enim quibus informatur genus plus quam ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corporeum ultra animal tenditur, cum sint differentiae animalis sed non divisivae sed potius constitutivae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur. Quae vero de inferioribus praedicantur neque converti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt amplius praedicantur. Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur. Omne enim genus continet differentias potestate, differentia vero genus non potest continere. Animal enim rationale atque irrationale continet potestate; neque enim irrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere. Potestate autem ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est, ƿ genus quidem omnes sub se habet differentias potestate, actu vero minime. Ex quo fit ut alia proprietas oriatur. Sublato enim genere perit differentia, veluti sublato animali interimitur rationabilitas, quod est differentia. At si rationale interimas, irrationale animal manet. Sed obici potest: quid? Si utrasque differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? Dicimus: potest. Unumquodque enim non ex his de quibus praedicatur sed ex his ex quibus efficitur, substantiam sumit. Itaque fit ut genus sublatis divisivis differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis formam substantiamque constituunt. Quoniam enim animal animata atque sensibilis differentiae constituunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque irrationale. unumquodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem sumit ex quibus efficitur non ab his de quibus praedicatur. Amplius si utrasque differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se positam collocatamque concludit. Quodsi actu quidem eas non continet sed potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate eas continere, id erat actu non continere. Genus vero, quod quaslibet differentias actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Rursus aliud est proprium generis, quod ex proprietate ƿ praedicationis agnoscitur. Omne enim genus ad interrogationem 'quid est unumquodque?' responderi convenit, ut animal in eo quod quid est de homine praedicatur, differentia vero minime sed in eo quod quale sit; omnis enim differentia in qualitate consistit. Sed hoc proprium tale est quale superius diximus, non per se sed secundum alicuius differentiam dictum. Alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit praedicetur. Sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia quidem in eo quod quale est, genus vero in eo quod quid est praedicatur, generis proprium dicltur non per se sed ad differentiae comparationem. Et in omnibus reliquis eandem rationem conveniet speculari; quodcumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune sed tantum hoc habeat genus ut omne genus et semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid vero cum quolibet alio commune est, id non per se sed ad alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus generis et differentiae separatio est, quod genus quidem speciei unum semper adest, scilicet proximum -- plura enim possunt esse superiora, velut hominis animal atque substantia sed proximum eiusdem hominis animal tantum -- differentiae vero plures uni speciei ƿ adesse poterunt, ut rationale atque mortale homini. Itaque fit definitio ex uno quidem genere sed pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia vero formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat, haec vero sit forma quao superveniens speciei substantiam rationemque perficiat. Idcirco vero pluribus differentiis a genere differentiam segregavit, quia haec maxime generis quandam similitudinem contineat, quia est universalis et praeter genus inter caeteras maxima. Sed cum alia plura: communia pluraque propria generis inter se ac differentiae valeant inveniri, nunc, inquit, ista sufficiant. Satis est enim ad discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur.DE COMMUNIBUS GENERIS ET SPECIEI GENUS AUTEM ET SPECIES COMMUNE QUIDEM HABENT DE PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI. SUMATUR AUTEM SPECIES UT SPECIES ET NON ETIAM UT GENUS, SI FUERIT IDEM ET SPECIES ET GENUS. ƿ COMMUNE AUTEM HIS EST ET PRIORA ESSE EORUM DE QUIBUS PRAEDICANTUR, ET TOTUM QUIDDAM ESSE UTRUMQUE. Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem, de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur sed genus de speciebus, ut dictum est, species vero de individuis. Sed nunc de illa specie loquitur quae tantum species est, id est quae non etiam genus est sed ultima species. Quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil interest an ita dicamus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus plaedicari. Talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utraque priora sunt his de quibus praedicantul. Omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent; omnium enim specierum totum est genus et omnium in dividuorum totum species. Aeque enim genus et species adunativa sunt plurimorum, quod vero multorum adunativum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte dicitur totum. Ƿ DIFFERT AUTEM EO QUOD GENUS QUIDEM CONTINET SPECIES SUB SE, SPECIES vero CONTINENTUR ET NON CONTINENT GENERA; IN PLURIBUS ENIM GENUS QUAM SPECIES EST. GENERA ENIM PRAEIACERE OPORTET ET FORMATA SPECIFICIS DIFFERENTIIS PERFICERE SPECIES; UNDE ET PRIORA SUNT NATURALITER GENERA ET SIMUL INTERIMENTIA SED QUAE NON SIMUL INTERIMANTUR. ET SPECIES QUIDEM CUM SIT, EST ET GENUS, GENUS VERO CUM SIT, NON OMNINO ERIT ET SPECIES. ET GENERA QUIDEM UNIVOCE DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES vero DE GENERIBUS MINIME. AMPLIUS GENERA QUIDEM ABUNDANT EARUM QUAE SUB IPSIS SUNT SPECIERUM CONTINENTIA, SPECIES VERO A GENERIBUS ABUNDANT PROPRIIS DIFFERENTIIS. AMPLIUS NEQUE SPECIES FIET UMQUAM GENERALISSIMUM NEQUE GENUS SPECIALISSIMUM. Expeditis communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. Differre enim dicit genus ab specio, quoniam genus continet species, ut animal hominem, species ƿ vero non continet genera; neque enim homo de animali praedicatur. Itaque fit ut species quidem contineantur a generibus numquam vero contineant genera. Omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur. Quodsi genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut species quidem contineatur a genere, genus vero speciei nullo ambitu praedicationis includatur. Huius autem ratio est quoniam genus semper suscipiens differentiam speciem facit, hoc est. Genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex universalitate atque latissima praedicatione in angustum speciei terminum contrahit. Animal enim, cuins praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis deminuit atque contrahit in unum hominis speciem. Unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo contineatur sed non contineat, sublatoque genere auferatur et species; si enim totum auferas, pars non erit. Quodsi species auferatur, genus manet, veluti cum animal sustuleris, interimitur etiam homo, si hominem auferas, animal restat. Haec etiam causa est, ut genus de specie univoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen sed ƿ non e converso. Definitionem quippe speciei genus suscipere non videtur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt. Si enim definias animal et dicas sub stanti am esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine 'animal', verum dixeris. Si etiam animalis definitionem de homine praedicaveris dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensibilem, nihil fuerit in propositione falsi. Sed si hominis definitionem reddas 'animal rationale mortale', ea animali non conveniunt; neque enim quod animal est, id dici poterit animal rationale mortale. Fit igitur, ut sicut species generis nomen suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur sed cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id univoce dicitur. Cum igitur generis et nomen et definitio de specie praedicetur; genus de specie univoce dicitur. Quoniam vero speciei de genere neque nomen neque definitio praedicatur, non comlertitur univoca praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species vero genera differentiarum pluralitate. Animal enim, quod est genus, superuadit hominem, quod est species, quia non hominem solum continet, verum etiam bovem, equum aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit. Species vero, ut homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum. Nam quod actu genus ƿ non habet rationale vel mortale -- nullas quippe actu genus retinet differentias -- easdem species suae substantiae inhaerentes atque insitas tenet. Homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale est per se neque rationale. Quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at vero species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem continentia specierum species vero vincit genus differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species vero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprerna omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae vero quae non solum genus ab specie, verum etiam a caeteris diducunt ac disterminant. Neque in his tantum differentiae quae sunt dictae, verum etiam in caeteris considerentur oportet, si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere. GENERIS AUTEM ET PROPRII COMMUNE QUIDEM EST SEQUI SPECIES -- NAM SI HOMO EST, ANIMAL EST, ET SI HOMO EST, RISIBILE EST -- ET AEQUALITER PRAEDICARI GENUS DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE HIS QUAE ILLO PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM ET HOMO ET BOS ANIMAL ET CATO ET CICERO RISIBILE. COMMUNE AUTEM ET UNIVOCE PRAEDICARI GENUS DE PROPRIIS SPECIEBUS ET PROPRIUM QUORUM EST PROPRIUM. Tria intelim generis ac proprii dicit esse communia. Quorum primum illud est, quoniam ita genus sequitur species ut proprium. Posita enim specie necesse est intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias derelinquit. Nam si homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita quemadmodum genus, sic proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis participatio, sicut etiam proprii. Omne enim genus aequaliter speciebus participatur, proprium vero individuis omnibus aequaliter adhaerescit. Manifestum vero est participationem esse generis aequalem; neque enim plus homo animal est quam equus ƿ atque bos sed in eo quod sunt animalia, aequaliter animalis, id est generis ad se vocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad ridendum sunt, dici risibiles possunt, non quod iam rideant. Aequaliter ergo ea quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria. Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis univoce praedicatur, itn etiam proprium de sua specie univoce dicitur. Genus enim quoniam substantiam speciei continet, non modo eius nomen de specie, verum etiam definitio praedicatur. Proprium vero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, definitionem quoque propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum convenit speciei cui coaequatur, dubitari non potest quin eius quoque definitio speciei conveniat. Quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie univoce praedicetur. DIFFERT AUTEM, QUONIAM GENUS QUIDEM PRIUS EST, POSTERIUS VERO PROPRIUM; OPORTET ENIM ESSE ANIMAL, DEHINC DIVIDI DIFFERENTIIS ET PROPRIIS. ET GENUS QUIDEM ƿ DE PLURIBUS SPECIEBUS PRAEDICATUR, PROPRIUM VERO DE UNA SOLA SPECIE CUIUS EST PROPRIUM. ET PROPRIUM QUIDEM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS EST PROPRIUM, GENUS VERO DE NULLO CONVERSIM PRAEDICATUR. NAM NEQUE SI ANIMAL EST, HOMO EST, NEQUE SI ANIMAL EST, RISIBILE EST; SIN VERO HOMO EST, RISIBILE EST, ET E CONVERSO. AMPLIUS PROPRIUM OMNI SPECIEI INEST CUIUS EST PROPRIUM, ET SOLI ET SEMPER, GENUS VERO OMNI QUIDEM SPECIEI CUIUS FUERIT GENUS, ET SEMPER, NON AUTEM SOLI. AMPLIUS SPECIES QUIDEM INTEREMPTAE NON SIMUL INTERLIMUNT GENERA, PROPRIA VERO INTEREMPTA SIMUL INTERIMUNT EA QUORUM SUNT PROPRIA. ET HIS QUORUM SUNT PROPRIA INTEREMPTIS ET IPSA SIMUL INTERIMUNTUR. Rursus tale proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur. Dicit enim proprium esse generis prius esse quam propria. Oportet enim prius esse genus, quod veluti materia differentiis supponatur, venientibusque differentiis fieri speciem, cum quibus propria nascuntur. Si igitur prius est ƿ genus quam differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria coaequantur, non est dubium quin propria generibus posteriora sint, ac per hoc quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc generi cum differentia. Differentiae enim species conformantes priores considerantur esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione determinant. Sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est. Rursus differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur speciebus, proprium vero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune. Fit igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal hominem atque equum, proprium vero unam tantum, sieut risibile hominem. Quo fit ut illa quoque differentia nascatur: genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum vero in nulla praedicatione supponitur, proprium vero et species alterna praedicatione mutantur. Fit enim praedicatio aut a maioribus ad minora aut ab aequalibus ad aqqualia. Genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus praedicahlr, species vero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo vero de animali nullo modo praedicatur. At vero proprium, quoniam speciei aequale est, aeque ƿ praedicatur atque supponitur, ut risibile de homine dicitur -- omnis enim homo risibilis est -- eodemque convertitur modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni et omni et semper speciei adest, genus vero ex his duo quidem retinet, in uno vero diversum est. Nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non vero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species continent, hoc generibus, quod plures. Igitur propria quidem singulas optinent species, genera vero non singulas. Adest igitur proprium uni soli speciei et semper et omni, genus vero omni quidem et semper sed non soli, ut risibile homini soli, animal vero eidem homini sed non soli; praeest enim caeteriss quae irrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatul genus, species interimuntur -- nam si non sit animal, non erit homo -- si auferas species, non interimitur genus; nam si non sit homo, animal non peribit. Species vero et propria quoniam sunt aequalia, alterna sese vice consumunt; nam si non sit risibile, homo non erit, si homo non sit, risibile non manebit. Consumunt igitur genera sub se positas species, non vero ab his invicem consumuntur, species vero et proprium invicem perimuutur et perimunt. GENERIS VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE EST DE PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI, SIVE SEPARABILIUM SIT SIVE INSEPARABILIUM; ETENIM MOVERI DE PLURIBUS ET NIGRUM DE CORUIS ET DE HOMINIBUS AETHIOPIBUS ET ALIQUIBUS INANIMATIS. Nihil est quod inter caetera ita sit a generis ratione disiunctum. Sicut est accidens. Nam cum genus cuiuslibet substantiam monstret, accidens vero a substantia longe disiunctum sit et extrinsecus veniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de pluribus praedicari. Genus enim de plaribus praedicatur speciebus, accidens vero de pluribus non modo speciebus, verum etiam generibus animatis atque inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de irrationabili coruo et de inanimato hebeno, album etiam de cygno et marmore, moveri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla. DIFFERT AUTEM GENUS AB ACCIDENTI, QUONIAM GENUS ANTE SPECIES EST, ACCIDENTIA VERO SPECIEBUS POSTERIORA SUNT; NAM SI ETIAM INSEPARABILE SUMATUR ACCIDENS SED TAMEN PRIUS EST ILLUD CUI ACCIDIT QUAM ACCIDENS. ET GENERE QUIDEM QUAE PARTICIPANT, AEQUALITER PARTICIPANT, ACCIDENTI VERO NON AEQUALITER; INTENTIONEM ENIM ET REMISSIONEM SUSCIPIT ACCIDENTIUM PARTICIPATIO, GENERUM VERO MINIME. ET ACCIDENTIA QUIDEM IN INDIVIDUIS PRINCIPALITER SUBSISTUNT, GENERA NERO ET SPECIES NATURALITER PRIORA SUNT INDIVIDUIS SUBSTANTIIS. ET GENERA QUIDEM IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR DE HIS QUAE SUB IPSIS SUNT, ACCIDENTIA VERO IN EO QUOD QUALE ALIQUID SIT VEL QUOMODO SE HABEAT UNUMQUODQUE; QUALIS EST ENIM AETHIOPS INTERROGATUS DICES 'NIGER', ET QUEMADMODUM SE SOCRATES HABEAT, DICES QUONIAM SEDET VEL AMBULAT. Differentiam generis et accidentis hanc primam proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe quod mateliae loco est et differentiis informatum species gignit, at vero accidens post species invenitur. Oportet enim prius esse cui aliquid accidat, post vero ipsum accidens supervenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse non poterit. Quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse species, nisi eis genus veluti materia supponatur, accidentia vero esse non possunt, nisi eis species supponantur, manifestum est genus quidem esse ante species, accidentia vero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus neque intentionem neque remissionem suscipere potest. Quo fit ut quae participant genere, aequaliter eius nomen definitionemque suscipiant; omnes enim homines aequaliter animalia sunt eodernque modo equi, necnon inter se homo atque equus et caetera animalia comparata aeque animalia praedicantur. Accidentis vero participatio et intenditur et remittitur. Invenies enim quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non aeque nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens in individuis principaliter subsistit, genera vero et species individuis priora sunt; nisi enim singuli corui ƿ nigredine infecti essent, corui species nigra esse minime diceretur. Ita fit ut accidentia post individua esse videantur. Nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, non est dubium prius esse individua, posterius vero accidens. Genera vero et species supra individua considerantur; hoc idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur eorumque substantiam propria praedicatione constituunt. Sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora individuis inveniri; nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse non possunt, et nisi singulae species sint, eorum genus animal esse non poterit. Sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere substantiam de quibus praedicatur sed de eo potius, quod differentiis constitutivis eorum substantia formaque perficitur. Itaque si genus quidem divisivis differentiis interemptis non perimitur sed manet in his quae eius constitutivae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque differentiae divisivae generis speciebus sint priores -- ipsas enim species conformant atque constituunt -- non est dubium quin genus etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia. Idem de speciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus individuis informantur. Quae cum ita sint, species quoque ante individua subsistunt. Accidentia vero nisi sint ƿ quibus accidant, esse non possunt, nullis vero prius accidunt quam individuis; haec enim generationi et corruptioni supposita variis semper accidentibus permutantur. Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens vero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. Nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus, 'niger', si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut 'sedet' aut 'uolat' aut 'crocitat'. Nam cum accidens in novem praedicamenta dividatur, qualitatem, quantitatem, ad aiiquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, caetera quidem omnia in {quomo do se habeat' in terrogatione pomlntur, qualitas vero in qualitatis sciscitatione responderi solet. Nam si interrogemur qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est 'niger', si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut 'sedet' aut 'ambulat' aut superiorum aliquid accidentium.GENUS VERO QUO AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT, DICTUM EST. CONTINGIT AUTEM ETIAM UNUMQUODQUE ALIORUM DIFFERRE AB ALIIS QUATTUOR, UT CUM QUINQUE QUIDEM SINT, UNUMQUODQUE AUTEM AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT. QUATER QUINQUE, viGINTI FIANT OMNES DIFFERENTIAE SED SEMPER POSTERIORIBUS ENUMERATIS ET SECUNDIS QUIDEM UNA DIFFERENTIA SUPERATIS, PROPTEREA QUIA IAM SUMPTA EST, TERTIIS VERO DUABUS, QUARTIS VERO TRIBUS, QUINTIS VERO QUATTUOR, DECEM OMNES FIUNT, QUATTUOR, TRES, DUAE, UNA. GENUS ENIM DIFFERT A DIFFERENTIA ET SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI; QUATTUOR IGITUR SUNT OMNES DIFFERENTIAE. DIFFERENTIA VERO QUO DIFFERAT A GENERE DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB EA DICEBATUR; RELINQUITUR IGITUR QUO DIFFERAT AB SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE, ET FIUNT TRES. RURSUS SPECIES QUO ƿ QUIDEM DIFFERAT A DIFFERENTIA DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET DIFFERENTIA AB SPECIE, DICEBATUR; QUO AUTEM DIFFERAT SPECIES A GENERE, DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB SPECIE DICEBATUR; RELIQUUM EST IGITUR, UT QUO DIFFERAT A PROPRIO ET ACCIDENTI DICATUR DUAE IGITUR ETIAM ISTAE SUNT DIFFERENTIAE. PROPRIUM AUTEM QUO DIFFERAT AB ACCIDENTI RELINQUITUR; NAM QUO AB SPECIE ET DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERAT, PRAEDICTUM EST IN ILLORUM AD IPSUM DIFFERENTIA. QUATTUOR IGITUR SUMPTIS GENERIS AD ALIA DIFFERENTIIS, TRIBUS VERO DIFFERENTIAE, DUABUS AUTEM SPECIEI, UNA AUTEM PROPRII AD ACCIDENS, DECEM ELUNT OMNES, QUARUM QUATTUOR, QUAE ERANT GENERIS AD RELIQUA, SUPERIUS DEMONSTRAVIMUS.Quoniam differentias atque communitates generis ad differentiam, ad speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad caeteras facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se comparatis commixtisque ƿ rebus his quae supra propositae sunt efficiantur. Sunt autem viginti. Nam cum quinque sint res, unaquaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, viginti differentiae fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. Sint quinque res veluti quinque litterae A B C D E. Differat igitur A quidem ab aliis quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. Rursus B differat ab aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo coniungunt. C vero tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor differentiae superioribus octo copulatae duodecim reddunt. Quarta D reliquis quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus quattuor; quae superioribus duodecim appositae sedecim copulant. Quodsi ultima B ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor differentiae; quae compositae prioribus viginti perficiunt. Et sit quidem huiusmodi descriptio: A --> B C D E B --> A C D E C --> A B D E D --> A B C E E --> A B C D. Quae cum ita sint, in generibus quoque et speciebus et caeteris idem considerabitur. Erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique disiungitur; aliae rursus quattuor, quibus differentia a genere, specie, proprio atque accidenti discrepat; rursus quattuor speciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens; quattuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque accidens; quattuor in super accidentis ad genus, differentiam, speciem atque proprium. Quae coniunctae omnes viginti explicant differentias. Sed hoc, si ad numeri refelatur naturam comparationisque alternationem; nam si ad ipsas differentiarum naturas vigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inveniet sumptas. Quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a genere, et quo differentia distat ab specie, eodem species a differentia disgregatur, et in caeteris eodem modo. In hac igitur dispositione differentianlm, quam supla disposui, easdem saepius adnumeravi. Atque si differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas ad praesentem tractatum velut diversas atque dissimiles oportet assumere. Age enim differat genus a differentia, specie, proprio ƿ atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra iam diximus. Item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accidenti. Sed quo discrepet a genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo genus a differentia discreparet. Detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. Post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae secundum numeri diversitatem, cum ad genus, a differentiam, proprium atque accidens comparatur sed priores duae comparationes iam dictae sunt. Nam quo species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie dicebamus, quid vero species a differentia distet commemoratum est, cum differentiae ab specie dissimilitudines redderemus. Quibus detractis duae supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens discrepantiae; quae iunctae cum septem novem differentias copulant. Proprii vero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres superiores differentiae iam dictae sunt. Nam quid proprium distet a genere, tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae propriique superius ƿ demonstratum est, quid vero proprium distet ab specie, tunc expositum est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. Restat igitur una differentia proprii ad accidens, quae superioribus iuncta decem differentias claudit. Accidentis vero ad caetera possent quidem esse quattuor, nisi iam omnes probarentur esse consumptae. Nam quid differat vel genus vel differentia vel species vel proprium ab accidenti, supra monstratum est, nec sunt diversae differentiae accidentis ad caetera quam caeterorum ad accidens. Itaque fit, ut cum sit quinque rerum numerus, si prima assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres, vincanturque secundae rei ad caeteras differentiae a prima ad caeteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. Tertia vero si sumatur, duas habebit differentias, quae vincantur a primis quattuor differentiis duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam, quae vincitur a primis quattuor differentiis tribus, quinta vero quoniam nullam omnino habebit differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. Atque hoc numerorum gradu quidem usque ad denarium numerum tenditur: quattuor, tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, differentiae vero tres, speciei duae, proprii una, accidentis nulla sit. Et primae quidem generis comparationes quattuor nouas tenent differentias, secundae vero differentiae comparationes tres nouas tenent; una enim superius adnumerata est, vincitur autem a primis quattuor novis differentiis una tantum. Speciei vero tertia comparatio dnas tantum habet differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et vincitur a quattuor primis duabus tantum differentiis novis. Proprium vero unam retineat nouam, quoniam tres habet superius adnumeratas, vincaturque a prima novis tribus differentiis, quinti vero accidentis comparationes quoniam nullam retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur. Atque ad hunc modum ex viginti differentiis secundum numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem differentias non in quinario tantum numero, verum in caeteris notas habere possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in qualibet numeri pluralitate repeliat. Propositarum enim rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto uno relinquitur, in totam summam numeri multiplicaveris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur ei pluralitati quam propositarum rerum differentiae continebunt. Sint igitur res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium ƿ teneo, sex erunt. Tot igitur erunt differentiae inter se rebus quattuor comparatis: A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C vero ad D unam; quae iulletae senarium numerum complent. Atque hanc quidem regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse sufficiat, in Praedicamcntorum vero expositione ratio quoque cur ita sit explicabitur. COMMUNE ERGO DIFFERENTIAE ET SPECIEI EST AEQUALITER PARTICIPARI; HOMINE ENIM AEQUALITER PARTICIPRNT PARTICULARES HOMINES ET RATIONALI DIFFERENTIA. COMMUNE VERO EST ET SEMPER ADESSE HIS QUAE PARTICIPANT; SEMPER ENIM SOCRATES RATIONALIS ET SEMPER SOCRATES HOMO. Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec remissione contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem est. Quodsi differentia specierum substantiam monstret, species vero individuorum, aequaliter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo fit ut aequaliter participentur. Omnes enim individui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. Nam si idem est 'esse' homini quod est 'esse rationale', cum omnes homines aeque sint homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent quoniam ita differentiae sui participantia non relinquut ut species. Semper enim Socrates rationalis est -- Socrates enim rationabilitate participat -- semper homo est, quia scilicet humanitate participat. Ut igitur differentiae sui participantia non relinqbunt, ita species his quae ea participant, semper adiuncta est. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE QUIDEM EST IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICARI, SPECIEI VERO IN EO QUOD QUID EST; NAM ET SI HOMO VELUT QUALITAS ACCIPIATUR, NON SIMPLICITER ƿ ERIT QUALITAS SED SECUNDUM ID QUOD GENERI ADVENIENTES DIFFERENTIAE EAM CONSTITUERUNT. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM IN PLURIBUS SAEPE SPECIEBUS CONSIDERATUR, QUEMADMODUM QUADRUPES IN PLURIBUS ANIMALIBUS SPECIE DIFFERENTIBUS, SPECIES VERO IN SOLIS HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS EST. AMPLIUS DIFFERENTIA PRIMA EST AB EA SPECIE QUAE EST SECUNDUM IPSAM; SIMUL ENIM ABLATUM RATIONALE INTERIMIT HOMINEM, HOMO VERO INTEREMPTUS NON AUFERT RATIONALE, CUM SIT DEUS. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM COMPONITUR CUM ALIA DIFFERENTIA -- RATIONALE ENIM ET MORTALE COMPOSITUM EST IN SUBSTANTIA HOMINIS -- SPECIES VERO SPECIEI NON COMPONITUR, UT GIGNAT ALIAM ALIQUAM SPECIEM; QUIDAM ENIM EQUUS CUIDAM ASINO PERMISCETUR AD MULI GENERATIONEM, EQUUS AUTEM SIMPLICITER ASINO NUMQUAM CONVENIENS PERFICIET MULUM. Expositis communitatibus quantum ad institutionem pertinebat differentiae et speciei, eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species in eo quod quid sit praedicatur, differentia vero in eo quod quale sit. Huic differentiae poterat occurri. Nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter quandam suae naturae ƿ proprietatem quaedam qualitas esse videatur? Huic respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas vero non est solum qualitas sed tantum qualitate perficitur. Differentia enim superveniens generi speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut procederet in speciem, species vero ipsa, qualis quidem est, secundum differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur et conformatur, qualitas vero ipsa pura simplexque nullo modo est sed ex qualitatibus effecta substantia. Itaque iure differentia, quae pure ac simpliciter qualitas est, in eo quod quale est sciscitantibus respondetur, species vero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non simplex sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species vero tantum individuis praesunt. Rationabilitas enim et hominem claudit et deum, quadrupes equum, bovem, canem et caetera, homo vero solos individuos. Atque in aliis speciebus eadem ratio est. Idcirco enim definitiones quoque secutae sunt, ut differentia vocaretur quod in pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur, species vero quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. Nam si quis auferat differentiam, speciem ƿ quoque sustulerit, ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si vero hominem tollat, rationabiiitas nuanet in speciebus reliquis constituta. Est igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species contmerc potest, species vero nullo modo. Alia rursus est dlfferentia, quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitut, ex pluribus speciebus nulla speciei substantia copulatur. Iunctis enim differentiis mortali ac rationali factus est homo, iunctis vero speciebus nulla umquam species informatur. Quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus asino equus efficit mulum, non recte dixerit. Individua enim individuis iuncta individua rursus alia fortasse perficiunt, ipseuero equus simpliciter, id est universaliter, et asinus universaliter neque permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione misceantur, efficiunt. Constat igitur differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam convenire, species vero in alterius speciei naturam nililo modo posse congruere. DIFFERENTIA VERO ET PROPRIUM COMMUNE QUIDEM HABENT AEQUALITER PARTICIPARI AB HIS QUAE EORUM PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM RATIONALIA RATIONALIA SUNT ET RISIBILIA RISIBILIA. ET SEMPER ET OMNI ADESSE COMMUNE ƿ UTRIUSQUE EST. SI ENIM CURTETUR QUI EST BIPES SED AD ID QUOD NATUM EST SEMPER DICITUR; NAM ET RISIBILE IN EO QUOD NATUM EST HABET ID QUOD EST SEMPER SED NON IN EO QUOD SEMPER RIDEAT. Nunc differentiae propriique communia continua ratione persequitur. Commune enim dicit esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur -- aeque enim omnes homines rationabiles sunt, aeque risibiles -- illud, quia substantiam monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his commune subiungit: aequaliter enim semper differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. Sed obici poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione curtetur. Quam tali modo solvimus quaestionem. Propria et differentiae non in eo quod semper habeantur sed in eo quod semper natutaliter haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis. ƿ Si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam, sicut nihil ad detrahendum proprium valet, si homo non rideat. Haec enim non in eo quod assint sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse dicuntur. Ipsum enim semper non actu esse dicimus sed natura. Numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae sed nascenti individuo derogatur. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE EST QUONIAM HAEC QUIDEM DE PLURIBUS SPECIEBUS DICITUT SAEPE, UT RATIONALE DE HOMINE ET DE DEO, PROPRIUM vero DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM ILLIS EST CONSEQUENS QUORUM EST DIFFERENTIA SED NON CONVERTITUR, PROPRIA VERO CONVERSIM PRAEDICANTUR QUORUN SUNT PROPRIA, IDCIRCO QUONIAM CONVERTUNTUR. Distat a proprio differentia, quia differentia plurimas species ƿ claudit ac de his omnibus praedicatur, proprium vero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur. Rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et caeteris animalibus, risibile vero unam tantum tenet speciem, id est hominem. Unde fit ut differentia semper speciem consequatur, species vero differentiam minime. Proprium vero ac species alterius sese vicibus aequa praedicatione comitantur. Sequi vero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum convenit nuncupari, ut si dicam 'omnis homo rationabilis est', prius hominem, posterius apposui differentiam; sequitur ergo differentia speciem. At si convertam nomina dicamque 'omnis rationabile homo est', propositio non tenet veritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. Proprium vero et species quia converti possunt, mutuo se secuntur: omnis homo risibilis est et omne risibile homo est. DIFFERENTIAE AUTEM ET ACCIDENTI COMMUNE QUIDEM EST DE PLURIBUS DICI, COMMUNE VERO AD EA QUAE SUNT INSEPARABILIA ACCIDENTIA, SEMPER ET OMNIBUS ADESSE; BIPES ENIM SEMPER ADEST OMNIBUS CORUIS ET NIGRUM ESSE SIMILITER. Duo quidem differentiae et aecidentis communia proponit, quorum unum separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab altero vero separabile accidens segregatur. Tantum vero inseparabile secundo communi concluditur. Est enim commune differentiae cum omnibus accidentibus de pluribus praedicari; nam et separabilia et inseparabilia accidentia sicut differentia de pluribus speciebus et individuis praedicantur, ut bipes de coruo atque cygno et de his individuis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. Item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia, praedicantur. Ambulare enim vel stare, dormire ac vigilare de eisdem dicimus, quae sunt accidentia separabilia, reliqua vero communitas ea tantum accidentia videtur includere quae sunt inseparabilia. Nam sicut differentia semper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam videntur deserere subiectum. ut enim bipes, quod est differentiat numquam coruorum speciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est. Differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam cius substantiam complet ac perficit, accidens vero huiusmodi, quia noo potest separari; neque enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit. DIFFERUNT AUTEM QUONIAM DIFFERENTIA QUIDEM CONTINET ET NON CONTINETUR -- CONTINET ENIM RATIONABILITAS HOMINEM -- ACCIDENTIA VERO QUODAM QUIDEM MODO CONTINENT EO QUOD IN PLURIBUS SUNT, QUODAM VERO MODO CONTINENTUR EO QUOD NON UNIUS ACCIDENTIS SUSCEPTIBILIA SUNT SUBIECTA SED PLURIMORUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM ININTENTIBILIS EST ET IRREMISSIBILIS, ACCIDENTIA VERO MAGIS ET MINUS RECIPIUNT. ET IMPERMIXTAE QUIDEM SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE, MIXTA VERO CONTRARIA ACCIDENTIA. HUIUSMODI QUIDEM COMMUNIONES ET PROPRIETATES DIFFERENTIAE ET CAETERORUM SUNT, SPECIES VERO QUO QUIDEM DIFFERAT A GENERE ET DIFFERENTIA, DICTUM EST IN EO QUOD DICEBAMUS, QUO GENUS DIFFERRET A CAETERIS ET QUO DIFFERENTIA DIFFERRET A CAETERIS. Post differentiae et accidentis redditas communitates nunc de eorum differentiis tractat. Ac primum quidem talem proponit. Differentia, inquit, omnis speciem continet rationabilitas enim continet hominem, quoniam plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur: supergressa enim substantiam hominis in deum usque diffunditur. Accidentia vero aliquando quidem continent, aliquando continentur. Continent quidem, quia quodlibet unum accidens speciebus adesse pluribus consuevit, ut album cygno et lapidi? Nigrum coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur vero, quoniam plura accidentia uni accidunt speciei, ut videatur illa species plurima accidentia continere. Cum enim Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se plurima accidentia videtur includere. Huic occurri potest: quoniam differentiae quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut rationabilitas continet hominem -- plus enim quam de homine praedicatur -- continetur quoque ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, verum etiam mortalem. Respondebimus: omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab his de quibus dicuntur non poterunt contineri; quo fit ut differentiae quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment. Accidentia vero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla praedicatione constituunt; nam nec pioprie universalia dicuntur ƿ accidentia, cum de speciebus pluribus dicuntur, differentiae vero maxime. Quae enim quorumlibet universalia sunt, ea necesse est eorum quorum sunt universalia, etiam substantiam continere. Quo fit ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant -- una enim quaeque substantia neque contrahi neque remitti potest -- at vero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur, intentione crescunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est differentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt, accidentia vero contraria miscentur et quaedam medietas ex alterutra contrarietate coniungitur. Ex rationabili enim et irrationabili nihil in unum iungi potest, ex albo vero et nigro coniunctis fit aliquis medius color. Expositis igitur distantiis differentiae ad caetera restat de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante collegimus, cum generis ad speciem differentias dicetamus, eiuselem etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines monstrabamus. Restat igitur speciem proprii et accidentium communioni coniungere, tum differentia segregare. SPECIEI AUTEM ET PROPRII COMMUNE EST DE SE INVICEM PRAEDICARI; NAM SI HOMO, RISIBILE EST, ET SI RISIBILE, HOMO EST -- RISIBILE VERO QUONIAM SECUNDUM ID QUOD NATUM EST SUMI OPORTET, SAEPE IAM DICTUM EST -- AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. Commune, inquit, habent propria atque species ad se ipsa praedicationes habere conversas. Nam sicut species de proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risihilis, ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. Cuius communitatis rationem subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species individuis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. Quae ratio non videtur ad conversionem praedicationis accommoda sed potius ad illam aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter individuis participantur, ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam risibiles. Itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum: AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. An magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret 'aequalia enim sunt species et propria'? Nam quia species eorum sunt species quae speciebus ipsis participant. Et propria eorum propria quael propriis participant, proprium atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae specie participant, ƿ neque propria superuadunt ea quae propriis participant. Cumque haec propria specierum sint propria, species ac propria aequalia esse necesse est atque invicem praedicari. DIFFERT AUTEM SPECIES A PROPRIO, QUONIAM SPECIES QUIDEM POTEST ET ALIIS GENUS ESSE, PROPRIUM VERO ET ALIARUM SPECIERUM ESSE IMPOSSIBILE EST. ET SPECIES QUIDEM ANTE SUBSISTIT QUAM PROPRIUM, PROPRIUM VERO POSTEA FIT IN SPECIE; OPORTET ENIM HOMINEM ESSE, UT SIT RISIBILE. AMPLIUS SPECIES QUIDEM SEMPER ACTU ADEST SUBIECTO, PROPRIUM vero ALIQUANDO POTESTATE; HOMO ENIM SEMPER ACTU EST SOCRATES, NON VERO SEMPER RIDET, QUAMVIS SIT NATUS SEMPER RISIBILIS. AMPLIUS QUORUM TERMINI DIFFERENTES, ET IPSA SUNT DIFFERENTIA; EST AUTEM SPECIEI QUIDEM SUB GENERE ESSE ET DE PLURIBUS ƿ ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI ET CAETERA HUIUSMODI, PROPRII VERO QUOD EST SOLI ET SEMPER ET OMNI ADESSE. Primam proprii et speciei differentiam dicit quoniam species potest aliquando in alias species derivari, id est potest esse genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. Sed nunc non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundele videtur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent ultimae, nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis optineant disserit. Propria vero nullo modo esse genera possunt, quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt aequalia, genera es se permittuntur. Rursus species semper ante subsistit quam proprium -- nisi enim sit homo, risibile esse non poterit -- et cum ista simul sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. Omne enim proprium in accidentis genere collocatur, eo vero differt ab accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam speciem vim propriae praedicationis continet. Quodsi priores sunt substantiae quam accidentia, species vero substantia est, proprium vero accidens, non est dubium quin prior sit species. Proprium vero posterius. Discernuntur ƿ etiam species a propriis actus potestatisque natura; species enim actu semper individuis adest, propria vero aliquotiens actu, potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non vero semper actu rident sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant, ridere tamen potenlnt. Natura itaque species et proprium semper subiectis adest sed actu species. Proprium vero non semper actu, velut dictum est. At rursus quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diversae sunt definitiones, diversas necesse est esse substantias; speciei vero et proprii diversae sunt definitiones, diversae sunt igitur substantiae. Est autem speciei definitio esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est. Proprium vero non ita: definitur: proprium est quod uni et omni et semper speciei adest. Quodsi definitiones diversae sunt, non est dubium speciem ac proprium secundum naturae suae terminos discrepare. SPECIEI VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE QUIDEM EST DE PLURIBUS PRAEDICARI; RARAE VERO ALIAE SUNT COMMUNITATES ƿ PROPTEREA, QUONIAM QUAM PLURIMUM A SE DISTANT ACCIDENS ET ID CUI ACCIDIT. Speciei atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et accidens. Raras vero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe diversum est id quod accidit et cui accidit. Cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod vero accidit, superpositum est atque advenientis naturae. Item quod supponitur substantia est, quod vero velut accidens praedicatur, extrinsecus venit. Quae omnia multam eius quod est subiectum et eius quad est accidens differentiam faciunt. Tamen inveniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inseparabilis communitates, ut semper adesse subiectis -- aeque enim homo singulis hominibus semper adest et inseparabilia accidentia singulis individuis praesto sunt -- et quod sicut species de his quae individua continet, aeque de pluribus accidentia individuis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum vero atque album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur. PROPRIA VERO UTRIUSQUE SUNT, SPECIEI QUIDEM IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI DE HIS QUORUM EST SPECIES, ƿ ACCIDENTIS AUTEM IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST VEL ALIQUO MODO SE HABENS; ET UNAMQUAMQUE SUBSTANTIAM UNA QUIDEM SPECIE PARTICIPARE, PLURIBUS AUTEM ACCIDENTIBUS ET SEPARABILIBUS ET INSEPARABILIBUS; ET SPECIES QUIDEM ANTE SUBINTELLEGI QUAM ACCIDENTIA, VEL SI SINT INSEPARABILIA -- OPORTET ENIM ESSE SUBIECTUM, UT ILLI ALIQUID ACCIDAT -- ACCIDENTIA VERO POSTERIORIS GENERIS SUNT ET ADVENTICIAE NATURAE. ET SPECIEI QUIDEM PARTICIPATIO AEQUALITER EST, ACCIDENTIS VERO, VEL SI INSEPARABILE SIT, NON AEQUALITER; AETHIOPS ENIM ALIO AETHIOPE HABEBIT COLOREM VEL INTENTUM AMPLIUS VEL REMISSUM SECUNDUM NIGREDINEM. RESTAT IGITUR DE PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE; QUO ENIM PROPRIUM AB SPECIE ET DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERT, DICTUM EST. Quod nunc proprium speciei et accidentis se exequi pollicetur, tale proprium intellegendum est quod, ut superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. Species enim in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quale est. Qua differentia non ab accidentibus solis species ƿ discernitur, verum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, verum etiam genus. Praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere; genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat praedicatione dividitur. Item ullam quamque substantiam una videtur species continere, ut Socrntem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est species hominis. Rursus individuo equo una species equi est proxima, itemque in caeteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. At vero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim substantiae plura semper accidentia superveniunt, ut Socrati quod caluus, quod simus, quod glaucus, quod propenso ventre, et in aliis quidem substantiis de numero accidentium idem convenit. Dehinc semper ante accidentia species intelleguntur. Nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi, accidens non erit. Omnis autem substantia propria specie continetur. Recte igitur prins species, accidentia vero posterius intelleguntur; posterioris enim sunt, ut ait, generis et adventiciae naturae. Nam quae substantiam non informant, recte adventiciae naturae esse dicuntur et posterioris generis; his enim substantiis assunt quae ante differentiis informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam ƿ monstrat, substantia vero, ut dictum est, intentione ac remissione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non suscipit. Accidens vero vel si inseparabile sit, potest intentionis remissionisque cremento et detrimento variari, ut ipsum inseparabile accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. Potest enim quibusdam talis adesse, ut sit fuscis proxima, aliis vero talis, ut sit nigerrima. Restat nunc proprii communiones ac differentias persequi. Sed quo proprium differat a genere vel specie vel differentia superius demon stratum est, cum quid genus vel species vel differentia a proprio distaret ostendimus. Nunc reliqua ad communitatem vel differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut segreget. COMMUNE AUTEM PROPRII ET INSEPARABILIS ACCIDENTIS EST QUOD PRAETER EA NUMQUAM CONSTANT ILLA IN QUIBUS CONSIDERANTUR; QUEMADMODUM ENIM PRAETER RISIBILE NON SUBSISTIT HOMO, ITA NEC PRAETER NIGREDINEM SUBSISTIT ƿ AETHIOPS, ET QUEMADMODUM SEMPER ET OMNI ADEST PROPRIUM, SIC ET INSEPARABILE ACCIDENS. Quoniam proprium semper adest speciebus nec eas ullo modo relinquit quoniamque inseparabile accidens a subiecto non potest segregari, hoc illis inter se videtur esse commune. Quod ea in quibus insunt, praeter propria vel inseparabilia accidentia esse non possint. Inseparabilia vero accidentia comparat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque accidentis similitudines. Quocirca multo magis proprii atque accidentis communitates difficile reperiuntur. Accidens enim in contrarium dividi solet, in separabile accidens atque in inseparabile, quae vero sub genere in contrarium dividuntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione participant. Quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separabilis accidentis similitudines quaerit. Sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inveniri possunt et inter se differentiae. Quarum una quidem ea est quam superius exposuimus, secunda nero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest. Ita etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est. DIFFERT AUTEM QUONIAM PROPRIUM UNI SOLI SPECIEI ADEST, QUEMADMODUM RISIBILE HOMINI, IN SEPARABILE VERO ACCIDENS, UT NIGRUM, NON SOLUM AETHIOPI SED ET IAM CORNO ADEST ET CARBONI ET HEBENO ET QUIBUSDAM ALIIS. QUARE PROPRIUM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS EST PROPRIUM ET EST AEQUALITER, INSEPARABILE AUTEM ACCIDENS CONVERSIM NON PRAEDICATUR. ET PROPRIORUM QUIDEM AEQUALITER EST PARTICIPATIO, ACCIDENTIUM VERO HAEC QUIDEM MAGIS, ILLA VERO MINUS. SUNT QUIDEM ETIAM ALIAE COMMUNITATES VEL PROPRIETATES EORUM QUAE DICTA SUNT SED SUFFICIUNT ETIAM HAEC AD DISCRETIOLLEM EORUM COMMUNITATISQUE TRADITIONEM. Proprii atque accidentis prima quidem differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens vero minime sed eius praedicatio in plurimas diversi generis substantias speciesque diffunditur. Risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum vero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae diversa sunt specie, tam coruo atque hebeno, quae differunt generibus, non tantum specie, praesto est. Quo fit ut propriis quidem ƿ conversio aequa seruetur, in accidentibus vero minime. Quoniam enim propria in singulis esse possunt atque omnes continent, species converso ordine praedicantur; nam quod risibile est homo est, et quod homo, risibile. Nigrum vero non ita sed ipsum quidem de his praedicari potest quibus inest, illa vero ad huius praedicationem converti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone, hebeno, homine atque coruo praedicatur, haec vero de nigro minime. Nam quae plurima continent, de his quae continent praedicari possunt, ea vero quae continentur, de sese continentibus nullo modo nuncupantur. Rursus proprium quidem aequaliter participatur, accidens remissionibus atque intentionibus permutatur. Omnis enim homo aeque risibilis est, Aethiops vero non aequaliter niger est sed, ut dictum est. Alius quidem panlo minus niger, alius vero tacterrimus invenitur. Et de proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. Restabat vero accidentis ad caetera communiones proprietatesque explicare sed iam superius adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens similitudines ac differentias assignavimus. Fortasse autem his institutus animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus communitates vel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet sed ad discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta sufficiunt. Nos etiam, quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post vero a nobis ƿ Latina oratione conversam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi continenti quinque rerum disputationem et ad Praedicamenta servanti. Expeditis his quae ad praedicamenta Aristotelis Porphyrii institutione digesta sunt, hos quoque commentarios in praedicamenta perscribens mediocris styli seriem persecutus, nihil de aliorum quaestionum tractatione permiscui sed dilucidandi moderatione servata, nec angere lectorem brevitate volui nec dilatatione confundere. Quare prius breviter huius operis aperienda videtur intentio, quae est huiusmodi: Rebus praeiacentibus, et in propria principaliter naturae constitutione manentibus, humanum solum genus exstitit, quod rebus nomina posset imponere. Unde factum est ut sigillatim omnia prosecutus hominis animis singulis vocabula rebus aptaret. Et hoc quidem (verbi gratia) corpus hominem vocavit, illud vero lapidem, aliud lignum, aliud vero colorem. Et rursus quicumque ex se alium genuisset, patris vocabulo nuncupavit. Mensuram quoque magnitudinis proprii forma nominis terminavit, ut diceret bipedale esse, aut tripedale, et in aliis eodem modo. Omnibus ergo nominibus ordinatis, ad ipsorum rursus vocabulorum proprietates figurasque reuersus est, et huiusmodi vocabuli formam, quae inflecti casibus possit, 'nomen' vocavit; quae vero temporibus distribui, 'uerbum'. Prima igitur illa fuit nominum positio, per quam vel intellectui subiecta vel sensibus designaret. Secunda consideratio, qua singulas proprietates nominum figurasque perspicerent, ita ut primum nomen sit ipsum rei vocabulum: ut, verbi gratia, cum quaelibet res homo dicatur. Quod autem ipsum vocabulum, id est homo, nomen vocatur, non ad significationem nominis ipsius refertur sed ad figuram, idcirco quod possit casibus inflecti. Ergo prima positio nominis secundum significationem vocabuli facta est, secunda vero secundum figuram: et est prima positio, ut nomina rebus imponerentur, secunda vero ut aliis nominibus ipsa nomina designarentur. Nam cum homo vocabulum sit subiectae substantiae, id quod dicitur homo, nomen est hominis, quod ipsius nominis appellatio est. Dicimus enim, Quale vocabulum est homo? et proprie respondetur: nomen. In hoc igitur opere haec intentio est de primis rerum nominibus et de vocibus res significantibus disputare, non in eo quod secundum aliquam proprietatem figuramque formantur sed in eo quod significantes sunt. Nam quodcumque de substantia vel facere vel pati dicitur, non ita tractatur quasi unum eorum casibus inflecti possit, aliud vero temporibus permutari sed quasi aut hominem, aut equum, aut individuum aliquod, aut speciem genusue significet. Est igitur huius operis intentione vocibus res significantibus in eo quod significantes sunt pertractare. Haec quidem est tempori introductionis, et simplicis expositionis apta sententia, quam nos nunc Porphyrium sequentes, quod videbatur expeditior esse planiorque digessimus. Est vero in mente de intentione, utilitate et ordine, tribus quaestionibus disputare, videlicet in alio commentario quem componere proposui de eisdem categoriis ad doctiores, quarum una est quid praedicamentorum velit intentio, ibique numeratis diversorum sententiis, docebimus cui vostrum quoque accedat arbitrium, quod nemo huic in praesentia sententiae repugnare miretur, cum videat quanto illa sit altior cuius non nimium ingredientium mentes capaces esse potuissent, ad quos mediocriter  imbuendos ista conscripsimus. Afficiendi ergo, et quodammodo disponendi mediocri expositione sunt in ipsi quasi disciplinae huius foribus, quos ad hanc paramus scientiam admittere. Hanc igitur causam mutatae sententiae utriusque operis lector agnoscat, quod illic ad scientiam Pythagoricam perfectamque doctrinam, hic ad simplices introducendorum motus expositionis sit accommodata sententia. Sed nunc ad propositum reuertamur, sitque in praesens praedicamentorum intentio, quae superius est comprehensa, id est, de primis vocibus significantibus prima rerum genera in eo quod significantes sunt disputare: et quoniam res infinitae sunt, infinitas quoque voces quae significant eas esse necesse est: sed infinitorum nulla cognitio est, infinita namque animo comprehendi nequeunt. Quod autem ratione mentis circumdari non potest, nullius scientiae fine concluditur, quare infinitorum scientia nulla est: sed hic Aristoteles non de infinitis rerum significationibus tractat sed decem praedicamenta constituens, ad quae ipsa infinita multitudo significantium vocum referri debeat, terminavit: ut, verbi gratia, cum dico homo, lignum, lapis, equus, animal, plumbum, stannum, argentum, aurum, et alia huiusmodi quae nimirum infinitum sunt, haec omnia ad unum substantiae vocabulum deducantur. Haec namque, etsi qua sunt alia quae certae sunt infinita vocabula unum substantiae nomen includit. Rursus cum dico bipedale, tripedale, sex, quattuor, decem, lineam superficiem, soliditatem, et quaecumque alia ex eodem genere qua infinita sunt, uno quantitas nomine continentur, ut haec omnia sub quantitate ponantur. Rursus cum dico album, vel scientiam, vel bonum, vel malum, vel alia huiusmodi, quaeque in hoc quoquo genere infinita sunt, unum tamen nomen concludens omnia qualitatis occurrit, et de aliis quoque similiter. Rerum ergo diversarum indeterminatam infinitamque multitudinem, decem praedicamentorum paucissima numerositate concludit, ut ea quae infinita sub scientiam cadere non poterant, decem propriis generibus definita scientiae comprehensione claudantur. Ergo decem praedicamenta quae dicimus, infinitarum in vocibus significationum genera sunt sed quoniam omnis vocum significatio de rebus est, quae voce significantur in eo quod significantes sunt, genera rerum necessario significabunt. Ut igitur concludenda sit intentio, dicendum est in hoc libro de primis vocibus, prima rerum genera significantibus in eo quod significantes sunt, dispositum esse tractatum. Sed quoniam de intentione dictum est, breviter huius operis utilitas explicanda est. Nam cum res infinitae infinitis quoque vocibus significarentur, et (ut dictum est) sub scientiam venire non possent, hac definitione, qua decem praedicamentorum divisio facta est, cunctarum rerum et vocum significantium acquirimus disciplinam. Hinc est quod ad logicum tendentibus primus hic liber legendus occurrit, idcirco quod cum omnis logica syllogismorum ratione sit constituta syllogismi vero propositionibus iungantur, propositiones vero sermonibus constent, prima est utilitas quid quisque sermo significet, propriae scientiae definitione cognoscere. Haec quoque nobis de decem praedicamentis inspectio, et in physica Aristotelis doctrina, et in moralis philosophiae 161C cognitione perutilis est, quod per singula currentibus magis liquebit. Quocirca de ordine quoque libri huius eadem ratio est. Nam quoniam res simplices compositis natura priores sunt, quae enim composita sunt, ex simplicibus componuntur. Hic quoniam de simplicibus vocibus res significentibus disputatur, secundum ipsius simplicitatis principalem naturam, primus hic Aristotelis liber inchoantibus addiscitur. Nec illud fere dubium est ad quam partem philosophiae huius libri ducatur intentio, idcirco quoniam qui de significativis vocibus tractat, de rebus quoque est aliquatenus tractaturus. Res etenim et rerum significatio iuncta est sed principalior erit illa disputatio quae de sermonibus est: secundo vero loco illa quae de rerum ratione formatur. Quare quoniam omnis ars logica de oratione est, et in hoc opere de vocibus principaliter tractatur (quamquam enim sit huius libri relatio ad caeteras quoque philosophiae partes) principaliter tamen refertur ad logicam, de cuius quodammodo simplicibus elementis, id est, de sermonibus in eo principaliter disputavi. Aristotelis vero neque ullius alterius liber est, idcirco quod in omni philosophia sibi ipse de huius operis disputatione consentit, et brevitas ipsa atque subtilitas ab Aristolele non discrepat, alioqui interruptum imperfectumque opus edidisse videretur qui de syllogismis scriberet, si aut de propositionibus praetermisisset, aut de primis vocibus tractatum, quibus ipsae propositiones continentur, omitteret. Quanquam exstet 162A alter Aristotelis liber de eisdem disputans, eadem fere continens, cum sit oratione diversus; sed hic proprietatis liber calculum coepit. Archytes etiam duos composuit libros quos *Kathulous logous* inscripsit, quorum in primo haec decem praedicamenta disposuit. Unde posteriores quidam non esse Aristotelem huius divisionis inventorem suspicati sunt, quod Pythagoricus vir eadem conscripsisset, in qua sententia Iamblicus philosophus est non ignobilis, cui non consentit Themistius, neque concedit eum fuisse Archytem, qui Pythagoricus Tarentinusque esset, quique cum Platone aliquantulum vixisset sed peripateticum aliquem Architem, qui nouo operi auctoritatem uetustate nominis conderet. Sed de his alias. Restat inscriptio quae varia fuit. Inscripsere namque 162B alii de rebus, alii de generibus rerum, quos eadem similisque culpa confudit. Namque (ut docuimus) non de rerum generibus, neque de rebus sed de sermonibus rerum genera significantibus in hoc opere tractatus habetur, hoc vero Aristoteles ipse declarat cum dicit: Eorum quae secundum nullam complexionem dicuntur, singulum aut substantiam significat, aut quantitatem. Quod si de rebus divisionem faceret, non dixisset "significat"; res enim significatur, non ipsa significat. Illud quoque maximo argumento est Aristotelem non de rebus sed de sermonibus res significantibus speculari, quod ait: Singulum igitur eorum quae dicta sunt, ipsum quidem secundum se in nulla affirmatione dicitur, horum autem ad se invicem complexione affirmatio fit. Res enim si iungantur, affirmationem nullo modo perficiunt, affirmatio namque in oratione est. Quocirca si praedicamenta iuncta faciunt affirmationem (affirmatio vero nonnisi in oratione est, quae autem iunguntur ut affirmatio fiat, hae sunt rerum significantes voces) praedicamentorum tractatus non de rebus sed de vocibus est; male igitur vel de rebus vel rerum generibus inscripserunt. Annotant alii hunc librum legendum ante Topica, quod nimis absurdum est. Cur enim non magis ante Physica? Quasi vero minor huius sit libri usus in Physicis, cum primi Resolutorii ante Topica legantur, et ante primos Resolutorios Perihermenias liber ad cognitionem veniat inchoantis, cur non magis hunc librum vel ante Perihermenias, vel ante Resolutorios inscripserunt? Quare repudianda est inscriptionis istius quoque ipsa sententia, dicendumque est: Quoniam rerum prima decem genera sunt, necesse fuit decem quoque esse simplices voces, quae de subiectis rebus dicerentur: omne enim quod significat de illa re dicitur quam significat, ergo inscribendus liber est de decem Praedicamentis. Sed forte quis dicat, si de significantibus rerum vocibus ipsa disputatio est, cur de ipsis disputat rebus? Dicendum est, quoniam res semper cum propria significatione coniunctae sunt, et quidquid in res venit, hoc quidem in rerum vocabulis invenitur: quare recte de vocabulis disputans, proprietatem significantium vocum de his quae significabantur, id est de rebus assumpsit. Erit alia quoque fortasse quaestio: Cur enim hic orationem in decem praedicamenta sit partitus, in Perihermenias libro in duas tantum partes divisionem fecit, in verbum videlicet et nomen? Sed hoc interest quod illic figuras vocabulorum dividit, in hoc de significationibus tractat, quare non est sibi ipse contrarius. In Perihermenias enim libro de nomine et verbo considerat quae secundum figuram quamdam vocabuli sunt, quod illud inflecti casibus potest, illud variari per tempora: hic vero non secundum has figuras sed in eo quod voces significantes sunt disputatur: quare diversam in diversis rebus atque tractatibus faciendo divisionem, nulla contrarietate notabitur, neque nunc orationem dividit sed ad multitudinem generum nomina ipsa dispertit: nam quoniam decem rerum genera sunt non secundum orationem sed secundum rerum significationem in decem praedicamenta voces dividit, deque his tractat. Atque ideo necesse fuit quodammodo disputationem de rebus quoque misceri, ita (ut dictum est) ut non aliter nisi ex rebus proprietates in sermonibus apparerent, atque ita non de rebus proprie sed de praedicamentis, id est de ipsis rerum significativis vocibus in eo quod significantes sunt, seriem disputationis orditur. Cur autem, si de praedicamentis disputat, de aequivocis, vel univocis, vel denominativis primus illi tractatus est? Idcirco nimirum quod quaedam semper a disputantibus praemittuntur, quibus positis facilior de sequentibus possit esse doctrina: ut in geometria, prius termini praeponuntur, post theorematum ordo conteritur. Ita quoque hic quidquid ad praedicamentorum disputationem possit esse utile, priusquam ad ipsa predicamenta veniret, exposuit: quare quoniam quae praedicenda erant explicavi, nunc ad ipsius disputationis seriem textumque veniamus. Quid autem aequivoca vel univoca vel denominativa utilitatis habeant, secundum ipsas singulorum rationes definitionesque tractabitur. DE AEQUIVOCIS AEQUIVOCA DICUNTUR QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA, UT ANIMAL HOMO ET QUOD PINGITUR. HORUM ENIM SOLUM NOMEN COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA; SI ENIM QUIS ASSIGNET QUID EST UTRIQUE EORUM QUO SINT ANIMALIA, PROPRIAM ASSIGNABIT UTRIUSQUE RATIONEM. Omnis res aut nomine aut definitione monstratur: namque subiectam rem aut proprio nomine vocamus aut definitione quid sit ostendimus. Ut verbi gratia quamdam substantiam vocamus hominis nomine, et eiusdem definitionem damus dicentes esse hominem animal rationale mortale; ergo quoniam res omnis aut definitione aut nomine declaratur, ex his duobus, nomine scilicet et definitione, diversitates quattuor procreantur. Omnes namque res aut eodem nomine et eadem definitione iunguntur, ut homo et animal, utraque enim animalia dici possunt, et utraque una definitione iunguntur. Est namque animal substantia animata sensibilis, et homo rursus substantia animata sensibilis, et haec vocantur univoca. Alia vero 164A quae neque nominibus neque definitionibus coniunguntur: ut ignis, lapis, color, et quae propriae substantiae natura discreta sunt, haec autem vocantur diversivoca. Alia vero quae diversis nominibus nuncupantur, et uni definitioni designationique subduatur, ut gladius, ensis; haec enim multa sunt nomina sed id quod significant una definitione declaratur, et hoc vocatur multivocum. Alia vero quae nomine quidem congruunt, definitionibus discrepant: ut est homo vivens et homo pictus, nam utrumque vel animalia vel homines nuncupantur. Si vero quis velit picturam hominemque definire, diversas utrisque definitiones aptabit, et haec vocantur aequivoca. Quare quoniam quid sint aequivoca dictum est, singulis Aristotelicae definitionis sententias persequamur. AEQUIVOCA, inquit, dicitur res scilicet, quae per se ipsas aequivocae non sunt, nisi uno nomine praedicentur: quare quoniam ut aequivoca sint, ex communi vocabulo trahunt, recte ait, aequivoca dicuntur. Non enim sunt aequivoca sed dicuntur. Fit autem non solum in nominibus sed etiam in verbis aequivocatio: ut cum dico complector te, et complector a te. In quibus significationibus cum unum nomen sit complector, alia tamen faciendi ratio est, alia patiendi: atque ideo hic quoque aequivocatio est: unum enim nomen quod est complector, diversis faciendi et patiendi definitionibus terminatur. In praepositionibus quoque et in coniunctionibus frequenter aequivocatio reperitur, atque ideo quod ait: QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, 'nomen' accipiendum 164C est omnis rerum per vocem significatio, id est omne vocabulum non proprium solum, aut appellativum, quod ab illud tantum nomen pertinet quod casibus inflecti potest sed ad nomen rerum significationem, qua rebus imposita vocabula praedicamus. SOLUM autem duobus modis dicitur: semel cum aliquid unum esse dicimus, ut si dicamus solus est mundus, id est unus; alio vero modo cum dicimus ad quamdam ab altero divisionem, ut si quis dicat solam me habere tunicam, id est, non etiam togam, ad divisionem videlicet togae. Hic ergo Aristoteles posuit dicens, SOLUM NOMEN COMMUNE EST, quasi hoc voluisset intelligi non etiam definitio, aequivoca enim iunguntur nomine sed definitione dissentiunt. COMMUNE quoque multis dicitur modis. Dicitur commune quod in partes dividitur, et non iam totum commune est sed partes eius propriae singularum, ut domus. Dicitur commune quod id partes non dividitur sed vicissim in usus habentium transit, ut seruus communis vel equus. Dicitur etiam commune quod utendo cuiusque fit proprium, post usum vero in commune remittitur, ut est theatrum, nam cum eo utor, meum est, cum inde discedo, in commune remisi. Dicitur quoque commune quod ipsum quidem nullis divisum partibus, totum uno tempore in singulos venit, ut vox vel sermo ad multorum aures uno eodemque tempore totus atque integer pervenit. Secundum hanc igitur ultimam communis significationem Aristoteles putat aequivocis rebus commune esse vocabulum. Namque in homine picto et in homine vivo, totum in utrisque vocabulum dicitur animalis. SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA, hoc hac significatione praemittit, ut si aliter reddantur definitiones quam secundum nomen, statim tota definitio labet ac titubet. Ac primum de definitionis proprietate dicendum est. Illae enim certae definitiones sunt quae convertuntur, ut si dicas, Quid est homo? animal rationale mortale -- verum est. Quid est animal rationale mortale? homo -- hoc quoque verum est. At vero si ita quis dicat, Quid est homo? substantia animata sensibilis -- verum est; quid substantia animata sensibilis? homo -- hoc non modis omnibus verum est, idcirco quod equus quoque est substantia animata sensibilis sed homo non est. Ergo illas constat esse definitiones integras quae converti possunt. Sed hoc fit in iis quae non de communi sed uno tantum, ut cum de hominis nomine redduntur, verbi gratia: Animal est commune nomen, si dixerit quis, Homo est substantia animata sensibilis, procedit: si non convertatur, quia de communi nomine reddita est definitio; sin vero de uno nomine redditur, tunc de ipso nomine facienda est definitio; sic tamen est recta facienda, ut hominis definitio sit animal rationale mortale, non substantia animata sensibilis, illa enim secundum hominis nomen, ista secundum animalis est reddita. Idem etiam in his nominibus quae de duabus rebus communiter praedicantur, si secundum nomen substantiae ratio non reddatur, potest aliquoties fieri, ut ex univocis aequivoca sint, et ex aequivocis univoca; namque homo 165C atque equus cum secundum nomen animalis univoca sint, possunt esse aequivoca, si secundum nomen minime definita sunt. Homo namque et equus communi nomine animalia nuncupatur, si quis ergo hominis reddat definitionem dicens, animal rationale mortale, et equi, animal irrationale hinnibile, diversas reddidit definitiones, et erunt res univocae in aequivocas permutatae. Hoc autem idcirco evenit, quod definitiones non secundum animalis nomen redditae sunt, quod eorum commune vocabulum est sed secundum hominis atque equi. Nam si secundum commune nomen quod est animal definitio redderetur, ita fieret, homo est substantia animata sensibilis, secundum nomen scilicet animalis; et rursus, equus est substantia animata sensibilis, secundum nomen rursus animalis, secundum idem namque animalis vocabulum equus atque homo univoce praedicantur. Rursus ex aequivocis univoca fiunt hoc modo si quis Pyrrhum Achillis filium et Pyrrhum Epiroten dicat esse univocos, idcirco quod uno nomine et Pyrrhi dicantur, et sint animalia rationabilia atque mortalia. Hic secundum nomen hominis reddita definitio, ex aequivocis fecit univoca. Quod si secundum nomen Pyrrhi definitionis ratio iungeretur vel a parentibus vel a patria, diversis eos oporteret definitionibus terminari. Recte igitur additum est, secundum nomen, idcirco quod si aliter facta sit definitio, stabilis esse nou poterit, et frequenter diversos secum ducit errores. RATIO quoque multimodo dicitur. Est enim ratio animae, et est ratio computandi, est ratio natura, ipsa nimirum similitudo nascentium, est ratio qua in definitionibus vel descriptionibus redditur. Et quoniam generalissima genera genere carent, individua vero nulla substantiali differentia discrepant, definitio vero ex genere et differentia trahitur, neque generalissimorum generum, neque individuorum ulla potest definitio reperiri. Subalternorum vero generum, quoniam et differentias habent et genera, definitiones esse possunt. At vero quorum definitiones reddi nequeunt, illa tantum descriptionibus terminantur. Descriptio autem est quae quamlibet rem propria quadam proprietate designat. Sive ergo definitio sit sive descriptio, utraque 166B rationem substantiae designat. Quare cum substantiae rationem dixit, et definitionis et descriptionis nomen inclusit. Aequivocorum alia sunt casu, alia consilio. Casu, ut Alexander Priami filius et Alexander Magnus. Casus enim id egit, ut idem utrique nomen poneretur. Consilio vero, ea quaecumque hominum voluntate sunt posita. Horum autem alia sunt secundum similitudinem, ut homo pictus et homo verus quo nunc utitur Aristoteles exemplo: alia secundum proportionem, ut principium est in numero unitas, in lineis punctus. Et haec aequivocatio secundum proportionem esse dicitur. Alia vero sunt quae ab uno descendunt, ut medicinale ferramentum; medicinale pigmentum, ab una enim medicina aequivocatio ista descendit. Alia quae ad unum referuntur, ut si quis dicat salutaris uectatio est, salutaris esca est, haec scilicet idcirco sunt aequivoca, quod ad salutis unum vocabulum referuntur. Cur autem prius de aequivocis post de univocis tractat? Idcirco quod ipsa decem praedicamenta cum definitionibus diversa sint, uno praedicationis vocabulo nuncupantur; cuncta enim praedicamenta dicimus, ipsa vero praedicamenta quoniam rerum genera sunt, de subiectis rebus univoce praedicantur. Omne enim genus de speciebus propriis univoce dicitur, quare rectius primo de omnibus praedicamentorum communi vocabulo tractat, quasi dehinc quemadmodum singula de speciebus propriis praedicarentur, exprimeret. At si (ut dictum est) non de rebus sed de nominibus libri huius intentio est, cur de aequivocis et non de aequivocatione tractavit? Aequivocae namque res sunt, aequivocatio vero vocabulum. Idcirco, quoniam ipsum nomen nihil in se retinet aequivocationis, nisi diversae sint res de quibus illud vocabulum praedicetur. Quare inde substantiam ipsa aequivocatio trahit, de ipsis dignius inchoatum est. Videtur autem alius esse modus aequivocationis quem Aristoteles omnino non recipit. Nam sicut dicitur pes hominis, ita quoque dicitur pes navis, et pes montis, quae huiusmodi omnia secundum translationem dicuntur. Translatio vero nullius proprietatis est. Quare secundum translationem aequivoca nunquam sunt, nisi propriis et immutabilibus subiectae res vocabulis appellentur. Est autem talis eorum universalis inspectio. Neque enim omnis translatio ab aequivocatione seiungitur sed ea tantum cum ad res habentes positum vocabulum, ab alia iam nominata re nomen ornatus causa transfertur, ut quia iam dicitur quidam auriga, dicitur etiam gubernator, si quis ornatus gratia cum qui gubernator est dicat aurigam, non erit auriga nomen aequivocum, licet diversa, id est, moderatorem currus navisque significet. Sed quoties res quidem vocabulo eget, ab alia vero re quae vocabulum sumit, tunc ista translatio aequivocationis retinet proprietatem, ut ex homine vivo ad picturam nomen hominis dictum est. Et de aequivocis hactenus; nunc de univocis pertractemus. DE UNIVOCIS UNIVOCA VERO DICUNTUR QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET SECUNDUM NOMEN EADEM SUBSTANTIAE RATIO, UT ANIMAL HOMO ATQUE BOS. COMMUNI ENIM NOMINE UTRIQUE ANIMALIA NUNCUPANTUR, ET EST RATIO SUBSTANTIAE EADEM; SI QUIS ENIM ASSIGNET UTRIUSQUE RATIONEM, QUID UTRIQUE SIT QUO SINT ANIMALIA, EANDEM ASSIGNABIT RATIONEM. Post aequivocorum definitionem ad univocorum terminum transitum fecit, in quibus nihil aliud discrepat, nisi quod aequivoca definitione disiuncta sunt, univoca ipso quoque termino coniunguntur sed caetera omnia quaecumque in aequivocorum definitione dicta sunt, in hac quoque univocorum designatione conveniant. Nam quemadmodum in aequivocis secundum nomen aequivocarum rerum definitio fiebat, ita quoque in univocis secundum nomen substantiae ratio assignabitur. Sunt autem univoca aut genera speciebus, aut species speciebus, genera speciebus, ut animal atque homo. Nam cum hominis genus sit animal, dicitur homo animal, ergo et animal et homo animalia nuncupantur. Secundum igitur commune nomen si utrosque definias, dicis animal esse substantiam animatam atque sensibilem, hominem quoque secundum id quod animal est, si substantiam animatam sensibilem dixeris, nihil in eo falsitatis invenies. Species vero speciebus univocae sunt, quae uno atque eodem genere continentur, ut homo, equus atque bos, his commune genus est animal, et communi nomine animalia nominantur. Ergo secundum nomen unum quod illis commune est animalis, una illius ratio definitionis aptabitur, omnia enim sunt substantiae animatae atque sensibiles. Secundum igitur posteriorem univocationis designationem Aristoteles qua speciebus species univocae sunt, ut homo et bos, quae sub eodem sunt genere, sumpsit exemplum. DENOMINATIVA VERO DICUNTUR QUAECUMQUE AB ALIQUO, SOLO DIFFERENTIA CASU, SECUNDUM NOMEN HABENT APPELLATIONEM, UT A GRAMMATICA GRAMMATICUS ET A FORTITUDINE FORTIS. Haec quoque definitio nihil habet obscurum. Casus enim antiqui nominabant aliquas nominum transfigurationes, ut a iustitia iustus, a fortitudine fortis, etc. Haec igitur nominis transfiguratio, casus ab antiquioribus vocabatur. Atque ideo quotiescumque aliqua res alia participat, ipsa participatione sicut rem, ita quoque nomen adipiscitur, ut quidam homo, quia iustitia participat et rem quoque inde trahit et nomen, dicitur enim iustus. Ergo denominativa vocantur quaecumque a principali nomine solo casu, id est sola transfiguratione discrepant. Nam cum sit nomen principale iustitia, ab hoc transfiguratum nomen iustus efficitur. Ergo illa sunt denominativa quaecumque a principali nomine solo casus id est sola nominis discrepantia, secundum principale nomen habent appellationem. Tria sunt autem necessaria ut denominativa vocabula constituantur: prius ut re participet, post ut nomine, postremo ut sit quaedam nominis transfiguratio, ut cum aliquis dicitur a fortitudine fortis, est enim quaedam fortitudo qua fortis ille participet, habet quoque nominis participationem, fortis enim dicitur. At vero est quaedam transfiguratio, fortis enim et fortitudo non eisdem syllabis terminantur. Si quid vero sit quod re non participet, neque nomine participare potest. Quare quaecumque re non participant, denominativa esse non possunt. Rursus quoque quae re quidem participant, nomine vero minime, ipsa quoque a denominativorum natura discreta sunt, ut si quis, cum sit virtus, virtute ipsa participet, nullo cum alio nomine nisi sapientem vocamus. Sed virtus et sapientia nomine ipso disiuncta sunt, hic ergo re quidem participat, nomine vero minime. Quare sapiens a virtute denominatus esse non dicitur sed a sapientia, qua scilicet et participat, et nomine iungitur, et transfiguratione diversus est; rursus si transfiguratio non sit, ut quaedam mulier musica, participat quidem ipsa musicae disciplina, et dicitur musica. Hae igitur appellatio non est denominativa sed aequivoca, uno enim nomine et disciplina et ipsa mulier musica dicitur. Quoniam ergo similis terminus syllabarum est, et nomen simile, et nulla transfiguratio, denominativa esse non poterunt, quare quidquid denominativa esse non poterunt, quare quidquid denominativum esse dicitur, illud et re participabit et nomine, et aliqua transfiguratione vocabuli discrepabit. Haec igitur quae ad praedicamenta necessaria credidit, praemisit. Multivoca vero et diversivoca respuit, quod ad praesentem tractatum utilia non putavit. Breviter tamen utraque definienda sunt. Multivoca sunt quorum plura nomina una definitio est, ut est scutum, clypeus: his enim plura nomina sed una definitio est; et Marcus Porcius Cato, his enim tot nominibus res una subiecta est. Diversifica sunt quorum neque nomen idem est, neque eadem definitio, ut homo, color, et quid. quid omnino a se et nominis nuncupatione et definitionis ratione discretum est. EORUM QUAE DICUNTUR ALIA QUIDEM SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR, ALIA VERO SINE COMPLEXIONE. ET EA QUAE SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR SUNT UT HOMO CURRIT, HOMO VINCIT; EA VERO QUAE SINE COMPLEXIONE, UT HOMO, BOS, CURRIT, VINCIT. Postquam de coniunctione definitionum atque nominum quantum ad praesens attinebat opus, sufficienter exposuit quoniam de primis nominibus prima rerum genera significantibus divisio facienda est, non nomine sed genere discrepantibus, nunc ostendit quid sit sine complexione cuiuslibet vocabuli facta prolatio. Sine complexione enim dicuntur quaecumque secundum simplicem sonum nominis proferuntur, ut homo, equus: his enim extra nihil adiunctum est. Secundum complexionem dicuntur quaecumque aliqua coniunctione copulantur, ut aut Socrates aut Plato, vel quaecumque secundum aliquod accidens coniunguntur. Nam quia, verbi gratia, in Socratem venit ambulatio, dicimus: Socrates ambulat, et est prolatio ista secundum complexionem, idcirco quia cum dico: Socrates ambulat. Socratem sum cum ambulatione complexus. Quod autem ait: EORUM QUAE DICUNTUR, nihil aliud demonstrare vult nisi de primis rerum vocabulis huius libelli disposuisse tractatum. Rerum enim vocabula sunt quae dicuntur, ipsa enim proprie nominamus. EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN SUBIECTO VERO NULLO SUNT, UT HOMO DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR ALIQUO HOMINE, IN SUBIECTO VERO NULLO EST. Hic Aristoteles sermonum omnium multitudinem in paruissimam colligit divisionem. Nam quod rerum vocabulam decem praedicamenta distribuit, maior hac divisione non potest inveniri, nihil enim esse poterit quod huic divisioni undecimum adiici queat. Omnis enim res aut substantia est, aut quantitas, aut qualitas, aut ad aliquid, aut facere, aut pati, aut quando, aut ubi, aut habere, aut situs; quocirca tot erunt etiam sermones qui ista significent, et haec est maxima divisio, cui ultra nihil possit adiungi: paruissima vero est quae fit in quattuor, in substantiam et accidens, et universale et particulare. Omnis enim res aut substantia est, aut accidens, aut universalis, aut particularis. Sicut ergo decem superioribus nihil addi poterat, ita ex his quattuor nihil demi. Nam neque minor ulla divisio his quattuor fieri potest, nec maior quam si denario limite praedicamenta claudantur. Cum autem in his quattuor divisio facta est, paucis exponam. Prima quidem rerum est omnium divisio in substantiam atque accidens. Sed quoniam substantia proferri non potest nisi aut universaliter aut particulariter intelligatur: nam cum dico homo, rem dixi universalem, idcirco quod nomen hoc de multis individuis praedicatur: cum vero dico Socrates vel Plato, rem dixi particularem; quoniam Socrates de nudo subiecto dicitur: et accidens quoque eodem modo; nam cum dixero scientiam, rem protuli universalem, idcirco quod scientia et de grammatica et de rhetorica, et de aliis omnibus sub se positis praedicatur; si vero dixero Platonis scientiam, quoniam omne accidens quod individua venit individuum fit, particularem scientiam dico, namque Platonis scientia, sicut ipse Plato, particularis est: igitur quoniam neque substantia neque accidens ullo modo proferri potest, nisi in suo nomine aut universalitatis vim, aut particularitatis induat, recte in quattuor divisio facta est, ut si omnis res aut substantia aut accidens, et horum aut universali, aut particularis. Ex his igitur quattuor fiunt complexiones. Nam cum venerit universalitas in substantiam, fit universalis substantia, ut est homo vel animal. Universale autem est quod aptum est de pluribus praedicari, particulare vero quod de nullo subiecto praedicatur. Ergo est una complexio universalitatis et substantiae, ut sit substantia universalis. Si vero particularis substantiae copulatur, fit substantia particularis, ut est Socrates vel Plato, et quidquid in substantia individuum reperitur. At cum miscetur universalitas accidenti, fit accidens universale, ut scientia, quae cum sit accidens, et praeter animam cui accidit esse non possit, tamen universalis est, quod de subiecta grammatica vel aliis speciebus praedicari potest. Cum vero particularitas accidenti coniungitur, fit accidens particulare, ut Platonis vel Aristotelis scientia. Fiunt enim quattuor complexiones, substantia universalis, substantia particularis, accidens universale, accidens particulare. Ut autem accidens in substantiae naturam transeat, vel substantia in accidens, fieri nullo modo potest, et accidens quidem venit in substantiam sed non ut substantia fiat: neque enim quoniam color, quod est accidens venit in substantiam, idcirco color iam substantia est. Nec quoniam substantia suscipit colorem idcirco color iam substantia fit. Quare neque substantia in accidentis, neque accidens in substantiis naturam transit. At vero nec particularitas, nec universalitas in se transeunt. Namque universalitas potest de particularitate praedicari, ut animal de Socrate vel Platone, et particularitas suscipiet universalitatis praedicationem sed non ut universalitas sit particularitas, nec rursus ut quod particulare est universalitas fiat. Ergo quattuor complexiones, universalem substantiam, universale accidens, particularem substantiam, particulare accidens Aristoteles disponere cupiens, non eorum nomina sed descriptiones apposuit. Et quoniam generalissimorum generum definitiones non poterat invenire, descriptionibus usus est his, id substantiam esse dicens quod in subiecto non esset, accidens vero quod in subiecto esset. Omne namque accidens in subiecto est, ut colore in corpore, scientia in anima, et subiectam habet substantiam omne accidens. Si quis enim substantiam tollat, accidens non erit. Quare substantia locus quidam est ubi accidentis valeat natura consistere. Ipsa vero substantia per se constat, atque ideo dicitur substantia, nec ullo subiecto alio nititur sed cunctis ipsa substantia est. Alioqui si substantia in ullo subiecto esse posset, esset accidens. Omne enim accidens in subiecto est, et quidquid in subiecto est, illud est accidens. Quod si substantia esset in aliquo subiecto, continuo fieret accidens sed substantia accidens esse non potest, sicut supra docuimus. Quare quoniam accidens in subiecto est, substantia vero accidens non est, substantia in subiecto non est. Universalitatis vero descriptio est: de subiecto praedicari. Omnis namque universalitas de subiectis particularibus praedicatur, nam quoniam universale est animal, vel homo, de Socrates praedicatur et Platone. Dicitur enim Socrates animal atque homo. Et quoniam universale est accidens scientia, dicitur de subiecta grammatica, grammatica enim scientia est. Particularitas vero quoniam ipsa est rerum ultima et nihil est illi subiectum, de nullo subiecto praedicatur; nam quoniam universalitas de subiecto praedicatur, particularitas vero universalitas non est. Particularitas de subiecto non praedicabitur. Ubi enim res discrepant, et definitio discrepabit; ita quoque in his, nam quoniam discrepat substantia et accidens, definitiones quoque eorum discrepabunt. Ut quoniam est accidens in subiecto, erit substantia non in subiecto. Et quoniam universalitas de subiecto predicatur, particularitas autem ab universalitate discrepat, de subiecto non praedicatur. Has igitur huiusmodi descriptiones Aristoteles ita permiscuit dicens: EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN SUBIECTO VERO NULLO SUNT, volens scilicet universalem substantiam demonstrare. Nam quod dixit DE SUBIECTO DICUNTUR, universale est, quod vero ait IN SUBIECTO NULLO SUNT, substantia: ergo quod ait quaedam DE SUBIECTO dici, IN SUBIECTO VERO NULLO esse, universalem substantiam demonstrare contendit: ut enim saepius dictum est, quod de subiecto dicitur, universale est; quod in nullo subiecto est, substantia. Haec iuncta, id est de subiecto quodam dici, et in subiecto nullo esse, universalem substantiam demonstrant. Post universalem substantiam particulare accidens posuit dicens:ALIA AUTEM IN SUBIECTO QUIDEM SUNT, DE SUBIECTO VERO NULLO DICUNTUR (IN SUBIECTO AUTEM ESSE DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST), UT QUAEDAM GRAMMATICA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO NULLO DICITUR, ET QUODDAM ALBUM IN SUBIECTO EST IN CORPORE (OMNIS ENIM COLOR IN CORPORE EST). Nam quod ait IN SUBIECTO SUNT accidens monstrat, quod vero addidit DE SUBIECTO AUTEM NULLO DICUNTUR particulare. Accidens enim in subiecto est, particularitas de nullo subiecto praedicatur. Ergo quaecumque res ipsa quidem in subiecto est sed si de nullo subiecto praedicatur, accidens est particulare, UT est QUAEDAM GRAMMATICA, id est Aristarchi, vel alicuius hominis individua grammatica: illa enim quoniam individui hominis, ipsa quoque facta est individua et particularis; ergo quoniam QUAEDAM GRAMMATICA IN ANIMA EST accidens est, et quoniam DE NULLO SUBIECTO praedicatur, particularis est; quemadmodum enim ipse Aristarchus de nullo subiecto dicitur, ita quoque eius grammatica de nullo subiecto praedicatur. Non autem dicit quod ipsa grammatica particularis est sed quod quaedam grammatica, id est alicuius hominis individui grammatica, quam scilicet homo particularis propria retinet cognitione. Et quoniam incorporale accidens posuit quod animae accideret, id est grammaticam, quae esset in anima; ponit quoque aliud exemplum corporale; ait enim ET QUODDAM ALBUM IN SUBIECTO EST <IN> CORPORE (OMNIS ENIM COLOR EST IN CORPORE): hic quoque non omne album dicit esse particulare sed quod ad individuum corpus album venit. Probatur quoque particulare album in subiecto esse hoc modo, nam color quod genus est albi vel cuiusdam albi in corpore est, et est in subiecto. Quare cuius genus in subiecto est, ipsum quoque in subiecto est. Omnes enim species vel individua propria genere continentur, et eiusdem habent naturam. Quoniam vero "esse in aliquo" multis dicitur modis, qui velit Aristoteles ostendere esse in subiecto, paucis absolvam. Dicitur enim esse aliquid in aliquo novem modis, dicimus enim esse aliquid in loco, ut in foro vel in theatro. Dicimus quoque esse in aliquo, ut in aliquo uase, ut triticum in modio. Dicitur etiam esse in aliquo velut pars in toto, ut manus in corpore. Dicitur esse in aliquo velut totum in partibus, ut corpus in omnibus suis partibus. Rursus velut in genere species, ut in animali homo, vel genus in speciebus suis. Dicimus quoque esse in aliquo, velut aliquid in fine esse, ut quoniam bonae vitae finis beatitudo est, si quis sit beatus; in fine est, scilicet bonae vitae. Dicimus quoque esse in aliquo ut in quolibet potente, ut in imperatore esse regimen civitatis. Dicimus quoque velut formam in materia, ut similitudinem Achillis in aere vel in marmore. Novem igitur modis aliquid in aliquo esse dicitur, ut in loco, ut in uase, ut pars in toto, ut totum in partibus, ut in genere species, ut in speciebus genus, ut in fine, ut in imperatores, ut in materia forma. Horum igitur Aristoteles tria sola commemorat sed duo in unum coniuncta, aliud separatum. Ait enim: IN SUBIECTO AUTEM ESSE DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST. Sensus autem talis est: Hoc, inquit, dico esse accidens quod sit in subiecto, id est quod ita sit in altero, ut pars eius 172D non sit et sine aliquo subiecto esse non possit, ut, verbi gratia, color cum in corpore nulla pars corporis est, et si color a corpore separatur, color nusquam est. Omnis enim color in solo corpore est. Ergo illud est accidens quod semper ita in subiecto est altero ut eius pars non sit, ut cum ab eo in quo est separatur ad nihilum redigatur, ut per se sine alterius subiecto esse non possit. Quod autem ait ut NON SIT SICUT ALIQUA PARS, ab ea scilicet significationem aliquo consistendi dividere voluit, secundum quam partes in toto esse dicimus, non enim tale est subiectum, ut eius accidens pars sit. Quod vero dicit IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST, ab ea scilicet significatione divisit, quae est esse aliquid in uase vel in loco; quod enim in uase vel in loco est a uase vel loco poterit separari, ut triticum quod in modio est potest a modio segregari, et homo a theatro discedere: accidens vero ab eo in quo est segregari non potest. Quare solas tres posuit significationes, id est secundum quam in uase, vel in loco dicitur esse, et secundum quam pars in toto est. Sed ut in uase et ut in loco una sententia distribuit dicens IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST. Sed fortasse quis dicat non esse definitionem veram, illa esse in subiecto quae sic sint in alio non ut sint partes, et sine eo in quo sint esse non possint, Socrates enim vel homo quilibet cum accidens non sit, tamen semper in loco est et sine loco esse non potest. Quibus respondendum est quod Socrates loca poterit permutare, et esse praeter locum in quo fuit: et postremo si intelligentia capiamus, per se subsistit, accidentia vero per se ipsa non constant. Sed si quis quoque obiiciat posse locum accidentia permutare, malum namque si in manu teneatur, manus mali odore completur, adeo odor quod est accidens, in aliud subiectum transire potest. Sed non hoc ait Aristoteles, quoniam mutare accidens locum non potest, nec ita dixit impossibile esse sine eo in quo erat sed sine eo in quo est, hoc enim significat mutare quidem posse locum sed sine aliquo subiecto non posse subsistere. Quare recta est atque integra definitio eius quod in subiecto est, quod ita sint in altero non sicut quaedam pars, et impossibile sit esse sine eo in quo est, secundum autem illam significationem dictum est secundum quam formam in materia esse dicimus. Namque forma, si in materia sit, per seipsam nulla ratione consistit. Postquam igitur particulare accidens quid esset ostendit dicens, quod in subiecto est et de subiecto non praedicatur, et in subiecto consistentis rei definitionem reddit dicens: QUOD CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST. Ad universale accidens continenti disputatione reuertitur quod definit hoc modo: ALIA VERO ET DE SUBIECTO DICUNTUR ET IN SUBIECTO SUNT, UT SCIENTIA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO DICITUR DE GRAMMATICA; ALIA VERO NEQUE IN SUBIECTO SUNT NEQUE DE SUBIECTO DICUNTUR, UT ALIQUIS HOMO VEL ALIQUIS EQUUS; NIHIL ENIM HORUM NEQUE IN SUBIECTO EST NEQUE DE SUBIECTO DICITUR. Namque post eius rei quae in subiecto est definitionem, et post particularis accidentis exempla, ad universale accidens transitum fecit, inquiens alia esse quae in subiecto sint, et de subiecto praedicentur, quod scilicet accidens universale significet: nam quoniam de subiecto dicitur, universale est, quoniam in subiecto est, accidens; in subiecto ergo esse, et de subiecto praedicari, universale accidens monstrat. Huius quoque complexionis convenientia proponit exempla: ait enim SCIENTIAM IN SUBIECTO ESSE IN ANIMA, nam nisi anima sit in qua scit, scientia nulla est, idcirco quod scientia actus est animae, nam ea quae sunt inanimata nihil sciunt. Hinc sequitur substantiae particularis propositio, quam scilicet ita declarat, quod NEQUE IN SUBIECTO sit, NEQUE DE SUBIECTO praedicetur, nam quod in subiecto non est, substantia est, et quod de subiecto non praedicatur, particularitas. Utraque igitur res de subiecto non praedicari, et in subiecto non esse, particularis est substantia. Res igitur quattuor cum propria complexione non secundum propria nomina sed secundum 174A proprias rationes definitionesque contexuit. Nam pro substantia universali posuit quod in subiecto non est et de subiecto praedicatur; pro accidenti particulari dixit quod in subiecto est et de subiecto non praedicatur. Accidens vero universale per hoc designavit quod ait quod et in subiecto est et de subiecto dicitur; pro particulari substantia interposuit quod nec in subiecto est nec de subiecto praedicatur. Simpliciter autem quae sunt individua et numero singularia de subiecto nullo dicuntur; in subiecto autem nihil ea prohibet esse, quaedam enim grammatica in subiecto est. Omnis particularitas aut substantia erit aut accidens; nam cum dico Socratem, individuam et particulare in significavi substantiam; cum dico quamdam grammaticam, individuum et particulare accidens dixi. Individua autem sunt quae neque in alias species dividi possunt, neque in alia individua. Nam quemadmodum animal dividitur in species, hominem atque equum, homo autem in singulos homines, id est in Socratem et Platonem et caeteros, sic Plato et Socrates non dividuntur in alios. Atque hoc idem de accidentibus dici convenit: nam quemadmodum scientia dividitur in species, grammaticam et rhetoricam; grammatica vero ipsa in particulares grammaticas, quas scilicet particulares homines norunt, sic ipsa particularis grammatica in particulares grammaticas non secatur. Ergo individua sunt quaecumque sunt numero singularia, et in nullas alias multitudines secundum species vel secundum individua dividuntur. Omne individuum, quoniam particulare est, de subiecto non praedicatur; omne autem quod de subiecto non praedicatur, aut substantia erit, ut Plato, aut accidens, ut quaedam grammatica. Ex his ergo particularibus substantia scilicet atque accidenti quae de subiecto non praedicantur, substantia quidem nec in subiecto est, accidens vero in subiecto est. Ita illa individua quae substantiae sunt in subiecto esse non poterunt, alia vero individua quae secundum accidentis naturam dicuntur, illa in subiecto esse nihil prohibet. Atque hoc est quod ait: SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA NULLO DE SUBIECTO DICUNTUR, IN SUBIECTO AUTEM NIHIL EA PROHIBET ESSE; QUAEDAM ENIM GRAMMATICA IN SUBIECTO EST. Hoc enim maluit demonstrare, et accidentibus substantiis particularibus hoc esse commune, quod de subiecto non praedicantur. Hoc enim dixit: SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA, DE NULLO SUBIECTO DICUNTUR -- subaudiendo scilicet sive substantiae sint sive accidentia sed non omnia individua non sunt in subiecto. Individua enim accidentia IN SUBIECTO ESSE NIHIL PROHIBET. QUAEDAM ENIM GRAMMATICA, cum sit individua et de subiecto non praedicetur, tamen IN SUBIECTO EST, id est in anima. Sed ut congregatim dicatur, sensus huiusmodi est, omnia quidem quaecumque sunt individua, de subiecto quidem nullo dicuntur sed non omnia non sunt in subiecto. Nam cum particularis substantia in subiecto non sit, ut Plato, particulare tamen accidens in subiecto est, ut quaedam grammatica in anima. Illud quoque magna attentione notandum est, quis sit huius ordo propositi. Nam cum sint quattuor complexiones, factae ex quattuor rebus, quarum duae natura discrepant, ut substantia et accidens, duae quantitate, ut particularitas et universalitas coniunctis compositisque his quattuor omnibus, dissentientem lateribus dispositionem fecit. Posuit enim prius substantiam universalem dicens, quod in subiecto non est et de subiecto dicitur. Post hanc primam positionem totis discrepantem rebus, rem subdit, id est accidens particulare, quod in subiecto esset, et de subiecto non praedicatur. Nam cum accidens dixit, a substantia disgregavit, quod particulare addidit ab universali disiunxit. Rursus ex alio latere disposuit in divisione accidens universale, dicens quod in subiecto est, et de subiecto praedicatur; et ultimo substantiam particularem contrariam superiori accidenti dixit, quod neque in subiecto est, neque de subiecto praedicatur substantia, particularitem universalitati accidentis opponens. Sed ut planius quod dicimus sit, figuram descriptionemque subiecimus in qua superius latus substantia accidentique notavimus, reliquum particularitatis et universalitatis titulo inscripsimus, Arisiotelicam complexionem angulariter et per latera designantes. QUANDO ALTERUM DE ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR, UT HOMO DE QUODAM HOMINE PRAEDICATUR, ANIMAL VERO DE HOMINE, ERGO ET DE QUODAM HOMINE ANIMAL PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM HOMO ET HOMO EST ET ANIMAL. Cum superius de his quae in subiecto sunt (id est de accidentibus) loqueretur, definitionem constitutae in subiecto rei, et praeter subiectum nullo modo permanentis, in media tractatione disposuit, dicens illud esse quod neque pars esset alicuius nec sine subiecto posset ullo modo permanere. Patefacto igitur quid sit esse in subiecto, nunc quid sit praedicari de subiecto declarat. Duobus enim modis praedicationes fiunt, uno secundum accidens, alio de subiecto: de homine namque praedicatur album, dicitur enim homo albus, rursus de eodem homine praedicatur animal, dicitur enim homo animal. Sed illa prior praedicatio, quae est. Homo albus est secundum accidens est: namque accidens quod est album de subiecto homine praedicatur sed non in eo quod quid sit, nam cum album sit accidens, homo substantia, accidens de substantia in eo quod quid sit praedicari non potest; ergo ista praedicatio secundum accidens dicitur. De subiecto vero praedicari est, quoties altera res de altera in ipsa substantia praedicatur, ut animal de homine; nam quoniam animal et substantia est et genus hominis, idcirco in eo quod quid sit de homine praedicatur. Quare illa sola de subiecto praedicari dicuntur quaecumque in cuiuslibet rei substantia et in definitione ponuntur; ergo quotiescumque huiusmodi fuerit praedicatio, ut ALTERUM DE ALTERO UT DE SUBIECTO PRAEDICETUR, id est ut de eius substantia dicatur, ut animal de homine, hanc proprietatem evenire necesse est, ut si DE EO QUOD PRAEDICATUR, quidpiam UT DE SUBIECTO, id est eius substantia, praedicetur necessario idem hoc quod de praedicato dicitur, dicatur etiam de praedicati subiecto, ut homo praedicatur quidem de Socrate in eo quod quid sit. Interrogantibus enim quid sit Socrates "hominem" respondemus. At vero de ipso homine in eo quod quid sit animal dicitur, in substantia enim hominis animal praedicatur, atque ita fit ut animal quidem de homine, homo vero de Socrate in eo quod quid sit ut de subiecto praedicentur. Ergo quoniam ista consequentia, et animal de Socrate in eo quod quid sit praedicabitur. Potest enim dici interrogantibus quid est Socrates "animal". Ergo manifestum est quod si qua res de alia ut de subiecto praedicetur, ut homo de Socrate, de eadem vero re quae praedicatur, de homine scilicet, alia rursus superior ut de subiecto praedicetur, ut animal necesse erit et hanc eamdem de subiecto eius de quo ipsum dicitur praedicari, ut animal de Socrate, Socrates namque subiectus est homini, de quo animal praedicatur. Ergo constat huiusmodi definitio quae dicit: quoties ALTERUM DE ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, si quid sit quod DE EO QUOD PRAEDICATUR in eo quod quid sit dici possit, hoc idem ipsum de eo quod prius subiectum erat possit praedicari. Sed fortasse quisquam dicat minime verum esse quod dictum est, nam cum homo de Socrate praedicetur (Socrates enim homo est), de homine vero species (homo enim species est), Socrates species esse non dicitur. Et rursus cum animal de homine praedicetur, de animali vero genus (animal enim genus est), homo generis vocabulo caret: non enim dicitur homo esse genus, homo enim genus non est sed tantum species. His dicendum est quod minus adverterint illam esse definitionem de subiecto praedicationis, quae in eo quod quid sit unumquodque et in eius substantia praedicaretur, nunc autem species de homine non in eo quod quid sit praedicatur. Neque enim si quis hominis definitionem reddat speciem nominavit sed designativam nomen est tantum, utrum de pluribus speciei differentibus praedicatur hoc nomen quod est homo, an certe tantum de solis individuis. Nam quoniam de individuis solis homo praedicetur, idcirco species dicitur, et quoniam de specie differentibus animal dicitur, idcirco animal genus vocamus. Et sunt quodammodo nominum nomina. Quare neque genus de animali, neque species de homine, in eo quod quid sit praedicatur sed tantum designant, quomodo homo et animal de subiectis (ut dictum est) propriis praedicentur. Ergo non est mirandum si ad eorum subiectum quae de subiecto dicuntur eius predicati quod de subiecto non dicitur praedicatio perveniri non potest. DIVERSORUM GENERUM ET NON SUBALTERNATIM POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET DIFFERENTIAE SUNT, UT ANIMALIS ET SCIENTIAE; ANIMALIS QUIDEM DIFFERENTIAE SUNT UT GRESSIBILE ET VOLATILE ET BIPES, SCIENTIAE VERO NULLA HARUM EST; NEQUE ENIM SCIENTIA AB SCIENTIA DIFFERT IN EO QUOD BIPES EST. Cum multis modis genus dicatur, solum quod nunc tractari convenit assumamus. Dicitur enim genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut animal praedicatur de homine, et de equo, et de cane, et de bove, et de caeteris, quae omnia specie ipsa a se discrete sunt. Species vero est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo praedicatur de Catone, Socrate, Platone, Virgilio, Cicerone, et de singulis hominibus, qui specie ipsa non differunt sed tantum a se numero distant. Differentia vero est quae sub eodem genere positas species propria qualitate disterminat, nam cum equus et homo quantum ad genus unum sint (uterque enim animal est), differentia rationalis et irrationalis utrosque disiungit ac discernit. Qualitate enim quadam rationabilitatis et irrationabilitatis uterque a propriae substantiae definitione dissentiunt. Ergo differentia est quae de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Namque haec ipsa differentia quae est irrationabilitas de multis specie differentibus praedicatur, ut de cygno, et equo, et pisce, quae omnia a se cum specie ipsa dissentient, irrationabilitatis tamen qualitate coniuncta sunt. Sed non in omnibus differentia de pluribus specie differentibus praedicatur. Sunt enim quaedam quae non nisi de una specie praedicantur, ut gravitas de sola terra, levitas de solo igne, proprie dicitur. At vero nec species semper de pluribus numero differentibus praedicatur; mundi enim species de uno solo mundo dicitur, et phoenicis species de una tantum phoenice sed idcirco ita definita est quod frequentius differentia de pluribus specie differentibus praedicatur quam de uno. Eodemque modo et species frequentius invenitur de pluribus numero differentibus praedicari, quam de una tantum re ac singulari. His ita positis, sunt quaedam genera, quae generalissima nuncupantur, quibus genus inveniri non possit, sunt species quibus alias subiectas species nullus inveniet. Inter utraque autem sunt alia quae subalterna genera nominantur, quae superiorum quidem species sunt, posteriorum vero genera ut substantia genus quidem est generalissimum, ut eius genus inveniri non possit, homo vero species est, ut eius species alia reperiri non valeat. Animal vero ad substantiam quidem species est, ad hominem vero genus. Decem igitur praedicamentorum significatio nihil aliud demonstrat nisi rerum decem genera quae generalissima nominamus. Ergo quoties genera generalissima discrepant, eorum quoque species discrepabunt; et quoties species discrepant, quoniam differentiis disiunguntur atque informantur, differentiae quoque diversarum specierum discrepabunt. Animal namque et scientia, quoniam est animal substantia, scientia vero ad aliquid, quoniamque genus animalis est substantia, et genus scientiae est ad aliquid, omni substantiae a se ratione discreta sunt, et differentiae quoque scientiae atque animalis omnibus qualitatibus disiunguntur. Est namque differentia animalis, bipes et quadrupes, animal enim ab alio animali differt, quod hoc quidem bipes sit, ut homo vel avis, illud vero quadrupes, ut equus atque bos; illud vero multipes, ut formica vel apis. Sed scientia differentiis huiusmodi non habet, neque enim scientia a scientia differt in eo quod bipes est. Quare constat quoties diversa sunt genera, specierum quoque differentiis esse discretas. At hoc est quod ait: DIVERSORUM GENERUM ET NON SUBALTERNATIM POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET DIFFERENTIAE SUNT. Et hoc exempli adiectione firmavit dicens: ANIMALIS ET SCIENTIAE diversas esse differentias, nam cum sit bipes animalis differentia, scientiae non est. Et hoc quidem de diversis generibus dictum est, id est quae subalterna non sunt. Quod si subalterna sunt genera, nihil prohibet alias easdem esse differentias, alias diversas, ut avis est species animalis, et rursus est genus corui, et est subalternum genus, avis. Sed animalis differentiae sunt rationalis atque irrationalis, avis vero differentia rationalis non est. Nulla enim avis ab alia avi differt, quod sit rationalis; ergo hoc loco non sunt eaedem subalternorum generum differentiae. Si quis vero has generis, id est animalis differentias dicat, ut animalium alia sunt quae pascantur herbis, alia quae seminibus, alia quae carnibus, hae differentiae conveniunt in subalterno genere, videlicet in avi; namque avium sunt aliae quae seminibus uescuntur, aliae quae herbis, aliae quae carnibus, ut uultur et miluus; ergo in subalternis generibus nihil prohibet easdem esse differentias, et iterum discrepare; hoc autem idcirco evenit, quia quae de praedicato dicuntur possunt de subiecto praedicari. Quare quod dicitur de genere potest etiam dici de specie, atque hoc est quod ait: SUBALTERNORUM VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS; SUPERIORA ENIM DE INFERIORIBUS GENERIBUS PRAEDICANTUR. Sed cum diceret nihil prohibet easdem esse differentias, hoc quodam modo voluit de monstrare esse quasdam easdem differentias, alias vero posse esse diversas, cui rem contrariam intulisse videtur, cum dicit: QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM ERUNT ETIAM SUBIECTI. Nam cum illic dixisset, nihil prohibet esse easdem differentias generum subalternorum, hic omnes easdem esse declarat, dicit enim: QUAECUMQUE FUERINT DIFFERENTIAE PRAEDICATI, EASDEM ETIAM SUBIECTI esse; atque haec res plures maximis illigavit 179A erroribus, ut emendandum crederent locum non ut esset ita. QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM ERUNT ETIAM SUBIECTI sed ut hoc modo. Quare quaecumque subiecti differentiae fuerint, eaedem erunt etiam praedicati. Sed hoc adiiciendum est, neque enim fieri potest ut in rem superiorem praedicatio posterioris redundet. Nam cum dicitur "quaecumque subiecti fuerint differentiae eaedem erunt praedicati", hoc scilicet significatur, ut praedicatio subiecti redeat in praedicatum -- quod fieri non potest. Sed dicendum est quod sunt aliae differentiae quae dicuntur completivae praedicati et cuiuslibet illius speciem informantes, quae communi nomine 'specificae' nominantur. Nam cum dico animatum et sensibile, si substantiae coniungantur, definitionem et speciem mox animalis efficiunt. Animal enim est substantia animata sensibilis, atque hae differentiae dicuntur specificae et completivae. Sunt autem aliae quae ipsae quidem nihil complent nec ullam speciem reddunt sed genus tantum dividunt, ut rationale et irrationale: haec enim dividunt genus, id est animal; animal enim rationali differentia irrationalique dividitur. Ergo illae quae sunt generis divisivae differentiae possunt aliquoties eaedem esse, possunt aliquoties non eaedem, ut animalis, quoniam divisibilis est differentia quae est rationale, potest eam non habere avis, quae est subalternum genus. Et rursus easdem divisibiles habere potest, ut easdem quas superius diximus. Nam cum dividant animal differentiae, quae carnibus, herbis, et seminibus uescuntur, eaedem possunt esse subalterni generis, id est avis; ergo hae divisibiles 179C possunt etiam esse diversae. Illae vero quae completivae et specificae sunt, aliquando non praedicari de subiecto non possunt. Ut quoniam animal habet differentias completivas et suae speciei effectivas, sensibile scilicet et animatum, hae differentiae de homine quod est subiectum animalis non praedicari non possunt. Omnes enim specificae differentiae de his praedicantur quorum speciem complent, ut de animali praedicatur sensibile et animatum, et hoc ut de subiecto. In substantia enim animalis utraque praedicantur sed animal praedicatur de homine ut de subiecto; necesse est ergo animatum atque sensibile de homine praedicari ut de subiecto. Hoc est enim quod superius praemisit cum diceret: QUANDO ALTERUM DE ALTERO 179D PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR. Atque hoc in omnibus generibus recte constat intelligi. Ergo divisibiles differentiae possunt aliquando cum subiectis esse communes, aliquando diversae specificae vero et completivae cum subiectis communes non esse non possunt. Quod ergo Aristoteles ait: SUBALTERNORUM VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS divisibiles differentias easdem esse nihil prohibere putandum est, quae possunt esse etiam diversae. Quod ait vero: QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FUERINT, EAEDEM ERUNT ETIAM SUBIECTI de specificis intelligendum est: quae cum speciem cuiuslibet informent, et de eo quod informant, ut de subiecto, praedicentur, ad quodcumque ut subiecto praedicatur illud quod ipsae differentiae informant, de eo ut de subiecto praedicabuntur, et de eo non praedicari non possunt. Quare nihil est in huiusmodi theoremate quod ullo modo debeat emendari. EORUM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT AUT QUANTITATEM AUT QUALITATEM AUT AD ALIQUID AUT UBI AUT QUANDO AUT SITUM AUT HABITUM AUT FACERE AUT PATI. EST AUTEM SUBSTANTIA QUIDEM UT FIGURATIM DICATUR UT HOMO, EQUUS; QUANTITAS UT BICUBITUM, TRICUBITUM; QUALITAS UT ALBUM; AD ALIQUID UT DUPLUM, MAIUS; UBI VERO UT IN LYCIO; QUANDO AUTEM UT HERI; SITUS VERO UT SEDET, IACET; HABERE AUTEM UT CALCIATUS, ARMATUS; FACERE VERO UT SECARE, URERE; PATI VERO UT SECARI, URI. Post paruissimam in quattuor enumerationem, id est in substantiam, accidens, universalitatem, particularitatem, nunc est de partitione maxima tractaturus, quae fit in decem; hac enim enumeratione maior non potest inveniri, neque enim undecim praedicamenta poterunt inveniri nec ultra decem ullo modo aliquod genus recte excogitari potest; quare 180C facit huiusmodi enumerationem sed non divisionem. Divisio namque fere est generis in species; praedicamentorum vero, quoniam genus unum non habent, divisio esse non potest sed potius enumeratio est. Sunt vero quidam qui contendunt recte enumerationem non esse dispositam, alii namque ut superuacua quaedam demunt, alii ut curto operi addunt, alii vero permutant, quos nimirum non recte sentire alio nobis opere dicendum est; ait autem: EORUM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR. Adeo non de rebus sed de vocibus tractaturus est, ut diceret DICUNTUR. Res enim proprie non dicuntur sed voces: et quod addidit, SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT, late patet eum de vocibus disputare; non enim res sed voces significant, significantur autem res. Sine complexione vero dicuntur (ut dictum est) quaecumque 1singulari intellectu et voce proferuntur: secundum complexionem vero quaecumque aliqua coniunctione vel accidentis copulatione miscentur. Sed quid ex iis quae secundum nullam complexionem dicuntur efficitur, ipse demonstrat cum dicit: SINGULA IGITUR EORUM QUAE DICTA SUNT IPSA QUIDEM SECUNDUM SE IN NULLA AFFIRMATIONE DICUNTUR, HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT. VIDETUR ENIM OMNIS AFFIRMATIO VEL FALSA ESSE VEL VERA; EORUM AUTEM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR NEQUE VERUM QUICQUAM NEQUE FALSUM EST, UT HOMO, ALBUM, CURRIT. Significat ergo et hic ea quae sine ulla complexione dicuntur affirmationis vim non obtinere. Si quis enim dicat homo, vel album, vel decem, vel quidlibet simplici modo, in eo neque verum aliquid inveniet neque falsum sed omnis affirmatio vel vera vel falsa est. Igitur universaliter pronuntiat praedicamenta affirmationis ratione penitus non teneri: sed haec eadem si cum quadam complexione coniuncta sint fieri propositiones necesse est, quae in se verum falsumue contineant, Sed non omnis complexio propositionem facit, nec si dixero: Socrates in foro idcirco iam propositio est; sed si quis dicat: Socrates in foro ambulat tunc fit propositio, quae aut affirmatio est aut negatio. Affirmationes autem et negationes, vel verae videntur esse vel falsae: atque ideo quodcumque neque verum neque falsum est, illud propositio non est. Ergo quadam complexione ex iis quae secundum nullam complexionem dicuntur veritas falsitasque conficitur. Affirmationem autem solam nunc Aristoteles interposuit, idcirco quod omnis affirmatio prior est; hoc enim negatio tollit quod affirmatio ante constituit: prius quidem secundum significationem sed non secundum genus, quod alio liquebit loco. Maxime autem monstrat Aristoteles se non de rebus sed de vocibus tractaturum, quod ait: HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT; non enim rerum complexione fit affirmatio vel negatio sed sermonum, nec in rebus est veritas et falsitas sed in intellectibus atque opinionibus, et post haec in vocibus atque sermonibus. Atque haec hactenus. Secundum complexionem ergo sunt quaecumque ex integris compositis fiunt, ut: Socrates ambulat nam et Socrates et ambulat uterque integer sermo est, et coniunctus affirmationem facit. At vero si quis dicat flammiger, vel multisonus, vel fluctivagus, secundum complexionem non erit ista prolatio, idcirco quod ex neutris integris factum est. Horum autem decem praedicamentorum definitiones inveneri non possunt, idcirco quod ea quae significant generalissima sunt. Substantia enim et quantitas, et qualitas nulli unquam generi videntur esse subiecta. Quare quoniam definitio omnis a genere ducitur, genus quod alii generi subiectum non est a definitione relinquitur. Sed nunc quidem omnium praedicamentorum convenientia dixit exempla, post vero latius de unoquoque tractabitur: et quoniam definitio inveniri nulla potest, quibusdam proprietatibus informantur, quare quoniam de his dictum est plene, ad tractatum substantiae transeamus.SUBSTANTIA AUTEM EST, QUAE PROPRIE ET PRINCIPALITER ET MAXIME DICITUR, QUAE NEQUE DE SUBIECTO PRAEDICATUR NEQUE IN SUBIECTO EST, UT ALIQUI HOMO VEL ALIQUI EQUUS. SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET HARUM SPECIERUM GENERA; UT ALIQUIS HOMO IN SPECIE QUIDEM EST IN HOMINE, GENUS VERO SPECIEI ANIMAL EST; SECUNDAE ERGO SUBSTANTIAE DICUNTUR, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL. Quaeritur cur praedicamentorum tractatum a substantiis inchoaverit, nam quoniam omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est, quidquid in subiecto est eget subiecto, quoniam in propriis natura non potest consistere: et quoniam rebus omnibus substantia subiecta est, nihil eorum quae sunt in subiecto praeter substantiam poterit permanere. Sed prior illa natura est sine qua alia esse non possunt, quocirca prior naturaliter videtur esse substantia; non absurde igitur in disputatione quod prius per naturam fuit, prius etiam sumpsit, et definitionem quidem substantiae proferre non potuit sed post exemplum superius datum descriptionem quamdam profert qua quid sit ipsa substantia queamus agnoscere: hoc est autem non esse in subiecto, substantia enim in subiecto non est. Facit autem quamdam substantiarum divisionem cum dicit alias primas esse substantias alias secundas: primas vocans individuas, secundas vero individuarum species et genera: Ergo cum primis secundisque subtantiis commune sit 'non esse in subiecto', additum primis substantiis 'de subiectis non praedicari' primas substantias a secundis substantiis separat; substantia enim individua, in eo quod est substantia, in subiecto non est: quod autem individua est, de subiecto non praedicatur. Sunt ergo primae substantiae quae neque in subiecto sunt neque de subiecto dicuntur, ut est Socrates vel Plato. Hi enim quoniam substantiae sunt, in subiecto nullo sunt. Quoniam vero particulares individuique sunt, de nullo subiecto praedicantur. SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE sunt quibus commune est cum primis substantiis quod in subiecto non sunt, proprium vero quod de subiecto praedicantur, quae secundae substantiae sunt universales, ut est homo atque animal; homo namque et animal in nullo sunt subiecto sed de subiecto aliquo praedicantur. Sunt igitur primae substantiae particulares, secundae universales. PROPRIE autem substantias individuas dicit quod hominem quidem idem ipsam speciem, et animal, quod est genus, non nisi ex individuorum cognitione colligimus. Quare quoniam ex singulorum sensibus generalitas intellecta est, merito "propriae substantiae" individua et singula nominantur. PRINCIPALITER vero individuae substantiae dictae sunt quod omne accidens prius in individua, post vero in secundas substantias venit. Nam quoniam Aristarchus grammaticus est, homo vero est Aristarchus, est homo grammaticus: ita prius omne accidens in individuum venit, secundo vero loco etiam in species generaque substantiarum accidens illud venire putabitur. Recte igitur quod prius subiectum est, hoc substantia PRINCIPALITER appellatur. MAXIME autem substantia prima dicitur, idcirco quod quae maxime subiecta est rebus aliis, ea maxime substantia dici potest: maxime autem subiecta est prima substantia; omnia enim de primis substantiis dicuntur, aut primis substantiis insunt, ut genera et species: namque et genera et species praedicantur de propriis individuis, ut animal atque homo praedicantur de Socrate, id est secundae substantiae de primis: sin vero sint accidentia, in primis substantiis principaliter sunt. Quare quoniam et accidentia in primis substantiis principaliter sunt, et secundae substantiae de primis substantiis praedicantur, primae substantiae secundis substantiis accidentibusque subiectae sunt. Quare quoniam istae maxime subiectae sunt et accidentium subsistentiae et secundarum substantiarum praedicationi, idcirco maxime substantiae nuncupantur. Dicit autem non omnis species neque omnia genera secundas esse substantias sed eas tantum quae primas substantias continerent, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL; homo namque continet Socratem, id est aliquam individuam substantiam. Animal vero continet individuum speciemque, id est hominem et aliquem hominem. Quare genera et species quae de primis substantiis praedicantur, ipsas secundas putat esse substantias; hoc autem hoc modo ait: SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET HARUM SPECIERUM GENERA et inde convenientia ponit exempla, ac si diceret: Non omnia genera neque omnes substantias dico sed eas tantum species IN QUIBUS individua illa, id est primae substantiae sunt, ET HARUM SPECIERUM, id est quae continent primas substantias, GENERA. Hoc autem idcirco dictum videtur, ne quis colorem quod genus est, vel album quod est species, secundas pPomba esse substantias, ista enim primas sub se non continent. Sed dicat aliquis quemadmodum primae poterunt esse substantiae individuae, cum omne quod prius est sublatum auferat id quod est posterius, posterioribus vero sublatis priora non pereant? Homo namque si pereat, Socrates quoque sit continuo periturus; si vero Socrates interierit, homo continuo non peribit. Si igitur, sublatis generibus et speciebus, individua perimuntur, sublatis individuis, generas, speciesque permanent, magis primas substantias species et genera nominari dignum fuit. Sed hoc modo individuorum natura non recte accipitur. Neque enim cuncta individuorum substantia in uno Socrate est, vel quolibet uno homine sed in omnibus singulis. Genera namque et species non ex uno singulo intellecta sunt sed ex omnibus singulis individuis, mentis ratione concepta. Semper etiam quae sensibus propinquiora sunt; ea etiam proxime nuncupanda vocabulis arbitramur. Qui enim primus hominem dixit, non illum qui ex singulis hominibus conficitur, concepit sed animo quemdam singularem atque individuum cui hominis nomen imponeret. Ergo sublatis singulis hominibus homo non remanet, et sublatis singulis animalibus animal interibit. Quocirca quoniam in hoc libro de vocabulorum significatione tractatus habetur, ea quibus vocabula prius posita sunt, merito primas substantias nuncupavit: prius autem illis vocabula sunt indita quae prius sub sensibus cadere potuerunt. Sensibus vero obiiciuntur prima individua, merito igitur ea prima in divisione posuit. Eodem quoque modo illa quaestio solvitur quae dicit: Cum naturaliter primae intellectibiles sint substantiae, ut Deus et animus, cur non has primas substantias nuncupaverit? Quoniam hic de nominibus tractatus habetur, nomina autem primo illis indita sunt quae principaliter sensibus fuere subiecta, posteriora vero in nominibus ponendis putantur quaecumque ad intelligibilem pertinent incorporalitatem; quare quoniam in hoc opera principaliter de nominibus tractatus est, de individuis vero substantiis quae primae sensibus subiacent prima sunt dicta vocabula in opere quo de vocabulis tractabatur, merito individuae sensibilesque substantiae primae substantiae sunt positae. Cum autem tres substantia sint, materia, species, et quae ex utriusque conficitur undique composita et compacta substantia, hic neque de sola specie, neque de sola materia sed de utrisque mistis compositisque proposuit. Partes autem substantiae incompositae et simplices sunt ex quibus ipsa substantia conficitur, species et materia, quas post per transitum nominat, dicens substantiarum partes et ipsa esse substantias. Atque haec hactenus. Nunc expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT QUONIAM EORUM QUAE DE SUBIECTO DICUNTUR NECESSE EST ET NOMEN ET RATIONEM DE SUBIECTO PRAEDICARI, UT HOMO DE SUBIECTO DICITUR ALIQUO HOMINE, ET PRAEDICATUR NOMEN; NAMQUE HOMINEM DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. RATIO QUOQUE HOMINIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM HOMO ET HOMO EST. QUARE ET NOMEN ET RATIO PRAEDICABITUR DE SUBIECTO. EORUM VERO QUAE SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO PRAEDICATUR. IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE EST; UT ALBUM, CUM IN SUBIECTO SIT CORPORE, PRAEDICATUR DE SUBIECTO (DICITUR ENIM CORPUS ALBUM), RATIO VERO ALBI NUMQUAM DE CORPORE PRAEDICABITUR. CAETERA VERO OMNIA AUT DE SUBIECTIS DICUNTUR PRIMIS SUBSTANTIIS AUT IN EISDEM SUBIECTIS SUNT. HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX HIS QUAE SINGULATIM PROFERUNTUR; UT ANIMAL DE HOMINE PRAEDICATUR, QUARE ET DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR; NAM SI DE NULLO ALIQUORUM HOMINUM DICERETUR, NEC DE IPSO HOMINE PRAEDICARETUR OMNINO. RURSUS COLOR IN CORPORE EST; ERGO ET IN ALIQUO CORPORE; NAM SI IN NULLO ESSET CORPORUM SINGULORUM, NEC IN CORPORE ESSET OMNINO. QVOCIRCA CAETERA OMNIA AUT DE SUBIECTIS PRIMIS SUBSTANTIIS DICUNTUR AUT IN SUBIECTIS IPSIS SUNT. SI ERGO PRIMAE SUBSTANTIAE NON SUNT, IMPOSSIBILE EST ALIQUID ESSE CAETERORUM. Omnia quaecumque dicta sunt vel in subiecto sunt vel de subiecto praedicantur sed non omnia quaecumque in subiecto sunt de subiectis propriis dicuntur, namque quod in subiecto aliquo est de proprio subiecto praedicatur: ut album de corpore praedicatur, dicitur enim corpus album. Sed quoniam secundae substantiae primarum substantiarum vel species vel genera sunt (Socratis enim species homo est et animal genus), genus autem de subiectis speciebus et individuis univoce praedicatur, secundae substantiae de subiectis speciebus univoca praedicatione dicuntur. Convenit namque primarum et secundarum substantiarum si sit una facta definitio. Namque anima et homo et Socrates una definitione iunguntur, quod substantiae animatae atque sensibiles sunt. Igitur secundae substantiae ita de subiectis praedicantur propriis, id est de primis substantiis, ut univoce praedicentur. Illorum vero quae sunt in subiecto aliquoties quidem neque nomen ipsum de subiecto dicitur. Nam virtus in anima est sed virtus de animo minime praedicatur; aliquoties autem denominative dicitur, ut grammatica, quoniam est in homine, denominative grammaticus a grammatica dicitur. Saepe autem ipsum nomen de subiecto praedicatur, ut quoniam album est in corpore, corpus album dicitur. Sed sive nomen non praedicetur, sive denominative dicatur sive proprio nomine praedicatio sit, definitio eius quod est in subiecto de proprio subiecto nunquam praedicabitur -- ut album, quoniam est in subiecto corpore, praedicatur quidem albi nomen de corpore, definitio vero albi ad corpus nullo modo dicitur, album namque vel corpus una ratione utraque definiri non possunt. Amplius si omne accidens in subiecto est, et substantia subiectum est, differt ab accidente substantia, differt etiam definitio substantiae atque accidentis, quod eadem definitio subiecti et eius quod est in subiecto esse non potest. Atque hoc est quod ait: EORUM VERO QUAE SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO PRAEDICATUR, ut virtus in anima. Addidit quoque: IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, et in aliis quidem denominative, in aliis vero recto nomine fit praedicatio. De secundis vero substantiis semper ad primas substantias praedicatio pervenit. Nam si quidam homo et homo est et animal et caetera, una definitio animalis et ad hominem et ad quemdam hominem convenienter aptabitur. Magis tamen esse substantias individuas et particulares ipse significantius monstrat. Nam cum omnis res aut substantia sit aut accidens, et substantiarum aliae sint primae aliae secundae, fit trina partitio, ita ut omnis res aut accidens sit aut secunda substantia aut prima. Horum autem ut sub descriptione divisio fiat, hoc modo dicimus: Omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est; eorum quae in subiecto sunt alia praedicantur de subiecto alia minime; eorum quae in subiecto non sunt alia de nullo subiecto praedicantur alia vero praedicantur. Ergo omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est. Aut in subiecto est et de subiecto praedicatur, aut in subiecto est et de nullo subiecto praedicatur, aut in subiecto non est et de subiecto praedicatur, aut in subiecto non est et de nullo subiecto praedicatur. His igitur sumptis, si primas substantias separemus, remanent secundae substantiae atque accidentia. Sed secundae substantiae sunt quae in subiecto non sunt et de subiecto praedicantur. Ergo esse suum, nisi in hoc quod de aliquo praedicantur, non retinent. Praedicantur autem secundae substantiae de primis, ergo ut secundae substantia sint, praedicatio de primis substantiis causa est. Non enim essent secundae substantiae, nisi de primis substantiis, praedicarentur, illa vero quae in subiecto sunt penitus consistere non valerent, nisi fundamenti quodammodo loco primis substantiis niterentur. Ergo omnia quaecumque sunt praeter primas substantias, aut secundo substantiae erunt aut accidentia. Sed secundae substantiae de primis substantiis praedicantur, accidentia in primis substantiis sunt. Quocirca omnia aut de primis substantiis praedicantur, ut secundae substantiae, aut in primis substantiis sunt, ut accidentia, quod Aristoteles proposuit hoc modo: Alia autem omnis aut de subiectis dicuntur principalibus substantiis, aut in subiectis eisdem sunt, hic quoque verissima sumit exempla. Ait enim: Si accidens in nullo subiecto corpore esset, nec in corpore esset omnino. Nam si in nullo singulorum, in nullo generaliter esse diceretur. Et item animal nisi de singularibus atque individuis hominibus praedicaretur, nec de homine praedicaretur omnino. Quare quoniam idcirco praedicantur secundae substantiae, quoniam sunt primae, et idcirco sunt aliquid accidentia, quoniam eisdem primae substantiae subiectae sunt, si primo substantia, non sint, neque quae de his praedicantur mansura sunt, neque quae in his subiectis permanebunt. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM MAGIS EST SPECIES SUBSTANTIA QUAM GENUS; PROPINQUIOR ENIM EST PRIMAE SUBSTANTIAE. SI ENIM QUIS PRIMAM SUBSTANTIAM QUID SIT ASSIGNET, EVIDENTIUS ET CONVENIENTIUS ASSIGNABIT SPECIEM PROFERENS QUAM GENUS, UT DE ALIQUO HOMINE EVIDENTIUS ASSIGNABIT HOMINEM PROFERENS QUAM ANIMAL;  ILLUD ENIM MAGIS EST PROPRIUM ALICUIUS HOMINIS, HOC VERO COMMUNIUS. ET ALIQUAM ARBOREM ASSIGNANS, EVIDENTIUS ASSIGNABIT ARBOREM NOMINANS QUAM PLANTAM. Constat individuas substantias primas et maxime et proprie esse substantias. Secundae vero substantiae, id est genera et species, sicut non aequaliter a prima substantia distant, ita non aequaliter substantiae sunt; nam quoniam propinquior est species primae substantiae quam genus, idcirco magis est substantia species quam proprium genus, ut homo propinquior est Socrati quam animal, atque ideo magis est homo substantia. Animal vero quamquam et ipsum substantia sit, minus tamen homine; hoc autem idcirco evenit, quod in omni definitione convenientis species ad primam substantiam dicitur, quam genus. Nam si quid sit Socrates aliquis velit ostendere, propinquius substantiam Socratis proprietatemque monstrabit, si dixerit eum esse hominem, quam si animal. Quod enim animal est Socrates, commune est cum caeteris qui homines non sunt, id est cum equo atque bove. Quod vero homo est, cum nullo alio est commune, nisi cum his qui sub eadem specie hominis continentur. Quocirca propinquior erit ad significationem designatio, cum individuo species redditur, quam ei generis vocabulum praedicetur. Rursus si quamlibet individnam arborem designare aliquis volens, arborem dicat, propinquius designabit quid sit id quod definivit, quam si plantam nominet: planta autem genus est arboris; praedicatur enim planta et de iis quae arbores non sunt, ut de caulibus atque lactucis: quare constat species magis esse substantias, eo quod sint primis et maxime substantiis propinquiores. Et quod in eo quod quid sit, assignata species convenientibus et evidentius assignet, genus vero longinquius atque communius. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS SUBIACENT ET OMNIA CAETERA VEL DE IPSIS PRAEDICANTUR VEL IN IPSIS SUNT, IDCIRCO MAXIME SUBSTANTIAE DICUNTUR. QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SE HABENT, ITA SESE SPECIES HABET AD GENUS; SUBIACET ENIM SPECIES GENERI; ETENIM GENERA DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES VERO DE GENERIBUS NON CONVERTUNTUR. QVOCIRCA ETIAM EX HIS SPECIES GENERE MAGIS EST SUBSTANTIA. Magis esse substantias species validiori rursus argumentatione confirmat, per similitudinem namque hoc ita esse declarat. Nam cum omnes substantiae aut primae sint aut secundae, secundarum autem aut genera aut species, specierum atque generum quidquid similius primis substantiis invenitur, hoc magis substantia merito putabitur. Sed primae substantiae IDCIRCO MAXIMAE SUBSTANTIAE DICUNTUR, quod omnibus ita subiectae sunt, ut aut in ipsis sint caetera ut accidentia, aut de ipsis alia praedicentur ut substantiae secundae. Quod ergo in primas substantias, hoc idem in species venit. Namque species et cunctis subiacent accidentibus, et de speciebus genera praedicantur, de generibus vero species non praedicantur. Quare non similiter genera subiacent, quemadmodum species. Non enim de generibus species praedicantur. Ergo sicut primae substantiae subiectae sunt secundis substantiis et accidentibus, ita species subiectae sunt et accidentibus et generibus. Genera vero quamquam subiecta sint accidentibus, speciebus tamen ipsa non subiacent. Quocirca maior est similitudo speciei ad primas substantias, quam generis, quod si maior est similitudo specierum ad maximas substantias, ipsae erunt magis substantiae. Sed ne quis non arbitretur dicere quod ea quae sunt genera species esse non possunt sed in eo quod sunt genera, species esse non possunt. Nam in eo quod species est, de superioribus non praedicatur sed in eo quod genus, de eo praedicabitur cuius est genus. Quocirca genera ipsa 187D quorum sunt genera his subiacere non possunt, species vero quorum sunt species, de his praedicari non possunt. IPSARUM VERO SPECIERUM QUAE GENERA NON SUNT, NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM CONVENIENTIUS PROFERETUR SI QUIS DE ALIQUO HOMINE HOMINEM REDDAT QUAM SI DE ALIQUO EQUO PROFERAT EQUUM. SIMILITER AUTEM ET IN PRIMIS SUBSTANTIIS NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM MAGIS ALIQUIS HOMO QUAM ALIQUIS BOS SUBSTANTIA EST. Praedictum est quoque, ut Porphyrius in libro de generibus, speciebus, differentiis, propriis, atque accidentibus planissime docuit, alia esse solum genera, quorum genus inveniri non posset, alia solum 188A species, quae in alias species dividi non valerent. Hae autem sunt quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicantur, ut homo de singulis hominibus dicitur, et equus de singulis equis, et bos de singulis bobus, qui sub propria specie positi a seipsis propriae naturae figura non discrepant. Ergo huiusmodi species, ut est homo atque equus, quae solis individuis praesunt, quoniam genera esse non possunt, aequaliter semper substantiae sunt. Nam tam propinque redditur de quolibet individuo equo, nomen equi, quam de quolibet individuo homine, hominis nomen, Quocirca ei aequaliter species hae, quae genera non sunt, ad primas substantias sunt, aequaliter esse substantiae merito putabuntur; hoc autem dicit non quod omnes species aequaliter substantia sint sed quae aequaliter a primis substantiis distant. Potest enim fieri ut cuiuslibet superioris generis una quaelibet species sit, quae comparata ad propriam speciem minus illa superior videatur esse substantia: ut animalis si quis dicat speciem esse avem, eiusdem quoquo speciem horninem, avis et homo non aequaliter substantiae sunt, idcirco quod avis homine superior est. Homo namque in alias species non dividitur, est enim magis species. Avis autem potest in alias dividi species, ut in accipitrem et uulturem, quae quamquam aves sunt specie, tamen ipsa dissentiunt. Proprie autem species accipere ac uultur est, hi enim solis individuis praesunt. Quare homo atque accipiter aequaliter a primis substantiis distant, et sunt aequaliter substantiae. Homo vero atque avis, quoniam superior est avis homine, non aequaliter substantiae sunt, magis enim substantia homo est. Ergo quaecumque species aequaliter a suis individuis distant, aequaliter substantiae sunt. Quod quoniam species hae quae genera non sunt aequaliter a primis substantiis absunt, aequaliter substantiae dicuntur. Primum autem est, ut expositione non egeat, primas quoque substantias aequaliter esse substantias, aliquis homo enim atque aliquis equus, quoniam sunt individua, principaliter substantiae sunt, et propriae et maximae. Quocirca in maximis substantiis, neque minus, neque magis substantia poterit inveniri. Individua igitur aequaliter substantiae sunt. RECTE AUTEM POST PRIMAS SUBSTANTIAS SOLAE OMNIUM CAETERORUM SPECIES ET GENERA DICUNTUR SECUNDAE ESSE SUBSTANTIAE; EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR PRIMAS SUBSTANTIAS SOLAE SIGNIFICANT. ALIQUEM ENIM HOMINEM SI QUIS ASSIGNET QUID SIT, SI SPECIEM QUAM GENUS PROTULERIT, CONVENIENTER PROFERET, ET MANIFESTUM FACIET HOMINEM QUAM ANIMAL PROFERENS; CAETERORUM VERO QUICQUID PROTULERIT, ALIENA ERIT ILLA PROLATIO, UT ALBUM VEL CURRIT VEL QUODLIBET HUIUSMODI SI REDDAT. QUARE RECTE HAE SOLAE PRAETER CAETERA SUBSTANTIAE DICUNTUR. Ordine et convenienter post primas substantias, id est individua, genera et species secundas esse substantias constitutas monstrat Aristoteles, quae est firma atque expedita probatio; ait enim: POST PRIMAS SUBSTANTIAS RECTE GENERA ET SPECIES SECUNDAS SUBSTANTIAS ESSE NOMINATAS. In definitionibus enim ubi substantia cuiuslibet ostenditur, nihil aliud primas substantias monstrat, nisi genus et species. Socrates namque, si quis quid sit interroget, dicitur homo, vel animal, et in eo quod quid sit Socrates interrogatus, recte hominem vel animal esse respondet. Quare quid sint primae substantiae secundae monstrant, quod si quis praeter secundas substantias in interrogatione quid sit prima substantia dicat, id alienissime profert, ut si quid sit Socrates interroganti aliquis respondeat album, vel currit, vel aliquid huiusmodi, quod secunda substantia non sit, nihil convenienter unquam profert, si quid de prima substantia praeter secundas substantias dicat. Quare quoniam nihil eorum quae non sunt secundae substantiae, quid sit prima substantia declarat, secundae autem substantiae 189B genera et species sunt, recte post primas substantias species et genera secundae dicuntur esse substantiae. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS SUBIACENT, IDCIRCO PROPRIAE SUBSTANTIAE DICUNTUR; QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SESE HABENT, ITA PRIMARUM SUBSTANTIARUM GENERA ET SPECIES AD OMNIA RELIQUA SESE HABENT; DE ISTIS ENIM OMNIBUS CAETERA PRAEDICANTUR: ALIQUEM ENIM HOMINEM DICES GRAMMATICUM, ERGO ET HOMINEM ET ANIMAL GRAMMATICUM PRAEDICABIS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS. Haec quoque est de eadem re probatio, qua recte post primas substantias genera et species esse positas verissima ratione confirmat. Namque individua idcirco primae dicuntur esse substantiae, et quod aliis cunctis subiaceant. Nam quoniam secundis substantiis ad praedicationem suppositae sunt, et de his secundae substantiae dicuntur, et quoniam accidentibus ut possint esse accideutia subduntur, idcirco primae substantiae sunt. Et sicut primae substantiae cunctis subiacent accidentibus, sic etiam secundae. Nam quoniam aliquis homo accidentibus subiacet, et homo et animal accidenti supponitur, et quoniam est quidam homo grammaticus, id est Aristarchus, est homo grammaticus, est etiam animal grammaticum. Quocirca accidentibus primae substantiae principaliter subdurtur, secundae vero secundo loco, et quemadmodum primae substantiae et accidentibus et secundis substantiis subiacent, sic secundae substantiae accidentibus 189D supponuntur sed secundae substantiae species et genera sunt. Recte igitur post primas substantias species et genera secundas substantias esse proposuit. COMMUNE EST AUTEM OMNI SUBSTANTIAE IN SUBIECTO NON ESSE. PRIMA ENIM SUBSTANTIA NEC DE SUBIECTO DICITUR NEC IN SUBIECTO EST; SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE SIC QUOQUE MANIFESTUM EST QUONIAM NON SUNT IN SUBIECTO. ETENIM HOMO DE SUBIECTO QUIDEM ALIQUO HOMINE DICITUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NEQUE ENIM IN ALIQUO HOMINE HOMO EST. SIMILITER AUTEM ET ANIMAL DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR DE ALIQUO HOMINE, NON EST AUTEM ANIMAL IN ALIQUO HOMINE. Post enumerationem substantiarum et divisionem in qua alias primas, alias secundas esse proposuit, 190A quoniam substantiae definitio nulla est reddita, idcirco, quia generalissimum genus definitionibus non tenetur, proprietatem quamdam cupit exquirere, quasi signum aliquod quo substantiam queamos agnoscere, priusque quid ipsis substantiis communiter possit evenire proponit; post vero quid illis proprium sit quaerit sed idcirco ista praemittit, ut ad illud verum proprium sine ullo errore perveniat, et quod vere est substantiarum proprium ultimum dicat. Tribus autem modis proprium significatur. Est enim proprium quod alicui speciei omni evenit et non soli, ut homini bipedem esse. Omnis enim homo bipes est sed non solus, aves namque et ipsae sunt bipedes. Aut soli et non omni, ut eidem homini evenit ut sit grammaticus sed non omni homini, neque enim omnis homo grammaticus est. Aut vero tertia proprii significatio est, quae omni et soli et semper, ut risibile. Omnis enim homo risibilis est, et solum est animal homo quod rideat. Ex his igitur illa duo superiora quae diximus, ubi omni et non soli, aut soli et non omni, esse quaedam propria dicebamus, quae a propriorum veritate esse videntur aliena. Hoc vero tertium quod omni inest et soli, hoc vere est proprium, illa autem superiora consequentia quidem dicuntur, non tamen vere propria, hoc autem ultimum vere est proprium. Quaecumque ergo talia propria Aristoteles invenerit, quae aut solis et non omnibus substantiis, aut omnibus et non solis eveniant, velut non vere in natura cuiuslibet constituta repudiat. Illud vero ultimum ponit quod et omni substantiae et soli valeat evenire. Illa enim sunt propria quae convertuntur, ut si quid fuerit homo, risibile est, si quid est risibile, homo est: haec autem solum converti possunt, quae omni solique contingunt, nam neque ulli alii magis, neque ulli minus evenient; quare his praedictis ad loci ipsius orationem expositionemque veniamus. Quod ergo dicit hoc est, omnibus substantiis commune est, ut in subiecto non sint, namque primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, quod planissime his demonstratur. Nunquam enim particularis substantia alicui accidens esse potest, secundae vero substantiae habent quamdam imaginem quod sint in subiecto, videntur enim secundae substantiae in subiectis, id est primis substantiis esse sed falso, nam secundae substantiae de primis substantiis solum praedicantur, non in ipsis sunt. Animal enim de quodam homine tantum dicitur, non etiam in aliquo homine consistit, ut in subiecto. Hoc autem illa res probat, quod omnia quaecumque in subiecto sunt, eorum quoque individua in subiecto sunt, color quoniam in subiecto corpore est, et quidam color subiecto corpore nititur, in hoc vero quoniam primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, nec eorum universalia, id est secundae substantiae, quae genera speciesque sunt, possunt aliquo niti subiecto. Quare secundae substantiae primas substantias ad praedicationem tantum subiectas habent, non etiam ut ipsae primis substantiis accidant. Illud quoque maximum argumentum est secundas substantias non esse in subiecto, quoniam omne quod in subiecto est potest mutari, illa quae subiecta est non mutatur, ut color qui est in corpore, eodem corpore manente potest mutari, ut niger fiat ex albo. Manentibus autem substantiis primis, secundae substantiae non mutantur. Quam vero ipse Aristoteles posuit probationem, secundas substantias uan esse in subiecto, huiusmodi est, praedocuit enim quorumdam quae sunt in subiecto nomen de subiectis posse praedicari, rationem vero nunquam. Album enim cum sit in corpore, dicitur corpus album, et praedicatur albedo de corpore sed alia est definitio albedinis, alia corporis. Secundae vero substantiae de primis substantiis et nomine praedicantur, et definitione iunguntur. Nam quidam homo animal est et homo sed quidam homo, et hominis, et animalis ratione definitur. Et ut veracissime sententia concludatur, omne quod est in subiecto, aequivoce de subiecto dicitur. Secundae vero substantia de primis non aequivoce sed univoce nuncupantur, idcirco quod (ut dictum est) et nomine et definitione consentiunt. Quare quemadmodum primae substantiae in sabiecto non sunt, sic secundae subiecto carebunt. Commune est igitur omnibus substantiis, et secundis et primis in subiecto non esse, et quodcumque substantia fuerit, consequens est ut in nullo subiecto sit. Sed quaeritur utrum hoc soli substantiae insit an etiam aliis, nam si soli substantiae inest, quoniam omni substantiae hoc inesse monstravimus, quod in subiecto non sit, verum proprium dicitur esse substantiae, non esse in subiecto. Hoc enim dictum est esse maxime proprium, quod omnibus inesset et solis sed hoc non esse substantiae proprium verissima Aristoteles probatione confirmat dicens: AMPLIUS EORUM QUAE SUNT IN SUBIECTO NOMEN QUIDEM DE SUBIECTO ALIQUOTIENS NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE EST. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM DE SUBIECTIS RATIO PRAEDICATUR ET NOMEN; RATIONEM ENIM HOMINIS ET ANIMALIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. QUARE NON ERIT EORUM SUBSTANTIA QUAE SUNT IN SUBIECTO. NON EST AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE HOC; SED DIFFERENTIA EORUM EST QUAE IN SUBIECTO NON SUNT; BIPES ENIM ET GRESSIBILE DE SUBIECTO QUIDEM DE HOMINE PRAEDICATUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NON ENIM IN HOMINE EST BIPES NEQUE GRESSIBILE. ET RATIO QUOQUE DIFFERENTIAE DE ILLO DICITUR DE QUO IPSA DIFFERENTIA PRAEDICATUR, UT SI GRESSIBILE DE HOMINE DICATUR, ET RATIO GRESSIBILIS DE HOMINE PRAEDICABITUR; EST ENIM HOMO GRESSIBILE. Non esse proprium hoc substantiae dicit, idcirco quod in differentiis idem sit, in nullo enim differentia subiecto est, ad illud namque recurritur, Si differentia in subiecto esset, nomine tantum de subiecto praedicaretur, non etiam ratione. Differentia vero de eo de quo dicitur univoce praedicatur, ut si quis dicat gressibilem differentiam de homine, ipsius differentiae definitio quoque homini convenienter aptabitur. Gressibile namque est quod per terram pedibus ambulat, et homo est quod per terram pedibus ambulat, ita differentiae et eius de quo ipsa differentia dicitur una poterit esse ratio substantiae, id est unius possunt et nominis nuncupatione, et definitionis determinatione coniungi. Quod si in subiecto esset differentia, nequaquam de subiecto sibi univoce praedicaretur. Quare non proprium est substantia, quod retinet etiam differentia, differentia namque substantia non est. Esset enim proprium substantiae in subiecto non esse. Non est autem diiferentia accidens, esset enim in subiecto. Omnis autem res aut accidens est, aut substantia, id est aut in subiecto est, aut in subiecto non est, et sunt ascidentia quaecumque in substantiam subiecti non veniunt, quaeque permutata naturam substantiae non perimunt. Si quibus vero peremptis subiecta interimantur, illa proprie accidentia non vocamus, differentia vero est quae de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Sed differentia substantia non est, idcirco quod si esset substantia non in eo quod quale sit de subiecto sed in eo quod quid sit praedicaretur. Qualitas vero solum non est, esset enim accidens et in subiecto. An magis ex substantia et qualitate differentia ipsa conficitur, ita ut illud de quo praedicatur, perempta differentia simul interimatur, ut calor, cum est in aqua, perempto calore, potest aqua in sua substantia permanere, et est calor in subiecta aqua, quo interempto, aqua non peribit. Idem tamen calor est in igne sed perempto calore, ignem interire necesse est. Quare haec qualitas caloris substantialiter inest igni, et est propria differentia, id est substantialis. Concludendum est igitur differentiam, nequs solum substantiam esse, neque solum qualitatem, sed quod ex utrisque conficitur substantialem qualitatem, quae permanet in natura subiecti, atque ideo quoniam substantia participat, accidens non est, quoniam qualitas est, a substantia relinquitur. Sed quoddam medium est inter substantiam et qualitatem, quae quoniam in subiecto non est et substantia non est, proprium substantiae non est non esse in subiecto. Post hoc illuc quoque dicit non debere nos conturbari, ne forte substantiarum partes, quae ita sunt in toto quasi in aliquo subiecto, aliquando cogamur non substantias confiteri. Substantiarum partes in subiecto sunt sed non ut accidentia, videmus enim quasdam partes substantiarum ita esse in toto quasi sint in subiecto, ut caput in toto corpore est, et manus in toto corpore est, forma quoque et materia quae sunt partes compositae substantiae in ipsa composita substantia sunt. Ne forte ergo cogamur aliquando partes substantiarum, quoniam sunt in subiecto, suspicari non esse substantias sed accidentia, praemonet dicens: NON NOS VERO CONTURBENT SUBSTANTIARUM PARTES QUAE ITA SUNT IN TOTO QUASI IN SUBIECTO SINT, NE FORTE COGAMUR DICERE NON EAS ESSE SUBSTANTIAS; NON ENIM SIC DICEBANTUR ESSE EA QUAE SUNT IN SUBIECTO UT QUASI PARTES ESSENT. Hoc enim rationis affert cur ista accidentia esse aliquis suspicari non debeat. Illa enim accidentia esse definita sunt in obiecto, quae non essent ut quaedam pars, hoc enim superius ait. In subiecto avem esse dico, quod cum in aliquo sit, non sicut quaedam pars et impossible est esse sine eo in quo est. Quocirca quoniam accidentia ita sunt in subiecto, ut subiecti partes non sint, substantiarum vero partes in toto ita sunt, ut in subiecto non sint, partes substantiarum, partes accidentium esse nullus recte suspicari potest. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS AB HIS OMNIA UNIVOCE PRAEDICARI. OMNIA ENIM QUAE AB HIS PRAEDICAMENTA SUNT AUT DE INDIVIDUIS PRAEDICANTUR AUT DE SPECIEBUS. ET A PRIMA QUIDEM SUBSTANTIA NULLA EST PRAEDICATIO (DE NULLO ENIM SUBIECTO DICITUR), SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM SPECIES QUIDEM DE IN DIVIDUO PRAEDICATUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO; SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIAE ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS PRAEDICANTUR. RATIONEM QUOQUE SUSCIPIUNT PRIMAE SUBSTANTIAE SPECIERUM ET GENERUM, 193B ET SPECIES GENERIS (QUAECUMQUE ENIM DE PRAEDICATO DICUNTUR, EADEM ET DE SUBIECTO DICENTUR); SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIARUM RATIONEM SUSCIPIUNT SPECIES ET INDIVIDUA; UNIVOCA AUTEM ERANT QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET RATIO. QUARE OMNIA A SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS UNIVOCE PRAEDICANTUR. Quoniam in subiecto non esse differentiis et substantiis commune monstravit, aliam rursus communitatem substantiarum differentiarumque proposuit. Nam cum substantiarum aliae sint primae, aliae secundae, et primae substantiae sint individuae, quoniam nihil individua possunt habere subiectum, ab individuis nulla praedicatio est. Secundae vero substantiae de individuis, id est de primis substantiis, praedicantur, et de his univoce dicuntur. Secundarum enim substantiarum nomen de individuis praedicatur et ratio. Ac de individuo quidem et species praedicatur et genus, ut de Platone, id est de aliquo homine, et homo dicitur, et animal, aliquis enim homo est, et animal, et utriusque de individuo praedicatur ratio. Dicimus enim aliquem hominem animal esse rationale mortale, quae est speciei definitio, id est hominis. Et rursus aliquem hominem dicimus esse substantiam animatam atque sensibilem, quae generis est definitio, id est animalis. Species vero generis sui et definitionem suscipit et vocabulum, de homine enim animal praedicatur, dicitur enim homo animal est, et idem ipse rursus homo rationem suscipit animalis. Dicimus enim esse hominem substantiam animatam atque sensibilem. Constat ergo quoniam et genera et species de individuis, et genera de speciebus univoce praedicantur, id est in omni praedicatione secundae substantire univoca appellatione de subiectis dicuntur, quod his cum differentia commune est. Differentia namque de specie de qua dicitur, et de eius individuo ipsa quoque univoce praedicatur. Nam cum sit gressibilis differentia de aliquo homine praedicatur, dicitur enim quidam homo gressibilis ut Plato et Cicero sed et definitionem differentiae suscipiunt individua, de quibus illa differentia praedicatur. Gressibile namque est quod per terram pedibus ambulare potest. Et quemdam hominem possis ita secundum nomen differentiae definire, ut dices Platonem esse quod per terram pedibus ambulare possit. Et hoc idem evenit de specie cuiusdam hominis, id est de homine: homo namque, id est ipsa species, cum sit gressiblis, potest definiri. Homo est quod per terram pedibus ambulare possit. Ergo et differentia: de his de quibus pradicantur, univoce dicuntur. Quocirca quoniam et secundae substantiae de bis de quibus praedicantur uuivoce dicuntur, et differentiae eodem modo, quaecumque a substantiis vel differentiis praedicationes fuerint, haec et de subiectis univoce praedicabuntur. Quae autem causa sit ut secundae substantiae de primis substantiis univoce praedicentur, illa quam supra docuit Aristoteles nos admonens dixit, omnia enim quaecumque de praedicato dicuntur, eadem etiam dicentur de subiecto. Omnes enim differentiae quae sunt specificae generis praedicantur et de specie et de individuo, ut quoniam animal efficiunt differentiae animatum atque sensibile, eadem et de specie, id est homine, et de individuo, id est aliquo homine, praedicabuntur; quod cum superius dictum est, nunc quantum expositionis brevitas postulat, dixisse sufficiat. OMNIS AUTEM SUBSTANTIA VIDETUR HOC ALIQUID SIGNIFICARE. ET IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS INDUBITABILE ET VERUM EST QUONIAM HOC ALIQUID SIGNIFICAT; INDIVIDUUM ENIM ET UNUM NUMERO EST QUOD SIGNIFICATUR. IN SECUNDIS VERO SUBSTANTIIS VIDETUR QUIDEM SIMILITER AD APPELLATIONIS FIGURAM HOC ALIQUID SIGNIFICARE, QUANDO QUIS DIXERIT HOMINEM VEL ANIMAL; NON TAMEN VERUM EST SED QUALE ALIQUID SIGNIFICAT (NEQUE ENIM UNUM EST QUOD SUBIECTUM EST QUEMADMODUM PRIMA SUBSTANTIA, SED DE PLURIBUS HOMO DICITUR ET ANIMAL); NON AUTEM SIMPLICITER QUALITATEM SIGNIFICAT, QUEMADMODUM ALBUM (NIHIL ENIM ALIUD SIGNIFICAT ALBUM QUAM QUALITATEM), GENUS AUTEM ET SPECIES CIRCA SUBSTANTIAM QUALITATEM DETERMINANT (QUALEM ENIM QUANDAM SUBSTANTIAM SIGNIFICANT). PLUS AUTEM GENERE QUAM SPECIE DETERMINATIO FIT: DICENS ENIM ANIMAL PLUS COMPLECTITUR QUAM HOMINEM. Postquam superius geminas dixit substantiae consequentias, id est in subiecto non esse, et cuncta ab his univoce praedicari, et eas a maximae proprio substantiae separavit, idcirco quod differentiis etiam videntur esse communes, aliud adiicit quod idcirco substantiae proprium non sit, quod non sit in omni substantia. Nam quemadmodum quantitas, quantum significat, et qualitas quale, sic etiam substantia videtur  hoc aliquid significare. Nam cum dico Socrates vel Plato vel aliquam individuam substantiam nomino, hoc aliquid significo sed omnibus hoc substantiis non inest. Individuis namque quoniam particularia sunt et numero singularia, verum est hoc aliquid a substantiis significari. In secundis vero substantiis non idem est. Namque secundae substantiae non sunt unae, nec numero singulares sed species intra se plurima individua continent, et multas intra se species genus includit, quocirca cum dico homo, non hoc aliquid significavi, neque enim singulare est hominis nomen, idcirco quod de pluribus individais praedicatur sed potius quale quiddam; qualis enim substantia sit demonstratur, cum dicitur homo. Qualitas autem haec circa substantiam terminatur, nam sicut individua qualitas species et genera qualitatis habet, et sicut singulas quantitates quantitas speciebus et generibus claudit, ita quoque individuarum substantiarum species et genera secundae substantiae sunt. Ergo cum dico homo, talem substantiam significo, quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, qualem ergo quamdam substantiam significo, cum hominem dixi, talem scilicet quae individuis nominetur, idem quoque de genere est. Nam cum dico animal, talem substantiam significo quae de pluribus speciebus dicatur. Est igitur qualitas, ut album, quae semper sit in substantia sed non ut ipsam substantiam interimat, idcirco quod proprietatem substantiae albedo non habet. Qualitas vero hac quae de substantiis dicitur, circa substantiam qualitatem determinat, qualis sit enim illa substantia demonstrat. Nam si homo est rationalis, et substantia erit rationalis sed rationalis qualitas est. Qualem ergo substantiam monstrant secundae substantiae. Quocirca non est hoc proprium substantiae, hoc aliquid significare. Secundae enim substantiae non hoc aliquid sed quale aliquid (ut dictum est) monstrant, ita tamen quale aliquid monstrant, ut ipsam qualitatem circa substantias determinent. Qualitas enim secundarum substantiarum in individuis est, de ipsis enim naturaliter praedicatur qua, ipsa individuae substantiae sunt. Qualitas igitur secundarum substantiarum circa individua, id est quae prima sunt terminatur. Determinatio vero quoties ipse terminus multa concludit, maior est, et minor quoties pauciora, quocirca genus plurima colligit, species vero non tam plurima. Nam cum dico animal, etiam hominem bovemque, et alia cuncta animalia hoc uno nomine clausi. Cum vero dico homo, solos homines individuos hac nominis significatione conclusi, quocirca maior fit determinatio per genus quam per speciem, et fit determinatio circa substantiam qualitatis, vel quod substantialis qualitas in genere et specie est, vel quod secundum quamdam communionem subiectorum dicitur. Sed per se qualitas, ut album, neque ullius substantiam significat, neque ullam communionem, sicut genus specierum suarum, et individuorum species, ostendit. Quocirca aliud substantiae proprium requirendum est. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET NIHIL ILLIS ESSE CONTRARIUM. PRIMAE ENIM SUBSTANTIAE QUID ERIT CONTRARIUM? UT ALICUI HOMINI; NIHIL ENIM EST CONTRARIUM; AT VERO NEC HOMINI NEC ANIMALI NIHIL EST CONTRARIUM. NON EST AUTEM HOC SUBSTANTIAE PROPRIUM SED ETIAM MULTORUM ALIORUM, UT QUANTITATIS; BICUBITO ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, AT VERO NEC DECEM NEC ALICUI TALIUM, NISI QUIS MULTA PAUCIS DICAT ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM PARUO; DETERMINATORUM VERO NULLUM NULLI EST CONTRARIUM. Adiecit quoque aliud substantiae proprium dicens substantiae nihil esse contrarium, hoc autem ex ea quae sigillatim fit inductione confirmat. Homo enim homini vel equo, vel alicui alii animalium non est contrarius. Sed si quis forsitan dicat, cum ignis atqua aqua substantiae sint, ignem aquae esse contrarium, mentietur. Non enim ignis aquae contrarius est sed qualitates ignis qualitatibus aquae opponuntur. Calor enim et frigus contraria sunt, et humor et siccitas, quae qualitates cum aliae sint in igne, aliae in aqua, ipsas substantias contrarias facere videntur sed non sunt; hoc autem ex omnibus aliis substantiis potest probari, in quibus nihil quisquam poterit invenire contrarium. Sed hoc solius substantiae proprium non est, namque et quantitas definita contrariis caret. Nam neque duo tribus contraria sunt, nec duobus quattuor, nec aliquid huiusmodi: nam si dicamus tres duobus esse contrarios, cur non his duobus etiam quattuor vel quinque contrarios esse ponamus? Nulla enim afferri ratio potest, cum tres duobus contrarii sint, cur quattuor vel quinque duobus contrarii non sint. Quod si hoc est, vel quattuor, vel tres, vel quinque, vel quicumque a duobus distant numeri, contrarii fiant duobus, et erunt uni rei multa contraria, quod fieri non potest. Non est igitur contrarium aliquid quantitati. Sed si quis dicat magnum paruo vel multae paucis esse contraria, haec quidem etiamsi quis quantitates esse confirmat, tamen definitae quantitates non sunt, quantum enim sit magnum vel quantum paruum, non definit qui loquitur, eodem modo, etiam de multis atque paucis. Quare si quis haec quantitates esse dicat, indeterminatas indefinitas quo esse confitebitur. Dicit autem Aristoteles terminata, quantitati nihil esse contrarium, ut duobus vel tribus, vel lineae vel superficiei. Quod si etiam aliae quantitates habent contraria, aliae vero non habent, nihil omnino impedit ad hoc quod dicitur, proprium non esse substantiae, idcirco quod constat quasdam quantitates non habere contraria. Quod si hoc et in quantitatibus evenit; non esse contrarium, substantiarum proprium non est. Atque haec quidem si quis magnum vel paruum in quantitatibus ponat, manifestum ect (ut ipse est posterius monstraturus) haec non esse quantitates sed ad aliquid, magnum enim ad paruum dicitur; sed cum ad ea loca venerimus, propositi ordinem loci diligentius exsequemur. Nunc quoniam declaratum est et substantiae nihil esse contrarium, et hoc ei proprium non esse, quoniam idem etiam in quantitatibus consideratur, ad sequens proprium expositionis semitam convertamus.VIDETUR AUTEM SUBSTANTIA NON SUSCIPERE MAGIS ET MINUS; DICO AUTEM NON QUONIAM SUBSTANTIA NON EST A SUBSTANTIA MAGIS SUBSTANTIA (HOC ENIM DICTUM EST QUONIAM EST) SED QUONIAM UNAQUAEQUE SUBSTANTIA HOC IPSUM QUOD EST NON DICITUR MAGIS ET MINUS; UT, SI EST IPSA SUBSTANTIA HOMO, NON ERIT MAGIS ET MINUS HOMO, NEC IPSE A SE IPSO NEC AB ALTERO. NEQUE ENIM EST ALTER ALTERO MAGIS HOMO, QUEMADMODUM ALBUM EST ALTERUM ALTERO MAGIS ALBUM, ET BONUM ALTERUM ALTERO MAGIS BONUM; ET IPSUM SE IPSO MAGIS ET MINUS DICITUR, UT CORPUS, ALBUM CUM SIT, MAGIS DICITUR NUNC QUAM PRIMO, ET CALIDUM MAGIS ET MINUS DICITUR; SUBSTANTIA VERO NON DICITUR (NEQUE HOMO MAGIS DICITUR NUNC HOMO QUAM ANTEA DICITUR, NEC CAETERORUM ALIQUID QUAE SUNT SUBSTANTIA); QUARE NON SUSCIPIET SUBSTANTIA MAGIS ET MINUS. Hoc proprium non simpliciter dicitur sed cum aliqua distinctione: ait enim substantium neque magis recipere, neque minus, non hoc dicens, quoniam substantia non est magis ab alia substantia. Namque quidam homo cum sit substantia, magis est substantia ab homine, id est ab specie, et homo ab animali, id est a genere. Ergo non hoc dicit, quoniam non inveniuntur substantiae quae a substantiis magis substantiae sint: hoc enim dictum est, quoniam est, id est quoniam inveniuntur. Ait enim superius primas substantias, id est individuas, maxime esse substantias, in secundis vere substantiis, magis esse substantias species quam genera. Ergo non dicit, quoniam nulla substantia ab alia substantia magis substantia est sed hoc ipsam quod est, quaelibet illa substantia non dicitur magis et minus substantia, ut si est substantia homo, non dicit quoniam homo non est magis et minus substantia, individuas enim homo magis est substantia, species vero minus si ad primam, id est individuam, substantiam referatur. Sed hoc dicit, hoc ipsum quod est, id est, homo non erit magis homo vel minus homo; quocirca non dicit quoniam homo non est magis substantia vel minus sed quoniam homo, hoc ipsum quod est, non est magis vel minus homo, non est enim aliquis homo magis et minus homo; et hoc idem in eiusdem comparatione convenit speculari. Nam ipse homo a seipso 197C non est plus homo, at vero nec si ad alterum conferatur, ad alterum vero ita, ut sub eadem coniunctione sint, ut quidam homo individuus ad aliquem individuum hominem comparatus, non erit magis et minus homo, et ipsa species seipsa non erit magis et minus homo; sed hoc palam est in substantiis, in qualitatibus vero potest essc magis et minus, album enim potest fieri magis album seipso, et suscipere magis et minus, ut sit magis album et minus album; potest et alio albo plus esse album, ut lilium lana; et alio albo minus esse album, ut lana lilio, et cygnus nive, atque idem in aliis qualitatibus, ut bono et calido. Namque haec possunt temporibus permutari, et in plus minusue transduci, fit enim aliquoties bono melius et deterius, et calido feruentius et tepidius: homo vero quod est substantia, neque nunc plus erit homo quam fuit antea, neque post magis aut minus erit hormo quam nunc est. Quocirca cum substantia non suscipiat magis et minus, tamen proprium eius hoc non erit. Sed cur non sit proprium ipse Aristoteles velut notum conticuit; nos autem addimus, quoniam non solum substantiae non suscipiunt magis et minus sed et alia multa; circulus enim alio circulc non erit magis circulus aut minus, nec duplum magis duplum vel minus; aequaliter enim duplus est quaternarius: ad binarium, et denarius ad quinarium comparatus, quocirca quoniam etiam in aliis idem est, hoc substantiae proprium non esse putandum est. Sed haec quidem omnia quaecumque sunt 198A in substantiis omnibus, propria tamen substantiae non sunt, eo quod etiam in aliis sint, consequentia substantiae appelluntur. Hanc enim omnia substantias consequuntur, ut ubicumque fuerit substantia, ea quae dicta sunt inveniantur, id est in subiecto non esse, et praedicationes ab his univoce fieri, et quod hoc aliquid significet, et quod nihil sit illis contrarium, et quod non suscipiant magis et minus: illa vero quae non omnibus substantiis insunt accidentia sunt substantiis, quocirca propria non sunt. Quod si propria non sunt, nondum quale sit substantia demonstrant. Cuare ut substantiae qualitatem proprio cognoscamus, talis est huic requirenda proprietas, quae et solis substantiis insit et omnibus, haec autem huiusmodi est, quam ipse proposuit. MAXIME AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE VIDETUR ESSE QUOD, CUM SIT IDEM ET UNUM NUMERO, CONTRARIORUM SUSCEPTIBILE EST. ET IN ALIIS QUIDEM NULLIS HOC QUISQUAM HABEAT PROFERRE QUAE NON SUNT SUBSTANTIAE, QUOD UNUM NUMERO CONTRARIORUM ERIT SUSCEPTIBILE; UT COLOR, QUOD EST UNUM ET IDEM NUMERO, NON ERIT ALBUM ET NIGRUM, NEC EADEM ACTIO ET UNA NUMERO ERIT MALA ET BONA; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS QUAECUMQUE SUBSTANTIAE NON SUNT. IPSA VERO SUBSTANTIA, CUM SIT UNA ET EADEM NUMERO, CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS EST; UT QUIDAM HOMO, UNUS ET IDEM CUM SIT, ALIQUANDO ALBUS ALIQUANDO NIGER FIT, ET CALIDUS ET FRIGIDUS, ET IMPROBUS ET PROBUS. IN ALIIS VERO NULLIS TALE ALIQUID VIDETUR, NISI QUIS OPPONAT ORATIONEM ET OPINIONEM DICENS HUIUSMODI ESSE; EADEM ENIM ORATIO ET VERA ET FALSA ESSE VIDETUR, UT, SI VERA ORATIO EST ALIQUEM SEDERE, CUM IPSE SURREXERIT EADEM IPSA ERIT FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE; SI QUIS ENIM VERE OPINABITUR SEDERE ALIQUEM, CUM IPSE SURREXERIT FALSE OPINABITUR, EANDEM DE EO RETINENS OPINIONEM. QUOD SI QUIS ETIAM HOC RECIPIAT, AT MODO IPSO DIFFERT; EADEM ENIM QUAE SUNT IN SUBSTANTIIS IPSA PERMUTATA CONTRARIORUM SUNT SUSCEPTIBILIA (FRIGIDUM ENIM EX CALIDO FACTUM PERMUTATUM EST, ET NIGRUM EX ALBO ET PROBUM EX IMPROBO, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SINGULA IPSA PERMUTATIONEM SUSCIPIENTIA CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIA SUNT), ORATIO VERO ET OPINIO IPSA QUIDEM IMMOBILIA OMNINO SEMPERQUE PERMANENT, RE VERO MOTA CONTRARIETAS CIRCA EA FIT; ORATIO ENIM PERMANET EADEM SEDERE ALIQUEM, RE VERO MOTA ALIQUOTIENS QUIDEM VERA FIT ALIQUOTIENS FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE. QUAPROPTER HOC MODO PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE UT SECUNDUM PROPRIAM PERMUTATIONEM SUSCEPTIBILIS CONTRARIORUM SIT -- SI QUIS ETIAM HOC SUSCIPIAT, OPINIONEM ET ORATIONEM CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILES. Ait maxime proprium esse substantiae, quod eadem et una numero contrariorum susceptiva sit, nihil contrarium superioribus dicens. Illic enim dixerat substantias substantiis non essecontrarias, hic vero dicit non substantias substantiis esse contrarias sed res in se contrarias posse suscipere, ut unus atque idem homo, nunc quidem sit sanus, alio vero tempore sit aeger, aegritudo autem et sanitas contraria sunt. Ergo quoniam declaratum est substantiam posse contraria suscipere, demonstrandum est quemadmodum hoc solis substantiis insit; hoc enim in nullis aliis invenitur, namque in qualitate qualitas non erit eadem, neque una numero contrariorum susceptiva, idem enim et unum numero non erit album atque nigrum, cum album fuerit et post in nigrum vertitur, tota qualitatis species permutatur, et non erit unum atque idem numero quod contrarium est sed diversum. At vero et actio eadem et una numero non erit bona atque mala sed fortasse una bona, alia mala, ita ut diversae sint, non eaedem numero, hoc etiam in aliis reperitur. Ipsa vero substantia cum una sit et numero singularis, contraria suscipit, ut idem atque unus homo cum fuerit candidus atque albus a sole tactus nigrescit, et album in nigrum convertitur, et in contrarium permutatur, utrasque res in se contrarias suscipiens. Nulli igitur alii inesse hoc nisi solis substantiis, satis superiora demonstrant. Si quis autem opponat orationem et opinionem unam atque eamdem contrariorum esse susceptibilem, ideo quod cum dico Cicero sedet, vel eum sedere opinor, cum vere sedet, vera est et oratio de eodem et opinio quod sedet; cum vero surrexit ille, eadem permanet opinio vel oratio quae dicit vel arbitratur Cicero sedet sed falsa est, quod non sedet, videtur opinio atque oratio eadem et una numero nunc quidem esse vera, nunc autem falsa, et contraria ipsa suscipere sed hoc falsum est, quod oratio et opinio contraria non recipiunt: nam si quis hoc recipiat quod etiam oratio atque opinio contrariorum suscepliva sint, non tamen eodem modo quo substantia. Nam substantia ipsa contraria suscipiens permutatur, Cicero namque ipse in se aegritudinem suscipiens ex sano factus est aeger, et mutatus ipse contraria suscipit; sermo vero vel opinio ipsa quidem immutata permanent sed cum rebus de quibus dicuntur permutatis ipsa, inveniuntur falsae esse vel verae. Et substantia quidem ipsa cum iis quae suscipit contrariis permutatur; oratio vero et opinio, eo quod res de quibus dicuntur vel arbitrantur permntentur, ipsae videntur falsis esse vel verae. Nam cum dico Cicero sedet, si ille surrexit, oratio quidem ipsa nihil passa est sed res de qua fuit ipsa oratio mota est. Qui enim sedebat surrexit, idcirco ex vera oratione facta est falsa. Quocirca substantia ipsa suscipiens (ut dictum est) contraria permatatur, oratio vero vel opinio non mutatur sed re circa eas mota ipsae verae vel falsae sunt. Quare proprium substantiae ita esse putabitur contrariorum susceptibile, ut ipsa permutata contraria suscipiat, non ut, re mutata, ipsa impermutata immutabilisque permaneat. Atque hoc dictum est, si quis orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles pPomba, non autem esse orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles. Ipso rursus adiecit. NON EST AUTEM HOC VERUM; ETENIM ORATIO ET OPINIO NON QUOD EA SUSCIPIANT ALIQUID CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILIA DICUNTUR SED QUOD CIRCA ALTERAM QUANDAM PASSIONEM SINT. EO ENIM QUO RES EST VEL NON EST, EO ORATIO VEL VERA VEL FALSA DICITUR, NON EO QUOD IPSA SUSCEPTIBILIS EST CONTRARII. SIMPLICITER ENIM NIHIL NEQUE ORATIO MOVETUR NEQUE OPINIO, QUARE NON ERUNT SUSCEPTIVAE CONTRARIORUM NULLO IN EIS FACTO. SUBSTANTIA VERO, QUOD IPSA SUSCIPIAT CONTRARIA, EO DICITUR CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS. AEGRITUDINEM ENIM ET SANITATEM SUSCIPIT, ET ALBEDINEM ET NIGREDINEM; ET UNUMQUODQUE TALIUM IPSA SUSCIPIENS CONTRARIORUM ESSE DICITUR SUSCEPTIBILIS. QUARE PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE, CUM SIT IDEM ET UNUM NUMERO, SUSCEPTIBILEM CONTRARIORUM ESSE. ET DE SUBSTANTIA QUIDEM HAEC DICTA SINT. Ait enim orationem atque opinionem ipso quidem contrarii nullius esse susceptibila, neque enim falsitas veritasque in oratione vel opinione insita est sed idcirco videntur contrariorum esse susceptibilia, quod (ut ipse ait) circa alteram quamdam passionem sint, hoc est circa hoc esse opinionem vel orationem. Nam circa sedere et non sedere. quae sunt contraria, est sedendi aliquem et non sedendi opinio vel oratio, atque ideo quoniam circa alias res sunt quae sibi sunt contrariae, illis permutatis, ista videntur esse contraria, non quod ipsa suscipiant contraria sed quod circa contrarias passiones rerum sint. Nam neque oratio neque opinio permutatur sed sola tantum de quibus est oratio atque opinio, id est sedere et non sedere. Quocirca quoniam nullam ipsa oratio vel opinio suscipiunt passionem, nec quidquam in eis fit, atque evenit contrarium, contrariorum esse susceptibilia non videntur. At substantia eo quod ipsa suscipiat contrarium, contrariorum dicitur esse susceptibilis. Cicero enim suscipiens sanitatem sanus fit, et suscipiens aegritudinem fit aeger. Oratio vero atque opinio (ut dictum est) contraria non suscipiunt. Quare erit hoc proprium substantiae contrariorum esse susceptibilem. Sed si quis forsitan dicat cur cum ignis calidus sit nunquam frigus suscipiat, et cur cum aqua sit humida nunquam suscipiat siccitatem. His enim oppositis, videtur non omnis substantia contrariorum esse susceptibilis, et substantiae hoc proprium infirmabitur, cum non sit in omnibus substantiis. Sed dicendum est quoniam ea contraria suscipere vidantur substantiae quae sunt in eius natura non insita, alioqui non suscipit quidquid illi substantialiter adest. Suscipere enim dicimus aliquid de rebus extrinsecus positis et praeter substantiam constitutis: quoniam igitur in substantia ignis inest calidum esse, ignis calorem non suscipit; quocirca neque est ignis caloris susceptibilis, neque frigoris. Calorem quidem non suscipit, idcirco quod eius naturae substantiaeque immutabiliter adhaesit. Frigus enim non suscipit, quoniam caloris natura ipsius ignis contrarium sponte repudiat. Quocirca si quid est quod suscipiat ignis, id est extrinsecus positum, accipiat necesse est eius quoque contrarium, ipse unus permanens ac singularis. Idem quoque de aqua dicendum est: illa enim sicut ignis calorem, sic non suscipit humiditatem sed est quodammodo et ipsi humiditas naturaliter insita; arque ideo calor ignis, vel humiditas aquae non solum qualitates dicuntur sed etiam substantiales igni et aquae qualitates; namque aqua quoniam in se neque frigidus neque calorem substantialiter habet, susceptibilis et frigoris et caloris esse dicitur. Quocirca non de his contrariis loquitur quae substantialiter insunt sed his qua potest suscipere unaquaque substantia, id est quod potest extrinsecus adhiberi: hoc autem in omnibus esse substantiis manifestum est: nam quoniam Cicero sanus et aeger est, homo sanus et aeger est; et si homo sanus et aeger est, animal sanum atque aegrotum est. Sed cum duobus modis animal atque homo spectentur, uno quod de pluribus praedicentur, altero quod substantiae sint, in eo quod de pluribus praedicautur contrariorum susceptiva non sunt: ut animal in eo quod de speciebus dicitur, neque sapiens est, neque insipiens, et homo in eo quod de individuis dicitur, neque sanus est, neque aeger; in eo vero quod substantiae sunt, et quod individuis substantiis praesunt, contrariorum susceptibiles sunt. Quocirca erit hoc solius proprium substantiae, contrarium esse susceptibilem. Haec de substantia dicta sufficiant. Secundi vero voluminis series ab expositione inchoabitur quantitates. Et si nos curae officii consularis impediunt quominus in his studiis omne otium plenamque operam consumimus pertinere tamen videtur hoc ad aliquam reipublicae, curam, elucubratae rei doctrina cives instruere. Nec male de civibus meis merear, si cum prisca hominum virtus urbium caeterarum ad hanc unam rempublicam, dominationem, imperiumque transtulerit, ego id saltem quod reliquum est, Graecae sapientiae artibus mores nostrae civitatis instruxero. Quare ne hoc quidem ipsum consulis uacat officio, cum Romani semper fuerit moris quod ubicumque gentium pulchrum esset atquelaudabile, id magis ac magis imitatione honestare. Aggrediar igitur et propositi sententiam operis ordinemque contexam. QUANTITATIS ALIUD EST CONTINUUM, ALIUD DISGREGATUM ATQUE DISCRETUM; ET ALIUD QUIDEM EX HABENTIBUS POSITIONEM AD SE INVICEM SUIS PARTIBUS CONSTAT, ALIUD VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. EST AUTEM DISCRETA QUANTITAS UT NUMERUS ET ORATIO, CONTINUA VERO UT LINEA, SUPERFICIES, CORPUS, PRAETER HAEC VERO TEMPUS ET LOCUS. PARTIUM ENIM NUMERI NULLUS EST COMMUNIS TERMINUS AD QUEM PARTES IPSIUS CONIUNGANTUR; UT QUINARIUS, SI EST PARS DENARII, AD NULLUM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR QUINQUE ET QUINQUE SED DISIUNCTI SUNT; ET TRES ET SEPTEM AD NULLUM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; NEQUE OMNINO ALIQUIS HABEBIT IN NUMERO SUMERE COMMUNEM TERMINUM PARTIUM SED SEMPER DISCRETAE SUNT; QUARE NUMERUS DISCRETORUM EST. SIMILITER 201D EST AUTEM ET ORATIO DISCRETORUM; (QUONIAM ENIM QUANTITAS EST ET ORATIO MANIFESTUM EST; MENSURATUR ENIM SYLLABA LONGA ET BREVIS; DICO VERO ILLAM QUAE FIT CUM VOCE ORATIONEM); AD NULLUM ENIM COMMUNEM TERMINUM PARTES EIUS CONIUNGUNTUR; NEQUE ENIM EST COMMUNIS TERMINUS AD QUEM SYLLABAE CONIUNGUNTUR SED UNAQUAEQUE DISCRETA EST SECUNDUM SEIPSAM. Post substantiae tractatum cur de quantitate potius ac non de qualitate proposuerit haec causa est, quod omnia quaecumque sunt, simul atque sunt in numerum cadunt. Omnis enim res aut est una aut plures: unum vero vel plures quantitatis scientia colliguntur. Sed non omnis res simul atque est aliquam accipit qualitatem, ipsa enim materia sub quantitatis quidem principium cadit, quod una est sub qualitatem vero minime; ipsa enim cunctis est iuterim qualitatibus absoluta, superaddita vero forma quadam afffcitur qualitate: per se autem numero quidem una est, qualitate vero nulla; quocirca si res omnis simul atque est cadit in numerum, non autem omnis res mox ut est statim suscipit qualitatem, recte prius de quantitate proposuit. Est quoque alia causa cur prius de quantitatis ratione pertractet. Omne enim corpus ut sit, tribus dimensionibus constat, longitudine, latitudine, altitudine: ut vero sit corpus cum qualitate, tunc erit aut album, aut nigrum, aut quodlibet aliud; et quoniam prius est esse corpus, post vero esse corpus album, prius erit corpori tribus constare dimensionibus 202C quam esse album. Sed tres dimensiones et numero et continuatione spatii quantitates sunt. Longitudo enim et latitudo et altitudo in quantitatibus numerantur, album vero qualitatis est: quocirca si prius est ex tribus constare dimensionibus quam esse album, prior erit quantitas qualitate, quocirca recte est tractatus de quantitate propositus. Item alia causa, quod quantitas plura habet substantiae consimilia: nam quemadmodum substantiae nihil est contrarium, et substantia non recipit magis et minus, sic etiam quantitas: quantitati enim nihil est contrarium, nec quantitas recipit magis et minus, ut paulo post docebimus; qualitas vero et contraria suscipit, ut album et nigrum, et magis et minus, ut candidius et nigrius, et candidissimum et nigerrimum; id enim sumit intentionem quod potest sumere diminutionem. Quod si substantiae similior quantitas est recte post substantiam de quantitate proposuit. Quantitatis autem dicit esse differentias duas: quantitatis namque alia discreta est disgregata, alia vero continua. Post hanc rursus divisionem alio modo partitus est quantitatem: dicit enim quantitatis aliam quae constat ex habentibus positionem ad se invicem suis partibus; aliam vero ex non habentibus positionem. Unam vero rem diverse posse dividi manifestum est, hoc modo, ut si quis dividat animal dicens: Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; et rursus eamdem ipsam rem alia modo partiamur, ut est, Animalium alia sunt gressibilia, alia non gressibilia, eorumque animalium rursus, alia sunt carnibus uescentia, alia herbis, alia seminibus. Hic ergo una eademque res diverso ordine modoque divisa est. Ita igitur Aristoteles unum idemque quantitatis nomen diverse partitus est in ea scilicet quae discreta essent, et quae continua, et in ea quae haberent positionem partium, et quae non haberent. Sed de secunda divisione posterius dicendum est, nunc prima tractetur. Ait enim de prima divisione hoc modo: Quantitatis aliud est continuum, aliud disgregatum. Disgregatum est cuius partes nullo communi terrrino coniunguntur. Continuum vero cuius partes habent aliquem communem terminum, ad quem videantur esse coniunctae. Discretarum namque quantitatum ipse exempla ponit et species. Oratio enim discreta est quantitas, eodemque modo et numerus, et numerum esse quantitatem nemo dubitat. Discreta vero est, quoniam denarius numerus cum constet ex quinque et quinque, quae res quinarium ad quinarium. iungat ut faciat denarii corpus, non potest inveniri. Nam si tres et septem quis dixerit, quo communi termino tres et septem coniungantur, ut denarii reddatur unum integrum corpus, nullus inveniet, atque hoc quidem in omni numero speculari licet. Nullus enim numerus ita partes habet, ut eas aliquis communis terminus iungat sed semper partes ipsae disiunctae atque discretae sunt, et huiusmodi vocatur quantitas discreta. Numerus ergo discreta quantitas est, orationem vero quantitatem esse dicit, idcirco quod omnis oratio ex nomine constet et verbo sed haec syllabis constant. Omnis autem syllaba vel longa vel brevis est. Longum vero vel breue sine ulla dubitatione quantitas est, quocirca quod ex quantitatibus constat, id quantitatem esse quis dubitet? At vero oratio ipsa cum sit quantitas, illa quoque discreta est. Cum enim dico Cicero, quod orationis est pars, partes huius nominis ci et ce et ro nullo communi termino coniunguntur. Non enim reperiemus quo communi termino iungatur ci syllaba ad ce syllabam, vel rursus ce syllaba ad ro syllabam. Quocirca etiam oratio quantitas videtur esse discreta. Sed si quis fortasse dicat hunc eorum esse communem terminum, quo ita iunguntur, ut aliquid significent, ut in hoc ipso nomine Cicero communis syllabarum terminus ipsa significatio sit. Si enim ce syllaba, quae media est, prima ponatur, et ro, quae ultima est, media, et ci, quae plima est, ultima, nomen quod erat antea, id est Cicero, transuersis per loca syllabis nihil significabit. Illi dicendum est quoniam quaecumque in quadam oratione proferuntur, sive significent, sive nihil significent, syllabarum communis terminus nullus est. Nam si quis dicat, permutatis syllabis, quod est Cicero, ceroci significationem quidem amisit sed aequaliter syllabae ad nullum communem terminum coniunguntur. Quod si quis hunc quidem ipsum sermonem aliquid significare posuerit, ut hoc ipsum Cicero aliquid significat, significatio quidem addita est, nullus tamen syllabis terminus appositus. Quare sive significet, sive nihil significet nomen, partes eius discretae atque disiuncta, sunt, et nullo communi termino con iunguntur; quoniam vero Graeca oratione *logos* dicitur etiam animi cogitatio, et intra se ratiocinatio, *logos* quoque et oratio dicitur, nequis Aristotelem cum diceret *logon*, id est orationem, quantitatem esse discretam, de eo putaret dicere quem quisque *logon*, id est rationem, in propria cogitatione disponeret, hoc addidi. Dico autem illam quae fit cum voce orationem. Apud Romanam namque linguam discreta sunt vocabula orationis atque rationis. Graeca vero oratio utriusque vocabulum et rationis et orationis *logon* appellat. Quare ne quid mendax translatio culparetur, idcirco hoc quoque addidi: Dico vero illam quae fit cum voce orationem, apud Latinos enim nulla alia oratio est praeter hanc solam quae fit cum voce orationem. Apud Graecos vero est alius *logos* qui fit in animi cogitatione. Quocirca nequid deesset, etiam hoc quod Latinam orationem minus esset conveniens, transtuli. Quod quare ita fecerim, hac expositione patefeci, atque haec quidem de discreta quantitate sufficiant. Continua vero quantitas est (ut dictum est) cuius quantitatis partium communis terminus invenitur, ut est linea, superficies, corpus, et praeter haec tempus, et locus, quod ipse Aristoteles designat his verbis: LINEA VERO CONTINUA EST; NAMQUE EST SUMERE COMMUNEM TERMINUM AD QUEM PARTES IPSIUS CONIUNGUNTUR, HOC EST AUTEM PUNCTUM, ET SUPERFICIEI LINEA (SUPERFICIEI ENIM PARTES AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR). SIMILITER AUTEM ET IN CORPORE HABEBIT QUIS SUMERE COMMUNEM TERMINUM, 204C VEL LINEAM VEL SUPERFICIEM, AD QUEM PARTES CORPORIS CONIUNGUNTUR Postquam de discretis explicuit, transiit ad species continuae quantitatis. Continuae autem quantitates sunt (ut dictum est) in quarum partibus quidam communis est terminus, ut linea. Si quis enim dividat lineam, quae est longitudo sine latitudine, duas in utraque divisione lineas facit, et utriusque ex divisione lineae singula in extremitatibus puncta redduntur. Lineae enim termini puncta sunt. Quocirca cum illa linea divisa non esset, utraque puncta quae in utrisque linearum capitibus post divisionem apparent, simul antea fuisse intelliguntur, quae sunt in divisione separata. Intelligitur ergo partium lineae communis terminus, punctum, id est quoddam paruissimum quod in partes dividi secarique non possit: Superficies quoque, quae est latitudo sine altitudine, communem terminum habet in partibus, lineam, corpus vero solidum, superficiem. Eodem enim modo divisa superficies duas per singulas partes lineas efficiet, quemadmodum et in linea divisa duo puncta altrinsecus reddebantur. Corpus quoque solidam cum diviseris, duas in utrisque divisionis partibus superficies facies, quae cum coniuncta sint atque indivisa, punctum quidem partium lineae intelligitar communis terminus. Linea vero superficiei, superficies autem solidi corporis. Est autem signum continui corporis, si una pars mota sit, totum corpus moveri; et si totum corpus movetur, certe simul aliae partes vicinae movebuntur, ut si iaceat virgula vel ex aere, vel ex ligno, vel ex quolibet alio metallo, si quis unum eius caput vel quamlibet eius partem moveat, tota mox virgula commovetur. Hoc autem idcirco evenit quod eius partes quodam communi termino coniunguntur, et ille communis terminus una parte mota caeteras movet. Hoc vero in discretis non est. In numero namque cum sint decem, si unum movero, caeteri non moventur, immoti enim permanent novem; etsi plenus tritico sit modius, si unum tritici granum movero, non omnia continuo grana commovebuntur, idcirco quod discreta est multitudo, nec granum grano ullo communi termino videtur implicitum. At vero si ipsius grani pars una sit mota, totum corpus grani moveatur necesse est. Non autem nunc hoc dicitur, quod linea constet ex punctis, aut superficies ex lineis, aut solidum corpus ex superficiebus sed quod et lineae termini puncta sunt, et superficiei lineae, et solidi corporis superficies, nullaque res suis terminis constat. Quocirca punctum lineae non erit pars sed communis terminus partium. Superficiei linea, et superficies solidi corporis non erunt partes sed partium termini communes. Constat igitur, et lineam et superficiem, et solidi corporis crassitudinem esse continuam quantitatem. His alia rursus apponit. SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS; PRAESENS ENIM COMMUNIS EST TERMINUS AD QUEM CONIUNGUNTUR PRAETERITA VEL FUTURA. RURSUS LOCUS CONTINUORUM EST; LOCUM ENIM QUENDAM PARTES CORPORIS RETINENT, QUAE AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; 205C ERGO ET LOCI PARTES, QUAS TENENT SINGULAE PARTES CORPORIS, AD EUNDEM TERMINUM CONIUNGUNTUR AD QUEM ET PARTES CORPORIS IUNGEBANTUR; QUARE CONTINUUM EST ET LOCUS; AD UNUM ENIM COMMUNEM TERMINUM EIUS PARTES CONIUNGUNTUR. Tempus quoque et locum continuae quantitatis esse pronuntiat. Tempus namque esse quantitatem res illa demonstrat, quod in spatio, id est in longitudine et in brevitate, consideratur. Continuum vero esse res illa demonstrat quod partes temporis habeant aliquem communem terminum ac medium, ad quem coniungantur extrema. Nam cum sint partes temporis praeteritum et futurum, horum praesens tempus communis est terminus, huius namque finis est, illius initium. Locus quoque continuorum est. Locum vero dicimus quodcumque illud sit quod partes corporis tenet, sive supra, sive a latere, seu subter sit. Quod si cunctae partes corporis locum aliquem tenent, et qui circa corpus est locus, per omne corporis spatium partesque diffunditur, omnes corporis partes a loci partibus occupabuntur. Quod si ita est, qui communis terminus coniungebat corporis partes, eius termini locus illa quoque loca quae sunt corporis partium iungit, et est eodem modo locus de continua quantitate, quemadmodum et corpus. Ita enim communis terminus invenitur in loco partium quemadmodum et corporis, idcirco quod corporis locus, per corpus omne diffunditur. Quod autem dixit: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS, quoniam superius de continuis loquebatur, tempus quoque et locum continuis addidit dicens: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS, id est continuorum sed post continuae discretaeque quantitatis divisionem aliam a principio rursus orditur. AMPLIUS ALIA SUNT QUAE EX HABENTIBUS AD SE INVICEM POSITIONEM SUIS PARTIBUS CONSTANT; UT LINEAE QUIDEM PARTES HABENT AD SE INVICEM POSITIONEM (SINGULAE ENIM IACENT ALICUBI, ET POSSIS COGNOSCERE ET DESIGNARE UBI SINGULAE IN SUPERFICIE IACEANT ET AD QUAM CAETERARUM PARTIUM CONIUNGANTUR); SIMILITER AUTEM ET SUPERFICIEI PARTES HABENT ALIQUAM POSITIONEM (SIMILITER ENIM DESIGNABUNTUR SINGULAE UBI IACENT, ET QUAE AD SE INVICEM CONIUNGUNTUR). ET SOLIDITATIS QUOQUE ET LOCI SIMILITER. Rursus digerit quantitatis differentias. Sunt enim quantitatis aliae quidem quae ex habentibus positionem ad seinvicem suis partibus constant, aliae vero quae nullam partium habent positionem. Positionem vero partium retinere dicuntur, quarum triplex ista natura est: primum ut eius partes alicubi sint, deinde ne pereant, tertio vero ut sese partes ipsae coniungant et propria se ordinatione continvent, ut est linea. Posita enim linea in superficie possis agnoscere ubi partes ipsius sint, caput quidem lineae esse ac dexteram, medium medio loco, extremitatem vero ad sinistram, et haec manentibus ipsis partibus dicuntur, partes enim lineae non pereunt sed in loco in quo sunt permanent. Possis quoque monstrare quae pars lineae cui parti continventur, id est ad quam partem caput alterius partis extremitasque coniungitur, ut dices haec pars, verbi gratia medietas, lineae hic finitur, locum ubi desinat monstrans, alia rursus pars lineae totius hic incipit. Ergo linea posita in superficie qualibet et locum aliquem partes eius retinent, et partes ipsae non pereunt, et posset quilibet agnoscere ubi extremitas partium coniungatur, et quo ad se invicem loco continventur. Hoc quoque idem in superficie evenit, partes enim superficiei in aliquo loco sunt, et ipsae quoque non pereunt, et ubi pars parti coniungatur ostenditur, idem quoque soliditas habet, et loci quoque partes continuantur ad eas scilicet partes ad quas corporis partes sibimet continuantur, sicut iam supra dictum est. Quocirca eiusdem naturae erit et locus, cuius tota soliditas erit. Ergo et locus ex eodem genere quantitatis est, quo est et soliditas, id est ex habentibus ad se invicem positionem suis partibus constans. Locus igitur et ipse ex habentibus suis partibus positionem ad se invicem constat. Ergo tria haec (sicut supra dictum est) consideranda sum, ut ad se invicem positionem partes habere videantur, id est locum in quo partes ipsae sint positae, ut partes illae non pereant, ut sit partium continentia atque continuatio. Quod si quis dicat hanc rem loco deesse, eo quod in loco non sit, in loco enim cuncta sunt, locus autem in loco esse ipse non poterit. Dicendum est quoniam idcirco superficies et soliditas et linea habere positionem partium dicuntur, quod in loco siut, et partes permaneant, et sint continuae. Quare multo magis ipse locus, cuius neque partes pereunt, et sibi perpetue continuatimque coniunctae sunt, habere positionem partium dicitur. Et de his quidem quae ex habentibus positionem ad se invicem suis partibus constant haec dicta sint; quae vero non habent positionem ipse rursus adiecit. IN NUMERO VERO NULLUS HABET PERSPICERE QUEMADMODUM PARTES HABEANT AD SE INVICEM ALIQUAM POSITIONEM VEL UBI IACEANT VEL QUAE AD QUAM CONIUNGANTUR; AT VERO NEC TEMPORIS; NIHIL ENIM PERMANET EX PARTIBUS TEMPORIS, QUOD AUTEM NON EST PERMANENS, QUOMODO HOC HABEBIT ALIQUEM POSITIONEM? SED MAGIS ORDINEM QUENDAM DICES RETINERE IDCIRCO QUOD TEMPORIS HOC QUIDEM PRIUS EST, ILLUD VERO POSTERIUS. ET IN NUMERO QUOQUE EO QUOD PRIUS NUMERETUR UNUS QUAM DUO ET DUO QUAM TRES; ET SIC HABEBUNT ALIQUEM ORDINEM, POSITIONEM VERO NON MULTUM ACCIPIES. ET ORATIO SIMILITER; NIHIL ENIM EIUS PARTIUM PERMANET SED DICTUM EST ET NON EST ULTRA HOC SUMERE, QUARE NON ERIT ULLA POSITIO EIUS PARTIUM CUIUS PERMANET NIHIL. IGITUR ALIA EX HABENTIBUS AD SE INVICEM PARTIBUS POSITIONEM CONSTANT, ALIA VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. Haec scilicet idcirco nullam positionem ad se invicem partium retinent, quod his aliquid de supradictis rebus deesse manifestum est. Numerus enim ipse discretus est, nec partes eius ad se invicem coniunguntur sed omnino discretae sunt. Atque idcirco non est ex iis quae habent ad se invicem aliquam partium positionem, nec vero possis ostendere qui numerus quo loco iaceat: habere autem positionem dicitur, quod (ut dictum est) et in loco aliquo positum est, et ipsa positio manentibus partibus constat, et ad se invicem coniunuatisque, ut ubiquaeque iaceat, et quae ad quam continvetur possit ostendi; in numero vero nihil horum est. Nam neque in aliquo loco esse positus demonstratur, nec eius partes coniunctae sunt. Quocirca numero ex tribus his quae diximus duae res desunt, loci positio et partium continuatio, tempus etiam quamquam sint eius partes continuae, tamen quoniam non permanent sed semper moventur, semperque praetereunt, habere positionem partium non dicitur. Semper enim veloci agitatione torquetur, et currentis aquae more in nulla unquam statione consistit, quod quia partes eius non permanent, ex habentibus ad se invicem positionem suis partibus constare non dicitur. Sed haec quamquam positione in partium habere non possunt, tamen habent ordinem quemdam, quem praeter positionem partium tantum retinent. Dicimus enim priorem esse binarium quamternarium, atque hunc quam quaternarium, et intempore nimirum idem ordo reuertitur. Posterius enim futurum praesente, praesensque praeterito. Quocirca etsi haec non habent aliquam partium positionem, retinent tamen ordinem. Quod vero dicit, positionem vero non multo accipies, tales est ac si diceret, penitus non accipias. Multum enim pro omnino videtur adiunctum, ac si diceret positionem vero non omnino accipies, idcirco quod ipsa quidem continuatio dat aliquam imaginem, quod possit habere aliquam partium positionem sed hoc minime est, idcirco quod quamvis sint continuae quantitates, si tamen uno careant ex his quae superius dicta sunt, positionem partium habere non possunt. Nam aqua quam fistula euomit, dum cadit quidem retinet positionem; cum vero iam effusae undae se miscuerit, pcsitionem partium perdit: et fluuius quoque quando in pelagus fluit, et positionem videtur habere partium et esse continuus, cum nondum marinae aquae fluuii superficies ipsa permista est; cum vero extremitas amnis marina alluuione contingitur, totam sine dubio positionem videtur amittere. Oratio quoque similiter sese habet; nam nec ipsa ullo loco posita est, nec eius partes ad aliquam coniunguntur sed a seinvicem illae discretae sunt, nec cum eius partes dictae sunt, permanent, atque hoc est quod ait. Sed dictum est, et non est ultra hoc sumi. Mox enim dicitur sermo, mox praeterit, nec ullaratione poterit permanere, quare mox ut aliquid dictum sit, eius partes ostendi et demonstratione sumi non possunt. Constat igitur orationem quoque ex his esse quae positionem partium non habent, de ordine vero dubium est. Nam si quis sermo aliquid significet, ut est Cicero, est in eo quidam ordo quod ci syllaba primum dicitur, secunda vero ce, tertia ro, et potius ex significatione ordinem sumit; si vero nihil significet, nec ordinem dicitur habere, ut scindapsus nihil quidem significat; sed sive secundam syllabam primam ponas, sive ultimam primam, sive quomodolibet syllabarum ordinem seriemque permisceas, idem erit: in significativis enim vocibus idcirco esse dicitur, quod illo ordine permutato vis significationis euertitur, hic vero, ubi nulla est significatio, nihil interest quomodolibet iaceant partes. Quare oratio in aliquibus quidem habet ordinem partium, in aliis vero nec ordo ipse poterit inveniri. An fortasse oratio dici non potest quae nihil significat, et nulla est oratio, quae ordinem non habeat? Ergo secundum priorem quantitatis divisionem, ubi dicebatur quantitatis alia esse continua, alia vero discreta, quinque sunt continua, duo vero discreta. Continua quidem linea, superficies, soliditas, locus, tempus. Discreta vero numerur, et oratio. In hac vero secunda divisione qua dicit alias quantitates ex habentibus ad se invicem positionem constare partibus, quattuor quidem sunt qua, retinent positionem, id est linea, superficies, corpus, locus; tria vero quae positionem non habent sed ex his duo semper ordinem retinent, tempus scilicet et numerus. Oratio vero si quid significet, habet ordinem; si vero nihil significet, inordinata est; si tamen oratio nihil significans dici possit, his dictis ipse concludit dicens: Igitur alia ex habentibus ad se invicem partibus positionem constant, alia vero ex non habentibus positionem. Hac igitur divisione finita 209A transit ad caetera monstrans quae proprie quantitates nuncupatur, quae secundum accidens. PROPRIE AUTEM QUANTITATES HAE SOLAE SUNT QUAS DIXIMUS, ALIA VERO OMNIA SECUNDUM ACCIDENS SUNT; AD HAEC ENIM ASPICIENTES ET ALIAS DICIMUS QUANTITATES, UT MULTUM DICITUR ALBUM EO QUOD SUPERFICIES MULTA SIT, ET ACTIO LONGA EO QUOD TEMPUS MULTUM ET LONGUM SIT, ET MOTUS MULTUS; NEQUE ENIM HORUM SINGULUM PER SE QUANTITAS DICITUR; UT, SI QUIS ASSIGNET QUANTA SIT ACTIO, TEMPORE DEFINIET, ANNUAM VEL SIC ALIQUO MODO ASSIGNANS, ET ALBUM QUANTUM SIT ASSIGNANS SUPERFICIE DEFINIET (QUANTA ENIM FVERIT SUPERFICIES, TANTUM ESSE ALBUM DICET); QUARE SOLAE PROPRIE ET SECUNDUM SE IPSAE QUANTITATES DICUNTUR QUAE DICTAE SUNT, ALIORUM VERO NIHIL PER SE SED, SI FORTE, PER ACCIDENS. Principaliter aliquid esse dicitur, quod per se tale est quale esse demonstratur. Secundum accidens vero illud quod non per se sed per aliud tale est quale esse dicitur, ut albedini per se inest color: secundum naturam enim albi, color esse dicitur albedo; cum vero homo dicitur coloratus, non per se dicitur, idcirco quod homo in eo quod homo est, color non est sed quoniam habet colorem, idcirco dicitur coloratus. Ergo quemadmodum album idcirco color est per se quoniam color naturale quoddam est genus, homo vero idcirco coloratus dicitur quoniam habet colorem; et dicitur album quidem per se et principaliter color, homo vero secundum accidens coloratus. Ita quoque et quantitates; haec enim omnia quae dicta sunt, id est linea, superficies, corpus, numerus, oratio, tempus, per se et secundum et propriam naturam quantitates dicuntur. Si qua vero alia dicuntur secundum aliquam quantitatem, non per se sed secundum accidens nominantur: ut album dicitur multum, non idcirco quod albedo sit quantitas sed quoniam multa sit superfieies, in quo illud album sit. Si enim multum spatium fuerit in quo album sit, multum erit album; quocirca non quoniam ipsa albedo per se aliquam quantitatem habet sed quoniam in aliqua quantitate est constituta, id est in superficie, idcirco secundum superficiem quod est quantitas quas scilicet per se multa est, album multum dicitur, non secundum se, atque ideo album non per se, nec principaliter sed secundum accidens multum dicitur. Actio quoque ideo dicitur longa, quod multo tempore acta sit; multam vero aegritudinem idcirco dicimus, si eadem multo sit tempore; et motum multum idcirco, quod multo tempore factus sit, ut si quis multo tempore eurrat. Si quis vero multum cursum illum dicat esse qui sit velocissimus, ille convenienler sermone non utitur. Velocitas enim non quantitas sed potius qualitas est, quales enim secundum eam dicimur, id est veloces, non quanti. Secundum quantitatem vero multum dicitur, hoc autem monstrat ipsa rerum definitio; si quis enim album multum monstrare desideret, et proprio termino rationis includere, illi dicendum est multum esse album quod in multa iaceat superficie, et motum atque actionem multam quae longo tempore perficiatur; quare quoniam ad proprias quantitates aspicientes, atque ad eas res caeteras referentes, quantitates vocamus, ut album ad superficiem quae vera est quantitas, et cursum, et aliquem motum atque actionem ad tempus, quod ipsum vere quantitas est reducimus, haec non per se quantitates sed per eas quae proprie quantitates dictae sunt nominantur. Quocirca quoniam quod per se non est, secundum accidens est, recte caetera omnia praeter ea quae superius in quantitate numerata sunt per accidens esse, non per se quantitates dicuntur. Solae igitur proprie et secundum se ipsae quantitates dicuntur, hae quae superius comprehensae sunt. Aliae vero per se quantitas non sunt sed (ut ipse ait) forte per accidens. Post divisionem igitur continui atque discreti et habentis positionem partium et non habentis, et quae sunt per se principaliter, et rursus per accidens quantitates, solito more viam inveniendi quantitatum proprietas ingreditur. QUANTITATIBUS VERO NIHIL EST CONTRARIUM (IN HIS ENIM QUAE DEFINITA SUNT MANIFESTUM EST QUONIAM NIHIL EST CONTRARIUM, UT BICUBITO VEL TRICUBITO VEL SUPERFICIEI VEL ALICUI TALIUM -- NIHIL ENIM EST CONTRARIUM), NISI MULTA PAUCIS DICAT QUIS ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM MINORI. HORUM AUTEM NIHIL EST QUANTITAS SED AD ALIQUID; NIHIL ENIM PER SE IPSUM MAGNUM DICITUR VEL PARUUM SED AD ALIUD REFERTUR; NAM MONS QUIDEM PARUUS DICITUR, MILIUM VERO MAGNUM EO QUOD HOC QUIDEM SUI GENERIS MAIUS SIT, ILLUD VERO SUI GENERIS MINUS; ERGO AD ALIUD EST EORUM RELATIO; NAM, SI PER SE IPSUM PARURUM VEL MAGNUM DICERETUR, NUMQUAM MONS QUIDEM ALIQUANDO PARUUS, MILIUM VERO MAGNUM DICERETUR. RURSUS IN VICO QUIDEM PLURES HOMINES ESSE DICIMUS, IN CIVITATE VERO PAUCOS CUM SINT EORUM MULTIPLICES, ET IN DOMO QUIDEM MULTOS, IN THEATRO VERO PAUCOS CUM SINT PLURES. AMPLIUS BICUBITUM VEL TRICUBITUM ET UNUMQUODQUE TALIUM QUANTITATEM SIGNIFICAT, MAGNUM VERO VEL PARUUM NON SIGNIFICAT QUANTITATEM SED MAGIS AD ALIQUID; QUONIAM AD ALIUD SPECTATUR MAGNUM ET PARUUM; QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC AD ALIQUID SUNT. AMPLIUS, SIVE ALIQUIS PONAT EA ESSE QUANTITATES SIVE NON PONAT, NIHIL ILLIS ERIT CONTRARIUM; QUOD ENIM NON EST SUMERE PER SE IPSUM SED AD SOLAM ALTERIUS RELATIONEM, QUOMODO HUIC ALIQUID ERIT CONTRARIUM? AMPLIUS, SI SUNT MAGNUM ET PARUUM CONTRARIA, CONTINGIT IDEM SIMUL CONTRARIA SUSCIPERE ET EA IPSA SIBI ESSE CONTRARIA. CONTINGIT ENIM SIMUL IDEM PARUUM ESSE ET MAGNUM (EST ENIM AD HOC QUIDEM PARUUM, AD ALIUD VERO HOC IDEM IPSUM MAGNUM); QUARE IDEM PARUUM ET MAGNUM ET EODEM TEMPORE ESSE CONTINGIT, QUARE SIMUL CONTRARIA SUSCIPIET; SED NIHIL EST QUOD VIDEATUR SIMUL CONTRARIA POSSE SUSCIPERE; UT SUBSTANTIA, SUSCEPTIBILIS QUIDEM CONTRARIORUM ESSE vidETUR SED NULLUS SIMUL SANUS EST ET AEGER, NEC ALBUS ET NIGER SIMUL; NIHILQUE ALIUD SIMUL CONTRARIA SUSCIPIT. ET EADEM SIBI IPSIS CONTINGIT ESSE CONTRARIA; NAM SI EST MAGNUM ET PARUUM CONTRARIUM, IPSUM AUTEM IDEM SIMUL EST PARUUM ET MAGNUM, IPSUM SIBI ERIT CONTRARIUM; SED IMPOSSIBILE EST IPSUM SIBI ESSE CONTRARIUM. NON EST IGITUR MAGNUM PARUO CONTRARIUM NEC MULTA PAUCIS; QUARE SI QUIS HAEC NON RELATIVA ESSE DICAT, QUANTITAS TAMEN NIHIL CONTRARIUM HABEBIT. Definita quantitas est quae alicuius termino numeri coercetur, ut sunt duo, vel tres, et quae ad hunc modum dicuntur, ac si dicas bicubitum, tricubitum, et caetera. Et quae aliquid propria significatione definita sunt, ut est superficies et soliditas, quid enim et quae quantitates dicantur, agnoscitur: quocirca harum, quoniam sunt definitae, nulla ulli contraria est; neque enim bicubito tricubitum contrarium est, sicut neque numerus ulli numero, at vero nec superficies soliditati, nec aliquid horum. Sed quoniam quaedam indefinita imaginem quamdam quantitatis ostendunt ut magnum et paruam, quae videntur esse contraria, haec sibi Aristoteles opponit dicens non esse quantitates sed magis ad aliquid, quod ipsius sermonibus astruamus. Sed non est hoc proprium quantitatis non habere contraria, non enim omnis quantitas contrariis caret sed nobis per singula quaeque currentibus quae quantitatis species contraria non habeant, quaeue habeant, considerandum est linea quidem contrario caret, linea enim lineae contraria non est; sed si quis dicat rectam lineam curuae lineae esse contrariam, fallitur. Non enim in eo quod linea est, curua linea recta? Lineae contraria est sed in eo quod curua est, et in his non lineae videntur esse contrariae sed ipsa rectitudo et curuitas. Quare non in eo quod quantitas est, linea curua rectae lineae contraria est sed in eo quod qualis. Nam quoniam curuitas et rectitudo contraria sunt, secundum id quod curua et recta est linea, non secundum quod lineae sunt, suscipiunt contrarietatem; quocirca linea in eo quod linea est contrario caret. At vero nec superficies superficiei contraria est. Sed forte dicat aliquis albam superficiem nigrae superficici esse contrariam; cui similiter occurrendum est, in co quod superficies sunt non esse contraria sed in eo quod est in his albedo utque nigredo, quae contraria esse quis dubitat? Eadem quoquemodo et lenem et asperam superficiem si quis contrarias dixerit, refellitur, quod non secundum quantitatem superficici sed secundum qualitatem asperitatis lenitatisque ipsae superficies contrarium tenent. At vero nec corpori quidquam ullo modo contrarietatis opponitur, cui si qui dicat incorporale esse contrarium, refutabitur, quod omnis contrarietas propriis nominibus dicitur, ut bonum malum, album nigrum; corporale vero et incorporale non secundum contrarietatem sed secundum privationem habitumque proferuntur. Incorporale enim corporis est privatio. Nec tempori quoque quidquam contrarium est sed si nox diei videtur opposita, non in eo quod tempus est sed in eo quod dies est aer lucidus, nox aer obscurus. Aer vero neque tempus neque quantitas est, lumen quoque et obscuritas qualitates sunt et non quantitates. Oratio etiam quamquam videatur habere contrarium, tamen contrariam non habet oppositionem, videtur etiam vera oratio esse et falsa, quae sunt contraria sed oratio vera et falsa in significatione est. Cum enim quod est oratio significat, vera est; cum vero quod non est designat, tunc falsa est. Oratio vero non secundum id quod significat in quantitate numeratur sed secundum id quod profertur. Secundum enim id quod proferimus orationem, longa syllaba brevique componitur, quae omnem orationem non secundum id quod ipsa significat sed secundum id quod ad prolationem est, metiantur. Illud quoque manifestum est in numero non esse contraria, duo enim tribus, vel tres quaternario contrarli non sunt, nec ullus alter numerus cuilibet alii numero contrarius est. Locus vero habet aliquam contrarietatem, ursum enim et deorsum contrarium est. Sed quidam volunt non esse quantitatis quod sursum dicitur et deorsum sed potius habitudines, quas Graeci *skeseis* vocant: quae enim pars ad caput nostrum est, hunc sursum vocamus; quae pars pedibus subiacet, illa deorsum dicitur; quocirca secundum habitudinem quamdam quodammodo ad nos ipsos relata sursum deorsumque praedicamus. Herminius quoque ait sursum et deorsum non esse loca sed quamdam quodammodo positionem loci. Est enim res sursum atque deorsum, non est autem idem esse aliquid loci, quod locum, loci enim est positio in loco, locus vero ipse positio non est. Sed si quis omnem mundi respiciat figuram, quomodo rerum omnium formam sphaerae ambitus amplectitur, et terra media est, in sphaera vero nihil est ultimum, nisi quod eiusdem terminum medietatis obtinuit, quidquid in extremo caeli convexitatis est, illud sursum esse dicet, quod vero est medium, illud deorsum. Quocirca sunt secundum locum sursum deorsumque contraria, sursum in caelo, deorsum in terra, idcirco quod a se longe disiuncta sunt, unde post quoque contraria hoc modo sunt definita. Contraria sunt quaecumque a se longissime distant: hinc est videlicet tracta definitio, quod quoniam caelum terraque distant, longissime distare videbantur, et illud esse sursum, haec vero deorsum, quoniam deorsum aeque sursum non ob aliam causam contraria dicuntur, nisi quod a se longe disiuncta sunt, quod esse contrarium longissime diatare definiunt, quod Aristoteles hoc modo pronuntiat. MAXIME AUTEM CIRCA LOCUM ESSE VIDETUR CONTRARIETAS QUANTITATIS; SURSUM ENIM EI QUOD EST DEORSUM CONTRARIUM PONUNT, REGIONEM MEDIAM DEORSUM DICENTES PROPTEREA QUOD MULTA DISTANTIA EST MEDIETATIS AD MUNDI TERMINOS. VIDENTUR AUTEM ET ALIORUM CONTRARIORUM DEFINITIONEM AB HIS PROFERRE; QUAE ENIM MULTUM A SE INVICEM DISTANT IN EODEM GENERE CONTRARIA ESSE DEFINIUNT. In omni enim sphaera media terra est, quod ipsa astrorum demonstrat ordinata vertigo, adiecit quoque causam cur huiusmodi loca contraria dicantur, quod multa distantia est medietatis ad mundi terminus. TERMINOS vero MUNDI caeli ultimam convexitatem dicit; ex hac igitur loci contrarietate et caetera definita esse contraria sic demonstrat. Videntur autem et aliorum contrariorum definitionem ab his proferre, quae enim multum a se distant in eodem genere contraria esse definiunt. Sed quoniam ne ordo contrarietate quantitatis impediretur, idcirco superioribus, in quibus singulis quantitatibus nihil esse contrarium dicebamus, has loci contrarietates adiecimus, et quaedam in medio praetermissa sunt, rursus ad superiora redeamus, ut expositionis ordo sese ipse continvet. Ait enim superius, cum quantitati nihil esse contrarium proponeret, bicubito, veltricubito, vel superficiei, vel aliqui talium nihil posse esse contrarium. Definitis enim his quantitatibus, contrarium nihil esse videtur, ut duobus vel tribus sed quadam cum sint indefinita, nec quantitates et contraria videantur, haec rursus adiecit. Nisi multa paucis dicat quis esse contraria, vel magnum paruo. Horum autem nihil est quantitas sed ad aliquid, nihil enim per seipsum magnum dicitur vel paruum sed ad aliquid refertur. Nam mons quidem paruus dicitur, milium vero magnum, eo quod hoc quidem sui generis maius sit, illud vero sui generis minus. Ergo ad aliud est eorum relatio, nam si per seipsum paruum vel magnum diceretur, nunquam mons quidem aliquando paruus, milium vero nunquam magnum diceretur. Rursus in vico quidem plures homines esse dicimus, in civitate vero paucos, cum tamen sint eis multo plures, et in domo quidem multos, in theatro vero paucos, cum sint plures. Amplius bicubitum et tricubitum et unumquodque talium quantitatem significat, magnum vero vel paruum non significat quantitatem sed magis ad aliquid, quoniam ad aliquid spectatur magnum et paruum; quare manifestum est quod haec ad aliquid sunt. Quemadmodum definitae quantitates contrariis non tenentur, ipse superius comprobavit dicens bicubito vel superficiei nihil esse contrarium, indefinitae vero, ut est magnum et paruum, multa et pauca, dant imaginem contrarietatis. Sed illud occurrit, has non esse quantitates. Omnis enim quantitas per se dicitur, bicubitum enim et tricubitum, et duo, et tres, et superficies ad nihil aliud refertur, magnum vero vel paruum sine aliis dici non possunt. Cum enim dicis magnum, ad alicuius alterius comparationem atque aequationem refertur. Eodem quoque modo et paruum, quod ipsa Aristotelica probat inductio. Si enim magnum et paruum per se dicerentur ad alterius relationem, nunquam diceremus montem paruum et milium magnum. Si enim magnum paruumque non ad relationem alterius diceretur, mons semper magnus, semperque paruum milium diceretur. Sed aliquem collem ad Atlantis altitudinem conferentes, dicimus paruum montem, et rursus milium ad minora alia grana milii conferentes, magnum milium nominanus, et simpliciter quidquid magnum vel paruum dicitur ad eiusdem generis speciem referentes, magnum paruumque nominamus, ut monti montem comparamus, milium vero milio, et alia huiusmodi. Multa et pauca eodem modo dicuntur; dicimus enim, si fuerint homines centum in vico, plures esse homines. At vero si in civitate sint, paucos dicimus, nunc ad paruitatem vicorum, nunc ad magnitudinem civitatum conferentes. Rursus si sint in domo quinquaginta multi sunt si in theatro pauci, ideo quod tunc in theatro esse paucos dicimus cum ad eos quanti in theatro esse debebant comparamus. Amplius: quoniam consistit magnum paruumque referri semper ad alterum, singulas vero quantitates nihil ad aliud comparantes, suas ac proprias nominamus, ut tres, duo, quator, lineam, superficiem, magnum paruumque, multa et pauca, a quantitatis divisione disiunota sunt. Sunt enim ista non quantitates sed potius relativa. Amplius: sive aliquis ponat eas esse quantitates, sive non ponat, nihil illis erit contrarium, quod enim non est sumere per seipsum sed ad solam alterius relationem, quomodo huic aliquid erit contrarium. Hoc quoque validissimo argumento probatur quantitatibus his quae praedictae sunt nihil esse contrarium, nisi soli forsitan loco. Nam si quis magnum et paruum, vel multa et pauca in quantitatibus ponat, etiam hoc si concedatur, tamen quoniam semper referuntur ad aliud, contrariis non tenentur. Omne enim contrarium per se consistit, ne illud ad alterius comparationem relationemque profertur, ut bonum non dicitur mali bonuum, nec rursus malum boni malum sed ipsum in propria natura et prolatione consistit. Quaecumque sunt contraria, eodem modo sunt. Magnum vero et paruum quoniam non per se constant sed ad alterius relationem referuntur, contraria esse non possunt. Amplius: si sunt magnum et paruum coniraria, contingit idem simul contraria suscipere et ea ipsa sibi esse contraria. Contingit enim simul idem paruum esse et magnum. Est enim aliquid ad hoc quidem paruum, ad aliud vero hoc idem ipsum magnum. Quare idem paruum et magnum et eodem tempore esse contingit, quare simul contraria suscipiet sed nihil est quod videatur simul contraria posse suscipere, ut substantia, susceptibilis quidem contrariorum videtur esse sed non suscipit in uno eodem tempore, nam nullus simul est sanus et aeger, nec albus et niger simul, nihilque aliud simul contraria suscipiet. Et eadem sibi ipsi contingit esse contraria. Nam si est magnum paruo contrarium, ipsum autem idem simul est paruam et magnum, ipsum sibi erit contrarium, sed impossibile est ipsum sibi esse contrarium. Non est igitur magnum paruo contrarium. Constat hoc et immutabile in propria ratione consistit, unam eamdemque rem uno eodemque tempore contraria non posse suscipere, ut substantia susceptibilis quidem contrariorum est. Homo namque cum substantia sit, et aegritudinem suscipiet et salutem sed non eodem tempore, et albedinem et nigredinem capit sed alio atque alio tempore, ut vero uno eodemque tempore contraria utraque suscipiat, fieri nequit, quodsi magnum paruo aliquis contrarium ponat, eveniet quoddam impossibile, ut una atque eadem res eodem tempore utrasque suscipiat contrarietates, et eadem ipsa sibi possint esse contraria. Ponamus enim magnum paruo esse contrarium sed una atque eadem res, uno eodemque tempore potest magna esse et parua, ut si sit decem pedum mensura collata ad duorum pedum magnitudinem, magna est ad centum vero cubitorum magnitudinem mansuramque collata, eadem parua est. Potest ergo eadem res eodem tempore et magnitudinis esse susceptibilis et paruitatis. Eadem enim res uno eodemque tempore ad maiorem minoremque collata eadem magna et parua est. Quod si magnum paruo contrarium est, eadem vero res eodem tempore et magnitudinem suscipit et paruitatem, eodem tempore contingit ut eadem res contraria utraque suscipiat sed hoc impossibile est. Quocirca quoniam res eadem eodem tempore contrariorum susceptibilis non est, potest vero una atque eadem res magnitudinem paruitatemque suscipere, magnitudo et paruitas contraria non sunt. At vero si quis magnum paruo contrarium ponat, eadem ratione unam eamdemque rem sibi ipsi dicit esse contrariam. Nam si paruum magno est contrarium, eadem vero res (ut docui) parua et magna potest esse ad aliud et ad aliud scilicet comparata. Res quae parua et magna est, eadem sibi potest esse contraria, paruum enim et magnum contrarium dictum est sed est impossibile. Quocirca paruum et magnum contraria non sunt. Post huiusmodi vero rationem et argumentationis firmissimae propositionem de contrarietate disserit loci, de qua superius iam diximus, quocirca praetereunda est, ne repetitae expositionis iteratio, fastidio sit potius quam doctrinae. NON VIDETUR AUTEM QUANTITAS SUSCIPERE MAGIS ET MINUS, UT BICUBITUM (NEQUE ENIM EST ALIUD ALIO MAGIS BICUBITUM); NEQUE IN NUMERO, UT TERNARIUS QUINARIO (NIHIL ENIM MAGIS TRIA DICENTUR, NEC TRIA POTIUS QUAM TRIA); NEC TEMPUS ALIUD ALIO MAGIS TEMPUS DICITUR; NEC IN HIS QUAE DICTA SUNT OMNINO ALIQUID MAGIS ET MINUS DICITUR. QUARE QUANTITAS NON SUSCIPIT MAGIS ET MINUS. Aliud proprium rursus apposuit quod quamvis quantitatis proprium non sit, cur tamen non sit ipse reticuit, nobis tamen est demonstrandum; quod autem dicit tale est: quantitas magis et minus non suscipit, nullus enim numerus alio numero nec magis nec minus est numerus. Nam ternarius si quinario comparetur, nec magis nec minus est numerus, et rursus ipsi tres sibi ipsis comparati, nec magis nec minus sunt tres, nec tempus quoque habet aliquid magis et minus, ut magis aliud tempus sit alio tempore, longius quidem tempus tempore esse potest, ut vero dicatur magis tempus alio tempore vel minus fieri nequit. Hoc quoque etiam in substantia demonstratum est, homo namque alio homine non est magis homo, nec minus. Idem quoque evenit etiam in quantitate. Quod quia etiam in substantia est, proprium quantitatis hoc non est, habet hoc quoque quantitas ut in sequenti ordine ipse monstravit. Quocirca quoniam prius hoc de substantia dixerat, nunc vero idem de quantitate proposuit, idcirco non esse hoc proprium quantitatis, commemorare neglexit. Cuius enim esset alterius non suscipere magis et minus, tunc dixit cum de substantia disputaret. Ait enim quod substantia nunquam magis minusue suscipient, quocira ad maxima propria solita constituendi ratione regressus est. PROPRIUM AUTEM MAXIME QUANTITATIS EST QUOD AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR. SINGULUM ENIM EARUM QUAE DICTAE SUNT QUANTITATUM ET AEQUALE DICITUR ET INAEQUALE, UT CORPUS AEQUALE ET INAEQUALE, ET NUMERUS AEQUALIS ET INAEQUALIS DICITUR, ET TEMPUS AEQUALE ET INAEQUALE; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS QUAE DICTA SUNT E SINGULIS AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR. IN CAETERIS VERO QUAE QUANTITATIS NON SUNT, NON MULTUM VIDEBITUR AEQUALE ET INAEQUALE DICI, NAMQUE DISPOSITIO AEQUALIS ET INAEQUALIS NON MULTUM DICITUR SED MAGIS SIMILIS, ET ALBUM AEQUALE ET INAEQUALE NON MULTUM SED SIMILE. QUARE QUANTITATIS PROPRIUM EST AEQUALE ET INAEQUALE NOMINARI. Quantitatis proprium apertissime designat esse, quod secundum quantitatem aequalitas et inaequalitas nuncupatur. Singulae enim quantitates aequales atque ivaequales dicuntur, ut aequalis linea lineae, et rursus inaequalis, et superficiei superficies aequalis atque inaequalis dicitur, et corpus aequale et inaequale dicitur. Numerus quoque et tempus et locus aequalis atque inaequalis dicitur. In aliis autem quae quantitates non sunt, non est facile ut aequalitas vel inaequalitas nominetur dispositiones ergo quae affectiones appellantur, non dicuntur aequales vel inaequales sed magis similes et dissimiles. Dispositio autem vel affectio est ad aliquam rem accommodatio et applicatio, ut si quis grammaticam legens, qui nondum perdidicit, habet ad eam aliquam dispositionem, id est, ea affectus est, et habet aliquid accommodatum, et quasi propinquum. Possunt autem similiter esse duo dispositi et affecti, aequaliter vero minime, ut duo similiter esse albi, aequaliter vero non. Nam si quis de duobus similiter albis aequaliter esse albos dicat, recta nominis nunc usurpatione non utitur. Omne enim aequale et inaequale, in mensura et in quantitate perficitur. Simile vero et dissimile quemadmodum de quantitate non dicitur, ita nec de alia qualibet re nisi de quantitate, recte aequalitas et inaequalitas nuncupantur. Quare proprium est quantitatis aequale et inaequale nominari. Sed quoniam de quantitate dictum est, ad relativorum ordinem transeamus. Post quantitatis tractatum tertium praedicamentum de relativis ingreditor, quare relativa hoc modo definit. AD ALIQUID VERO TALIA DICUNTUR QUAECUMQUE HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR, VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD, UT MAIUS HOC IPSUM QUOD EST AD ALIUD DICITUR (ALIQUO ENIM MAIUS DICITUR), ET DUPLEX AD ALIUD DICITUR HOC IPSUM QUOD EST (ALICUIUS ENIM DUPLEX DICITUR); SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE ALIA TALIA SUNT. Cur autem de his quae sunt ad aliquid disserat, omisso interim de qualitate tractato, haec causa est, quod posita quantitate magis minusue esse necesse est. Quare cum quantitatem continuo ad aliquid consequatur, recte post quantitatem relativorum series ordinata est. Illud quoque est in causa, quod superius com de quantitate tractaret, relativorum mentio facta est, cum de magno paruoque diceretur, ut ergo continens et non esset operis interrupta distinctio, ideo quantitate finita de relatione, proposuit. Quod autem ait, ad aliquid vero talia dicuntur, hoc monstrat, quod non sicut quantitas per se et singulariter intelligi potest, eodem quoque modo substantia et qualitas, et unumquodque aliorum praedicamentorum, sicut per se constat, ita etiam per se et singulariter intelligitur: sic ad aliquid per se et singulariter capi intellectu non potest, ut dicamus esse ad aliquid singulariter. Quidquid enim in natura relationis agnoscitur, id cum alio necesse est consideretur; cum enim dico dominus, per seipsum nihil est, si seruus dicit. Quocirca cum unius relativi nuncupatio mox secum etiam aliud trahat ad aliquid, unum esse per se non potest, atque ideo non dixit Aristoteles: Ad aliquid vero tale dicitur sed, plurali numero, talia dicuntur, inquit, demonstrans relativorum intelligentiam non in simplicitate sed in pluralitate consistere; non esse autem quamdam per se relativorum naturam sine coniunctione aliqua alterius subsistente, ipse Aristoteles monstrat, qui dicit ea esse relativa, quaecumque hoc ipsum quod sunt aliorum dicuntur. Docet enim aliqua coniunctione alterius relativa formari, hoc ipsum enim quod sunt aliorum dicuntur. Quod enim est dominus, hoc alterius dicitur, id est serui. Sive autem relativa dicamus, sive ad aliquid, nihil interest. Ad aliquid enim dicitur quod ipsum quidem cum per se nihil sit, relatum tamen ad aliud constat, ut dominus, sit desit id ad quod dicitur, id est, seruus, non est, dicitur enim ad seruum; munifestum ergo est si seruus desit, dominum dici non posse, quare dominus ad aliquid dicitur, id est ad seruum. Relativa quoque dicuntur idcirco, quod eorum nuncupatio semper ad aliquid referatur, ut domini ad seruum, quare nihil interest quolibet modo dicatur. Huiusmodi autem definitio Platonis esse creditur, quae ab Aristotele paulo posterius emendatur. Relativorum autem alia eisdem casibus referuntur, alia diversis, alia vero omni sunt casu carentia. Qued scilicet monstrans addidit, vel quomodolibet aliter ad aliud. Quid autem est, ipsius pene textus sermone moustratur. Cum enim dico dominus serui dominus, ad genitivum casum reddidi nominativum, et rursus ad eumdem si convertero. Dico enim seruus domini seruos, et hic quoque nominativus ad genitivum relatos est. Eodem quoque modo sese habet pater filii pater, et filios patris filius, et magister discipoli magister, et discipulus magistri discipulos, haec ergo id quod sunt, similiter aliorum dicuntur. Nam quod aliorum dicuntur secundum gentiivum redditur casum, alia vero non secundum eumdem casum consequentiam reddunt. Sensus enim ad aliquid est, sensibilis enim rei est sensus. Quod enim sensibile est sentiri potest, quod senliri potest, sensibile est, et nunc quidem sensus sensibilis rei sensus genitivo accommodatus est. Huius enim rei sensibilis dictum est, at si convertas, 218A fiet. Sensibilis res sensu sensibilis est. Sed cum sic casui septimo redditur nominativus in hac relatione, quae dicit sensibile sensu sensibile est, non eodem casu quo superius dictum est convertitur. Dicimus enim sensus sensibilis rei sensus est, et hic nominativus redditur ad genitivum. Haec enim relatio ad septimum casum se aptari non patitur. Scientia quoque scibilis rei scientia est, siquidem hoc scitur quod sciri potest et quod sciripotest, scibile est sed non eadem ratione, nec ad eumdem casum relatio ista convertitur. Dicimus enim scibilis res scientia scibilis est. Est enim prima relatio ad genitivum, secunda conversio ad septimum. Haec quoque relatio secundum eosdem convertitur casus, cum dicimus maius minore esse maius, et minus maiore esse minus.  Duplum quoque et medium relativa sunt sed et eisdem casibus convertuntur. Duplum namque dimidii duplum est, dimidium vero dupli dimidium est. Sunt autem alia quoque relativa quae ipse sic addidit. AT VERO SUNT ETIAM ET HAEC AD ALIQUID, UT HABITUS, AFFECTIO, SCIENTIA, SENSUS, POSITIO; HAEC ENIM OMNIA QUAE DICTA SUNT HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR ET NON ALITER; HABITUS ENIM ALICUIUS HABITUS EST, ET SCIENTIA ALICUIUS SCIENTIA, ET POSITIO ALICUIUS POSITIO, ET ALIA QUIDEM SIMILITER. De sensu quidem et scientia dictum est superius, nunc vero de habitu, dispositione, et positione dicendum est. Dispositio est ad aliquam rem mobilis applicatio, ut si quisquam flammae propinquus calcat, ille dispositus dicitur ad calorem, id est, habens aliquam applicationem coniunctionemque ad calorem. Idem vero est affectio quod dispositio, ne nouo nomine error oriatur: et ideo dispositio cum eit quaedam ad aliam rem coniunctio, vel ab alia affectio, facile mobilis est, celerius etenim permutatur. Habitus autem est dispositionis vel affectionis firma et non facile permutabilis accessio, ut si quisquam in sole ambulans fuscior fiat, dispositus ad nigredinem dicitur et nigredine affectus. Sin autem illa nigredo fortius et immutabiliter corpus infecerit, habitus nominatur: quocirca habitus est inveterata affectio. Unde omnis habitus dispositio vel affectio est, non autem omnis dispositio vel affectio habitus. Et ne multa dicenda sint, hoc quoque constat in habitu et dispositione, quod habitus immutabilis passio est, dispositio vero non similiter sed affectio quaedam est, et ad aliquam rem coniunctio, quae potest facile permutari. Positio vero est alicuius rei collocatio, ut est statio, sessio, inclinatio, accubatio, et alia huiusmodi. Nam et qui stat quodammodo positus esse dicitur et collocatus. et qui sedet, et qui accumbit, et qui secundum caeteras positiones est positus appellatur. Quocirca et statio et sessio et accubatio positiones erunt. Sed quoniam quid essent dictum est, nunc si sunt ad aliquid videamus, habitum relative dici ea res probat, quae aliis quoque rebus documento fuit esse relativis, ut est in sensu atque in scientia. Idcirco enim dictum est sensum sensibilis rei esse sensum, quod res sensibilis est quae sentiri potest; est ergo habitus habilis rei habitus. Habilis enim res est quae haberi potest, illius enim rei habitus est quae haberi potest. Quocirca erit habitus habilis rei habitus sed res quoque habilis habitu erit habilis, ipso enim habita res quae haberi possunt habemus. Dispositio quoque eodem modo. Dispositio namque dispositae rei dispositio est, et disposita res dispositione disposita est. Caloris enim dispositio calentis, id est, ad calorem dispositi, dispositio est. Eodem modo dispositus ad calorem caloris dispositione dispositus est: velut si hoc modo sit dictum, omnis affectio affecti affectio est, et omne affectum affectione affectum est. Et calor calentis fit calor, et calens calore fit calidum. Positio quoque relativa est, nam positio positae rei positio est, et posita res positione posita est, et hoc intelligi convenit secundum priorem habitus et dispositionis modum. Illa quoque res probat positionem esse ad aliquid, quod eius species relativae sunt; statio enim stantis rei statio est, et qui stat statione stat; et de sessione quidem et de accubitu idem dici potest. Quocirca et habitus et dispositio vel affectio, et positio relativa sunt, et haec omnia vel similibus vel dissimilibus convenientibus tamen praedicationi casibus convertuntur. Eorum autem quae secundum casus convertuntur, alia sunt quae eodem nomine praedicantur, alia vero quae dispari: cum enim dico simile simili simile est, et aequale aequali aequale est, et dissimile dissimili dissimile est, eisdem vocabulis 219C eisdemque nominibus tota fit praedicatio. Cum autem dico duplum medii duplum, vel maius minore maius, disparibus vocabulis facta est praedicatio. Quoniam vero relativorum definitionem ita proposuit, ut diceret: ad aliquid vero talia dicuntur quaecumque hoc ipsum quad sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet, aliter ad aliud; quid esset hoc ipsum quod sunt aliorum dicuntur, iam diximus nunc quid sit; quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, requirendum est. Quod ipse Aristoleles couvenientibus in ordine probat exemplis; ait enim: AD ALIQUID ERGO SUNT QUAECUMQUE ID QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD; UT MONS MAGNUS DICITUR AD MONTEM ALIUM (MAGNUM ENIM AD ALIQUID DICITUR), ET SIMILE ALICUI SIMILE DICITUR, ET OMNIA 219D TALIA SIMILITER AD ALIQUID DICUNTUR. EST AUTEM ET ACCUBITUS ET STATIO ET SESSIO POSITIONES QUAEDAM, POSITIO VERO AD ALIQUID EST; IACERE AUTEM VEL STARE VEL SEDERE IPSA QUIDEM NON SUNT POSITIONES, DENOMINATIVE VERO EX HIS QUAE DICTAE SUNT POSITIONIBUS NOMINANTUR. Quoniam accubitus et statio et sessio positiones dicuntur, et quonism omnis positio ad uliquid est, sufficienter superius comprehensum est. Nunc vero quid sit quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, expediemus, in relatione per quam dicimus filius patris filius, nulla coniunctio mista est, nisi tantum sola casuum vis praedicationis huius membra coniungit. Cum autem dico montem magnum, ad alium referens paruam, ita propono, mons magnus, ad montem paruum, et mons paruus ad magnum, hic nullorum casuum vis: quamquam enim accusativus videtur esse permistus, tamen ille huius relationis vim non tenet sed praepositio quae ad accusativum datur; cum enim dico, mons magnus ad paruum montem, praepositio sola est quae vim huius continet relationis, ut si quis dicat magnus mons paruum montem, nihil significet definitum. Quocirca quamvis accusativus casus in hac propositione sit, non tamen hic vim casus tenet sed praepositio; atque hoc est quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, ut quoniam superius secundum casus relationes fieri dixerat, erant autem quaedam relationes quae nullis casibus tenerentur, adiecit hoc, vel quomodolibet aliter ad aliud, ac si diceret: Omnis relatio aut casibus fit, quod per hoc demonstravit quod ait, quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, aut praeter casus sunt, quod haec sententia docet, vel quomodolibet aliter ad aliud, atque haec hactenus. Sed cum positio sit ad aliquid, et sint species eius relativae (sessio enim et statio relativa sunt) sedere et stare nulla relatio est. Stare namque et sedere de statione et sessione denominative dicuntur. Omnis autem denominatio non est id quod est ea res de qua nominatur, ut grammaticus, non enim idem est quod grammatica de qua nominatus est. Quocirca si sedere de sessione, et stare de statione denominativum est, sessio vero et stati relativa sunt sedere et stare, quae a relativis denominativa sunt, relativorum genere non tenentur. Et universaliter, quidquid ex quibuslibet positionibus 220C denominatur, illud non ad relativa sed ad praedicationem quae situs dicitur reduci potest. INEST AUTEM ET CONTRARIETAS IN RELATIONE, UT VIRTUS MALITIAE CONTRARIUM EST, CUM SIT UTRUMQUE AD ALIQUID, ET SCIENTIA INSCIENTIAE. NON AUTEM OMNIBUS RELATIVIS INEST CONTRARIETAS; DUPLICI ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, NEQUE VERO TRIPLICI NEQUE ULLI TALIUM. Quemadmodum in substantia vel quantitate si eorum esset proprium contraria suscipere rimatus est, ita quoque nunc in relativis de contrarietate considerat, utrum relativorum sit proprium contraria posse suscipere, et quoniam virtus et vitia utraque sunt habitus, virtus enim est mentis affectio in bonam partem, et difficile commutabilis, vitium affectio in malam partem, ipsa quoque difficile mobilis et diuturnitate perdurans: quoniam igitur et vitium et virtus habitus sunt, omnis autem habitus ad aliquid esse monstratus est (habilis enim rei habitus est) erunt virtus atque vitium relativa sed haec contraria sunt, igitur relativa contraria suscipere non recusant. Sed si dicat quis: quid causae est ut virtutem atque vitium ipsumque habitum paulo post inter qualitates numeret? Atqui ut alia significatione una res diversis generibus supponatur, nihil prohibet, Socrates namque in eo quod est Socrates substantia est, in eo quod pater vel filius ad aliquid; ita ad aliud atque ad aliud ducta praedicatione eamdem rem sub diverso genere nihil poni prohibet. Habitus quoque et virtus et vitium eodem modo est. Potest enim in 221A qualitate poni habitus quod ex eo quales homines nuncupentur, habentes enim dicimus aliquos rei habitus retinentes. Virtus quoque qualitas est idcirco quod ex eo boni homines dicuntur et secundum illam qualitatem, id est bonitatem, quales homines, id est bonos homines nuncupamus; similiter autem et vitium. Ipse quoque habitus ad aliam praedicationem dictus fit iterum relativus: quod enim habitus habilis rei habitus est, ad aliquid est; et quod alicuius virtus est, ad aliquid virtus est, et quod alicuius vitium est, ad aliquid quoque ipsum est. Ergo nihil impedit easdem res ad aliud atque aliud versas diversae praedicationi substitui. Ipsum vero ad aliquid praeter ullum aliud praedicamentum intelligere non possumus, ut patrem et filium, dominum et servam secundum 221B substantiam consideramus. Nam et qui dominus et qui seruus est, substantia est. Duplum et triplum secundum quantitatem, haece nim in quantitate consistunt, scientia vero et inscientia secundum qualitatem. Secundum enim has quales dicimur, scientes scilicet atque inscii. Quocirca quoniam praeter aliud praedicamentum per se relativa nullus intelliget, secundum ea praedicamenta de quibus intelligitur relatio, secundum ea dicitur contraria posse suscipere: ut Socrates ipse quidem substantia est sed substantia contrarium non recipit. Pater vero alque filius secundum substantiam praedicatur, non est enim pater atque filius nisi in substantia sit. Quocirca quoniam secundum substantiam dicitur, contrarietate caret. Rursus duplum vel dimidium secundum quantitatem dicitur, quantitas vero contraria non habere monstrata est; igitur nec duplum atque dimidium contrariis pugnat. Qualitas vero recipit contrarietatem; bonum enim et malum secundum qualitatem opponuntur, bonum igitur et malum contrariis non carent. Igitur secundum quae praedicamenta relativa dicuntur, si illa suscipiunt contraria, et relatio suscipit. Sin vero illa prius repudiant contrarietatem, nec illud ad aliquid quod secundum ea dicitur ulla unquam contrarietate dividitur. Quare habere contraria relationis proprium non est, nam neque in sola relatione est (habet enim hoc quoque qualitas), nec in omnibus ad aliquid considerari potest. Quae enim secundum talia praedicamenta dicuntur ad aliquid quae non recipiunt contrarietatem, ut secundum substantiam pater et filius, vel secundum quantitatem duplum et medium, in talibus relativis contraria nullo modo reperiuntur. Quod vero neque soli neque omnibus inest, hoc proprium non est; non est igitur proprium relationis habere contraria. VIDENTUR AUTEM ET MAGIS ET MINUS RELATIVA SUSCIPERE; SIMILE ENIM MAGIS ET MINUS DICITUR, ET INAEQUALE MAGIS ET MINUS DICITUR, CUM UTRUMQUE SIT RELATIVUM (SIMILE ENIM ALICUI SIMILE DICITUR ET INAEQUALE ALICUI INTEQUALE). NON AUTEM OMNIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; DUPLEX ENIM NON DICITUR MAGIS ET MINUS DUPLEX, NEC ALIQUID TALIUM. Quaeritur nunc an relationis sit proprium suscipere magis et minus; sed in hoc illa ratio servatur, quemadmodum in contrariis dictum est. Quoniam quaecumque secundum ea dicuntur quae contraria non recipiunt, ipsa quoque contrariis carent. In hoc vero cum secundum quantitatem dicatur aequale et inaequale, suscipit et magis et minus. Dicitur enim magis aequale et minus aequale. Eodem modo et simile, magis simile et minus simile dicitur. Sed si forte quis dicat: cur cum quantitatis sit dici aequale et inaequale, et quantitas magis atque minus non suscipiat, aequale et inaequale et intensione crescat et remissione minuatur? Dicendum est quoniam quemadmodum substantia ipsa per se in eo quod substantia est non est proprium, ipsi tamen proprium est contraria posse suscipere, ita et in quantitate consideratur, proprium enim est, non hoc ipsum cuius est proprium sed quaedam alia extrinsecus qualitas passioque. Passio enim qualitatis est, et quaedam qualitas aequale et inaequale dici potest: quod quoniam non est idem proprium quod est illud cuius est proprium, et aequale vel inaequale dici, non est quantitas cuius est proprium sed quaedam qualitas et passio quantitatis. Haec autem dicitur ad aliquid, ipsum enim quod est alterius dicitur, aequale enim aequali aequale dicimus, et similiter simile similis simile. Sed non capiunt omnia relativa magis et minus. Nullus enim potest dicere magis et minus duplum esse aliquid: nam sive denarius ad quinarium comparetur, sive quaternarius ad binarium, aeque uterque duplus est, aeque uterque medietas. Qualitas quoque recipit magis et minus, dicimus enim magis album et minus album. Quare quoniam neque omni relationi neque soli inest suscipere magis et minus, et per qualitatem relatio suscipit et magis et minus, relationis proprium non est suscipere magis et minus. OMNIA AUTEM RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, UT SERUUS DOMINI SERUUS DICITUR ET DOMINUS SERUI DOMINUS, ET DUPLUM DIMIDII DUPLUM ET DIMIDIUM DUPLI DIMIDIUM, ET MAIUS MINORE MAIUS ET MINUS MAIORE MINUS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS. SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM, UT SCIENTIA SCIBILIS REI DICITUR SCIENTIA ET SCIBILE SCIENTIA SCIBILE, ET SENSUS SENSIBILIS SENSUS ET SENSIBILE SENSU SENSIBILE. Clara haec est proponentis et non inuoluta sententia. Dicit enim omnia relativa ad convertentia dici, quod ipse propriis patefecit exemplis. Omne enim ad aliquid ita ad aliud praedicatur, ut illud ad quod praedicatur videatur posse converti, et hoc est quod ait: OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Converti autem est, ut si prima res dicitur ad secundam, secunda rursus dicatur ad primam. Ponatur enim primus pater, secundus filius, et dicatur hoc modo, pater filii pater est; id rursus converti potest, ut prius ponamus filium, et talis sit praedicatio, filius patris filius. Ergo pater ad talem dicitur, id est ad filium qui convertitur: et filius qui dicitur ad patrem, ad talem rem dicitur, quae ipsa quoque convertitur, ut de filio praedicetur. Omniaque relativa hoc modo sunt, omne enim relativum ad tale aliquid praedicatur quod ipsum in praedicatione converti possit. Sed nec omnia dicuntur secundum eamdem vocis prolationem. Alia enim sunt quae eisdem casibus convertuntur, ut dictum est, pater enim filii pater est, et filius patris filius est. Alia vero quae non eisdem, ut scientia scibilis rei scientia est: hic genitivus est medius. Scibile autem scientia scibile est: hic septimus praedicationem tenet. Alia vero nullo (ut supra dictum est) casu coniuncta sibimet convertuntur, ut mons magnus ad paruum dicitur, et paruus ad magnum. Ergo OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, quamvis non eisdem casibus convertantur, quod ipse ait dicens: SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM. Quod vero addidit nimis diligenter adiectum est. AT VERO ALIQUOTIENS NON VIDEBITUR CONVERTERE NISI CONVENIENTER AD QUOD DICITUR ASSIGNETUR SED PECCET IS QUI ASSIGNAT; UT ALA SI ASSIGNETUR AVIS, NON CONVERTITUR UT SIT AVIS ALAE; NEQUE ENIM CONVENIENTER PRIUS ASSIGNATUM EST ALA AVIS; NEQUE ENIM IN EO QUOD AVIS, IN EO EIUS ALA DICITUR SED IN EO QUOD ALATA EST (MULTORUM ENIM ET ALIORUM ALAE SUNT, QUAE NON SUNT AVES); QUARE SI ASSIGNETUR CONVENIENTER, ET CONVERTITUR; UT ALA ALATI ALA, ET ALATUM ALA ALATUM. ALIQUOTIENS AUTEM FORTE ET NOMINA FINGERE NECESSE ERIT, SI NON FVERIT POSITUM NOMEN AD QUOD CONVENIENTER ASSIGNETUR; UT REMUS NAVIS SI ASSIGNETUR, NON ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO (NEQUE ENIM IN EO QUOD EST NAVIS, IN EO EIUS REMUS DICITUR; SUNT ENIM NAVES QUARUM REMI NON SUNT); QUARE NON CONVERTITUR; NAVIS ENIM NON DICITUR REMI. SED FORTE CONVENIENTIOR ASSIGNATIO ERIT SI SIC QUODAM MODO ASSIGNETUR, REMUS REMITAE REMUS, VEL ALIQUO MODO ALITER DICTUM SIT (NOMEN ENIM NON EST POSITUM); CONVERTITUR AUTEM SI CONVENIENTER ASSIGNETUR (REMITUM ENIM REMO REMITUM EST). SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, UT CAPUT CONVENIENTIUS ASSIGNABITUR CAPITATI QUAM SI ANIMALIS ASSIGNETUR; NEQUE ENIM IN EO QUOD ANIMAL EST CAPUT HABET (MULTA ENIM SUNT ANIMALIUM CAPITA NON HABENTIA). Supra iam de relativorum conversione proposuit, dixitque quidquid est ad aliquid, vel eisdem casibus vel dissimilibus, tamen ad convertentia dici: hoc vero idcirco evenit quod omne ad aliquid esse suum ex alterius habitudine et comparatione trahit; quodsi utraque secundum ad aliquid sint opposita, ad aliquid nuncupantur aequam vim vocabuli nuncupationemque sortita. Nam si pater et filius utrique ad aliquid sunt, si pater ad filium praedicatur, quoniam ad aliquid est, fllius quoque, quia ad aliquid est, ad quoddam aliud praedicabitur sed nullius est filius nisi patris. Ergo haec vocabula ex alterutra nuncupatione principium sumunt. Quocirca quae sibi invicem substantiam donant, recte ad se invicem praedicantur, et hoc quidem in omnibus relativis constat intelligi. Sed huiusmodi conversio non uno modo, nec quomodolibet fieri potest; nisi enim convenienter quaelibet illa res ad id quod dicitur praedicetur, huiusmodi conversio nulla ratione convertitur. Cum enim dicatur caput animalis caput dici non potest, animal capitis animal. Ergo ita redditum nulla ratione convertitur. Atque hoc est quod ait, non videri in omnibus relativis posse converti, nisi convenienter ad quod dicitur assignetur. Si enim peccet is qui assignat, ut non convenientem praedicationem faciat, conversio non procedit; quae tamen est ipsa convenientia qua possint semper relativa converti, huiusmodi est. Cum enim dico alam avis esse alam, non convertitur, ut avis ala sit avis, idcirco quod non est convenienter facta praedicatio: non enim in eo quod avis est, in eo habet alam; multa enim sunt quae habent alam, aves tamen nullo modo nominantur, ut apes sunt et uespertitiones, et quidquid est aliud tale, habere quidem dicimus alas, eas tamen aves non dicimus. Quare non in eo quod avis est, in eo est eius ala sed in eo quod alata est; idcirco enim alam habet, quoniam alata est: et quidquid fuerit alatum, alas habebit. Quare ita facta praedicatio illam conversionem retinet atque custodit, ala enim alati ala est, et alatum ala alatum est. Eodem quoque modo de capite: si quis dicat caput animalis est caput, non convenienter vim praedicationis aptabit; non enim in eo quod animal est, in eo habet caput, multa enim sunt animalia quae capite carent, ut ostrea, et conchylia, et caetera huiusmodi. Igitur dicendum est caput capitatae rei esse caput, et capita tam rem capite esse capitatam. Videsne quemadmodum conveniens praedicatio aiternam in se vocabuli conversionem reuersionemque reddiderit? Ita quoque speculandum est et de alio exemplo quod ipse proposuit. Remus enim si navis remus dicatur, nullo modo convertitur, ut navis remi navis esse nominetur. Sunt enim quaedam naves quae remis penitus non utuntur, ut lintres quas solo subigunt conto, et idcirco non convertitur. Dicendum est igitur remum remitae rei esse remum, et remitam rem remo esse remitam. Necesse quoque erit nomen fingere, ei positum non sit: nam quemadmodum filius patris filius, et pater filii pater, reciproca conversione praedicantur, et utrumque nomen in usu est, sic, si defuerit nomen, ipse tibi aliquid debebis effingere, ut in eo quod est, ala alati ala; alatum enim noviter factum est, et nunquam antedictum. Quo autem modo possimus nomina ipsa confingere, quoniam necessarium esse posuimus, artem quoque componendi sequenti ordine demonstremus. Sed hoc faciendum est, si prius illud purgavero, quod quidam contra Aristotelem culpandi studio ponunt. Aiunt enim non esse solius relationis ad convertentiam dici. Si quis enim sic dicat: cum sol super terram est, dies est, et cum dies est super terram, sol est, recipiunt haec quoque conversionem, quae confessa, a relativorum definitione segregata sunt. Non igitur in solis relativis, inquiunt, cadit ista conversion Sed Iamblicus duas huius rei protulit solutiones, unam peruacuam, aliam vero perforem. Ait enim nihil officere ad Aristotelis sententiam, si et alia convertantur; non enim inquit Aristoteles solis hoc relativis esse sed, omnibus namque hoc relativis inest, nec ulla ratione negari potest: quocirca quoniam non dixit Aristoteles solis hoc inesse relativis, illorum quaestio huius praeclari philosophi sententiam non moratur. Sed hoc potius accidentis est quam naturae, et ad aliud quodammodo refugium concurrentis potius quam ex ipsa Aristotelis auctoritate dictorum eius aliquod propugnaculum comparantis. Aliam vero attulit causam prorsus gravem: ait enim proprium esse hoc relativorum, non secundum suam nuncupationem sed secundum aliquam habitudinem, eodem modo converti. Qui enim dicit cum sol est super terram, dies est, et cum dies est, sol est super terram: nullam habitudinem monstrat sed tantummodo consequentiam ostendit. Consequitur enim super terram solem esse cum dies est, et cum sol super terram cursus agat, diem esse; cum vero aliquis dicit filius patris filius, et pater filii pater, habitudinem et comparationem et quodammodo continentiam utrorumque declarat. Atque hoc quoque in alia quavis relatione spectare licet. Quocirca quoniam omnia ad aliquid secundum quamdam ad se invicem habitudinem continentiamque dicuntur, secundum continentiam quoque et habitudinem eorum conversio facienda est, qua in re nos quoque graviter dicentis Iamblici auctoritati concedimus. Nunc vero quae sit ars fingendi nomina sicubi desunt, dicendum videtur, quam ipse Aristoteles his verbis tradit. SIC AUTEM FACILIUS FORTASSE SUMETUR QUIBUS NOMEN NON EST POSITUM, SI AB HIS QUAE PRIMA SUNT ET AB HIS AD QUAE CONVERTUNTUR NOMINA PONUNTUR, UT IN HIS QUAE PRAEDICTA SUNT AB ALA ALATUM, A REMO REMITUM. OMNIA ERGO QUAE AD ALIQUID DICUNTUR, SI CONVENIENTER ASSIGNENTUR, AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Quoniam sunt quae ita dicuntur ad aliquid, ut nisi convenienter aptentur conversio nulla sit, in omnibus autem ad aliquid conversionem exspectari necesse est, quae sit haec convenientia, et quemadmodum assignari relationes oporteat, ipse demonstrat. Si quid enim dicitur ad aliquid quod converti non possit, ab ipso quod dicitur si denominatio fit, mox convertitur: ut ala dicitur avis, et recta quidem est haec praedicatio sed ad naturam relationis incongrua. Nunc igitur quoniam dici non potest avis alae, dicitur autem ala avis, ab ipsa praedicatione, quae ad aliud praedicatur, si denominatio fit, mox redit consueta conversio relativis. Nam cum dicitur ala avis, ut dicatur avis alae, inconveniens est; si vero ex ala fiat denominatio, ut dicatur ala alati, sic conversio manet. Alatum enim ala alatum esse dicimus, sicut alam alati esse alam. Et hoc idem in remo evenit. Nam quoniam remus navis dicitur, et remi navis ut sit ulla ratione convertitur, si ex remo sit denominatio, statim reddit ex more conversio. Dicimus enim esse remum remitae rei esse remum, et hoc illi convertitur. Remita enim res remo remita est. Ergo ex eo quod prius dicitur, nomen fingendum est, sicut ex eo quod est ala, quoniam prius ad avem non dicitur, quia avis ad alam non convertitur, denominatio facta est, ut diceretur alatum. Atque hoc est quod ait, si ab his quae prima sunt his ad quae convertuntur nomina ponantur. Prima namque praedicatio est ab ala. Dicimus enim alam avis, et hoc quaerimus ut ad alam praedicatio convertatur. Ergo ab eo quod prius dicitur, illi ad quod convertitur nomen fingendum est, ut ea quae prius dicitur ala, rei ad quam convertitur sic ut convenienter aptetur, fingendum est nomen alatum, quod ipsum ex ala denominatum est, atque hoc idem et in caeteris relativis licet intelligi. NAM SI AD QUODLIBET ALIUD ASSIGNENTUR ET NON AD ILLUD DICANTUR, NON CONVERTUNTUR. DICO AUTEM QUONIAM NEQUE IN HIS QUAE CONFESSE CONVERSIM DICUNTUR ET IN QUIBUS NOMEN EST POSITUM, NIHIL CONVERTITUR, SI AD ALIQUID EORUM QUAE SUNT ACCIDENTIA ASSIGNETUR ET NON AD ILLUD DICATUR; UT SERUUS SI NON DOMINI ASSIGNETUR SED HOMINIS VEL BIPEDIS VEL ALICUIUS TALIUM, NON CONVERTITUR (NON ENIM ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO). Aliud quoque argumentum dedit, si relatione convenieiiter non reddantur, non posse converti. Fortasse enim quis dicat alam et caput non esse ad aliquid: quod si quis hoc quoque concedat, illud tamen nullus negare poterit, quin seruus aut filius semper ad aliud praedicentur. Ergo in hac quoque re, quas confessae relativa est, perit relationis propria conversio, si non convenienter et ad illud ad quod proprie dicitur assignetur. Nam cum sit ad aliquid seruus, nisi domini reddatur, id est, ad id ad quod convenienter dicitur, nulla hac ratione conversio est. Dicatur ergo seruus hominis, vel seruus bipedis, non convertitur, ut dicat quis bipedem esse serui, aut hominem esse serui. Eodem quoque modo de filio. Ergo quaecumque sunt extrinsecus, si ad ea id quod est ad aliquid praedicetur, nulla conversio est. Quod autem ait accidentia, non quod homo sit accidens, aut bipes, differentia hominis accidenter insit sed interdum consuetudinis Aristotelicae est, quae secundo loco et extrinsecus praedicantur, dicere secundum accidens praedicari. Seruus autem prius ad hominem est, secundo vero loco ad hominem. Idcirco enim quod dominus homo est, ideo seruus ad hominem dicitur. Et idcirco quia dominus bipes est, ideo seruus bipedis dicitur. Ergo secundum accidens dixit secundo loco, volens ostendere extraneam et non convenientem fieri praedicationem, si quis ad hominem vel bipedem servam et non ad dominum referat. Manifestum igitur est quoniam in bis quoque quae confessa, sunt ad aliquid, et in quibus nomina sunt. Nomen enim et serui et domini in usu est, non quemadmodum in remo aut in ala, ubi neque alatum neque remitum nomen fuit, nisi ipse fingeret Aristoteles. Cum ergo haec ita sint, manifestum est quoniam si non convenienter aptarentur, conversionem praedicatio non teneret. AMPLIUS, SI CONVENIENTER ASSIGNETUR AD ID QUOD DICITUR, OMNIBUS ALIIS CIRCUMSCRIPTIS QUAECUMQUE ACCIDENTIA SUNT, RELICTO VERO SOLO ILLO AD QUOD ASSIGNATUM EST, SEMPER AD IPSUM DICETUR; UT SI SERUUS AD DOMINUM DICITUR, CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS QUAE SUNT ACCIDENTIA DOMINO, UT ESSE BIPEDEM VEL SCIENTIAE SUSCEPTIBILEM VEL HOMINEM, RELICTO VERO SOLO DOMINUM ESSE, SEMPER SERUUS AD ILLUD DICETUR; SERUUS ENIM DOMINI SERUUS DICITUR. SI AUTEM NON CONVENIENTER REDDATUR AD ID QUOD DICITUR CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS ALIIS, RELICTO VERO SOLO AD QUOD REDDITUM EST, NON DICETUR AD ILLUD; ASSIGNETUR ENIM SERUUS HOMINIS 227A ET ALA AVIS, ET CIRCUMSCRIBATUR AB HOMINE ESSE DOMINUM; NON ENIM IAM SERUUS AD HOMINEM DICITUR (CUM ENIM DOMINUS NON SIT, SERUUS NON EST); SIMILITER AUTEM ET DE AVI, CIRCUMSCRIBATUR ALATAM ESSE; NON ENIM IAM ERIT ALA AD ALIQUID (CUM ENIM NON SIT ALATUM, NEC ALA ERIT ALICUIUS). QUARE OPORTET ASSIGNARE AD ID QUOD CONVENIENTER DICITUR; ET SI SIT NOMEN POSITUM, FACILIS ERIT ASSIGNATIO; SI AUTEM NON SIT, FORTASSE ERIT NECESSARIUM NOMEN FINGERE. QUOD SI ITA REDDANTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM OMNIA RELATIVA CONVERSIM DICUNTUR. Aliud quoque validum addidit argumentum in omni secundum ad aliquid, praedicatione solam esse assignationis convenientiam requirendam. Quo enim permanente cunctis aliis pereuntibus relativorum praedicatio constat, et quo pereunte cunctis aliis permanentibus, ad aliquid praedicatio non manet, illud est ad quod convenienter nominis relatio referatur. Qui enim dominus est, idem ei homo est, idemque bipes, idem quoque scientiae perceptibilis. Ad quodlibet igitur horum seruus non praedicabitur, si dominus non sit; quod si dominus sit, etiamsi quodlibet horum pereat, nihil impedit praedicationem. Praedicetur enim seruus ad dominum, et ab eo caetera perimantur. Pereant enim ab eo quod est homo, ac bipes, quod scientiae perceptibilis, his omnibus pereuntibus, dominus solus permaneat; caeteris igitur pereuntibus, seruus tamen nihilominus dicitur ad dominum, ad hominem vero non dicitur, pereunte enim domini nomine, serui ad hominem nulla praedicatio est, quod si ad dominum seruus non referatur, pereatque domini nomen, omnibus aliis manentibus, non erit praedicatio. Auferatur enim dominus maneat homo, et bipes, et scientiae perceptibilis, non potest dici seruus hominis, vel seruus bipedio. Domino enim non manente seruus interit: quare manente domino ad quod seruus convenienter aptatur, cunctis aliis pereuntibus, praedicatio manet; sublato vero domino, ad quem est conveniens praedicatio, cunctis aliis manentibus praedicatio non est. Eodem modo etiam de ala; nisi enim ad alatum referatur, cunctis aliis manentibus integra praedicatio non est. Adeo non solum non convertitur sed nec praedicatio ulla erit, nisi relatio ei ad quod convenienter dicitur assignetur. Simul etiam haec quoque ars est et via noscendi, cum in naturamulta sunt, ad quod potissimum relatio praedicetur. Nam cum in domino sit, et homo, et animal, et disciplinae perceptibile, et bipes, in seruo quoque idem, ad quod horum aut domini nomen aut serui referre possimus, sic ostenditur. Qua enim re manente sublatis caeteris praedicatio valet, et qua re sublata creteris manentibus, intercipitur praedicatio ad illud relatio rectissime praedicatur. His igitur positis totius argumenti vim sententiumque concludit, ait enim: omnia quaecumque ad aliquid sunt aequa praedicatione converti: hoc autem huiusmodi est. Quaecumque enim ad se invicem aequaliter praedicantur, et conversione facta retorquentur, illa aequali natura et dimensione fundata sunt, ut sunt propria et species. Relativa quoque ut convertantur, aequalia esse oportet. Nam si una res amplior, alia fuerit minor, conversionem non habent, nam in eo quod est ala avis, minus est avis ala, multa enim sunt quae alas habent, et aves non sunt, atque ideo conversio non fit. Et in eo quod est remus navis, maior est navis remo, multae enim naves sunt quarum remi non sunt; quare in his nulla potest esse conversio. Si vero sint aequalia ut filius alque pater, conversio non fugit. Nunquam enim est filius nisi patris, et rursus nunquam pater est nisi filii. Quocirca aequalia esse oportet quaecumque ad aliquid praedicantur. Horum vero si nomen sit pusitum, positis nominibus uti oportet. Si vero nomen positum non sit, ex his quae in prima praedicatione sunt (ut superius dictum est) nomen oportet effigere. Quod si ita reddantur ut omne ad aliquid convenienter ad quod dicitur praedicetur, et aequalis erit praedicatio, et mox conversionis reciproca natura subsequitur. Constat igitur omnia relativa ad convertentia dici. His aliud proprium iungit. VIDETUR AUTEM AD ALIQUID SIMUL ESSE NATURA. ET IN ALIIS QUIDEM PLURIBUS VERUM EST; SIMUL ENIM EST DUPLUM ET DIMIDIUM, ET CUM SIT DIMIDIUM DUPLUM EST, ET CUM SIT SERUUS DOMINUS EST; SIMILITER AUTEM HIS ET ALIA. SIMUL AUTEM HAEC AUFERUNT SESE INVICEM; SI ENIM NON SIT DUPLUM NON EST DIMIDIUM, ET SI NON SIT DIMIDIUM DUPLUM NON EST; SIMILITER ET IN ALIIS QUAECUMQUE TALIA SUNT. Illa simul esse dicuntur quaecumque talia sunt, ut uno posito quolibet aliud necessario subsequatur, st uno quolibet perempto aliud modis omnibus interimatur, ut pater et filius. Nam cum pater est, filium quoque esse necesse est; cum sit filius, pater est. Rursus si pereat filius, patrem quoque perire manifestum est, non quod pareat ipsa substantia, ut pereunte Hectore Priamus pereat sed perit ipsa relatio. Ergo quoniam vel interempto patris nomine, filii nomen perit, sublato quoque filli nomine nomen patris perit. Posito etiam patre in substantiaque constituto, filii quoque nomen infertur, et posito filii nomine sequitur patris et a patris nomine nunquam separatur, idcirco pater et filius simul esse dicuntur. Ergo simul ea sunt quae se invicem vel interimunt vel inferunt, et de his quidem ipse posterius tractat. Nunc autem hoc quoque inesse relativis exposuit, dicens relativis quoque esse ut simul sint; nam cum duplum sit, dimidium est, et cum dimidium, duplum. Huius autem argumentum est, quod interempto duplo dimidium perit. Rursus quoque duplo constituto, dimidium constituitur. Igitur quoniam duplum atque dimidium relativa sunt, et haec simul sunt natura, id est ipsa essentia, et hoc manifestum est quoque relativis accidere, ut simul natura ease videantur. Idem quoque est in eo quod est seruus et dominus. Nam quoniam alterutris interemptis uterque deperit, et alterutro constituto uterque subsistit, constat seruum atque dominum cum sint ad aliquid simul esse natura. Sed haac ita sunt, ut sint quidem in relativis sed omnibus his quae sunt ad aliquid non aequentur. Sunt enim quaedam relativa quorum unum prius natura sit, quod ipse rursus adiecit. NON AUTEM IN OMNIBUS RELATIVIS VERUM VIDETUR ESSE SIMUL NATURALITER; SCIBILE ENIM SCIENTIA PRIUS ESSE VIDEBITUR; NAMQUE IN PLURIBUS SUBSISTENTIBUS IAM REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS; IN PAUCIS ENIM VEL IN NULLIS HOC QUISQUE PERSPICIET, SIMUL CUM SCIBILI SCIENTIAM FACTAM. Proposuit non in omnibus relativis esse hoc, ut videantur simul esse natura; hoc autem probat ex his, quod quoniam scientia ad aliquid est (scibilis enim rei scientia dicitur), non poterit esse scientia, nisi sit res aliqua quae sciri possit. Hanc autem primam esse necesse est, ut in matheseos disciplina. 229B Scimus enim triangulum tres interiores angulos duobus rectis angulis aequos habere. Unde necesse est prius fuisse quod sciri posset, postea vero ad hanc rem aptam fuisse notitiam. Atque hoc est quod ait: NAMQUE IN PLURIBUS SUBSISTENTIBUS REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS. Prius enim rebus constitutis et quasi praepositis scientiae ratio sequitur. Quare non est in omnibus relativis simul esse natura. Nam cum scientia et scibile relativa sint, antiquius est scibile quam scientia. Quod vero interposuit, in pauois enim vel nullis hoc quis perspiciet simul cum scibili scientiam factam, tale est. Quasdam namque res animus sibi ipse confingit, ut chimeram, vel centaurum, vel alia huiusmodi, quae tunc sciuntur, cum ea sibi animus finxerit. Tunc autem esse incipiunt, quando primum in 229C opinione versantur. Tunc igitur sciuntur, cum in opinione versata sint, et haec simul habent esse et sciri. Nam quoniam in opinione nascuntur, mox esse incipiunt sed cum in ratione sunt, tunc eorum scientia capitur. Igitur mox ut fuerint, mox sciuntur, et est eorum scientia cum eorumdem essentia coniuncta. Namque antequam chimera fingeretur, sicut ipsa in nulla opinione fuerat, ita quoque eius scientia non erat. Postquam vero ipsa animarum imaginatione constituta est, eius quoque cum ipsa imaginatione scientia consecuta est: atque ideo ait in paucis hoc posse perspici, ut simul cum scientia scibile sit, ut in hac eadem chimera, quae cum sit scibilis, cum scientia nata est. Sed quoniam nihil quod in substantia non permanet, neque in veritate consistit, sciri potest (scientia enim est rerum quae sunt comprehensio veritatis), et quidquid sibi animus flngit, vel imaginatione reperit, cum in substantia atque veritate constitutum non sit, illud posse sciri non dicitur, atque ideo non est eorum scientia ulla quae sola imaginatione subsistunt. Idcirco itaque dubitans dixit, in paucis enim vel nullis. Haec enim ipsa pauca ita quisque reperiet, ut si ad veram rationem examinationemque contenderit, nulla esse perpendat. Quod si quisquam chimerae aliqua esse scientiam dicat, quae non est, quamquam hoc falsum sit, tamen hoc quoque concesso pauca erunt in quibus scientia cum scibili simul natura sit. Multis enim antepositis et constitutis scientia nascitur. Quocirca non in omnibus relativis verum est, ut simul esse natura dicantur: et sicut falsum illud est, in nullis hoc esse relativis, ita falsum est rursus in omnibus. Sed hunc tractatum longius lexit. AMPLIUS SCIBILE SUBLATUM SIMUL AUFERT SCIENTIAM, SCIENTIA VERO NON SIMUL AUFERT SCIBILE; NAM, SI SCIBILE NON SIT, NON EST SCIENTIA, SI SCIENTIA VERO NON SIT, NIHIL PROHIBET ESSE SCIBILE; UT CIRCULI QUADRATURA SI EST SCIBILE, SCIENTIA QUIDEM EIUS NONDUM EST, ILLUD VERO SCIBILE EST. Diximus illa esse simul, quaecumque alterutro constituto, vel alterutro interempto, simul utraque constituerentur, vel etiam perimerentur. Constituto enim ut sit pater, constituetur esse filius, et pater simul infert substantiam filii. Eodem quoque modo filius simul infert vocabulum patris, non est enim filius nisi patris. Eodem quoque modo altero interempto utrumque perire necesse est, alterum autem altero prius multis dicitur modis; sed quod nunc quaerimus tale est. Nam priora illa esse dicuntur, quae ipsa quidem peremptares alias tollunt, ipsa vero illata atque constituta simul res alias non inferunt, ut est unus atque duo. Interempto enim uno, duo quoque pereunt. Unde enim est unius in duobus geminatio, si unus intereat? Constituto vero atque posito ut sit unus, nondum duo sunt. Nondum est enim facta unius geminatio. Ergo dicuntur illa priora esse quaecumque alia simul quidem illata non inferunt sed perimunt interempta. Scibile ergo et scientiam non esse simul illa res probat, quod si quis rem scibilem tollat, scientiam quoque sustulerit. Nulla potest enim scientia permanere, si res quae sciri possit intereat. At si scibile esse constituas, non omnino scientia consequitur. Infantibus enim ea nobis quae nunc novimus erant, et in suae naturae substantia permanebant sed eorum apud nos scientia non erat. Multae quoque sunt artes quas esse quidem in suae naturae ratione perspicimus, quarum neglectus scientiam sustulit. Multumque ego ipse iam metuo ne hoc verissime de omnibus studiis liberalibus dicatur. Quocirca si et scientiam sublatum scibile perimit, et illatum scibile scientiam non infert, neque constituit, prius est id quod sciri potest quam illud quod comprehendere videlicet atque complecti notitia. Ipse autem ad hanc rem obscurissimum commodavit exemplum. Solet enim in geometria huiusmodi esse propositio. Iubemur enim proposito quattuor laterum spatio, aequale triangulum constituere, et facimus hoc modo. Sit quattuor laterum spatium a b, oportet ergo a b spatio aequale triangulum constituere, et ut sit duplum a b spatio c d e f spalium. Ducatur angularis c t, dico quoniam c d f triangulum aequale est a b spatio, quoniam c d e f spatium duplum est a b spatio: ab igitur c d e f spatii medietas est, angularis enim f c totum c d e f spatium medium dividit. Quae autem eiusdem sunt media, sibi aequalia sunt, c d t igitur et c e f triangulum a b spatio aequale est. Proposito igitur spatio a b, aequum triangulum constitutum est c d f, quod oportebat facere. Eodem quoque modo quaesitum est si sit propositum circulo aequum fieri quadratum. Quadratum ergo est quod aequalibus lateribus omnes quattuor angulos aequos habet, id est rectos, et Aristotelis quidem temporibus non fuicse inventum videtur. Post vero repertum est, cuius quoniam longa demonstratio est, praetermittenda est. Atque hoc est quod ait: VELUT CIRCULI QUADRATURA: nam sicut manente quadrato, linea per obliquum ducta triangula figura producitur; ita circulo non mutato circumpositis angulis, qui et ipsius circuli laleribus; aequaliter diriguntur, quadrati forma consurgit, quod (ut potuimus) coniectura depinximus. Cum enim alicui circulo aequum quadratum constituitur, in quadraturam circuli illius mensura redigitur. Nunc ergo hoc est quod dicit: UT CIRCULI QUADRATURA, id est aequi quadrati ad circulum constitutio si fieri potest, et si res est quae sciri possit, scientia quidem eius nondum inventa est. Nondum enim quisquam sub Aristotele equum quadratum circulo constituerat. Quod si est aliqua eius scientia quae nondum reperta est, certe prius est quod sciri possit, post vero scientia. Nam cum posset Aristotele vivo sciri circuli quadratura, nulla tamen adhuc eius scientia reperta est, atque ideo prius erat quod sciri posset, quam ipsius rei ulla notitia. AMPLIUS ANIMALI QUIDEM SUBLATO NON EST SCIENTIA, SCIBILIUM VERO PLURIMA ESSE CONTINGIT. Addit aliud validius argumentum, prius esse scibile scientia. Illud enim notum est si per desidiam disciplina depereat, interire quidem scientiam sed scibile permanere. Scibile autem dico quod sciri possit. Quod si omnino animal non sit, cum quis scire possit omnino non fuerit, scientia quidem ipsa funditus interibit: nihil tamen probibet esse ea quae permanente animali possit inquirentis animus scientim ratione complecti. SIMILITER AUTEM HIS SESE HABENT ET QUAE IN SENSU SUNT; SENSIBILE ENIM PRIUS SENSU ESSE VIDETUR; SUBLATUM ENIM SENSIBILE SIMUL AUFERT SENSUM, SENSUS VERO SENSIBILE NON SIMUL AUFERT. SENSUS ENIM CIRCA CORPUS ET IN CORPORE SUNT; SENSIBILI ERGO SUBLATO AUFERTUR CORPUS (SENSIBILIUM ENIM ET CORPUS EST), CUM AUTEM CORPUS NON SIT SUBLATUS EST SENSUS; QUARE SIMUL AUFERT SENSIBILE SENSUM. SENSUS VERO SENSIBILE NON; SUBLATO ENIM ANIMALI SUBLATUS EST SENSUS, SENSIBILE AUTEM PERMANET, UT CORPUS, CALIDUM, DULCE, AMARUM, ET ALIA OMNIA QUAECUMQUE SUNT SENSIBILIA. Id namque proponit sensibus inveniri. Dicit enim sensu prius esse sensibile, quod communi priorum definitione probabile esse constituit. Dictum est namque illa esse priora quae simul quidem interempta perimerent, non autem simul aliis inferemptis ipsa deperire, ut orbem solis prius dicimus proprio lumine, Sublato enim orbe, lumen illud quod ab eo est penitus non manebit; subluto lumine solis, orbis manebit. Ita quoque nunc in sensibilibus, atque in ipso sensu esse proposuit, sublato quod sentiri possit, sensus omnino sublatus est. Neque enim esse poterit sensus, cum quod possit sentire non invenit. Quod si sensus omnino depereat, sensibile permanebit; et hoc evidentibus firmat exemplis. Nam cum ea quae sunt in rebus, vel incorporea sint, vel certe corporea, et quidquid ad corporis materiam referri potest, hoc sensuum varietati subiaceat, quidquid ad incorporalia intellectus ratione et speculatione teneatur. Cum sit sensus omnis in corpore, si corpus intereat, cum omnino corpus non sit, quoniam quae sunt incorporea sentiri non possunt, et quae sentiri poterant interempta sunt, omnino sensus euertitur. Sed si sensus auferatur, sensibilia permanebunt: et quoniam sensus animalium effectivus est, aequa est utrorumque perditio; sive enim sustuleris animal, sensus peribit, sive sensus euertantur, animalia quoque sublata sunt. Sed euersis atque interemptis animalibus cum propriis sensibus, permanent corpora quae anima non utuntur, quod si sublatis animalibus sensibusque deperditis, corpora inanimata subsistunt, cum corpora sint quae sentiri possunt, animalia quae sentire valeant si interempta sint, manente sensibili sensus euersus est. Non igitur sicut sensibilis interemptio sensus interimit, sic sensuum perditionem exstinctio sensibilium comitatur. Id vero etiam hoc probabitur argumento, ante enim quam actu ipso aliquid sentiamus, sensus non est. Nam priusquam dulce aliquid degustemus, gustatio ipsa dulcedinis non est; quod autem gustari possit, id est, mel, vel quodlibet aliud propriae naturae ratione consistit. Quocirca prius esse quod sentiri possit, post vero sensus Aristotele auctore firmatur. AMPLIUS SENSUS QUIDEM SIMUL CUM SENSATO FIT (SIMUL ENIM ANIMAL FIT ET SENSUS), SENSIBILE VERO ANTE EST QUAM ESSET SENSUS (IGNIS ENIM ET AQUA ET ALIA HUIUSMODI, EX QUIBUS IPSUM ANIMAL CONSTAT, ANTE SUNT QUAM ANIMAL SIT OMNINO VEL SENSUS); QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDEBITUR. In compositis rebus atque ex aliis iunctis priores sunt hae res quae componunt aliquid ipsa substantia quam componunt. Namque cum corpus animalis sit ex igne, aere, aqua et terra, priora haec esse necesse est quam ipsum sit animal quod illa elementa coniungunt. Hoc quoque etiam in aliis patet, nam cum sit liber ex versibus, prior est versuum natura quam libri. Cumque versus constet verbis atque nominibus, et caeteris quas grammatici partes orationis vocant, haec ex quibus ipse versus constat versu ipso priora esse necesse est. Quocirca sensus quoque ipsis, iam compositis animalibus supervenit. Nam cum animal constet ex quattuor elementis, et cum sensus semper naturam animalium comitetur, cum ipsis animalibus sensus fieri et nasci necesse est. Quodsi cum animalibus, id est compositis rebus, sensus nascitur, sicut animali propria sunt ea ex quibus ipsum animal constat, sic quoque sensu qui cum animali nascitur, illa priora sunt, ex quibus animalis natura coniungitur. Coniungitur autem animal atque componitur ex quattuor elementis. Quattuor igitur elementa sensu priora sunt sed quattuor elementa corpora sunt, corpus vero omne sensibile est. Prius igitur sensibile quam sensus est. Sensus enim cum re composita nascitur, illa vero quae componunt et sensibilia sunt, et priora ipso composito. Universaliter enim si quae duae res sint simul, cum quaelibet res una earum prior sit, et altera prior erit, ut animal atque sensus, cum utraque simul sunt, simulque nascuntur, cum quattuor elementa quae sunt sensibilia priora sint quam animal, sensu quoque esse priora necesse est, quocirca conclusit dicens: QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDETUR. Sed quidam, quorum Porphyrius quoque unus est, astruunt in omnibus verum esse relativis, ut simul natura sint, veluti ipsum quoque sensum et scientiam non praecedere scibile atque sensibile sed simul esse, quam quoniam brevis est oratio, non grauabor opponere. Ait enim: Si cuiuslibet scientia non sit, ipsum quod per se poterit permanere scibile esse non poterit, ut si formarum scientia pereat, ipsae fortasse formae permaneant, atque in priore natura consistant, scibiles vero non sint. Cum enim scientia quae illud comprehendere possit, non sit, ipsa quoque sciri non potest res. Namque omnis res scientia scitur, quae si non sit sciri non possit. Porro autem res quae sciri non potest scibilis non est. Hoc idem de sensu gustantis si gustus enim pereat, mel forsitan permanebit, gustabile autem non erit. Ita quoque omnino si sensus pereat, res quidem quae sentiri poterant sint, sensibiles vero non sint sensu pereunte. Et fortasse neque scientia neque sensus secundum sentientes speculandus est sed secundum ipsam naturam quae sensu valeat comprehendi. Namque res quaecumque per naturam sensibilis est, eam quoque in natura sua, proprium sensum quo sentiri possit, habere necesse est. Et quodcumque sciri potest per naturam, nunquam possit addisci, nisi quaedam eius in natura scientia versaretur. Haec Porphyrius. Sed nos ad Aristotelis ordinem textumque veniamus. Namque ille adiecit quoque alias quaestiones. HABET AUTEM DUBITATIONEM AN ULLA SUBSTANTIA AD ALIQUID DICATUR, QUEMADMODUM VIDETUR, AN HOC QUIDEM CONTINGIT SECUNDUM QUASDAM SECUNDARUM SUBSTANTIARUM. NAM IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS VERUM EST; NAM NEQUE TOTAE NEQUE PARTES AD ALIQUID DICUNTUR; NAM ALIQUIS HOMO NON DICITUR ALICUIUS ALIQUIS HOMO, NEQUE ALIQUIS BOS ALICUIUS ALIQUIS BOS. SIMILITER AUTEM ET PARTES; QUAEDAM ENIM MANUS NON DICITUR ALICUIUS QUAEDAM MANUS SED ALICUIUS 234A MANUS, ET QUODDAM CAPUT NON DICITUR ALICUIUS QUODDAM CAPUT SED ALICUIUS CAPUT. SIMILITER AUTEM ET IN SECUNDIS SUBSTANTIIS, ATQUE HOC QUIDEM IN PLURIBUS; UT HOMO NON DICITUR ALICUIUS HOMO, NEC BOS ALICUIUS BOS, NEC LIGNUM ALICUIUS LIGNUM SED ALICUIUS POSSESSIO DICITUR. ATQUE IN HUIUSMODI QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM NON EST AD ALIQUID; IN ALIQUIBUS VERO SECUNDIS SUBSTANTIIS HABET ALIQUAM DUBITATIONEM; UT CAPUT ALICUIUS CAPUT DICITUR ET MANUS ALICUIUS MANUS DICITUR ET SINGULA HUIUSMODI; QUARE HAEC ESSE FORTASSE AD ALIQUID VIDEBUNTUR. Contra ea quae superius disputata sunt huiusmodi nodum quaestionis opposuit, quoniam enim prima definitio relativorum fuerat, illa esse relativa quaecumque hoc ipsum quod essent aliorum dicerentur, secundum hanc definitionem possunt quaedam substantiae videri esse relativae: quod si sit, substantiae in definitionem accidentium transeunt. Nam cum sint accidentia relativa, si quas substantias relativas esse concedimus, in accidentium numero ponendas esse censebimus sed hoc contrarium est. Si enim substantia in subiecto non est, accidens autem in subiecto est, qui fieri potest ut idem et in subiecto sit et in subiecto non sit? Utrum autem possit quaedam substantia accidentium suscipere rationem, hoc modo quaerendum est. Primae namque substantiae ipsae quidem ad aliquid non dicuntur, neque partes primarum substantiarum quas ipsas quoque in primis substantiis numeramus. Socrates enim non dicitur alicuius aliquis Socrates, nec homo alicuius aliquis homo, nec bos alicuius aliquis bos, neque partes primarum substantiarum quae ipsae quoque sunt primae substantiae. Caput enim non dicitur alicuius aliquod caput sed tantum alicuius caput, et manus non dicitur alicuius aliqua manus sed tantum alicuius manus. Quare neque primae substantiae, neque primarum substantiarum partes ad relationem dici poterunt. Quod si secundas quoque substantias speculemur, nec ipsae quoque ad aliquid dicentur. Neque enim dicitur animal alicuius esse animal, aut homo alicuius esse homo. Quod si quis dicat posse esse animal alicuius, ut equum meum, vel quodlibet aliud, non in eo quod animal est sed in eo quod est possessio dicitur alicuius, et sic non dicitur animal alicuius animal sed animalis possessio, alicuius possessio. Ergo neque primae substantiae, neque partes primarum substantiarum, neque secundae substantiae ad aliquid dicuntur. Partes autem secundarum substantiarum ad aliquid hoc ipsum quod sunt dicuntur. Caput enim alicuius caput dicitur, si quidem capitati caput dicemus, et manus alicuius manus. Si quidem ex manu nomen fingere volumus, ad quod manus referri possit, sicut caput ad capitatum, et in aliis quidem rebus eodem modo. Sed si partes secundarum substantiarum accidentes sint, et ipsae secundae substantiae accidentes erunt, aut si hoc non placet, constabunt secundae substantiae ex partibus accidentibus, quod fieri nequit. Quid igitur dicendum est? aut enim definitio relativorum reprehendenda est, aut aliter soluenda dubietas. Sed posita atque constituta priori'definitione, quae dicit illa esse relativa quae id quod sunt aliorum dicuntur, hic quaestionis nodus solvi non poterit, quod ipse Aristoteles hac adiunctione testatur. SI IGITUR SUFFICIENTER EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITIO ASSIGNATA EST, AUT NIMIS DIFFICILE AUT IMPOSSIBILE EST SOLVERE QUONIAM NULLA SUBSTANTIA EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DICITUR; SI AUTEM NON SUFFICIENTER SED SUNT AD ALIQUID QUIBUS HOC IPSUM ESSE EST AD ALIQUID QUODAM MODO HABERE, FORTASSE ALIQUID CONTRA ISTA DICETUR. PRIOR VERO DEFINITIO SEQUITUR QUIDEM OMNIA RELATIVA, NON TAMEN HOC EIS EST QUOD SINT AD ALIQUID QUOD EA IPSA QUAE SUNT ALIORUM DICUNTUR. Proposita ergo atque firmata priore relativorum definitione difficile defendi poterit, aut fortasse nunquam, quasdam substantias non esse relativas. Nam si ad aliquid illa sunt, quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, ut id quod est caput capitati dicitur caput, habebit igitur substantia quae est caput ad aliquid relationem, et ita erit substantia relativa atque accidens, quod est impossibile. Quare quoniam proposita atque constituta priore definitione haec incommoditas in dispositione consequitur, ut constet ratio non integrae definitionis, assignatio permPombaur. Ait enim non esse integram definitionem quae supra sit reddita, nec magis illa esse ad aliquid, quae id quod sunt aliorum dicuntur, potiusquam ea quibus ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere. Sed fortasse videatur quibusdam inconsulte legentibus et minime considerantibus, id quod definiri oportuerat, hoc in definitione esse sumptum, quod est vitiosissimum. Si enim idcirco definitio sumitur, ut res de qua quaeritur assignetur, quae magis est apertior definitio, si re ipsa quam definit in assignatione definitionis utatur? Definitio namque idcirco redditur, ut res de cuius quidem esse dubitatur, definitione patefiat. Quod si rem ipsamquam definit, in definitione protulerit, nihilo planior definitio sit, ut si quis hominem definire volens dicat, hoc ipsum esse hominem quod hominem. Ita quoque non considerantibus, Aristoteles relativorum definitionem reddidisse videbitur. Ait enim esse ad aliquid, quibus hoc ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere, ac si diceret: Ea sunt ad aliquid, quae se ad aliquid quodammodo habent. Sed minutius atque scutius considerantibus, vis integra definitionis prompte atque veraciter apparebit; non enim in eo quod est dici, ad aliquid consideramus sed in eo quod est esse; ea namque sunt relativa, quae in quadam comparatione et relationis habitudine consideramus, ut quaternarius numerus, et hoc ipsum quod est esse dicitur, id est quattuor, et aliud quoddam, id est duplum, ut si ad binarium conferatur. Sed quod de quaternario numero dicimus, quaternarium hoc ad ipsius quaternarii numeri naturam refertur. Quod vero duplum, non est hoc quaternarii sed duorum ad quod duplum dicitur, et ad quod propria relatione duplum est. Binarius quoque numerus et binarius est, et medietas, binarius quidem secundum suam naturam, medietas vero secundum quaternarius relationem. Quocirca in comparatione quadam atque in habitudine ea quae sunt ad aliquid speculamur; quaternarius enim in eo quod quaternarius est ad aliquid non dicitur, in eo vero quod est duplus, duorum relativus est, scilicet ad binarium comparatus. Binarius quoque in eo quod sunt duo, ad aliquid non refertur sed in eo quod est medietas, scilicet ad quaternarium comparatus. Ergo, ut sit duplus quaternarius, non duobus sed medietate eget, ut si medietas biniarius, non quaternario sed duplo opus est. Videsne ut habitudine quadam et comparatione res aliud in natura retinentes, aliud tamen ad se invicem sint? et hoc non ex propria sed ex invicem natura mutuentur, nam quod est duplus numerus ex medio trahit, quod est medietas ex duplo, atque hoc iis quae sunt ad aliquid extra evenit, et ideo nihil patientibus neque permutatis ipsis quae ad aliquid referuntur, ipsa ad aliquid fiunt, nihil enim permutato de quaternario duplus ipse est, sit ad binarium referatur, et nihil de binario permutato, medietas est binarius, si ad quaternarium dicitur. Ergo relativorum hoc est esse, id est haec eorum natura atque substantia est, ut id quod sunt ad aliquid referantur, id est non solum referri dicantur sed etiam referuntur. Atque hoc est quod ait sed sunt ad aliquid quibus hoc ipsum esse est ad aliquid quodammodo se babere, ac si diceret quorum substantia est ad aliquid aliud referri, et qua ita sunt ut ipsa id quod sunt ad aliud referantur, et esse eorum sit ad aliquid aliud referri, sed non omnia quae dicuntur ad aliud, et esse de alio mutuantur. Illa namque definitio prior, maius est, definitionem namque relativorum supergressa est, includit enim ea quoque quae relativa non sunt, et quemadmodum hominem cum dico, mortalem eum esse necesse est, cum dico mortalem, non necesse est esse hominem, ita quoque ea quae hoc ipsum quod sunt ex altero trahunt, et esse habent ad alterius relationem, et esse suum ad alterius referunt nuncupationem. Quae vero ad aliud tantum dicuntur, non necesse est, ut esse suum ad aliquid habeant relatum, quo posteriorem definitionem suscipiant, et ista sententia breviter includatur, ut quaecumque hanc definitionem susceperint, ut hoc ipsum esse sit ad aliquid quodammodo se habere, habeant eam quoque definitionem, quae est relativa esse quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, quae vero hanc habuerint definitionem illam non necessario habeant, ut ea quae sunt ad aliquid, etiam ad aliquid dicantur. Sed ea quae dicuntur ad aliquid, non omnino ad aliquid sint, quod si ista definitio posterior recipiatur, quae dicit ea esse ad aliquid, quibus hoc ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere, poterit superior solvi dubitatio, quod dicamus id quod ipse posteriore disputatione secutus est. Quod autem ait: Prior vero definitio sequitur quidem omnia relativa, non tamen hoc eis est esse, quod sint ad aliquid, quod ea ipsa quae sunt aliorum dicuntur, hoc est quod non idcirco aliquid relativum esse dicitur, quoniam alterius esse 237A dicitur. Sed tunc merito res aliqua relationis nomine continebitur, quoties non solum ad aliquid dicitur sed hoc ipsum esse eius ad aliquid est quodammodo se habere. Quare quid hanc definitionem proprium consequatur, ipse addidit. EX HIS ERGO MANIFESTUM EST QUOD, SI QUIS ALIQUID EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE SCIET, ET ILLUD AD QUOD DICITUR DEFINITE SCITURUS EST. SI MANIFESTUM QUIDEM ETIAM EX IPSO EST; NAM SI QUIS NOVIT QUONIAM HOC EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID EST, RELATIVIS AUTEM HOC EST ESSE, AD ALIQUID QUODAMMODO HABERE, ET ILLUD NOVIT AD QUOD HOC ALIQUO MODO HABET. Proprium relativis secundum eam quae superius dicta est definitionem hoc esse confirmat, quod si quis id quod est ad aliquid definite scit, quoniam 237B relativam est, et illud ad quod referri potest, definite sciturus est quid sit, nam relativa easunt quibus hoc est esse ad aliquid quodammodo se habere, quoniam ut sit quaternarius duplum a binario trahit. Si quis novit esse quaternarium numerum duplum, et binarium necessario sciturus est esse dimidium, ad quem quaternarius duplus est fieri; enim nullo modo potest, ut cum quis noverit aliquam rem esse relativam definite, non illud quoque sciat ad quod illa res dicitur definite; huius autem rei una probatio est quae ex definitione venit. Definita enim sunt illa esse ad aliquid, quorum ea esset substantia, ut quodammodo se ad aliquid haberent, quod si scio quaternarium numerum esse duplum, eo quod ad binarium quodammodo coniungatur, nullus quaternarium duplum 237C esse poterit scire, nisi qui sciet medietatem esse binarium, et hoc quidem in omnibus consideretur. Nam si nesciat quis ad quid aliquid referatur eorum quae relativa sunt, illud quoque ignorabit, utrum ommino ad aliquid referatur, quod his verbis Aristoteles dicit: NAM SI OMNINO NESCIT AD QUOD ALIQUO MODO HABET, NEC SI AD ALIQUID QUODAMMODO HABET SCITURUS EST. ET IN PARTICULARIBUS HOC MANIFESTUM EST; UT, SI HOC AD ALIQUID SCIT DEFINITE QUONIAM DUPLUM EST, ET CUIUS DUPLUM EST DEFINITE NOVIT (NAM SI NULLIUS DEFINITE NOVIT ILLUD ESSE DUPLUM, NEC SI OMNINO DUPLUM EST NOVIT); SIMILITER AUTEM ET HOC AD ALIQUID SI NOVIT QUONIAM MELIUS EST, ET QUO MELIUS ERIT DEFINITE EUM SCIRE NECESSE EST PROPTER HAEC IPSA QUAE DICTA SUNT (NON AUTEM INFINITE QUONIAM HOC EST PEIORE MELIUS, OPINIO ENIM IAM FIT HUIUSMODI, NON SCIENTIA; NEQUE ENIM SCIET INTEGRE QUONIAM EST PEIORE MELIUS; NAM FORTASSE CONTINGIT NIHIL EO ESSE PEIUS); QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM NECESSE EST QUOD QUIS NOVERIT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE, ETIAM ILLUD AD QUOD DICITUR SCITURUM ESSE DEFINITE.Huius quoque rei exempla persequitur dicens: Si duplum ad aliquid esse novimus, scimus quoque id cuius duplum est; quod si nescimus id cuius est duplum, duplum autem esse cuiuslibet rei ex hoc est, quod ei sit medietas, ipsam quoque rem quae dupla sit, utrum dupla sit scire non possumus. Si igitur definite novimus quamlibet illam rem esse duplam, etiam cuius dupla est definite nos scire necesse est. Ut si novit quis Anchisem patrem definite esse Aeneae, et Aeneam definite filium esse agnoscet, vel si indefinite novit quoniam pater est, indefinite etiam sciturus est quoniam filii pater est. Et rursus si Aeneam quis indefinite novit quoniam filius est, sciturus quoque est indefinite quoniam patris est filius. Manifestum est ergo quoniam ea quae sunt ad aliquid, si definite ad aliquid esse sciantur, etiam illud definite sciendum est ad quod illa referuntur. Quod in substantiis non eodem modo esse Aristotele probamus auctore, qui huius quaestionis serierm ita concludit. CAPUT VERO ET MANUM ET EORUM SINGULA QUAE SUBSTANTIAE SUNT, HOC IPSUM QUIDEM QUOD SUNT POTEST SCIRI DEFINITE, AD QUOD AUTEM DICANTUR NON NECESSE EST; CUIUS ENIM HOC CAPUT VEL CUIUS HAEC MANUS NON EST 238B DICERE DEFINITE; QUARE HAEC NON ERUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID; QUOD SI NON SUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID, VERUM ERIT NULLAM ESSE SUBSTANTIAM RELATIVAM In capite, inquit, et in manu, et in aliis substantiis non est verum, quoniam si quis aliquid horum alicuius esse novit, et ad aliquid aliud referri, idcirco et ad quam referatur definite scituras est. Si quis enim operto capite atque omnibus membris manum foras exerat, manifestum est quoniam manus illa alicuius manus est, cuius autem manus sit, dici definite non potest. Similiter quoque opertis oculis, facieque velata si cuiuslibet caput aspicias, illud quidem caput alicuius esse non dubitas, cuius autem sit definite non proferes. Quare quoniam haec huiusmodi sunt, ut si quis ea definite sciat esse alicuius, cuius sint, definite scire non poterit, a relativorum definitione, quorum si una res quaelibet definite sciatur esse ad aliquid, illa quoque res ad quam dicitur, definite scitur, substantiae segregantur. Subiiciendum tamen est illud quoque, quod omnino verum est, in definitionibus rem ipsam quae diflinitur sumi non oportere. Multa enim sunt quae aliter proferuntur et definiuntur, et aliter accipiuntur, ut si quis dicat album esse colorem nigro contrarium, potest hoc et in corpore accipi, namque et color album dicitur, et corpus quod albo participat, album nominatur. Quocirca ne quis pPomba tale album esse definitum, quod ad participationem albi et corporis referatur, ita dicendum est: Album est quod cum in aliquibus est, tum color nigro contrarium. Atque ita rem ipsam in sua definitione sumimus, quod scilicet Aristoteles, id est rem ipsam qua definitur in definitione sumi non oportere, inter verisimilia topicorum posuit argumenta. Nunc autem post relativorum disputationem, ad maiorem nos de his rebus tractatum studiosus doctor hortatur, dicene: FORTASSE AUTEM DIFFICILE SIT DE HUIUSMODI REBUS CONFIDENTER DECLARARE NISI SAEPIUS PERTRACTATA SINT; DUBITARE AUTEM DE SINGULIS NON ERIT INUTILE. Quod scilicet nunquam diceret, nisi nos ad maiorem acuminis exercitationem considerationemque reuocaret. Quod quoniam eius est adhortatio, nos quoque in aliis de his rebus dubitationes solutionesque ponere minime grauabimur. Consueta in principio quaestio est cur post relationis predicamentum disputationem qualitatis aggressus est, quod nimis curiosum est. Mirabile enim fuerat cur post quantitatis ordinem non statim de qualilate coepisset sed quoniam quantitati quaedam relationis admiscuit, et disputationem de relatione continuavit, idcirco non est mirabile post expeditam relationis interpositionem ad qualitatis eum ordi nem reuertisse, quamquam etiam ex hoc quoque recta sit series. Nam post magnum paruumque statim proportio et quaedam ad aliud comparatio consequitur, ut sit aut maius aut minus, aut aequale vel inaequale, quae sunt ad aliquid. Post haec autem innasci quasque necesse est passiones, quae a qualitatis natura non discrepant, ut album, vel nigrum, vel calidum vel frigidum, vel quaecumque his sunt consimilia, quae praedicatio qualitatis includit. Est vero titulus huius propositi de quali et de qualitate. Quaeritur enim cur ei non aut de quali dixisse, aut de qualitate suffecerit, quod hoc modo solvitur. Dicimus enim quale non uno modo, qualitatem vero simpliciter. Quale enim dicimus et ipsam qualitatem, et illam rem quae qualitate illa participat, ut albedo quidem qualitas est, qui vero participat albedinem albus dicitur. Sed et albedinem ipsam communiter quale dicimus, id est ipsam proprie qualitatem, et album dicimus quale, illud scilicet quod superius comprehensa qualitate participat. Ita ergo et ipsam qualitatem et rem quae qualitate participat, qualia communiter appellamus, qualitas vero simpliciter dicitur. Res enim ipsa quae participari potest, sola qualitas nominatur. Res vero quae participat, qualitatis vocabulo non tenetur, ut, albedo qualitas quidem est, albus vero qualitas non est. Differunt ergo hoc quod dicimus quale et qualitas, quod illud dupliciter, illa simpliciter appellatur. Quocirca quamquam quidam negent hunc titulum Aristotelis esse, idemque confirment posteriores adiectione signatum, nos tamen dicimus proprer quamdam nominum similitudinem demonstrandam utrumque posuisse, ut nihil distare videatur utrum quale an qualitas, id quod appositum est praedicamentum dicatur; quale enim ipsam aliquoties rem (ut diximus) qualitatemque significat. Sit ergo ex rebus sumpta definitio qualitatis. Quod vero inquam definitionem, quodque superius in aliis quoque praedicamentis, eodem sumus usi vocabulo, nullus arbitretur generalem me definitionem voluisse signare sed definitionis nomen in rem descriptionis accipiat. In his enim qua generalissima genera sunt, definitio quaeri non debet sed descriptio quaedam naturae, non enim potest inveniri definitio eius rei quae genus ipsa sit, et quae genus nullum habeat. Quocirca his propositis, atque antea constitutis, incipiendum est de qualitate. QUALITATEM VERO DICO SECUNDUM QUAM QUALES QUIDAM DICIMUR. Hic quaeritur cur omnium in disceptatione doctissimus tam culpabili qualitatem termino definitionis incluserit. Volentibus enim nobis quid sit qualitas scire, illa respondet: qualitas est secundum quam quales quidam dicuntur. Nihil enim minus erit obscurius atque ignorabilius quod ait: SECUNDUM QUAM QUALES DICUNTUR, quam si de ipsa sola qualitate dixisset. Nam si illi sunt quales, qui qualitatem habent, ut sciantur quales, prius qualitas cognoscenda est. Amplius quoque nihil differt dixisse eam qualitatem secundum quam quales quidem dicuntur, tanquam si diceret eam esse qualitatem quae qualitas sit. Nam sic qualitatem definire volens ait: secundum quam quales quidam sunt. Rursus si quis quales aliquos definire voluerit, eodem modo dicere poterit, qui in se retinent aliquam qualitatem. Quod si qualitas quidem quid sit per quale, quid autem sit quale, superiore qualitate monstratur, nihil intererit dicere qualitatem esse, qualitatem, quam qualitatem esse, secundum quam quales dicuntur. Sed si ordinata definitio generalis et in hoc generalissimo genere poni potuisset, recte culpabilis determinatio videretur. Nunc autem frustra contenditur, cum iam (ut saepe dictum est) descriptionis potius loco hunc terminum quam alicuius definitionis addiderit. Quocirca si designatio tantum quaedam, et quodammodo adumbratio rei eius de qua quaeritur, et non definitio est, absurda calumnia est, rebus notioribus res ignotiores probantem non ante perspecta descriptionis ratione culpare. Illud autem quis dubitet notiores esse eos qui quales sunt, illa ipsa ex qua quales dicuntur qualitate, ut quilibet albus notior est ipsa albedine? Nam si albedo qualitas est, albus vero ab albedine, id est a qualitate, denominatus est, albus erit qualis nominatus ab albedine qualitate. Quod si, ut dictum est, notior albus est albedine, qualis notior erit qualitate, sicut grammaticus quoque notior est grammatica. Grammaticus quoque qualis est denominatus, scilicet a grammatica qualitate. Omnia enim quae sensibus subiecta sunt notiora sunt nobis quam ea quae sensibus non tenentur. Quare nihil impedit describentem et quodammodo naturam rei eius de qua quaeritur designantem, res ignotiores notioribus approbare. EST AUTEM QUALITAS EORUM QUAE MULTIPLICITER DICUNTUR. ET UNA QUIDEM SPECIES QUALITATIS HABITUS AFFECTIOQUE DICANTUR. DIFFERT AUTEM HABITUS AFFECTIONE QUOD PERMANENTIOR ET DIUTURNIOR EST; TALES VERO SUNT SCIENTIAE VEL VIRTUTES; SCIENTIA ENIM VIDETUR ESSE PERMANENTIUM ET EORUM QUAE DIFFICILE MOVEANTUR, SI QUIS VEL MEDIOCRITER SCIENTIAM SUMAT, NISI FORTE GRANDIS PERMUTATIO FACTA SIT VEL AB AEGRITUDINE VEL AB ALIQUO HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM ET VIRTUS, ET IUSTITIA VEL CASTITAS ET SINGULA TALIUM NON VIDENTUR FACILE POSSE MOVERI NEQUE FACILE PERMUTARI. AFFECTIONES VERO DICUNTUR QUAE SUNT FACILE MOBILES ET CITO PERMUTABILES, UT CALOR ET INFRICTIO ET AEGRITUDO ET SANITAS ET ALIA HUIUSMODI; AFFECTUS EST ENIM QUODAMMODO CIRCA EAS HOMO, CITO AUTEM PERMUTATUR UT EX CALIDO FRIGIDUS FIAT ET EX SANITATE IN AEGRITUDINEM; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, NISI FORTE IN HIS QUOQUE CONTINGIT PER TEMPORIS LONGITUDINEM IN NATURAM CUIUSQUE TRANSLATA ET INSANABILIS VEL DIFFICILE MOBILIS, QUAM IAM QUILIBET HABITUDINEM VOCET. Proponit qualitatem multipliciter dici, quae res traxit aliquos in errorem, ut eis suspicio nasceretur Aristotelem credere qualitatem aequivoce nominari. Nam si omnis aequivocatio multipliciter dicitur, qualitas autem secundum Aristotelem ipsa quoque multipliciter appellatur, secundum Aristotelem nomen qualitatis aequivocum est. Nos vero defendimus multipliciter dici, esse non una tantum significatione nominari. Dicitur enim aliquid multipliciter dici, cum et aequivoce dicitur, et diverso modo de suis speciebus multipliciter praedicatur. Et communis est multiplex appellatio, etiam in his nominibus quae veluti genera de speciebus dicuntur, velut aequivoca de subiectis. Namque et animal multipliciter dicitur. Nam si multae sint species quae animali subiectae sunt, ipsum quoque multipliciter quodammo denominatur. Istam autem multiplicationem, non ad aequivocationem retulisse Aristotelem sed potius ut qualitatem genus esse proponeret, illa res monstrat, quod ait, et una quidem species qualitatis habitus affectioque dicitur. Nam qui speciem dicit esse qualitatis habitum et affectionem, quis eum dubitet ipsam qualitatem vim obtinere generis arbitrari? Cur vero dicit unam speciem esse qualitatis, cum geminas proposuerit, habitudinem scilicet et affectionem, quaeritur. Nam si unum idemque sit habitus et aflectio, superflua est eiusdem rei repetita propositio, sin vero differact, quare differant investigandum est. Genere enim ne distent, illa res praevenit, quod utraque sub qualitate constituit. Restat ergo ut aut specie discrepent, aut numero; sed si specie discreparent, non ab Aristotele pro una specie ponerentur. Reliquum est igitur ea neque genere neque specie differre sed numero. Habitus namque dispositio idem est secundum speciem sed numero tantum et propria quadam qualitate dissentiunt. Dispositionem vero indiscrete idem quod affectionem voco. Nam sicut Socrates a Platone nihil quidem secundum ipsam humanitatis speciem discrepat, sola tamen propriae personae qualitate disiuncti sunt, ita quoque dispositio atque habitus, nec potius hoc modo distant; sed quemadmodum ipse Socrates dum esset paruulus, post vero pubescens a seipso distabat, eodem quoque modo habitus et dispositio: namque habitus firma est dispositio, affectio infirmus est habitus, ut quemadmodum distat albus color ab albo colore, si in pictura hic quidem permaneat, ille vero statim periturus sit, nisi quod is qui permanentior est, in habitu est, ille vero qui facile periturus est, in affectione, ita nihil aliud interest inter habitum atque dispositionem. Nam quamvis permanentior sit habitus, facile vero mobilis dispositio, non nisi tantum dinturnitate differunt permanendi. Unde fit ut genere et specie habitus a dispositione non discrepet. Quocirca recte quae numero solo distabant, non specie sub unius speciei nuncupatione utraque sunt ab Aristotele proposita sed est horum propria differentia, quod habitus diutissime permanentes dispositiones sunt. Dispositio autem facile mobilis habitus sed si borum exempla quaeramus, haec poterunt inveniri. Habitudines sunt ut artes, disciplinae, virtutes. Nam ars non facile mobilis videtur et diutissime permanet. Hoc enim ars ipsa meditatur ut usu atque exercitatione non pereat. Quis enim est qui sciens recte grammaticam nulla vi interveniente validioris passionis amisit? Fertur enim quidam summus orator aegritudine febribusque decoctus, omnem litterarum amisisse doctrinam, in aliis vero rebus sanus ac sibi constans et in omni re uegetus permansisse. Disciplina quoque etiam ipsa est in permutatione difficilis. Quis enim sciens triangulum, duobus directis angulis, tres interiores similes habere angulos, hanc scientiam praeter vim (ut dictum est) fortioris passionis amisit? Virtutes quoque in eodem genere ponendae sunt. Virtus enim nisi difficile mutabilis non est, neque enim quod semel iuste iudical iustus est, neque qui semel adulterium facit, est adulter sed cum ista voluntas cogitatioque permanserit. Aristoteles enim virtutes non putat scientias, ut Socrates sed habitus in Ethicis suis esse declarat. Quocirca constat esse habitus stabiliter permanentes, difficileque mutabiles, hoc tantum excepto, ut non eas vis aliqua maior alicuius permutationis impellat et destruat. Affectionis vero species sunt, ut calefactio atque perfrictio, et aegritudo atque sanitas, cum ad eas quodammodo sit homo dispositus atque affectus, non tamen immutabiliteraut caloris qualitatem habeat aut frigoris, sicut nec perpetuo sanitatis aut perpetuo aegritudinis. Quin etiam si qua sunt quae per longi temporis aegritudinem corporibus immutabiliter indurantur, ut ea iam in naturam quodammodo corporis cuiusque transierint, ut si quis percussus cicatricem faciat insanabilem, illi ex dispositione et 242D affectione quidam factus est habitus. Quocirca recte dictum est dispositiones inveteratas habitus facere. Nam cum quaelibet dispositio permanens et difficilc mobilis facta sit, illa iam non dispositio aut affectio sed habitus vocandus est. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM HAEC VOLUNT HABITUS NOMINARI, QUAE SUNT DIUTURNIORA ET DIFFICILE MOBILIA; NAMQUE IN DISCIPLINIS NON MULTUM RETINENTES SED FACILE MOBILES DICUNT HABITUM NON HABERE, QUAMVIS SINT AD DISCIPLINAM PEIUS MELIUSUE DISPOSITI. QUARE DIFFERT HABITUS AFFECTIONE, QUOD HOC QUIDEM FACILE MOBILE EST, ILLUD VERO DIUTURNIUS ET DIFFICILE MOBILE. Habitus esse qualitates difficile mobiles et diuturnissime permanentes hoc argumento confirmat, quod eos quibus quaelibet scientia traditur, si ab eis non fortiter addiscatur, eius rei quam discunt habitum retinere non dicimus. Qui enim litteras discens nondum soluto cursu sermonis sed syllabatim quodammodo atque intercise per imperitiam legerit, eum quidem dispositum esse atque affectum dicimus ad scientiam litterarum, non tamen adhuc illum habitum retinere. Quare idem quoque est in aliis rebus. Omnes enim quicumque ad aliquam rem dispositi, eius rei qua sunt aliquo modo affecti, non diuturnam in se receptionem habent, eos ad illam rem dispositos quidem esse arbitramur, habitum vero habere non dicimus. Recte igitur habitus diuturnior, et permanentior, dispositio vero facile mobilis deque perdurabilis ab Aristotele proponitur. SUNT AUTEM HABITUS ETIAM AFFECTIONES, AFFECTIONES VERO NON NECESSARIO HABITUS; QUI ENIM RETINENT HABITUM ET QUODAMMODO AFFECTI SUNT AD EA VEL PEIUS VEL MELIUS; QUI AUTEM AFFECTI SUNT, NON OMNINO RETINENT HABITUM. Sensus quidem talis est, quod omnis quicumque habeat habitum, habet quoque in eodem habitu dispositionem. Si quis vero habeat dispositionem, non necesse sit eum etiam habitum retinere. Habitus ab habendo dictus est. Idcirco quod ab aliquo immutabiliter vel difficile immutabilitur habeatur, ut glauci oculi, vel aduncae nares, vel alicuius artis scientia atque doctrina, quae si quis habeat, etiam dispositus ad ea esse dicitur. Si quis autem dispositus ad aliquam rem sit, non eum necesse est etiam habitum habere, ut si quis negligentius opertus algore quatiatur, dispositus quidem tunc ad frigus est, non tamen eius retinet habitum. Videtur autem eamdem similitudinem servare genus. Nam genus amplius praedicatur, et ubicumque species sit, mox quoque nomen generis praesto est. Ubi autem sit genus, non necessario speciei vocabulum consequitur, ut si quis est homo, eum animal esse necesse est. Si quis est animal, non statim homo dicitur. Quocirca cum quidquid est habitus, dispositio sit, quidquid dispositio non omnino sit habitus, videtur genus esse quoddam habitus dispositio sed illud verius, ubi intentio est atque remissio, genus intentionis, remissione esse non posse. Num sicut in eo quod est album et magis album, magis albi genus album esse non potest, idem namque est album et magis album, nisi forte quod sola discrepant intentione, quod magis album quadam quasi intentione augmentoque crescit atque porrigitur, sic etiam habitus atque dispositio cum idem sint, utraque sola differunt intentione, quod auctior quodammodo, et incremento quodam permanentior firmiorque est habitus dispositione; quocirca dispositio habitus genus non est, eodem quoque modo nec dispositionis species, habitus. Sed nunc quidam ita est habitus, ut non per dispositionem creuerit, neque per aliquam nondum durabilem qualitatem ad perfectum venerit statum, ut est nasi curuitas, vel caecitas oculorum, si subita facta sit. Haec enim ab ipso habitu nulla praecedente dispositione coeperunt; forte enim nunquam ad ea dispositiis fuit aliquis, qui adhuc non haberet. Alii vero habitus intentione fiunt atque inveteratione dispositionis, ut ea quae in artibus doctrinisque versantur. Prius enim quis ad ea dispositus est, post vero habitum capit, alia vero non intentione sed quadam permutatione ad habitum veniunt, ut lac quod ex liquido defigitur et constipatur in caseum, et vinum quod ex dulci atque suavi in acidum gustum saporemque convertitur; neque enim plus tunc vinum est quam fuit ante cum esset suave sed cum quadam permutatione in aliam qualitatem habitudinemque transgressum est. Ac de prima quidem qualitatis specie sufficienter est dictum. ALIUD VERO GENUS QUALITATIS EST SECUNDUM QUOD PUGILLATORES U EL CURSORES VEL SALUBRES VEL INSALUBRES DICIMUS, 244B ET SIMPLICITER QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM VEL IMPOTENTIAM DICUNTUR. NON ENIM QUONIAM SUNT AFFECTI ALIQUO MODO, UNUMQUODQUE HUIUSMODI DICITUR SED QUOD HABEANT POTENTIAM NATURALEM VEL FACERE QUID FACILE VEL NIHIL PATI; UT PUGILLATORES VEL CURSORES DICUNTUR NON QUOD SINT AFFECTI SED QUOD HABEANT POTENTIAM HOC FACILE FACIENDI, SALUBRES AUTEM DICUNTUR EO QUOD HABEANT POTENTIAM NATURALEM UT NIHIL A QUIBUSLIBET ACCIDENTIBUS PATIANTUR, INSALUBRES VERO QUOD HABEANT IMPOTENTIAM NIHIL PATIENDI. SIMILITER AUTEM ET DURUM ET MOLLE SESE HABENT; DURUM ENIM DICITUR QUOD HABEAT POTENTIAM NON CITIUS SECARI, MOLLE VERO QUOD EIUSDEM IPSIUS HABEAT IMPOTENTIAM. Secundam vero speciem qualitatis esse commemorat, quae ex quadam naturali potentia impotentiaque proveniat; hoc autem huiusmodi est, ut cum aliquos validi corporis intuemur nondum pugiles, neque huius peritia artis imbutos sed sic eos pugillatores dicimus, non in eo quod iam sint pugiles sed eo quod esse possint, et si quorum leue corpus aspicimus, surasque non magnas, eos facile moveri cursuque veloces existimamus, quamquam nondum ad cursus certamen aspirent, nec sint cursores, eos tamen cursores secundum potentiam nominamus, non quod iam currant sed quod possint currere, non absurde vocabimus. Eodem quoque modo eos vocamus salubres vel insalubres, quos valenti corpore vel fragiliore, vel ad sanitatem aptos, vel ad aegritudinem credimus. 244D Unde fit ut quosdam aegrotos possimus salubres vocare, quosdam vero sanos insalubres dicere: non enim, quod iam actu vel sani vel aegroti sint, salubres vel insalubres dicuntur sed quod vel sani diutius esse possint vel aegroti. Sed quaestio est cur cum de qualitatis speciebus propositum sit, secundum genus dixerit qualitatis et non speciem; ita enim ait: Aliud vero genus qualitatis est secundum quod pugillalores vel cursores, vel salubres et insalubres dicimus. Sed qui hoc quaerunt ignorare videntur illud esse solum genus, quod super se aliud genus non habeat. Illud veros solum speciem, quod sub se nullas species claudat, illa vero quae inter genera generalissima speciesque specialissimas sunt, communi posse generis et speciei nomine nuncupari. Quocirca quoniam de ea specie qualitatis Aristoteles tractat, quae nondum sit species specialissima sed magis generis prima species, et huiusmodi species quaa possit esse et genus, nihil absurdum est eamdem et speciei et generis loco ponere. Sed ut sunt quaedam qualitates, a quibus denominatione quadam facta quaelibet illa res dicitur, ut ab albedine album, vel a luxuria luxuriosum, vel quidquid huiusmodi est, in his quae sunt secundum potentiam naturalem non ita est. Ars enim ipsa pugillatoria non est proposita, a qua pugillatores dicamus. Pugillatores enim non dicuntur ab eo quod usum pugillatoriae artis exerceant sed ab eo quod ad eam secundum potentiam naturalem affecti sunt; quocirca quos dicimus pugillatores a pugillatoria dicti non sunt, neque ab ea denominari possunt sed magis a pugillatoria arte pugiles appellantur. Pugilis enim est qui pugillatoria arte utitur, atque hoc idem in caeteris licet videre. In his ergo nulla certa qualitas est a qua caetera nominentur. Sed si qua tamen invenienda atque exprimenda sit, talis est quam ipse Aristoteles hoc modo denuntiat, quae sit secundum potentiam aliquid faciendi, vel impotentiam aliquid patiendi. Pugillatores enim et cursores idcirco dicimus, quod habeant potentiam faciendi, id est currere atque esse pugiles. Salubres vero denominamus, quod et ipsi habeant aliquam quodammodo im potentiam aliquid patiendi; qui enim minus ab extrinsecus accidentibus patitur, hic de sanitate securus est, et qui de sanitate securus est, illum salubrem esse re vera possumus praedicare. Alia vero est qualitas quae secundum nihil patiendi impotentiam dicitur, ut eos quos insalubres vocamus; hi enim impotentiam habent nihil patiendi, idcirco quod habeant potentia mali quid cito patiendi: quod si quis est qui ab extrinsecus accidentibus aliquid facile patiatur, ille potens est facillime aegritudini subiacere, secundum quam potentiam insalubres dicimus, etiamsi sint sani. Eodem quoque modo durum dicitur et molle. Durum enim est quod habet potentiam non citius secari, quod enim durum est, difficillime aliqua sectione dividitur. Molle autem quod habeatimpotentiam difficilius secari, quod quoniam molle secatur facile, secundum impotentiam difficilius secari molle dicimus. Et haec est secunda species qualitatis. Nunc transeamus ad tertiam. TERTIUM VERO GENUS QUALITATIS EST PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES. SUNT AUTEM HUIUSMODI UT DULCEDO VEL AMARITUDO ET OMNIA HIS COGNATA, AMPLIUS CALOR ET FRIGUS ET ALBEDO ET NIGREDO. ET QUONIAM HAE QUALITATES SUNT, MANIFESTUM EST; QUAECUMQUE ENIM ISTA SUSCEPERINT QUALIA DICUNTUR SECUNDUM EA; UT MEL, QUONIAM DULCEDINEM SUSCEPIT, DICITUR DULCE, ET CORPUS ALBUM QUOD ALBEDINEM SUSCEPERIT; SIMILITER AUTEM SESE HABET ETIAM IN CAETERIS. Tertium genus qualitatis proponit, quod nos in partem qualitatis speciemque convertimus passibiles qualitates et passiones. Haec autem a se plurimum distant, tamen cum utraque qualitates sint, utraque prius docet, post vero quae eorum distantia esse videatur edisserit, et prius eorum convenientia proponit exempla. Nam quid sint passibiles qualitates docens ait. ut dulcedo vel amaritudo, calor et frigus, nigredo et albedo, et alia his cognata, haec quae superius comprehensa sunt qualitates esse illa ratione confirmat, quam in primordio de qualitatis disputatione ipsius qualitatis esse reddiderat. Definitionem enim qualitatis esse praedixerat, secundum quam quales vocamur. Quod si secundum qualitatis quales vocamur, ab amaritudine vero vel a dulcedine amarum vel dulce dicitur. A nigredine atque albedine nigrum atque album, quis dubitet has esse qualitates in quibus qualitatis convenit definitio? Illa enim semper eiusdem naturae esse creduntur, quaecumque eiusdem descriptionis finibus terminantur, ut si qua res definitionem hanc, quae est animal rationale mortale susceperit, eam hominem esse manifestum est. Quocirca si hae quas passibiles qualitates vel passiones dixerat, suscipiunt qualitatis defnitionem, eo quod qualia dicuntur quae illa susceperint, has etiam constat esse qualitates. PASSIBILES VERO QUALITATES DICUNTUR NON QUO EA QUAE ILLAS SUSCEPERINT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR; NEQUE ENIM MEL, QUONIAM ALIQUID PASSUM SIT, IDCIRCO DICITUR DULCE, NEC ALIUD ALIQUID HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM HIS ET CALOR ET FRIGUS PASSIBILES DICUNTUR NON QUO EA QUAE EAS SUSCIPIUNT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR SED QUONIAM SINGULUM EORUM QUAE DICTA SUNT SECUNDUM SENSUS QUALITATUM PASSIONIS PERFECTIVA SUNT, PASSIBILES QUALITATES DICUNTUR; DULCEDO ENIM PASSIONEM QUANDAM SECUNDUM GUSTUM EFFICIT, ET CALOR SECUNDUM TACTUM; SIMILITER AUTEM ET ALIA. Passibilium qualitatum exempla constituerat dulcedinem vel amaritudinem, frigus atque calorem, albedinem atque nigredinem, quae cum passibiles qualitates sint, non tamen uno eodemque modo passibiles qualitates dicuntur; sed longe distant rationes quibus haec omnia qualitates passibiles appellantur, ut prius dulcedo vel amaritudo, calor et frigus passibiles qualitates dicuntur, non quod ea quae sunt dulcia aliquid extrinseous patiantur, vers quod ea quae sunt amara, ex aliqua passione saporem asperum amaritudinemque susceperint. Neque enim mel aliquid passum est, ut ei dulcedo esset in natura, nec vero absinthium ab ulla aliqua extrinsecus passione amaritudinis horror infecit; quocirca haec atque his similia non idcirco dicuntur esse passibiles qualitates, quod ipsae aliquid passae sint sed quod ex his passiones quaedam in sensibus dimittantur. Namque ex melle quod dulce est, dulcedo quaedam in gustu relinquitur, simulque etiam calor et frigus passionem quamdam sensibus facinat. Patimur dulcedinem, cum aliquid dulce gustamus, simulque secumlum caloris et frigoris qualitatem, talium sensuum passionem subimus. Quocirca calor et frigus, amaritudo atque dulcedo, idcirco passibiles qualitates dicuntur, quod secundum sensuum qualitatem, aliquam in nobis efficiunt passionem, non quod ipsa extrinsecus aliquid patiantur. ALBEDO AUTEM ET NIGREDO ET ALII COLORES NON SIMILITER HIS QUAE DICTA SUNT PASSIBILES QUALITATES DICUNTUR SED HOC QUOD HAE IPSAE AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS INNASCUNTUR. Quoniam vero passibiles qualitates etiam colores esse dicuntur, id est albedo et nigredo. Non autem eodem modo passibiles qualitates dicuntur, quemadmodum amaritudo atque dulcedo, calor et frigus, nunc quae eorum distantiae esse possint, exponit. Amaritudo enim atque dulcedo non quod ipsa aliquid extrinsecus paterentur sed quod ipsa efficerent passiones, passibiles qualitates vocabantur, albedo vero et nigredo contrarie. Non enim quod ipsae aliquas 247B sensibus passiones importent sed quod ex aliis quibusdam passionibus innascantur. Hoc autem videtur Aristoteles eo quodammodo considerasse, quod post proposuit hoc modo: QUONIAM ERGO FIUNT PROPTER ALIQUAM PASSIONEM MULTAE COLORUM MUTATIONES, MANIFESTUM EST; ERUBESCENS ENIM ALIQUIS RUBICUNDUS FACTUS EST ET TIMENS PALLIDUS ET UNUMQUODQUE TALIUM. Hoc autem ex non longi temporis passionibus ad passibiles qualitates et diutissime permanentes, acutissima consideratione transfertur, fit enim rationis probabilitas hoc modo. Monstrantur enim colorum qualitates ex passionibus nasci, quod cum verecundia passio quaedam sit, ex ea rubor ex oritur, et cum timor loco passionis habeatur, ab ea pallor metuentis 247C uultum atque ora defigit. Quare quoniam hi colores ex quadam passione videntur innasci, etiam in naturali colore eamdem verisimile est evenisse rationem. Nam quoniam cum verecundia fit, in os omnis sanguis egreditur, et velut delictum tecturus effunditur, ita quoque fit rubor ex sanguinis progressione, atque in apertum effusione. Quocirca si hoc ex innaturali passione contigerit, naturali facies rubore perfunditur. Pallor vero fit, quoties a facie sanguis ad praecordiorum interiora ingreditur. Quod si haec quoque naturalis passio det, verisimile est eodem infectum calore procreari. Quocirca sive per aegritudinem pallor fit, quod naturale non est, sive per aliquem naturalem euentum passionis accidat, caeteraque ad eumdem modum, passibiles qualitates dicuntur, eo quod ex aliquibus passionibus sint, quod ipse Aristoteles hao voce testatur: QUARE VEL SI QUIS NATURALITER ALIQUID TALIUM PASSIONUM PASSUS EST, SIMILEM COLOREM EUM HABERE OPORTET; QUAE- ENIM AFFECTIO NUNC AD VERECUNDIAM CIRCA CORPUS FACTA EST, ET SECUNDUM NATURALEM CONSTITUTIONEM EADEM AFFECTIO FIT, QUARE NATURALITER COLOR SIMILIS FIT. Nam sive aliquis vel nondum natus aliquid patiatur, quo faciem sanguis reiinquat, sive quolibet alio modo sanguis ex infantis uultu ad interiora migravit, faciem naturalis infecit pallor, et quae nunc non naturales passiones dispositionesque sunt, ut cum hi colores faciem vel totum corpus inficiunt, hi si naturaliter contigerint eisdem, similibus signatus coloribus uultus aspicietur. Nunc enim cum aestus in superficie uultus sanguinem impositum decoxerit, nigredinis perusti sanguinis rubor reddit colorem. Quodsi idem aliqua passione in faciem nondum geniti infantis acciderit, eamdem verisimile est affectionem coloris corpus suscipientis inficere. Quare quae in coloribus sunt idcirco passibiles qualitates dicuntur, non quod ipsae aliquid paliantur sed quod ex aliquibus passionibus in cuiuslibet corpus atque ora proveniunt. QUAECUMQUE IGITUR TALIUM CASUUM AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS DIFFICILE MOBILIBUS ET PERMANENTIBUS PRINCIPIUM CEPERUNT, QUALITATES DICUNTUR; SIVE ENIM VEL SECUNDUM NATURALEM SUBSTANTIAM PALLOR AUT NIGREDO FACTA EST, QUALITAS DICITUR (QUALES ENIM 248B SECUNDUM EAS DICIMUR), SIVE PROPTER AEGRITUDINEM LONGAM VEL PROPTER AESTUM CONTINGIT VEL NIGREDO VEL PALLOR, ET NON FACILE PRAETERIT ET IN VITA PERMANET, QUALITATES ET IPSAE DICUNTUR (SIMILITER ENIM QUALES SECUNDUM EAS DICIMUR). Dat quoddam signum quo perspecto valeamus agnoscere, quas harum omnium quae supradictae sunt, qualitates oporteat appellari. Si enim ita vel casu aliquo, vel natura hae qualitates euenerint, ut eorum sit tardus exitus permutatioque difficilis, qualitates vocantur. Si quis enim vel per aegritudinem, vel per naturam pallidus fiat, sitque in eius corpore permanens pallor, tunc qualitas appellatur, et hoc non in corporalibus solum vitiis sed etiam in animi quoque affectionibus invenitur. Si quis enim vel per naturam, vel quolibet alio postea casu assiduis comessationibus delectetur, et hoc illi quodammodo in ipsa mentis dissolutione per maneat, ab eoque difficile moveatur, passibilis qualitas effecta est, idcirco quod secundum eam quales dicuntur quibus illa provenerit. Niger enim dicitur in quo nigredo permanserit; comessator, cui voluptas perpetuo comessandi est. Est ergo signum in passibilibus qualitatibus hoc eas esse immobiles et permanentes. Quae autem huiusmodi sunt quae facillime permutantur, et temporali statu sunt, de his talis Aristotelis videtur esse sententia. QUAECUMQUE VERO EX HIS QUAE FACILE SOLUUNTUR ET CITO TRANSEUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR; NON ENIM DICIMUR SECUNDUM EAS QUALES; NEQUE ENIM QUI PROPTER VERECUNDIAM RUBICUNDUS FACTUS EST RUBICUNDUS DICITUR, NEC CUI PALLOR PROPTER TIMOREM venIT PALLIDUS SED MAGIS QUOD ALIQUID PASSUS SIT; QUARE PASSIONES HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO MINIME. SIMILITER AUTEM HIS ET SECUNDUM ANIMAM PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES DICUNTUR. QUAECUMQUE ENIM MOX IN NASCENDO AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS FIUNT, QUALITATES DICUNTUR, UT DEMENTIA VEL IRA VEL ALIA HUIUSMODI; QUALES ENIM SECUNDUM EAS DICIMUR, ID EST IRACUNDI ET DEMENTES. SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE ALIENATIONES NON NATURALITER SED AB ALIQUIBUS ALIIS CASIBUS FACTAE SUNT DIFFICILE PRAETEREUNTES ET OMNINO IMMOBILES, ETIAM HUIUSMODI QUALITATES SUNT; QUALES ENIM SECUNDUM EAS DICIMUR. QUAECUMQUE ENIM EX HIS QUAE 249A CITIUS PRAETEREUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR, UT SI QUIS CONTRISTATUS IRACUNDIOR EST; NON ENIM DICITUR IRACUNDUS QUI IN HUIUSMODI PASSIONE IRACUNDIOR EST SED MAGIS ALIQUID PASSUS; QUARE PASSIONES QUIDEM HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO MINIME. Quid de his affectionibus iudicaret, quae ad prasens tempus atque ad momentum animis vel corporibus inhaererent, ipse non obscura oratione uulgavit. Nam cum prius eas esse passibiles qualitates pronuntiaret, quae ex aliquibus passionibus gignerentur, et tamen in subiectis immutabiliter permanerent, nunc illas affectiones quae ita sunt in subiectis ut cito praetereant, non qualitates sed passiones vocat. Si quis enim propter verecundiam rubore infectus est, quoniam rubor ille non permanet, rubeus von vocatur; 249B qui si rubeus discerelur, esset quoque ipse rubor passibilis qualitas, quoniam in subiecto corpore diutissime permaneret. Nunc autem quoniam nullo modo rubeus dicitur, cui a verecundia rubor venit, qualitates autem sunt secundum quas quales vocamur, verecundiae rubor non qualitas sed quaedam passio est; nam si esset qualitas, ab eo rubore rubei dicerentur, id est quales sed hoc non ita est. Non igitur huiusmodi affectiones quae haud multo durant tempore qualitates vocantur sed potius passiones. Passus enim aliquid dicitur, qui propter verecundiam rubeus fit. Eadem ratio est etiam in animi passionibus. Nam si ad momentum quis iratus est, non idcirco eum iure aliquis iracundum vocet sed si huiusmodi vilium in cuiuslibet animo constanter inhaeserit. Nam si quis vel per naturam vel per aegritudinem sit laesus corpore, ut vel perpetuam dementiam, vel immobilem incurrat iracundiam, ille vel demens vel iracundus dicitur. Et quaecumque alienationes (ut ipse ait) vel secundum naturam, vel per casum permanentes fuerint, illae in passibili qualitate numerantur, idcirco quod secundum eas quales dicimur. Quae autem (ut dictum est) non permanent sed facile transeunt, eas non qualitates sed solum vocamus passiones. Sed quoniam tres species qualitatis enumeravit, unam secundum quam habitus dispositionesque dicerentur, alteram secundum quam naturalis potentia vel impotentia ad aliquid faciendum vel patiendum subiectarum rerum naturas paruret, tertiam secundum quam passibiles qualitates dicerentur, et hanc tali duplicitate partitus est, ut alias idcirco diceret passibiles esse qualitates, quod ipsae aliquas gignerent passiones, alias vero quod ab aliquibus ipsae passionibus nascerentur. Quaeri potest quomodo hae quoque passibiles qualitates distenta prima illa specie qualitatis, quae secundum habitum dispositionemque posita est. Nam si quis calorem frigusque persenserit, habet quidem qualitatem passibilem sed tamen in eiusdem ipsius dispositione atque affectione versatur; dispositus namque est ad eumdem calorem atque frigus, quem sumpsit atque habuit, quod scilicet ipse Aristoteles videns calorem frigusque in utraque specie numeravit; namque et dispositionem dixit calorem atque frigus, et passibilem qualitatem. Huius quaestionis talis solutio est. Nihil impedit, secundum aliam scilicet atque aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi speciei suae supponere, ut Socrates in eo quod pater est ad aliquid dicitur, in eo quod homo, substantia est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis secundum ea videtur esse dispositus, in dispositione numerata sunt; secundum vero quod ex aliquibus passionibus innascuntur, passibiles qualitates dictae sunt. Ipsae vero ab habitu distant, id est passibiles qualitates, quod in plurimis ad habitus rebus per artes atque scientias pervenitur, ita ut ipse habitus ordine et filo quodam perficiatur. Passibiles vero qualitates eo modo minime. Quo vero distent hae passibiles qualitates a secunda specie, qua secundum naturalem potentiam vel impotentiam dicitur, quaeritur, cuius perplana distantia est. Dicimus enim secundum potentiam naturalis speciem aliquid dici, non secundum praesentem actum sed secundum id quod ad hoc esse potest; frigus vero calorque, et dulcedo vel amaritudo non secundum quod possit esse sed secundum id quod iam sit consideratur; quocirca distat haec tertia species a secunda, quod hic secundum possibilitatem dicitur, tertia vero secundum actum. Sed quod dudum promiscue passiones affectionum nomine vocabamus, haec quoque non longa quaestio alia est. Sic enim inveniemus quod passio ab affectionibus discrepare videatur. Si qua enim corpora ita calefacta sint, ut ex se quoque ipsa aliquem calorem emittere valeant, illa ad calorem affecta nuncupantur. Si qua vero tantum calorem momento susceperint, passiones dicimus, et ab affectionibus segregamus, ut hic sit integrum passionum affectionum quae habitus augmentum, ut amplificata passio in affectionem transeat, augmentata affectio in habitum permatetur. Et haec quidem de tertia specie qualitatis pronuntiasse sufficiat; nunc quarte speciei vim naturamque veracissima disputatione confirmat usque quo progressa qualitatis distributio conquiescit. Nobis quoque disputationum prolixitas moderanda est. Providendum quoque est ut sufficiens brevitas ordini expositionis adhibeatur, ne aut brevitatem comitetur obscuritas, aut planitiem minus moderata oratio, odioso fastidio et longinquitate deformet. QUARTUM VERO GENUS QUALITATIS EST FORMA ET CIRCA ALIQUID CONSTANS FIGURA; AD HAEC QUOQUE RECTITUDO VEL CURUITAS, ET SI QUID HIS SIMILE EST; SECUNDUM ENIM UNUMQUODQUE EORUM QUALE QUID DICITUR; QUOD ENIM EST TRIANGULUM VEL QUADRATUM QUALE QUID DICITUR, ET QUOD EST RECTUM VEL CURUUM. ET SECUNDUM FIGURAM VERO UNUMQUODQUE QUALE DICITUR. Quarta est species qualitatis quae secundum unamquamque formam figuramque perspicitur. Est autem figura, ut triangulum vel quadratum, forma autem ipsius figurae quaedam qualitas est, ut figura quidem est triangulum vel quadratum, forma autem ipsius trianguli vel quadrati quaedam qualitas, unde etiam formosos homines dicimus. Figura enim quaedam vel 251A pulchrior, vel mediocris, vel alio quodammodo constituta, qualitas formaque nominatur. Has autem esse qualitates nullus dubitat. Siquidem et a figura dicitur figuratus, et a forma formosus. Amplius quoque triangulum etiam a triangulatione denominatum est, et quadratum a quadratura. Quod si illae sunt qualitates, secundum quas quale aliquid appelletur, non est qui dubitet formam figuramque esse qualitates, quoniam omnia quae his participant ex ipsis qualia nominantur sed quoniam in continuae quantitatis speciebus et triangulum et superficies enumerata est, ipsa quidem superficies quantitas est, ipsius vero superficiei compositio qualitas, est enim figura (ut geometrici definiunt) quae sub aliquo vel aliquibus terminis continetur. Sub aliquo quidem, ut circulus, sub aliquibus vero, ut triangulus vel quadratus. Quare spatium quidem ipsum, quod a supra dictis lineis continetur, superficies dicitur, quae est quantitas. Superficies namque quoniam in dilatione quadam et spatio constat, quantitas est sed compositio ipsius superficiei, qualitas. Nam quoniam tres lineae convenienter in se iunctis terminis unum spatium conclusere, quod tribus angulis a tribus lineis continetur, hoc ipsum spatium quod concludunt ad quantitatem referri potest, quod vero tribus lineis, hoc est qualitas, figura enim est triangula. Hoc idem quoque dici potest etiam in linea: nam quoniam longitudo sive latitudine est, quantitas dicitur, quod recta sive curua est, redditur rursus ad qualitatem. RARUM VERO ET SPISSUM VEL ASPERUM VEL LENE PUTABITUR 251C QUIDEM QUALITATEM SIGNIFICARE, VIDENTUR AUTEM ALIENA ESSE HUIUSMODI A QUALITATIS DIVISIONE; QUANDAM ENIM QUODAMMODO POSITIONEM VIDETUR PARTIUM UTRUMQUE MONSTRARE; SPISSUM QUIDEM EO QUOD PARTES SIBI IPSAE PROPINQUAE SINT, RARUM VERO QUOD DISTENT A SE INVICEM; ET LENE QUIDEM QUOD IN RECTUM SIBI PARTES IACEANT, ASPERUM VERO CUM HAEC QUIDEM PARS SUPERET, ILLA VERO SIT INFERIOR. ET FORTASSE ALII QUOQUE APPAREANT QUALITATIS MODI SED QUI MAXIME DICUNTUR HI SUNT. QUALITATES ERGO SUNT HAEC QUAE DICTA SUNT, QUALIA VERO QUAE SECUNDUM HAEC DENOMINATIVE DICUNTUR, VEL QUOMODOLIBET AB HIS. Quaedam sunt quae videntur esse qualitates, quoniam ex his aliqua denominative dicuntur, ut lene quoniam dicitur alenilate, et asparum quoniam dicitur 251D ab asperitate, spissum quoque et rarum a raritate et spissitate nominantur; videntur ergo haec quoque in qualitatibus posse numerari. Sed rectam rationem perspicientibus nec solum auribus quae dicuntur sed etiam mente atque animo iudicantibus, in qualitatibus haec poni non oportere manifestum est. Nam quod dicimus rarum, positio quaedam partium est, non qualitas. Nam quia ita partes a se separatae distant, ut inter eas alieni generis corpus possit admitti, ideo rarum vocatur, ut spongiae pumicesque, quoniam in eorum cavernis surculus vel aliud aliquid immitti potest, ita ut inter rimas partium sit, idcirco rarum dicitur. Porro autem spissum, quoniam ita sibi partes vicinae sunt atque ad se invicem strictae, ut intereas nullum corpus possit incidere, atque ideo spissum vocatur, ut est ferrum vel adamas. Positio ergo quaedam partium his inest, non qualitas, nec vero illud quoque distat, quod dicitur lene. Nam quoniam partes ita sunt positae, et neutra superet, neutra sit minor sed aequalibus extremitatibus iunctae sunt, idcirco quaedam lenitas est, ut adducta manus illam quae ex aequalitate iunctis partibus nata est, sentiat lenitatem, ut est argentum. Asperitas vero est partium non aequalis positio sed aliarum eminentium, aliarum vero depressarum, ut lima cuius aliae partes eminent, aliae vero depressae sunt. Ergo secundum unamquamque partium positionem, vel raritas, vel spissitudo, vel asperitus, vel lenitas, corporibus est. Non igitur haec secundum qualitatem dicuntur sed potius secundum positionem. Positio autem in relationis genere nominata est. Non igitur hae qualitates sed potius relativa sunt, et enumerationes quidem specierum qualitatis Aristoteles hic terminat Non sunt tamen putandae solum esse qualitates quas supra posuit. Ipse enim testatur esse quoque alias qualitates, quas modo omnes enumerare neglexit sed cur neglexerit multae sunt causae. Prima quod elementi vicem hic obtinet liber, nec perfectam scientiam tradit sed tantummodo aditus atque pons quidam in altiora philosophiae introitum pandit. Quocirca si hoc ita est, tantum dicere oportuit, quantum ingredientibus salis esset, ne eorum animos nondum ad scientiam firmos multiplici doctrina, subtilitate confunderet. Quae vero hic desunt in libris qui *Meta ta physika* inscribuntur apposuit. Perfectis namque opus illud non ingredientibus praeparabitur. Est quoque alia causa ut nos ad exquirendas alias qualitates, non solum propriorum doctorum sed etiam nostrorum aliquid inveniendi incitator, admitteret. Quocirca concludit eas quae maxime dicerentur, quas supra proposuit, esse qualitates; illa vero dici qualia, quae secundum praedictas qualitates dicerentur: sed quoniam addidit, vel quomodolibet ab his quae sit huiusce propositionis sententia, prius appositis Aristotelis verbis sequens expositionis ordo contexit. IN PLURIBUS QUIDEM ET PAENE IN OMNIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR, UT AB ALBEDINE ALBUS ET A GRAMMATICA GRAMMATICUS ET A IUSTITIA IUSTUS, SIMILITER AUTEM ET IN CAETERIS. IN ALIQUIBUS VERO PROPTEREA QUOD QUALITATIBUS NOMINA NON SUNT POSITA IMPOSSIBILE EST AB HIS DENOMINATIVE DICI, UT CURSOR VEL PUGILLATOR, SI SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM DICITUR, A NULLA QUALITATE DENOMINATIVE DICITUR; NEQUE ENIM POSITUM EST NOMEN ILLIS POTESTATIBUS: SECUNDUM QUAS ISTI QUALES DICUNTUR, QUEMADMODUM ETIAM IN DISCIPLINIS SECUNDUM QUAS VEL PUGILLATORES VEL PALAESTRICI SECUNDUM AFFECTIONEM DICUNTUR (PUGILLATORIA ENIM DISCIPLINA DICITUR ET PALAESTRICA, QUALES VERO AB HIS DENOMINATIVE QUI AD EAS SUNT AFFECTI DICUNTUR). ALIQUANDO AUTEM ET POSITO NOMINE DENOMINATIVE NON DICITUR ID QUOD SECUNDUM IPSAM QUALE QUID DICITUR, UT A VIRTUTE PROBUS DICITUR; HOC ENIM QUOD HABET viRTUTEM PROBUS DICITUR SED NON DENOMINATIVE A VIRTUTE; NON EST AUTEM HOC IN MULTIS. QUALIA ERGO DICUNTUR QUAECUMQUE EX HIS QUAE DICTAE SUNT QUALITATIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR VEL QVOLIBET ALIO AB IPSIS MODO. Multae, inquit, sunt qualitates, quibus positis et proprio nomine nuncupatis, ab his alia denominative dicuntur, ut ea quae ipse planissime adiecit exempla. Nam cum albedo cuiusdam nomen sit qualitatis, ab eo dicitur albus. Eodem quoque modo et grammatica, cum rei sit nomen, ab ipso quales dicuntur. Grammatici enim a grammatica nominantur, atque hoc est in pluribus, ut posito nomine si quid secundum ipsas qualitates quale dicitur, exhis ipsis qualitatibus appellatio derivetur. Aliae vero qualitates sunt, in quibuscum nomen positum non sit, tamen quales dicuntur, quales quidem quia alia qualitate participant, sed non secundum eam qualitatem quales dicuntur, ex qua si his esset qualitatibus nomen impositum poterant appellari, ut in ea qualitate quae secundum potentiam naturalem dicitur. Illi enim quamquam quales dicantur, hi qui secundum ipsam potentiam nominantur, ipsi tamen (ut dictum est) nullo proprio nomine nuncupantur. Nam qui pugiles appellantur ab arte pugillatoria, idcirco ab ea pugiles dicuntur, quod ad eamdem ipsam artem pugillatoriam quodammodo affecti eunt. Hi enim pugiles ab arte pugillatoria praedicantur. Qui vero nondum pugiles sunt sed esse possunt, non secundum ipsam artem, id est pugillatoriam sed secundum potentiam pugillatoriae artis, pugillatores vocantur. Ipsi autem potentiae nomen proprium positum non est. Nam quemadmodum a cursu cursores, a palaestra palaestrici, a pugillatoria pugiles, distinctis qualitatum vocabulis, appellantur, non eodem modo est etiam in uniuscuiusque rei potentia naturali, cursus enim potentia naturalis secundum quam cursores vocamus, et rursus potentia pugillandi, vel potentia palaestrizandi, suo nomine distincta non est. Cur enim dicitur cursor, si interrogemur de eo qui nondum est cursor? Dicimus secundum potentiam naturalem. Cur palaestricus? Eodem quoque modo naturalem potentiam respondemus. Quare pugillator qui nondum est pugillis, ab eadem quoque potentia naturali nominatur. Si igitur haberet haec naturalis potentia proprium nomen, ita, distinctis vocabulis, appellaretur, ut in his qualitatibus in quibus proprienomen est positum, ut in cursu, palaestra et arte pugillatoria, et hoc est quod ait. In aliquibus vero propterea quod qualitatibus nomina non sunt posita, impossibile est ab his aliquid denominative dici. Ut hoc scilicet demonstraret cursorem quidem qui iam curreret a cursu esse dictum, cursorem vero qui secundum potentiam currendi diceretur non vocari a cursu sed tantum a potentia, cuius potentiae nomen proprium non esset positum. Quare haec omnia quae secundum potentiam naturalem dicuntur, a nulla qualitate denominativa sunt. Idcirco quod hae qualitates a quibus denominari possunt, propriis nominibus carent, quae vero ita sint, ut non ex potentia sed ex affectione dicantur, ab his qualitatibus ad quas sese aliquo modo habent, denominative dicuntur, quod Aristoteles hoc protulit modo dicens: Non ita esse secundum potentiam naturalem, quemadmodum et iam in disciplinis secundum quas, vel pugillatores, vel palaestrici secundum affectionem dicuntur. Pugillatoria enim disciplina dicitur et palaestrica, quales vero ab his denominative, qui ad eas sunt continentes, dicuntur. Docuit igitur omniaquae a quibusdam qualitatibus dici putarentur, vero quoque a qualitatibus non praedicari, ut in his qualitatibus quibus nomen proprium non est. Illud quoque monstravit hoc in pluribus evenire, ut de propositis qualitatibus qualia denominative dicerentur. Restat ergo quod reliquum est, ut dicat esse quasdam qualitates, quarum cum nomen sit positum, ab his ipsis tamen quae illarun rerum participant denominative non dici, ut virtus; nam cum virtus qualitas sit (est enim habitus quidam, omnis vero habitus qualitas), ergo quicumque virtute participat, non secundum eam denominative dicitur. In denominatione enim quaerendum est ut semper idem permaneat nomen. In eo autem qui virtute participat, nulla virtutis denominatio est, ut qui bonitate participat bonus dicitur, qui iustitia, iustus, et alia huiusmodi. Qui vero virtute participat, aut probus nominatur, aut sapiens; sed neque probus, neque sapiens a virtute denominativa sunt, idcirco quod utrumque nomen a virtute longe dissimile est, quod ipse sic ait: Aliquando autem posito nomine denominative non dicitur id quod secundum ipsum quale dicitur. Et eius rei proponere non omisit exemplum sed hoc in multis non potest inveniri, pauca enim sunt (ut ipse ait) in quibus posito qualitatis nomine quae his participant, a superiori qualitate qualia non dicantur. Dat autem his qualitatibus pluralitatis calculum, ex quibus qualia nominantur ea quae his participant. Nam (ut ipse ait superius) in pluribus et pene in omnibus denominative dicuntur. Quocirca recta definitio est et proprio ordine constituta. Namque in principio hoc solum dictum est, esse qualitatem secundum quam qualia dicerentur. Sed quoniam sunt quaedam quorum qualitates ipsae propriis nominibus carent, quae vero his participant suis vocabulis appellantur, ut in naturali potentia. Et rursus sunt quaedam quae in qualitatibus quidem habeant propria nomina, in his vero quae ad eas ipsas qualitates essent affecta, nulla ex propositis qualitatibus denominatio fieret, hoc addidit, ab omnibus qualitatibus aut denominative dici qualia, quae illis qualitatibus participaret, aut quomodolibet, aliter, id est sive posito nomine qualitatis de eo non dicerentur, quae illa partieiparent, ut in eo quod est virtus, sive ipsi qualitati positum nomen non esset, ut in eo quod est potentia naturalis. Quare quoniam in his duabus qualitatis, in quibus vel posito nomine non secundum nomen quae sunt, qualia denominative dicuntur, vel eum ipsis qualitatibus nomen positum non sit, neutra ipsorum praedicatio denominative fit. Ad concludendum omnem terminum qualitatis ait, aut denominative qualia a qualitatibus appellari, aut quomodolibetaliter ab ipsis, ut non denominative sed aliquoties quidem secundum potentiam, aliquoties vero secundum eamdem qualitatem virtutis; eamdem enim qualitas est virtutis et sapientiae. Quocirca concludit, ita qualia dici quaerumque ex his qualitatibus denominative dicerentur, vel quomodolibet alio ab ipsis modo. Digestis in ordine prius omnibus qualitatibus et eorum conclusione reperta, consueto ordine unaquaeque proprietas uestigatur. INEST AUTEM ET CONTRARIETAS SECUNDUM QUALITATEM, UT IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM EST ET ALBEDO NIGREDINI ET ALIA SIMILITER; ET SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR, UT IUSTUM INIUSTO ET ALBUM NIGRO. NON AUTEM HOC IN OMNIBUS EST; RUBEO ENIM ET PALLIDO ET HUIUSMODI COLORIBUS NIHIL EST CONTRARIUM CUM QUALITATES SINT. Dicit in qualitatibus quaedam esse contraria, atque hoc probat exemplis, albedo namque et nigredo contraria sunt, et quaecumque albedine nigredineque participant; hoc est enim quod ait, et secundum eas qualia quae dicuntur; nam sicut albedo nigredini contraria est, ita quoque albus nigro; sed hoc qualitatis proprium non est, nam cum rubrum et pallidum qualitates sint, aliique etiam colores huiusmodi, in his contrarium non est; nullus enim dicit aliquid rubro vel pallido esse contrarium: nam quoniam album et nigrum extremitates quaedam colorum sunt, et longissime a se distant, contraria sunt, medietates vero contraria non habent: Namsi quis ponat rubrum nigro esse contrarium, longissimeque distant quae sunt contraria, longissime igitur nigredo a rubore distabit, et rursus albedo a nigredine plurimum distat; igitur nigredini rubor est atque albedo contraria, uniusque rei duo contraria inveniuntur, quod fieri non potest. Non est igitur nigredi contrarius rubor. Similiter autem monstrabimus et in aliis mediis coloribus contrarium non esse. Quocirca si huiusmodi coloribus contrarium nihil est, non in omni qualitate contrarietas reperietur; quod si ita est, suscipere contraria qualitatis proprium non est. At vero nec in ipsis quoque formis quae manifeste qualitates sunt, contrarietas invenitur; nam neque ciroulus quadrato, neque quadratus triangulo, nec ulla figura ulli figurae potest esse contraria. Quocirca manifestum est, suscipere contrarium non esse proprium qualitatis. Sed quoniam sunt quaedam in qualitate quae sibimet videantur esse contraria, ut iustitia et iniustitia, hinc quaedam quaestio solet oriri. Dicunt enim quidam iustitiae iniustitiam non esse contrariam, putant enim quod dicitur iniustitia privationem esse iustitiae, non tamen contrarietatem. Contraria enim propriis nominibus, non contrarii privatione nominari, ut album nigro, habere tamen iustitiam aliquam contrarietatem, cuius adhuc proprium nomen non sit inventum, quod omnino falsum est. Multae enim habitudines privationis vocabulo proferuntur, ut illiberalitas et imprudentia, quae nunquam virtutibus opponerentur, quae sunt habitus, nisi ipsae quoque habitus essent, et in animis habentium immutabiliter permanerent. At vero neque illud verum est, omnes privationes negatione proferri. Surditas enim, cum sit auditus privatio, sine negatione profertur; eodem quoquemodo caecitas. Nullus enim dicit inauditio, neque inuisio, nec aliquid huiusmodi sed tantum surditas caecitasque nominantur propriis nominibus, cum sint illa in habitu, visus, auditus, illa in privatione ponenda. Igitur iustitia iniustitiae contraria est. Tradit ergo regulam, ea quae contraria sunt, sub quo genere convenienter aptentur, quam regulam his verbis ipse praescribit: AMPLIUS: SI EX CONTRARIIS UNUM FVERIT QUALE, ET RELIQUUM ERIT QUALE. HOC AUTEM MANIFESTUM EST OMNIA ALIA PRAEDICAMENTA PROFERENTI, UT SI EST IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM, QUALITAS EST AUTEM IUSTITIA, NIHILOMINUS QUALITAS ERIT INIUSTITIA; NULLUM ENIM ALIUD PRAEDICAMENTUM CONVENIT INIUSTITIAE, NEC QUANTITAS NEC RELATIO NEC UBI NEC OMNINO ALIQUID HUIUSMODI, NISI SOLA QUALITAS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SECUNDUM QUALITATEM CONTRARIIS. Si ex duobus, inquit, contrariis manifestum fuerit unum eorum contrariorum sub qualitate poni, simul manifestum erit quod etiam eius contrarium convenienter qualitati supponatur, simulque demonstrat iniustitiam esse qualitatem. Nam si iustitia apertissime qualitas est idcirco quod neque qualitas, neque ad aliquid, neque ubi, nec quando, nec aliud ullum praedicamentum est, nec sub ullo alio genere poni potest, nisi sub sola qualitate, cum ei contraria sit inustitia, non est dubium iniustitiam quoque qualitati subnecti, quod ipse quoniam 256C planius dixit, ut ipsa exemplorum luce uulgavit, ad aliud nobis est transeundum. SUSCIPIT AUTEM QUALITAS MAGIS ET MINUS; ALBUM ET ENIM MAGIS ET MINUS ALTERUM ALTERO DICITUR, ET IUSTUM ALTERUM ALTERO MAGIS. ET IDEM IPSUM SUMIT INTENTIONEM (ALBUM ENIM CUM SIT, CONTINGIT ILLUD FIERI ALBIUS); HOC AUTEM IN OMNIBUS NON EST SED IN PLURIBUS; DUBITABIT ENIM QUIS AN IUSTITIA MAGIS ESSE IUSTITIA DICATUR; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS AFFECTIONIBUS. QUIDAM VERO IN HOC DUBITANT; DICUNT ENIM IUSTITIAM IUSTITIA NON NIMIS MAGIS VEL MINUS DICI, NEC SANITATEM SANITATE; MINUS AUTEM HABERE ALTERUM ALTERO SANITATEM DICUNT, ET IUSTITIAM MINUS ALTERUM ALTERO HABERE, SIMILITER ET GRAMMATICAM ET ALIAS DISCIPLINAS. SED SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR INDUBITATE SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; MAGIS ENIM GRAMMATICUS ALTER ALTERO DICITUR ET IUSTIOR ET SANIOR, ET IN ALIIS SIMILITER. Aliud quoque proprium protulit, quod tractata ratione ab integra proprietate qualitatis exclusit. Ait enim qualitates posse vel intendi vel minui. Posse enim dicit alterum altero plus album appellari, ut nix argento, et quae candidiora sunt marmora, et iustum alterum altero magis et minus dicimus. Namque iustius aliquid factum, necnon etiam iustissimum est. In quibus autem comparationes sunt, in his magis minusque dici manifestum est; hoc quoque modo ipsum album, vel alia qualitas non solum contra alterum eiusdem speciei comparata intentione crescit, et relaxatione minuitur sed etiam a seipsa recipit comparationem: Dicitur enim nunc quidem argentum candidius esse quam antea, cum fuerit detersum. Sed cum haec ita sint, non est magis minusque suscipere proprium qualitatis; neque enim sola qualitas magis minusque suscipit, haec enim intentio et relaxatio in his quoque quae sunt ad aliquid invenitur, ut in eo quod est aequale et inaequale possumus dicere plus aequale vel minus, et in caeteris huiusmodi; nec vero omnes qualitates suscipiunt magis et minus, quod ipse sic ponit: Non autem in omnibus hoc est sed in pluribus. Dubitabit enim quis an iustitia magis esse iustitia dicatur, similiter autem et in aliis affectionibus. Quidam vero in hoc dubitant: dicunt enim iustitiam iustitia non magis vel minus dici, nec sanitatem sanitate; minus autem habere alterum altero sanitatem dicunt, et iustitiam minus alterum altero habere. In hoc tres fuere sententiae. Quidam namque dicebant, in omnibus secundum materiae habitudinem reperiri posse magis et minus. Proprium namque esse materiae corporumque intentione crescere et minui relaxatione, quae quorumdam Platonicorum sententia fuit. Alia vero quae secundum certissimas verissimasque artes atque virtutes non diceret esse magis et minus, secundum autem medias dici posse, ut haec ipsa grammatica atque iustitia non dicitur magis grammatica neque magis iustitia. Esse autem quasdam alias mediocres artes, in quibusidipsum posset evenire. Tertia est de qua Aristoteles loquitur, quod ipsas quidem habitudines nulla intentione crescere, nec diminutione decrescere putat sed eorum participantes posse sub examine compositionis venire, ut de his magis minusue dicatur. Sanitatem namque ipsam et iustitiam, alteram altera magis minusue non esse. Neque enim quispiam dicit magis esse sanitatem alia sanitate. Sed hoc solum dicere possumus magis habere sanitatem aliquem, id est esse saniorem, et magis sanum, et minus sanum. Dicimus ergo quod ipsae quidem qualitates non suscipiunt magis et minus. Qui vero secundum eas quales dicuntur, ipsi sub comparatione cadunt, ut iustior, et sanior, et grammat. cior. Namque ipsa grammatica, id est litteratura, non suscipit magis et minus, nullus enim dicit alteram altera magis esse grammaticam sed eum qui grammatica ipsa participat. Dicimus litteratum, quem a litteratura scilicet denominamus, litteratus autem suscipit magis et minus, ut Donatus grammaticus plus erat aetate iam provecta grammaticus, id est litteratus, quam cum primum ad huiusmodi studia devenisset. Sed quamquam se haec ita habeant, tamen invenimus aliquas qualitates quibus indubitate comparatio inveniri non possit, ut sunt quas ipse supposuit. TRIANGULUM VERO ET QUADRATUM NON VIDETUR MAGIS SUSCIPERE, NEC ALIQUID ALIARUM FORMARUM. Haec enim quae ex quarta specie qualitatis dicta sunt, magis minusue nullaratione suscipiunt, nullus enim dicit plus esse alium circulum quam alium, nec magis esse illud triangulum quam illud, dicitque fortasse  maiorem, magis autem non dicit. Huius autem rei haec ratio est, ut cum sit trianguli definitio, figura quae sub tribus rectis lineis continetur, si qua sunt quae hanc definitionem in se suscipiant, ut et ipsa tribus rectis lineis contineantur, proprie triangulae formae sunt, eodem quoque modo et circulus ita definitur: Circulus est figura plana, quae sub una linea continetur, ad quam ex uno puncto qui intra ipsam est, omnes quae excunt lineae aequae sibi sunt. Rursus quadrati defnitio talis est: Quadratum est quod quattuor aequalibus lineis et quattuor rectis angulis continetur. Quaecumque igitur vel circuli definitionem suscipiunt, vel quadrati, aequaliter vel circuli vel quadratae formae sunt; si qua vero non suscipiunt, nullo modo sunt. Si qua vero sunt quae neque quadrati suscipiunt definitionem, neque circuli, neque quadrati sunt, neque circuli ut est figura quae parte altera longior dicitur. Illa enim ita definitur, parte altera longior figura est quae sub quattuor lineis continetur, rectisque angulis, quam quattuor lineae aequae sibi quidem non sunt, contra se vero positae binae sibi aequae sunt. Ergo quia huiusmodi figura neque circuli definitionem capit, neque quadrati aequaliter, neque circulus, neque quadratus est. Si qua enim cuiuslibet forma definitionem suscipiunt, omnino eadem sunt. Ut qui circuli circulus, qui quadrati quadratus, qui trianguli triangulus, qui parte altera longioris, parte altera longior, et in caeteris eodem modo. Si qua vero non suscipiunt, ut triangulum, circuli definitionem non capit neque omnino circulus est, nec potest dici inter quadratum et triangulum, 258C quoniam utraque circuli definitionem non capiunt, quadratum quidem plus esse circulum, triangulum vero minus, omnino enim utraque a circuli ratione disiuncta sunt, quod his verbis ab Aristotele tractatur: QUAECUMQUE ENIM DEFINITIONEM TRIANGULI SUSCIPIUNT ET CIRCULI, OMNIA SIMILITER TRIANGULA VEL CIRCULI SUNT, DE HIS AUTEM QUAE NON SUSCIPIUNT NIHIL MAGIS ALTERUM ALTERO DICITUR; NIHIL ENIM QUADRATUM MAGIS QUAM PARTE ALTERA LONGIOR FORMA CIRCULUS EST; NULLUM ENIM IPSORUM SUSCIPIT CIRCULI RATIONEM. SIMPLICITER AUTEM, SI UTRAQUE NON SUSCIPIUNT PROPOSITI RATIONEM, NON DICITUR ALTERUM ALTERO MAGIS. NON IGITUR OMNIA QUALIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS. EX HIS ERGO QUAE DICTA SUNT NIHIL EST PROPRIUM QUALITATIS. Nam si hoc definitio facit, ut demonstret rationem cuiusque substantiae, quaecumque definitione discrepant, illa etiam ipsa natura substantiae discrepabunt. Recte igitur si quae cuiuslibet rei propositae sive trianguli, sive quadrati definitionem non capiunt, ab eiusdem natura disiuncta sunt. Quocirca neque triangulum, neque quadratum, neque circulus, neque quidquid horum est, suscipiant magis et minus. Sed cum haec qualitates sint, non omnes qualitates aeque magis minusue suscipiunt. Quod si neque in omni qualitate intentio diminutioque provenit, neque in sola, quod haec eadem in relatione reperias, non est magis minusue suscipere proprium qualitatis. Quodnam igitur qualitatis proprium esse dicendum est, id ipse planissime subterposuit. SIMILE AUTEM ET DISSIMILE SECUNDUM SOLAS DICUNTUR QUALITATES; SIMILE ENIM ALTERUM ALTERI NON EST SECUNDUM ALIUD NISI SECUNDUM HOC QUOD QUALE EST. QUARE PROPRIUM ERIT QUALITATIS SECUNDUM EAM SIMILE ET DISSIMILE DICI. Simile inquit et dissimile solae retinent qualitates. Nam quamvis simile ad aliquid sit, tamen hoc ipsum quod dicimus, simile non dicimus, nisi quod quale est. Nam si eadem qualitas sit in duobus, illa in quibus est similia sunt, nec est aliud praedicamentum quod secundum simile et dissimile dici possit, et de aiiis quidem omnibus notum est, quoniam de nullo dicitur. Quod si quis de quautitate affirmet, dici posse secundum eam simile atque dissimile, monstratum est secundum quantitatem non simile et dissimile sed aequale et inaequale praedicari. Quocirca quoniam per singula quaeque pergentibus, et in omnibus idem qualitatibus invenitur, et in nullo alio predicamento esse perspicitur, recte hoc proprium qualitatis esse firmavit. Sed quoniam cum de his quae referuntur ad aliquid tractaretur, affectus atque habitus in his quae sunt ad aliquid numeravit, nunc vero eosdem quoque qualitati supposuit, ipse sibi quamdam obiecit quaestionem, cur si prius sub iis quae ad aliquid referuntur, ista subiecerit, nunc sub qualitatibus ea ipsa posuerit. Superius namque monstravit ea quae essent a se diversa, easdem species habere non posse, cum dicit diversorum generum et non subalternatim positorum diversae species et differentiae sunt. Quocirca cum relatio atque qualitas diversa sint genera, easdem utrique supponi species non oportet, hoc est enim quod dicit: AT VERO NON DECET CONTURBARI NE QUIS NOS DICAT DE QUALITATE PROPOSITIONEM FACIENTES MULTA DE RELATIVIS INTERPOSUISSE; HABITUDINES ENIM ET AFFECTIONES EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID ESSE DIXIMUS. PAENE ENIM EA QUAE SUNT IN OMNIBUS HIS GENERIBUS AD ALIQUID DICUNTUR, EORUM VERO QUAE SUNT SINGULATIM NIHIL; SCIENTIA ENIM, QUAE GENUS EST, HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR (ALICUIUS ENIM SCIENTIA DICITUR), SINGULORUM VERO NIHIL HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR, UT GRAMMATICA NON DICITUR ALICUIUS GRAMMATICA NEC MUSICA ALICUIUS MUSICA SED SI FORTE SECUNDUM GENUS PROPRIUM ET ISTAE DICUNTUR ALICUIUS; UT GRAMMATICA ALICUIUS DICITUR SCIENTIA, NON 259D ALICUIUS GRAMMATICA, ET MUSICA ALICUIUS SCIENTIA, NON ALICUIUS MUSICA; QUARE SINGULA NON SUNT RELATIVA. Quam quaestionem validissima argumentatione dissolvit, his scilicet verbis: Pene enim ea quae sunt in omnibus his generibus ad aliquid dicuntur. Eorum vero quae sunt singulatim, id est epecies, nihil huiusmodi sunt. Haec enim est argumentatio quam Graeci *epikeirema* vocant. In huiusmodi affectionibus atque habitudinibus, quae inter ea sunt genera, eas solas ad aliquid posse reduci, quae vero species essent illorum generum posse in relativis sed in qualitatibus numerari, ut scientia cum sit habitudo 260A habet sub se alias habitudines, grammaticam et geometriam. In hoc igitur scientia ipsa quod genus est, ad aliquid semper refertur, dicimus enim scientiam alicuius scientiam. Grammaticam vero quae eius species est, nullus dicit alicuius esse grammaticam; dicatur enim si fieri potest grammaticam, Aristarchi esse grammaticam. Sed omnia quaecumque dicuntur ad aliquid, convertuntur. Dicitur ergo et Aristarchus, grammaticae Aristarchus, quod fieri non potest. Non igitur grammatica Aristarchi, ut ad aliquid dicitur. Est etiam argumentum, non species sed huiusmodi genera, ad aliquid appellari, ut cum ipsae quidem species ad aliquid non dicantur, ut grammatica non dicitur alicuius grammatica, si quando tamen est ut species ad aliquid referatur, id non secundum se sed 260B secundum genus, ut grammaticae quoniam genus est scientiae quae relativa est, si quis grammaticam ad aliquid referre contendat, non potest secundum ipsam grammaticam, eam ad aliquid praedicare sed secundum scientiam, id est secundum genus suum. Non enim dicitur grammatica alicuius grammatica sed fortasse grammatica alicuius scientia. Non ergo grammatica secundum grammaticam ad aliquid dicitur sed secundum scientiam. Et hoc est quod ait, ut grammatica non dicitur aliovius grammatica, nec musica sed fortasse secundum genus proprium istae dicuntur alicuius, ut grammatica alicuius dicitur scientia, non alicuius grammatica. Ergo singularum specierum nihil est quod aliqua relatione praedicetur. Genera vero harum specierum relativa sunt, quae paulo superius dixi; quod enim ait: Pene enim in 260C omnibus qualitatibus genera ad aliquid dicuntur, non autem aliquid eorum quae sunt singula, hoc demonstrare voluit, genera ipsa habitudinem dispositionumque esse relativa, species vero generum quas singulatim esse dixit, ad aliquid nullo modo praedicari. Quas idcirco esse singulatim vocavit, quia grammatica una est, et rursus musica una; scientia vero non una. Recte igitur species scientiae singulatim esse nominavit. Constat igitur quod genera huiusmodi habitudinem dicantur ad aliquid, species vero ad nihil aliud propria praedicatione referanlur. Quocirca quoniam huiusmodi species relativas non esse demonstravit, nunc quod reliquum est qualitates esse confirmat. DICIMUR AUTEM QUALES SECUNDUM SINGULA; HAEC ENIM ET HABEMUS (SCIENTES ENIM DICIMUR QUOD HABEMUS SINGULAS SCIENTIAS); QUARE HAEC ERUNT ETIAM QUALITATES, QUAE SINGULATIM SUNT, SECUNDUM QUAS ET QUALES DICIMUR; HAEC AUTEM NON SUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID. Illas esse qualilates superius confirmatum est ex quibus aliqui quales vocarentur, nos autem idcirco grammatici dicimur, non quod universalem scientiam sed quod ipsam grammaticam habeamus, et hoc vere dicitur, idcirco nos dici scientes, quia grammatici sumus, potius quam idcirco grammaticos quod aliquam scientiam retinemus. Nullus enim a generali scientia grammaticus, aut sciens, nisi a singulatim scientia sciens, grammaticusque perhibetur. Igitur quoniam ex his habitudinem speciebus quales vocamur, ipsae species in qualitate numerandae sunt. Sed cum quis grammatica participat, de ea etiam genus dicitur, et secundum eam non solum ad grammaticam sed ad scientiam quoque coniungitur. Dicitur enim idcirco sciens. Ergo quoniam habens grammaticam, et sciens, et grammaticus dicitur, non potest ulla scientia participare, qui singulas non habuerit. Qui enim cunctis speciebus caret, illi quoque genere ipso carendum est. Quare quoniam has species hahemus et secundum eas quales dicimur, a grammatica scientes et grammatici nuncupamur, has autem ipsas species monstratum est ad aliquid non referri. Recte igitur huiusmodi habitudines quae in alterius relativis species sunt, in qualitate numeratae sunt. Quod si quis hoc quoque inuitus accipiat, aliud addit quo totum quaestionis vinculum soluetur; ait enim: AMPLIUS SI CONTINGAT IDEM ET QUALE ESSE ET RELATIVUM, NIHIL EST INCONVENIENS IN UTRISQUE HOC GENERIBUS ANNUMERARE. Nam cum sit verum unam eademque rem duobus diversis generibus suppositam esse non posse, illud tamen convenit secundum aliud atque aliod unam eamdemque speciem duobus generibus posse subnecti, ut in eo quod supra iam dictum est, cum Socrates substantia sit, pater vero ad aliquid, cumque substantia discrepet atque relatio, nihil tamen est inconveniens eumdem ipsum Socratem in eo quod homo est, substantiae supponi, in eo quod habet filium, relationi. Quocirca si secundum aliam atque aliam rem duobus generibus eadem res quaelibet diversissimis supponatur, nihil inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines in eo quod alicuius rei habitudines sunt, in relatione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliquid dicuntur, in qualitate numerantur. Quare nihil est inconveniens unam atque eamdem rem, secundum diversas natura, suae potentias, geminis et si contingat pluribus, annumerare generibus Qnocirca quoniam de qualitate tractatum est, nos quoque orationis cursum ad reliqua praedicamenta vertamus. DE FACERE ET PATI SUSCIPIT AUTEM ET FACERE ET PATI CONTRARIETATEM ET MAGIS 261D ET MINUS; CALEFACERE ENIM ET FRIGIDUM FACERE CONTRARIA SUNT, ET CALEFIERI ET FRIGIDUM FIERI, ET DELECTARI ET CONTRISTARI; QUARE SUSCIPIT CONTRARIETATEM FACERE ET PATI. ET MAGIS AUTEM ET MINUS; EST ENIM CALEFACERE ET MAGIS ET MINUS, ET CALEFIERI MAGIS ET MINUS, ET CONTRISTARI. SUSCIPIUNT ERGO ET MAGIS ET MINUS FACERE ET PATI. AC DE HIS QUIDEM HAEC DICTA SUNT. Decursis quattuor praedicamentis quae aliqua quaestione et consideratione ergo videbantur, tenuiter caetera breviterque perstringit. Et de facere quidem et pati nihil in hoc libro, nisi quod contraria suscipiant, et intentionem imminutionemque ab Aristotele est disputatum, in aliis vero eius operibus plene ab eo perfecteque tractata sunt, ut hoc ipsum de facere et pati in his libris quos *Peri geneseos kai phthopas* inscripsit, de aliis quoque praedicamentis non illi minor in aliis operibus disputatio fuit, ut de eo quod est ubi et quando in physicis, et de omnibus quidem altius subtiliusque in libris quos *Meta ta physika* vocavit, exquiritur. Ac de fecere quidem et pati ipse planissime posuit posse ea suscipere contrarietates. Dicimus enim ignem calefacere et frigefacere, quod scilicet ad faciendum refertur. Dicimus aquam calefieri et frigefieri, quod nihilominus ad patiendi ducitur praedicamentum. Magis quoque et minus suscipere, apertissimis demonstrat exemplis. Sic enim magis calefacere et minus, et magis calefieri et minus dicitur. Atque haec hactenus, ipse enim haec apertissime posuit. Est autem horum descriptio talis, quod in faciendo quidem, actus quidam a quolibet in aliam rem veniens, consideratur a quo veniat. In patiendo autem in eo ille actus consideratur, in quem venit. Actus enim et passio simul in physicis esse monstrata sunt. Ac de facere quidem ac pati, ad praesens tempus haec dicta sufficiant. DICTUM EST AUTEM ET DE SITU IN RELATIVIS, QUONIAM DENOMINATIVE A POSITIONIBUS DICITUR. DE RELIQUIS VERO, ID EST QUANDO ET UBI ET HABERE, PROPTEREA QUOD MANIFESTA SUNT, NIHIL DE HIS ULTRA DICITUR QUAM QUOD IN PRINCIPIO DICTUM EST, QUOD HABERE SIGNIFICAT CALCIATUM ESSE VEL ARMATUM, UBI VERO IN LYCIO, VEL ALIA QUAECUMQUE DE HIS DICTA SUNT. IGITUR DE HIS GENERIBUS QUAE PROPOSUIMUS SUFFICIENTER DICTUM EST. Positio quidem quoniam ipsa est alicuius, in iis quae sunt ad aliquid, numerata est sed quoniam omnis res quae ab alio denominatur, aliud est quam id ipsum a quo denominata est, ut aliud est, qui est grammaticus, atque grammatica, quamvis grammaticus a grammatica denominelur. Ita cum sit positio relativa, quidquid denominative a positionibus dicitur, hoc relativorum genere non tenetur. Positio autem ipsa relativa est, positum vero est a positione denmninatum. Statio enim cuiusdam statio est. Stare vero quoniam a statione denominatum est, non ponitur in eo genere in quo statio fuit. Quare sub relatione hoc praedica nentum non invenitur. Sed quoniam nihil est ad quod hoc reducere genus atque aptare possimus, dicendum est suum esse genus. Ut accumbere ab accubitu, stare a statione, et caetera quidem quae idcirco se Aristoteles exsequi denegat, quoniam planissima sunt; ait enim: De reliquis vero id est, quando, et ubi, et habere; propterea quia manifesta sunt, nihil de his ultra dicitur, quam quod in principio dictum est, et eorum praedicta ponit exempla. Dicendum autem est breviter de praedicatione quae est ubi et quando. Sicut ipsum ad aliquid per se esse non potest nisi ex alio aliquo naturam trahat, ita et quando et ubi, esse non potest, nisi locus ac lempus fuerit. Locum enim ubi, tempus vero quando, comitatur. Non est autem idem tempus, et quando, nec ubi et locus sed proposito prius loco si qua res in eo sit posita, ubi esse dicitur. Rursus si certa res in tempore est, quando esse perhibetur, ut Apollinares ludi, oum sint in tempore, quando eos esse dioimus. Habent autem haec quoque proprias diversitates, ubi quidem, quod aliquoties infinite dicitur. Alicubi enim esse dicimus aliquem, ut Socratem, aliquoties autem definite, ut in Lyceo vel in Academia. Habet quoque ubi, secundum ipsum locum in quo est, aliquas contrarietates. Sursum enim esse, et deorsum ubi esse dicitur. Temporum quoque varietates in eo praedicamento, quod est quando, esse manifestum est. Futura enim et praesentia praeteritaque in quando praedicamento veniunt. Dicimus enim fuisse aliquando Scipionem consulem Romanum, nunc esse Orientis imperatorem, qui nunc Anastasius appellatur. Futurum autem esse aliquem, quae scilicet secundum quando praedicamentum dicuntur. Habere autem est quoddam extrinsecus veniens, neque innatum ei a quo habetur, aliudque quam est illud ipsum a quo habetur, in se retinere, ut armatum esse vel uestitum esse. Habere enim est uestes atque arma tenere, quae cum eo nata non sunt, neque aliqua cum eo qui habet, communi natura proprietateque iunguntur; sed quoniam de his Aristoteles tacuit, nobis quoque nunc eorum longior tractatus omittendus est. Expeditis omnibus praedicamentis, cur praeter propositum operis in hanc oppositorum disputationem sit ingressus, a multis ante quaesitum est sed Andronicus hanc esse adiectionem Aristotelis non putat, simulque illud arbitratur, idcirco ab eo fortasse hanc adiectionem de oppositis, et de his quae simul sunt, et de priore, et de motu et de aequivocatione, habendi non esse factam, quod hunc libellum ante Topica scripserit, quodque haec ad illud opus non necessaria esse putaverit, sicut ipse Categoria possunt ad sensum Topicorum, non ignorans scilicet quod sufficienter in Topicis, quantum ad argumenta pertinebat, et de his omnibus quae adiecta eunt, et de praedicamentis fuisse propositum. Sed haec Andronicus. Porphyrius vero hanc adiectionem uacare et carere ratione non putat. Cuius hanc prodidit causam. Ut enim multa sunt quae quod communibus animi conceptionibus esse suggererent, in huius libri principiis ab Aristotele praedicta sunt, ut de aequivocis, et univocis, et denominativis, et de his omnibus, quaecumque usque ad substantiae disputationem ad ipsorum praedicamentorum utilitatem cognitionemque praedicta sunt, ita quaedam fuisse quae essent quidem in communibus sensibus, egerent tamen subtilioris divisionis modo, haec diligenter supposita sunt, ut quid essent proprie teneretur, ne falsis opinionibus traductus non firmus animus luderetur. Docet autem hoc, inquit, etiam ipse ordo congruus rationique conveniens titulorum, hanc adiectionem fuisse perutilem atque necessariam. Prius enim de oppositis, post vero de his quae simul sunt, et de his quae posteriora sunt. Post autem de motu, ad postremum de habendi aequivocatione sermonem faciens, libri seriem terminavit. Idcirco quod in omnibus quidem praedicamentis ante quaesivit, utrum possint habere contraria. In his vero quae sunt ad aliquid, dixit magnum paruo non posse esse contrarium sed oppositum. Quid vero esse oppositum dicere praetermisit, ne ordo disputandi continuus rumperetur. Hic igitur recte quod illic praetermiserat, prius edocuit. In relativis quoque de his quae sunt prius, quaeque simul natura gignuntur, strictim tetigit, quod nunc diligenter explicat. Faciendi vero patiendique praedicamenta sunt, in quibus quidam quasi motus agitatioque consideratur; necesse igitur fuit motu dicere, qui naturam faciendi atque patiendi vellet ostendere. Quis autem dubitet cuiuslibet sermonis aequivocationem monstrare, esse perutile? Quare quoniam habere quoque praedicamentum est, non fuit inconveniens neque perfluum de habendi aequivocatione tractasse. DE OPPOSITIS QUOTIENS SOLENT OPPONI, DICENDUM EST. DICITUR AUTEM ALTERUM ALTERI OPPONI QUADRUPLICITER, AUT UT AD ALIQUID, AUT UT CONTRARIA, AUT UT HABITUS ET PRIVATIO, AUT UT AFFIRMATIO ET NEGATIO. OPPONITUR AUTEM UNUMQUODQUE ISTORUM, UT SIT FIGURATIM DICERE, UT RELATIVA UT DUPLUM MEDIO, UT CONTRARIA UT BONUM MALO, UT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM UT CAECITAS ET VISUS, UT AFFIRMATIO ET NEGATIO UT SEDET Ñ NON SEDET. Illud quoque quaeritur utrum oppositionis nomen aequivoce praedicetur. Dicimus enim quattuor modis opponi, aut ut contraria, aut ut aliquid, aut ut habitum et privationem, aut ut affirmationem et negationem. Hic ergo contenditur utrum aequivocatio quaedam circa has quattuor diversitates sit, an id ipsum quod dicimus oppositum generis vice praedicetur, ut sit univocum. Sed in hoc Stoicorum Peripateticorumque diversa sententia fuit, et ut ipsi inter se Peripatetici, diverse sectati sunt. Stoicorum quoniam longa sententia est, praetermittatur, aliis autem Peripateticis placet nomen hoc oppositi de subiectis aequivoce praedicari, ita affirmantibus, quoniam Aristoteles ita dixit: De oppositis quoties solent opponi dicendum est hoc, id est quoties ad multiplicitatem pertinet aequivocationis. Sed qui melius iudicavere, si oppositionis nomen generis loco dicunt debere praedicari, idcirco quod cum nomen opposilionis de subiectis quattuor oppositionibus praedicetur, ab his quoque definitio non oberret. Sunt enim opposita quae in eodem, secundum idem, in eodem tempore, circa unam eamdemque rem, simul esse non posunt, quod per singula quaeque pergentibus in singulis oppositis invenitur. Namque album et nigrum, quae sunt contraria, unu eodemque tempore circa unum idemque corpus partemque corporis simul esse non possunt, nec seruus atque dominus eiusdem, eodem tempore idem seruus idem dominus est, nec habitus et privatio; quis enim dicat in eodem oculo uno eodemque tempore et visum posse esse et caecitatem? Iam vero affirmatio et negatio quam repugnantes sint, quamque in eodem simul esse non possint, nulli dubium est. Quare si ea quae sub oppositione ponuntur oppositionis nomen definitionemque suscipiunt, quid est dubium oppositionem non aequivoce praedicari? His igitur positis, ad eorum distantias differentiasque veniamus. QUAECUMQUE IGITUR UT RELATIVA OPPONUNTUR, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM DICUNTUR, AUT QUOMODOLIBET ALITER AD EA; UT DUPLUM MEDII, HOC IPSUM QUOD EST, DICITUR DUPLUM; ET SCIENTIA SCIBILIS REI SCIENTIA UT AD ALIQUID OPPONITUR, ET DICITUR SCIENTIA, HOC IPSUM QUOD EST, SCIBILIS; ET SCIBILE, HOC IPSUM QUOD EST, AD OPPOSITUM DICITUR, SCILICET SCIENTIAM (SCIBILE ENIM ALIQUA SCIENTIA SCIBILE DICITUR). QUAECUMQUE ERGO OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM VEL ALIO QVOLIBET MODO AD SE INVICEM DICUNTUR. Ea quidem huius oppositionis quae secundum relationem dicuntur, et per seipsa plana atque uulgata sunt et superiori relationis disputatione iam cognita. Illa enim sunt ad aliquid quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet aliter ad ea, ut seruus domini seruus, et dominus serui dominus, et magnum ad paruum dicitur, et rursus paruum refertur ad magnum. Quod si hoc in relativis omnibus invenitur, nulla est dubitatio quin etiam in his hoc deprehendi possit, quae secundum ad aliquid opponuntur, ut ea ipsa id quod sunt oppositorum dicantur vel quomodolibet aliter ad opposita, ut si est seruus domino oppositus, dominus serui dicatur, id est oppositi sui, et rursus si dominus seruo oppositus est, domini seruus dicatur. Paruum vero ad magnum, et magnum ad paruum, id est ad oppositum sibi. Atque hoc quidem in omnibus secundum ad aliquid oppositionibus inveniri necesse est. Quocirca sit haec proprietas eorum quae secundum ad aliquid opponuntur, quod ea ipsa quae sunt ad opposita referuntur, et ipsorum esse dicuntur. His ergo ante constitutis docet differentiam qua inter se ea quae secundum contrarietatem dicuntur, vel ea quae secundum ad aliquid, discrepant atque dissentiunt; ait enim. ILLA VERO QUAE UT CONTRARIA, IPSA QUIDEM QUAE SUNT NULLO MODO AD INVICEM DICUNTUR, CONTRARIA VERO SIBI INVICEM DICUNTUR; NEQUE ENIM BONUM MALI DICITUR BONUM SED CONTRARIUM; NEC ALBUM NIGRI ALBUM SED CONTRARIUM. QUARE DIFFERUNT ISTAE OPPOSITIONES INVICEM. Dictum est in his quae secundum ad aliquid opponuntur, quod ea ipsa id quod sunt ad id quod sibi est oppositum dicerentur. Contraria vero et ipsa quidem opponuntur sibi sed id quod sunt ad opposita non dicuntur, contraria autem dicuntur. Hoc autem huiusmodi est. Bonum malo contrarium dicimus esse, et rursus malum bono. Nigrum quoque albo contrarium putamus, nihilominus quoque album nigro. Sed cum hoc arbitramur, non tamen dicimus ea id quod sunt esse oppositorum. Si enim diceremus ea id quod est bonum esse oppositi sui, non diceretur bonum malo esse contrarium sed bonum esse mali bonum. Nec ila praedicationem quis faceret nigrum albo esse contrarium sed nigrum albi esse nigrnm. Hoc est enim id quod est nigrum dici ad oppositum suum, si quis dicat nigrum albi esse nigrum; quod quoniam non dicitur, ea ipsa quae sunt non dicuntur oppositorum, ea scilicet quae sibi ut contraria videntur opponi. Sed quoniam dicimus bonum malo contrari uni, et nigrum albo contrarium, quamquam id quod sunt oppositorum non dicantur, tamen ad opposita ut contraria nominantur. Atque hoc est quod ait: Ipsa quidem quae sunt nullo modo ad seinvicem dicuntur. Contraria vero sibi invicem dicuntur. Non enim dicitur bonum mali bonum, hoc est enim id quod est opposili praedicare sed dicimus bonum malo cootrarium. Quocirca differunt ea quae similiter ad aliquid opponuntur his quae secundum contrarietatem sibi sunt opposita, quod ea quidem quae secundum relationem opposita sunt id quod sunt oppositorum dicuntur. Illa vero quae ut contraria, ipsa quidem quod sunt oppositorum nomine minime sed tantum contraria praedicantur, ut bonum contrarium esse dicatur oppositi sui non boni. Dicimus enim bonum malo contrarium, eum non dicamus bonum mali bonum. Sed quoniam differentiam secundum ad aliquid oppositionis contrariorumque monstravit, ipsorum inter se contrariorum differentiam discrepantiamque persequitur. QUAECUMQUE VERO CONTRARIORUM TALIA SUNT UT IN QUIBUS NATA SUNT FIERI ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR, NECESSARIUM SIT ALTERUM IPSORUM INESSE, NIHIL EORUM MEDIUM EST (QUORUM AUTEM NON EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM OMNIUM EST ALIQUID MEDIUM); UT AEGRITUDO ET SANITAS IN CORPORE ANIMALIS NATA EST FIERI, ET NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE ANIMALIS CORPORI, AUT AEGRITUDINEM AUT SANITATEM; ET PAR QUIDEM ET IMPAR DE NUMERO PRAEDICATUR, ET NECESSE EST HORUM ALTERUM NUMERO INESSE, VEL PAR VEL IMPAR; ET NON EST HORUM ALIQUID MEDIUM, NEQUE AEGRITUDINIS NEQUE SANITATIS, NEQUE IMPARIS NEQUE PARIS. QUORUM AUTEM NOR EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM EST ALIQUID MEDIUM; UT ALBUM ET NIGRUM IN CORPORE NATUM EST FIERI, ET NON EST NECESSE ALTERUM EORUM INESSE CORPORI (NON ENIM OMNE CORPUS VEL ALBUM VEL NIGRUM EST); ET PROBUM ET IMPROBUM DICITUR QUIDEM DE HOMINE ET DE ALIIS PLURIBUS, NON EST AUTEM NECESSE ALTERUM INESSE HIS DE QUIBUS PRAEDICATUR; NON ENIM OMNIA AUT PROBA SUNT AUT IMPROBA. ET EST ALIQUID HORUM MEDIUM, UT ALBI ET NIGRI venETUM VEL PALLIDUM VEL QUICUMQUE ALII COLORES SUNT, FOEDI VERO ET PULCHRI QUOD NEQUE PULCHRUM EST NEQUE FOEDUM. IN ALIQUIBUS QUIDEM MEDIETATIBUS POSITA SUNT NOMINA, UT ALBI ET NIGRI venETUM ET PALLIDUM; IN ALIQUIBUS VERO NON EST NOMINE ASSIGNARE MEDIETATEM, UTRIUSQUE VERO NEGATIONE DEFINITUR, UT NEC BONUM NEC MALUM, NEC IUSTUM NEC INIUSTUM. Brevis contrariorum partitio hoc modo facienda est. Contrariorum alia sunt habentia medietatem, alia vero non habentia, et eorum quorum est aliquid medium, in aliis plures medietates, in aliis vero una tantum medietas invenitur. Atque horum aliquae medietates propriis nominibus appellantur in aliquibus 267B vero ipsae quidem medietates propriis appellationibus carent, contrariorum vero negatione signantur. Sed haec quae dicta sunt a primordio repetentes propriis probemus exemplis. Illa vero contraria quae medio carent talia sunt, ut necesse sit alterum eorum proprio inesse subiecto, ut est aegritudo et sanitas. Omne enim corpus in quo aegritudo sanitasque versatur, aut aegrum aut sanum est. Atque ideo quoniam aegritudo et sanitas medietate carent, alterutrum eorum inerit ei subiecto, in quo utraque nata sunt fieri, et de quo praedicantur. Nam quoniam in corpore animalis sanitas et aegritudo fieri nata est, id est ita fieri solet, et ita omne natum est aninial, ut aut sanum esse possit aut aegrum. Et quoniam de animalis corpore aut sanum, aut aegrum praedicatur, necesse est quoniam haec medio carent in omni corpore animalis aut aegritudinem, aut sanitatem esse. Quocirca eorum quae medio carent, necesse alterum interesse subiecto, et quaecumque talia sunt, ut alterum ipsorum subiecto inesse necesse sit, nulla inter ea medietas clauditur. Illa vero contraria in quibus aliqua medietas est non sunt talia, ut eorum necesse sit alterum inesse subiecto. Nam in illis quae medio carent idcirco alterutrum subiecto inesse necesse est, quod eorum medietas nulla est quae possit interea subiectae inesse substantiae, ut in numero quoniam paritas et imparitas medium nihil habenti (omnis enim numerus aut par aut impar est nec est quod propterea numero inesse possit), ideo omnis numerus aut par aut impar est. In his vero quae inter se medietatem aliquam complectuntur, non est necesse semper alterum contrariorum inesse. Potest namque inesse medietas, ut in colore, quoniam album atque nigrum contrarietatis vice diversa sunt, habent autem medium quod est rubrum vel pallidum, idcirco non omne corpus vel album vel nigrum est, quoniam potest aliquando in subiectis corporibus albi atque nigri medietas inveniri. Videmus namque rubrum corpus, ut rosam multosque praeterea flores, quos verni temporis clementia parturit. Recte igitur dictum est, eorum quorum non sunt aliquae medietates, alterum semper inesse subiectis, et in quibus necesse est alterum inesse, fieri non posse quin illic medietas ulla sit. Eodem quoque modo et quae medietates habent, non necessario alterutra subiectis inesse, et quae non est necesse alterutra subiectis inesse, non est dubium quin illic quaedam possit esse medietas sed in aliquibus quidam plures, in aliquibus autem una est medietas, ut in colore inter album alque nigrum plures medietates sunt. Est enim (ut dictum est) rubrum, et quoque pallidum, eodem quoque modo venetum, et multa praeterea huiusmodi. In calido vero atque frigido una medietas est, quae dicitur tepor. Horum autem quibus una medietas est, in aliis nornen est positum, in aliis non. Et positum quidem nomen est, ut inter calidum frigidumque, hanc enim medietatem tepidum esse praedicamus. Non est vero positum in eo quod Aristoteles ipse sic dixit: Improbi vero et probi, quod neque probum est, neque improbum. Nam quoniam bonum atque in ulum sibi sunt contraria, non autem necesse est omne quod boni malive susceptibile est, vel bonum esse vel malum, idcirco dixit bonum malumque, cum sint contraria, habere quamdam medietatem, cui nomen positum quidem non sit sed nihilominus eam quis inter has contrariorum naturas inveniet. Nam quod dictum est a posterioribus inter bonum malam qua esse ea quae dicantur indifferentia, ut interest virtutem atque turpitudinem, quae utraque sibi sunt contraria, divitiae et pulchritudo, quae (ut Stoici putant) neque mala neque bona sunt, atque idcirco indifferentia nominavere sed hoc ipsum quod dicimus indifferens apud priores nomen non erat, et a posterioribus inventum est. Aristoteles autem qui hoc nomine usus nunquam est, ait probum atque improbum habere quidem aliquam medietatem, verumtamen eam nullo nomine nuncupari sed eam utriusque contrarii negotiatione definivit. Ait enim medietatem probi atque improbi esse, quod neque probum esset neque improbum, ut iusti atque iniusti medietas est, quod neque iustum, neque iviustum est. Sed ne videatur inconveniens aliquid negationibus definiri, ipse ait: In aliquibus vero non est nomine assignare medietatem, utriusque vero negatione definitur. Namque ubi est una medietas, si utraque contraria sint remota, sola tantum medietas permanebit, ut in eo quod est bonum et malum, quoniam his una medietas est, sublato bono atque malo, solum quod neque bonum, neque malum est relinquitur. Quocirca tota rursus divisio breviter assumenda est. Eorum quae sunt contraria quorum necesse est semper alterum inesse in his, in quibus ea secundum propriam naturam inesse contingunt, ea nullam inter se retinent medietatem, ut in corpore sanitas et aegritudo, in numero paritas atque im paritas. Quaecumque vero in his in quibus esse possunt, non ita sunt, ut eorum necesse si alterum inesse, haec aliquam inter se qualitatem medietatis amplectuntur, ut albedo atque nigredo, rubrum, frigidum atque calidum teporem. Horum autem alia sunt quae unam solam continent medietatem, alia vero quae multas, et multas, ut inter album atque nigrum, pallidum, venetum, quae medietates sunt. Inter calidum atque frigidum una sola est medietas, tepor. Horum autem quae unam retinent medietatem, in aliis nomina sunt posita, ut in eo ipso calore ac frigore. Est enim tepor medietas caloris atque frigoris. In aliquibus vero nomen positum non est, ut in eo quod est bonum atque malum, iustum atque in iustum. In his enim medietas nomen positum non habet sed utrorumque contrariorum negationibus definitur, ut dicamus eam esse boni atque mali medietatem, quod neque bonum est malum, eamque esse iusti et iniusti medietatem, quae utraque contrarietate summota, utrorumque negatione relinquitur, ut est neque iustum, neque iniustum. PRIVATIO VERO ET HABITUS DICUNTUR QUIDEM CIRCA IDEM ALIQUID, UT VISIO ET CAECITAS CIRCA OCULUM; UNIVERSALITER AUTEM DICERE EST IN QUO NASCITUR HABITUS FIERI, CIRCA HOC DICITUR UTRUMQUE EORUM. Ordine tertiam speciem propositae oppositionis exsequitur eam quae secundum habitum privationemque dicitur, atque in ea unam similitudinem posuit quae illi est cum contrarietate coniuncta. Nam sicut ea quae sunt contraria circa idem sunt, ut album, quoniam semper in corpore est, nigrum quoque semper est in corpore, et iustitia, quoniam semper animo inserta est, iniustitia quoque mentis est vitium, ita quoque ea quae secundum privationem habitumque dicuntur, circa idem semper necesse est inveniri, ut quoniam visus habitus est (habemus enim visum) et visus est in oculos circa oculum, caecitas quoque, quae privatio visus est, praeter oculum non est. Auditus etiam, qui habitus est, quoniam circa aures est, eius quoque privatio quae surditas dicitur, ab auribus non recedit; ita quoque et circa quod fuerit habitus, circa idem ipsum illius habitus privatio consideratur. Atque hinc regulam dat. Universaliter enim dicit in quo sit in eo fieri privationem. Quid vero sit privari, continuata dispositione subiunxit: PRIVARI VERO TUNC DICIMUS UNUMQUODQUE HABITUS SUSCEPTIBILIUM, QUANDO IN QUO NATUM EST INESSE VEL QUANDO NATUM EST HABERE NULLO MODO HABET. Quid sit privatio hac Aristoteles definitione conclusit. Neque enim quaecumque non habent visum, caeca dicuntur, nec vero surdum est omne quod non sentit auditum, nemo enim neque parietem caecum dixerit, nec surdum lapidem, neo quidquid huiusmodi est. Sed ea sola privari dicimus habitu, quaecumque aut habuere habitum eoque caruere, aut habere potuere et non habent. Parietem autem idcirco non dicimus caecum, quod in eo visus naturaliter venire non potuit. Paruos vero catulos quibus visus non est, non satis digne aliquis caecos esse pronuntiet. Eo enim tempore nondum naturaliter visum habere possunt. Si vero exhaustis diebus quibus his oculi patefieri et lucem haurire naturaliter possunt, non habeant visum, eos caecos esse manifestum est. At vero neque ostrea dicuntur edentula, quoniam naturaliter non habeant dentes sed nec infantulos quibus adhuc nondum huiusmodi aetas est, ut habeant dentes, vocamus edentulos sed si aut is qui ante habuit, dentes amiserit, aut quo iam tempore habere naturaliter debet, dentes non habet, ut si quis puerorum septimo anno omnino nullum creaverit, illos iure edentulos appellamus, atque hoc est, quod ait: EDENTULUM ENIM DICIMUS NON QUI NON HABET DENTES, NEC CAECUM QUI NON HABET VISIONEM SED QUI, QUANDO CONTIGIT HABERE, NON HABET (MULTA ENIM EX NATIVITATE NEQUE DENTES HABENT NEQUE VISIONEM SED NON DICUNTUR EDENTULA NEQUE CAECA). Hoc est, non omne quod non videt caecum, nec quod dentes non habet edentulum appellamus. Plura enim sunt quae aut omnino aut certo tempore naturaliter haec habere non possunt sed est illa privatio quoties si habitum non habet, qui habere naturaliter potest, et eo tempore cum iam per naturam illius 270B esse compos habitus possit, vel si habens quis retinensque habitum, illum cuiuslibet incursione casus amiserit, ut in pueris iam adultis si non habeant dentes. Nam quoniam homines sunt, possunt habere; quod si habentes amiserint, edentuli dicuntur; si vero omnino non creuerint dentes, quoniam iam pueris aeque adultis ut dentes haberent, naturaliter poterat evenire, id quo casu aliquo vel aegritudine officiente factum est, eos edentulos et habitudentium privatos esse nominamus. PRIVARI VERO ET HABERE HABITUM NON EST HABITUS ET PRIVATIO; HABITUS ENIM EST VISUS, PRIVATIO VERO CAECITAS, HABERE AUTEM VISUM NON EST viSUS, NEC CAECUM ESSE CAECITAS (PRIVATIO ENIM QUAEDAM EST CAECITAS, CAECUM VERO ESSE PRIVARI, NON PRIVATIO EST). Hic verissima ratione monstratur utrum ea que sub privatione atque habitu cadant privationes sint atque habitus an minime: nam quoniam habitus est visus, privatio vero caecitas, sub habitu vero est habere visum, et sub privatione esse caecum, utrum habere visum idem sit quod ipse qui habetur visus, et utrum idem sit caacum esse quod caecitas, perspicaciter intuentibus aliud quoddam est habere aliquid quod habetur. Tres namque res sunt in eo in quo est habitus, is qui habet ea res quae habetur, et habere, ut est is qui videt, et ipse visus, et hoc ipsum quod ex utrisque, fit ex eo scilicet qui videt et visu, quod est videre. Distat autem et videre ab eo qui videt, et hoc ipsum videre rursus a visu. Aliud est enim id quod fit quam is qui facit. Videre autem videns operatur, aliud est igitur videre quam videns. Distat autem videre etiam a visu, aliud namque est id quod fit quam id per quod aliquid geritur, videre autem per visum fit. Distat ergo videre ab eo ipso (qui ipsum videre efficit) visu sed videre visum habere est, visum autem habere habitum retinere est, et visus habitus est. Non est igitur idem habitus et quid est sub habitu, id est quemlibet habitum retinere. Eodem quoque modo etiam in privatione, et illic quoque tres sunt res, is qui privatur, hoc ipsum quod fit, id est privari, et ipsum quo quis privatur, id est ipsa privatio. Quod si distat is qui habet eo ipso quod est habitum habere, distat et is qui privatur eo quod est privari. Quod si etiam distat quod est habere habitum  illo ipso habitu qui habetur. Distat necessario id quod est privati illa ipsa scilicet privatione qua quisque privatur. Quare neque id quod sub habitu est habitus appellari potest neque id quod sub privatiove privatio. Recte igitur dictum est habitum habere non esse habitum privarique non esse privationem: cui rei aliqua quaedam validior vis argumentationis adiungitur, quam Aristoteles ita pronuntiat. NAM SI IDEM ESSET CAECITAS ET CAECUM ESSE, UTRAQUE DE EODEM PRAEDICARENTUR; NUNC VERO MINIME SED CAECUS QUIDEM DICITUR HOMO, CAECITAS VERO NULLO MODO DICITUR. Si idem inquit esset caecitas quod est esse caecum, de quocumque caecum esse diceretur, de eo quoque caecitas praedicaretur sed caecum dicimus esse hominem, caecitatem vero ipsum hominem nullus dicit: quare quoniam in utrisque diversa est praedicatio, et de quo caecitas dicitur, non de eo dicitur caecum, rursumque de quo caecum esse praedicatur, is caecitas dici non potest, non est dubium quin aliud sit caecum esse quam caecitas, id est privationem esse aliud quam privari: sed quamvis distent, aequali tamen oppositionis vice funguntur, quod ipse loquitur sic: OPPONI QUIDEM ET ISTA VIDENTUR, PRIVARI SCILICET ET HABERE HABITUM, QUEMADMODUM PRIVATIO ET HABITUS; IDEM ENIM MODUS EST OPPOSITIONIS; Aequa namque proportione sibi privatio atque habitus opponuntur, et ea quae sub privatione habituque clauduntur. Cur enim si privatio atque habitus, id est visus et caecitas sibi sunt opposita, non etiam videre atque esse caecum eodem modo invicem sibimet opponantur. Quare quamquam haec distent, tamen modus in his oppositionis aequalis est. NON EST AUTEM NEC QUOD SUB AFFIRMATIONE VEL NEGATIONE EST NEGATIO VEL AFFIRMATIO; AFFIRMATIO ENIM ORATIO EST AFFIRMATIVA ET NEGATIO ORATIO NEGATIVA, EORUM VERO QUAE SUNT SUB AFFIRMATIONE YEL NEGATIONE NIHIL EST ORATIO. DICUNTUR AUTEM ET ISTA SIBI OPPONI UT AFFIRMATRO ET NEGATIO; NAM ETIAM IN HIS MODUS OPPOSITIONIS IDEM EST; QUEMADMODUM ENIM AFFIRMATIO AD NEGATIONEM OPPONITUR, UT SEDET - NON SEDET, SIC RES QUAE SUB UTRISQUE EST SIBI OPPONITUR SEDERE ET NON SEDERE. Ad quartam oppositionis speciem transitum fecit, quae secundum affirmationem negationemque dicitur. Affirmatio autem est quae aliquam rem alicui quadam participatione coniungit, negatio vero quae aliquam rem ab aliqua re quadam separatione disiungit, ut est: Omnis homo est animal animal enim ad hominem haec oratio iungit. Participat enim homo proprio genere, scilicet animal, negatio vero: Homo lapis non est. Disiungit enim naturam lapidis ab humanitate qui negat sed multa de his in libro de interpretatione dicenda sunt. Quare plenior horum disputatio in tempus aliud differatur. Aristoteles vero simplicissime et pene incuriose propter eos qui instituuntur definitiones affirmationis negationisque signavit, dicens negationem affrmationemque, affirmativas esse negativasque orationes. Quod si examinatius ac subtilius definisset, affirmationem per affirmativam orationem non definiret. Nam si dubium est quid sit affirmatio, nihilo magis clarum atque perspicuum est quid sit affirmativa oratio. Idcirco quod si quis nescit quid sit affirmatio, idem sine dubio nesciturus est quid oratio sit affirmativa. Sed idcirco hic indulgentius terminavit, quod in libro Perihermeneias utriusque veram plenamque vim definitionis aptavit. Eadem quoque in his ratio est qua sunt sub affirmatione et negatione, quae in his quae sub privatione atque habitu ponebantur, nam sicut non est idem habitus atque privatio quod habere habitum atque privari, ita non idem est affirmationem et negationem esse quod est sub affirmatione et negatione. Affirmatio est, verbi gratia sedet Socrates, negatio vero, non sedet Socrates. Sub affirmatione autem hoc ipsum sedere Socratem, id est hoc quod sub affirmatione dicit facere. Sub negatione vero non sedere Socratem, id est non facere id quod negatio submovet. Hoc autem ita probatur, quod omnis affirmatio omnisque negatio orationes sunt, sicut eorum supradicta definitio determinatioque monstravit. Sedere autem et non sedere, id est facere et non facere, orationes non sunt, quod si affirmatio et negatio orationes sunt, dicitur id quod sub affirmatione et negatione est, ea ipsa affirmatione et negatione distare. Sed in hoc servant illam quoque similitudinem quod ea ipsa sibi sunt opposita, quae secundum affirmationem negationemque dicuntur. Sicut enim ipsa affirmatio quae dicit sedet Socrates, et quae dicit, non sedet Socrates, ita quoque id ipsum quod est sedere Socratem, et non sedere, certa ratione similitudinis opponuntur. Sed quoniam quattuor species oppositionis dictae sunt, nunc Aristotelis uestigia persequentes, earum differentias colligamus, quae sunt numero sex: nam si quae res sint quattuor, easque differre a se ac distare volumus, sex solas differentias invenimus. Cum enim primam differre a secunda ac tertia atque quarta ponimus, tres sunt differentiae. Item secundam rem a prima re differre ostendere atque demonstrare superfluum est. Cum enim primae rei ad secundam distantiam colligeremus, quid secunda distaret a prima docuimus. Relicta igitur primae ad secundam rem differentia, secundae et tertiae, item secundae quartaeque differentiae monstrabuntur, quae sunt duae, quae tribus superioribus iunctae quinque solas efficiunt. Restat tertiae rei quartaeque distantia. Nam primae ad secundam atque tertiam demonstrata est discrepantia, cum prima a secunda distaret, atque eodem modo a tertia monstrabamus. Id his probatur exemplis. Nam cum oppositio ea quae est secundum ad aliquid, ab his oppositionibus quae sunt secundum contrarietatem, privationem atque habitum, atque affirmationem et negationem, distare proponitur, tres sunt differentiae. Cum vero ea quae secundum privationem atque habitum oppositio est, a contrariis et ab affirmatione negationeque discrepat, duae sunt differentiae quae iunctae superioribus quinque perficiunt. Idcirco enim quid distaret habitus atque privatio, ea oppositione quae relativa est praetermisimus, quoniam prius monstravimus quid relativa oppositio ab habitu privationeque differret; non est enim dubium aequam esse in utrisque differentiam, cum una ab alia discrepaverit. Restat una sola differentia, quae est contrariorum ad affirmationem scilicet et negationem; praetermissa namque est contrariorum differentia, de relativa scilicet et secundum habitum privationemque oppositione, quid haec superius a contrarietate distaret, monstratum est. Quare quoniam quot sunt horum differentiae cognitum est, ad sequentis operis ordinem veniamus. QUONIAM AUTEM PRIVATIO ET HABITUS NON SIC OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, MANIFESTUM EST; NEQUE ENIM DICITUR HOC IPSUM QUOD EST OPPOSITI; VISUS ENIM NON EST CAECITATIS VISUS, NEC ALIO ULLO MODO AD IPSUM DICITUR; SIMILITER AUTEM NEC CAECITAS DICITUR CAECITAS VISUS SED PRIVATIO VISUS CAECITAS DICITUR. AMPLIUS OMNIA QUAECUMQUE AD ALIQUID DICUNTUR CONVERSIM DICUNTUR, QUARE ETIAM CAECITAS, SI ESSET EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID, CONVERTERETUR ILLUD AD QUOD DICITUR; SED NON CONVERTUNTUR; NEQUE ENIM DICITUR VISUS CAECITATIS. Et caetera quidem quae sunt differentia perspicue superius in contrariorum differentia relativa oppositione ante praemissa sunt. Unam namque differentiam contrariorum relativorumque dixit esse, quod contraria non ita ut ea quae sunt ad aliquid converterentur. Neque enim quis pronuntiat malitiam bonitatis esse malitiam, neque bonitatem malitiae esse bonitatem, velut filium patris esse filium, rursusque patrem filii patrem. Eadem quoque et in his quae secundum privationem habitumque redduntur, dicitur differentia. Nam sicut ea qua sunt ad aliquid opposita, adversum semetipsa redduntur, et omnia ad opposita praedicantur, non eodem modo in habitu atque privatione est. Nullus enim dicit caecitatis esse visum, nec rursus visus esse caecitatem. Quocirca si ea quae sunt relativa ad opposita praedicantur, conversimque dicuntur -- cum enim sit oppositus filio pater, pater filii dicitur, scilicet ad oppositum, rursusque convertitur ut patris filius appelletur -- quoniam hoc in his quae sunt secundum privationem et habitum non dicitur. Neque enim cum sit visus oppositus caecitati, secundum privationem atque habitum dicitur visus caecitatis, id est nunquam secundum hanc oppositionem aliquid oppositi praedicatur neque convertitur, neque enim dicitur caecitas visus, recte privatio atque habitus non in eadem qua relativa sed in alia specie numerata sunt. QUONIAM AUTEM NEQUE UT CONTRARIA OPPONUNTUR EA QUAE SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM DICUNTUR, EX HIS MANIFESTUM EST. QUORUM ENIM CONTRARIORUM NIHIL EST MEDIUM, NECESSE EST, IN QUIBUS NATA SUNT FIERI AUT DE QUIBUS PRAEDICARI, ALTERUM IPSORUM INESSE SEMPER; HORUM ENIM NIHIL ERAT MEDIUM, QUORUM NECESSE ERAT ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, UT IN AEGRITUDINE ET SANITATE ET IMPARI ATQUE PARI. QUORUM AUTEM EST ALIQUID MEDIUM NUNQUAM NECESSE EST OMNI INESSE ALTERUM; NAM NEQUE ALBUM AUT NIGRUM NECESSE EST OMNE ESSE EORUM SUSCEPTIBILI, NEC FRIGIDUM NEC CALIDUM (NIHIL ENIM PROHIBET ALIQUAM IPSORUM INESSE MEDIETATEM); ERAT ETIAM ISTORUM MEDIETAS, QUORUM NON NECESSE ESSET ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, NISI FORTE ALIQUIBUS NATURALITER CONTIGERIT UNUM IPSORUM INESSE, UT IGNI CALIDUM ESSE ET NIVI ALBUM (IN HIS AUTEM NECESSE EST DEFINITE UNUM IPSORUM INESSE, ET NON HOC AUT ILLUD; NEQUE ENIM POTEST IGNIS ESSE FRIGIDUS NEC NIX ESSE NIGRA); QUARE NON NECESSE EST OMNIBUS EORUM SUSCEPTIBILIBUS ALTERUM HORUM INESSE SED SOLIS HIS QUIBUS NATURALITER UNUM INEST, ET HIS DEFINITE UNUM, NON AUTEM HOC AUT ILLUD. Prolixitatem textus idcirco contraxi quod et ea ipsa quae dicuntur supra iam dicta sunt, nec longior ordo possit aliquod creare fastidium, quod nos hac textus divisione seiunximus. Et prius quidem proponit ante oculos omnes inter se contrariorum differentias, quas ipse quantum potero brevissime commemorabo; ait enim contrariorum quae mediis carent semper alterum inesse ei quod illas contrarietates 274C suscipere potest, ut aegritudo et sanitas, quoniam semper in animalis corpore reperitur, et ea sine ullo est adversus suum contrarium medio. Idcirco omne corpus animalis semper aut aegrotat aut sanum est, et semper alterum aut sanitatis aut aegritudinis inest ei quod has suscipit contrarietates. Eorum vero contrariorum quae habent aliquam medietatem, non necesse est semper alterum inesse ei cui accidunt, ut album atque nigrum, cum sint utraque contraria, quoniam habent aliquam medietatem, ut rubrum, veniunt autem semper in corpora, non necesse est omne corpus fieri, aut album aut nigrum, quoniam potest aliquando contingere ut illa eorum medietas corpori cuilibet eveniat. Atque hoc ita est in iis quae medio non carent, quae ipsa mediata vocamus, exceptis his quibus una contrarietas est insita per naturam, ut nix alba est, ignis calidus. In his enim unam semper necesse est evenire non aliam, nec utrumlibet sed definite unam. Id enim non venit in ignem, ut aliquando sit calidum, aliquando frigidum, aliquando vero quod horum medietas est tepidum sed semper naturali calore succenditur; nec nix aliquando fit nigra, nec rursus rubea, nec ullis aliis coloribus permutatur sed solum semper alba est. Cum haec ita sint, ea quae secundum habitum privationemque opponuntur, si et ab his contrariis distare monstrata sint quae mediis carent, et ab his quae intra se quamdam medietatem qualitatis includunt, et ab his quoque quae, cum mediate sint, tamen definite alicui insunt, perfecte monstratum est ea quae secundum habitum et privationem sunt a contrariis discrepare. Quare quid distent Aristotele teneamus auctore. IN PRIVATIONE VERO ET HABITU NEUTRUM VERUM EST EORUM QUAE DICTA SUNT, NEQUE ENIM SEMPER EORUM SUSCEPTIBILI NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE; QUOD ENIM NONDUM NATUM EST HABERE VISUM NEQUE CAECUM NEQUE viSUM HABERE DICITUR, HABENS VISUM DICITUR; ET HORUM NON DEFINITE ALTERUM SED AUT HOC AUT ILLUD (NEQUE ENIM NECESSE EST AUT CAECUM AUT HABENTEM VISUM ESSE SED AUT HOC AUT ILLUD); IN CONTRARIIS VERO, QUORUM EST MEDIETAS, NUMQUAM NECESSE EST OMNI ALTERUM INESSE SED ALIQUIBUS, ET HIS DEFINITE UNUM. QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NEUTRUM MODUM QUEMADMODUM CONTRARIA OPPONUNTUR ITA SIBI SUNT EA QUAE SUNT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM OPPOSITA. Dat primo differentias quibus ea quae sunt secundum habitum et privationem opposita, ab iis quae sunt immediata contrariis distent. In his enim contrariis quae medium non habent, semper necesse est ipsorum alterum inesse ei quod his ipsis subiectum est. In habitu vero et privatione non ita est. Non enim semper quaelibet res aut habitum habet aut privationem sed est tempus quando utrumque non habeat, ut catuli quibus nondum per naturam oculi patent. Illos enim nec habere habitum dicimus, quoniam non vident, nec privatos visu, quoniam paruuli adhuc visum per naturam habere non possunt Igitur horum quae sibi secundum privationem habitumque sunt opposita, non semper alterum subiecto inest eorum. Sed eorum quae sunt contraria immediata, id est medio carentia, semper alterum susceptibili inest. Distat igitur ea quae secundum habitum et privationem est oppositio, iis quae secundum contraria putantur opponi. Sed quoniam sunt quaedam contraria quae insunt alicui per naturam, ut nivi album, igni calidum, coruo nigrum, etiam ab his discrepat oppositio privationis et habitus. Ea enim quae per naturam insunt definita sunt et nullo modo permutantur, ut est album nivi. Non enim nix aut alba aut nigra est sed tantum alba, et coruus non aut albus aut niger sed solum niger. In privatione vero et habitu una res esse non potest definita sed semper aut privatio contingit, aut habitus, et hoc est quod ait, et horum non definite alterum sed aut hoc aut illud. Neque enim necesse est aut caecum esse aut habentem visum definite subaudiendum est, catulus enim qui per naturam non dum videt, aut habitum habiturus est, id est visum, aut eo privandus est, ut sit caecus sed non definite unum sed aut hoc aut illud indefinite contingit. Distat igitur haec oppositio his contrariis quae aliquibus per naturam immutabiliter accidunt. Restat igitur ut his contrariis quae mediata sunt hanc oppositionem differre doceamus. In illis enim non semper necesse erit contraria inesse subiecto, idcirco quod eorum medietates possint subiectis evenire substantiis, ut album vel nigrum quod non est alicui per naturam sed tantum secundum accidens. Possunt enim utraque non esse in corporibus, quoniam his vel rubrum vel pallidum, quae sunt eorum medietates eveniunt. In privatione vero id et habitu non est. Quando enim poterit per naturam habere habitum, utrisque quae ea suscipiunt, carere non possunt. Catulus enim cum per naturam videre potuerit, aut habitum habere dicitur, et est videns, aut privationem, si fuerit caecus. Ita semper ab eo tempore 276B quo illi per naturam utrumlibet habere concessum est, alterutrum retinebit, id est aut privationem retinebit, aut habitum. Quocirca si in his contrariis quae medio non carent, potest fieri ut utraque contraria in subiecto non sint, in privatione vero et habitu ab eo tempore quo per naturam potest utrumque retinere, fieri non potest nisi eorum habeat alterum, distant haec quoque mediata ab his quae secundum vim privationis atque habitus opponuntur. Sed ante monstratum est et his contrariis quae per naturam essent, et iis quae medio carerent, hanc oppositionem esse dissimilem. Recte igitur positum est privationis atque habitus oppositionem ab his quae opponuntur ut contraria, discrepare. AMPLIUS IN CONTRARIIS, CUM SIT EORUM SUSCEPTIBILE, POTEST FIERI IN ALTERNA MUTATIO, NISI 276C CUI NATURALITER UNUM INSIT, UT IGNI CALIDO ESSE; QUOD ENIM SANUM EST POTEST AEGRESCERE, ET ALBUM NIGRUM FIERI, ET FRIGIDUM CALIDUM, ET EX PROBO IMPROBUM ET EX IMPROBO PROBUM FIERI POTEST (IMPROBUS ENIM IN MELIOREM CONSUETUDINEM SERMONEMQUE PERDUCTUS VEL PARUM SESE DABIT IN MELIUS; SIN VERO VEL SEMEL PARUAM INTENTIONEM SUMAT, MANIFESTUM EST QUONIAM AUT PERFECTISSIME PERMPOMBAUR AUT MAGNAM SUMAT INTENTIONEM; SEMPER ENIM MOBILIOR AD VIRTUTEM FIT, SI QUAMLIBET A PRINCIPIO SUMPSERIT INTENTIONEM, QUARE ERIT POSSIBILE MAIOREM ILLUM INTENTIONEM SUMERE; ET HOC SAEPIUS FACTUM PERFECTE IN CONTRARIAM HABITUDINEM CONSISTERE, NISI TEMPORE PROHIBEATUR). IN PRIVATIONE VERO ET HABITU IMPOSSIBILE EST AD INVICEM FIERI MUTATIONEM; AB HABITU ENIM AD PRIVATIONEM FIT PERMUTATIO, 276D A PRIVATIONE VERO AD HABITUM IMPOSSIBILE EST; NEQUE ENIM FACTUS ALIQUIS CAECUS RURSUS vidIT, NEC CALUUS RURSUS CRINITUS FACTUS EST, NEC EDENTULUS DENTES CREAVIT. Aliam rursos contrariorum et huius oppositionis quae secundum habitum privationemque dicitur, discrepantiam ponit. Ea enim quae contraria sunt, possunt in alterna variatis vicibus permutari. Quod enim calidum est potest effici frigidum, rursusque quod frigidum est potest in caloris verti qualitatem. His tamen (ut dictum est) solis exceptis, quibus una quaelibet res contrariorum naturaliter insita est, in his enim solis fieri non potest alterna mutatio: in his vero quae accidenter et non per naturam subiectis eveniunt, fit semper in contraria permutatio, ut ex sano aegrum, ex aegro rursus sanum corpus efficitur animalis. Iam vero illud verum est, ex bono proclivior semper semita videtur ad malum, et facillima esse ex probitate ad malitiam permutatio, quod Terentiano docetur exemplo: A labore proclivem ad libidinem. Sed quamquam difficilis sit transitus ad virtutes a turpitudine vitiorum, Aristoteles tamen fieri posse hunc transitum confirmat. Huius enim philosophi sententia est, virtutes non esse scientias, ut Socrates ait, neque ut Stoici naturaliter eas esse sed discibiles, et per quamdam boni consuetudinem hominum mentibus inseriri. Atque ideo si quis sit quibuslibet prioribus vitiis obnoxius, si eum melior sermo susceperit, et sapientium consuetudine confabulationeque comatur, aliquid ex ante actis vitiorum illecebris emendabitur, et sese aliquantulum exuet, et paululum liberior ad meliora procedet. Ita ut sit primo quidem minus malus, post vero non malus, deinde iam iamque aliquantulum bonus. Cui si huiusmodi intensio frequentissime fiat, nec paruitate temporis praeveniatur, aut ei terminus mortis offecerit, non est dublum illum ex pessimo per probas consuetudines confabulationesque sapientum, in perfectam virtutis habitudinem permutari. Est igitur ex bono in malum, et ex malo in bonum rursus permutatio, atque hoc quidem fit in contrariis. In habitu vero et privatione non fit, est namque permutatio sed haec una tantum, nulla ratione sese convertens; ait enim: Ab habitu ad privationem 277C permutatio, a privatione vero ad habitum impossibile est. Et hoc planissime docet exemplis. Quis enim unquam ex caeco factus est videns? quis aliquando caluus crinitus efficitur? cui amissis aetate dentibus rursus alii procreantur? Quare si in contrariis fit alterna mutatio, in privatione vero atque habitu non fit, distat haec oppositio ab ea scilicet oppositione quae fit secundum contrarias qualitates. QUAECUMQUE VERO UT AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPONUNTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NULLUM MODUM EORUM QUI DICT SUNT OPPONUNTUR; IN HIS ENIM SOLIS NECESSE EST HOC QUIDEM ESSE VERUM ILLUD VERO FALSUM. NAM NEQUE IN CONTRARIIS NECESSE EST SEMPER ALTERUM ESSE VERUM, ALTERUM VERO FALSUM, NEC IN RELATIVIS, NEQUE IN HABITU ET PRIVATIONE; UT SANITAS ET AEGRITUDO CONTRARIA SUNT SED NEUTRUM IPSORUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST; SIMILITER AUTEM ET DUPLUM ET MEDIUM QUAE UT AD ALIQUID OPPONUNTUR, NON EST EORUM ALTERUM FALSUM ALTERUM VERUM; NEC VERO EA QUAE SECUNDUM HABITUM ET PRIVATIONEM SUNT, UT VISUS ET CAECITAS. OMNINO AUTEM NIHIL EORUM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR AUT VERUM AUT FALSUM EST; OMNIA AUTEM QUAE DIXIMUS SINE COMPLEXIONE DICUNTUR. Expositis his differentiis quibus vel contrariis relativa, vel privatio et habitus relativis, vel rursus privatio et habitus contrariis discreparent, nunc sequitur quid his omnibus secundum affirmationem negationemque opposita distent, et dat signum proprium affirmationis et negationis, ut eas semper quaeramus agnoscere, ut si qua sint quae hoc signo minime teneantur, illa ab affirmationis negationisque oppositione deferre dicamus. In affirmatione enim et negatione fieri non potest, ut si affirmatio vera sit, statim falsa negatio non sit; si negatio vera, aftirmatio mendacii nota carere possit, ut si qu is dicat. Socrates ambulat, Socrates non ambulat. Si verum est Socratem ambulare, falsum est non ambulare, et rursus si verum est non ambulare, falsum est ambulare. Hanc autem veri falsique divisionem nullus unquam in aliis oppositionibus poterit invenire. Nam in his quae sunt ad aliquid non solum non est necesse oppositionem ipsam sibi verum falsumque dividere sed in his nulia omnino neque veritas, neque falsitas invenitur. Si quis enim dicat hoc tantum, pater, vel rursus, filius, neque verum aliquid neque falsum pronuntiat. Et in contrariis quoque idem est, nam cum bono malum sit contrarium, si quis nominet bonum, et si quis rursus simpliciter pronuntiet malum, nulla in hac praedicatione neque falsitas, neque veritas est. Eodem quoque se modo habet etiam in his quae secundum habitum privationemque dicuntur. Similiter evim nihil neque verum, neque falsum est, si quis visum nominet vel caecitatem, hoc autem idcirco evenit, quia omnia, quaecumque sunt, in quibus aut falsitas, aut veritas invenitur, secundum aliquam complexionem dicuntur. Ea vero quae simpliciter proferuntur, veri atque falsi prolatione carent, ut ipse ait, cum in principio omnia praedicamenta numeraret, dicens singula eorum quae essent dicta in nulla affirmatione dici, quadam vero complexione inter se horum praedicamentorum veritatem falsitatemque gigni, de quibus Aristoteles edocuit praeter complexionem aliquam in sermonibus veritatem falsitatemque inveniri non posse. Si quidem exemplo quoque hoc manifestum est. Si enim dixero, Socrates homo est, aut verum aut falsum est. Quod si hoc tantum dicam Socrates, aut rursus, homo, nihil in eo neque veritatis neque falsitatis est. Quocirca quoniam omnis affirmatio cum complexione profertur, potest in ea, aut veritas, aut falsitas inveniri. Ea vero quae sunt ad aliquid simpliciter et sine ulla complexione dicuntur. Similiter autem et contraria, et ea quae sunt secundum habitum privationemque sibimet opposita, ut est pater filius, bouum malum, visus caecitas, qua, quoniam sine complexione dicuntur (ubi autem complesio non est, illic nec falsitas neque veritas est. In affirmationibus vero solis et negationibus quae secundum complexionem dicuntur, aut veritas aut falsitas reperitur, secundum affirmationem et negationem oppositio a cunctis aliis superioribus distat. AT VERO MAGIS HOC VIDETUR CONTINGERE IN HIS QUAE SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR (SANUM ENIM ESSE SOCRATEM ET AEGROTARE SOCRATEM CONTRARIA SUNT) SED NEC IN HIS QUOQUE NECESSE EST SEMPER ALTERUM VERUM ESSE, ALTERUM AUTEM FALSUM; CUM ENIM 279A SIT SOCRATES, EST HOC QUIDEM VERUM ILLUD VERO FALSUM, CUM AUTEM NON SIT, UTRAQUE FALSA SUNT; NAM NEQUE AEGROTARE NEQUE SANUM ESSE VERUM EST CUM IPSE SOCRATES NON SIT OMNINO. IN PRIVATIONE VERO, CUM NON SIT, NEUTRUM VERUM EST, ET CUM SIT, NON SEMPER ALTERUM VERUM EST; VISUM ENIM HABERE SOCRATEM ET CAECUM ESSE SOCRATEM OPPONUNTUR UT HABITUS ET PRIVATIO, ET CUM SIT, NON EST NECESSE ALTERUM VERUM ESSE VEL FALSUM (QUANDO ENIM NON EST NATUS UT HABEAT, UTRAQUE FALSA SUNT), CUM AUTEM NON SIT OMNINO SOCRATES, SIC QUOQUE UTRAQUE FALSA SUNT, ET HABERE EUM VISUM ET EUM ESSE CAECUM. Quoniam videntur quaedam contraria secundum complexionem dici, in quibus aut falsitas reperitur aut veritas sed neque ut affirmatio sit neque ut negatio, de his quoque dicit, quid distent his complexionibus, quae secundum affirmationem negationemque dicuntur. Nam sicut aegritudo est contraria sanitati, ita quoque aegrotum esse Socratem, ei quod est sanum esse contrarium est. Oratio quoque quae dicit Socrates sanus est, contraria est ei quae pronuntiat Socrates aegrotat. In his ergo et veritas invenitur et falsitas. Quod igitur haec distant ea oppositione quae secundum vim affirmationis aut negationis opponitur, hoc scilicet quod subsistente re, de qua utraque dicuntur, utrumlibet eorum verum est, si tamen ea contraria praedicantur, quae mediis carent, nam vivente et subsistente Socrate, quoniam aegritudo et sanitas immediata contraria sunt, si quis de Socrate dicat: Socrates sanus est, rursusque alius pronuntiet: Socrates aegrotat, unam veram, unam falsam esse necesse est. Socrates enim vivens aut aegrotat aut sanus est, et si verum est eum aegrotare, sanum esse falsum est, et si falsum est aegrotare, sanum esse verum est; si vero Socrates ipse non subsistat neque omnino sit, utrumque de eo falsum est dicere, quoniam aegrotat et sanus est. Qui enim omnino non est, neque omnino poterit aegrotus esse nec sanus. Ergo in contrariis subsistente re de qua praedicantur, semper una praedicatio vera est, alia falsa, in his scilicet contrariis quae secundum complexionem dicuntur et carent medio. Non subsistente autem re, contrarietates utraeque sunt falsae. Illa vero quae secundum privationem habitumque dicuntur, si cum complexione praedicentur, et subsistat res, non necesse est aliam veram esse, aliam falsam, et eum res omnino non sit, utraeque sunt falsae. Socrates enim cum sit iam in suae matris aluo, et nondum sit genitus in lucem quidem editus non est, ipse tamen est atque vivit sed tunc neque videns est neque caecus, et videns quidem non est; quoniam nondum in lucem est editus. Caecus vero idcirco non dicitur, quoniam adhuc videre non poterat. Ergo cum sit atque subsistat res de qua habitus et privatio praedicantur, potest fieri ut de ea falsa utraque praedicentur; si vero res de qua dicitur non sit, omnino utrasque falsas esse necesse est, ut cum Socrates omnino non est, falsum est eum dicere vel videntem 280A esse vel caecum. Ille enim videt atque caecus est qui vivit atque subsistit, cum vero de quo dicitur non sit omnino, utraque de eo falso dicuntur. In catulis quoque idem est, nam cum iam sunt editi, subsistunt quidem; sed neque caeci sunt neque videntes, quia nondum per naturam visum habere potuerunt. Sin vero omnino non sint, rursus falsum est de his utrumque praedicari. In affirmatione vero et negatione non ita est, ut ipse pronuntiat. IN AFFIRMATIONE VERO VEL NEGATIONE SEMPER, VEL SI SIT VEL SI NON SIT, ALTERUM IPSORUM VERUM, ALTERUM FALSUM ERIT; AEGROTARE ENIM SOCRATEM ET NON AEGROTARE SOCRATEM, CUM SIT IDEM IPSE, MANIFESTUM EST QUONIAM ALTERUM EORUM VERUM VEL FALSUM EST, CUM NON SIT, SIMILITER (NAMQUE AEGROTUM ESSE, CUM NON SIT, FALSUM EST, NON AEGROTARE VERO VERUM EST). QUARE IN SOLIS HIS ERIT SEMPER ALTERUM IPSORUM VERUM ESSE VEL FALSUM, QUAECUMQUE UT AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPONUNTUR. In affirmatione, inquit, et negatione sive res subiecta subsistat, sive non sit omnino, semper in una veritas, in alia falsitas inveniuntur. Non esse enim idem dicere aegrotare aliquem quod non esse sanum, neo idem caecum esse quod non videre perspicacissime docet. Nam qui aegrotat nisi subsistat non potest aegrotare. Non esse autem sanum, non ita est, nam etiamsi non sit omnino aliquis, potest de eo qui non est haec negatio praedicari. Quod enim omnino non est, sanum esse non potest, quod sanum esse non potest non est utique sanum. Eodem quoque modo est et de caecitate et de visu, neque enim idem est dicere caecum esse aliquem quod non videre; qui enim caecus est, subsistit vivitque, ut sit caecus, non videre vero etiam de omnino non subsistente dici potest. Qui enim non subsistit omnino videre non potest, et qui videre non potest non videt. Quocirca in affirmatione et negatione sive sit de quo dicitur sive non sit, una semper vera est, altera falsa. Nam cum sit Socrates et vivat, si de eo verum est dicere, quoniam videt, falsum est dicere, quoniam non videt, et si de eo verum est dicere, quoniam sanus est, falsum est dicere de eo quoniam non est sanus. Si negationes verae sunt, falsae sunt affirmationes. Si vero res subiecta non subsistat omnino, de ea quidem affirmatio falsa est, negatio semper vera. Nostro enim tempore cum Socrates non est neque subsistit, si quis dicat Socrates videt, et alius dicat Socrates non videt, falsum quidem est de eo dicere, quoniam videt, verum autem quoniam non videt. Qui enim omnino non est, videre non potest, qui videre non potest, non videt. Ita firmum immutabileque semper manet in affirmationibus et negationibus alteram semper veram, alteram falsam in praedicatione constitui. Quocirca quoniam in contrariis et in iis quae secundum privationem habitumque sunt, si cum complexione utraque dicantur de re non subsistente, falsa sunt utraque quae praedicantur. Cum hoc idem in affirmationibus et negationibus non sit, omnes caeterae oppositiones ab affirmatione et negatione dissentiunt. Monstratae sunt igitur oppositiones quattuor et sex differentiae: una quidem contrariorum et eius quae est ad aliquid; secunda contrariorum et eorum quae sunt secundum habitum et privationem; tertia contrariorum et eius oppositionis quae est secundum affirmationem et negationem; quarta relativorum et eius quae est secundum habitum et privationem; quinta relativorum et eius quae est affirmationis et negationis; sexta privationis et habitus ad negationem et affirmationem. Sed post has oppositionum differentias quaedam de contrariis ad multas proficientia quaestiones ab Aristoteles traduntur. CONTRARIUM AUTEM EST BONO QUIDEM EX NECESSITATE MALUM (HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX UNAQUAQUE INDUCTIONE, UT SANITATI AEGRITUDO ET IUSTITIAE INIUSTITIA ET FORTITUDINI 281B TIMIDITAS, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS), MALO VERO ALIQUOTIENS BONUM CONTRARIUM EST, ALIQUOTIENS MALUM (DIMINUTIONI ENIM, QUAE MALA EST, SUPERFLUITAS QUAE ET IPSA MALA EST CONTRARIUM EST). IN PAUCIS AUTEM HOC ALIQUIS VIDEBIT, IN PLURIBUS AUTEM SEMPER MALO BONUM CONTRARIUM EST. Hoc loco monstratur quod omne bonum semper malo contrarium est, non autem omni malo semper bonum, nam quodcumque fuerit bonum, solum illi malum contrarium est, malo autem et bonum potest esse contrarium et malum. Sanitati enim quae bona est, aegritudo quae est mala, contraria est. Rursus felicitati quae est bona, infelicitas quae ipsa quoque est mala, contraria est. Est autem invenire malum quod duas habet contrarietates, boni scilicet et alterius mali. Nam cum ea sunt contraria quae a se plurimum distent, cum sit timiditas habitus animi pessimus, duas habet contrarietates, temeritatem scilicet et fortitudinem, nam qui omnia timet et est timidus et qui nihil timet omnino in quo est temeritas, longe a sese distant et discrepant, quocirca sibi contraria sunt, cum utraque sint mala. Rursus quoniam bonum malo contrarium, et fortitudo bona est, timiditas mala erit, et erit fortitudini contraria oppositaque timiditas. Duae igitur contrarietates opponuntur timiditati, temeritas et fortitudo; sed temeritas contraria est secundum longissimam distantiam quantitatemque discrepantis habitus atque contrarii. Timiditas vero fortitudini videtur opposita, secundum qualitatem bonitatis atque malitiae. Quare sufficienter est demonstratum bona semper malis esse contraria, mala vero etiam malis. Inductio autem est singulorum exemplorum collectio, et ad universalem per ea cognitionem collectionemque reductio, ut si quis dicat qui musicam novit musicus est, et ab ea denominatur, et medicus qui medicinam, rursus qui grammaticam grammaticus, et ex his singulis rebus colligat universaliter, et quicumque aliquam artem novit eiusdem denominatione signatur, ut a grammatica grammaticus, a medicina medicus, et caetera huiusmodi. Quocirca hoc quod supra diximus de contrariis, Aristoteles exemplorum planissima inductione 282A firmavit Illud quoque addidit mala posse malis esse contraria, in paucissimis inveniri, semper autem mala bonis esse contraria. Nam et in his ipsis in quibus mala malis contraria sunt, inest tamen ut etiam simul bonis contraria esse videantur, ut timiditas, quoniam temeritati contraria est, simul est etiam fortitudini contraria. Sed non necesse est, ut quodcumque malum bono est contrarium, mox etiam mali esse contrarium, ut aegritudo sanitati quidem, quod est bonum contraria est, alii vero malo contraria non est. Recte igitur dictum est, malum malo contrarium in paucioribus inveniri. AMPLIUS IN CONTRARIIS NON EST NECESSE, SI ALTERUM FVERIT, ET RELIQUUM ESSE; SANIS ENIM OMNIBUS, SANITAS QUIDEM ERIT, AEGRITUDO VERO MINIME; SIMILITER ET ALBIS OMNIBUS ALBEDO QUIDEM ERIT, NIGREDO VERO NON ERIT. AMPLIUS SI SOCRATEM SANUM ESSE ET SOCRATEM AEGROTARE CONTRARIUM EST, ET NON CONTINGIT SIMUL EIDEM UTRAQUE INESSE, NUMQUAM CONTINGET, CUM ALTERUM CONTRARIORUM SIT, RELIQUUM ESSE; NAM CUM SIT SANUM ESSE SOCRATEM, NON ERIT AEGROTARE SOCRATEM. Dictum est in relatione, quaedam relativa simul esse naturaliter, ut cum sit filius, pater est, cum vero sit pater, sine filio esse non posse. Quocirca simul semper sunt pater et filius, hoc vero in contrariis non est. Ait enim non necesse est simul semper esse contraria. Si enim nullus aegrotet et sint omnes sani, cum sit sanitas, non erit aegritudo, et una contrarietate manente, alia omnino non erit, ut si quis hoc idem dicat de cygnis, etenim omnes cygni sunt albi, in cygnis nigredo non erit. Atque hoc idem ad universalia referendum est. Nam si omnia quae sunt alba sunt, omnino nigredo non erit. Tractum autem hoc videtur esse sigillatim a partibus. Nam quod duo contraria in eodem uno eodemque tempore esse non possunt, ut Socrates cum sanus est, aegrotus non est, et cum sanus est, manente sanitate, non esse poterit aegritudo. Et non erit necessarium uno contrario posito, mox subsequi alterum. Nam si necesse esset uno contrario constituto, mox aliquid sequi, posset idem Socrates uno eodemque tempore, et sanus esse et aeger, quod fieri non potest. Non est igitur necesse cum sit una contrarietas mox aliam sequi. Quocirca fieri potest ut cum unum contrarium sit, 282D aliud non sit. Idque in singularibus etiam necesse est, ut in eo quod est Socratem esse sanum, non est Socratem aegrotare, quod Socratis sanitati est contrarium Socrates enim quamquam contrariorum susceptibilis sit, quoniam substantia est, tamen uno eodemque tempore contraria utraque non suscipit. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM CIRCA IDEM VEL SPECIE VEL GENERE NATA SUNT FIERI CONTRARIA; AEGRITUDO NAMQUE ET SANITAS CIRCA CORPUS ANIMALIS, ALBEDO VERO ET NIGREDO SIMPLICITER CIRCA CORPUS, ET IUSTITIA ET INIUSTITIA IN ANIMA. Docet circa quae semper possint esse contraria. Ait enim circa eas res quae aut genere eadem sint aut specie, ut est corpus quidem animalis unum secundum genus, omnium enim animalium unum genus est, et circa hoc aegritudo vel sanitas invenitur. Similiter et circa corpus omne indiscrete, vel animalia vel inanimati, albedo et nigredo est, quod scilicet omne corpus et ipsum secundum genus est, unum, namque his genus est substantia. Iustitia quoque et iniustitia in anima est. Omnis autem anima quae iustitiam iniustitiamque suscipit, rationalis est, id est hominis; sed omnes homines idem sunt secundum speciem, omnes igitur animae eaedem secundum speciem sunt; iustitia ergo et iniustitia circa easdem res secundum speciem reperiuntur. Quocirca recto iam conclusum est, omnia contraria circa easdem res vel secundum genus, vel secundum speciem iveniri. NECESSE EST AUTEM OMNIA CONTRARIA AUT IN EODEM GENERE ESSE AUT IN CONTRARIIS GENERIBUS, VEL IPSA ESSE GENERA; ALBUM QUIDEM ET NIGRUM IN EODEM GENERE (COLOR ENIM IPSORUM GENUS EST), IUSTITIA VERO ET INIUSTITIA IN CONTRARIIS GENERIBUS (HUIUS ENIM VIRTUS, HUIUS VITIUM GENUS EST); BONUM VERO ET MALUM NON SUNT IN ALIQUO GENERE SED IPSA SUNT GENERA. Monstrat id quod reliquum est, id est ubi possunt remper contraria uestigari, omnia enim quae sunt contraria, aut sub eodem genere sunt, aut sub contrariis generibus, aut ipsa sunt genera. Sub eodem genere sunt contraria, ut album et nigrum sub uno genere, id est colore, color enim albedinis et nigredinis est genus. Haec igitur sub uno sunt genere. Alia vero contraria in contrariis generibus inveniuntur, ut iustitia et iniustitia. Iustitiae enim genus est bonum, iniustitia a vero malum, malum vero bono contrarium est, iustitiae ergo et iniustitia sub contrariis generibus sunt. Rursus alia ipsa sunt genera, ut bonum et malum, utraque sunt genera sub se malorum bonorumque positorum, et non hoc nunc dicitur quod bonitas et malitia nulli alii generi subduntur, ponuntur enim sub qualitate. Sed particularium bonorum et malorum non esse alia genera, nisi ipsum bonum et malum generaliter. Recte igitur bonum et malum aliorum particularium bonorum, malorumque genera sunt numerata. Quare rectissime dictum est omnia contraria, aut sub eodem esse genere, ut album et nigrum sub colore, aut in contrariis generibus, ut iustitia atque iniustitia sub bono et malo, aut ipsa esse genera, ut est ipsum bonum et malum, qua genera iustitiae atque iniustitiae numerata sunt. DE MODIS PRIORIS. PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR QUADRUPLICITER. PRIMO QUIDEM ET PROPRIE SECUNDUM TEMPUS, SECUNDUM QUOD SCILICET ANTIQUIUS ALTERUM ALTERO ET SENIUS DICIMUS (EO ENIM QUOD PLUS EST TEMPORIS LONGAEVIUS ET ANTIQUIUS DICITUR). Postquam vero de oppositis disputationem quantum ad praesens tempus attinebat explicavit, nunc quae priora dici possint, quae posteriora disserit. Et ait, primo quidem et proprie, et quod in usu prius 284A dicimus, hoc est quando aliquam rem alia res tempore praecedit, et superat, et dum proprie loquimur secundum temporis praecessionem, aliud antiquius dicimus, aliud senius. Antiquius quidem in iis quae inanimata sunt, ut Porphyrio placet, senius vero in iis quae anima non carent: ut si quis dicat antiquius fuisse bellum Thebanorum atque Graecorum Troiae excidio, idcirco quod tempore praecedat, filii namque ducum qui Thebano perire praelio, Troiae praeliis interfuerunt, ut Diomedes Tydaei filius, et Stenelus filius Capanei. Atque hoc quidem ita, quoniam est et in rebus inanimatis quod antiquius dicitur, ut eum dicimus antiquiorem esse dominationem regum in civitate Romana, quam consulum et magistratuum. In rebus vero animatis senius vocamus. Seniorem namque dicimus Pythagoram Socrate, Socratem Aristotele, idcirco quod se temporibus antecedant. Ergo prius alterum altero dicitur proprie secundum tempus, prioris autem quattuor fuere distantiae, ut ipse Aristoteles dicit, cum ait: Prius alterum altero dicitur quadrupliciter. Easque sigillatim breviter enumerat, ad quae ipse addidit quintam, quae priscis philosophis esset incognita. Et quoniam de primo prioris modo dictum est, de secundo dicemus. SECUNDO QUOD NON CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, UT UNUS DUOBUS PRIUS EST (CUM ENIM DUO SINT, CONSEQUITUR MOX UNUM ESSE, CUM VERO SIT UNUM NON EST NECESSE DUO ESSE; QUARE NON CONVERTITUR AB UNO CONSEQUENTIA ALTERIUS SUBSISTENTIAE); PRIUS AUTEM VIDETUR ESSE ILLUD A QUO NON CONVERTITUR SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIA. Secunda, inquit, significatio prioris est quae non tempore intelligitur sed natura, et hoc ait a quo non convertitur subsistendi consequentia. Nam si duae res ita sint oppositae, ut si una sit necesse sit esse aliam, et si alia sit non necesse sit esse aliam, illa prior est qua posita ut sit, non est aliam esse necesse, et hoc quidem universaliter dictum est. Planius vero his fiet exemplis. Binarius enim numerus et unitas eam retinet naturam, ut si quis duo esse proponat, unum quoque esse monstraverit, unum enim in ipsis duobus concluditur, nec praeter duas unitates poterit esse binarius. Quocirca si quis binarium numerum esse posuerit, unum quoque esse consequitur, idcirco binarius ut sit indiget unitate. At vero si quis ponat esse unitatem, nondum necesse est esse binarium. Ergo ab unitate subsistendi consequentia non convertitur. Posita enim unitate necesse non fuit binarii numeri subsequi quantitatem, idcirco quod binario non indiget unitas, sicut indigens erat unitate binarius. Quare prior est unitas binario: quod si ita est, et quidquid ita fuerit, ut ab eo subsistendi consequentia non convertatur, prius Aristotele auctore probabitur, ut in eo quod est homo et animal. Cum dico hominem, mox dixi animal; cum animal dixero, nihil adhuc de homine dictum est. Omnis enim homo animal est, non omne animal homo. TERTIO VERO SECUNDUM QUENDAM ORDINEM PRIUS DICITUR, QUEMADMODUM ET IN DISCIPLINIS ET IN ORATIONIBUS; IN DEMONSTRATIVIS ENIM DISCIPLINIS INEST PRIUS ET POSTERIUS SECUNDUM ORDINEM (ELEMENTA ENIM PRIORA SUNT DESCRIPTIONIBUS SECUNDUM ORDINEM, ET IN GRAMMATICA ELEMENTA PRIORA SUNT SYLLABIS), ET IN ORATIONIBUS SIMILITER (EXORDIUM ENIM NARRATIONE PRIUS EST ORDINE). Ponit tertiam prioris significationem, ut in geometria priora sunt, inquit, elementa descriptionibus. Elementa vero ait quos terminos appellamus, id est ubi quid punctum sit, quid linea, quid figura praedicitur. His enim cognitis et fideliter animo apprehensis, postea omnes geometriae descriptiones fiunt, quae problemata et tbeoremata nuncupantur. Ergo quoniam prius discuntur elementa, post ad descriptiones est transitum, priora sunt elementa descriptionibus, ordine scilicet, quoniam ut descriptio possit intelligi, prius elementa traduntur, et in grammatica quoque prius singulae traduntur litterae quam quae ex his syllabae coniungitur, quocirca ipso quoque ordine prior ea sunt syllabis. Rhetores vero non saepe a narratione sed ab exordio agere causas incipiunt, ideo quod exordia narrationibus priora sunt ordine, quare tertius modus prioris iste est qui secundum nexum cuiusdam ordinis in qualibet arte est constitutus. AMPLIUS PRAETER HAEC OMNIA, QUOD MELIUS ET HONORABILIUS EST, PRIUS NATURA ESSE VIDETUR; SOLENT AUTEM PLURES HONORATIORES MAGIS ET QUOS IPSI MAXIME venERANTUR PRIORES ESSE DICERE; EST AUTEM HIC MODUS PAENE ALIENISSIMUS. ATQUE HI QUIDEM QUI DICUNTUR MODI PRIORIS ISTI SUNT. Dicit prius videri, quod neque secundum tempus aliquoties neque secundum subsistendi consequentiam nec secundum ordinem sit sed quodcumque pretiosius fuerit, prius esse videatur, ut sol, luna prior est, et anima corpore, et animus anima. Hoc vero tali argumento probat, quod hi qui aliquos venerantur, et honorabiliores existimant, dicant eos apud se esse priores, et hi qui in rebus publicis plurimum possunt, priores dicuntur ab his qui eos maxime venerantur. Sed ut ipse ait, alienissimus est a significatione prioris hic quartus in nunc est dictus modus, etenim de his melius dici potest, ut dicantur venerabiliores et honorabiles, ut vero priores dicantur, abusio potius quam ulla proprietas est. Quintus modus quem ipse addidit huiusmodi est: VIDETUR AUTEM PRAETER EOS QUI DICTI SUNT ALTER ESSE PRIORIS MODUS; EORUM ENIM QUAE CONVERTUNTUR SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, QUOD ALTERIUS QUOMODOLIBET CAUSA EST DIGNE PRIUS NATURA DICITUR. QUONIAM AUTEM SUNT QUAEDAM TALIA, MANIFESTUM EST; NAM ESSE HOMINEM CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIAM AD VERUM DE EO SERMONEM; NAM, SI EST HOMO, VERUS SERMO EST QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, ET CONVERTITUR (NAM, SI VERUS EST: SERMO QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, HOMINEM ESSE NECESSE EST); EST AUTEM VERUS SERMO NULLO MODO CAUSA SUBSISTENDI REM, RES AUTEM VIDETUR QUODAMMODO CAUSA ESSE UT SERMO VERUS SIT; NAM, QUONIAM EST RES VEL NON EST, VERUS SERMO VEL FALSUS DICITUR. QUARE SECUNDUM QUINQUE MODOS PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR. Novimus quasdam res in praedicatione posse converti. Quod si una earum quae convertuntur alteri causa est, et veluti naturalem subsistentiam subministrat, illa naturaliter prius esse perhibetur. Ipse autem aptissimo quod proposuit affirmavit exemplo. Nam si est aliqua res, verum est de ea dicere, quoniam est. Rursus si de ea verum est dicere quoniam est, illam ipsam rem esse necesse est: ut quoniam est homo, verum est dicere quoniam est homo. Quod si verum est dicere quoniam est homo, nulla est dubitatio quin homo sit. Ergo quoniam duo haeo sibimet convertuntur, respiciamus nunc quae sit harum causa alteri, ut subsistere valeat, atque ut essa possit. Video autem rem dicto vero subsistentiae dare principium, nam quia homo est, idcirco verum est dicere de eo quoniam est sed non idcirco homo est, quoniam de eo vere dici potest, quoniam est. Res enim ut veritas adsit, dicto principium est sed non ut res subsistat, vero efficitur dicto. Quocirca prius est, esse hominem, posterius, verum de eo esse dictum. Idcirco quoniam quamvis convertantur, tamen una harum rerum alteri subsistendi causa est. Ait enim id esse prius inter ea quae convertuntur secundum essentiae consequentiam, quod alterius quomodolibet causa est. Ut in hoc ipso sermone de homine, convertuntur utraque quidem sed homo ut sit sermo verus, causa est atque principium. Quod Aristoteles ita ait: Est autem verus sermo nullo modo causa subsistendi rem. Res autem videtur quodammodo causa esse ut sermo verus sit. Neque enim idcirco res est, quoniam sermo est sed idcirco verus est sermo, quoniam res ipsa subsistit. Quocirca quinque hi prioris modi sunt, quorum superius quattuor dixit, secundum tempus, scilicet secundum id quod non convertitur ad subsistendi consequentiam, secundum ordinem, secundum reuerentiam, et secundum conversionem, cum altera res alii subsistendi causa est. Sed quoniam de priori dictum est, nunc de his quae simul sunt incipit. DE MODIS SIMUL SIMUL AUTEM DICUNTUR SIMPLICITER ET PROPRIE 286D QUORUM GENERATIO IN EODEM TEMPORE EST; NEUTRUM ENIM NEUTRO PRIUS EST AUT POSTERIUS; SIMUL AUTEM SECUNDUM TEMPUS ISTA DICUNTUR. Cum de prioribus disputaret, illa propria priora esse contenderat, quae secundum vim praecedentis temporis dicerentur, quare cum de his quae simul sun. disputat, idem reuocat, et recte. Nam si maximum modum prioris solum efficiet tempus, cur quoque non simul editam naturam tempus efficiet? Ait ergo, et simpliciter et proprie dici simul esse ea, quae unius temporis ortu prolata sint, ut si illa sint antiquiora atque priora, quaecumque non aequali sed praecedenti tempore proferuntur, quae se temporibus non praecedunt, rectissime simul esse ponuntur. Quae enim uno tempore edita atque prolata sunt, illa secundum tempus simul esse dicuntur, id est simul naturale principium substantiamque sortitu, atque haec quidem secundum tempus simul esse dicuntur. Secundum naturam vero simul esse perhibentur, quaecumque invicem ad se convertuntur, cum altera res alteri subsistendi, neque causa sit, neque principium, ut sunt huiusmodi, duplum et medium: nam cum sit duplum, medium est; cum rursus sit medium, duplum est. Seruus quoque et dominus eodem modo sunt, filius quoque et pater. Haec enim quaecumque illata quidem inferunt alia, sublata vero aut erunt simul, sibimet semper invicem convertuntur: nam si dicam patrem, filium quoque intelligi necesse est; si dixero filium, pater mox sub intelligentiam cadit. Quod si alterum sustulero, utraque perimo: nam si tollam filium, pater non est; si patrem abstulero, filium quoque perire necesse est. Atque haec ita sibimet ipsa convertuntur, ut tamen altera res alteri causa penitus non sit: nam quoniam pater filio in praedicatione convertitur manifestum est sed neque pater fiiio causa est ut sit, nec filius patri, hoc autem huiusmodi est. Si Aeneas habuit Ascanium filium, non dicimus, quoniam non fuit Aeneas causa ut esset Ascanius sed non fuit pater causa ut esset filius. Nam quod dico Ascanius, quaedam propria substantia est, quod dico filius, esse non potest, nisi ad aliquid referatur, et cum Aeneam nomino, substantiam dixi, si patrem appello, nulla ratione constat, nisi ad filium referatur.  Igitur causa fuit Aeneas ut esset Ascanius sed non est causa pater ut esset filius. Pater namque tunc fit cum filius fuerit. Quod si haec tempore ipso priora non sunt, causa autem cuiuslibet rei prior est quam illa cuius causa est, ut oriatur, nulla dubitatio est, quin pater atque filius, quae utraeque praedicationes aequales sunt tempore, neutra neutri causa sit, cum tamen substantiae ipsae sibi ut sint, causa sint praedicationis. Nec ullo modo simile debet videri ei quod paulo ante dictum est de homine, esse verum de eo sermonem, scilicet quoniam est. Illic enim cum res esset, tunc poterat esse verus de ea sermo. Prius enim est ut sit aliquid, post vero ut de eo verum aliquid esse dicatur. Nunc vero non ita est ut prius aliquis sit pater, post vero filius. Mox enim ut pater est, filium esse necesse est, mox ut est filius, patris sine dubio praedicatio consequitur, quemadmodum ergo iste modus fit, qui scilicet simul secundum naturam est, Aristoteles ita pronuntiat. NATURALITER AUTEM SIMUL SUNT QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, SI NULLO MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA SIT, UT DUPLUM ET MEDIUM; CONVERTUNTUR ENIM ISTA (NAM CUM SIT DUPLUM EST MEDIUM, ET CUM SIT MEDIUM EST DUPLUM), NEUTRUM VERO NEUTRI SUBSISTENDI CAUSA EST. In his quae ita priora esse dicebatur, ut couuerterenlur, quamvis secundum essentiam eorum consequentia esset, tamen quia in his alia res alii causa atque principium est, hoc erat quod una prior esse 288A videretur, ea quidem cuius causa erat. Quod distat ab iis quae convertuntur, et se invicem auferunt, quae cum neutra neutri causa sit, et tamen convertuntur, digne simul naturaliter esse perhibentur.ET EA QUAE EX EODEM GENERE IN CONTRARIUM DIVIDUNTUR SIMUL NATURA ESSE DICUNTUR. IN CONTRARIUM VERO DIVIDI DICUNTUR SECUNDUM EANDEM DIVISIONEM, UT VOLATILE, GRESSIBILE ET AQUATILE; HAEC ENIM IN CONTRARIUM DIVIDUNTUR, CUM EX EODEM GENERE SINT; ANIMAL ENIM DIVIDITUR IN VOLATILE, GRESSIBILE ET AQUATILE, ET NULLUM HORUM PRIUS EST VEL POSTERIUS SED SIMUL HAEC VIDENTUR ESSE NATURA. Tertium modum eorum quae simul sunt hunc addidit, illa quoque simul esse, quae aequali divisione sub genere ponantur, ut si ponat quis animal genus hominis et equi, hominem vero et equum a genere, id est ab animali dividat, homo vero et equus quoniam sub eodem genere sunt, simul esse natura dicuntur. Et conveniens regula est in omnibus quibuscumque generibus, cum enim specierum divisiones fiunt, illic species natura simul sunt, et si sub his ipsis speciebus quaedam alia ponantur, inter se etiam ipsa simul esse natura dicuntur. Dividatur enim genus, id est animali in volatile atque in gressibile, et quoniam sunt sub eodem genere, simul natura sunt. Et si quid horum in subiectas partes speciesque solvatur, ut volutile quidem in his avibus quae seminibus uescuntur, et in iis quae carnibus, et in his quae herbis, hae tres species rursus, quae sub volatili sunt, simul esse naturaliter appellantur, quod Aristoteles ita dicit. DIVIDITUR AUTEM ET UNUMQUODQUE EORUM IN SPECIES ITERUM SECUNDUM EANDEM DIVISIONEM, UT GRESSIBILE ANIMAL ET VOLATILE ET AQUATILE. ERUNT IGITUR ET ILLA SIMUL NATURA, QUAECUMQUE EX EODEM IPSO GENERE SECUNDUM EANDEM SUBDIVISIONEM SUNT, GENERA AUTEM SEMPER PRIORA SUNT; NON ENIM CONVERTUNTUR SECUNDUM SUBSTANTIAE CONSEQUENTIAM, UT AQUATILE QUIDEM CUM SIT EST ANIMAL, ANIMAL VERO CUM SIT, NON NECESSE EST ESSE AQUATILE. SIMUL ERGO NATURA ESSE DICUNTUR QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, NULLO AUTEM MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA EST, ET EX EODEM GENERE QUAE IN CONTRARIUM SIBI DIVIDUNTUR; SIMPLICITER AUTEM SIMUL SUNT QUORUM GENERATIO IN EODEM TEMPORE EST. Atque idcirco fieri non potest ut genus habeat unam speciem. Nam si quaecumque sub genere sunt, simul sunt. Simul autem nisi plura esse non possunt, genus igitur sub se unam speciem habere non potest Si enim una fuerit, fieri non potest ut simul esse dicatur, quia illud est, quod eub eodem genere quaedam res solent quae simul sint naturaliter inveniri. Sed haec de speciebus. Genera autem semper priora sunt, non enim convertuntur secundam subsistentiae consequentiam. Prioris unus modus est secundum quem illa priora esse dicerentur quaecumque ad subsistendum nullo modo converterentur, quod hoc idem in generibus cadit. Genera enim non convertuntur ad eubsistentiae consequentiam hoc modo. Sit enim animal genus, homo vero species. Cum vero dico hominem esse, animal quoque esse consequitur. Si animal dixero, ad hominem subsistentiae consequentia non convertitur. Potest enim esse animal, non tamen homo. Quocirca ab animali ad hominem non convertitur subsistentiae consequentia. Quod si posito homine animal constat, animali vero nominato non est necesse hominem esse, animal est prive homine. Illa quoque priorum descriptio est, quod ea quae sunt priora sublata quidem auferunt, illata non inferunt Animal enim sublatum secum quoque hominem tollet, illatum vero ut dicatur esse animal, non secum statim hominem infert. Posteriora vero et diverso sunt. Illata enim simul inferunt, sublata non auferunt. Dictus quidem homo, simul secum animal infert, omnis namque homo animal est. Quod si homo substantialiter auferatur, non est necesse animal quoque autem, quod hoc nomen animalis in pluribus speciebus valet aptari. Quod si ita contingit, sublato homine permanebit animal. Quocirca concludit tres esse species eorum quae simul sunt secundum tempus, secundum naturam cum ulraque ita convertuntur, ut neutra neutri causa sit. Tertium genus est secundum eamdem sub eodem genere divisionem. Quoniam in faciendo atque patiendo inerat quidam motus, facere autem et pati praedicamentis ad iunxerat, idcirco nunc de motibus tractat, et sex numero esse pronuntiat. DE SPECIEBUS MOTUS MOTUS VERO SUNT SPECIES SEX: GENERATIO, CORRUPTIO, CREMENTUM, DIMINUTIO, COMMUTATIO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO. ALII QUIDEM MOTUS MANIFESTUM EST QUONIAM A SE INVICEM DIVERSI SUNT; NEQUE ENIM EST GENERATIO CORRUPTIO, NEC CREMENTUM DIMINUTIO NEC SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO; SIMILITER AUTEM ET CAETERAE. In physicis Aristoteles motus species alia ratione partitus est. Ait enim aliud esse permutationem, aliud motum, et permutationis quidem duas esse species ait generationem et corruptionem. Motus verotres secundum quantitatem, secundum qualitatem, secundum locum. Igitur, quoniam hic liber ad introductionem quodammodo factus est, noluit nimis divisionis attenuare rationem, ne ingredientium animos subtiliori divisione confunderet: facit igitur divisionem motus hoc modo. Est enim una species motus secundum substantiam, alia secundum quantitatem, alia secundum qualitatem, alia secundum locum. Et secundum substantiam quidem est generatio et corruptio, haec enim utraque in substantia fiunt. Nam et secundum substantiam generatur aliquid, et secundum substantiam corrumpitur. Secundum quantitatem vero, ut crementum et diminutio. Etenim secundum quantitatem vel aucta crevisse, vel detracta diminuta esse dicuntur. Secundum qualitatem vero quae dicitur commutatio, secundum aliquas scilicet passiones, quas qualitates esse manifestum est. Secundum locum vero, ut intus in longitudinem, vel in curuaturam flexus; et intus quidem in longitudinem est ut a sursum in deorsum, a prioribus retrorsum, a dextra in sinistram; et rursus si haec convertas et in directum pergas, idem motus 290A erunt. Illud quoque verum est has esse omnes species motus, nullo namque sibi participant, nisi solo generis nomine, quod motus dicuntur nam neque generatio idem est quod corruptio, namque generatio est in substantia ingressus, corruptio vero ex substantia egressus. Nec diminutio idem quod crementum, nec secundum locum translatio alicui superiorum consimilis est. Commutatio autem habet forte aliquam dubitationem, quod non videatur a superioribus discrepare, quam quaestionem ita proposuit. IN COMMUTATIONE VERO EST ALIQUA DUBITATIO, NE FORTE NECESSE SIT QUOD COMMUTATUR SECUNDUM ALIQUEM RELIQUORUM MOTUUM COMMUTARI. HOC AUTEM NON EST VERUM; PAENE ENIM SECUNDUM OMNES PASSIONES VEL 290B MULTAS COMMUTARI NOBIS CONTINGIT NULLO ALIORUM MOTUUM COMMUNICANTE; NAM NEQUE CRESCERE NECESSE EST QUOD SECUNDUM PASSIONEM MOVETUR NEC DIMINUI, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS: QUARE DIVERSUS ERIT MOTUS AB ALIIS COMMUTATIONIBUS (NAM SI IDEM ESSET, OPORTERET OMNE QUOD COMMUTATUR MOX AUT CRESCERE AUT MINUI AUT ALIQUEM ALIORUM MOTUUM CONSEQUI; SED NON EST NECESSE). SIMILITER AUTEM ET QUOD CRESCIT VEL SECUNDUM QUEMLIBET ALTERUM MOTUM MUTATUR. In commutatione vero est aliqua dubitatio, ne forte necesse sit quod commutatur secundum aliquem reliquorum motaum commutari. Nam si omne quod commutatur, aut generatur, aut corrumpitur, aut minuitur aut crescit, aut id secundum locum transferri 290C necesse est, dubium non est nihil a superioribus caeteris hanc differe speciem, qua secundum commutationem dicitur; quod Aristoteles respuit, dicens: HOC AUTEM NON EST VERUM. Sed quoniam quod oommutatur non omnino neque generatur, neque corrumpitur: ut qui in sole diutius stetit, si ex candido niger est factus, commutatus quidem secundum colorem dicitur, non tamen generatus est aut corruptus, nec vero illi aliquod vel crementum factum est vel diminutio sed nec loci translatio nulla est, potest enim aliquis uno eodemque loco consistens, aliquibus extrinsecus venientibus passionibus permutari, potest quoque et crescere et decrescere, praeter qualitatis commutationem: quod ipse Aristoteles ita pronuntiat. SED SUNT QUAEDAM QUAE CRESCUNT ET NON COMMUTANTUR, UT QUADRATUM CIRCUMPOSITO GNOMONE CREVIT QUIDEM SED COMMUTATUM NON EST; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS HUIUSMODI. QUARE A SE INVICEM MOTUS ISTI DIVERSI SUNT. Quod dicit tale est: Si quadrato, inquit, addatur gnomo, crescit quidem quadratus, non tamen commutatur. Ideoque sublato gnomone quadratus diminuitur sed non commutatur. Si enim quadratus a b c d, et ducatur ei angularis b c, et dividantur quattuor latera a c, a b, b d, a c, in aequalia g e h f punctis, et ducantur g h f e lineae. Divisus igitur quadratus a d in quattuor quadratos qui sunt e g, f g, e h, h f, quorumlibet tres qui circa eamdem angularem sunt si demantur, figura ipsa gnomo vocatur. ut si quis tollat hos tres, e g, g f, f h, invenitur m n 291A gnomo, qui m n gnomo separatur a b e h quadrato. Totus quidem a d quadratus imminutus est, qui ex tam magno factus est paruus, non tamen formam tetragoni commutavit. Quod si e h tetragonus solus sit, et ei circumponatur gnomo, qui est m n, crevit quidem tetragonus, et maior factus est sed non commutatus est. Omnes enim tetragoni sibi sunt propria qualitate consimiles. Quod si commutatio huiusmodi motus esset, ut non omnino a superioribus separaretur, nulla esset dubitatio quin semper oporteret quidquid commutatur secundum aliquem priorum motuum modum commutari. Ita ut aut nasceretur, aut corrumperetur, aut minveretur, aut cresceret, aut secundum locum fieret aliqua permutatio. Quod quoniam non est, ab omnibus superioribus 291B motibus haec motus species distat. Sed monstratum superius est quinque superiores motus species a se omni ratione substantia, discrepare. Quocirca distant a se similiter hi sex motus, atque diversi sunt. SIMPLICITER AUTEM MOTUS QUIETI CONTRARIUS EST; SINGULIS VERO MOTIBUS, GENERATIONI QUIDEM CORRUPTIO, DIMINUTIO VERO CREMENTO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIONI SECUNDUM LOCUM QUIES. MAXIME AUTEM VIDETUR OPPONI IN CONTRARIUM LOCUM PERMUTATIO, UT DE EO QUOD EST DEORSUM AD ID QUOD EST SURSUM ET DE EO QUOD EST SURSUM AD ID QUOD EST DEORSUM. Nunc iam motuum contrarietates exsequitur, et ipsi 291D quidem generi, id est motui, dicit quietem esse contrariam, habet enim motus quietem contrariam. Singulis vero speciebus motuum motus ipsi contrarii sunt, ut generationi corruptio, et cum generatio sit motus atque corruptio, utraque tamen sibimet contraria sunt, cremento quoque diminutio contraria est. Quare diverso modo hae species motus contrarietstem habent, quam genus dudum babere monstravimus: motus enim ipse habet quietem contrariam. Specierum vero motibus non quies tantum sed alii motus contrarii sunt, ut generationi corruptio et cremento diminutio, secundum vero locum translationis contrarietas similis est generi. Nam et ipsa habet contrariam secundum locum quietem, contrarium namque est moveri de loco in locum, et 292A non moveri, et est non moveri quidem secundum locum quies, moveri vero secundum locum translation. Maxime autem, inquit, secundum locum mutationi, contraria est in contrarium locum permutatio. Ut si qua res sursum sit atque ibi maneat, et sit quieta, postea sit ei motus talis, ut deorsum moveatur, quamquam ipsi superiori motui quies contraria sit, multo magis quidem huiusmodi motus, qui in contrarium fit locum, illi superiori motui contrarius est. Atque hoc quidem et in aliis motibus accidit: ut si quis sit ad dexteram, si ei in sinistram motus sit, in contrarium locum factus dicitur motus. Atque hoc idem id aliis motibus licet videre; sed Aristoteles dubitat si reliquo motui, id est commutationi, aliquid possit esse contrarium, quam quaestionem ita proponit: RELIQUO VERO DE HIS QUI ASSIGNATI SUNT MOTUI NON EST FACILE ASSIGNARE QUID SIT CONTRARIUM, VIDETUR AUTEM NEQUE ESSE ALIQUID EI CONTRARIUM, NISI QUIS OPPONAT SECUNDUM QUALITATEM QUIETEM SECUNDUM QUALITATEM TRANSLATIONI QUAE IN CONTRARIUM, QUEMADMODUM ETIAM IN EA QUAE EST SECUNDUM LOCUM TRANSLATIONE SECUNDUM LOCUM QUIETEM VEL IN CONTRARIUM LOCUM TRANSLATIONEM (EST ENIM COMMUTATIO TRANSLATIO SECUNDUM QUALITATEM). Ex similitudine motuum contrarietates quoque colligimus. Nam quoniam superius motui secundum locum contrariam reperit secundum locum quietem, et quoniam omnis commutatio quae secundum aliquam passionem fit secundum qualitatem commutatur, 292C motus eius contrarietatem posuit secundum qualitatem quietem: ut si lapis cum frigidus est, si ita permaneat, qualitas illa mansit et quievit, quod si tepeat, qualitas illa commutat est, et est ipsa commutatio contraria, et factus est quidem motus, et in tepore lapidis secundum qualitatem facta est permutatio, fuit autem in frigore quies secundum eamdem qualitatem. Quocirca licet videatur hic motus quidem omnino contrarium non habere, tamen, sicut superius dictum est secundum locum translationi contrariam esse secundum locum quietem, cur non quoque secundum qualitatem commutationi dicatur quies secundum qualitatem esse contraria? Definitio namque commutationis est translatio secundum qualitatem, cum enim qualitas cuiuslibet rei movetur, fit translatio, scilicet secundum qualitatem. Quod si maxime videatur secundum locum translationi esse contraria, non solum secundum locum quies sed etiam in contrarium locum translatio, secundum qualitatem quoque mutationi non solum erit contraria secundum qualitatem quies sed maxime in contrariam qualitatem commutatio: ut ei quid cum est album, si rubrum fiat, quieti quidem ei quae in albo colore poterat permanere contraria fuit qualitatis ipsa mutatio, ut ex albo in rubrum mutaretur; si quid enim ex albo vertatur in nigrum, illud maxime permutatur, et illud superiori mutationi contrarium est, quoniam permutatum est in contrariam qualitatem. Atque hoc est quod ait: QUARE OPPONITUR EI SECUNDUM QUALITATEM QUIES VEL IN CONTRARIUM QUALITATIS TRANSLATIO, UT ALBUM FIERI QUOD EST NIGRUM; COMMUTATUR ENIM, IN CONTRARIUM QUALITATIS FACTA TRANSLATIONE. Id quoque apertissimo uulgatur exemplo. Quare quoniam de motibus expeditum est, habendi aequivocationem quae sequitur explicemus. DE MODIS HABERE HABERE SECUNDUM PLURES MODOS DICITUR AUT ENIM UT HABITUM VEL AFFECTIONEM VEL ALIAM ALIQUAM QUALITATEM (DICIMUR ENIM SCIENTIAM HABERE ET VIRTUTEM); AUT UT QUANTITATEM, UT QUAM QUISQUE HABET MAGNITUDINEM (DICITUR ENIM BICUBITAM VEL TRICUBITAM HABERE MAGNITUDINEM); AUT CIRCA CORPUS UESTITUM AUT TUNICAM; AUT IN PARTE (UT IN MANU ANULUM); AUT PARTEM (UT MANUM VEL PEDEM); AUT IN UASE (UT MODIUS TRITICUM VEL DOLIUM VINUM; VINUM ENIM DOLIUM HABERE DICITUR, ET MODIUS TRITICUM; HAEC IGITUR HABERE DICUNTUR UT IN VASE); VEL UT POSSESSIONEM (HABERE ENIM DOMUM VEL AGRUM DICIMUR). DICIMUR VERO ET HABERE UXOREM ET UXOR VIRUM; VIDETUR AUTEM ALIENISSIMUS ESSE HABENDI MODUS QUI NUNC DICTUS EST; NIHIL ENIM ALIUD HABERE UXOREM SIGNIFICAT QUAM COHABITARE. FORTASSE AUTEM ET ALII HABENDI MODI vidEBUNTUR; QUI AUTEM SOLENT DICI PAENE OMNES SUNT ANNUMERATI. Aequivocum esse habendi modum manifestum est, 293C habere enim ita multis dicitur modis, ut tamen aequivoce praedicetur. Dicimur enim habere aliquam qualitatem, ut habitum vel dispositionem. Dicimur quoque habere scientiam vel virtutem; quantitatem quoque habere perhibemur, dicimur enim in mensura habere quinque vel quattuor pedes. Necnon etiam in ipsis partibus corporis aliquid, et ipsas partes habere praedicamur, dicimur enim et habere digitos, et in digito annulos. Circa corpus quoque aliquid habere dicimur, ut tunicam, vel quodlibet aliud uestimentum. Necnon etiam in uase haberi aliquid dicitur, ut triticum in modio, et vinum in dolio; haec, scilicet, ita haberi dicuntur, ut in uase. Dicitur etiam quis habere uxorem, quae, scilicet significatio nulli supradictae communis est sed (ut ipsi Aristoteli videtur) longe diversa est haec significatio ab habendi praedicamento; non enim proprie habemus uxores sed quod habere quis dicatur uxorem, hoc significat habitare cum eo uxorem, habere enim habitare dicimus, ut est Socratem habent, id est cum Socrate habitant atque eum colunt. Quare ipse quoque Aristoteles inquit esse aliquos fortasse praeter eos qui dicantur habendi modos, hortaturque nos ad ulteriorem aliquam inquisitionem, ut nos quoque quaeramus per quos, praeter priores dictos modos, alios possit habere praedicari. Et de hac aequivocatione quidem habendi sufficienter dictum est. Sed forte quis dubitet cur cum habere superius in genere nominaverit, nunc id ipsum aequivocum ponat sed haec quaestio ita solvitur. Non absurdum est idem praedicamentum nunc univoce, nunc aequivoce praedicari. Univoce quidem ut superius cum eiusdem specierum exempla proposuit, ut est calceatum esse vel armatum, horum enim talium genus est. Aequivoce vero ut in his modis quos superius exposuimus. Quod si et habet aliquas proprias species habendi praedicatio, dicitur autem et ipsum nomen multipliciter, nihil est incongruum in genere numerari, sufficit enim ad demonstrandum genus esse et habendi praedicationem quod sub se aliquas partes speciesque contineat. EXPLICIT FELICITER.  Alexander in commentariis suis hac se impulsum causa pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis causa est quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam sumpserit seriem – nisi quod Vetius Praetextatus priores ƿ postremosque analyticos non vertendo Aristotelem Latino sermoni tradidit sed transferendo Themistium, quod qui utrosque legit facile intellegit; Albinus quoque de isdem rebus scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio, de dialectica vero diu multumque quaesitos reperire non valui, sive igitur ille omnino tacuit, nos praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos quoque docti viri imitati studium in eadem laude versabimur. Sed quamquam multa sint Aristotelis quae subtilissima philosophiae arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est. Quocirca plus hic quam in decem praedicamentis expositione sudabitur. Prius igitur quid vox sit definiendum est. Hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri patefiet intentio. Vox est aeris per linguam percussio quae per quasdam gutturis partes, quae arteriae vocantur, ab animali profertur. Sunt enim quidam alii soni, qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est tussis. Haec enim flatu fit quodam per arterias egrediente sed nulla linguae impressione formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo modo potest. Quocirca vox haec non dicitur sed tantum sonus. Illa quoque potest esse definitio vocis, ut eam dicamus sonum esse cum quadam imaginatione significandi. Vox namque cum emittitur, significationis alicuius causa profertur. Tussis vero cum sonus sit, nullius significationis causa subrepit ƿ potius quam profertur. Quare quoniam noster flatus ita sese habet ut si ita percutitur atque formatur ut eum lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat ut terminato quodam et circumscripto sono vox exeat, locutio fit quae Graece dicitur *lexis*. Locutio enim est articulata vox – neque enim hunc sermonem (id est *lexin*) dictionem dicemus, idcirco quod *phasin* dictionem interpretamur, *lexin* vero locutionem – cuius locutionis partes sunt litterae, quae cum iunctae fuerint unam efficiunt vocem coniunctam compositamque, quae locutio praedicatur. Sive autem aliquid quaecumque vox significet, ut est hic sermo 'homo'; sive omnino nihil; sive positum alicui nomen significare possit, ut est 'blityri' (haec enim vox per se cum nihil significet, posita tamen ut alicui nomen sit significabit); sive per se quidem nihil significet, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones – haec omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox composita quae litteris describatur. Ut igitur sit locutio, voce opus est – id est eo sono quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum qui inscribi litteris possit. Sed ut haec locutio significativa sit, illud quoque addi oportet, ut sit aliqua significandi imaginatio, per quam id quod in voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si in hoc flatu, quem per arterias emittimus, sit linguae sola percussio, vox est; sin vero talis percussio sit ut in litteras redigat sonum, locutio; quod si vis quoque quaedam imaginationis addatur, ƿ illa significativa vox redditur. Concurrentibus igitur his tribus: linguae percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione aliqua proferendi fit interpretatio. Interpretatio namque est vox articulata per se ipsam significans. Quocirca non omnis vox interpretatio est. Sunt enim caeterorum animalium voces, quae interpretationis vocabulo non tenentur. Nec omnis locutio interpretatio est, idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones quaedam quae significatione careant et cum per se quaedam non significent, iunctae tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. Interpretatio autem in solis per se significativis et articulatis vocibus permanet. Quare convertitur, ut quidquid sit interpretatio, illud significet, quidquid significat, interpretationis vocabulo nuncupetur. Unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos de poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones tradidit, quarum syllabae in eo quod sunt syllabae nihil omnino significant, coniunctiones vero consignificare quidem possunt, per se vero nihil designant. Interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quae scilicet per se ipsa significant, nihilominus quoque orationem, quae et ipsa cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret. Quare quoniam non de oratione sola sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola locutione sed etiam de significativa locutione quae est interpretatio hoc libro ab Aristotele tractatur, idcirco quoniam in ƿ verbis atque nominibus et in significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine eorum, de quibus hoc libro tractabitur, id est ab interpretatione, ipse quoque "De interpretatione" liber inscriptus est. (Cuius expositionem nos scilicet quam maxime a Porphyrio quamquam etiam a caeteris transferentes Latina oratione digessimus; hic enim nobis expositor et intellectus acumine et sententiarum dispositione videtur excellere.) Erunt ergo interpretationis duae primae partes nomen et verbum. His enim quidquid est in animi intellectibus designatur; his namque totus ordo orationis efficitur. Et in quantum vox ipsa quidem intellectus significat, in duas (ut dictum est) secatur partes, nomen et verbum, in quantum vero vox per intellectuum medietatem subiectas intellectui res demonstrat, significantium vocum Aristoteles numerum in decem praedicamenta partitus est. Atque hoc distat libri huius intentio a praedicamentorum in denariam multitudinem numerositate collecta, ut hic quidem tantum de numero significantium vocum quaeratur, quantum ad ipsas attinet voces, quibus significativis vocibus intellectus animi designentur, quae sunt scilicet simplicia quidem nomina et verba, ex his vero compositae orationes: praedicamentorum vero haec intentio est: de significativis rerum vocibus in tantum, quantum eas medius animi significet intellectus. Vocis enim quaedam qualitas est nomen et verbum, quae nimirum ipsa illa decem praedicamenta significant. Decem namque praedicamenta numquam sine aliqua verbi qualitate vel nominis proferentur. Quare erit libri huius intentio de significativis vocibus in tantum, quantum conceptiones ƿ animi intellectusque significent. De decem praedicamentis autem libri intentio in eius commentario dicta est, quoniam sit de significativis rerum vocibus, quot partibus distribui possit earum significatio in tantum, quantum per sensuum atque intellectuum medietatem res subiectas intellectibus voces ipsae valeant designare. In opere vero de poetica non eodem modo dividit locutionem sed omnes omnino locutionis partes apposuit confirmans esse locutionis partes elementa, syllabas, coniunctiones, articulos, nomina, casus, verba, orationes. Locutio namque non in solis significativis vocibus constat sed supergrediens significationes vocum ad articulatos sonos usque consistit. Quaelibet enim syllaba vel quodlibet nomen vel quaelibet alia vox, quae scribi litteris potest, locutionis nomine continetur, quae Graece dicitur *lexis*. Sed non eodem modo interpretatio. Huic namque non est satis, ut sit huiusmodi vox quae litteris valeat annotari sed ad hoc ut aliquid quoque significet. Praedicamentorum vero in hoc ratio constituta est, in quo hae duae partes interpretationis res intellectibus subiectas designent. Nam quoniam decem res omnino in omni natura reperiuntur, decem quoque intellectus erunt, quos intellectus quoniam verba nominaque significant, decem omnino erunt praedicamenta, quae verbis atque nominibus designentur, duo vero quaedam id est nomen et verbum, quae ipsos significent intellectus. Sunt igitur elementa interpretationis verba et nomina, propriae vero partes quibus ipsa constat interpretatio sunt orationes. Orationum vero aliae sunt perfectae, aliae imperfectae. Perfectae sunt ex quibus plene id quod dicitur valet intellegi; imperfectae in quibus aliquid adhuc plenius animus exspectat audire, ut est: Socrates cum Platone  nullo enim addito orationis intellectus pendet ac titubat et auditor aliquid ultra exspectat audire. Perfectarum vero orationum partes quinque sunt: deprecativa ut: Iuppiter omnipotens, precibus si flecteris ullis, Da deinde auxilium, pater atque haec omina firma  imperativa ut: Vade age, nate, voca Zephyros et labere pennis  interrogativa ut: Dic mihi, Damoeta, cuium pecus? An Meliboei?  vocativa: O pater, o hominum rerumque aeterna potestas  enuntiativa, in qua veritas vel falsitas invenitur, ut: Principio arboribus varia est natura serendis.  Huius autem duae partes sunt. Est namque et simplex oratio enuntiativa et composita. Simplex ut: ‘Dies est’, ‘Lucet’, conposita ut: ‘Si dies est, lux est.’ In hoc igitur libro Aristoteles de enuntiativa simplici oratione disputat et de eius elementis, nomine scilicet atque verbo. Quae quoniam et significativa sunt et significativa vox articulata interpretationis nomine continetur, de communi (ut dictum est) vocabulo librum de interpretatione appellavit. Et Theophrastus quidem in eo libro, quem de affirmatione et negatione composuit, de enuntiativa oratione tractavit. Et Stoici quoque in his libris, quos *Peri axiomaton* appellant, de isdem ƿ nihilominus disputant. Sed illi quidem et de simplici et de non simplici oratione enuntiativa speculantur, Aristoteles vero hoc libro nihil nisi de sola simplici enuntiativa oratione considerat. Aspasius quoque et Alexander sicut in aliis Aristotelis libris in hoc quoque commentarios ediderunt sed uterque Aristotelem de oratione tractasse pronuntiat. Nam si oratione aliquid proferre (ut aiunt ipsi) interpretari est, de interpretatione liber nimirum veluti de oratione perscriptus est, quasi vero sola oratio ac non verba quoque et nomina interpretationis vocabulo concludantur. Aeque namque et oratio et verba ac nomina, quae sunt interpretationis elementa, nomine interpretationis vocantur. Sed Alexander addidit imperfecte sese habere libri titulum: neque enim designare, de qua oratione perscripserit. Multae namque (ut dictum est) sunt orationes; sed adiciendum vel subintellegendum putat de oratione illum scribere philosophica vel dialectica, id est qua verum falsumque valeat expediri. Sed qui semel solam orationem interpretationis nomine vocari recipit, in intellectu quoque ipsius inscriptionis erravit. Cur enim putaret imperfectum esse titulum, quoniam nihil de qua oratione disputaret adiecerit? Ut si quis interrogans "Quid est homo?" alio respondente "Animal" culpet ac dicat imperfecte illum dixisse, quid sit, quoniam non sit omnes differentias persecutus. Quod si huic, id est homini, sunt quaedam alia communia ad nomen animalis, nihil tamen impedit perfecte demonstrasse, quid homo esset, eum qui animal dixit: sive enim differentias addat quis sive non, hominem animal esse necesse est. Eodem quoque modo et de oratione, si quis hoc concedat primum, nihil aliud interpretationem dici nisi orationem, ƿ cur qui de interpretatione inscripserit et de qua interpretatione dicat non addiderit culpetur, non est. Satis est enim libri titulum etiam de aliqua continenti communione fecisse, ut nos eum et de nominibus et verbis et de orationibus, cum haec omnia uno interpretationis nomine continerentur, supra fecisse docuimus, cum hic liber ab eo de interpretatione notatus est. Sed quod addidit illam interpretationem solam dici, qua in oratione possit veritas et falsitas inveniri, ut est enuntiativa oratio, fingentis est (ut ait Porphyrius) significationem nominis potius quam docentis. Atque ille quidem et in intentione libri et in titulo falsus est sed non eodem modo de iudicio quoque libri huius erravit. Andronicus enim librum hunc Aristotelis esse non putat, quem Alexander vere fortiterque redarguit. Quem cum exactum diligentemque Aristotelis librorum et iudicem et repertorem iudicarit antiquitas, cur in huius libri iudicio sit falsus, prorsus est magna admiratione dignissimum. Non esse namque proprium Aristotelis hinc conatur ostendere, quoniam quaedam Aristoteles in principio libri huius de intellectibus animi tractat, quos intellectus animae passiones vocavit, et de his se plenius in libris de anima disputasse commemorat. Et quoniam passiones animae vocabant vel tristitiam vel gaudium vel cupiditatem vel alias huiusmodi affectiones, dicit Andronicus ex hoc probari hunc librum Aristotelis non esse, quod de huiusmodi affectionibus nihil in libris de anima tractavisset – non intellegens in hoc libro Aristotelem passiones animae non pro affectibus sed pro intellectibus posuisse. His Alexander multa alia addit argumenta, cur hoc opus Aristotelis maxime esse videatur. Ea namque dicuntur hic, quae sententiis Aristotelis quae sunt de enuntiatione ƿ consentiant; illud quoque, quod stilus ipse propter brevitatem pressior ab Aristotelis obscuritate non discrepat; et quod Theophrastus, ut in aliis solet, cum de similibus rebus tractat, quae scilicet ab Aristotele ante tractata sunt, in libro quoque de affirmatione et negatione, isdem aliquibus verbis utitur, quibus hoc libro Aristoteles usus est. Idem quoque Theophrastus dat signum hunc esse Aristotelis librum: in omnibus enim, de quibus ipse disputat post magistrum, leviter ea tangit quae ab Aristotele dicta ante cognovit, alias vero diligentius res non ab Aristotele tractatas exsequitur. Hic quoque idem fecit. Nam quae Aristoteles hoc libro de enuntiatione tractavit, leviter ab illo transcursa sunt, quae vero magister eius tacuit, ipse subtiliore modo considerationis adiecit. Addit quoque hanc causam, quoniam Aristoteles quidem de syllogismis scribere animatus numquam id recte facere potuisset, nisi quaedam de propositionibus annotaret. Mihi quoque videtur hoc subtiliter perpendentibus liquere hunc librum ad Analyticos esse praeparatum. Nam sicut hic de simplici propositione disputat, ita quoque in Analyticis de simplicibus tantum considerat syllogismis, ut ipsa syllogismorum propositionumque simplicitas non ad aliud, nisi ad continens opus Aristotelis pertinere videatur. Quare non est audiendus Andronicus, qui propter passionum nomen hunc librum ab Aristotelis operibus separat. Aristoteles autem idcirco passiones animae 'intellectus' vocabat, quod intellectus, quos sermone dicere et oratione proferre consuevimus, ex aliqua causa atque utilitate profecti sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et legibus vellent esse subiecti civitatesque condere, utilitas quaedam fuit et causa. Quocirca ƿ quae ex aliqua utilitate veniunt, ex passione quoque provenire necesse est. Nam ut divina sine ulla sunt passione, ita nulla illis extrinsecus utilitas valet adiungi. Quae vero sunt passibilia semper aliquam causam atque utilitatem quibus sustententur inveniunt. Quocirca huiusmodi intellectus, qui ad alterum oratione proferendi sunt, quoniam ex aliqua causa atque utilitate videntur esse collecti, recte passiones animi nominati sunt. Et de intentione quidem et de libri inscriptione et de eo, quod hic maxime Aristotelis liber esse putandus est, haec dicta sufficiunt. Quid vero utilitatis habeat, non ignorabit qui sciet qua in oratione veritas constet et falsitas. In sola enim haec enuntiativa oratione consistunt. Iam vero quae dividant verum falsumque quaeue definite vel quae varie et mutabiliter veritatem falsitatemque partiantur, quae iuncta dici possint, cum separata valeant praedicari, quae separata dicantur, cum iuncta sint praedicata, quae sint negationes cum modo propositionum, quae earum consequentiae aliaque plura in ipso opere considerator poterit diligenter agnoscere, quorum magnam experietur utilitatem qui animum curae alicuius investigationis adverterit. Sed nunc ad ipsius Aristotelis verba veniamus. [BEGINNING OF SECTION THAT MIGNE SUBTITLES ‘SIGNUM’ -- Primum oportet CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM, POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO ET ENUNTIATIO ET ORATIO. Librum inchoans de quibus in omni serie tractaturus sit ante proposuit. Ait enim prius oportere de quibus disputaturus est definire. Hic enim CONSTITUERE "definire" intellegendum est. Determinandum namque est quid haec omnia sint – id est QUID NOMEN sit, QUID VERBUM et caetera, quae elementa interpretationis esse praediximus. Sed AFFIRMATIO atque NEGATIO sub interpretatione sunt. Quare nomen et verbum affirmationis et negationis elementa esse manifestum est. His enim compositis affirmatio et negatio coniunguntur. Exsistit hic quaedam quaestio cur duo tantum nomen et verbum se determinare promittat, cum plures partes orationis esse videantur. Quibus hoc dicendum est tantum Aristotelem hoc libro definisse, quantum illi ad id quod instituerat tractare suffecit. Tractat namque de simplici enuntiativa oratione, quae scilicet huiusmodi est ut iunctis tantum verbis et nominibus componatur. Si quis enim nomen iungat et verbum ut dicat: Socrates ambulat  simplicem fecit enuntiativam orationem. Enuntiativa namque oratio est (ut supra memoravi) quae habet in se falsi verique designationem. Sed in hoc quod dicimus "Socrates ambulat" aut veritas necesse est contineatur aut falsitas. Hoc enim si ambulante Socrate dicitur, verum est, si non ambulante, falsum. Perficitur ergo enuntiativa oratio simplex ex solis verbis atque nominibus. Quare superfluum est quaerere cur alias quoque quae videntur orationis partes non proposuerit, qui non totius simpliciter orationis sed tantum simplicis enuntiationis instituit elementa partiri. Quamquam duae propriae partes orationis esse dicendae sint, nomen scilicet atque verbum. Haec enim per sese utraque significant, coniunctiones autem vel praepositiones nihil omnino nisi cum aliis iunctae designant; participia verbo cognata sunt, vel quod a gerundivo modo ƿ veniant vel quod tempus propria significatione contineant; interiectiones vero atque pronomina necnon adverbia in nominis loco ponenda sunt, idcirco quod aliquid significant definitum, ubi nulla est vel passionis significatio vel actionis. Quod si casibus horum quaedam flecti non possunt, nihil impedit. Sunt enim quaedam nomina quae "monoptota" nominantur. Quod si quis ista longius et non proxime petita esse arbitretur, illud tamen concedit, quod supra iam diximus, non esse aequum calumniari ei, qui non de omni oratione sed de tantum simplici enuntiatione proponat, quod tantum sibi ad definitionem sumpserit, quantum arbitratus sit operi instituto sufficere. Quare dicendum est Aristotelem non omnis orationis partes hoc opere velle definire sed tantum solius simplicis enuntiativae orationis, quae sunt scilicet nomen et verbum. Argumentum autem huius rei hoc est. Postquam enim proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE, QUID SIT NOMEN ET QUID VERBUM, non statim inquit QUID SIT ORATIO sed mox addidit ET QUID SIT NEGATIO, QUID AFFIRMATIO, QUID ENUNTIATIO, postremo vero QUID ORATIO. Quod si de omni oratione loqueretur, post nomen et verbum non de affirmatione et negatione et post hanc de enuntiatione sed mox de oratione dixisset. Nunc vero quoniam post nominis et verbi propositionem affirmationem, negationem et enuntiationem et post orationem proposuit, confitendum est, id quod ante diximus, non orationis universalis sed simplicis enuntiativae orationis, quae dividitur in affirmationem atque negationem, divisionem partium facere voluisse, quae sunt nomina et verba. Haec enim per se ipsa intellectum simplicem servant, ƿ quae eadem dictiones vocantur sed non sola dicuntur. Sunt namque dictiones et aliae quoque: orationes vel imperfectae vel perfectae, cuius plures esse partes supra iam docui, inter quas perfectae orationis species est enuntiatio. Et haec quoque alia simplex, alia composita est. De simplicis vero enuntiationis speciebus inter philosophos commentatoresque certatur. Aiunt enim quidam affirmationem atque negationem enuntiationi ut species supponi oportere, in quibus et Porphyrius est; quidam vero nulla ratione consentiunt sed contendunt affirmationem et negationem aequivoca esse et uno quidem enuntiationis vocabulo nuncupari, praedicari autem enuntiationem ad utrasque ut nomen aequivocum, non ut genus univocum; quorum princeps Alexander est. Quorum contentiones apponere non videtur inutile. Ac prius quibus modis affirmationem atque negationem non esse species enuntiationis Alexander pPomba dicendum est, post vero addam qua Porphyrius haec argumentatione dissoluerit. Alexander namque idcirco dicit non esse species enuntiationis affirmationem et negationem, quoniam affirmatio prior sit. Priorem vero affirmationem idcirco conatur ostendere, quod omnis negatio affirmationem tollat ac destruat. Quod si ita est, prior est affirmatio quae subruatur quam negatio quae subruat. In quibus autem prius aliquid et posterius est, illa sub eodem genere poni non possum, ut in eo titulo praedicamentorum dictum est qui de his quae sunt simul inscribitur. Amplius: negatio omnis, inquit, divisio est, affirmatio compositio atque coniunctio. Cum enim dico: Socrates vivit  vitam cum Socrate coniunxi; cum dico: Socrates non vivit  vitam a Socrate disiunxi. Divisio igitur quaedam negatio est, coniunctio affirmatio. Compositi autem est coniunctique ƿ divisio. Prior est igitur coniunctio, quod est affirmatio; posterior vero divisio, quod est negatio. Illud quoque adicit, quod omnis per affirmationem facta enuntiatio simplicior sit per negationem facta enuntiatione. Ex negatione enim particula negative si sublata sit, affirmatio sola relinquitur. De eo enim quod est: Socrates non vivit  si non particula quae est adverbium auferatur, remanet Socrates vivit. Simplicior igitur affirmatio est quam negatio. Prius vero sit necesse est quod simplicius est. In quantitate etiam quod ad quantitatem minus est prius est eo quod ad quantitatem plus est. Omnis vero oratio quantitas est. Sed cum dico: Socrates ambulat  minor oratio est quam cum dico: Socrates non ambulat. Quare si secundum quantitatem affirmatio minor est, eam priorem quoque esse necesse est. Illud quoque adiunxit affirmationem quendam esse habitum, negationem vero privationem. Sed prior habitus privatione: affirmatio igitur negatione prior est. Et ne singula persequi laborem, cum aliis quoque modis demonstraret affirmationem negatione esse priorem, a communi eas genere separavit. Nullas enim species arbitratur sub eodem genere esse posse, in quibus prius vel posterius consideretur. Sed Porphyrius ait sese docuisse species enuntiationis esse affirmationem et negationem in his commentariis quos in Theophrastum edidit; hic vero Alexandri argumentationem tali ratione dissolvit. Ait enim non oportere arbitrari, quaecumque quolibet modo priora essent aliis, ea sub eodem genere poni non posse sed quaecumque secundum esse unum atque substantiam priora vel posteriora sunt, ea sola sub eodem genere non ponuntur. Et recte dicitur. Si enim omne quidquid ƿ prius est cum eo quod posterius est sub uno genere esse non potest, nec primis substantiis et secundis commune genus poterit esse substantia; quod qui dicit a recto ordine rationis exorbitat. Sed quemadmodum quamquam sint primae et secundae substantiae, tamen utraque aequaliter in subiecto non sunt et idcirco esse ipsorum ex eo pendet, quod in subiecto non sunt, atque ideo sub uno substantiae genere collocantur: ita quoque quamquam affirmationes negationibus in orationis prolatione priores sint, tamen ad esse atque ad naturam propriam aequaliter enuntiatione participant. Enuntiatio vero est in qua veritas et falsitas inveniri potest. Qua in re et affirmatio et negatio aequales sunt. Aequaliter enim et affirmatio et negatio veritate et falsitate participant. Quocirca quoniam id quod sunt affirmatio et negatio aequaliter ab enuntiatione participant, a communi eas enuntiationis genere dividi non oportet. Mihi quoque videtur quod Porphyrii sit sequenda sententia, ut affirmatio et negatio communi enuntiationis generi supponantur. Longa namque illa et multiplicia Alexandri argumenta soluta sunt, cum demonstravit non modis omnibus ea quae priora sunt sub communi genere poni non posse sed quae ad esse proprium atque substantiam priora sunt illa sola sub communi genere constitui atque poni non posse. Syrianus vero, cui Philoxenus cognomen est, hoc loco quaerit cur proponens prius de negatione, post de affirmatione pronuntiaverit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM, POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO. Et primum quidem nihil proprium dixit quoniam in quibus et affirmatio ƿ potest et negatio provenire, prius esse negatio, postea vero affirmatio potest, ut de Socrate sanus est. Potest ei aptari talis affirmatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus est  etiam huiusmodi potest aptari negatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus non est. Quoniam ergo in eum affirmatio et negatio poterit evenire prius evenit ut sit negatio quam ut affirmatio. Ante enim quam natus esset: qui enim natus non erat, nec esse poterat sanus. Huic illud adiecit: servare Aristotelem conversam propositionis et exsecutionis distributionem. Hic enim prius post nomen et verbum de negatione proposuit, post de affirmatione, dehinc de enuntiatione, postremo vero de oratione sed proposita definiens prius orationem, post enuntiationem, tertio affirmationem, ultimo vero loco negationem determinavit, quam hic post propositionem verbi et nominis primam locaverat. Ut igitur ordo servaretur conversus, idcirco negationem prius ait esse propositam. Qua in expositione Alexandri quoque sententia non discedit. Illud quoque est additum, quod non esset inutile, enuntiationem genus affirmationis et negationis accipi oportere, quod quamquam (ut dictum est) ad prolationem prior esset affirmatio, tamen ad ipsam enuntiationem id est veri falsique vim utrasque aequaliter sub enuntiatione ab Aristotele constitui. Id etiam Aristotelem probare. Praemisit enim primam negationem, secundam posuit affirmationem, quae res nihil habet vitii, si ad ipsam enuntiationem affirmatio et negatio ponantur aequales. Quae enim natura aequales sunt, nihil retinent contrarii indifferenter acceptae. Est igitur ordo quo proposuit: primum totius orationis ƿ elementum, nomen scilicet et verbum, post haec negationem et affirmationem, quae species enuntiationis sunt. Quorum genus (id est enuntiationem) tertiam nominavit, quartam vero orationem posuit, quae ipsius enuntiationis genus est. Et horum se omnium definitiones daturum esse promisit, quas interim relinquens atque praeteriens et in posteriorem tractatum differens illud nunc addit quae sint verba et nomina aut quid ipsa significent. Quare antequam ad verba Aristotelis ipsa veniamus, pauca communiter de nominibus atque verbis et de his quae significantur a verbis ac nominibus disputemus. Sive enim quaelibet interrogatio sit atque responsio, sive perpetua cuiuslibet orationis continuatio atque alterius auditus et intellegentia, sive hic quidem doceat ille vero discat, tribus his totus orandi ordo perficitur: rebus, intellectibus, vocibus. Res enim ab intellectu concipitur, vox vero conceptiones animi intellectusque significat, ipsi vero intellectus et concipiunt subiectas res et significantur a vocibus. Cum igitur tria sint haec per quae omnis oratio collocutioque perficitur, res quae subiectae sunt, intellectus qui res concipiant et rursus a vocibus significentur, voces vero quae intellectus designent, quartum quoque quiddam est, quo voces ipsae valeant designari, id autem sunt litterae. Scriptae namque litterae ipsas significant voces. Quare quatuor ista sunt, ut litterae quidem significent voces, voces vero intellectus, intellectus autem concipiant res, quae scilicet habent quandam non confusam neque fortuitam consequentiam sed terminata naturae suae ordinatione constant. Res enim semper comitantur eum qui ab ipsis concipitur intellectum, ipsum vero intellectum vox sequitur sed voces elementa id est ƿ litterae. Rebus enim ante propositis et in propria substantia constitutis intellectus oriuntur. Rerum enim semper intellectus sunt, quibus iterum constitutis mox significatio vocis exoritur. Praeter intellectum namque vox penitus nihil designat. Sed quoniam voces sunt, idcirco litterae, quas vocamus elementa, repertae sunt quibus vocum qualitas designetur. Ad cognitionem vero conversim sese res habet. Namque apud quos eaedem sunt litterae et qui eisdem elementis utuntur, eisdem quoque nominibus eos ac verbis (id est vocibus) uti necesse est; et qui vocibus eisdem utuntur idem quoque apud eos intellectus in animi conceptione versantur. Sed apud quos idem intellectus sunt, easdem res eorum intellectibus subiectas esse manifestum est. Sed hoc nulla ratione convertitur. Namque apud quos eaedem res sunt idemque intellectus, non statim eaedem voces eaedemque sunt litterae. Nam cum Romanus, Graecus ac barbarus simul videant equum, habent quoque de eo eundem intellectum quod equus sit et apud eos eadem res subiecta est, idem a re ipsa concipitur intellectus sed Graecus aliter equum vocat, alia quoque vox in equi significatione Romana est et barbarus ab utroque in equi designatione dissentit. Quocirca diversis quoque voces proprias elementis inscribunt. Recte igitur dictum est apud quos eaedem res idemque intellectus sunt, non statim apud eos vel easdem voces vel eadem elementa consistere. Praecedit autem res intellectum, intellectus vero vocem, vox litteras – sed hoc converti non potest. Neque enim si litterae sint, mox aliqua ex his significatio vocis exsistit. Hominibus namque qui litteras ignorant nullum nomen quaelibet elementa significant, quippe quae nesciunt. Nec si voces ƿ sint, mox intellectus esse necesse est. Plures enim voces invenies quae nihil omnino significent. Nec intellectui quoque subiecta res semper est. Sunt enim intellectus sine re ulla subiecta, ut quos centauros vel chimaeras poetae finxerunt. Horum enim sunt intellectus quibus subiecta nulla substantia est. Sed si quis ad naturam redeat eamque consideret diligenter, agnoscet cum res est, eius quoque esse intellectum quod si non apud homines, certe apud eum, qui propriae divinitate substantiae in propria natura ipsius rei nihil ignorat. Et si est intellectus, et vox est quod si vox fuerit, eius quoque sunt litterae, quae si ignorantur, nihil ad ipsam vocis naturam. Neque enim, quasi causa quaedam vocum est intellectus aut vox causa litterarum, ut cum eaedem sint apud aliquos litterae, necesse sit eadem quoque esse nomina: ita quoque cum eaedem sint vel res vel intellectus apud aliquos, mox necesse est intellectuum ipsorum vel rerum eadem esse vocabula. Nam cum eadem sit et res et intellectus hominis, apud diversos tamen homines huiusmodi substantia aliter et diverso nomine nuncupatur. Quare voces quoque cum eaedem sint, possunt litterae esse diversae, ut in hoc nomine quod est 'homo': cum unum sit nomen diversis litteris scribi potest. Namque Latinis litteris scribi potest, potest etiam Graecis, potest aliis nunc primum inventis litterarum figuris. Quare quoniam apud quos eaedem res sunt, eosdem intellectus esse necesse est, apud quos idem intellectus sunt, voces eaedem non sunt; et apud quos eaedem voces sunt, non necesse ƿ est eadem elementa constitui – dicendum est res et intellectus, quoniam apud omnes idem sunt, esse naturaliter constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis hominum positionibus permutantur non esse naturaliter sed positione. Concludendum est igitur quoniam apud quos eadem sunt elementa, apud eos eaedem quoque voces sunt et apud quos eaedem voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque eaedem subiectae sunt: rursus apud quos eaedem res sunt, idem quoque sunt intellectus; apud quos idem intellectus, non eaedem voces; nec apud quos eaedem voces sunt, eisdem semper litteris verba ipsa vel nomina designantur. Sed nos in supra dictis sententiis elemento atque littera promiscue usi sumus, quae autem sit horum distantia paucis absolvam. Littera est inscriptio atque figura partis minimae vocis articulatae, elementum vero sonus ipsius inscriptionis: ut cum scribo litteram quae est 'a', formula ipsa quae atramento vel graphio scribitur littera nominatur, ipse vero sonus quo ipsam litteram voce proferimus dicitur elementum. Quocirca hoc cognito illud dicendum est, quod is qui docet vel qui continua oratione loquitur vel qui interrogat, contrarie se habet his qui vel discunt vel audiunt vel respondent in his tribus, voce scilicet, intellectu et re (praetermittantur enim litterae propter eos qui earum sunt expertes). Nam qui docet et qui dicit et qui interrogat a rebus ad intellectum profecti per nomina et verba vim propriae actionis exercent atque officium (rebus enim subiectis ab his capiunt intellectus et per nomina verbaque ƿ pronuntiant), qui vero discit vel qui audit vel etiam qui respondet a nominibus ad intellectus progressi ad res usque perveniunt. Accipiens enim is qui discit vel qui audit vel qui respondet docentis vel dicentis vel interrogantis sermonem, quid unusquisque illorum dicat intellegit et intellegens rerum quoque scientiam capit et in ea consistit. Recte igitur dictum est in voce, intellectu atque re contrarie sese habere eos qui docent, dicunt, interrogant atque eos qui discunt, audiunt et respondent. Cum igitur haec sint quatuor – litterae, voces, intellectus, res – proxime quidem et principaliter litterae verba nominaque significant. Haec vero principaliter quidem intellectus, secundo vero loco res quoque designant. Intellectus vero ipsi nihil aliud nisi rerum significativi sunt. Antiquiores vero quorum est Plato, Aristoteles, Speusippus, Xenocrates hi inter res et significationes intellectuum medios sensus ponunt in sensibilibus rebus vel imaginationes quasdam, in quibus intellectus ipsius origo consistat. Et nunc quidem quid de hac re Stoici dicant praetermittendum est. Hoc autem ex his omnibus solum cognosci oportet, quod ea quae sunt in litteris eam significent orationem quae in voce consistit et ea quae est vocis oratio quod animi atque intellectus orationem designet quae tacita cogitatione conficitur, et quod haec intellectus oratio subiectas principaliter res sibi concipiat ac designet. Ex quibus quatuor duas quidem Aristoteles esse naturaliter dicit, res et animi conceptiones, id est eam quae fit in intellectibus orationem, idcirco quod apud omnes eaedem atque immutabiles sint; ƿ duas vero non naturaliter sed positione constitui, quae sunt scilicet verba nomina et litterae, quas idcirco naturaliter fixas esse non dicit, quod (ut supra demonstratum est) non eisdem vocibus omnes aut isdem utantur elementis. Atque hoc est quod ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM. QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. DE HIS QUIDEM DICTUM EST IN HIS QUAE SUNT DICTA DE ANIMA, ALTERIUS EST ENIM NEGOTII. Cum igitur prius posuisset nomen et verbum et quaecumque secutus est postea se definire promisisset, haec interim praetermittens de passionibus animae deque earum notis, quae sunt scilicet voces, pauca praemittit. Sed cur hoc ita interposuerit, plurimi commentatores causas reddere neglexerunt sed a tribus quantum adhuc sciam ratio huius interpositionis explicita est. Quorum Hermini quidem a rerum veritate longe disiuncta est. Ait enim idcirco Aristotelen de notis animae passionum interposuisse sermonem, ut utilitatem propositi operis inculcaret. Disputaturus enim de vocibus, quae sunt notae animae passionum, recte de his quaedam ante praemisit. Nam cum suae nullus animae passiones ignoret, notas quoque cum animae passionibus non nescire utilissimum est. Neque enim illae cognosci possunt nisi per voces quae sunt ƿ earum scilicet notae. Alexander vero aliam huiusmodi interpositionis reddidit causam. Quoniam, inquit, verba et nomina interpretatione simplici continentur, oratio vero ex verbis nominibusque coniuncta est et in ea iam veritas aut falsitas invenitur, sive autem quilibet sermo sit simplex sive iam oratio coniuncta atque composita ex his quae significant momentum sumunt (in illis enim prius est eorum ordo et continentia, post redundat in voces): quocirca quoniam significantium momentum ex his quae significantur oritur, idcirco prius nos de his quae voces ipsae significant docere proponit. Sed Herminus hoc loco repudiandus est. Nihil enim tale quod ad causam propositae sententiae pertineret explicuit. Alexander vero strictim proxima intellegentia praeteruectus tetigit quidem causam, non tamen principalem rationem Aristotelicae propositionis exsolvit. Sed Porphyrius ipsam plenius causam originemque sermonis huius ante oculos collocavit, qui omnem apud priscos philosophos de significationis vi contentionem litemque retexuit. Ait namque dubie apud antiquorum philosophorum sententias constitisse quid esset proprie quod vocibus significaretur. Putabant namque alii res vocibus designari earumque vocabula esse ea quae sonarent in vocibus arbitrabantur. Alii vero incorporeas quasdam naturas meditabantur, quarum essent significationes quaecumque vocibus designarentur: Platonis aliquo modo species incorporeas aemulati dicentis hoc ipsum homo et hoc ipsum equus non hanc cuiuslibet subiectam substantiam sed illum ipsum hominem specialem et illum ipsum equum, universaliter et incorporaliter cogitantes ƿ incorporales quasdam naturas constituebant, quas ad significandum primas venire putabant et cum aliis item rebus in significationibus posse coniungi, ut ex his aliqua enuntiatio vel oratio conficeretur. Alii vero sensus, alii imaginationes significari vocibus arbitrabantur. Cum igitur ista esset contentio apud superiores et haec usque ad Aristotelis pervenisset aetatem, necesse fuit qui nomen et verbum significativa esset definiturus praediceret quorum ista designativa sint. Aristoteles enim nominibus et verbis res subiectas significari non putat, nec vero sensus vel etiam imaginationes. Sensuum quidem non esse significativas voces nomina et verba in opere de iustitia sic declarat dicens: *phusei gar euthus dieretai ta te noemata kai ta aisthemata*  quod interpretari Latine potest hoc modo: Natura enim divisa sunt intellectus et sensus. Differre igitur aliquid arbitratur sensum atque intellectum. Sed qui passiones animae a vocibus significari dicit, is non de sensibus loquitur. Sensus enim corporis passiones sunt. Si igitur ita dixisset passiones corporis a vocibus significari, tunc merito sensus intellegeremus. Sed quoniam passiones animae nomina et verba significare proposuit, non sensus sed intellectus eum dicere putandum est. Sed quoniam imaginatio quoque res animae est, dubitaverit aliquis ne forte passiones animae imaginationes, ƿ quas Graeci *phantasias* nominant, dicat. Sed haec in libris De anima verissime diligentissimeque separavit, dicens:*estin de phantasia heteron phaseos kai apophaseos; symploke gar noematon estin to alethes kai to pseudos. ta de prota noemata ti dioisei tou me phantasmata einai; e houde tauta phantasmata, all' ouk aneu phantasmaton.* quod sic interpretamur: Est autem imaginatio diversa affirmatione et negatione; complexio namque intellectuum est veritas et falsitas. Primi vero intellectus quid discrepabunt, ut non sint imaginationes? An certe neque haec sunt imaginationes sed sine imaginationibus non sunt. Quae sententia demonstrat aliud quidem esse imaginationes, aliud intellectus; ex intellectuum quidem complexione affirmationes fieri et negationes: quocirca illud quoque dubitavit, utrum primi intellectus imaginationes quaedam essent. Primos autem intellectus dicimus qui simplicem rem concipiunt, ut si qui dicat "Socrates" solum dubitatque utrum huiusmodi intellectus, qui in se nihil neque veri continet neque falsi, intellectus sit an ipsius Socratis imaginatio. Sed de hoc quoque aperte quid videretur ostendit. Ait enim an certe neque haec sunt imaginationes sed non sine imaginationibus sunt – id est quod hic sermo significat qui est "Socrates" vel alius simplex non est quidem imaginatio sed intellectus, qui intellectus praeter imaginationem fieri non potest. Sensus enim atque imaginatio ƿ quaedam primae figurae sunt, supra quas velut fundamento quodam superveniens intellegentia nitatur. Nam sicut pictores solent designare lineatim corpus atque substernere ubi coloribus cuiuslibet exprimant uultum, sic sensus atque imaginatio naturaliter in animae perceptione substernitur. Nam cum res aliqua sub sensum vel sub cogitationem cadit, prius eius quaedam necesse est imaginatio nascatur, post vero plenior superveniat intellectus cunctas eius explicans partes quae confuse fuerant imaginatione praesumptae. Quocirca imperfectum quiddam est imaginatio, nomina vero et verba non curta quaedam sed perfecta significant. Quare recta Aristotelis sententia est: quaecumque in verbis nominibusque versantur, ea neque sensus neque imaginationes sed solam significare intellectuum qualitatem. Unde illud quoque ab Aristotele fluentes Peripatetici rectissime posuerunt tres esse orationes, unam quae scribi possit elementis, alteram quae voce proferri, tertiam quae cogitatione conecti unamque intellectibus, alteram voce, tertiam litteris contineri. Quocirca quoniam id quod significaretur a vocibus intellectus esse Aristoteles putabat, nomina vero et verba significativa esse in eorum erat definitionibus positurus, recte quorum essent significativa praedixit erroremque lectoris ex multiplici ueterum lite venientem sententiae suae manifestatione compescuit. Atque hoc modo nihil in eo deprehenditur esse superfluum, nihil ab ordinis continuatione seiunctum. Quaerit vero Porphyrius, cur ita dixerit: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE, et non sic: sunt ƿ igitur voces; et rursus cur ita et ea quae scribuntur et non dixerit: et litterae. Quod resolvit hoc modo. Dictum est tres esse apud Peripateticos orationes, unam quae litteris scriberetur, aliam quae proferretur in voce, tertiam quae coninugeretur in animo. Quod si tres orationes sunt, partes quoque orationis esse triplices nulla dubitatio est. Quare quoniam verbum et nomen principaliter orationis partes sunt, erunt alia verba et nomina quae scribantur, alia quae dicantur, alia quae tacita mente tractentur. Ergo quoniam proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, triplex autem nominum natura est atque verborum, de quibus potissimum proposuerit et quae definire velit ostendit. Et quoniam de his nominibus loquitur ac verbis, quae voce proferuntur, idem ipsum planius explicans ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE, velut si diceret: ea verba et nomina quae in vocali oratione proferuntur animae passiones denuntiant, illa autem rursus verba et nomina quae scribuntur eorum verborum nominumque significantiae praesunt quae voce proferuntur. Nam sicut vocalis orationis verba et nomina conceptiones animi intellectusque significant, ita quoque verba et nomina illa quae in solis litterarum formulis iacent illorum verborum et nominum significativa sunt quae loquimur, id est quae per vocem sonamus nam quod ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE; subaudiendum est verba et nomina. Et rursus cum dicit: ET EA QUAE SCRIBUNTUR, idem subuectendum rursus est verba scilicet vel nomina. Et quod rursus ƿ adiecit: eorum quae sunt in voce, addendum eorum nomimum atque verborum quae profert atque explicat vocalis oratio. Quod si nihil deesset omnino, ita foret totius plenitudo sententiae: sunt ergo ea verba et nomina quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea verba et nomina quae scribuntur eorum verborum et nominum quae sunt in voce. Quod communiter intellegendum est, licet ea quae subiunximus deesse videantur. Quare non est disiuncta sententia sed primae propositioni continua. Nam cum quid sit verbum, quid nomen definire constituit, cum nominis et verbi natura sit multiplex, de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione distinxit. Incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quae in voce sunt, quorum essent significativa disseruit. Ait enim haec passiones animae designare. Illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quae in voce sunt designentur, his scilicet quae litterarum formulis exprimuntur. Sed quoniam non omnis vox significativa est, verba vero vel nomina numquam significationibus uacant quoniamque non omnis vox quae significat quaedam positione designat sed quaedam naturaliter, ut lacrimae, gemitus atque maeror (animalium quoque caeterorum quaedam voces naturaliter aliquid ostentant, ut ex canum latratibus iracundia eorumque alia quadam voce blandimenta monstrantur), verba autem et nomina positione significant neque solum sunt verba et nomina voces sed voces significativae nec solum significativae sed etiam quae positione designent aliquid, non natura: non dixit: sunt igitur voces earum quae sunt in anima passionum notae. Namque neque omnis vox significativa ƿ est et sunt quaedam significativae quae naturaliter non positione significent. Quod si ita dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret. Quocirca noluit communiter dicere voces sed dixit tantum ea quae sunt in voce. Vox enim universale quiddam est, nomina vero et verba partes. Pars autem omnis in toto est. Verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quae sunt in voce, velut si diceret: quae intra vocem continentur intellectuum designativa sunt. Sed hoc simile est ac si ita dixisset: vox certo modo sese habens significat intellectus. Non enim (ut dictum est) nomen et verbum voces tantum sunt. Sicut nummus quoque non solum aes impressum quadam figura est, ut nummus vocetur sed etiam ut alicuius rei sit pretium: eodem quoque modo verba et nomina non solum voces sunt sed positae ad quandam intellectuum significationem. Vox enim quae nihil designat, ut est garalus, licet eam grammatici figuram vocis intuentes nomen esse contendant, tamen eam nomen philosophia non putabit, nisi sit posita ut designare animi aliquam conceptionem eoque modo rerum aliquid possit. Etenim nomen alicuius nomen esse necesse erit; sed si vox aliqua nihil designat, nullius nomen est; quare si nullius est, ne nomen quidem esse dicetur. Atque ideo huiusmodi vox id est significativa non vox tantum sed verbum vocatur aut nomen, quemadmodum nummus non aes sed proprio nomine nummus, quo ab alio aere discrepet, nuncupatur. Ergo haec Aristotelis sententia qua ait ea quae sunt in voce nihil aliud designat nisi eam vocem, quae non solum vox sit sed quae cum vox sit habeat tamen aliquam proprietatem et ƿ aliquam quodammodo figuram positae signicationis impressam. Horum vero id est verborum et nominum quae sunt in voce aliquo modo se habente ea sunt scilicet significativa quae scribuntur, ut hoc quod dictum est quae scribuntur de verbis ac nominibus dictum quae sunt in litteris intellegatur. Potest vero haec quoque esse ratio cur dixerit et quae scribuntur: quoniam litteras et inscriptas figuras et voces, quae isdem significantur formulis, nuncupamus (ut a et ipse sonus litterae nomen capit et illa quae in subiecto cerae vocem significans forma describitur), designare volens, quibus verbis atque nominibus ea quae in voce sunt apparerent, non dixit litteras, quod ad sonos etiam referri potuit litterarum sed ait quae scribuntur, ut ostenderet de his litteris dicere quae in scriptione consisterent id est quarum figura vel in cera stilo vel in membrana calamo posset effingi. Alioquin illa iam quae in sonis sunt ad ea nomina referuntur quae in voce sunt, quoniam sonis illis nomina et verba iunguntur. Sed Porphyrius de utraque expositione iudicavit dicens: id quod ait ET QUAE SCRIBUNTUR non potius ad litteras sed ad verba et nomina quae posita sunt in litterarum inscriptione referendum. Restat igitur ut illud quoque addamus, cur non ita dixerit: sunt ergo ea quae sunt in voces intellectuum notae sed ita earum quae sunt in anima passionum notae. Nam cum ea quae sunt in voce res intellectusque significent, principaliter quidem intellectus, res vero quas ipsa intellegentia comprehendit secundaria significatione per intellectuum medietatem, intellectus ipsi non sine quibusdam passionibus sunt, quae in animam ex subiectis veniunt rebus. Passus enim quilibet eius rei proprietatem, ƿ quam intellectu complectitur, ad eius enuntiationem designationemque contendit. Cum enim quis aliquam rem intellegit, prius imaginatione formam necesse est intellectae rei proprietatemque suscipiat et fiat vel passio vel cum passione quadam intellectus perceptio. Hac vero posita atque in mentis sedibus collocata fit indicandae ad alterum passionis voluntas, cui actus quidam continuandae intellegentiae protinus ex intimae rationis potestate supervenit, quem scilicet explicat et effundit oratio nitens ea quae primitus in mente fundata est passione, sive, quod est verius, significatione progressa oratione progrediente simul et significantis se orationis motibus adaequante. Fit vero haec passio velut figurae alicuius impressio sed ita ut in animo fieri consuevit. Aliter namque naturaliter inest in re qualibet propria figura, aliter vero eius ad animum forma transfertur, velut non eodem modo cerae vel marmori vel chartis litterae id est vocum signa mandantur. Et imaginationem Stoici a rebus in animam translatam loquuntur sed cum adiectione semper dicentes ut in anima. Quocirca cum omnis animae passio rei quaedam videatur esse proprietas, porro autem designativae voces intellectuum principaliter, rerum dehinc a quibus intellectus profecti sunt significatione nitantur, quidquid est in vocibus significativum, id animae passiones designat. Sed hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur. Videns ƿ namque aliquis sphaeram vel quadratum vel quamlibet aliam rerum figuram eam in animi intellegentia quadam vi ac similitudine capit. Nam qui sphaeram viderit, eius similitudinem in animo perpendit et cogitat atque eius in animo quandam passus imaginem id cuius imaginem patitur agnoscit. Omnis vero imago rei cuius imago est similitudinem tenet: mens igitur cum intellegit, rerum similitudinem comprehendit. Unde fit ut, cum duorum corporum maius unum, minus alterum contuemur, a sensu postea remotis corporibus illa ipsa corpora cogitantes illud quoque memoria servante noverimus sciamusque quod minus, quod vero maius corpus fuisse conspeximus, quod nullatenus eveniret, nisi quas semel mens passa est rerum similitudines optineret. Quare quoniam passiones animae quas intellectus vocavit rerum quaedam similitudines sunt, idcirco Aristoteles, cum paulo post de passionibus animae loqueretur, continenti ordine ad similitudines transitum fecit, quoniam nihil differt utrum passiones diceret an similitudines. Eadem namque res in anima quidem passio est, rei vero similitudo. Et Alexander hunc locum: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM hoc modo conatur exponere: proposuit, inquit, ea quae sunt in voce intellectus animi designare et hoc alio probat exemplo. Eodem modo enim ea quae sunt in voce passiones animae significant, quemadmodum ea quae scribuntur voces designant, ut id quod ait et ea quae ƿ scribuntur ita intellegamus, tamquam si diceret: quemadmodum etiam ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. Ea vero quae scribuntur, inquit Alexander, notas esse vocum id est nominum ac verborum ex hoc monstravit quod diceret et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Signum namque est vocum ipsarum significationem litteris contineri, quod ubi variae sunt litterae et non eadem quae scribuntur varias quoque voces esse necesse est. Haec Alexander. Porphyrius vero quoniam tres proposuit orationes, unam quae litteris contineretur, secundam quae verbis ac nominibus personaret, tertiam quam mentis euolueret intellectus, id Aristotelem significare pronuntiat, cum dicit: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE, quod ostenderet si ita dixisset: sunt ergo ea quae sunt in voce et verba et nomina animae passionum notae. Et quoniam monstravit quorum essent voces significativae, illud quoque docuisse quibus signis verba vel nomina panderentur ideoque addidisse et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce, tamquam si diceret: ea quae scribuntur verba et nomina eorum quae sunt in voce verborum et nominum notae sunt. Nec disiunctam esse sententiam nec (ut Alexander putat) id quod ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita intellegendum, tamquam si diceret: sicut ea quae scribuntur id est litterae illa quae sunt in voce significant, ita ea quae sunt in voce notas esse animae passionum. Primo quod ad simplicem sensum nihil addi oportet, deinde tam brevis ordo tamque necessaria orationis non est intercidenda partitio, tertium vero quoniam, si similis significatio est litterarum vocumque, ƿ quae est vocum et animae passionum, oportet sicut voces diversis litteris permutantur, ita quoque passiones animae diversis vocibus permutari, quod non fit. Idem namque intellectus variatis potest vocibus significari. Sed Alexander id quod eum superius sensisse memoravi hoc probare nititur argumento. Ait enim etiam in hoc quoque similem esse significationem litterarum ac vocum, quoniam sicut litterae non naturaliter voces sed positione significant, ita quoque voces non naturaliter intellectus animi sed aliqua positione designant. Sed qui prius recepit, ut id quod Aristoteles ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita dictum esset, tamquam si diceret: sicut ea quae scribuntur, quidquid ad hanc sententiam videtur adiungere, aequaliter non dubitatur errare. Quocirca nostro indicio qui rectius tenere volent Porphyrii se sententiis applicabunt. Aspasius quoque secundae sententiae Alexandri, quam supra posuimus, valde consentit, qui a nobis in eodem quo Alexander errore culpabitur. Aristoteles vero duobus modis esse has notas putat litterarum, vocum passionumque animae constitutas: uno quidem positione, alio vero naturaliter. Atque hoc est quod ait: et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Nam si litterae voces, ipsae vero voces intellectus animi naturaliter designarent, omnes homines isdem litteris, isdem etiam vocibus uterentur. Quod quoniam apud omnes neque eaedem litterae neque eacdem voces sunt, constat eas non esse naturales.Sed hic duplex lectio est. Alexander enim hoc modo legi putat oportere: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM EAEDEM SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. Volens enim Aristoteles ea quae positione significant ab his quae aliquid designant naturaliter segregare hoc interposuit: ea quae positione significant varia esse, ea vero quae naturaliter apud omnes eadem. Et inchoans quidem a vocibus ad litteras venit easque primo non esse naturaliter significativas demonstrat dicens: ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM. Nam si idcirco probantur litterae non esse naturaliter significantes, quod apud alios aliae sint ac diversae, eodem quoque modo probabile erit voces quoque non naturaliter significare, quoniam singulae hominum gentes non eisdem inter se vocibus colloquantur. Volens vero similitudinem intellectuum rerumque subiectarum docere naturaliter constitutam ait: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE. Quorum, inquit, voces quae apud diversas gentes ipsae quoque diversae sunt significationem retinent, quae scilicet sunt animae passiones, illae apud omnes eaedem sunt. Neque enim fieri potest, ut quod apud Romanos homo intellegitur lapis apud barbaros intellegatur. Eodem quoque modo de caeteris rebus. Ergo huiusmodi sententia est, qua dicit ea quae voces significent apud omnes hominum gentes non mutari, ut ipsae quidem voces, sicut supra monstravit cum dixit QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM, apud plures diversae sint, illud vero quod voses ipsae significant apud omnes homines idem sit nec ulla ratione ƿ valeat permutari, qui sunt scilicet intellectus rerum, qui quoniam naturaliter sunt permutari non possunt. Atque hoc est quod ait: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, id est voces, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE, ut demonstraret voces quidem esse diversas, QUORUM autem ipsae voces significativae essent, quae sunt scilicet animae passiones, EASDEM APUD OMNES esse nec ulla ratione, quoniam sunt constitutae naturaliter, permutari. Nec vero in hoc constitit, ut de solis vocibus atque intellectibus loqueretur sed quoniam voces atque litteras non esse naturaliter constitutas per id significavit, quod eas non apud omnes easdem esse proposuit, rursus intellectus quos animae passiones vocat per hoc esse naturales ostendit, quod apud omnes idem sint, a quibus id est intellectibus ad res transitum fecit. Ait enim QUORUM HAE SIMILITUDINES, res etiam eaedem hoc scilicet sentiens, quod res quoque naturaliter apud omnes homines essent eaedem: sicut ipsae animae passiones quae ex rebus sumuntur APUD OMNES homines EAEDEM sunt, ita quoque etiam ipsae res quarum similitudines sunt animae passiones eaedem apud omnes sunt. Quocirca quoque naturales sunt, sicut sunt etiam rerum similitudines, quae sunt animae passiones. Herminus vero huic est expositioni contrarius. Dicit enim non esse verum eosdem apud omnes homines esse intellectus, quorum voces significativae sint. Quid enim, inquit, in aequivocatione dicetur, ubi unus idemque vocis modus plura significat? Sed magis hanc lectionem veram putat, ut ita sit: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, HAE OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM HAE: ut demonstratio videatur ƿ quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines. Et hoc simpliciter accipiendum est secundum Herminum, ut ita dicamus quorum voces significativae sunt, illae sunt animae passmnes, tamquam diceret: animae passiones sunt, quas significant voces, et rursus quorum sunt similitudines ea quae intellectibus continentur, illae sunt res, tamquam si dixisset: res sunt quas significant intellectus. Sed Porphyrius de utrisque acute subtiliterque iudicat et Alexandri magis sententiam probat, hoc quod dicat non debere dissimulari de multiplici aequivocationis significatione. Nam et qui dicit ad unam quamlibet rem commodat animum, scilicet quam intellegens voce declarat, et unum rursus intellectum quemlibet is qui audit exspectat. Quod si, cum uterque ex uno nomine res diversas intellegunt, ille qui nomen aequivocum dixit designet clarius, quid illo nomine significare voluerit, accipit mox qui audit et ad uuum intellectum utrique conveniunt, qui rursus fit unus apud eosdem illos apud quos primo diversae fuerant animae passiones propter aequivocationem nominis. Neque enim fieri potest, ut qui voces positione significantes a natura eo distinxerit quod easdem apud omnes esse non diceret, eas res quas esse naturaliter proponebat non eo tales esse monstraret, quod apud omnes easdem esse contenderet. Quocirca Alexander vel propria sententia vel Porphyrii auctoritate probandus est. Sed quoniam ita dixit Aristoteles QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE sunt, quaerit Alexander: ƿ si rerum nomina sunt, quid causae est ut primorum intellectuum notas esse voces diceret Aristoteles? Rei enim ponitur nomen, ut cum dicimus homo significamus quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis. Cur ergo non primarum magis rerum notae sint voces quibus ponuntur potius quam intellectuum? Sed fortasse quidem ob hoc dictum est, inquit, quod licet voces rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus sed ut eas quae ex rebus nobis innatae sunt animae passiones. Quocirca propter quorum significantiam voces ipsae proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas. In hoc vero Aspasius permolestus est. Ait enim: qui fieri potest, ut eaedem apud omnes passiones animae sint, cum tam diversa sententia de iusto ac bono sit? Arbitratur Aristotelem passiones animae non de rebus incorporalibus sed de his tantum quae sensibus capi possunt passiones animae dixisse. Quod perfalsum est. Neque enim intellexisse dicetur, qui fallitur, et fortasse quidem passionem animi habuisse dicetur, quicumque id quod est bonum non eodem modo quo est sed aliter arbitratur, intellexisse vero non dicitur. Aristoteles autem cum de similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat. Neque enim fieri potest, ut qui quod bonum est malum esse arbitratur boni similitudinem mente conceperit. Neque enim intellexit rem subiectam. Sed quae sunt iusta ac bona ad positionem omnia nuturamue referuntur. Et si de iusto ac bono ita loquitur, ut de eo quod civile ius aut civilis iniuria ƿ dicitur, recte non eaedem sunt passiones animae quoniam civile ius et civile bonum positione est, non natura. Naturale vero bonum atque iustum apud omnes gentes idem est. Et de deo quoque idem: cuius quamuis diversa cultura sit, idem tamen cuiusdam eminentissimae naturae est intellectus. Quare repetendum breviter a principio est. partibus enim ad orationem usque pervenit: nam quod se prius quid esset verbum, quid nomen constituere dixit, hae minimae orationis partes sunt; quod vero affirmationem et negationem, iam de composita ex verbis et nominibus oratione loquitur, quae eaedem rursus partes sunt enuntiationis. Et post enuntiationis propositionem de oratione loqui proposuit, cuius ipsa quoque enuntiatio pars est. Et quoniam (ut dictum est) triplex est oratio, quae in litteris, quae in voce, quae in intellectibus est, qui verbum et nomen definiturus esset eaque significativa positurus, dicit prius quorum significativa sint ipsa verba et nomina et inchoat quidem ab his nominibus et verbis quae sunt in voce dicens: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE et demonstrat quorum sint significativa adiciens EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE. Rursus nominum ipsorum verborumque quae in voce sunt ea verba et nomina quae essent in litteris constituta significativa esse declarat dicens ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. Et quoniam quatuor ista quaedam sunt: litterae, voces, intellectus, res, quorum litterae et voces positione sunt, natura vero res atque intellectus, demonstravit voces non esse naturaliter sed positione per hoc quod ait non easdem esse apud omnes sed varias, ut est ET QUEMADMODUM NEC ƿ LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM. Ut vero demonstraret intellectus et res esse naturaliter, ait apud omnes eosdem esse intellectus, quorum essent voces significativae, et rursus apud omnes easdem esse res, quarum similitudines essent animae passiones, ut est QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, SCILICET QUAE SUNT IN VOCE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. Passiones autem animae dixit, quoniam alias diligenter ostensum est omnem vocem animalis aut ex passione animae aut propter passionem proferri. Similitudinem vero passionem animae vocavit, quod secundum Aristotelem nihil aliud intellegere nisi cuiuslibet subiectae rei proprietatem atque imaginationem in animae ipsms reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse. Sed quoniam demonstratum est, quoniam et verba et nomina et oratio intellectuum principaliter significativa sunt, quidquid est in voce significationis ab intellectibus venit. Quare prius paululum de intellectibus perspiciendum ei qui recte aliquid de vocibus disputabit. Ergo quod supra passiones animae et similitudines vocavit, idem nunc apertius intellectum vocat dicens: EST AUTEM, QUEMADMODUM IN ANIMA ALIQUOTIENS QUIDEM INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, ALIQUOTIENS AUTEM CUI IAM NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE, SIC ETIAM IN VOCE; CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, UT HOMO VEL ALBUM, QUANDO NON ADDITUR ALIQUID, NEQUE ENIM ADHUC VERUM AUT FALSUM S EST. HUIUS AUTEM SIGNUM HOC EST: HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID SED NONDUM VERUM VEL FALSUM, SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Quoniam nomen et verbum atque omnis oratio significativa sunt animae passionum, ex ipsis sine dubio quae designant in eisdem vocibus proprietas significationis innascitur hic vero est totus atque continuus Aristotelicae ordo sententiae: quoniam, inquit, ea primum vocibus significantur quae animo et cogitatione versamus, intellectuum vero alios quidem simplices et sine veri vel falsi enuntiatione perpendimus, ut cum nobis hominis proprietas tacita imaginatione suggeritur (nulla namque ex hac intellegentiae simplicitate vel veritatis nascitur vel falsitatis agnitio), sunt vero intellectus quidam compositi atque conioncti in quibus inest iam quaedam veritatis vel falsitatis inspectio, ut cum ad quamlibet simplicem perceptionem mentis adinugitur aliud quod esse aliquid vel non esse constituat, ut si ad hominis intellectum esse vel non esse vel album esse vel album non esse copuletur (fient enim cogitabiles orationes veritatis vel falsitatis participes hoc modo: homo est, homo non est, homo albus est, homo albus non est, quarum quidem homo est vel homo albus est compositione dicitur. Nam prior esse atque hominem, posterior hominem albo composita intellectus praedicatione conectit): sin vero ad hominis intellectum adiciam quiddam, ut ita sit homo ƿ est vel non est vel albus est aut aliquid tale, tunc in ipsa cogitatione veritas aut falsitas nascitur: ergo, inquit, quemadmodum aliquotiens quidam simplices intellectus sunt, qui vero falsoque careant, quidam vero in quibus horum alterum reperiatur, sic etiam et in voce. Nam quae voces denuntiant simplices intellectus, ipsae quoque a falsitate et veritate seiunctae sunt, quae vero huiusmodi significant intellectus in quibus iam vel veritas vel falsitas constituta est, in ipsis quoque horum alterum inveniri necesse est. Nam si quis hoc solum dicat HOMO vel ALBUM vel etiam HIRCOCERVUS, quamquam ista quiddam significent, quoniam tamen significant simplicem intellectum, manifestum est omni veritatis vel falsitatis proprietate carere. Et tota quidem sententia se hoc modo habet. Diligentius tamen est attendendum quid est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE; quid etiam quod dictum est: NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI; illud quoque; cur composito nomine vel cur etiam usus est non rei subsistentis exemplo, ut diceret HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID. Nec illud praetereundum est quid est quod dictum sit VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Et primum quidem de eo dicendum est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE. Quaeritur namque, utrumne omnis veritas circa compositionem divisionemque sit, an quaedam est, quaedam vero minime. Illud quoque, an in omni compositione vel divisione veritas falsitasque constituta sit, an hoc non generaliter sed in quadam compositionis vel divisionis parte veritas falsitasque versetur. In opinionibus namque veritas est, quotiens ex subiecta ƿ re capitur imaginatio vel etiam quotiens ita, ut sese res habet, imaginationem accipit intellectus; falsitas vero est quotiens aut non ex subiecto aut non ut sese habet res imaginatio subicitur intellectui. Sed adhuc in veritate atque falsitate nihil equidem aliud reperitur nisi quaedam opinionis habitudo ad subiectam rem. Qua enim habitudine et quomodo sese habeat imaginatio ad rem subiectam, hoc solum in hac veritate vel falsitate perspicitur. Quam quidem habitudinem nullus dixerit compositionem. In hoc vero divisionis nullus ne fictus quidem modus intellegi potest. Illud quoque considerandum est, numne aliqua sit in his compositio vel divisio, quae secundum substantiam suam vera dicuntur, ut est vera voluptas bene vivendi, ut est falsa voluptas bellandi. Etiam illud quoque respiciendum est, quod in omnium maximo deo quidquid intellegitur non in eo accidenter sed substantialiter intellegitur. Etenim quae bona sunt substantialiter de eo non accidenter credimus. Quod si substantialiter credimus deum, deum vero nullus dixerit falsum nihilque in eo accidenter poterit evenire, ipsa veritas deus dicendus est. Ubi igitur compositio vel divisio in his quae simplicia naturaliter sunt nec ulla cuiuslibet rei collatione iunguntur? Quare non omnis veritas neque falsitas circa compositionem divisionemque constat sed sola tantum quae in multitudine intellectoum fit et in prolatione dicendi. Nam in ipsa quidem habitudine imaginationis et rei nulla compositio est, in coniunctione vero intellectuum compositio fit. Nam cum dico: Socrates ambulat  hoc ipsum quidem, ƿ quod eum ambulare concepi, nulla compositio est; quod vero in intellectus progressione ambulationem cum Socrate coniungo, quaedam iam facta est compositio. quod si hoc oratione protulero, rursus eadem compositio est et circa eam vis veritatis et falsitatis apparet. Quocirca in his solis compositionibus invenitur veritas atque mendacium, de quibus tota nunc quaestio est, in nomine scilicet et verbo, in negatione et affirmatione et enunti atione et oratione. Quae scilicet compositiones veritatis et falsitatis naturam ab intellectibus accipientes in significationis prolatione conservant. De divisione autem quae ad negationem pertinet deque compositione quae ad affirmationem paulo post enucleatius dicam. Nunc illud videndum est, utrum verum sit circa omnem compositionem circaque omnem divisionem veritatem vel mendacium provenire, quod omnino falsum est. Quis enim dixerit huiusmodi nominum coniunctionem: et Socrates et Plato  vel si a se haec nomina dividantur nec Socrates nec Plato  veri aliquam falsive tenere significantiam? Quare confitendum est non circa omnem divisionem neque circa omnem compositionem, eam scilicet quae in oratione versatur, mendacium veritatemque subsistere. Sed illud verissimum est, quod omnis quae est in oratione veritas falsitasque in compositione et divisione nascitur, non tamen omnis orationis compositio vel divisio verum retinet aut falsum. Ergo si sic dixisset: circa omnem compositionem vel divisionem veritas falsitasque est, mentiretur. Sed quoniam dixit simpliciter: veritas falsitasque circa compositionem divisionemque est, verissime subtilissimeque dixisse putandus est. Illa enim ƿ nomina quae ita dicuntur simplicia, ut veritatem aut falsitatem quodammodo valeant designare, huiusmodi sunt, ut intra se atque intra significationem suam quandam retineant compositionem, ut si qui dicat: Lego  hoc est enim dicere "lego" tamquam si dicat "Ego lego". Hoc autem compositio est. Vel quotiens interrogante alio respondet alius uno tantum sermone, videtur quoque tunc simplex sermo veritatem mendaciumque perficere. Quod perfalsum est. Audientis namque responsio ad totum ordinem superioris enuntiationis adiungitur: ut si quis interroganti mundusne animal sit, est responderit, videtur haec una particula veritatem vel mendacium continere sed falso. Non enim una est sed ad vim ipsius responsionis intuenti tale est ac si diceret "Mundus animal est". Quod vero ait NOMINA IPSA ET VERBA CONSIMILIA ESSE SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, illud designat, quod supra iam dixit, ea quae sunt in voce notas esse animae passionum. Quod si notae sunt, sicut litterae vocum in se similitudinem gerunt, ita voces intellectuum. Et quoniam dictum est, cur de similitudine verborum nominumque atque animae passionum dixerit, cur etiam circa compositionem et divisionem falsum verumque esse proposuerit, dicendum est quid sit ipsa compositio vel divisio, in qua veritas et falsitas invenitur. Nam quoniam de simplici enuntiativa oratione perpendit, ut posterius ipse in divisione declarat dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, illam nunc compositionem designare uult, quae alicuius vel substantiam constituit vel aliquid secundum esse coniungit. Nam cum dico: Socrates est  hoc ipsum esse Socrati applico et substantiam eius esse constituo. Sin vero ƿ dixero: Socrates philosophus est  philosophiam et Socratem secundum esse composui, vel si dicam Socrates ambulat, huiusmodi est tamquam si dicam Socrates ambulans est. Igitur quotiens huiusmodi fuerit compositio, quae secundum esse verbum vel substantiam constituat vel res coniungat, affirmatio dicitur et in ea veri falsique natura perspicitur. Et quoniam omnis negatio ad praedicationem constituitur (huius enim affirmationis quae est "Socrates est" negatio est non ea quae dicit "Non Socrates est" sed ea quae pronuntiat "Socrates non est" et ad id quod esse Socrates dictus est negatio apponitur, ut eum id dicamus non esse, quod ante dictus est esse): igitur quoniam id quod in affirmatione secundum esse vel constitutum vel coniunctum fuerit ad id addita negatio separat, vel ipsam substantiae constitutionem vel etiam factam per id quod dictum est esse aliquid coniunctionem, divisio vocatur. Quando enim dico: Socrates non est  esse a Socrate seiunxi, et cum dico: Socrates philosophus non est  Socratem ab eo quod est philosophum esse separavi, quam separationem, quae ad negationem pertinet, divisionem vocavit. Ergo manifestum est, quoniam si simplex in animae passionibus intellectus fuerit, cum ipse intellectus nullam adhuc veri falsique retineat naturam, eius quoque prolationem ab utrisque esse separatam. Sed cum compositio secundum esse facta vel etiam divisio in intellectibus, in quibus principaliter veritas et falsitas procreatur, euenerit, quoniam ex intellectibus voces capiunt significationem, eas quoque secundum intellectuum qualitatem veras vel falsas esse necesse est. Maximam vero vim habet exempli novitas ƿ et exquisita subtilitas. Ad demonstrandum enim quod unum solum nomen neque verum sit neque falsum, posuit huiusmodi nomen, quod compositum quidem esset, nulla tamen eius substantia reperiretur. Si quod ergo unum nomen veritatem posset falsitatemue retinere posset huiusmodi nomen, quod est hircocervus, quoniam omnino in rebus nulla illi substantia est, falsum aliquid designare sed non designat aliquam falsitatem. Nisi enim dicatur hircocervus vel esse vel non esse quamquam ipsum per se non sit, solum tamen dictum nihil falsi in eo sermone verive perpenditur. Igitur ad demonstrandam vim simplicis nominis, quod omni veritate careat atque mendacio, tale in exemplo posuit nomen, cui res nulla subiecta sit. Quod si quid verum vel falsum unum nomen significare posset, nomen quod eam rem designat, quae in rebus non sit, omnino falsum esset. Sed non est: non igitur ulla veritas falsitasque in simplici umquam nomine reperietur. Nec illud paruae curae fuit non ponere nomen quod omnino nihil significaret sed quod cum significaret quiddam, tamen verum aut falsum esse non posset, ut non videretur veritatis falsitatisque cassum esse, eo quoniam nihil significaret sed quoniam esset simpliciter dictum. Quamquam in eodem illud quoque conficit, ut ostenderet non solum simplex nomen veritate atque mendacio esse alienissimum sed etiam composita quoque nomina, si non habeant aliquam secundum es se vel non esse (sicut superius dictum est) compositionem, verum vel falsum significare non posse: tamquam si diceret: non solum simplex nomen praeter aliquam compositionem nihil verum falsumue significat sed etiam composita ƿ utroque carent (sicut ipse iam dixit) nisi illis aut esse aut non esse addatur, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Hoc vero idcirco addidit, quod in quibusdam ita enuntiationes fiunt, ut quod de ipsis dicitur secundum substantiam proponatur, in quibusdam vero hoc ipsum esse quod additur non substantiam sed praesentiam quandam significet. Cum enim dicimus deus est, non eum dicimus nunc esse sed tantum in substantia esse, ut hoc ad immutabilitatem potius substantiae quam ad tempus aliquod referatur. Si autem dicamus: Dies est  ad nullam diei substantiam pertinet nisi tantum ad temporis constitutionem. Hoc est enim quod significat est, tamquam si dicamus: Nunc est  Quare cum ita dicimus esse ut substantiam designemus, simpliciter est addimus, cum vero ita ut aliquid praesens significetur, secundum tempus. Haec una quam diximus expositio. Alia vero huiusmodi est: esse aliquid duobus modis dicitur: aut simpliciter aut secundum tempus. Simpliciter quidem secundum praesens tempus, ut si quis sic dicat hircocervus est. Praesens autem quod dicitur tempus non est sed confinium temporum: finis namque est praeteriti futurique principinm. Quocirca quisquis secundum praesens hoc sermone quod est esse utitur, simpliciter utitur, qui vero aut praeteritum inugit aut futurum, ille non simpliciter sed iam in ipsum tempus incurrit. Tempora namque (ut dictum est) duo ponuntur: praeteritum atque futurum. Quod si quis cum praesens nominat, simpliciter dicit, cum utrumlibet praeteritum vel futurum dixerit, secundum tempus utitur enuntiatione. Est quoque tertia huiusmodi expositio, quod aliquotiens ita ƿ tempore utimur, ut indefinite dicamus: ut si qui dicat: Est hircocervus Fuit hircocervus Erit hircocervus  hoc indefinite et simpliciter dictum est. Sin vero aliquis addat: Nunc est  vel: Heri fuit  vel: Cras erit  ad hoc ipsum esse quod simpliciter dicitur addit tempus. Quare secundum unam trium harum expositionum intellegendum est quod ait: SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Sed ei quod ante proposuit, QUEMADMODUM esset ALIQUOTIENS QUIDEM IN ANIMA INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, post quasi consequens reddidit nomina ipsa per se verbaque esse simplicibus intellectibus consimilia, ut homo vel album; ei vero quod ait CUI IAM NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE nihil interim reddidit sed hoc eo supplevisse putabitur, quod ait: SED NONDUM VERUM VEL FALSUM EST, SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR. Haec est enim intellectuum quaedam compositio, cui iam necesse est horum alterum inesse qua in oratione vel esse vel non esse additur. Quocirca quoniam de nomine verboque proposuit et quam potuit breviter vocum, litterarum, intellectuum rerumque consequentias altissima ratione monstravit, ad id quod primo proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, ad haec inquam, quae promiserat definire revertitur. Nomen enim definiens ita subiecit: [THIS IS THE END OF THE SECTION ‘SIGN’ – from now it’s specifically on NOMEN] NOMEN ERGO EST VOX SIGNIFICATIVA SECUNDUM PLACITUM SINE TEMPORE, CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Omnis definitio generis constitutione formatur, differentiarum vero compositione perficitur. Nam si ad propositum genus differentias colligamus easque ad unam quam definire volumus speciem aptemus, usque dum uni tantum speciei collectio illa conveniat, nihil est quod ultra ad faciendam definitionem desideretur: ut ipsum hominem si quis definiat, generi eius quod est animal duas necesse est differentias iungat rationale scilicet atque mortale facietque huiusmodi ordinem: animal rationale mortale; quae definitio si ad hominem referatur, plena est rationis substantiaeque descriptio. Volens ergo Aristoteles definire quid esset nomen prius eius genus sumpsit dicens nomen esse vocem, idcirco scilicet ut hoc quod dicimus nomen ab aliis, quae non voces sed tantum soni sunt, separaret. Distat enim sonus voce: sonus enim est percussio aeris sensibilis, vox vero flatus per quasdam gutturis partes egrediens, quae arteriae vocantur, qui aliqua linguae impressione formetur. Et vox quidem nisi animantium non est, sonus vero aliquotiens inanimorum quoque corpori conflictatione perficitur. Quare quia nomen vocem monstravit, ab aliis quae voces non sunt sed tantum soni, hanc orationis partem separavit atque distribuit. Et vocem quidem nominis velut genus sumpsit. Habet namque aliud quiddam speciei loco differens a nomine quod est verbum, habet quoque quasdam locutiones quae nihil ulla ratione significent, ut sunt articulatae voces, quarum per se significatio non potest inveniri, ut "scindapsos". Huic ergo generi alias differentias rursus apponit, quae nomen sicut vox a sonis aliis segregavit, ita quoque hae differentiae nomen ab aliis speciebus sub voce positis dividant atque discernant. ƿ Quod enim addidit nomen vocem esse significativam, ab his, inquam, vocibus disgregavit nomen quae nihil omnino siguificent, ut sunt syllabae. Syllabae enim, cum ex his totum nomen constet, adhuc ipsae nihil omnino significant. Sunt quoque quaedam voces litteris syllabisque compositae, quae nullam habeant significationem, ut est "Blityri". Ergo quoniam videbantur esse quaedam voces quae significatione carerent, nomen quod vox est et alicuius designationis semper causa profertur non aliter definiendum erat nisi illud a non significantibus vocibus segregaret. Itaque ait nomen esse vocem significativam ut voce quidem ab aliis sonis, significatione vero addita ab his quae sub voce sunt nihil designantia segregaretur. Sed hoc nondum ad totam definitionem valet neque solum nomen vox significativa est sed sunt quaedam voces quae significent quidem sed nomina non sint, ut ea quae a nobis in aliquibus affectibus proferuntur, ut cum quis gemitum edit vel dolore concitus emittit clamorem. Illud enim doloris animi, illud corporis signum est. Et cum sint voces et significent quandam vel animi vel corporis passionem, nullus tamen gemitum clamoremque dixerit nomen. Mutorum quoque animalium sunt quaedam voces quae significent: ut canum latratus iras significat canum, alia vero mollior quaedam blandimenta designat. Quare adiecta differentia separandum erat nomen ab his omnibus quae voces quidem essent et significarent sed nominis vocabulo non tenerentur. Quid igitur adiecit? Nomen vocem esse significativam non simpliciter sed secundum placitum. Secundum placitum vero est, quod secundum quandam positionem ƿ placitumque ponentis aptatur. Nullum enim nomen naturaliter constitutum est neque umquam sicut subiecta res natura est, ita quoque a natura venienti vocabulo nuncupatur sed hominum genus, quod et ratione et oratione vigeret, nomina posuit eaque quibus libuit litteris syllabisque coniungens singulis subiectarum rerum substantiis dedit. Hoc autem illo probatur, quod, si natura essent nomina, eadem apud omnes essent gentes: ut sensus, quoniam naturaliter sunt, idem apud omnes sunt. Omnes enim gentes non aliis nisi solis oculis intuentur, audiunt auribus, naribus odorantur, ore accipiunt gustatus, tactu calidum vel frigidum, lene vel asperum indicant. Atque haec huiusmodi sunt, ut apud omnes (ut dictum est) gentes eadem videantur. Ipsa vero quae sentiuntur, quoniam naturaliter constituta sunt, non mutantur. Dulcedo enim et amaritudo, album et nigrum et quaequae alia sensibus quinque sentimus, eadem apud omnes sunt. Neque enim quod Italis dulce est in sensu, idem Persis videtur amarum nec quod album apud nos oculis apperet, apud Indos nigrum est, nisi forte aliqua sensus aegritudine permPombaur sed hoc nihil attinet ad naturam. Igitur quoniam ista sunt naturaliter, apud omnes gentes eadem manent. Si ergo et nomina naturalia esse viderentur, eadem essent apud omnes gentes nec ullam susciperent mutationem: nunc autem ipsum hominem alio vocabulo Latini, alio Graeci diversis quoque vocabulis barbarae gentes appellant. Quae in ponendis nominibus dissensio signum est non naturaliter sed ad ponentium placitum voluntatemque rebus nomina fuisse composita. Idem quoque monstrat, quod saepe ƿ singulorum hominum sunt permutata vocabula. Quem enim nunc vocamus Platonem, Aristocles ante vocabatur et qui Theophrastus nunc dicitur, ante Aristotelen a suis parentibus Tyrtamus appellabatur. In eadem quoque lingua quando plura vocabula uni adduntur rei, monstratur rem illam non naturalibus sed appositis nominibus nuncupari. Si enim naturalibus nominibus res quaeque vocaretur, unam rem uno tantum nomine signaremus. Quid enim attinet, si naturalia sunt vocabula, unius rei plures esse nominum voces, quae ad unam designationem demonstrationemque concurrerent? Dicimus enim gladius, ensis, mucro et haec tria ad unam subiectam substantiam currunt. Ergo monstratum est nomina esse secundum placitum id est secundum ponentium placitum, ac si diceret nomen esse vocem quidem et significativam sed non naturaliter significativam sed secundum placitum voluntatemque ponentis, hoc scilicet dividens ab his vocibus quae naturaliter designarent, ut sunt hae vel quas nos in passionibus affectibusque proloquimur vel edere animalia muta conantur. Sed nondum supra dicta differentia plenam nominis formam definitionemque constituit. Est namque verbo commune eum nomine, quod vox designativa et secundum placitum est sed addita differentia quae est SINE TEMPORE nomen a verbo distinxit. Neque enim nomen ullum consignificat tempus. Verbi namque est, cum aut passio significatur aut actio, aliquam quoque secum trahere vim temporis, qua illud cum vel facere vel pati dicitur proferatur. Cum enim dico: Socrates  nullius est temporis; cum vero: Lego  vel: Legi  vel: Legam  tempore non caret. Addito ergo nomini quod sine tempore esse dicatur ƿ nomen a verbo disiungitur. Sane nemo nos arbitretur opinari, quod nullum nomen significet tempus. Sunt enim nomina, quae tempus significatione demonstrent: velut cum dico hodie vel cras, temporis nomina sunt. Sed illud dicimus, quod cum eodem nomine tempus non significatur. Aliud est enim significare tempus, aliud consignifiaare. Verbum enim cum aliquo proprio modo tempus quoque significat: ut cum vel agentis vel patientis modum demonstrat, sine tempore ipsa passio vel actio non profertur. Unde non dicimus, quod nomen non significet tempus sed quod nomen significatio temporis non sequatur. Restat autem sola una differentia, quae si superioribus adiungatur, plenissima fere nomen definitione formabitur. Haec autem est qua nomen ab oratione separetur. Inveniuntur enim quaedam sine dubio orationes, quae cum voces sint et significativae et secundum placitum, quippe quae sunt nominibus colligatae, tamen sint sine tempore, ut cum dico: Socrates et Plato  haec namque oratio, cum ex nominibus iuncta sit, nomen quidem non est, vox vero est significativa secundum placitum et tempore uacat. Ut igitur nomen ab huiusmodi oratione divideret, addidit hanc differentiam, quae est CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Oratio enim quoniam verbis nominibusque coniungitur, verba vero vel nomina significativa esse palam est, partes quoque orationis significare aliquid dubium non est. Nominis vero pars, quoniam simplex est, nihil omnino significat. Sed cum omnis oratio omneque nomen et verbum ex subiectis intellectibus vim significandi sumat, est aliquotiens, ut unum nomen multos significet intellectus. Quocirca erit quoque, ut non simplex nomen ƿ unam tantum animi passionem intellectumque designet. Nam cum dico suburbanum, imaginationem significandi sed ita ut a toto nomine separatum, cum ad ipsum refertur nomen, significet nihil: ut in eo quod dicimus equiferus ferus uult quidem aliquid significare sed si a tota compositione separatur, nihil omnino designat in eo scilicet nomine in quo cum equi particula iunctum equiferum consignificabat. Omnis namque haec compositio unius intellectus designativa est. Quare in oratione quidem ferus significat (etenim equus ferus oratio duos retinet intellectus), in nomine vero nihil, quoniam hoc quod dicimus equiferus unius intellectus designativum est. Sed fortasse ferus cum ea parte qua iunctum est simul quidem consignificet, separatum vero nihil. Hoc est ergo quod ait: AT VERO NON QUEMADMODUM IN SIMPLICIBUS NOMINIBUS, SIC SE HABET ETIAM IN COMPOSITIS IN ILLIS ENIM NULLO MODO PARS SIGNIFICATIVA EST; IN HIS AUTEM VULT QUIDEM SED NULLIUS SEPARATI, UT IN EQUIFERUS FERUS. Simplex enim nomen nec imaginationem aliquam partium significationis habet, compositum vero tales habet partes, ut quasi conentur quidem aliquid significare sed consignificeut potius quam quidquam extra significent. Addito igitur nomini, quod eius partes nihil separatae significent, nomen ab oratione disiunctum est. Postquam adiectionem quae est CUIUS ƿ NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA quid in nominis definitione valeret explicuit (hoc scilicet quo nomen ab oratione seiungeret), illud quoque disserit, cur sit additum quod dictum est secundum placitum. Nam quoniam nulla nominum significatio naturaliter est sed omne nomen positione designat, idcirco dictum est secundum placitum. Quod enim placuit ei qui primus nomina indidit rebus, hoc illis vocabulis designatur. Age enim quis naturaliter nomina esse confirmet, quorum apud omnes gentes est tam diversa varietas? Nec vero dicitur quod nulla vox naturaliter aliquid designet sed quod nomina non naturaliter sed positione significent. Aliqui habent hoc ferarum mutorumque animalium soni, quorum vox quidem significat aliquid (ut hinnitus equi consueti equi inquisitionem, latratus canum latrantium iracundiam monstrat et alia huiusmodi) sed cum voces mutorum animalium propria natura significent, nullis tamen elementorum formulis conscribuntur. Nomen vero quamquam subiaceat elementis, prius tamen quam ad aliquam subiectae rei significationem ponatur per se nihil designat, ut cum dicimus scindapsos vel hereceddy. Haec per se nihil quidem significant sed si ad subiectae alicuius rei significationem ponantur, ut dicatur vel homo scindapsos vel lapis hereceddy, tunc hoc quod per se nihil significat positione et secundum ponentis quoddam placitum designabit. Ergo tum nomen significativum est, quando (ut ipse ait) fit nota. Tunc autem fit nota, cum secundum ponentis placitum vocabulum quod naturaliter nihil designabat ad subiectae rei significationem datur. Hoc ƿ est enim quod ait fit. Si enim naturaliter nomina significarent, numquam de his Aristoteles diceret fit nota. Tunc enim non fieret nota sed esset. Ergo quoniam nomina secundum placitum significativa sunt, ferarum vero inlitterati soni secundum naturam, idcirco harum voces esse nomina non dicuntur. Universaliter autem dicimus: omnium vocum aliae sunt quae inscribi litteris possunt, aliae vero quae non possunt. Et rursus earum quae vel inscribuntur vel minime, aliae significant, aliae vero nihil. Amplius quoque omnium aliae secundum placitum designant, aliae vero naturaliter. Nomen ergo secundum placitum est: positione enim factum est subiectae rei nota. Nihil enim nominum est quod naturaliter significet. Non enim nomen informat significatio sed secundum placitum significatio. Nam et inlitterati soni significant, ut sunt ferarum, quos ideo sonos vocavit, quoniam sunt quaedam muta animalia quae vocem omnino non habent sed tantum sonitu quodam concrepant. Quidam enim pisces non voce sed branchis sonant et (ut Porphyrius autumat) cicada per pectus sonitum mittit, QUORUM omnium NIHIL EST NOMEN. Hoc autem dictum est, non quod nullum nomen sit harum vocum quas animalia proferunt sed quod his non velut nominibus utantur. Nam quamuis vox inlitterata sit et natura significet latratus canum, dicitur tamen latratus et leonis fremitus et tauri mugitus. Haec sunt. Nomina ipsarum vocum quae a mutis animalibus proferuntur. Sed non hoc dicimus quoniam earum nihil est nomen sed quoniam horum sonorum nihil tale est, ut nomen esse possit id est ut secundum ea velut ƿ nominibus utentes ferae sibi inuicem colloquantur. Habent enim significationem sed (ut dictum est) naturalem, nomen autem secundum placitum est. NON HOMO VERO NON EST NOMEN. AT VERO NEC POSITUM EST voMEN, QUO ILLUD OPORTEAT APPELLARI. NEQUE ENIM ORATIO AUT NEGATIO EST SED SIT NOMEN INFINITUM. Superius omnia quaecumque extra nomen essent praedictis adiectionibus a nomine separavit. Nunc vero quoniam sunt quaedam quae sub definitionem quidem nominis cadant, videantur tamen a nomine discrepare, de his disserit, ut quid esse nomen integre videatur expediat. Quod enim dicimus non homo vel non equus oratio quidem non est. Omnis enim oratio aut nominibus constat et verbis aut solis duobus vel pluribus verbis vel solis nominibus. In eo autem quod est non homo unum tantum nomen est, quod dicitur homo, id autem quod est non neque nomen est neque verbum. Quare neque ex duobus verbis aut ex verbo et nomine. Verbum enim in eo nullum est. Quare id quod dicimus non homo oratio non est. Iam vero nec verbum esse monstrare superfluum est, cum in verbis semper tempora reperiantur, in hoc vero nullum omnino quisquam tempus inveniat. Sed nec negatio est. Omnis enim negatio oratio est, non homo vero cum oratio non sit nec negatio esse potest. Illud quoque, quod omnis negatio aut vera est aut falsa, non homo vero neque verum est neque falsum. Sensus enim plenus non est: quare negatio esse propter hoc quoque non dicitur. Nomen vero esse quis dicat, cum omne nomen sive proprium sive sit appellativum definite significet? Cum enim dico: ƿ Cicero  unam personam unamque substantiam nominavi, et cum dico: Homo  quod est nomen appellativum, definitam significavi substantiam. Cum vero dico: Non homo  significo quidem quiddam, id quod homo non est sed hoc infinitum. Potest enim et canis significari et equus et lapis et quicumque homo non fuerit. Et aequaliter dicitur vel in eo quod est vel in eo quod non est. Si quis enim de Scylla quod non est dicat non homo, significat quiddam quod in substantia atque in rerum natura non permanet. Si quis autem vel de lapide vel de ligno vel de aliis quae sunt rebus dicat non homo, idem tamen aliquid significabit et semper praeter id quod nominal huiusmodi vocabuli significatio est. Sublato enim homine quidquid praeter hominem est hoc significat non homo, quod a nomine plurimum differt. Omne enim nomen (ut dictum est) definite id significat quod nominatur nec similiter et de eo quod est et quod non est dicitur. Sed haec huiusmodi vox et designativa est et ad placitum et sine tempore et (ut dictum est) partes eius extra nihil designant. Quare dubia apud antiquos sententia fuit, utrum nomen hoc non dicerent, an hoc aliqua adiectione nominis definitioni subicerent. Et qui hoc a nomine separabant, ita nomen definitione claudebant dicentes: nomen esse vocem designativam secundum placitum sine tempore circumscriptae significationis, cuius partes extra nihil designarent, ut quoniam non homo rem circumscriptam non significaret a nomine separaretur. Alii vero non eodem modo sed dicebant quidem esse nomen sed non simpliciter. Quadam namque adiectione sub nomine poni posse putabant hoc modo, ut sicut homo mortuus non ƿ dicitur simpliciter homo sed homo mortuus, ita quoque et nomen hoc, quod nihil definitum designaret, non diceretur simpliciter nomen sed nomen infinitum. Cuius sententiae Aristoteles auctor est, qui se hoc ei vocabulum autumat invenisse. Ait enim: AT VERO NEC POSITUM EST NOMEN, QUO ILLUD OPORTEAT APPELLARI, dicens: id quod dicimus non homo quo vocabulo debeat appellari non vocavit antiquitas. Et usque ad Aristotelem nullus noverat quid esset id quod non homo diceretur sed hic huic sermoni vocabulum posuit dicens: SED SIT NOMEN INFINITUM, non simpliciter nomen, quoniam nulla circumscriptione designat sed infinitum nomen, quoniam plura et ea infinita significat. Sed hoc non solis huiusmodi vocibus contingit, ut simpliciter sub nomine poni non possint sed sunt quaedam aliae quae omnia quidem nominis habeant et definite significent sed quadam alia discrepantia nomina simpliciter dici non possint, ut sunt obliqui casus cum dicimus: Catonis Catoni Catonem  et caeteros. Horum enim discrepantia est a nomine, quod nomen rectum iunctum cum est vel non est affirmationem facit: ut si quis dicat: Socrates est  hoc verum est vel falsum. Si enim vivente Socrate diceretur, verum esset, mortuo vero falsum est: quare affirmatio est. Si quis autem dicat: Socrates non est  rursus faciet negationem et in ea quoque veritas et falsitas invenitur. Ergo omne rectum nomen iunctum cum est vel non est enuntiationem conficit. Hi vero obliqui easus iuncti cum est vel non est enuntiationem nulla ratione perficiunt. Enuntiatio namque est perfectus orationis intellectus in quem veritas ƿ aut falsitas cadit. Si quis ergo dicat: Catonis est  nondum plena sententia est. Quid enim sit Catonis non dicitur. Atque eodem modo Catoni est vel Catonem est. In his ergo, quoniam cum est vel non est iuncta enuntiationem non perficiunt, est quaedam a nomine discrepantia, quamquam sint nomini omni definitione coniuncta. Magna est enim discrepantia quod rectum nomen cum est iunctum perfectam orationem facit, obliqui casus imperfectam. Quod autem dictum est obliquos casus cum est verbo iunctos orationem perfectam non facere, non dicimus quoniam cum nullo verbo obliqui casus iunguntur ita, ut nihil indigentem perficiant orationem. Cum enim dico: Socratem paenitet  enuntiatio est. Sed non cum omni verbo sed tantum cum est vel non est hi casus iuncti perfectam orationem nulla ratione constituunt. Atque hoc est quod ait: CATONIS AUTEM VEL CATONI ET QUAECUMQUE TALIA SUNT NON SUNT NOMINA SED CASUS NOMINIS. Unde etiam discrepare videntur. Haec enim nomina non vocantur. Illa enim rectius dicuntur nomina quae prima posita sunt id est quae aliquid monstrant. Genetivus enim casus non aliquid sed alicuius et dativus alicui et caeteri eodem modo. Rectus vero qui est primus rem monstrat, ut si qui dicat Socrates, atque ideo hic nominativus dicitur, quod nominis quodammodo solus teneat vim nomenque sit. Et verisimile est eum qui primus nomina rebus imposuit ita dixisse: vocetur hic homo et rursus vocetur hic lapis. Posteriore vero usu factum est, ut in alios casus primitus positum nomen derivaretur. Illud quoque maius est, quod omnis casus nominis alicuius casus est. Ergo nisi sit nomen, cuius casus sit, casus ƿ nominis dici recte non potest. casus autem omnis inflexio est. Sed genetivus et dativus et caeteri nominativi inflexiones sunt: quare nominativi casus erunt. Sed omnis casus qui secundum nomen est nominis casus est. Nomen igitur nominativus est. Aliud vero est casus alicuius quam est id ipsum cuius casus est. Casus igitur nominis nomen non est. Quod vero adiecit: RATIO AUTEM EIUS EST IN ALLIS QUIDEM EADEM, hoc inquit: ratio et definitio obliqui casus et nominis eadem est in omnibus aliis (nam et voces sunt et significativae et secundum placitum et sine tempore et circumscripte designant) sed (ut ipse ait) DIFFERT QUONIAM CUM EST VEL FUIT VEL ERIT IUNCTUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST, quod a recto nomine sine ulla dubitatione perficitur, ut cum est vel fuit vel erit iunctum verum falsumue conficiat. Quod designavit per hoc quod ait: NOMEN VERO SEMPER, subaudiendum est scilicet: facit verum falsumque CUM EST VEL FUIT VEL ERIT IUNCTUM. Eorumque ponit exemplum: CATONIS EST VEL NON EST. In his enim (ut ipse ait) neque verum aliquid dicitur neque falsum. Quare integra nominis definitio est huiusmodi: nomen est vox designativa secundum placitum sine tempore circumscripte significans, cuius partes nihil extra designant, et cum est vel fuit vel erit iunctum nullius indigentem orationis perficiens intellectum enuntiationemque constituens. Quoniam igitur de nomine expeditum, ad definitionem verbi veniamus. VERBUM AUTEM EST QUOD CONSIGNIFICAT TEMPUS, CUIUS PARS NIHIL EXTRA SIGNIFICAT, ET EST SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA. Verbi quidem integra definitio huiusmodi est: verbum est vox significativa secundum placitum, quae consignificat tempus, cuius nulla pars extra designativa est. Sed quoniam commune est illi cum nomine esse voci et significativae et secundum placitum, idcirco illa reticuit. Ab his autem quae propria verbi sunt inchoavit verbi autem est proprium, quo a definitione nominis segregetur, quod consignificat tempus. Omne enim verbum consignificationem temporis retinet, non significationem. Nomina enim significant tempus, verbum autem cum principaliter actus passionesque significet, cum ipsis actibus et passionibus temporis quoque vim trahit, ut in eo quod dico lego. Actionem quidem quandam principaliter monstrat hoc verbum sed cum ea ipsa agendi significatione praesens quoque tempus adducit. Atque ideo non ait verbum significare tempus sed consignificare. Neque enim principaliter verbum tempus designat (hoc enim nominis est) sed cum aliis quae prineipaliter significat vim quoque temporis inducit et inserit. Ergo cum nomen et verbum voces significativae sint et secundum placitum, addito verbo, quod consignificat tempus, a nomine segregatur. Ut enim saepe dictum est, nomen significare tempus poterit, verbum vero consignificare. Et sicut in definitione nominis addidit nihil nominis partes separatas a tota compositione nominis designare propter orationes quae nominibus essent compositae, ut est: Et Plato et Socrates  ita quoque in verbo addidit nihil extra verbi ƿ partes significare propter eas orationes quas verba componunt, ut est et ambulare et currere. Haec enim oratio ex verbis est composita et singula verba et in ipsa oratione et praeter eam per se ipsa significant. In verbo vero nullo modo. Et sicut in nomine pars nominis nihil significat separata, ita in verbo pars verbi nihil separata designat. Dicit autem esse verbum semper eorum quae de altero praedicantur notam, quod huiusmodi est ac si diceret nihil aliud nisi accidentia verba significare. Omne enim verbum aliquod accidens designat. Cum enim dico: Cursus  ipsum quidem est accidens sed non ita dicitur ut id alicui inesse vel non inesse dicatur. Si autem dixero: Currit  tunc ipsum accidens in alicuius actione proponens alicui inesse significo. Et quoniam quod dicimus "Currit" praeter aliquid subiectum esse non potest (neque enim dici potest praeter eum qui currit), idcirco dictum est omne verbum eorum esse significativum quae de altero praedicantur, ut verbum quod est currit tale significet quiddam quod de altero, id est de currente, praedicetur. His igitur expeditis quod ait verbum consignificare tempus exemplis aperuit. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM CONSIGNIFICAT TEMPUS, UT CURSUS QUIDEM NOMEN EST, CURRIT VERO VERBUM, CONSIGNIFICAT ENIM NUNC ESSE. Expeditissime quid verbum distaret a nomine verbi et nominis interpositione monstravit. Etenim quoniam cursus accidens est et nominatum est ita ut sit nomen, non significat tempus, currit vero idem accidens in verbo positum praesens tempus designat. Et hoc verbum distare videtur a nomine, quod illud consignificat tempus, illud praeter omnem consignificationem ƿ temporis praedicatur. Sed postquam verbum consignificare tempus ostendit, id quod supra iam dixerat verbum semper de altero praedicari, id nunc memoriter quemadmodum praedicatur ostendit. Ait enim: ET SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA EST, UT EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO, hoc scilicet dicens: ita verbum significat aliquid, ut id quod significat de altero praedicetur sed ita ut accidens. Omne namque accidens et in subiecto est et de subiecta sibi substantia praedicatur. Nam cum dico "Currit", id de homine si ita contigit praedico scilicet de subiecto et ipse cursus in homine est, unde verbum currit inflexum est. Ergo quod dicit semper eorum esse notam verbum quae de altero praedicentur hoc monstrat: verbum accidentia semper significare, quoniam ait eas res verbi significatione monstrari quae vel in subiecto essent vel de subiecto dicerentur. Vel certe ut sit alius intellectus, quoniam solet indifferenter uti de subiecto praedicari, tamquam si dicat in subiecto esse, et saepe cum dicit de subiecto aliquid praedicari in subiecto esse significat, cum vellet ostendere accidentium significationem contineri verbis, ait ea semper designari verbis QUAE DE SUBIECTO essent. Sed quoniam hoc videbatur obscurius, patefecit addito VEL IN SUBIECTO, ut quid esset de quo supra dixerat DE SUBIECTO exponeret cum addidit VEL IN SUBIECTO: tamquam [enim] si ita dixisset: verbum quidem semper eorum nota est, quae de altero praedicantur subiecto sed ne hoc fortasse cuipiam videatur obscurius, hoc dico esse de subiecto, quod est esse in subiecto. Vel melior haec expositio est, si similiter eum dixisse arbitremur, tamquam si diceret: ƿ omne verbum significat quidem accidens sed ita ut id quod significat aut particulare sit aut universale, ut id quod ait de subiecto ad universalitatem referamus, quod in subiecto ad solam particularitatem. Cum enim dico movetur, verbum quidem est et accidens sed universale. Motus enim plures species sunt, ut cursus sub motu ponitur. Ergo cursus si definiendus est, motum de cursu praedicamus. Quocirca motus genus quoddam est cursus atque ideo motus de cursu ut de subiecto praedicabitur, cursus vero ipse, quoniam species alias non habet, in subiecto tantum est id est in currente. Motus autem quamquam et ipse sit in subiecto, tamen de subiecto praedicatur. Ideo dicit eorum esse notam verbum quae de altero praedicentur atque addidit, ut EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO. Hoc dicit: accidentium quidem vim verba significant sed talium quae aut universalia sint aut particularia, ut cum dico moveor universale quiddam est et de subiecto dicitur, ut de cursu, cum vero dico curro, particulare est et quoniam de subiecto non dicitur, in subiecto solum est. NON CURRIT VERO ET NON LABORAT NON VERBUM DICO. CONSIGNIFICAT QUIDEM TEMPUS ET SEMPER DE ALIQUO EST, DIFFERENTIAE AUTEM HUIC NOMEN NON EST POSITUM; SED SIT INFINITUM VERBUM, QUONIAM SIMILITER IN QUOLIBET EST, VEL QUOD EST VEL QUOD NON EST. Quemadmodum dixit in nomine non homo nomen non esse, idcirco quod multis aliis conveniret, quae homines non essent, quoniamque id quod diceret auferret nihilque definitum in eadem praedicatione relinqueret (quod enim non homo est potest ƿ esse et centaurus, potest esse et equus et alia quae vel sunt vel non sunt atque ideo infinitum nomen vocatum est): ita quoque etiam in verbo quod est "non currit" vel "non laborat" infinitum quoque ipsum est, quoniam non solum de eo quod est verum est sed etiam de eo quod non est praedicari potest. Possum namque dicere: Homo non currit  et id quod aio, "non currit", de ea re quae est praedico id est de homine, possum rursus dicere: Scylla non currit  sed Scylla non est: igitur hoc quod dico "non currit" et de ea re quae est valet et de ea quae nihil est praedicari. Sed forte aliquis hoc quoque in verbis finitis esse contendat. Possum namque dicere: Equus currit Hippocentaurus currit  et de ea re scilicet quae est et de ea quae non est et praeterito, quod futurum quidem ante praesens tempus est, praeteritum vero retro relinquitur. Et nouo admirabilique sermone usus est: quod complectitur. Et nos id quantum Latinitas passe est transferre diu multumque laborantes hoc solo potuimus, Graeca vero oratione luculentius dictum est. Ita ƿ enim habet *ta de ton perix*. Quod qui Graecae linguae peritus est quantum melius Graeca oratione sonet agnoscit. IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT ET SIGNIFICANT ALIQUID. CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT; NEQUE ENIM ESSE SIGNUM EST REI VEL NON ESSE, NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS. IPSUM QUIDEM NIHIL EST, CONSIGNIFICAT AUTEM QUANDAM COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST INTELLEGERE. Hoc loco Porphyrius de Stoicorum dialectica aliarumque scholarum multa permiscet et in aliis quoque huius libri partibus idem in expositionibus fecit, quod interdum nobis est neglegendum. Saepe enim superflua explanatione magis obscuritas comparatur. Nunc autem Aristotelis huiusmodi sententia est: VERBA, inquit, IPSA SECUNDUM SE DICTA NOMINA SUNT, non secundum id quod omnis pars orationis commune nomen vocatur, ut dicimus nomina rerum sed quod omne verbum per se dictum neque addito de quo illud praedicatur tale est, ut nomini sit affine. Nam si dicam: Socrates ambulat  id quod dixi ambulat totum pertinet ad Socratem, nulla ipsius intellegentia propria est. At vero cum dico solum: Ambulat  ita quidem dixi, tamquam si alicui insit, id est tamquam si quilibet ambulet sed tamen per se est propriamque retinens sententiam huius verbi significatio est. Unde fit ut apud Graecos ƿ quoque articularibus praepositivis sola verba dicta proferantur, ut est: to perimatein tou perimatein toi perimatein  Quod si verba cum nominibus coniungantur, in oratione Graeca articularia praepositiva addi non possunt, nisi sola dicta sint. Quoniam significant rem et ita ut, quamuis eam significent quae alicui insit, tamen secundum se et per suam sententiam dicantur, idcirco sunt nomina. Et quod Aristoteles ait IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT, tale est ac si diceret: ipsa quidem sola neque cum aliis iuncta verba nomina sunt. Cuius rei hoc argumentum reddit: CONSTITUIT ENIM, inquit, QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Hoc autem tale est: omni nomine audito quoniam per syllabas progrediens vox aliquantulum temporis spatium decerpit, in ipsa progressione temporis qua dicitur nomen audientis quoque animus progreditur: ut cum dico "imperterritus", sicut per syllabas "in" et "per" et "ter" et caeteras progreditur nomen, ita quoque animus audientis per easdem syllabas uadit. Sed ubi quis expleuerit nomen et dixerit "imperterritus", sicut nomen finitum a syllabarum progressione consistit, ita quoque audientis animus conquiescit. Nam cum totum nomen audit, totam significationem capit et animus audientis, qui dicentis syllabas sequebatur volens quid ille diceret intellegere, cum significationem ceperit, consistit et ems animus perfecto demum nomine constituitur. Hoc est enim quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Etenim is qui loquitur postquam totum sermonem dixerit, ƿ audientis animum constituit. Non est enim quo progrediatur intellegentia ipsoque nomine terminato animus auditoris qui progrediebatur explicatione nominis constituitur et quiescit et ultra ad intellegentiam, quippe expedita significatione nominis, non procedit. Sed hoc verbo nominique commune est sed si verbum solum dicatur. Namque si cum nomine coniungatur, nondum audientis constituitur intellectus. Est enim quo ultra progredi animus audientis possit, quod cum dico: Socrates ambulat  hoc ambulat non per se intellegitur sed ad Socratem refertur et in tota oratione consistit intellectus, non in solo sermone. At vero si solum dictum sit, ita in significatione consistit, quemadmodum in nomine. Recte igitur dictum est IPSA SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA esse, quoniam CONSTITUIT IS QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Vel certe erit melior expositio, si ita dicamus: verba ipsa secundum se dicta nomina esse, idcirco quoniam cuiusdam rei habeant significationem. Neque enim si talis rei significationem retinet verbum, quae semper aut in altero sit aut de altero praedicetur, idcirco iam nihil omnino significat. Nec si significat aliquid quod praeter subiectum esse non possit, idcirco iam etiam illud significat quod subiectum est. Ut cum dico sapit, non idcirco nihil significat, quoniam hoc ipsum sapit sine eo qui sapere possit esse non potest. Nec rursus cum dico: Sapit  illum ipsum qui sapit significo sed id quod dico ("sapit") nomen est cuiusdam rei, quae semper si in altero et de altero praedicetur. Unde fit ut intellectus quoque sit. Nam qui audit "Sapit", licet per se constantem rem non audiat (in altero namque ƿ semper est et in quo sit dictum non est), tamen intellegit quiddam et ipsius verbi significatione nititur et in ea constituit intellectum et quiescit, ut ad intellegentiam ultra nihil quaerat omnino, sicut fuit in nomine. Quemadmodum enim nomen cuiusdam rei significatio propria est per se constantis, ita quoque verbum significatio rei est non per se subsistentis sed alterius subiecto et quodammodo fundamento nitentis. Est hic quaestio. Non enim verum videri potest quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Nam neque qui dicit constituit intellectum neque qui audit quieseit. Deest enim quiddam sermoni vel nomini: ut si qui dicat: Socrates  mox audientis animus requirit quid Socrates? Facitne aliquid an patitur? Et nondum audientis intellectus quietus est, cum horum aliquid requirit. Et in verbo idem est: cum dico: Legit  quis legat, animus audientis inquirit. Nondum ergo qui dicit constituit intellectum nec qui audit quiescit. Sed ad hoc Aristotelem rettulisse putandum est, quoniam quilibet audiens cum significativam vocem ceperit animo, eius intellegentia nitetur: ut cum quis audit homo, quid sit hoc ipsum quod accipit mente comprehendit constituitque animo audisse se animal rationale mortale. Si quis vero huiusmodi vocem ceperit, quae nihil omnino designet, animus eius nulla significatione neque intellegentia roboratus errat ac vertitur nec ullis designationis finibus conquiescit. Quare Aristotelis recta sententia est: et verba secundum se dicta esse nomina et dicentem constituere intellectum audientemque quiescere. Sed huiusmodi quaestio ab Aspasio proposita est ab eodemque resoluta. Postquam igitur Aristoteles secundum se ƿ dicta verba nomina esse constituit, quid inquit? SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT. Quod huiusmodi est ac si diceret: significatur quidem quiddam a verbis velut a nominibus sed nulla inde tamen negatio affirmatiove perficitur. Cum enim dico "Sapit", est quidem quaedam significatio sed nihil aut esse aut non esse demonstrat, id est neque affirmativum aliquid nec negativum est. Nam si affirmatio et negatio in intellectuum compositionibus invenitur, ut supra iam docuit, neque nomina sola dicta nec verba aut affirmationem aut ullam facient negationem. Pluribus enim modis docuit alias Aristoteles non in rebus sed in intellectibus veritatem falsitatemque esse constitutam. Quod si in rebus esset veritas falsitasue, una res sola dicta aut affirmatio esset aut quae ei contraria est negatio. Nunc vero quoniam in intellectibus iunctis veritas et falsitas ponitur, oratio vero opinionis atque intellectus passionumque animae interpres est: [quare] sine compositione intellectuum verborumque veritas et falsitas non videtur exsistere. Quocirca praeter aliquam compositionem nulla affirmatio vel negatio est. Verba igitur per se dicta significant quidem quiddam et sunt rei nomina sed nondum ita significant ut vel esse aliquid vel non esse constituant, id est aut affirmationem faciant aut negationem. Nam sicut in nominis partibus aut verbi partes ipsae nihil significant, omnes vero simul designant, ita quoque in affirmationibus aut negationibus partes quidem significant, totae vero coniunctae verum falsumue designant: ut cum dico: Socrates philosophus est Socrates philosophus non est  Singillatim positae partes propria significatione nituntur sed nihil verum falsumue significant, omnes vero simul iunctae, ut est: ƿ Socrates philosophus est  veritatem faciunt vel quod est huic contrarium falsitatem. Quare cum verba secundum se dicta nomina sint et significent aliquid et partes quaedam eius compositionis sint, quae verum falsumque faciat, non tamen ipsa in propria significatione vel esse, quod affirmationis est, vel non esse quod est negationis, designant. Nisi enim cui insit verbum illud fuerit additum, non fit enuntiatio: ut cum dico: Sapit  nisi quid sapiat dicam, propositio non est. Quod autem addidit: NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON ESSE, tale quiddam est. ESSE quod verbum est, vel NON ESSE, quod infinitum verbum est, NON EST SIGNUM REI, id est nihil per se significat. Esse enim nisi in aliqua compositione non ponitur. Vel certe omne verbum dictum per se significat quidem aliquid sed SI EST VEL NON EST, nondum significat. Non enim cum aliquid dictum fuerit, idcirco aut esse aut non esse significat. Atque hoc est quod ait: NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON ESSE. Etenim quam rem verbum designat esse eius vel non esse non est signum ipsum verbum quod de illa re dicitur, ac si sic diceret: neque enim signum est verbum quod dicitur rei esse vel non esse hoc est de qua dicitur re, ut id quod dico rei esse vel non esse tale sit, tamquam si dicam rem ipsam significare esse vel non esse. Atque hic est melior intellectus, ut non sit signum verbum eius rei de qua dicitur esse vel non esse, subsistendi scilicet vel non subsistendi, quod illud quidem affirmationis est, illud vero negationis, et ut sit talis sensus: neque enim verbum quod dicitur signum est subsistendi rem vel ƿ non subsistendi. Sed quod addidit: NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS vel si ita dicamus NEC SI HOC IPSUM ENS PURUM DIXERIS, Alexander quidem dicit est vel ens aequivocum esse. Omnia enim praedicamenta, quae nullo communi generi subduntur, aequivoca sunt et de omnibus esse praedicatur. Substantia est enim et qualitas est et quantitas et caetera. Ergo nunc hoc dicere videtur: ipsum ENS vel EST, unde esse traductum est, per se nihil significat. Omne enim aequivocum per se positum nihil designat. Nisi enim ad res quasque pro voluntate significantis aptetur, ipsum per se eo nullorum significativum est, quod multa significat. Porphyrius vero aliam protulit expositionem, quae est huiusmodi: sermo hic, quem dicimus est, nullam per se substantiam monstrat sed semper aliqua coniunctio est: vel earum rerum quae sunt, si simpliciter apponatur, vel alterius secundum participationem. Nam cum dico: Socrates est  hoc dico: Socrates aliquid eorum est quae sunt  et in rebus his quae sunt Socratem iungo; sin vero dicam: Socrates philosophus est  hoc inquam: Socrates philosophia participat.  Rursus hic quoque Socratem philosophiamque coniungo. Ergo hoc est quod dico vim coniunctionis cuiusdam obtinet, non rei. Quod si compositionem aliquam copulationemque promittit, solum dictum nihil omnino significat. Atque hoc est quod ait: NEC SI IPSUM EST PURUM DIXERIS, id est solum: non modo neque veritatem neque falsitatem designat sed omnino NIHIL est. Et quod secutus est planum fecit: CONSIGNIFICAT, inquit, AUTEM QUANDAM ƿ COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST INTELLEGERE. Nam si est verbum compositionis. Coniunctionisque cuiusdam vim et proprium optinet locum, purum et sine coniunctione praedicatum nihil significat sed eam ipsam compositionem quam designat, cum fuerint coniuncta ea quae componuntur, significare potest, sine compositis vero quid significet non est intellegere. Vel certe ita intellegendum est quod ait IPSUM QUIDEM NIHIL EST, non quoniam nihil significet sed quoniam nihil verum falsumue demonstret, si purum dictum sit. Cum enim coniungitur tunc fit enuntiatio, simpliciter vero dicto verbo nulla veri vel falsi significatio fit. Et sensus quidem totus huiusmodi est: ipsa quidem verba per se dicta nomina sunt (nam et qui dicit intellectum constituit et qui audit quiescit) sed quamquam significent aliquid verba, nondum affirmationem negationemue significant. Nam quamuis rem designent, nondum tamen subsistendi eius rei signum est, nec si hoc ipsum est vel ens dixerimus, aliquid ex eo verum vel falsum poterit inveniri. Ipsum enim quamquam significet aliquid, nondum tamen verum vel falsum est sed in compositione fit enuntiatio et in ea veritas et falsitas nascitur, quam veritatem falsitatemque sine his quae componuntur coniungunturque intellegere impossibile est. Et de verbo quidem et de nomine sufficienter dictum est, secundo vero volumine de oratione est considerandum.   In quantum labor humanum genus excolit et beatissimis ingenii fructibus complet, si tantum cura exercendae mentis insisteret, non tam raris hominum virtutibus uteremur: sed ubi desidia demittit animos, continuo feralibus seminariis animi uber horrescit. Nec hoc cognitione laboris evenire concesserim sed potius ignorantia. Quis enim laborandi peritus umquam labore discessit? Quare intendenda vis mentis est verumque est amitti animum, si remittitur. Mihi autem si potentior divinitatis annuerit favor, haec fixa sententia est, ut quamquam fuerint praeclara ingenia, quorum labor ac studium multa de his quae nunc quoque tractamus Latinae linguae contulerit, non tamen quendam quodammodo ordinem filumque et dispositione disciplinarum gradus ediderunt, ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit in Romanum stilum vertens eorum omnium commenta Latina oratione perscribam, ut si quid ex logicae artis subtilitate, ex moralis gravitate peritiae, ex naturalis acumine veritatis ab Aristotele conscriptum sit, id omne ordinatum transferam atque etiam quodam lumine commentationis illustrem omnesque Platonis dialogos vertendo vel etiam commentando ƿ in Latinam redigam formam. His peractis non equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo revocare concordiam eosque non ut plerique dissentire in omnibus sed in plerisque et his in philosophia maximis consentire demonstrem. Haec, si vita otiumque suppetit cum multa operis huius utilitate necnon etiam labore contenderim, qua in re faveant oportet, quos nulla coquit invidia. Sed nunc ad proposita reuertamur. Aristoteles namque inchoans librum prius nomen definiendum esse proposuit, post verbum, hinc negationem, post hanc affirmationem, consequenter enuntiationem, orationem vero postremam. Sed nunc cum de nomine et verbo dixit, converso ordine, quod ultimum proposuit, nunc exsequitur primum. De oratione namque disputat quam postremam in operis dispositione proposuit. Ait enim: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR. SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED NON SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST. Videtur Aristoteles illas quoque voces orationes putare, quaecumque vel ex nominibus vel ex verbis constent, non tamen integrum colligant intellectum, ƿ ut sunt: Et Socrates et Plato Et ambulare et dicere  Haec enim quamquam pleni intellectus non sint, verbis tamen et nominibus componuntur. Ait enim orationem esse vocem significativam, cuius partes significarent aliquid separatim, significarent, inquit, non consignificarent, ut in nomine atque verbo. Docet autem illa quoque res eum etiam imperfectas, compositas tamen ex nominibus ac verbis voces orationes dicere, quod ait, cum de nomine loqueretur, in eo quod est equiferus nihil significare ferus, QUEMADMODUM IN ORATIONE QUAE EST EQUUS FERUS. Namque equus ferus vox composita ex nominibtls est sed sententiam non habet plenam et ille ait quemadmodum in oratione quae est equus ferus. Nam si secundum Aristotelem equus ferus oratio est, cur non aliae quoque quae nominibus verbisque constent, quamquam sint imperfectae sententiae, tamen orationes esse videantur? Cum praesertim orationem ipse ita definiat: ORATIO EST VOX SIGNIFICATIVA CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM. In his ergo vocibus, quae verbis et nominibus componuntur, partes extra significant, non consignificant. Nam si nomen et verbum significativum est separatum, in his vero vocibus quae verbis et nominibus componuntur partes extra significant, non consignificant, etiam voces imperfectae nominibus verbisque compositae orationes sunt. Nam si nomen omne et verbum significativum est, hae autem voces id est orationes nominibus componuntur et verbis, dubium non est in his vocibus, quae ex nominibus et verbis coniunctae sunt, partes per se significare. Quod si hoc est, et vox cuius partium aliquid separatum et ƿ per se significat, licet sit imperfectae sententiae, orationem tamen esse manifestum est. Sed quod addit orationis partes significare, UT DICTIONEM, NON UT AFFIRMATIONEM, Alexander ita dictum esse arbitratur: sunt, inquit, aliae quidem simplices orationes, quae solis verbis et nominibus coniungantur, aliae vero compositae, quarum corpus iunctae iam faciunt orationes. Et simplices quidem orationes partes habent eas ex quibus componuntur, verba et nomina, ut est: Socrates ambulat  Compositae autem aliquotiens quidem tantum orationes, aliquotiens vero etiam affirmationes, ut cum dico: Socrates ambulat et Plato loquitur  utraeque sunt affirmationes, vel: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse  ex orationibus non ex affirmationibus componitur talis oratio. Prior autem simplicitas est, posterior compositio. In quibus autem prius est aliquid et posterius, illud sine dubio definiendum est priore loco, quod natura quoque praecedit. Ita ergo quoniam prior simplex oratio est, posterior vero composita, prius simplicem orationem definitione constituit dicens: cuius partes significant UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO, dictionem simplicis nominis aut verbi nuncupationem ponens. In simplicibus enim orationibus huiusmodi partes sunt. In compositis vero aliquotiens quidem orationes tantum, aliquotiens vero affirmationes, ut supra monstravimus. Addit quoque illud: omnem, inquit, definitionem vel contractiorem esse definita specie vel excedere non oportet. Quod si Aristoteles ita constituisset ƿ definitionem, ut significare partes orationis diceret ut orationes ac non ut dictiones, simplices orationes ab hac definitione secluderet. Orationum namque simplicium partes, non ut orationes sed ut simplicia verba nominaque significant. Nam si omnis oratio orationes habebit in partibus, rursus ipsae partes quae sunt orationes aliis orationibus coniungentur. Et rursus partium partes, quae eaedem quoque orationes sunt, alias orationes in partibus habebunt. Ac si hoc intellegentia sumpserit, ad infinitum procedit nec ulla erit prima oratio quae simplices habeat partes. Neque enim fieri potest, ut prima dicatur oratio quae alias orationes habet in partibus. Partes enim priores sunt propria compositione. Quod si in infinitum ducta intellegentia nulla prima oratio reperitur, cum nulla sit oratio prima, nec ulla postrema est. Quocirca interempta prima atque postrema omnes quoque interimuntur et nulla omnino erit oratio. Quare non recta fuisset definitio, si ita dixisset: oratio est vox significativa, cuius partes aliquid extra significant ut orationes. At vero, inquit Alexander, nec si quaedam orationes in partibus continent, idcirco iam necesse est ipsarum orationum partes affirmationes esse, ut cum dico: Desine meque tuis incendere teque querellis  Sunt ergo huius orationis partes: una "Desine meque tuis incendere", alia "teque querellis". Neutra harum est affirmatio, quamquam esse videatur oratio. Quocirca nec illa fuisset recta definitio, si ita dixisset: oratio est vox significativa, ƿ cuius partes aliquid extra significent, ut affirmatio. Huiusmodi enim orationis cum sint partes ex orationibus iunctae, non tamen affirmationibus totum ipsius orationis corpus efficitur. Sed quoniam in omni oratione verba sunt et nomina, quae simplices sunt dictiones, non autem in omnibus orationibus aut affirmationes aut orationes partes sunt, quod commune erat id in definitione constituit, tamquam si ita diceret: oratio est vox significativa secundum placitum, cuius partes aliquid extra significent, ex necessitate quidem ut dictio, non tamen semper ut affirmatio aut oratio. Neque enim fieri potest, ut inveniatur oratio, cuius partes non ita aliquid extra significent ex necessitate, ut nomen aut verbum, cum inveniri possit, ut ita significent orationis partes, ut tamen orationes aut affirmationes non sint. Quare si ita dixisset: oratio est vox significativa, cuius partes aliquid extra significant ut affirmatio, illas orationes hac definitione non circumscripsisset, quarum partes orationes quidem sunt sed non affirmationes, ut ille versus est quem supra iam posui. Sin vero sic dixisset: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significant ut oratio, illas orationes in definitione reliquisset, quarum partes sunt simplices, ut est: Socrates ambulat  Sed cum dicit orationis partes ita significare, ut dictiones, non omnino ut affirmationes, et simplices et compositas hac definitione conclusit. Simplices quidem idcirco, quod quaelibet simplex paruissimaque oratio nomine et verbo coniungitur, quae sunt simplices dictiones, compositas vero, quia, cum habeant orationes in partibus, partes ipsae habent simplices dictiones, quae ipsae simplices dictiones totius corporis partes sunt. Ut cum dico: Si dies est, lux est  "dies est" et "lux est" partes sunt totius orationis sed harum rursus partium partes sunt "dies" et "est", et rursus "lux" et "est", quae rursus totius orationis, per quam dico "Si dies est, lux est", partes sunt; sed "dies" et "est" et rursus "lux" et "est" sunt simplices dictiones. Quocirca etiam compositarum orationum partes indubitanter semper ita significant, ut dictiones, non ut affirmationes aut quaedam orationes. Quare hanc definitionem Aristoteles recte constituit. Ad hanc ergo sententiam locum hunc Alexander expedit, illud quoque addens saepe Aristotelem de affirmationibus dicere dictiones, quod distinguere volens, cum diceret ita significare partes orationis tamquam dictionem, ne forte dictionem hanc aliquis et in affirmatione susciperet, addidit ut dictio non ut affirmatio, tamquam si diceret: duplex quidem est dictio: una simplex, alia vero affirmatio sed ita partes orationis aliquid extra significant, ut ea dictio, quae est simplex, non ut ea dictio, quae est affirmatio. Et huiuscemodi quodammodo intellectum tota Alexandri sententia tenet. Porphyrius vero in eadem quoque sententia est sed in uno discrepat. Cuius expositio talis est: dictio, inquit, est simplex nomen, simplex etiam verbum vel ex duobus compositum, ut cum dico "Socrates" vel rursus "ambulat" vel "equiferus". Procedit etiam nomen hoc dictionis ad orationes quidem sed simplicibus verbis nominibusque coniunctas, ut cum dico: Et Socrates et Plato  et si sit ex composito nomine, ut est equiferus et homo. Hae orationes quamquam ƿ coniunctae sint atque imperfectae, tamen dictionis nomine nuneupantur. Necnon etiam transit nomen hoc dictionis usque ad perfectas orationes, quas enuntiationes nuncupari posterius est dicendum. Est autem enuntiatio simplex, ut si quis dicat: Socrates ambulat  et haec dicitur affirmatio. Huius negatio est: Socrates non ambulat  Simplices ergo enuntiationes sunt affirmationes vel negationes, quae singulis verbis ac nominibus componuntur. Itaque eum dico: Si dies est, lux est  tota quidem huiusmodi oratio dictio esse non dicitur. Composita namque est coniunctaque ex orationibus, quae sunt "dies est" et "lux est". Hae autem sunt affirmationes et dicuntur dictiones. Ipsae vero affirmationes quae dictiones sunt habent rursus alias dictiones simplices, ut est dies et est et rursus lux et est. Ergo cum dico: Socrates ambulat  haec oratio partes habet dictiones, nomen scilicet et verbum, quae dictiones quidem sint, non tamen affirmationes. Sin vero dicam: Socrates in lycio cum Platone et caeteris discipulis disputavit  haec pars orationis quae est "Socrates in lycio cum Platone" ipsa quoque est dictio sed non ut simplex nomen vel verbum neque ut affirmatio sed tantum ut imperfecta oratio verbis tamen nominibusque composita. Quod si sic dicam: Si homo est, animal est  haec rursus oratio habet dictiones in partibus sed neque ut simplices dictiones neque ut imperfectas orationes sed ut perfectas simplicesque affirmationes. Et est una affirmatio "animal est", alia vero est "homo est", tota vero ipsa oratio dictio non est. Quod si dicam: Si animal non est, homo non est  rursus haec oratio ex duabus simplicibus dictionibus negativis videtur esse composita, quae nihilominus ƿ tota dictio non est. Ita ergo dictio inchoans a simplicibus nominibus atque verbis usque a orationes, quamuis imperfectas, provehitur nec in his tantummodo consistit sed ultra etiam ad simplices affirmationes negationesque transit et in eo progressionis terminum facit. Ergo quoniam non omnis oratio artes habet affirmationes et negationes, quae sunt perfectae enuntiationes simplicium dictionum, quoniamue non omnis oratio imperfectas orationes habet in partibus, omnis tamen oratio simplices dictiones retinet, quippe cum omnis ex verbis nominibusque iungatur, hoc ait orationis partes significare semper quidem ut dictiones, non tamen semper ut affirmationes, consentiente Alexandro, cuius expositionem supra iam docui. Atque ita diligentior lector differentias eorum recte perspiciet et consentientes communicat intellectus. Hoc loco Aspasius inconvenienter interstrepit. Ait enim non in omnes orationes Aristotelem definitionem constituere voluisse sed tantum simplices, quae ex duobus constant, verbo scilicet et nomine. Sed ille perfalsus est. Neque enim si sim otatio simplicibus verbis nominibusque consistit, idirco non composita quoque oratio verba et nomina bimiliter in partibus habet. Quod si hoc commune est simplicibus orationibus atque compositis, ut habeant artes dictiones quidem simplices, non etiam affirmationes, ut etiam quae affirmationes orationes habent, hae tamen habeant in partibus simplices dictiones, cur hanc quaestionem in Aristotelem iaciat, ratione relinquitur. Syrianus vero, qui Philoxenus cognominatur, non putat orationes esse quarum intellectus ƿ sit imperfectus atque ideo nec eas aliquas habere partes. Nam cum dicit: Plato in Academia disputans  haec quoniam perfecta non est, partes, inquit, non habet, arbitrans omne quod imperfectum est nullis partibus contineri. Atque ideo, cum dicit Aristoteles: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significent, illam orationem constitui putat, quae perfectum retinet sensum. Ipsarum enim partes esse verba et nomina. Sed hoc ridiculum est. Neque enim compositum aliquid fieri potest nisi propriis partibus. Quod si quaelibet res ut componatur habeat decem partes, eas tamen singillatim apponi necesse sit, antequam ad decimam veniamus partem: nihilo tamen minus partes erunt quas sibimet ad componendam totius corporis summam singillatim superponimus etiam si ad illud quod componendum fuit minime peruentum est. Quocirca si antequam perveniatur ad ultimam partem priores partes effecti compositique partes sunt, nulla ratio est imperfectae rei partes dici non posse. Neque enim dicitur totius compositi partes esse, quae sint imperfecti. Ut si sit integrum nomen habeatque partes quatuor, id est syllabas, ut Mezentius, si unam syllabam demam dicamque mezenti, vel si unam rursus duasque ponam, ut sunt mezen, huius tamen utraque syllaba me scilicet et zen partes sunt, et cum sit compositio ipsa sensu uacua ac sit imperfecta, tamen partibus continetur Syrianus igitur minime audiendus est sed potius Porphyrius, qui ita Aristotelis mentem sententiamque persequitur, ut eius definitionem, sicut vera est, labare et in aliquibus aliis discrepare non faciat. ƿDe his quidem hactenus. Porphyrius autem ita dicit: voleus, inquit, Aristoteles ostendere omnem orationem aut simplices tantum habere partes aut compositas, a simplicibus sumpsit exemplum, ut diceret significare orationis partes, UT DICTIONEM NON UT AFFIRMATIONEM, ut cum est oratio: Plato disputat  dictiones quidem sunt sed non ut affirmationes. Si vero sic esset oratio: Si Plato disputat, verum dicit  "Plato disputat" et "verum dicit", cum sint dictiones, non sunt tamen ut simplices sed ut iam affirmationes. Neque enim simplex dictio affirmatio est aut negatio sed tunc fit, cum additur aliquid, quod aut affirmationis vim teneat aut negationis. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR. Hoc huiusmodi est, tamquam si diceret: nomen quidem simplex affirmationem aut negationem non facit, nisi aut "est" verbum addatur, quae est affirmatio, aut "non est", quae est negatio. Quod autem addit: SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT' SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED NIHIL SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST, huius loci duplex est expositio. Quod enim dixerat prius: SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO SI QUID ADDATUR EI DICTIONI, quam supra simplicem esse proposuit, cum de significativa orationis parte loqueretur, nunc id implet et explicat dicens non si quodlibet addatur simplici dictioni, statim fieri affirmationem vel negationem, nec vero orationem neque enim si quid non per se significativum dictioni ƿ simplici copuletur, idcirco iam vel oratio vel affirmatio vel etiam negatio procreabitur. Neque enim si una hominis syllaba quae significativa per se non est dictioni eidem ipsi addatur, iam ulla inde procreatur oratio. Quod si oratio non fit, nec affirmatio nec negatio. Hae enim orationes quaedam sunt. Ut si quis ex eo quod est homo tollat unam syllabam eamque totae dictioni simplici aptet dicatque homo mo vel alio quolibet modo deeidens partem toti corpori dictionis adiciat, non faciet orationem. Quod si hoc est, nec affirmationem nec negationem, quae quaedam sunt orationes. Ergo ita accipiendum est, tamquam si hoc modo dixisset: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR SED NON UT UNA HOMINIS SYLLABA ADDATUR nec cuiuslibet alterius dictionis, si quid per se non significat, ut in eo quod est sorex rex non significat sed vox est nunc sola. Atque ideo si quis velut partem tollat, id quod est rex, apponatque ei quod est sorex et dicat sorex rex, ut rex tamquam pars sit eius quod est sorex, oratio nulla est atque ideo neque affirmatio nec negatio. Hae enim ex vocibus per se significativis constant. Rex vero in eo quod est sorex quoniam pars est nominis, nihil ipsa significat. Vel certe erit melior intellectus, si hoc quod ait SED NON UNA HOMINIS SYLLABA non aptemus ad orationis perfectionem sed potius ad dictionis significationem, ut quoniam superius dixit orationis partes ita significare ut dictionem non ut affirmationem, ƿ quae esset dictio, manifeste monstraret. Dictionem namque constituit vocem per se significantem. Ergo cum dicit SED NON UNA HOMINIS SYLLABA, tale est ac si diceret: significat quidem pars orationis ut dictio sed hae ipsae dictiones perfecta nomina sunt et verba, non partes nominum verborumque. In eo enim quod est: Equiferus currit  equiferus quidem dictio est totius orationis significans ut pars orationis sed 'ferus' consignificat ut pars nominis atque ideo 'ferus' dictio non est. Quocirca nec si qua alia syllaba in parte orationis sit, id est in nomine vel verbo, nihil per se significans. Quamquam sit in parte nominis, quod nomen pars orationis est, nihil tamen ipsa significabit in tota oratione: quare nec dictio erit. Audiendum ergo ita est tamquam si sic diceret: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID et est quaedam dictio et simplex. Nam neque oratio est, quoniam simplex est, nec affirmatio neque negatio, quoniam non significat esse aut non esse sed erit tunc affirmatio, quando aliquid additur, quod affirmationem negationemue constituit. Sed quod aio dictionem esse id quod dicimus homo, idcirco dictio est, quoniam per se significat. Syllaba vero eius nominis quod est ƿ homo, quoniam nihil designat, non est dictio (hoc est enim SED NON UNA HOMINIS SYLLABA) vel si videatur quidem significare, pars tamen sit nominis et consignificet in nomine, in tota oratione nihil significat. Neque enim pars orationis est. Quod per hoc dixit quod ait: NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA nihil significans. Unde probatur huiusmodi particulas non esse dictiones. Vox enim sola non est dictio sed vox per se significans. Si qua autem sunt, inquit, nomina, quae sint composita ex aliis, ut est equiferus, emittunt quidem quandam imaginem significandi sed per se nihil significant, consignificant autem. In simplicibus vero nominibus nec imaginatio ulla significandi est, ut in eo quod est Cicero: partes eius cum simplices sono, tum etiam intellectu praeter cuiuslibet imaginationis similitudinem sunt. In duplicibus vero uult quidem pars significare sed nullius separati significatio est, idcirco quoniam solum consignificat id quod totum compositi nominis corpus designat, ipsum vero separatum (ut saepius dictum est) nihil extra significat. EST AUTEM ORATIO OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM SED (QUEMADMODUM DICTUM EST) SECUNDUM PLACITUM. Secundum placitum esse orationes illa res approbat, quod earum partes secundum placitum sunt, id est verba et nomina. Quod si omne compositum ab his, ex quibus est compositum, sumit naturam, vox quae positione constitutis vocibus iungitur ipsa quoque secundum placitum positionemque formatur. Quare manifestum est orationem secundum placitum esse. Plato autem in eo libro, qui inscribitur "Cratylus", aliter esse constituit eamque dicit supellectilem quandam atque instrumentum esse significandi res eas, quae naturaliter intellectibus concipiuntur, eorumque intellectuum vocabulis dispertiendorum. Quod omne instrumentum, quoniam naturalium rerum, secundum naturam est, ut videndi oculus, nomina quoque secundum naturam esse arbitratur. Sed hoc Aristoteles negat et Alexander multis in eo nititur argumentis monstrans orationem non esse instrumentum naturale. Aristoteles vero ita utitur dicens: EST AUTEM ORATIO OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM, tamquam si diceret: est quidem omnis oratio significativa, non tamen naturaliter. Instrumentum enim hoc demonstrat, tamquam si diceret naturaliter, quod qui instrumentum orationem esse negat, negat eam naturaliter significare sed ad placitum. Naturalium enim rerum naturalia sunt instrumenta. Idcirco autem instrumentum pro natura posuit, quod (ut dictum est) Plato omnium artium instrumenta secundum naturam ipsarum artium consistere proponebat. Et Alexander quidem non esse instrumentum orationem sic ingreditur approbare: omnis, inquit, naturalium actuum supellex ipsa quoque naturalis est, ut visus quoniam natura datur, eius quoque supellex ƿ est naturalis, ut oculi. Eodem quoque modo auditus cum naturalis sit, aures nobis, quae sunt audiendi instrumenta, naturaliter datas esse cognoscimus. Quare quoniam oratio ad placitum, non naturaliter est (partes enim manifestum est orationis ad placitum positas, quae sunt scilicet verba et nomina, sicut monstrat apud omnes gentes diversitas vocabulorum): quoniam ergo per haec secundum placitum omnis oratio esse monstratur, quod autem secundum placitum est, non est secundum naturam: non est ergo oratio supellex. Significandi enim ratio atque potestas naturaliter est. Quod si oratio naturaliter non est, non est supellex. His aliisque similibus monstrat non esse supellectilem orationem. Quocirca dicendum nobis est naturaliter quidem nos esse vocales potentesque naturaliter vocabula rebus imprimendi, non tamen naturaliter significativos sed positione: sicut artium singularum naturaliter sumus susceptibiles sed eas non naturaliter habemus sed doctrina concipimus: ita ergo vox quidem naturaliter est sed per vocem significatio non naturaliter. Neque enim vox sola est nomen aut verbum sed vox quadam addita significatione. Et sicut naturaliter est moveri, saltare vero cuiusdam iam artificii et positionis, et quemadmodum aes quidem naturaliter est, statua vero positione aut arte: ita quoque possibilitas quidem ipsa significandi et vox naturalis est, significatio vero per vocem positionis est, non naturae. Hactenus quidem de communi oratione locutus est, nunc autem transit ad species eius. Ait enim: ENUNTIATIVA VERO NON OMNIS SED IN QUA VERUM VEL FALSUM INEST. NON AUTEM IN OMNIBUS, UT DEPRECATIO ORATIO QUIDEM EST SED NEQUE VERA NEQUE FALSA. ET CAETERAE QUIDEM RELINQUANTUR; RHETORICAE ENIM VEL POETICAE CONVENIENTIOR CONSIDERATIO EST; ENUNTIATIVA VERO PRAESENTIS EST SPECULATIONIS. Species quidem orationis multae sunt sed eas varie partiuntur. At vero Peripatetici quinque partibus omnes species orationis ac membra distribuunt. Orationis autem species dicimus perfectae, non eius quae imperfecta est. Perfectas autem voco eas quae complent expediuntque sententiam. Et sit nobis hoc modo divisio: sit oratio genus: orationis aliud est imperfectum, quod sententiam non expedit, ut si dicam: Plato in lycio  aliud vero perfectum. Perfectae autem orationis alia est deprecativa, ut: Adsit laetitiae Bacchus dator  alia imperativa, ut: Accipe daque fidem  alia interrogativa, ut: Quo te, Moeri, pedes? An quo via ducit?  Alia vocativa, ut: O qui res hominumque deumque Aeternis regis imperiis  alia enuntiativa, ut: Dies est  et: Dies non est  In hac sola, quae est enuntiativa, veri falsive natura perspicitur. In caeteris enim neque veritas neque falsitas invenitur. Et multi quidem plures species esse dicunt perfectae orationis, alii autem innumeras earum differentias produnt sed nihil ad nos. Cunctae enim species orationis aut oratoribus accommodatae sunt aut poetis, sola enuntiativa philosophis. Ergo hoc dicit: non omnis oratio enuntiativa est. Sunt enim plurimae quae enuntiativae non sunt, ut hae quas supra proposui. Haec autem sola est, in qua verum falsumque inveniri queat. Quocirca quoniam de ista, in qua veritas et falsitas invenitur, dialecticis philosophisque est quaerendum, caeterae autem aut poetis aut oratoribus accommodatae sunt, iure de hac sola tractabitur, id est de enuntiativa oratione. Hucusque ergo de partibus interpretationis et de communi oratione locutus est. Nunc autem adstringit modum disputationis in speciem et de una specie orationis tractat deque una interpretatione, quae est enuntiativa. Species namque est enuntiatio interpretationis, negatio vero et affirmatio enuntiationis. Quare de enuntiativa oratione considerandi hinc cum ipso Aristotele commodissimum sumamus initium. EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE. NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA. QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII. Una oratio duplici tractatur modo: vel cum per se una est vel cum per aliquam coniunctionem coniungitur. Vel certe ita dicendum est: aliae orationes naturaliter unae sunt, aliae positione. Et naturaliter quidem unae sunt orationes, quae non dissoluuntur in alias orationes, ut est: Sol oritur  Quae autem positione sunt unae in alias orationes dissoluuntur, ut est: Si homo est, animal est  haec enim in orationes alias separatur. Et quemadmodum lignum vel lapis singillatim in propria natura consistunt et una sunt, ex his autem facta navis vel domus cum pluribus quidem constent, unae tamen arte sunt, non natura: ita quoque in orationibus simplices et per se naturaliter unas orationes dicimus, quae verbo tantum et nomine iunguntur, compositas autem, quae in alias (ut dictum est) orationes dividuntur. Multas enim orationes in huiusmodi orationibus coniunctio iungit, ut si dicam: Et Plato est et Socrates  haec coniunctio et utrasque coniunxit atque ideo una videtur positione, quae naturaliter et per se una non fuerat. Naturaliter autem unius orationis duae partes sunt: affirmatio et negatio. Sed quoniam non ita dixit: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE UNA CONIUNCTIONE sed ait: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, huiusmodi oritur quaestio, utrum id quod ait prima ad affirmationem referatur, ut sit posterior negatio, an id quod ait prima ad simplicem rettulerit orationem, ut secunda sit, quae ex orationibus iungitur. Quam dubietatem ipse dissolvit. Sic enim inquit: EST AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, et ut quam secundam diceret demonstraret ait DEINDE NEGATIO, ut primam affirmationem poneret, secundam negationem. Quod si ita dixisset: EST AUTEM UNA PRIMA ENUNTIATIVA ORATIO AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE CONIUNCTIONE UNAE, ita oporteret intellegi tamquam si diceret illam esse primam unam orationem, quae simplex esset, cuius partes affirmatio essent atque negatio, secundam vero illam, quae coniunctione quadam una fieret, cum ex orationibus iungeretur. Sed quoniam id quod ait prima ad affirmationem iunxit dicens EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, ad negationem vero 'deinde' subiunxit dicens DEINDE NEGATIO, dicendum est primam eum orationem esse arbitrari affirmationem, secundam vero negationem, cui 'deinde' continenter apposuit. Sed rursus incurrimus Alexandri quaestionem. Per hoc enim negationem affirmationemque negat sub uno genere poni oportere, sub enuntiatione, quod in his, quae priora vel posteriora sunt, commune genus non potest inveniri. Sed huic supra iam dictum est, non oportere omnia quaecumque quolibet modo priora vel posteriora sunt a genere communi secernere (alioquin sic primae et secundae substantiae sub uno genere substantiae non ponentur, sic etiam simplices et compositae orationes, quarum simplices propositiones primae sunt, posteriores compositae, uno genere non continebuntur) sed illa sola putanda sunt sub eodem genere poni non posse, quae ad substantiam priora vel posteriora esse cognoscimus, quae vero ad suum esse aequalia sunt nihil prohibet sub eodem genere utraque constitui. Ergo quoniam affirmationi et negationi hoc est esse, quod ƿ in his veritas et falsitas reperitur, hoc autem est enuntiatio, in qua scilicet veritatis et falsitatis constituta sit ratio: quoniam ad id quod falsi verique significativae sunt neque affirmatio prior neque negatio posterior est, nullus dubitat a quo aequaliter participant affirmatio et negatio eidem generi posse supponi. Sed affirmatio atque negatio aequaliter enuntiatione participant, siquidem enuntiatio veri falsique utitur significatione et affirmatio et negatio veritatem atque mendacium aequaliter monstrat: enuntiatio igitur affirmationis et negationis genus esse ponenda est. Quod ergo ait: EST AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE, ita intellegendum est, quod affirmationem primam, secundam vero negationem, cui addidit deinde, in prolatione posuerit. Prior enim est affirmatio, posterior negatio, in prolatione dumtaxat, non secundum veri falsique designationem. Quocirca nihil prohibet et priorem putari affirmationem negatione et tamen utrasque sub uno genere id est enuntiatione constitui. Sed quod secutus est: NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE VEL CASU, huiusmodi est: volens Aristoteles distribuere dictionem, affirmationem, negationem, enuntiationem, contradictionem sensum confusa brevitate permiscuit et nebulis obscuritatis implicuit. Oportuit namque prius quid esset dictio, post autem quid affirmatio et negatio et rursus enuntiatio et contradictio constituere. Sed haec interim praetermittit, nunc vero quemadmodum constituatur enuntiatio docet dicens, quod omnis enuntiatio constet in verbo. Quoniam simplex dictio est nomen ƿ aut verbum, omnis enuntiatio simplex huiusmodi est, ut semper quidem vel vertum vel aliquid quod idem valeat, tamquam si diceretur verbum vel casum verbi, in praedicatione retineat sed non semper subiectus terminus fit ex nomine, semper tamen praedicatus ex verbo. Sit enim huiusmodi propositio, quae est: Sol oritur  in hac ergo propositione quod dico "sol" subiectum est, quod vero dico "oritur" praedicatur. Et utrasque has dictiones terminos voco sed quodcumque prius dicitur in simplici enuntiatione, illud subiectum est, ut in hac "sol", quod vero posterius, illud praedicatur, ut in eadem "oritur". Ergo necesse est omnem enuntiativam orationem, si simplex sit, verbum in praedicatione retinere, ut in eadem ipsa cum dico "Sol oritur", "oritur" verbum est -- vel quod idem valeat, ut est: Socrates non ambulat  "Non ambulat" enim infinitum verbum est et verbum quidem non est sed eandem vim retinet quam verbum. Casus etiam verbi ponitur saepe, ut Socrates fuit  Subiectus vero terminus non semper consistit in nomine. Potest enim et infinitum nomen habere, ut cum dico: Non homo ambulat  potest etiam verbum, ut cum dico: Ambulare movere est  Ergo (ut arbitror) plene monstratum est non semper subiectum nomen esse, semper autem praedicatum in solo verbo consistere. Approbans ergo verba semper in praedicationibus poni hoc addidit: nisi enim aut est aut fuit aut aliquid huiusmodi sit additum aut quod idem valeat apponatur, enuntiatio non fit. Cum enim dico: Homo est  'est' verbum in praedicatione proposui, sin vero dixero: Homo vivit  idem valet tamquam si dicam homo vivus est. Ergo non posse sine verbo affirmationem negationemue constitui ƿ docuit per id quod ait ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA. Hoc enim dicere videtur: definitio hominis est verbi gratia animal gressibile bipes et haec est ratio humanae substantiae. Ergo haec ratio, nisi ei aut est aut erit aut fuit aut quodlibet verbum (sicut supra dictum est) apponatur, enuntiatio non fit; neque enim verum neque falsum est. Si enim dicam tantum animal gressibile bipes, nulla me veritas mendaciumue consequitur. Sin autem dixero animal gressibile bipes est vel non est, affirmatio mox negatioque conficitur, quas enuntiationes esse quis dubitet? Sed cum de simplicibus enuntiationibus loqueretur, ait hominis rationem id est definitionem non esse enuntiationem, nisi ei aut est aut erit aut huiusmodi aliquid apponatur, approbans scilicet unam esse et non multiplicem orationem definitionis humanae, cui si est aut erit aut fuit adderetur, enuntiationem simplicem faceret. Cur vero una sit talis oratio causa quaeritur. Neque enim ex solis duobus terminis constat id quod dicimus animal gressibile bipes, ut quae nomina plura sunt. Quare ipse sibi institit et de sua propositione rationem quaesivit, quam nunc dicere supersedit. Ait enim: QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII, hoc scilicet quaerens, tamquam si ita ipse ex persona sua diceret: de simplicibus enuntiationibus omnibus loquebar deque his proposui eas praeter verbum esse ƿ non posse et ad hanc rem probandam exemplum sumpsi definitionem hominis, cui nisi aut est aut erit aut fuit apponeretur, enuntiationem non fieri dixi, quasi una et non multiplex esset oratio ea per quam dicitur animal gressibile bipes, de qua fieri posset simplex enuntiatio. Cur autem una erit oratio animal gressibile bipes, ALTERIUS, inquit, EST HOC TRACTARE NEGOTII, cum de rebus non de propositionibus perspiciendum est. Nam non idcirco una est oratio, quia continve dicitur et coniuncte sibimet animal gressibile bipes. Hoc enim si ita esset, possemus et hanc orationem, quae tam multa significat, unam dicere, si continve proferatur, ut est: Socrates philosophus simus caluus senex  Ergo quemadmodum huiusmodi oratio sit multiplex et non una, posterius dicemus. Nunc ergo manifestum sit hanc orationem quae dicit Socrates philosophus simus caluus senex non esse unam sed multiplicem. Si ergo propinquitas proferendi ipsa continuatione unam faceret orationem, posses haec quoque una esse oratio, quae manifesto non una esse docebitur. Quare non idcirco erit una oratio ea quae dicit animal gressibile bipes, quod propinque et continve profertur. Quae autem causa sit ut una sit, ipse dicere distulit sed in libris eius operis, quod *Meta ta physika* inscribitur, expediet. Theophrastus autem in libro de affirmatione et negatione sic docuit: definitionem unam semper esse orationem eamque oportere continuatim proferre. Illa enim una oratio esse dicitur, quae unius substantiae designativa est. Definitio autem, ut verbi gratia hominis animal gressibile ƿ bipes, una est oratio per hoc, quoniam unum subiectum id est hominem monstrat. Si ergo continve proferatur et non divise, una est oratio, et quia continve dicitur et quia unius rei substantiam monstrat; sin vero quis dividat et orationem unam rem significantem proferendi intermissione distriboat, multiplex fit oratio. Ut si dicam animal gressibile bipes, unam rem mihi tota monstrat oratio et continve dicta est; sin vero dicam animal et rursus gressibile et sub intermissione repetam bipes, multiplex fit distribute intermissione oratio. Et rursus adversum id quaestio. Et quis hoc non iure culpet posse eam quae una est orationem intermissione proferendi fieri multiplicem, cum continuatio proferendi non faceret unam, quae esset multiplex per naturam? Sicut enim in his, quae multiplices sunt naturaliter, non potest continuatio proferendi unam facere orationem, sic quoque non debet quae est una naturaliter oratio idcirco quod de uno subiecto dicatur fieri multiplex per intermissionem. Sed hoc ita solvitur: nam cum dicimus animal et sub intermissione rursus gressibile eodemque modo iterum bipes, non hoc ita dicimus, tamquam si in unum cuncta coniuncta sins. Quocirca quoniam est quidem animal, est rursus gressibile, est rursus bipes, quoniam plura sunt et pluraliter dicta id est distributa, non videntur ad unum subiectum distributa posse praedicari, sicut cum dico "Socrates philosophus caluus senex", haec omnia non est simplex oratio, nec si continve proferatur, quod ad unam substantiam non tendunt: accidentia enim sunt et extrinsecus veniunt. Probatur autem neque eas orationes, quae per divisionem dicuntur, ƿ neque eas, quae non ad unam substantiam tendunt, unas esse, hoc modo: si dicat quis animal et rursus gressibile et iterum bipes, non unum est animal nec unum gressibile nec unum bipes. Sin vero dixero "animal gressibile bipes" continve et propinque, unum est, quod tria ista iuncta significant, id est homo. Convertamus nunc animum ad eas quae plura quidem significant sed continve proferuntur, ut cum dico "Socrates philosophus caluus senex": videtur quasi quaedam Socratis esse definitio philosophus caluus senex sed non necesse est, si huiusmodi Socrates fuit, omnem quicumque philosophus senex caluus est esse etiam Socratem. In multis ergo continuatio ista valet accidere. Quocirca non unum significat, quamquam continve proferatur. Ergo si ex omnibus unum quiddam significetur et continve proferatur, una est oratio, ut partes quaedam rei definitae sint ea quae in definitione ponuntur, non accidentia. Et proficit quidem aliquid continua prolatio ad perficiendam unam orationem sed ipsa sola non sufficit, nisi unum quoque subiectum sit. Atque ideo dixit Aristoteles animal gressibile bipes non idcirco esse unam orationem, quod propinque dicatur. Nam neque sufficit ad constituendam unam orationem propinquitas proferendi nihilque prohiberet, quae naturaliter essent multiplices, eas continve et propinque prolatas unas videri. Sed huius rei rationem Aristoteles ponere distulit. Sensus ergo huiusmodi est: NECESSE EST, inquit, OMNEM ENUNTIATIVAM ORATIONEM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, quae et ipsa quoque oratio est, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ILLI ADDATUR, NONDUM EST enuntiatio. Hoc vero in solis simplicibus enuntiationibus evenit, in his autem quae coniunctione unae sunt (ut supra ait) non omnino est. Cum enim dico dies est, vis tota in verbo est; si autem cum coniunctione proferam: Si dies est, lux est  tota vis in coniunctione consistit, id est 'si'. Veritatis enim aut falsitatis rationem sola coniunctio tenet, quae conditionem proponit, cum dicit "Si dies est, lux est": si enim illud est, illud evenit. Igitur in coniunctione omnis vis huiusmodi propositionis est, omnis autem simplex propositio totam vim in verbo habet positam. Et quemadmodum in his, quae hypotheticae vel conditionales dicuntur, coniunctiones propositionis vim tenent, sic in simplicibus propositionibus praedicatio vim optinet, unde et Graece quoque tales propositiones praedicativae dicuntur, scilicet quae simplices sunt, quod in his totam propositionem optineat praedicatio. Atque ideo Aristoteles ait ex verbo vel casu fieri simplicem enuntiationem. Nam praeter id quod totam continet propositionem praedicativam scilicet, id est praeter praedicationem, enuntiatio non fit. Unde est ut negatio quoque non ad subiectum sed ad praedicatum semper aptetur. Nam cum dico: Sol oritur  non est huius negatio: Non sol oritur  sed illa quae est: Sol non oritur  Atque ideo negatio ad subiectum posita non facit contrariam propositionem, ad praedicatum vero contrariam reddit. Recte igitur Aristoteles de subiecto quidem nihil locutus est. Non enim praedicativam propositionem subiectus terminus tenet sed tantum praedicatio, quae totam enuntiationem propria virtute confirmat. EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Hinc monstratur quoniam tum cum dixit: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, primam non eum de ea oratione dixisse, quae naturaliter una est sed de affirmatione. Alioquin hic quoque repetens ita dixisset: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT. Sed quoniam non ita dixit, manifestum est quod dudum ait primam non ad orationem, quae praeter coniunctionem una est, rettulisse sed ad affirmationem, quam negatione priorem esse constaret. Sed hoc iam superius dictum est. Quid autem sibi velit haec enumeratio, paucis expromam multas enim confusiones multosque in orationibus errores hic locus optime intellectus veraciterque perceptus sustulit. Et est haec expositio quam nullus ante Porphyrium expositorum vidit. Non est idem namque unam esse orationem et multiplicem, quod simplicem et compositam, et distat una a simplici, distat etiam multiplex a composita. Est ergo una oratio quae unum significat, multiplex autem quae non unum sed plura. Fit autem hoc in huiusmodi orationibus, ut cum dico: Cato philosophus est  Haec oratio non est una: non enim unum significat potest enim monstrare et Catonem Uticensem esse ƿ philosophum, potest etiam ostendere et Catonem Censorium oratorem esse philosophum. Qua in re non una est oratio atque idcirco in Uticensi quidem Catone vera est, in oratore vero falsa. Huiusmodi ergo orationes multas vocamus. Sin vero unum significet, ut cum dicimus: In charta scribitur  illam dicimus unam. Ergo una quae sit vel multiplex oratio, ex his intellegitur quae significant. Si enim unam significat rem, una est, si multas, multiplex. Simplices autem et compositae orationes non ad significationem sed ad terminos ipsos dictionesque, quae in propositionibus sumuntur, referendae sunt. Et est quidem simplex oratio enuntiativa, quae ex solis duobus terminis constat, ut est: Homo vivit  Sive autem his propositionibus omnis addatur, ut est: Omnis homo vivit  sive nullus, ut: Nullus lapis vivit  sive aliquis, ut: Aliquis homo vivit  quoniam termini ipsi duo sunt, simplex vocatur propositio. Composita vero, si ultra duos terminos enuntiat, ut est: Plato philosophus in lycio ambulat  hic enim quatuor sunt termini, vel si tres sint, ut: Plato philosophus ambulat  Hae quoque, si eis omnis aut nullus aut aliquis addatur, eodem modo compositae sunt. Ergo una vel multiplex oratio intellegitur, si unum vel multa significent, et de propria semper significatione iudicantur. Simplex autem et composita non ex significatione sed ex verborum vel nominum pluralitate cognoscitur. Si enim ultra duos terminos habet propositio, composita est, sin duos tantum, simplex. Si ergo semper quae ƿ simplex oratio est, id est quae duobus terminis constat, unam tantum significantiam retineret, indifferenter dici posset una oratio et simplex (eadem enim una esset, quae etiam simplex) sed quoniam non omnis simplex unum significat, non omnis simplex una est. Potest ergo fieri ut simplex quidem sit propositio, multae tamen orationes: simplex quidem ad compositionem dictionum, multae vero ad significationem sententiarum. Quare erit in hoc gemina differentia, ut unam dicamus simplicem unamque orationem, alteram simplicem et plures orationes. Rursus si omnes compositae orationes plures etiam res significarent, indifferenter diceremus multiplicem et compositam; sed quoniam fieri potest ut propositio aliquotiens quidem constet ex numerosis pluribusque terminis quam sunt duo, unam tamen sententiam monstret, potest fieri ut composita quidem sit, una tamen oratio sit significatione, composita dictione, ut est animal rationale mortale mentis et disciplinae capax: haec quidem plura sunt sed his una subiecta substantia est id est homo, quare una quoque sententia. Sin vero quis dicat: Socrates et ambulat et loquitur et cogitat  multa sunt. Diversa enim sunt quod ambulat et quod loquitur et quod cogitat. Quare erit aliquando composita quidem oratio, una tamen. Sed quoniam composita oratio aliquotiens quidem continve sine coniunctione dicitur, aliquotiens coniunctione copulatur, fiunt hinc quatuor differentiae. Est enim una oratio composita ex terminis continuatim dictis et sine coniunctione unam sententiam monstrans, ut est: ƿAnimal rationale mortale mentis et disciplinae perceptibile. Haec enim oratio composita quidem est ex multis terminis sed coniunctionem non habet (nam quod dictum est mentis et disciplinae perceptibile, haec coniunctio quae est et nullam in tota propositione vim optinet: neque enim coniungit propositionem sed artem addit, cuius susceptibilis homo esse videatur) et habet unam sententiam subiectam, quod est homo. Alia vero est composita ex terminis nulla coniunctione copulatis multiplex et non unam significans propositionem, ut est: Plato Atheniensis philosophus disputat  Aliud enim est esse Platonem, aliud esse philosophum, aliud Atheniensem, aliud disputantem, et haec coniuncta unum aliquid non faciunt quasi substantiam. Quare haec multiplex est sed eam manifestum est nulla coniunctione copulari.Alia vero est composita ex propositionibus inconiunctis multiplex, ut est: Iuppiter optimus maximus est, Iuno regina est, Minerua dea sapientiae est  Quas si quis sub unum continveque proferat, plures quidem propositiones sunt, et oratio multiplex sed coniunctione carent. Alia vero est composita vel ex terminis vel ex propositionibus coniunctione copulatis multiplex et multa significans. Et ex terminis quidem composita, ut si quis dicat: Et Iuppiter et Apollo dii sunt  ex propositionibus autem coniuncta multa significans est, ut si quis dicat: Et Apollo uates est et Iuppiter tonat  Est autem praeter has alia composita propositio ex propositionibus coniunctione coniuncta ƿ unam significans orationem, ut cum dico: Si dies est, lux est  Duae enim propositiones, quae sunt istae "dies est", "lux est", si coniunctione copulantur. Sed haec oratio non significat multa. Neque enim diem esse et lucem proponit sed si dies est, lucem esse. Quocirca consequentiam quandam significat, non exstantiam propositionis. Non enim dicit utrasque esse sed si una est, aliam consequi, quod utrumque in unam quodammodo intellegentiam congruit. Sed hanc Porphyrius propositionem extrinsecus ponit, idcirco quod plura significare videbatur (ipsa enim propositionum pluralitas multitudinem simulat significationum) sed (ut dictum est) non plures significat res sed unam consequentiam. Compositarum igitur et unam rem significantium propositionum duplex modus est. Aut enim est ex terminis inconiunctis unam rem significans composita oratio, ut: Animal rationale mortale est  aut ex propositionibus composita et coniunctione copulata imaginem quidem emittens plura significandi, unam vero rem significans oratio, ut si dicamus: Si dies est, lux est  Cum ergo haec sit distributio compositarum et simplicium orationum, duplici modo unae orationes sunt et duplici multae, simplici autem inconpositae et simplici compositae. Et uno quidem modo una oratio dicitur cum aliqua coniunctione copulatur, alio vero cum unam rem significat; rursus uno modo dicitur multiplex ƿ oratio cum sine coniunctione est, alio vero cum plura significat. Atque hoc est quod ait: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Est enim (ut dictum est) dupliciter una oratio: vel quando cum coniunctione est, vel cum unam rem significat. Multiplex autem oratio est vel quae multa significat, vel quae coniunctione non iungitur. Multas enim orationes vocavit eas quae sint multiplices et vel significationis pluralitatem teneant vel praeter coniunctiones sint. Quod autem ait vel inconiunctae, totum complexus est. Multiplex enim est propositio vel si fuerit incomposita, quemadmodum est: Cato philosophatur  multiplex etiam vel si fuerit composita ex terminis praeter coniunctionem, ut est: Plato Atheniensis in lycio disputat  vel si composita sit ex propositionibus praeter coniunctionem, quemadmodum est: Homo est, animal est  Cur autem cum dixit PLURES AUTEM QUAE PLURA addit ET NON UNUM? Hoc est quod sunt quaedam quae plura significent in sermonibus, unum tamen in tota compositione demonstrent, ut est animal rationale mortale. Haec enim omnia multa significant (aliud enim est animal, aliud rationale, aliud mortale) sed totum simul unum est, quod ƿ est homo. Cum autem dico: Socrates Atheniensis philosophus  et singula plura sunt et omnia simul plura nihilominus sunt. Haec enim accidentia sunt et nullam substantiam informant. Atque haec quidem dixit de orationibus quae vel coniunctione unae essent vel significatione, et rursus de multis quae vel praeter coniunctionem multae essent vel significatione multiplici. Quae vero de simplicibus atque compositis posterius dixerit, cum ad illum locum expositio venerit, explicabitur. Nunc autem revertamur ad ordinem. Igitur quoniam supra dixerat simplicem propositionem, quam categoricam Graeci dicunt, nos praedicativam interpretari possumus, semper verbi praedicatione constitui, non autem semper nomine subiecto, quod aliquotiens quidem vel infinitum nomen vel casus nominis vel verba subiecta sunt: cum ergo dictionibus simplicibus constitui diceret simplicem orationem et affirmationem negationemque orationes esse constaret, manifestum fecit affirmationem et negationem dictione constitui et formari, ita quidem ut affirmationem et negationem semper sola verbi dictio praedicata, non autem semper nominis dictio subiecta perficeret. Cum igitur haec ita proposuisset, nunc quid sit dictio, quae praedicativas id est simplices propositiones format, exponit dicens: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA. Quod ideo ait DICTIO SIT SOLA, quod sunt quaedam dictiones simul etiam affirmationes vel imperfectae orationes, quod supra iam dictum est. Cur autem verbum et nomen solae sint dictiones monstrat: QUONIAM NON EST DICERE SIC ALIQUID SIGNIFICANTEM ƿ VOCE ENUNTIARE, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM. Sensus huiusmodi est: enuntiativa propositio his maxime duobus formatur: per propriam naturam atque substantiam et per eius usum atque tractatum. Et natura quidem ipsius est, ut in ea veritas inveniatur aut falsitas, usus autem cum aliquid aut interrogando proponitur et respondetur, ut utrum anima immortalis est, aut certe cum aliquis per suam sententiam enuntiat atque profert, ut si qui dicat hoc ipsum ex propria voluntate: anima immortalis est. Unde definitio quoque enuntiationis una quidem naturae atque substantiae talis redditur: enuntiatio est oratio, in qua verum falsumue est. Ex usu vero eius atque actu enuntiativa oratio est, quam interrogantes proponimus, ut verum vel falsum aliquid audiamus, ex nostra vero prolatione, quam proponentes verum aliquid falsumue monstramus. Ergo cum omnis enuntiativa oratio aut in interrogatione posita sit aut in spontanea prolatione et in utrisque enuntiationis natura et substantia illa versetur, ut sive in interrogatione sit posita cum responsione coniuncta verum habeat vel falsum, sive per se prolata utrumlibet retineat: dictiones, inquit, vel alio interrogante vel quolibet proferente et sponte dicente verum falsumue non continent. Si enim quis dicat interrogans "Socratesne disputat?" alius respondeat "Disputat", hoc quod respondit "Disputat" si cum tota interrogatione iungatur, potest habere intellectum verum falsumue significantis orationis, sin vero per se intellegatur disputat, quamquam alio ƿ interrogante responderit, vero tamen falsoque relinquitur. Similiter etiam si quis dicat "Socrates" vel "Ambulat" nullo interrogante sed ipse proferens, nec verum aliquid nec falsum designat. Ergo verba et nomina dictiones solum sunt, quoniam et simplices sunt (erant enim aliae quaedam dictiones in orationibus verbisque compositis sed nondum perfectae sententiae) quoniamque neque verum neque falsum vel alio interrogante vel quolibet sponte proferente significant. Erant enim aliae quaedam dictiones quae et alio interrogante et quolibet sponte proferente verum falsumue retinerent, in his scilicet quae erant affirmationes aut negationes. Quocirca sensus huiusmodi est, ordo autem verborum sese sic habet: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, quoniam non possumus dicere significantem aliquid id est verbo vel nomine enuntiare. Non enim possumus dicere quoniam, quisquis verbo vel nomine significat aliquid, ille enuntiat, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM, tamquam si sic diceret: verba ipsa et nomina dictiones solae sunt, quoniam verbis et nominibus significantem hominem aliquid non possumus dicere, quoniam enuntiat quidquam, sive eum aliquis interroget, sive ipse sponte proferat simplicem dictionem. Enuntiare autem est orationem dicere quae verum falsumque designat. HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ƿ ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA. Quoniam superius de unis orationibus atque pluribus dixit et unam quidem posuit, quae aut coniunctione una esset secundum prolationem aut significatione secundum propriam naturam, plures vero quae aut coniunctione carerent aut multa significatione sua complecterentur, quoniam quidem aliud erat una oratio, aliud simplex, aliud composita, aliud plures, post illa ad simplicem compositamque reuertitur dicens simplicem esse orationem enuntiativam quae duobus terminis continetur, quorum unum subiectum est, alterum praedicatur. Quod vero ait HARUM AUTEM, enuntiativarum scilicet orationum dixit, quarum HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, et quae simplex est enuntiatio, ipse proposuit dicens UT ALIQUID DE ALIQUO, subaudiendum est praedicemus, ut sit hic sensus: harum autem enuntiativarum orationum est simplex enuntiatio, si aliquid unum de uno aliquo praedicemus, ut si dicam: Plato disputat  de aliquo Platone aliquid id est disputat praedicavi. Et haec simplex est enuntiatio, idcirco quoniam duobus terminis partibusque coninugitur. Si qua vero plures habuerit terminos et eius partes duorum terminorum multitudinem egrediantur, illae compositae orationes dicuntur et est enuntiatio composita huiusmodi: Si dies est, lux est  Dies est enim et lux est duae sunt simplices enuntiationes, quae coniunctae unam compositam perfecerunt. Atque hoc est quod ait: HAEC ƿ AUTEM ID EST ALIA ORATIO EX HIS CONIUNCTA id est ex simplicibus enuntiationibus VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA est. Haec enim non simplex est oratio. Simplex enim oratio solas dictiones duas habet in partibus, composita vero etiam orationes, sicut haec quam supra proposui. Est ergo hic ordo quem ipse confudit: prius enim de affirmatione et negatione, quae prima esset, quae posterior, expedivit; dehinc de unis orationibus et pluribus dixit, postremo de simplicibus atque compositis. Sed quoniam quaedam in medio permiscuit, ea paululum differentes directam sententiae seriem continuavimus longum Aristotelis hyperbaton partium coniunctione recidentes. Neque enim simile videatur quod ait: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE et rursus cum dicit: EST UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE VEL CUM RURSUS ADDIT: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO IAM COMPOSITA sed illud quidem prius quod dixit EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO ad hoc rettulit, ut priorem affirmationem esse monstraret, posteriorem vero negationem (ait enim DEINDE NEGATIO, unde quod ait PRIMA ad affirmationem ponendum est), quod vero secutus est paulo post: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA ƿ QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE ad hoc rettulit, ut doceret quas unas esse orationes putari oporteret (expediens aut quae unum significarent aut quas coniunctio unas faceret) quas plures (aut quae multa in significatione retinerent aut quarum corpus nulla esset coniunctione compositum); quod vero postremo addit: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA ad simplices rettulit orationes atque compositas, simplices dicens duobus solis terminis iunctas, compositas, quae ex simplicibus orationibus enuntiativis coniungerentur: ut sit totus ordo hoc modo: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO et rursus intermissis quae sequuntur hoc subiciatur: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE et post hoc intermissis quoque sequentibus hoc sequatur: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA, tamquam si sic diceret: prima quidem inter enuntiationes oratio affirmativa est, secunda vero negatio. Affirmationum autem et negationum una oratio est, quae unum significat vel quae coniunctione una est, multiplex autem, quae multa significat ƿ vel quae coniunctione non iungitur. Harum quoque simplex est, quae duobus terminis constat, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO; alia vero composita, quae ex simplicibus affirmationibus iungitur. Quod autem dicit ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO tale est: aliquid enim de aliquo affirmationem sign!ficat, ut cum dico: Socrates disputat  de aliquo Socrate aliquid id est disputat praedicavi et fit affirmatio. Si autem dicam: Socrates non disputat  a Socrate disputationem seiunxi et ab eo abstuli et hoc est negatio. Affirmatio enim de alia re aliam rem praedicat eique coniungit, negatio vero a qualibet re quamlibet rem praedicando tollit. Ergo hoc quod ait ALIQUID DE ALIQUO, affirmationem simplicem significavit; quod dixit ALIQUID AB ALIQUO, simplicem negationem. EST AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT. AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO, NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO. Postquam de multis atque unis necnon simplicibus compositisque enuntiationibus expedivit, enuntiationem simplicem tractat et eam definitione concludit dicens vocem eam esse significantem aliquid esse vel non esse. Quod ergo ait vocem eam esse, ad genus rettulit, quod significativam ad ipsius differentiam vocis, quod DE EO QUOD ESSET AUT NON ESSET ALIQUID, ad significatarum rerum rursus differentiam ƿ rettulit. Habet enim secundum ipsam vocem qua profertur, ut significet quiddam, quid autem significet aut circa quid designationem enuntiatio teneat, ad differentiam significativarum pertinet vocum. Ita enim dictum est, tamquam si diceret: non omnia enuntiatio significat sed esse aliquid aut non esse. Est ergo enuntiatio simplex vox significativa de eo quod est esse aliquid vel non esse, id est omnis enuntiatio aut affirmatio est aut negatio. Esse enim ponit affirmatio non esse negatio. Sed quanta definitionem brevitate constrinxit, quidam non videntes in errorem stolidum falsitatis abducti sunt. Contendunt igitur affirmationis et negationis non esse enuntiationem genus. Nam si haec, inquiunt, definitio est enuntiationis, omnis autem generis definitio propriis speciebus accommodari potest (omne enim genus univoce de speciebus propriis praedicatur), dubium non est quin haec quoque definitio enuntiationis, si enuntiatio genus est, affirmationi negationique conveniat, si tamen eius species hae sunt. Sed quis umquam dixerit affirmationi convenire hanc definitionem, quae dicit vox significativa de eo quod est aliquid esse vel non esse? Neque enim fieri potest, ut affirmatio vox significativa sit de eo quod est esse et non esse sed tantum de eo quod est esse. Negatio rursus non de eo quod est esse et de eo quod est non esse sed tantum de non esse, numquam etiam de esse. Interimit enim semper negatio, iungit affirmatio atque constituit. Quare si haec definitio enuntiationis ad affirmationem negationemque non potest praedicari, affirmatio et negatio enuntiationis species non sunt. Qui mihi nimium videntur errare: quasi vero quidquam uetet utrasque ƿ affirmationem et negationem simul eadem definitione concludere. Possum enim dicere: affirmatio et negatio est vox significativa de eo quod est esse aliquid vel non esse, ut vox significativa utrisque communis sit, de eo quod eat esse affirmationis solius, de eo quod est non esse solius sit negationis. Sed nihil potuit fieri brevius, nisi ut in eadem definitione et enuntiationis naturam constitueret et ipsius faceret divisionem. Tamquam enim si ita dixisset: enuntiatio est vox significativa in qua verum falsumque signatur, huius autem una species affirmativa est, alia negativa, ita ait: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Nam quod dixit: DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST tale est ac si diceret: quae verum falsumque demonstrat. Omne enim quod esse ponit aliquid, ut si dicam: Dies est  vel non esse, ut si dicam: Dies non est  verum falsumque demonstrat. Si ergo aliquid ponatur esse aut non esse, in eo veritas et falsitas invenitur. Est igitur ita hoc quod ait vocem esse significativam DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si diceret: est enuntiatio vox significativa verum falsumque significans. Significatio namque de eo quod est esse vel non esse aliquid veri falsique demonstratio est. Sed in eadem definitione species admirabili brevitate partitus est. Tamquam enim si diceret: vox significativa est enuntiatio, in qua verum falsumue demonstratur sed una eius pars affirmativa est, alia negativa, ita ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Significatio enim de eo quod est aliquid affirmatio est, de eo vero quod non est negatio. Ita id quod ait designativam ƿ esse vocem enuntiationem DE EO QUOD EST ALIQUID AUT NON EST utrumque una colligit intellegentia. Hoc enim quod dixit DE EO QUOD EST ALIQUID AUT NON EST utrumque significat et veri falsique demonstrationem et affirmationis negationisque divisionem. Sed Alexander a propria sententia non desistit nec alio quam caeteri tenetur errore. Ait enim hic quoque apparere non esse genus enuntiationem affirmationis et negationis, quoniam ita in definitione enuntiationis affirmatione et negatione ut partibus usus est. Omne autem compositum atque omne aequivocum vel suis partibus vel suis significatis definiri potest, ut si quis ternarium numerum definire volens dicat: ternarius numerus est qui ex uno duobusque coniunctus est, vel si quis hominem definire volens dicat: homo est aut animal rationale mortale aut huius coloribus vel metallo facta simulatio: ita nomen aequivocum ex his, quae ipsum nomen aequivocum designabat, ostensum est. Hic ergo eodem modo: ENUNTIATIO, inquit, EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si diceret: enuntiatio est vox aut affirmativa aut negativa: in eundem scilicet errorem labens nec videns quemadmodum una definitione et divisionem fecerit et naturam enuntiationis ostenderit. Sed hanc expositionem (quod adhuc sciam) neque Porphyrius nec ullus alius commentatorum vidit. Aspasius etiam consentit Alexandro. Dicit enim Alexander eodem modo hic definisse Aristotelem enuntiationem, sicut alibi quoque id est in resolutoriis. Illic enim ita propositionem, quod est enuntiatio, definitione ƿ conclusit dicens: PROPOSITIO ERGO EST ORATIO AFFIRMATIVA VEL NEGATIVA ALICUIUS DE ALIQUO. Idem quoque Aspasius sequitur. Porphyrius autem sic dicit: admirabilem esse subtilitatem definitionis. Ex sua enim vi affirmationis et negationis enuntiatio definita est, ex terminis vero ipsa affirmatio atque negatio. Affirmatio namque in duobus terminis constans aliquid alicui inesse significat, totam autem vim ipsius esse aliquid adnuere. Negatio quoque aliquid alicui non inesse significat sed tota vis ipsius est abnuere atque disiungere. Vel rursus affirmatio aliquid alicui inesse designat sed vis ipsius tota ponere aliquid est (cum enim aliquid alicui inesse demonstrat ponit aliquid), rursus negatio quidem aliquid alicui non inesse declarat sed tota vis eius auferre est ergo nunc, inquit, enuntiationem ex tota vi affirma tionis negationisque definivit dicens: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Hoc autem ad negationis pertinet affirmationisque vim, tamquam si diceret: enuntiatio est vox significativa quae ponit aliquid aut tollit, quae propriae virtutes sunt affirmationis et negationis. Si enim ita dixisset: enuntiatio est de eo quod est aliquid alicui vel non est; tunc ex terminis affirmationis et negationis enuntiationem definisse videretur; cum autem dicit DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, de tota utrarumque vi determinat. In hac enim affirmatione quae est: Dies est  aliquid alicui secundum ƿ terminos adesse monstravi (est enim diei applicui) sed tota huius propositionis vis est aliquid esse declarare; rursus cum dico: Dies non est  aliquid alicui non esse pronuntio sed tota eius vis est non esse dicere. Quare manifestum est secundum Porphyrium ex tota vi affirmationis et negationis enuntiationem esse descriptam, ex suis vero terminis ipsam affirmationem et negationem. Ait enim AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO in affirmationis definitione genus sumens. Enuntiatio enim (ut dictum est) genus et affirmationis et negationis, quod ipse Aristoteles clarius demonstrat, qui in utrarumque definitionem enuntiationis nomen adscripsit dicens: AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO. Hoc enim rettulit ad genus, quod vero addidit alicuius de aliquo reduxit ad terminos. In simplici enim affirmatione aliquid de aliquo enuntiando praedicatur, ut in eo quod est: Dies est  esse diem. Negatio quoque ita definita est: ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO, quantum ad enuntiationem rursus a genere, quantum alicuius ab aliquo rursus ad terminos. In hac enim negatione quae est: Dies non est  esse a die enuntiando tollimus. Sed ut non solum praesentis temporis enuntiationem definisse videretur, addidit enuntiationis definitionem de aliis quoque temporibus intellegi. Ait enim: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST adiecitque QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT. Divisa enim sunt tempora in tribus. Omne enim tempus aut futurum est aut praesens aut praeteritum aut ex his mixtum. Enuntiatio ergo est vox significativa significans aut esse aliquid ƿ aut non esse sed quoniam hoc praesens tempus designat, non solum de praesenti, inquit, loquimur sed etiam de his temporibus quae dividuntur, ut hoc esse et non esse et in futurum veniat et in praeteritum, ut aliquotiens sio esse et non esse significet id est sic ponat atque auferat enuntiatio, ut et praesens tempus ponat et auferat, ut est: Socrates est Non est Socrates  et praeteritum ponat et auferat, ut est: Socrates fuit Socrates non fuit  eodem modo futurum: Socrates erit Socrates non erit  Ergo in his omnibus temporibus secundum esse aliquid vel non esse id est secundum ponere et auterre tota enuntiationis vis est. Hoc ergo est quod ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT, tamquam si diceret: de eo quod est aliquid vel non est vox enuntiativa significat vel in praesens vel in futurum vel in praeteritum quemadmodum ipsa tempora dividuntur. Cur autem talis ordo fuerit definitionis, paucis absolvam. Prius enim de nomine, post de verbo, hinc de oratione, rursus de enuntiatione, dehinc de affirmatione, postremo de negatione disseruit. Omne compositum suis partibus posterius est, omne genus suis partibus prius: ergo in compositis partes toto priores sunt, in generibus et speciebus partes toto posteriores. Rursus in compositis totum partibus posterius, in speciebus et generibus totum partibus prius est. Ergo quoniam verba et nomina neque affirmationis neque negationis neque enuntiationis neque orationis species erant sed quaedam horum omnium partes, quibus haec omnia iungerentur, oratio autem genus enuntiationis, enuntiatio ƿ affirmationis et negationis, affirmatio prior negatione, scilicet secundum prolationem, sicut ipse testatus est: ergo quoniam haec omnia et oratio et enuntiatio et affirmatio et negatio verbis et nominibus coniunguntur, his omnibus nomina et verba priora sunt. Nomine autem res aut per se subsistens aut tamquam per se subsistens significatur, verbo vero accidens designatur et velut alii accidens, quod ex supra dictis plenum est. Quod autem per se consistit prius est: ergo id quod nomen significat: quam id quod verbum: quare verbo prius est nomen. Ergo quoniam nomen et verbum oratione, enuntiatione, affirmatione et negatione priora sunt (partes enim priores sunt his quae componuntur), iure haec ante omnia definita sunt. Quoniam vero nomen prius est verbo, prius nomen, postea vero definitum est verbum. Sed quia omne genus speciebus suis prius est, post haec id est nomen et verbum orationem definitione descripsit, quae et proximum enuntiationis genus esset et superius affirmationis et negationis; post orationem vero enuntiationem, quae cum sit species orationis, affirmationis tamen et negationis esset genus; post enuntiationem vero affirmationem, quae quamquam negation) aequaeua species esset secundum genus proprium id est enuntiationem, in prolatione tamen prior esset, ut ipse supra iam docuit dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO. Sed quoniam superius nobis dictum ƿ est has eum quinque res definire velle: quid sit dictio, quid enuntiatio, quid affirmatio, quid negatio, quid contradictio, dictionem quid sit ostendit per id quod ait: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, enuntiationem vero per id quod ait: EST AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT, affirmationem vero EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO; negationem quoque definivit dicens: NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO. Restat ergo de contradictione disserere. Quid sit ergo contradictio ipse persequitur dicens: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE ET QUOD NON EST ESSE ET QUOD EST ESSE ET QUOD NON EST NON ESSE, ET CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA SIMILITER OMNE CONTINGIT QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE ET QUOD QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE: QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM OMNI AFFIRMATIONI EST NEGATIO OPPOSITA ET OMNI NEGATIONI AFFIRMATIO. ET SIT HOC CONTRADICTIO, AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Expeditis omnibus, quae sese explicaturum esse promiserat, nunc ad reliquam contradictionem ordine venit eamque ab affirmationibus negationibusque repetit dicens omnibus affirmationibus posse proprias negationes opponi et omnibus negationibus proprias ƿ rursus ex adverso affirmationes posse constitui. Hoc autem hinc sumitur: quoniam novimus alias res esse, alias non esse et quoniam nos ipsi dicere possumus et sentire alias res esse, alias non esse, ex his quatuor enuntiationes fiunt, geminae contradictiones. Si quis enim id quod est dicat non esse, ut si vivente Socrate dicat: Socrates non vivit  quod est negat et erit negatio false; rursus si quis id quod non est esse confirmet, ut si non vivente Socrate dicat: Socrates vivit  haec rursus affirmatio falsa est; si quis etiam id quod est esse enuntiatione constituat, ut si vivente Socrate dicat: Socrates vivit  uera erit affirmatio; sin vero quod non est esse negaverit, est negatio vera, ut si quis non vivente Socrate dicat: Socrates non vivit  Ex his igitur id est ex affirmatione vera et negatione falsa et rursus ex negatione vera et affirmatione falsa quatuor quidem sunt enuntiationes sed in duabus affirmatio, in duabus negatio continetur, contradictiones vero duae. Hoc est enim quod ait: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE, falsam enuntiationem negationis ostendit; quodque addidit ET QUOD NON EST ESSE, falsam affirmationem in enuntiatione proposuit. Illud quoque quod dixit ET QUOD EST ESSE, enuntiationem designat, qua id quod est esse vera affirmatione profertur; amplius quod ait ET QUOD NON EST NON ESSE, verae negationis specimen dedit. Quare si et quod est vere potest dici esse et idem quod est falso potest praedicari non esse et id quod non est vere potest enuntiari non esse et id quod non est falso esse poterit ƿ affirmari, manifestum est omnem affirmationem habere aliquam contradictionem negationis oppositam et omnem rursus negation em affirmationis oppositionem facere contradictionem. Etenim si omne quod quis affirmat negari poterit et quod quis negat poterit affirmari, quis dubitet nec affirmationem posse constitui cui non negatio contradicat nec negationem cuius nulla affirmatio valeat inveniri? Omnis igitur affirmatio negationem et negatio habet oppositam affirmationem: est igitur CONTRADICTIO AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Quid autem sit oppositio posterius dicendum est aut quid sit contradictio post diligentissima ratione monstrabo. Quod autem ait ET CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA tale est tamquam si diceret: sicut affirmatio et negatio in praesenti tempore fieri potest, ita etiam vel in praeterito vel in futuro. Nam sicut potest id quod est esse constitui, ita potest id quod fuit fuisse proponi et id quod futurum est in spem futuri temporis affirmari, ut cum dicimus: Socrates fuit Sol aestate in cancro futurus est  Eodem ergo modo et de futuro et praeterito affirmatio et negatio constituitur, quemadmodum de praesenti. Futurum autem et praeteritum extrinsecus est et praeter praesens tempus: illud enim veniet, illud recessit. Recte igitur etiam CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA dixit huiusmodi posse affirmationes negationesque evenire. Circa enim praeteritum et futurum, quod est extrinsecus a praesenti tempore, SIMILITER OMNE CONTINGIT (ut ipse ait) QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE ET QUOD ƿ QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE. Unde fit ut in omnibus temporibus illud constet omni affirmationi posse opponi negationem omnique negation) oppositam affirmationem posse constitui. Nunc autem qualis debeat sumi oppositio in affirmatione et negatione demonstrat. Hoc enim est contradictio affirmatio et negatio oppositae. Quod si hae oppositae constitnunt contradictionem, qualis in his debet esse oppositio quae contradictionem constituit recte persequitur. DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE EODEM, NON AUTEM AEQUIVOCE ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA SOPHISTICAL IMPORTUNITATES. Cum duobus terminis simplex propositio constet et unus subiectus sit, alius praedicetur, subiectus autem: sit qui primus dicitur, praedicatus vero qui posterius, dicit illam oppositione affirmationem et negationem integram constituere contradictionem, quae idem subiectum habeant, idem etiam praedicatum, ut neque subiectum neque praedicatum plura significet. Alioquin non erit contradictio nec aliqua oppositio. Ut cum dico: Socrates albus est  et alius dicit: Aethiops albus non est  haec affirmatio atque negatio non sunt oppositae, idcirco quia est aliud subiectum et idem praedicatum. In affirmatione enim "Socrates" subiectus fuit, in negatione Aethiops. Rursus cum dico: Socrates albus est  et alius dicit: Socrates philosophus non est  nec haec rursus negatio contra affirmationem retinet oppositionem, ideo quia aliud praedicatum in utrisque proponitur. ƿ In affirmatione enim 'album' praedicatum est ad Socraten, in negatione philosophus. Quod si utraque sint diversa, multo magis nulla. Fit oppositio: ut cum dico: Socrates philosophus est  si respondeat alius: Plato Romanus non est  hic neque idem subiectum est neque idem praedicatum et plus istae diversae sunt et nulla contra se oppositione oppositae atque ideo possunt utraeque esse verae et si ita contingit utraeque falsae necnon etiam una vera, una falsa. Quae enim se non perimunt, nihil eas impedit aut utrasque falsas aut utrasque veras aut unam veram, falsam aliam reperiri. Quare quorum vel aliud subiectum est vel aliud praedicatum, illa opposita esse non dicimus. Unde fit ut nec illa quoque quae plura significant, si subiecta aut praedicata sint, contradictoriam negationem valeant custodire. Si quis enim nomen aequivocum subiciat et aliud praedicet et si quis contra huiusmodi affirmationem constituat negationem, non faciet oppositionem. Ut cum dico: Cato se Uticae occidit  nomen hoc quod dicitur 'Cato' aequivocum est. Potest enim et orator intellegi et hic qui exercitum duxit in Africam. Si quis igitur dicat: Cato se Uticae occidit  potest fortasse intellegi de Catone Marciae, si quis respondeat Cato se Uticae non occidit, potest de Catone Censorio constituisse negationem. Sed quoniam diversus est Cato Censorius Catone Marciae et nomen ipsum Catonis diversa significat, diversae a se erunt affirmatio et negatio et non id omnino perimit negatio, quod affirmatio constituit. Affirmatio enim constituit Marciae Catonem se Uticae peremisse, negatio ƿ vero dicit Catonem, si ita contigit, oratorem non se Uticae peremisse. Quare non constituunt verum inter se falsumque, idcirco quod a se diversae sunt. Nam utrumque verum est: et quod se Cato Uticae occidit scilicet Marciae et quod se Cato Uticae non occidit scilicet orator. Atque hic aequivocum subiectum fecit, ut haec affirmatio et negatio oppositionem nullo modo constituerent. Quod si praedicatum fuerit aequivocum, eodem modo contradictio non fit. Dicat enim quis quoniam Cato fortis est  et de Catone praedicet fortitudinem mentis dicens aliusque respondeat: Cato fortis non est  ad inbecillitatem corporis spectans: ita igitur aequivocatio fortitudinis ambiguitatem fecit, quae oppositionem nulla ratione componeret. Et si uterque terminus et subiectus et praedicatus aequivoci fuerint, multo magis diversae a se erunt propositiones et non oppositae nec inter se verum falsumque dividentes sed utrasque veras, interdum utrasque falsas esse contingat. Quare unum oportet esse subiectum unumque praedicatum, ut id quod affirmatio praedicavit et iunxit, idem negatio dividat et abiungat et id de quo subiecto affirmatio praedicavit de eodem negatio neget. Nam si sit uterque aequivocus terminus aut quilibet unus eorum, fieri potest ut aliud tollat negatio quam affirmatio posuit itaque nulla fit oppositio. Quare non ita faciendum est sed idem subiectum et praedicatum in affirmatione esse debet, idem in negatione. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE EODEM. ƿ Quod enim ait EIUSDEM ad praedicatum rettulit, quod DE EODEM ad subiectum et subaudiendum est DICO AUTEM OPPONI negationem EIUSDEM praedicati DE EODEM subiecto sed ut non sint aequivoca neque subiectum neque praedicatum et multo magis utraque sed unum aliquid significent. Quod per hoc dixit NON AUTEM AEQUIVOCE. Nec sola, si non sit, aequivocatio firma est ad constituendam oppositionem. Multa enim sunt quae in Sophisticis Elenchis contra eos qui argumentis fallacibus verae rationis viam conantur euertere determinavit, quemadmodum faciendae essent propositiones et quemadmodum invenienda argumentatorum fallacia. Quod hic ait: ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA SOPHISTICAS IMPORTUNITATES, tamquam si diceret: dico quidem opponi affirmationi negationem eiusdem praedicati de eodemque subiecto, non autem aequivoce: hoc et quaecumque alia sunt, quae in sophisticis elenchis determinata sunt contra argumentatorum importunitates. Et hic quidem, quoniam aliud negotium erat, commodissime breviterque perstrinxit. Nos autem quid in sophisticis elenchis determinaverit ad constituendam oppositionis contradictionem, quantum brevitas patitur, non grauamur apponere. Non enim solum si aequivocatio in propositionibus collocetur nulla fit contradictio, verum etiam si univocatio in negatione ponitur, illa oppositio contradictionem penitus non habebit. Est enim oppositio habens contradictionem, ƿ in qua affirmatio si vera est negatio falsa sit, si negatio vera est fallax affirmatio videatur. Positis ergo secundum univocationem terminis utrasque simul et affirmationem et negationem veras esse contingit, ut si quis dicat: Homo ambulat Homo non ambulat  affirmatio de quodam homine vera est, negatio de speciali vera. Sed specialis homo et particularis univoca sunt: quocirca sumptis univocis contradictio non fit. At vero nec si ad aliam et aliam partem affirmatio negatioque ponatur, fit in ipsis ulla veri falsique divisio sed utrasque veras esse contingit: cum dico: Oculus albus est Oculus albus non est  In alia enim parte albus est, in alia parte albus non est: atque ita et negatio vera est et affirmatio. Nec si ad aliud atque aliud referens dicat, ulla inde contradictio procreatur, ut cum dico: Decem dupli sunt Decem dupli non sunt  Nam si ad quinarium referam, vera est affirmatio, si ad senarium, vera negatio. Nec si diversum tempus in affirmatione ac negatione sumatur, ut cum dico: Socrates sedet Socrates non sedet  Alio enim tempore sumpto sedere veram facit affirmationem, alio tempore non sedere veram negationem. Amplius quoque si diverso modo quis dicat in negatione quod aliter in affirmatione proposuit, vim contradictionis intercipit. Si quis enim dicat affirmationem potestate, negationem vero actu, possunt et affirmatio et negatio uno tempore congruente veritate constitui: ut si quis dicat: Catulus videt Catulus non videt  Potestate enim videt, actu non videt. Quocirca oportet fieri si facienda est ƿ contradictio EIUSDEM (ut ipse ait) praedicati DE EODEM subiecto, non aequivoce, neque univoce, ad eandem partem, ad idem relatum, ad idem tempus, eodem modo constitui. Quae omnia in Sophisticis Elenchis diligentissime persecutus est. Nunc pauca commemorans distulit in illius libri integram disputationem. Est autem enuntiatio de eo quod est aliquid esse vel non esse: affirmatio quidem de eo quod est esse ut: Plato philosophus est  negatio vero de eo quod est non esse, ut: Plato philosophus non est  Haec utraque enuntiatio: Plato philosophus est Plato philosophus non est  sese perimentia et in contrarium quasi quodam locata litigio faciunt contradictionem. Contradictio vero est oppositio affirmationis et negationis, in qua neque ambas falsas neque ambas veras esse contingit sed unam semper veram, alteram vero falsam. Si qua autem sunt huiusmodi, in quibus verum falsumque affirmatio negatioque non dividat, in illis aliquid diversum et non ad oppositionem integrum reperitur. Dicit autem Porphyrius argumentum esse ad id quod dicimus affirmationem negationi ita oportere opponi, ut una vera opposita in alteram mox falsitas veniat, communem inter nos consuetudinem colloquendi. Quando enim quis aliquid esse dixerit, idem alius negarit, unum ipsorum verum dicere, mentiri alium suspicamur. Amplius quoque si aliquid aut est aut non est mediumque inter esse et non esse nihil poterit ƿ inveniri, affirmatio autem ponit esse aliquid idemque aufert negatio et est contradictio affirmatio et negatio oppositae, talis oppositio integram facit contradictionem, in qua affirmatio et negatio utraeque verae esse non possint. Affirmationis autem negationisque natura ad qualitatem quandam refertur. Qualitas enim quaedam est affirmatio atque negatio. Praeter hanc vero qualitatem est etiam quantitas propositionum, de qua posterius paulo dicendum est. Sed volens Aristoteles quid esset contradictio nos docere, prius ubi esset ostendit. In oppositione enim contradictionem omnem esse necesse est. Quare quoniam contradictio in oppositione est, qualis autem oppositio hanc contradictionem faciat, adhuc ignota est estque haec oppositio aut in qualitate propositionum aut in quantitate aut in utroque et de qualitate propositionum, quae in affirmatione et negatione consistit, dictum est: nunc de quantitate dicetur, ut ea quoque cognita perspiciatur, in qualitate an in quantitate an in utroque propositionum contradictio sit. QUONIAM AUTEM SUNT HAEC QUIDEM RERUM UNIVERSALIA, ILLA VERO SINGILLATIM; DICO AUTEM UNIVERSALE QUOD IN PLURIBUS NATUM EST PRAEDICARI, SINGULARE VERO QUOD NON, UT HOMO QUIDEM UNIVERSALE, PLATO VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA: NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Omnis propositio significationis suae proprietates ex subiectis intellectibus capit. Sed quoniam necesse est intellectus rerum esse similitudines, vis propositionum ad res quoque continuatur. Atque ideo cum aliquid vel affirmare cupimus vel negare, hoc ad intellectus et conceptionis animi qualitatem refertur. Quod enim imaginatione intellectuque concipimus, id in affirmatione aut in negatione ponentes affirmamus scilicet vel negamus. Et principaliter quidem ab intellegentia propositiones vim capiunt et proprietatem, secundo vero loco ex rebus sumunt ex quibus ipsos intellectus constare necesse est. Unde fit ut et quantitate propositio et qualitate participet. Qualitate quidem in ipsa affirmationis et negationis prolatione quam ex proprio quis iudicio emittit ac profert; quantitate vero ex subiectis rebus quas capiunt intellectus. Videmus namque alias esse in rebus huiusmodi qualitates, quae in alium convenire non possint nisi in unam quamcumque singularem particularemque substantiam. Alia est enim qualitas singularis, ut Platonis vel Socratis, alia est quae communicata cum pluribus totam se singulis et omnibus praebet, ut est ipsa humanitas. Est enim quaedam huiusmodi qualitas, quae et in singulis tota sit et in omnibus tota quotienscumque enim aliquid tale animo speculamur; non in unam quamcumque personam per nomen hoc mentis cogitatione deducimur sed in omnes eos quicumque humanitatis definitione participant. Unde fit ƿ ut haec quidem sit communis omnibus, illa vero prior incommunicabilis quidem cunctis, uni tamen propria. Nam si nomen fingere liceret, illam singularem quandam qualitatem et incommunicabilem alicui alii subsistentiae suo ficto nomine nuncuparem, ut clarior fieret forma propositi. Age enim incommunicabilis Platonis illa proprietas Platonitas appelletur. Eo enim modo qualitatem hanc Platonitatem ficto vocabulo nuncupare possimus, quomodo hominis qualitatem dicimus humanitatem. Haec ergo Platonitas solius unius est hominis et hoc non cuiuslibet sed solius Platonis, humanitas vero et Platonis et caeterorum quicumque hoc vocabulo continentur. Unde fit ut, quoniam Platonitas in unum convenit Platonem, audientis animus Platonis vocabulum ad unam personam unamque particularem substantiam referat; cum autem audit hominem, ad plures quosque intellectum referat quoscumque humanitate contineri novit. Atque ideo quoniam humanitas et omnibus hominibus communis est et in singulis tota est (aequaliter enim cuncti homines retinent humanitatem sicut unus homo: si enim id ita non esset, numquam specialis hominis definitio parti cularis hominis substantiae conveniret): quoniam igitur haec ita sunt, idcirco homo quidem dicitur universale quiddam, ipsa vero Platonitas et Plato particulare. His ergo ita positis quoniam universalis illa qualitas et in omnibus potest et in singulis praedicari, cum dicimus homo ambiguum est et dubitari potest utrum de speciali dictum sit an de aliquo particulari, ƿ idcirco quod nomen hominis et de omnibus dici potest et de singulis quibusque qui sub una humanitatis specie continentur. Quare indefinitum est, utrum de omnibus dictum sit id quod diximus homo an de una quaeumque individua hominis et particulari substantia hanc igitur qualitatem humanitatis si ambiguitate in tellectus separare nitamur, determinanda est et aut in pluralitatem distendenda aut in unitatem numeri colligenda. Nam cum dicimus "Homo" indefinitum est utrum omnes dicamus an unum, sin vero additum fuerit 'omnis', ut sit praedicatio "Omnis homo" vel "Quidam", tunc fit distributio et determinatio universalitatis et nomen quod universale est (id est 'homo') universaliter proferimus dicentes "Omnis homo" aut particulariter dicentes "Quidam homo". Omnis enim nomen universalitatis significativum est. Quocirca si 'omnis' quod universale significat ad hominem quod idem ipsum universale est adiungatur, res universalis quae est homo universaliter praedicatur secundum id quod definitio ei adicitur quantitatis. Sin vero dictum fuerit "Quidam homo" tunc universale quod est homo addita particularitate per id quod ei adiectum est 'quidam' particulariter profertur et dicitur res universalis prolata particulariter. Sed quoniam particularis est praedicatio "Quidam homo", particularis rursus praedicatio Platonis (de uno enim dicitur "Quidam homo" et de uno dicitur Plato), non eodem modo utraeque particulares esse dicuntur. Plato enim unam ac definitam substantiam proprietatemque demonstrat, quae convenire in alium non potest, quidam homo vero quod dicitur particularitate quidem ipsum nomen universale ƿ determinat sed si deesset 'quidam', id quod dicimus homo universale ac per hoc ambiguum permaneret, quod vero dicimus Plato numquam esse poterit universale. Nam etsi quando nomen hoc 'Plato' pluribus imponatur, non tamen idcirco erit hoc nomen universale. Namque humanitas ex singulorum hominum collecta naturis in unam quodammodo redigitur intellegentiam atque naturam, nomen vero hoc quod dicimus Plato multis secundum vocabulum fortasse commune esse videretur, nulli tamen illa Platonis proprietas conveniret, quae erat proprietatis aut naturae eius Platonis qui fuit Socratis auditor, licet eodem vocabulo nuncuparetur. Hoc vero ideo quoniam humanitas naturalis est, nomen vero proprium positionis. Nec hoc nunc dicitur quod nomen de pluribus non potest praedicari sed proprietas Platonis. Illa enim proprietas naturaliter de pluribus non dicitur, sicut hominis, et ideo incommunicabilis (ut dictum est) qualitas est ipsa Platonitas, communicabilis vero qualitas universalis quae et in pluribus et in singulis est. Unde fit ut cum dico "Omnis homo" in numerum propositionem tendam, cum vero dico Socrates aut Plato non in numerum emittam sed qualitatem proprietatemque unius in suae individuae singularisque substantiae unitatem constringam et praedicem. Quare in hoc quoque maxime hae duae particularitates quidam homo et Plato distant, quod cum dico Plato quem hominem dixerim vocabulo designavi proprietatemque uniuscuiusque quem nomino, cum vero dico ƿ quidam homo, numerum tantum reieci et ad unitatem propositionem redegi, de quo autem dicam haec particularitas mihi non subdidit. Quidam enim homo potest esse et Socrates et Plato et Cicero et unusquisque singulorum quorum proprietates a se in singularitatis ratione et natura diversae sunt. Unde commodissime Theophrastus huiusmodi particulares propositiones, quales sunt: Quidam homo iustus est  particulares indefinitas vocavit. Partem namque tollit ex homine quod est universale vel vocabulo vel natura, quae tamen ipsa sit pars et qua proprietate descripta, non determinat nec definit. Unde universale vocavit quod de pluribus naturaliter praedicatur, non quemadmodum nomen Alexandri de Troiano et de Macedone Philippi filio et de pluribus dicitur. Hoc enim positione de pluribus dicitur, illud natura. Et persubtiliter ait quod in pluribus natum est praedicari. Est enim haec universalitas naturalis. Illam vero nominis reique proprietatem quae particularis est singularem vocavit dicens: PLATO VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Quod autem secutus est dicens: NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM QUAE SUNT SINGULARIA, huiusmodi est tamquam si diceret: omnis quidem affirmatio et negatio inesse aut non inesse demonstrat. Et quidquid enuntiatur aut de eo quod est esse proponitur, ut: Plato philosophus est  (haec enim propositio Platoni philosophiam inesse constituit), aut de eo quod est ƿ non inesse, ut: Plato philosophus non est  (a Platone enim philosophiam dividens eidem philosophiam non inesse proponit). Ergo quoniam necesse est aut aliquid alicui inesse dicere aut aliquid alicui non inesse, illud quoque necesse est id cui inesse aliquid dicimus aut universale esse (ut cum dicimus: Homo albus est  albedinem universali rei inesse monstramus id est homini) aut certe particulare ac singulare, ut si quis dicat: Socrates albus est  albedinem enim Socrati singulari substantiae et proprietati incommunicabili inesse signavit. Sed in singularibus sive affirmetur aliquid sive negetur unus oppositionis modus est, qui vim contradictionis optineat. Nam quoniam singulare atque individuum nulla sectione dividitur, secundum ipsum quoque facta contradictio simplex erit. In his autem quae in universalibus fiunt non est unus modus contradictionis. Nam cum dico Socrates homo est Socrates homo non est  sola huiusmodi oppositio, si omnia illa conveniant quae contra argumentatorum importunitates supra iam dicta sunt, ad faciendam contradictionem idonea reperitur. Sin vero tale aliquid subiectum sit de quo aliquid praedicetur quod sit universale et in pluribus (ut ipse ait) natum sit praedicari, non est simplex oppositio contradictionis. Sunt enim earum propositionum quae de universalibus rebus fiunt tres differentiae: una quae omnis complectitur, ut cum dico: Omnis homo animal est  alia quae ex indefinita multitudine et innumera pluralitate ad unum propositionis vim colligit atque constringit. Haec huiusmodi est tamquam si quis dicat: Quidam homo animal est  Alia vero est quae neque in pluralitatem propositionem tendit neque in particularitatem redigit, ut ea quae sine ulla determinatione proponitur, ut est: Homo animal est Homo animal non est  hic enim nec 'quidam', quod particularitatis, nec 'omnis', quod est universalitatis, adiunximus. Unde fit ut singularitas simpliciter praedicetur, universalitas vero aliquotiens universaliter, ut: Omnis homo animal est  homo res universalis universaliter praedicata est. Nam cum sit homo universalis, quod ei adiectum est omnis universalitatem universaliter appellari fecit. Rursus est ut universalitas particulariter praedicetur, ut cum dico Quidam homo animal est  'quidam' particulare determinat sed iunctum ad hominem universalem substantiam particulariter praedicari fecit. Est quoque universale non universaliter praedicare, quotiens sine adiectione universalitatis vel particularitatis simpliciter nomen universale ponitur, ut est: Homo animal est  Determinationes autem dicuntur quae rem universalem vel in totum fundunt, ut 'omnis', vel in partem contrahunt, ut 'quidam'. 'Omnis' vero vel 'quidam' quantitatem propositionis determinant, quae quantitas iuncta cum qualitate propositionum variatur quatuor modis (qualitas autem propositionum in affirmatione et negatione est): aut enim universalem rem universaliter praedicat affirmative, ut: Omnis homo animal est  aut universalem rem particulariter affirmative, ut: Quidam homo animal est  aut universalem rem universaliter negative, ut: Nullus homo lapis est  aut universalem rem particulariter negative, ut Quidam homo lapis non ƿ est  Oportet autem in his quae universali determinatione proponuntur in ipsis determinationibus fieri negationem, ut quoniam determinatio universalis rei est universaliter, cum dicimus: Omnis homo iustus est  si universaliter negabimus, dicamus: Nullus homo iustus est  Et quod aio 'nullus' eam universalitatem quae est omnis intercipit, non eam quae est homo. Rursus si idem ipsum: Omnis homo iustus est  negare particulariter velim, dicam: Non omnis homo iustus est  per particularem negationem universalitatis vim interimens. In particularibus vero non item. Si enim eam quae est particularis determinatio universalis rei, ut est: Quidam homo iustus est  negare velim, particulariter dicam: Quidam homo iustus non est  Hoc autem idcirco fit, quod habet quandam similitudinem atque ambiguitatem, utrum universaliter an sit particulariter dictum, si in universalibus propositionibus negativae particulae ad praedicationes potius quam ad terminationes ponantur. Si enim contra hanc affirmationem quae est Omnis homo iustus est  ponam hanc quae dicit: Omnis homo iustus non est  haec duas res significare videbitur: et quod nullus homo iustus sit, omnem enim hominem iustum non esse proposuit, et quod sint quidam homines non iusti, omnem enim hominem negavit iustum esse. Hoc autem nihil impedit ut aliquis sit iniustus, aliquis iustus. Nam si est aliquis iustus, non repugnat ne vera sit propositio quae dicit: Omnis homo iustus non est  Non est enim iustus omnis homo, si alii iusti sint, alii vero iniusti. Quare quoniam duplicis significationis est, idcirco universalis negationis definitio, quae est nullus, universalis affirmationis tollit determinationem, quae est omnis. Atque ideo in particularibus negationibus ad ipsam universalitatem affirmationum negatio necesse est apponatur, ut in eo quod est: Omnis homo iustus est  illa est ei opposita negatio quae est: Non omnis homo iustus est  non illa quae est: Omnis homo iustus non est  ne sit ambiguum utrum universaliter an particulariter neget. Dictum est enim hanc negationem quae est: Omnis homo iustus non est  et universalitatis interemptionem designare et particularitatis propositionem. Quotiens vero particulare aliquid tollitur, in his non iam ad determinationem sed ad praedicatum particula negationis apponitur, ut in eo quod est: Quidam homo iustus est  nullus dicit: Non quidam homo iustus est  Neque enim hic ad determinationem particularem, quod est 'quidam', negatio ponitur sed dicimus: Quidam homo iustus non est  scilicet ad praedicatum quod est iustus. Unde etiam ad indeterminatas propositiones, quae sunt sine 'omnis' aut 'nullius' aut 'alicuius' determinatione, ad praedicatum semper apponitur particula negativa, ut est: Homo iustus est  Nemo enim dicit: Non homo iustus est  sed: Homo iustus non est  In singularibus quoque non dico: Non Socrates iustus est  sed: Socrates iustus non est  Et nisi aliquotiens ambiguitas impediret, ad praedicatum semper negatio poneretur. Sed omnia quaecumque in determinatione ponuntur talia sunt, quae aut totum colligant in affirmativo, ut est 'omnis', aut totum perimant in negativo, ut est 'nullus', aut colligant in affirmativo partem, ut est 'quidam', aut interimant in negativo partem, ut 'quidam non', aut in negativo perimant totum particulariter, ut est 'non omnis'. Sed 'quidam non' et 'non omnis' particulares negationes sunt. Sive ƿ enim quis partem ex toto subripiat, particulare est quod relinquit, quia a totius perfectione discessit, sive quis totum esse neget, partem relinquat, rursus particulare est quod fit reliquum. Nam cum dico: Quidam homo iustus non est  abstuli partem, et rursus cum dico: Non omnis homo iustus est  cum negavi omnem, aliquem qui iustus non esset ostendi. Haec igitur, 'omnis' et 'quidam', determinationes planissimae sunt et communi intellegentiae subiectae. Has duae particulares respiciunt negationes, ut ea quae est quidam non determinationem particularem negat, ea vero quae est non omnis universalem negat determinationem sed utraque negationem (ut dictum est) in particularitatem constringunt. Quod autem dicimus 'nullus' proprium quoddam videtur esse vocabulum. 'Non omnis' enim quod dicitur omnem per adverbium negativum quod est 'non' adimit. Rursus cum dicimus 'quidam non', ei quod est 'quidam' adverbium quod est 'non' additum a subiecto termino particulare separat. 'Nullus' vero quid separet in vocabulo ipso non monstrat et videtur quodammodo non potius esse negatio quam affirmatio. Neque enim adverbium est nec coniunctio. Adverbium namque atque coniunctio declinationibus carent, nullus vero quod dicimus et generibus subiacet et inflectitur casibus. Quid igitur est? An erit nomen? Sed nulla negatio nomen esse monstratur. Quid sit ergo tali investigatione quaerendum est. Videtur enim quod dicitur 'nullus' tale esse tamquam si dicamus nec ƿ unus. Nam qui dicit: Nullus homo animal est  tantundem valet quantum nec unus homo animal est. Quod vero dicimus 'ullus' hoc ab eo derivatum est quod est unus. Diminutio namque unius ullus est tamquam si diceremus unulus. Ergo plus negat quisquis etiam diminutionem negat, ut si quis dicat non modo non habet gemmam, quod maius est, verum etiam nec gemmulam, quod est minus. Sic ergo qui negare uult etiam unum plus negat si dicat nec ipsum unius diminutivum illud esse quod dicitur: ut si quis velit dicere nec unum esse hominem in theatro, ita dicat: non modo illic unus homo non est, verum nec ullus. Cum ergo dicimus 'nullus' ita proponimus tamquam si dicamus 'nec ullus'. Tenet igitur haec in se determinatio, quae est 'nullus', vicem negationis et nominis. Negationis quidem in eo quod est nec, nominis vero in eo quod est ullus, quod est diminutivum unius. Ita igitur maxima fit negatio rei paruissimae quod est unus, si ipsius diminutivum quoque subtrahat, quod est ullus. Quare et omnem et quendam statim tollit negatio, quae unius quoque ipsius diminutivum praedicatione subducit, ut ea quae est: Nullus homo iustus est  Hoc enim tantum est, tamquam si dicat "Non ullus homo iustus est", hoc idem valet tamquam si dicatur "Nec unus homo iustus est". Quare quoniam de his sufficienter est dictum, ad Aristotelis verba consequenti ordine veniamus. SI ERGO UNIVERSALITER ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES. DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM ƿ UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST. Demonstrare oppositionem contradictionis intendit. Sed quoniam viam reperiendae ordinemque permiscuit, idcirco nos pauca quaedam prius ordinata expositione praedicimus, ne lector confusionis caligine atque obscuritate turbetur. Omnium propositionum quae sunt simplices, quas categoricas Graeci vocant, nos praedicativas dicere possumus, quatuor sunt diversitates: aut enim est affirmatio et negatio universalis, ut est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est  aut affirmatio et negatio particularis, ut est: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est  aut affirmatio et negatio indefinita, ut: Homo iustus est Homo iustus non est  aut de singulari subiecto affirmatio et negatio, ut: Cato iustus est Cato iustus non est  Harum vero inter se veritas falsitasque non se habet similiter sed diverse. Et prius de universalibus atque particularibus id est de his quae determinatae sunt dicendum est, post de reliquis disputabitur. Disponantur igitur affirmatio universalis quae est: Omnis homo iustus est  et contra hanc negatio universalis quae est: Nullus homo iustus est  sub his autem, sub affirmatione quidem universali particularis affirmatio quae est: Quidam homo iustus est  sub universali negatione particularis negatio quae est: Quidam homo iustus non est  Hoc autem monstrat subiecta descriptio: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est. Hae igitur duae universalis affirmatio et particularis affirmatio dicuntur subalternae, rursus universalis negatio ƿ et particularis negatio dicuntur subalternae, idcirco quoniam particularitas semper sub universalitate concluditur. In quibus illud est considerandum, quod ubi est affirmatio universalis vera affirmatio quoque particularis vera est et ubi negatio universalis vera est particularis quoque vera est. Nam si vera est: Omnis homo animal est  vera est: Quidam homo animal est  Et si vera est quoniam Nullus homo lapis est  vera quoniam Quidam homo lapis non est  At si falsa sit particularis affirmatio, ut ea quae est: Quidam homo lapis est  falsa est universalis affirmatio: Omnis homo lapis est  Idem in negatione. Si enim negatio particularis falsa est, ut: Quidam homo animal non est  falsa est universalis: Nullus homo animal est  Ita ut praecedunt universales in vero, eodem modo praecedunt particulares in falso. Dicuntur vero affirmatio universalis et negatio universalis contrariae. Hoc autem idcirco quoniam contrariorum huiusmodi natura est, ut longissime a se distent, et si aliquam inter se habeant medietatem, non semper alterum ipsorum subiecto insit, ut album et nigrum: non possumus dicere quoniam omne corpus aut album aut nigrum est. Potest enim nec album esse nec nigrum et utrumque falsum esse quod dicitur, idcirco quoniam est medius color. Quod si non habent medietatem, alterum ipsorum necesse est inhaerere subiecto, ut cum dicimus omne corpus aut quietum est aut movetur, horum nihil est medium et necesse est omne, corpus vel consistere vel moveri. Ut autem simul in eodem possint esse contraria fieri non potest. Neque enim possibile est ut idem album nigrumque sit. Quod in affirmationibus et negationibus universalibus apparet. ƿ Negativa enim et affirmativa universalis plurimum quidem a se distant. Nam quod illa ponit omnibus, illa omnibus tollit et totum negat. Namque dicit: Omnis homo iustus est  omnem hominem ponit, quae dicit: Nullus homo iustus est  nihil eorum quae in humanitatis definitione sunt iustum esse concedit. Ita ergo a se longissime discrepant. Ad hoc si ea quae significant habent inter se aliquam medietatem, unam veram, unam falsam esse non est necesse, ut in eo quod est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est  quoniam potest quaedam esse medietas, ut: Nec nullus homo iustus sit  (cum sit quidam); Nec omnis homo iustus sit  (cum non sit quidam), et possunt utraeque falsae et affirmatio et negatio reperiri. Neque enim verum est aut omnem hominem esse iustum aut nullum hominem esse iustum. Quocirca potest fieri ut in his in quibus aliqua medietas invenitur universalis affirmatio et universalis negatio veritatem falsitatemque non dividant sed utraeque sint falsae, ad exemplum scilicet contrariorum quae aliquam inter se continent medietatem. Potest enim in illis fieri ut utraque contraria possint non inesse subiecto, sicut supra monstravimus. In his vero quae medietate carent necesse est una vera sit semper, altera semper falsa, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo animal est  Hae propositiones huiusmodi sunt, ut una vera sit, una falsa, idcirco quoniam inter animal esse et non esse nihil interest, ad eorum scilicet contrariorum similitudinem quae medietate carent. In illis ƿ enim necesse erat alterum inesse subiecto. Sic ergo universalis affirmatio et universalis negatio utraeque falsae esse possunt, ut vero una vera sit, altera falsa, id quoque conceditur: ut utraeque sint verae fieri non potest, sicut illud quoque verum est contraria simul esse non posse. Rectissime igitur universalis affirmatio universalisque negatio contrariae nominantur.Particularis autem affirmatio quae est: Quidam homo iustus est  et particularis negatio quae est: Quidam homo iustus non est  universalibus et contrariis contrarias proprietates habent. Illae enim simul verae esse non poterant, ut vero essent simul falsae saepe nulla ratione uetabatur. Particulares vero ut utraeque verae sint evenire potest, ut utraeque falsae sint fieri non potest: ut in eo quod est: Quidam homo iustus est  verum est, Quidam homo iustus non est  id quoque verum est; ut utraeque falsae sint inveniri non potest. Et hoc quidem sunt contrariis dissimiles. Similes autem eisdem videntur quod sicut contrariae aliquotiens verum falsumque dividunt, ut una vera sit, altera falsa, ita quoque et particulares una vera potest esse, altera falsa, ut: Quidam homo animal est Quidam homo animal non est  Servant autem stabilem incommutabilemque ordinem et similitudinis et contrarietatis. Contrariae enim quoniam possunt esse utraeque falsae, in quibuscumque utraeque falsae contrariae reperiuntur, in his subcontrariae utraeque verae sunt. Sed quoniam utraeque contrariae verae inveniri non possunt, ideo utraeque subcontrariae falsse nequeunt reperiri, ut in eo quod est: Omnis homo iustus est ƿNullus homo iustus est  Quoniam hae falsae sunt, hae quas sub se continent particulares verae sunt, ut est: Quidam homo iustus estQuidam homo iustus non est  Sed si universales inter se verum falsumque dividunt et una vera est, altera falsa, particulares quoque idem facient, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo animal est  universalis affirmatio vera est, falsa negatio. Sed cum dico: Quidam homo animal est Quidam homo animal non est  particularis affirmatio vera est, falsa negatio particularis. Hae igitur dicuntur subcontrariae, vel quod sunt sub contrariis positae vel quod ipsae superioribus sub quibus sunt contrarias (ut dictum est) proprietates habent. In hac igitur recta oppositione contrariarum et subcontrariarum in superioribus utrisque falsitas esse potest, numquam veritas; in inferioribus vero utrisque quidem veritas inesse potest, numquam falsitas. Sin vero quis respiciat angulares et universalem affirmationem particulari opponat negationi universalemque negationem particulari comparet affirmationi, una vera semper, falsa altera reperietur nec umquam fieri potest, ut affirmatione universali vera particularis negatio non falsa sit vel hac vera non illam falsitas continuo subsequatur. Rursus si negatio universalis vera est, falsa particularis affirmatio; si particularis affirmatio vera, falsa universalis negatio. Licet autem hoc et in subiecta descriptione metiri et in aliis quoque terminis quoscumque sibi mens considerantis affinxerit idem videbit. Nam in eo quod est: Omnis homo iustus est  quoniam haec falsa est, vera est: Quidam homo iustus non est  et rursus in eo quod est: Nullus homo iustus ƿ est  falsa negatione vera est affirmatio: Quidam homo iustus est  Hae autem universalis affirmatio et particularis negatio quae sunt angulares et universalis negatio et particularis affirmatio quae ipsae quoque sunt angulares contradictoriae nominantur. Et haec illa est quam quaerit contradictio, in qua una semper vera sit, altera semper falsa. Superioris autem disputationis integrum descriptionis subdidimus exemplar quatenus quod animo cogitationeque conceptum est oculis expositum memoriae tenacius infigatur. His ergo ita sese habentibus indefinitas propositiones singularesque videamus. Et primum de indefinitis disputandum est. Indefinitae igitur per se veritatem ƿ falsitatemque non dividunt. Etenim cum dico: Homo iustus est Homo iustus non est  utrasque veras esse contingit indefinitas. Quocirca eas a contradictione separamus: contradictio enim constituitur (ut saepe dictum est) eo quod numquam utraeque verae aut utraeque falsae reperiri queant sed una semper veritatis, altera falsitatis capax est. Sed quae universalitatem proferunt indefinitam, illae definitarum particularium vim tenent. Tale est enim quod dico homo iustus est, tamquam si dicam Quidam homo iustus est  et rursus tale est quod dico: Homo iustus non est  tamquam si dicam: Quidam homo iustus non est  Hoc illa res approbat, quod quemadmodum definitae et particulares in aliquibus verae esse possunt, in aliquibus falsum verumque dividunt, numquam vero utrasque falsas esse contingit, ita quoque in indefinitis universale significantibus utrasque simul veras esse contingit, ut in eo quod dicimus: Homo iustus estHomo iustus non est  utrasque falsas proferre impossibile est sed unam veram, alteram falsam in his facillime reperimus, in his scilicet terminis qui naturaliter et necessario subiectis substantiis inhaerescunt vel his inesse non possunt: ut quoniam animal homini ex necessitate inest, si quis dicat: Homo animal est  idque negetur: Homo animal non est  vel: Homo lapis est Homo lapis non est  una vera statim falsa altera reperitur. Atque ideo hae contra universales universaliter praedicatas faciunt contradictionem. Nam si contra illam quae est: Omnis homo iustus est  ea quae est: Homo iustus non est  in oppositione constituatur, una semper vera est, altera falsa; et si contra eam quae est: Nullus homo iustus est  indefinita propositio ƿ quae est homo iustus est opponatur, verum inter se propositiones falsumque distribuunt, sicut definitae quoque universalium propositiones secundum particulares atque universales oppositae quantitates contradictorias faciunt oppositiones. Quare constat eas quae universale non universaliter proferunt et sunt indefinitae neque particulare neque universale proferentes ipsas quidem non semper inter se verum falsumque dividere, particularibus tamen definitis esse consimiles. Singulares vero quae sunt unum oppositionis inter se modum tenent: has si ad idem subiectum, ad idem praedicatum, ad eandem partem, ad idem tempus, ad eandem relationem, eodem modo proposueris, inter se verum falsumque distribuunt, ut est: Socrates iustus est Socrates iustus non est  Sunt igitur duae contradictiones: una quae fit in universalibus angulariter particularibus contra positis, altera quae fit in singularibus cum omnibus his quas in Sophisticis Elenchis exposuit determinationibus opposita. Quare quoniam quemadmodum se habeant propositiones quoque modo faciant contradictorias oppositiones ostendimus, ad ipsa Aristotelis verba veniamus, in quibus per haec ante praecognita facilis poterit evenire cognitio. SI ERGO UNIVERSALITER ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES. DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST. Superioris descriptionis intellegentiam plenius notat. Ait enim: quando res universalis universaliter designatur ƿ et eam quis universaliter affirmat, si eandem alter universaliter neget, ita sibimet comparatas propositiones esse contrarias. Atque in hoc suam sententiam manifestius ostendit. Ait enim DICO AUTEM UNIVERSALEM ENUNTIATIONEM IN UNIVERSALI, UT OMNIS HOMO ALBUS EST. Nam cum universalis sit homo, in universali homine universalis est enuntiatio, per quam dicitur omnis homo. Res ergo universalis (id est homo) per 'omnis' quae est determinatio universaliter praedicata est et hoc affirmative. Negative vero universaliter ita dicetur: Nullus homo albus est  'nullus' enim universalitas universalitati quae est homo adiecta est. Hoc modo igitur in universali universaliter enuntiantes affirmatio et negatio contrariae sunt, sicut et ipse testatur et nos in superiore expositione digessimus. QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA. DICO AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON EST ALBUS HOMO. CUM ENIM UNIVERSALE SIT HOMO, NON UNIVERSALITER UTITUR ENUNTIATIONE. OMNIS NAMQUE NON UNIVERSALE SED QUONIAM UNIVERSALITER CONSIGNIFICAT. Volenti indefinitam propositionem qualis esset ostendere non modo auferenda fuit ab universali termino universalis determinatio, verum etiam particularis et oportuit dici hoc modo: quando autem in universalibus non universaliter neque particulariter, non sunt contrariae. Nunc autem quoniam ƿ non addidit particulariter, videtur non de indefinitis, in quibus neque universalitas neque particularitas adest sed tantum de particularibus loqui, a quibus solum universale non etiam particulare subtraxit. Sed quid velit ostendere ipse convenientibus exemplis edocuit. Non enim posuit exempla particularis propositionis sed indefinitae. Ait enim DICO AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON EST ALBUS HOMO. Quod si particularem monstrare voluisset, ita diceret: ut est: Quidam homo albusNon est quidam homo albus  Sed quoniam per exemplum quid vellet ostendit, nos quoque superiori propositioni quae est: quando autem in universalibus non universaliter, deesse putemus aut particulariter, ut et particularitatem et universalitatem ex tota auferat dictione ut post exempla docuerunt non eum loqui de particulari sed de indefinita. Quare hoc dicit: at si neque universales sint propositiones neque particulares, quod subaudiendum est, illae non sunt contrariae. Sunt enim contrariae quae universaliter universalem terminum proponunt, indefinitae vero ad universalem terminum universalem terminationem non habent. Idcirco autem ab indefinitis universalitatem solam et non particularitatem quoque seiunxit, quod indefinitas propositiones a contrariis solum, non etiam a particularibus segregabat. Quod autem dico tale est: si vellet ostendere indefinitas propositiones proprie, neque particulares esse neque universales diceret. Quae ƿ autem in universali neque universaliter neque particulariter proponuntur, id est quae neque universales sunt neque particulares, indefinitae sunt. Nam quae neque universales sunt neque particulares, hae neque contrariae sunt neque subcontrariae. Subcontrariae quidem idcirco non sunt, quia non habent additam particularem determinationem; idcirco vero contrariae non sunt, quia determinatio universalis in his non est. Nunc autem cum tantum vellet ostendere eas contrarias non esse, de subcontrariis vero in praesenti vellet omittere, has esse indefinitas quae universale determinatum universaliter non haberent dixit, ut scilicet has non esse contrarias intellegeremus. Idcirco vero non adiecit particularitatem eas non habere, quoniam a solis contrariis separare indefinitas volebat, non etiam a subcontrariis. Ergo si indefinitas a contrariis et subcontrariis separare voluisset, ita diceret: QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER nec particulariter, NON SUNT CONTRARIAE neque subcontrariae. Sed quoniam non eas volebat nunc non esse subcontrarias demonstrare sed tantum non esse contrarias, idcirco ei dicto quod est QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER non addidit vel particulariter. Hoc enim si addidisset, ad subcontrarias tenderet, de quibus nihil est additum. Quare hoc dicit: hae quae indefinitae sunt, quoniam non habent universalitatem, contrariae non sunt. Sed cum per se quidem contrariae non sint, possunt tamen quaedam significare contraria. Hoc quid sit multipliciter expositorum sententiis expeditur. Herminus namque dicit idcirco indefinitas posse aliquando significare ƿ contraria, cum ipsae careant contrarietate, quippe quae universalium rerum sunt, additum tamen universale non habent, in solis his quibus ea quae affirmantur aut negantur subiecto naturaliter insunt: ut cum dicimus: Homo rationalis est Homo rationalis non est  quoniam rationalitas huiusmodi est quae in natura sit hominis, affirmatio et negatio inter se verum falsumque dividunt et quaedam quodammodo ab his contraria designantur. Sed nihil hoc attinet ad contraria significanda in his quae sunt indefinitae. Nam etiam particulares ipsae quoque in talibus verum falsumque dividunt, ut est: Quidam homo rationalis est Quidam homo rationalis non est  Has ergo secundum Herminum videmus posse significare contraria. Cur ergo in his quoque dixit quoniam contrariae quidem non sunt, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA? Alexander autem hoc dicit: quoniam indefinitae sunt hae, nihil eas, inquit, prohibet sicut ad particulares ita quoque ad universales reducere, quae videntur esse contrariae, ut in eo quod est homo animal est, homo animal non est, quoniam hae propositiones indefinitae sunt, possunt accipi et quasi contrariae. Nam si dicimus homo animal est, potest ita accipi tamquam si dicamus omnis homo animal est, et rursus homo animal non est ita audiri potest tamquam si dicatur nullus homo animal est. Cum autem dicitur: Homo ambulat Homo non ambulat  non ad contrarias sed ad subcontrarias mens ducitur auditoris. ƿ Quocirca possunt indefinitae aliquando significare contraria, quoniam eo ipso quod sunt indefinitae nihil eas prohibet ad contrariorum significationem universaliumque reduci. Et haec quidem sententia habet aliquid rationis, non tamen integre id quod ab Aristotele dicitur ostendit. Et meliorem sententiam sponte reiecit, quam post Porphyrius approbavit. Sunt enim quaedam negationes quae intra se affirmationis eius quam negant retineant contrarietatem, ut in eo quod est: Sanus est Non est sanus  id quod dicitur -- "Non est sanus" -- significat "Aeger est", quod est contrarium sano esse. Rursus cum dicimus: Homo albus est  si contra hanc negemus per eam quae dicit: Homo albus non est  significare poterit quoniam homo niger est (nam qui niger est albus non est) sed nigrum esse et album esse contrarium est. Quare significant quaedam negationes affirmationesque contraria sed hoc non semper. Nam in eo quod est: Homo ambulat Homo non ambulat  nullum contrarium continetur. Ambulationi enim nihil est contrarium. Atque ideo dicit has quidem contrarias non esse, idcirco quod cum sint universales non universaliter enuntientur, posse autem aliquotiens contraria significare, cum intra negationem contrarium affirmationis includitur. Aspasius vero et Alexandri et hanc posteriorem probavit. Nos vero dicimus non quidem Alexandri sententiam abhorrere ratione sed hanc esse meliorem. ƿ Nam quod ait QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA, ab Alexandro non est expositum sed tantum dictum quando possint esse propositiones ipsae contrariae. A Porphyrio vero expositum diligenter est quando ea quae significantur possint esse contraria, quod ipse Aristotelis textus expressit. Quamquam Alexander quoque eandem quam Porphyrius posuit viderit expositionem, eam tamen ut dictum est sponte reiecit et sibi huius expositionis confirmavit sententiam displicere. Mihi vero aut utraeque recipiendae expositiones videntur aut melior iudicanda posterior. Hoc enim ipse quoque Aristoteles quodammodo subter ostendit cum dicit: SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM EST HOMO ALBUS ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. Cuius quidem loci quae sit expositio, cum ad id venerimus, demonstrabimus. Cognoscendum autem est et memoria retinendum, quod quaecumque propositiones universales universaliter fuerint praedicatae, si hae affirmativae, illae vero sint negativae, semper utrasque esse contrarias, si nihil aequivocationis aut temporis aut aliorum quae supra determinata sunt ad faciendam oppositionem contrarietatis impediat. Non tamen omnes quaecumque contrariae sunt, hae aut in universalibus universaliter ponunt enuntiationem aut una affirmativa est, altera negativa, ut in eo quod est: Socrates sanus est Socrates aeger est  Hic enim neque in universali universalitas posita est neque ƿ rursus una est affirmatio, altera vero negatio sed sunt contrariae propositiones. Contraria enim sunt quae significant quocirca rectissime dictum est, quod quaecumque in universalibus rebus universaliter enuntiarent, si una earum esset affirmativa, altera negativa, statim naturaliter essent contrariae: quae autem contrariae essent, non necesse esse eas vel universale universaliter enuntiare vel unam esse affirmativam, alteram negativam sed aliquotiens quidem posse has esse contrarias, quae universale in universalibus non significarent sed hoc in his tantum quae essent in subiecto de quo fit affirmatio naturaliter, ut in eo quod est animal et homo. Cum dicimus: Homo animal est  quoniam inest in natura hominis animal, idcirco haec affirmans illa negans videntur esse contraria, quamquam illic nulla determinatio neque particularitatis neque universalitatis addatur. IN EO VERO, QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON EST VERUM; NULLA ENIM AFFIRMATIO ERIT, IN QUA DE UNIVERSALI PRAEDICATO UNIVERSALE PRAEDICETUR, UT OMNIS HOMO OMNE ANIMAL EST. Quod dicit huiusmodi est: omnis propositio simplex duobus terminis constat. His saepe additur aut universalitatis aut particularitatis determinatio. Sed ad ƿ quam partem hae determinationes addantur exponit videtur enim Aristoteli praedicato termino terminationem non oportere coniungi. In hac enim propositione quae est: Homo animal est  quaeritur, subiectumne debeat cum determinatione dici, ut sit: Omnis homo animal est  an praedicatum, ut sit: Homo omne animal est  an utrumque, ut sit: Omnis homo omne animal est  Sed neutrum eorum quae posterius dicta sunt fieri oportet. Namque ad praedicatum numquam determinatio iungitur sed tantum ad subiectum. Neque enim verum est dicere: Omne animal omnis homo est  idcirco quoniam omnis praedicatio aut maior est subiecto aut aequalis ut in eo quod dicimus omnis homo animal est plus est animal quam homo, et rursus in eo quod dicimus homo risibilis est risibile aequatur homini, ut autem minus sit praedicatum atque angustius subiecto fieri non potest. Ergo in his praedicatis quae subiecto maiora sunt, ut in eo quod est animal, perspicue falsa propositio est, si determinatio universalitatis ad praedicatum terminum ponitur. Nam si dicamus: Homo omne animal est  animal quod maius est homine per hanc determinationem ad subiectum hominem usque contrahimus, cum non solum ad hominem sed ad alia quoque nomen animalis possit aptari. Rursus in his quae aequalia sunt idem evenit. Nam si dico: Omnis homo omne risibile est  primum si ad humanitatem ipsam referam superfluum est adicere determinationem; quod si ad singulos quosque homines, falsa est propositio. Nam cum dico: Omnis homo omne risibile est  hoc videor significare: ƿ singuli homines omne risibile sunt, quod fieri non potest. Non igitur ad praedicatum sed ad subiectum ponenda determinatio est. Verba autem Aristotelis hoc modo sunt et ad hanc sententiam dicuntur: in his praedicatis quae sunt universalia his adicere universale aliquid, ut universale praedicatum universaliter praedicetur, non est verum. Hoc enim est quod ait: IN EO VERO QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, id est quod habet praedicatum universale, ipsum UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON EST VERUM. In praedicato enim universali, id est quod universale est et praedicatur, id ipsum praedicatum, quod universale est, universaliter praedicare, id est adiecta determinatione universalitatis, non est verum. Neque enim potest fieri ut ulla sit affirmatio in qua de universali praedicato universalis determinatio praedicetur. Eiusque rei notionem exemplo aperit dicens, ut: Omnis homo omne animal  Hoc autem quam sit inconveniens supra iam diximus. OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE, QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON UNIVERSALITER, UT: OMNIS HOMO ALBUS EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS; CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM, UT: OMNIS HOMO IUSTUS EST, NULLUS HOMO IUSTUS EST. QUOCIRCA HAS QUIDEM IMPOSSIBILE EST SIMUL VERAS ESSE, HIS VERO OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM, UT: NON OMNIS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Quae sit integra contradictio his verbis ostendit. Ait enim illam esse oppositionem contradictoriam, quaecumque dicit non esse universaliter rem universalem anutra eam quae rem universalem universaliter proponit. Atque hoc est quod ait: OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON UNIVERSALITER, ut ei quae est: Omnis homo iustus est  opponitur ea quae universale significat non tamen universaliter, ut ea quae est: Quidam homo iustus non est  Hominem enim universalem significat non universaliter, ut cum dicit: Non omnis homo iustus est  Haec est contradictoria oppositio, ut si sit universalis affirmatio, sit particularis negatio, si sit universalis negatio, sit particularis affirmatio. Angulares enim (ut dictum est) solae faciunt contradictionem. Verba igitur se obscure habent sed sententia manifesta est. Dicit enim eam opponi contradictorie affirmationem negationi vel negationem affirmationi, quaecumque id, quod res altera universale universaliter significaret idem significaret non universaliter quod esset universale, ut in his quas supra diximus: ut haec quae est: Omnis homo iustus est  rem universalem universaliter significavit; illa quae est: Non omnis homo iustus est  eidem affirmationi opposita de homine universali non universaliter negavit dicens: Non omnis homo iustus est  Rursus ea quae dicit: Nullus homo iustus est  ƿrem universalem universaliter negavit dicens 'nullus'; ea vero quae dicit: Quidam homo iustus est  rem universalem particulariter affirmavit et non universaliter. Hominem enim quendam iustum esse proposuit sed non hominem universaliter enuntiavit rem universalem. Persequitur ergo proprietates omnes propositionum. Ait enim: CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM. Sicut enim supra dixit eas quae universaliter universale significarent vel in affirmatione vel in negatione esse contrarias, ita nunc quoque idem repetit contrarias esse dicens universalem affirmationem universalemque negationem. Earumque ponit exempla, quae utrasque universales monstrarent, UT: OMNIS HOMO IUSTUS EST NULLUS HOMO IUSTUS EST  Harum autem quae proprietas esset proposuit dicens: huiusmodi propositiones impossibile esse utrasque sibi in veritate inuicem consentire, quae autem his essent oppositae contingere utrasque veras esse. Sunt autem oppositae his utraeque particulares: universali enim affirmationi particularis negatio opponitur et universali negationi particularis affirmatio opposita est. Quocirca hae duae particularis affirmatio et particularis negatio, quae oppositae sunt affirmationi et negationi universalibus angulariter, hae possunt aliquando esse verae. Et in eodem, ut in eo quod est: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est  Sed: Quidam homo iustus est  opposita est ei quae est: Nullus homo iustus est  illa vero quae est: Quidam homo iustus non est  opposita est ei quae est: Omnis homo iustus est  Sed utraeque inter se, id est: Quidam homo iustus est  et: ƿ Quidam homo iustus non est  in veritate consentiunt. Hoc est ergo quod ait: HIS VERO OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM easque designat exemplis, UT NON OMNIS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Positis ergo duabus propositionibus, affirmatione universali et universali negatione, ars danda est, quatenus earum inveniantur opposita. Opposita autem dico contradictorie, non contrarie neque ullo alio modo. Sit enim haec affirmatio: Omnis homo iustus est  et haec negatio: Nullus homo iustus est  Contra affirmationem quae est: Omnis homo iustus est  videntur ergo esse negationes hae -- una: Nullus homo iustus est  altera: Quidam homo iustus non est  altera: Non omnis homo iustus est  et postrema indefinita: Homo iustus non est  Quae harum igitur contra eam quae est: Omnis homo iustus est  contradictorie constituitur? Contradictorie autem voco oppositionem, in qua affirmatio et negatio neque verae utraeque sint neque falsae utraeque sed una semper vera, alia falsa. Si ergo opponatur contra eam quae est: Omnis homo iustus est  ea quae est: Nullus homo iustus est  universalis scilicet negatio, non est oppositio; utraeque enim falsae sunt. Si vero opponatur ea quae est: Homo iustus non est  indefinita, nec ipsa quoque facit oppositionem. Quoniam enim indefinita est, potest aliquotiens pro universali negatione pro exspectatione auditoris intellegi. Quocirca nec ipsa facit oppositionem. Si enim hoc modo audita sit, cum ita accipitur ut contraria, simul eas falsas inveniri contingit. Restat ergo, ut aut ea sit quae est:ƿ Non omnis homo iustus est  aut ea quae est: Quidam homo iustus non est  Sed hae sibi consentiunt. Idem enim dicit qui proponit Quidam homo iustus non est  et idem qui dicit Non omnis homo iustus est  Nam si quidam homo iustus non est, non omnis homo iustus est; et si non omnis homo iustus est, quidam homo iustus non est. Quare utraeque particulares negationes contradictorie opponuntur contra universalem affirmationem. In his enim neque verae utraeque sunt neque utraeque falsae sed una vera, altera falsa rursus sit negatio universalis ea quae est: Nullus homo iustus est  Contra hanc videntur oppositae affirmationes hae: Omnis homo iustus est Homo iustus est Quidam homo iustus est  Sed contra eam quae est: Nullus homo iustus est  si opponitur ea quae est: Omnis homo iustus est  possunt esse utraeque falsae; quare non opponuntur contradictorie. At vero etiam ea quae dicit: Homo iustus est  quoniam indefinita est, potest ita in aliquibus intellegi tamquam si dicat: Omnis homo iustus est  Quod si sic est, poterit aliquando cum ea negatione quae est: Nullus homo iustus est  simul esse falsa; quare non est opposita relinquitur ergo, ut ea quae est: Quidam homo iustus est  contra eam quae est: Nullus homo iustus est  contradictorie videatur opposita. Angulariter igitur requirendae sunt, ut contra universalem affirmationem illa ponatur quae sub universali negatione est, contra universalem negationem illa contradictorie constituatur quae est sub universali affirmatione. Quod scilicet volens Aristoteles ostendere sic ait: QUAECUMQUE IGITUR CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, NECESSE EST ALTERAM VERAM ESSE VEL FALSAM ET QUAECUMQUE IN SINGULARIBUS SUNT, UT EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. In illis enim quae contradictoriae sunt universalibus universaliter praedicatis, in his verum semper falsumque dividitur. Contradictoriae autem sunt universalis affirmationis particularis negatio et universalis negationis particularis affirmatio. In his igitur una semper vera est, altera semper falsa. Atque hoc est quod ait: QUAECUMQUE IGITUR CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, et hic distinguendum est ut intellegatur sic: quaecumque igitur contradictiones sunt universalium propositionum universaliter propositarum, necesse est alteram veram, alteram falsam esse. Et in his primum dividitur veritas falsitasque, quae sibi et qualitate et quantitate oppositae sunt: qualitate quod illa negatio est, illa affirmatio, quantitate quod illa universalis, illa particularis est. Secundo autem modo in his quae sunt singularia, si nullae argumentatorum nebulae sint, veritas falsitasque dividitur, ut in eo quod est: Socrates albus est Socrates albus non est  Una enim vera est altera falsa, si (ut dictum est) nulla ambiguitas aequivocationis impediat. QUAECUMQUE AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SEMPER HAEC VERA EST, ILLA VERO FALSA. SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM ƿ EST HOMO ALBUS ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS ESSE, IDCIRCO QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS SIMUL ETIAM QUONIAM NEMO HOMO ALBUS. HOC AUTEM NEQUE IDEM SIGNIFICAT NEQUE SIMUL NECESSARIO. Propositiones eas, quae in universalibus non universaliter proferuntur, non semper veras esse vel falsas conatur ostendere. Hoc autem per contraria monstrat. Ea enim propositio quae est: Homo albus est  et huius negatio quae est: Homo albus non est  hoc modo ostenduntur verum et falsum inter se interdum non posse dividere: nam si verum est, ut hae duae affirmationes: Est homo albus  et Est homo niger  utraeque uno tempore verae sint, verum est quoque affirmationem indefinitam et indefinitam negationem utrasque veras aliquotiens inveniri. Nam si verum est quoniam est homo albus, verum itidem quoniam est homo niger (nam cum Gallus sit candidus, Aethiops nigerrimus invenitur): simul ergo verum est dicere quoniam est homo albus et est homo niger. Sed qui niger est albus non est: simul ergo verum est dicere quoniam est homo albus et non est homo albus. Idem quoque et de probo et turpi. Nam si verum est dicere quoniam est homo probus, si quis hoc de philosopho dicat, et rursus verum est quoniam ƿ est homo turpis, si quis hoc de Sulla diceret, verum est utrumque, et quoniam est homo probus et quoniam est homo turpis. Sed qui turpis est, probus non est: simul igitur verum est dicere quoniam EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. Sed videbitur fortasse aliquid sibi dixisse contrarium et difficilior procedit ostensio, quae per huiusmodi exempla proponitur, quae contraria esse videantur. Albus enim et niger et probus et turpis contraria sunt et fortasse dubitet quidam, utrum uno tempore contraria haec in aliquibus valeant reperiri. Sed adiecit exemplum aliud, quod cum contrarium non sit, tamen ex eo sicut in contrariis quoque negatio procreatur: ut si quis dicat: Est homo probus  et alius dicat: Fit homo probus  si quis vel alio docente vel se ipso corrigente aliqua disciplina rationis eniteat. Nihil ergo contrarium habet esse probum et fieri probum; neque enim ita contrarium est, ut esse hominem probum et esse hominem turpem. Quare si nihil habet contrarium, dubium non est quin simul esse possint. Sed quod fit nondum est adhuc cum fit: quare nondum est probus qui fit probus. Sed verum erat dicere cum eo quod est: Est probus homo  quoniam fit probus homo. Sed qui fit probus homo, non est probus homo: verum est igitur dicere simul, quoniam est probus homo et non est probus homo, licet non invalida exempla sint posita de contrariis. Nihil enim prohibet uno tempore contraria aliis atque aliis inesse subiectis. Quocirca constat indefinitas per id quod in exemplis supra proposuit simul aliquotiens veras videri et non semper inter se verum falsumque partiri. Quod vero ait: VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS ESSE, IDCIRCO ƿ QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS, SIMUL ETIAM QUONIAM NEMO HOMO ALBUS EST, huiusmodi est: dixit enim propositionem affirmationis eam quae dicit: Est homo albus  veram posse esse cum ea quae dicit: Non est homo albus  Nunc hoc notat: videtur, inquit, aliquotiens inconveniens esse et incongruum dicere eam quae dicit: Est homo albus  et eam quae est: Non est homo albus  simul veras esse posse, idcirco quod ea quae est: Non est homo albus  emittit imaginationem quandam quod significet quoniam nullus homo albus est. Videtur enim negatio huiusmodi, quae est: Non est homo albus  illud quoque significare simul quoniam nullus homo albus est, ut si quis dixerit: Non est homo albus  hoc eum dixisse putandum sit, quoniam nullus homo albus est. HOC AUTEM, inquit, id est "Non est homo albus" et rursus "Nullus homo albus est", NEQUE IDEM SIGNIFICAT neque semper simul sunt. Nam qui dicit: Nullus homo albus est  universalitatem determinans negationem de universalitate proponit, qui vero dicit: Non est homo albus  non omnino de tota universalitate negat sed ei tantum sufficit de particularitate negasse. Atque ea quae est: Nullus homo albus est  si unus homo albus fuerit, falsa est, ea vero quae dicit: Non est homo albus  etiam si unus homo albus non fuerit, vera est. Quare non significant idem. Dico autem, quoniam nec omnino, quotienscumque dictum fuerit: Non est homo albus  mox significat quoniam nullus homo albus est. Nam cum dico: Nullus homo albus est  haec eadem significat quoniam non est homo albus (universalis enim intra se continet indefinitam): ƿ cum autem dicimus: Non est homo albus  non omnino significat nullus homo albus est, indefinita enim non intra se continet universalem. Superius namque monstravimus, quod indefinitae vim particularium optinerent. Quare si, cum est universalis negatio, est indefinita negatio, cum vero est indefinita negatio, non omnino est universalis negatio, non convertitur secundum subsistendi consequentiam. Quare non sunt simul. Quae enim non convertuntur, simul non sunt, ut nos Praedicamentorum liber edocuit. Quare neque idem significant negationes: Non est homo albus Nullus homo albus est  neque simul sunt, quoniam non convertuntur ad consequentiam subsistendi. Syrianus tamen nititur indefinitam negationem vim definitae optinere negationis ostendere. Hoc multis probare nititur argumentis Aristotele maxime reclamante. Nec hoc tantum suis sed Platonicis quoque Aristotelicisque rationibus probare contendit: eam quae dicit: Non est homo iustus  huiusmodi esse qualis est ea quae dicit: Nullus homo iustus est  Sed nos auctoritati Aristotelicae seruientes id quod ab illo veraciter dicitur approbamus. Nam quod Syrianus dicit indefinitam quidem affirmationem particularis optinere vim, indefinitam vero negationem universalis, quam mendaciter diceretur quamque utraeque in particularibus rectissime proponerentur, et supra monstravimus et in his libris quos de categoricis syllogismis composuimus in primo libro diligenter expressimus. Nunc nobis ipse quoque Aristoteles testis est et Syrianus facillima ratione conuincitur, quod in Analyticis quoque ex duabus indefinitis dicit non posse colligi syllogismum ƿ cum ex affirmativa particulari et negativa universali particularis negativa possit esse collectio. Quod si indefinitae affirmatio et negatio et negationis universalis et particularis affirmationis vim optinerent, numquam diceret Aristoteles has propositiones non colligere syllogismum. Sed illud verius est, quoniam ex duabus particularibus nihil in qualibet propositionum complexione colligitur, quod in his propositionibus quae indefinitae sunt nihil colligi dixit, quia particularium vim propositiones indefinitas arbitratus est optinere. Quare multis modis Syriani argumenta franguntur. Sed nos expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM UNA NEGATIO UNIUS AFFIRMATIONIS EST; HOC ENIM IDEM OPORTET NEGARE NEGATIONEM, QUOD AFFIRMAVIT AFFIRMATIO, ET DE EODEM, VEL DE ALIQUO SINGULARIUM VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL UNIVERSALITER VEL NON UNIVERSALITER. DICO AUTEM UT EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL DE ALIO IDEM, NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. HUIC VERO QUAE EST OMNIS HOMO ALBUS EST ILLA QUAE EST NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ILLI VERO QUAE EST ALIQUI HOMO ALBUS EST ILLA QUAE EST NULLUS HOMO ALBUS EST, ILLI AUTEM QUAE EST EST HOMO ALBUS ILLA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. Hinc quoque apparet affirmationem indefinitam et ƿ indefinitam negationem non semper unam in veritate aliam in falsitate consistere. Atque hinc docetur indefinitam negationem non idem valere, quod universalis negatio potest, et est alia universalis, alia indefinita negatio. Nam si unicuique affirmationi una negatio videtur opponi cumque diversae sint affirmatio quae dicit: Est homo albus  et ea quae dicit: Est quidam homo albus  diversas quoque habebunt in negationibus enuntiationes. Et illa quidem quae indefinita est affirmatio habebit indefinitam negationem, ut ea quae dicit: Est homo albus  huic opponitur: Non est homo albus  ea vero quae dicit: Est quidam homo albus  negationem habebit oppositam eam quae dicit: Nullus homo albus est  Quare si particularis affirmatio definita et rursus affirmatio indefinita a se ipsae diversae sunt, illud verum est oppositas quoque contradictorie negationes habere dissimiles. Quare ea quae est: Nullus homo iustus est  diversa est ab ea quae dicit: Homo iustus non est  Atque hoc nunc Aristoteles exsequitur: ait enim unam semper negationem contra unam affirmationem posse constitui. Et eius causam conatur ostendere, quod omnis negatio eosdem terminos habet in enuntiatione sed enuntiandi modo diversa est. Nam quod ponit affirmatio idem aufert negatio et quod illa praedicatum subiecto iungit hoc illa dividit atque disiungit. Quare si idem praedicatum idem subiectum in negatione est, quod affirmatio ante posuerat, non est dubium quin unius affirmationis una negatio videatur. Nam si duae sint, aut subiectum altera mutatura est aut praedicatum. Sed quaecumque sunt huiusmodi, non sunt oppositae. Hoc enim est quod ait: SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL ƿ DE ALIO IDEM, NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. Sensus enim huiusmodi est: si negatio aliud aliquid praedicando neget quam in affirmatione fuit (ut si sit affirmatio "Est homo albus", negatio dicat "Non est homo iustus", aliud praedicavit in negatione quam in affirmatione fuerat constitlltum) vel si de alio subiecto quam in affirmatione fuerat idem quod in affirmatione fuit dixerit praedicatum (ut si affirmatio sit "Est homo iustus", negatio respondeat "Non est leo iustus", idem praedicatum est, subiecta diversa sunt): si ergo vel aliud quiddam praedicet in enuntiatione propositio vel de alio subiecto idem praedicet quod affirmatio ante posuerat, non erunt illa affirmatio negatioque oppositae sed tantum a se diversae; neque enim se perimunt. Et hanc rem demonstrativam addidit et quae esset argumentum unius affirmationis praeter unam negationem esse non posse, sive in singularibus, ut in eo quod ipse dicit exemplo: EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS, sive in universalibus universaliter praedicatis. Cum his particulares in oppositione contradictorie constituuntur, ut in universali universaliter affirmativa: Omnis homo albus est  in universali particulariter negativa praedicetur: Non omnis homo albus est  illi vero quae est in universali particulariter affirmativa: Quidam homo albus est  opponatur in universali universaliter propositio negativa: Nullus homo albus est  illi vero quae in universali non universaliter affirmativa est: Est homo albus  illa quae in universali non universaliter negativa est: Non est homo albus  ut quod ait vel de aliquo singularium ad haec exempla pertineat: EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ƿ ALBUS; quod autem secutus est VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL UNIVERSALITER ad illa exempla dictum esse videatur quae sunt: OMNIS HOMO ALBUS EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ALIQUI HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST; quod vero addidit VEL NON UNIVERSALITER scilicet in universalibus ad illa exempla rettulerit quae sunt: HOMO ALBUS EST, NON EST HOMO ALBUS. Hinc igitur omnia rursus brevissime repetit dicens: iam sese dixisse, quoniam uni negationi una affirmatio esset opposita et hoc non quolibet modo sed contradictorie, in quibus scilicet verum falsumque divideretur. Dixisse etiam commemorat, quae essent hae quas contradictorias nominaret. Dixit autem esse angulares, affirmativam universalem et negativam particularem, rursus affirmativam particularem et negativam universalem. Disserui quoque, inquit, ET QUONIAM ALIAE SUNT CONTRARIAE. Non enim eaedem sunt contrariae quae sunt contradictoriae. Contrariae enim sunt sibimet universalis affirmatio universalisque negatio. Exposui illud quoque, inquit, QUONIAM NON OMNIS VERA VEL FALSA CONTRADICTIO. Nunc contradictionem non illam proprie sed communiter de his dixit quae sibi sunt oppositae sive contrario modo sive subcontrario. Hae namque non semper verum inter se falsumque dividebant, ƿ ut una semper esset vera, alia falsa. Poterat enim fieri ut contrariae simul invenirentur falsae, subcontrariae simul verae. De his autem, quae proprie contradictoriae sunt, de his sequitur et se iam exposuisse commemorat, et quare una vera vel falsa est et quando. Idcirco enim affirmatio universalis particulari negationi vi contradictionis opponitur, quod in omnibus a se ipsae diversae sunt et qualitate et quantitate. Illa enim est affirmatio, illa negatio, universalis illa, illa particularis. Ideo ergo aut utraeque falsae aut utraeque verae inveniri non possunt. Quando autem ita fuerit, constat unam veram esse, aliam falsam. Atque hoc est quod ait: ET QUARE ET QUANDO VERA VEL FALSA, dictum esse scilicet memorans, quare oppositio et quando una semper vera sit, altera falsa: tunc utique quando angulariter constituuntur, idcirco quoniam et quantitate a se propositiones et qualitate diversae sunt. Nobis autem dicendum est, quando oppositiones contrariae vel subcontrariae aut utraeque illae simul falsae sint aut utraeque illae simul verae aut una falsa, alia rursus inveniatur vera. In contrariis enim si ea quae non sunt naturaliter praedicentur, [utraeque] ut albedo, quoniam naturaliter homini non est, utraeque falsae sunt quae albedinem praedicant. Falsum est enim: Omnis homo albus est  falsum est: Nullus homo albus est  Sed quando ambae falsae sunt, verae sunt subcontrariae, ut est: Quidam homo albus est Quidam homo albus non est  Quod si quid naturale praedicetur in contrariis, affirmatio vera est, falsa negatio, ut quoniam naturale est homini esse animal, vera est ea quae dicit: Omnis homo animal est  falsa quae dicit: Nullus ƿ homo animal est  Eodem quoque modo in subcontrariis vera est affirmatio, falsa negatio. Sin vero aliquid impossibile praedicetur, falsa affirmatio est, vera negatio, ut quoniam impossibile est hominem esse lapidem, si dicamus: Omnis homo lapis est  falsum est, Nullus homo lapis est  verum est. Eandem quoque retinet vim subcontrarii natura: affirmatio enim hic falsa est, vera negatio. UNA AUTEM EST AFFIRMATIO ET NEGATIO QUAE UNUM DE UNO SIGNIFICAT, VEL CUM SIT UNIVERSALE UNIVERSALITER VEL NON SIMILITER, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; EST HOMO ALBUS, NON EST HOMO ALBUS; NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, SI ALBUM UNUM SIGNIFICAT. Ea quae a nobis superius sunt diligenter exposita, illa nunc ipse clarius monstrat. Diximus namque unam propositionem esse quae unam quamlibet rem significaret et non plurimas, ita ut nec aequivocum subiectum haberet nec aequivocum praedicatum; una enim propositio sic fit. Nunc hoc dicit: una propositio est quae unam rem significat id est quae neque subiectum aequivocum habet nec praedicatum. Sive autem sit universalis affirmatio sive universalis negatio sive particularis affirmatio sive particularis negatio sive indefinitae utraeque sive contra se angulariter ponantur: una illa propositio est, quae unam rem in affirmatione vel negatione significat. Sed hic quaestio est, quemadmodum universalis affirmatio unam rem significare ƿ possit, cum ipsa universalitas non de uno sed de pluribus praedicetur. Nam cum dico: Omnis homo albus est  singulos homines qui plures sunt significans multa in ipsa affirmationis praedicatione designo. Quocirca nulla erit affirmatio vel negatio universalis, quae unam rem significare possit, idcirco quod ipsa universalitas de pluribus (ut dictum est) individuis praedicatur. Sed ad hoc respondemus: cum universale quiddam dicitur, ad unam quodammodo collectionem totius propositionis ordo perducitur et eius non ad particularitatem sed ad universalitatem quae est una qualitas applicatur: ut cum dicimus omnis homo iustus est, non tunc singulos intellegimus sed ad unam humanitatem quidquid de homine dictum est ducitur. Quare sive sit universalis affirmatio sive universalis negatio vel in singularibus, potest fieri ut hae unae sint, si una significatione teneantur. Atque hoc est quod ait eas propositiones quas supra proposuit, quae sunt OMNIS HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; HOMO ALBUS EST, NON EST HOMO ALBUS; NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, unas videri, SI ALBUM, inquit, UNUM SIGNIFICAT. Si enim album quod praedicatur multa significet vel si homo quod subiectum est non unum, non est una affirmatio nec una negatio. Hoc autem in sequentibus clarius monstrat dicens: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO, UT SI. QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. Sensus huiusmodi est: si una res plura significet, ex quibus multis unum effici possit, illa affirmatio, in qua illud nomen vel praedicatur vel subicitur, multa non significat, ut in eo quod est homo. Quod dicimus homo significat animal, significat rationale, significat mortale; sed ex his quae multa significat unum potest effici, quod est animal rationale mortale. Quare hoc nomen homo licet plura sint quae significet, tamen quoniam iuncta in unum quodammodo veniunt corpus et unum quiddam ex se iuncta perficiunt, cum ita dictum fuerit, quasi ut ex his quae significat unum aliquid fiat, unum quod tota illa iuncta perficiunt nomen illud significare manifestum est. Atque hoc est quod ait: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, non esse unam affirmationem. Si enim talia quilibet sermo plura significet, ex quibus iunctis unum effici nequeat corpus, nec possint ea quae significantur uno illo nomine in unam speciem substantiae convenire, non est illa una affirmatio. Quale autem nomen sit quod positum unam affirmationem non facit, idcirco quod plura significet ex quibus unum fieri non possit, exempli sollertissima virtute monstravit dicens: UT SI QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. NIHIL ENIM HOC DIFFERT DICERE QUAM EST EQUUS ET HOMO ALBUS. HOC AUTEM NIHIL DIFFERT QUAM DICERE EST EQUUS ALBUS ET EST HOMO ALBUS. Si quis ponat homini et equo nomen tunica, inquit, et in propositione nomen hoc ponitur, illa propositio non est una sed multiplex. Nam si verbi gratia tunica homo atque equus dicatur, ut, cum dicit aliquis tunicam, aut equum designet aut hominem: si quis dicat in propositione sic: Tunica alba est  non est una affirmatio. Quod enim dicit: Tunica alba est  huiusmodi est quasi si dicam "Homo et equus albus est". Tunica enim equum atque hominem significatione monstravit. Quod vero dicit: Homo atque equus albus est  nihil differt tamquam si dicat: Equus albus est Homo albus est  Sed hae duae sunt propositiones et non similes, in his enim subiecta diversa sunt. Quocirca si hae affirmationes duae sunt, duplex quoque illa est affirmatio, quae dicit homo atque equus albus est. Quod si haec rursus duplex est, quoniam equum atque hominem tunicam significare propositum est, cum dicimus "Tunica alba est" non unum sed plura significat. Quocirca si ea affirmatio quae multa designat non est una, haec quoque affirmatio una non erit, cuius aut praedicatio aequivoca fuerit aut subiectum. Atque hoc est quod ait: SI ERGO HAE MULTA SIGNIFICANT ET SUNT PLURES, MANIFESTUM EST QUONIAM ET PRIMA MULTA ƿ VEL NIHIL SIGNIFICAT; NEQUE ENIM EST ALIQUIS HOMO EQUUS. Quod si, inquit, est equus albus et est homo albus multa significant, illa quoque prima propositio, quae est est tunica alba, unde hae fluxerunt, multa designat: aut si quis dicat non eam multa significare, concedit profecto nihil omnino propositionis ipsius significatione monstrari. Tunc enim nomen unum multa significans in unam significationem poterat convenire, quotiens ex his quae significat una posset coniungi constituique substantia, ut in eo quod supra proposui, cum homo animal rationale et mortale significat, quae in unum possunt iuncta congruere. Nunc autem si tunica hominem equumque significat, multa designat sed ea ipsa in unum corpus non veniunt. Neque enim fieri potest ut aliqui homo equus sit. Quare aut multa significat, quod verum est, aut si quis contendat non eam multa significare sed quiddam ex his quae significat iunctum, quoniam nihil est quod ex equo et homine coniungatur, nihil omnino significat. Hoc est enim quod dixit NEQUE ENIM EST ALIQUIS HOMO EQUUS, et hoc sub uno legendum est, non discrete pronuntiandum homo et rursus equus sed homo equus, ut ex his iunctis appareat nihil omnino posse constitui. Cur autem hoc dixerit, sequens monstrat oratio. Si enim ita facienda est oppositio, ut contra affirmationem huiusmodi opponatur ƿ negatio, quae in oppositione verum falsumque dividat, ut una vera, alia falsa sit, unam oportet esse affirmationem et uuam negationem, quod contingit, si neque subiectum neque praedicatum multa significet. Quod si plura designet et sit aequivocum, non erit in huiusmodi propositionibus una semper vera, altera falsa. Herminus vero sic sentit quod ait Aristoteles: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO: ut in eo, inquit, quod est homo gressibilis est, quoniam quod dicimus gressibile potest et bipes esse et quadrupes et multipes animal demonstrari: ex his, inquit, omnibus unum fit, quod est pedes habens: ista, inquit, huiusmodi affirmatio non multa significat. Sed sententiam Aristotelis omnino non sequitur. Neque enim ex his omnibus unum fit nec quadrupes et bipes et multipes pedem habere faciunt. Hic enim numerus pedum, non pedum constitutio est. Quare Herminus praetermittendus est. Huic autem expositioni quam supra disserui et Aspasius et Porphyrius et Alexander in his quos in hunc librum ediderunt commentariis consenserunt. Sed ne diutius nobis Aristotelis exemplum caliginis obscuritatem ferat, hoc in aliquo noto exemplo vocabuloque videndum est. Cum enim dicimus: Aiax se peremit, et Telamonis Aiacem filium et Oileum demonstrat, ex quibus duobus unum fieri aliquid non potest. Ex duobus enim individuis nihil omnimodis iungitur. ƿ Quare huiusmodi propositio multa significat. Sed haec hactenus. Nunc autem determinat haec, quae de propositionibus supra iam dixerat, non de omni tempore sed de solis tantum praeterito et praesenti, quemadmodum se in veritate et in falsitate habeant, disseruisse. In futuris vero non idem est quale in praeterito praesentique in propositione iudicium, idcirco quod iam vel cum contigit vel cum est definita veritas et falsitas in propositionibus invenitur. Ut cum dico: Brutus consulatum primus instituit sub rege Tarquinio  dicat alius: Brutus consulatum non primus instituit sub rege Tarquinio  hic una vera est, una falsa, et iam affirmatio definite vera est, definite falsa negatio rursus in praesenti cum dicimus: Vernum tempus est Vernum tempus non est  si hoc verno tempore dictum sit, affirmatio vera est et definite vera, negatio falsa est et definite falsa. Quod si hoc autumno dictum sit, definite falsa affirmatio et definite vera negatio, idcirco quod sive in praeterito sive in praesenti veritas affirmationis negationisue iam contigit. In futuro vero non eodem modo sese habet. Ut cum dicimus: Gothos Franci superabunt  si quis negat: Gothos Franci non superabunt  una quidem vera est, una falsa sed quae vera quae falsa ante exitum nullus agnoscit. Atque hoc est quod ait: IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM ƿ VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER SEMPER HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA, QUEMADMODUM DICTUM EST ut non modo una semper vera sit, altera falsa in tota contradictione sed illud quoque habeat, ut in una qualibet definite veritas aut falsitas reperiatur: ita ut in his singularibus veritas et falsitas in propositionibus dividatur, in universalibus autem, si his particularitates opponantur (quemadmodum dictum est) unam necesse est veram esse, alteram falsam sed definita propositionum veritate vel falsitate, sicut supra disserui. Quare in sequentibus quaedam de futuris tractanda sunt et quoniam maius opus est (quam hoc breviter dici possit viderimus) et nos secundi voluminis seriem longius extraximus, hoc loco fastidiosam longitudinem terminemus.  Ea quae huius libri series continebit altioris paene tractatus sunt quam ut in logica disciplina conveniat disputari sed quoniam (ut saepe dictum est) orationibus sensa proferuntur, quibus subiectas res esse ƿ manifestum est, non est dubium quin quod in rebus sit idem saepe transferatur ad voces. Quare recte mihi consilium fuit subtilissimas Aristotelis sententias gemino ordine commentationis aperire. Nam quod prior tenet editio, ingredientibus ad haec altiora et subtiliora quandam quodammodo faciliorem semitam parat; quod autem secunda editio in patefaciendis subtilibus sententiis elaborat, hoc studio doctrinaque provectis legendum discendumque proponitur. Quare prius quaedam pauca dicenda sunt, quatenus ea de quibus postea tractaturi sumus haec ipsa legentibus non videantur ignota. Categoricas propositiones Graeci vocant, quae sine aliqua conditione positionis promuntur, ut est dies est, sol est, homo est, homo iustus est, sol calet et caetera quae sine alicuius conditionis nodo atque ligamine proponuntur. Sunt autem conditionales propositiones huiusmodi: Si dies est, lux est  quas Graeci hypotheticas vocant. Conditionales autem dicuntur, quod talis quaedam conditio proponitur ut dicatur, si hoc est, illud est. Et illas quidem quas categoricas Graeci nominant, Latini praedicativas dicere possumus. Nam si categoria praedicamentum est, cur non quoque categoricae propositiones praedicativae dicuntur? Harum autem quaedam sunt quae cum sempiterna significent, sicut hae res quas significant semper sunt et numquam a propria natura discedunt, ita quoque ipsae propositiones immutabili significatione sunt: ut si quis dicat: Deus est Deus immortalis est  hae namque propositiones sicut de immortalibus dicuntur, ita ƿ quoque sempiternam habent et necessariam significationem. Nec hoc in unius temporis natura perspicitur sed in omnium. Nam cum dicimus: Deus immortalis est  vel: Immortalis fuit  vel: Immortalis erit  a propria significationis necessitate nil discrepat. Necessarias autem propositiones vocamus, in quibus id quod dicitur aut fuisse aut esse aut certe futurum esse necesse est evenire. Et hae quidem quae sempiterna significant sempiternae necessitatis sunt. Nam etiam si in his non sit manifesta veritatis natura, nil tamen prohibet fixam esse necessitatis in natura constantiam, ut si nobis ignotum est, utrum paria sint astra an imparia, non tamen idcirco poterit evenire ut nec paria nec imparia videantur sed sine ulla dubitatione aut paria sunt aut imparia. Omnis enim multitudo horum alterum retinet in natura. Quocirca etiam in his, si quis dicat: Astra paria sunt  aliusque respondeat: Astra paria non sunt  vel si quis dicat: Astra imparia sunt  aliusque respondeat: Astra imparia non sunt  unus horum verum ex necessitate proponit, quod, inquam, si id quod quilibet horum verum dixerit nobis ignotum est, necesse est tamen immutabiliter esse quod dicitur. Atque hae quidem sunt immutabiliter necessariae propositiones. Aliae vero sunt, quae non sempiterna significantes tamen et ipsae sunt necessariae, quousque illa subiecta sunt de quibus propositio aliquid affirmat aut negat. Ut cum dico: Homo mortalis est  quamdiu homo est tamdiu hominem mortalem esse necesse est. Nam si quis dicat: Ignis calidus est  ƿquamdiu est ignis tamdiu ex necessitate vera est propositio. Aliae vero sunt, quae a natura necessitatis recedunt et quaedam tantum contingentia significant sed haec aut aequaliter se ad affirmationem negationemque habentia aut ad unum frequentius vergentia. Et aequaliter quidem se habent, ut si quis dicat hodie me esse lauandum, hodie me non esse lauandum. Nihil enim magis vel affirmatio fiet aut negatio, utraeque enim aequaliter necessariae non sunt. Illae vero quae plus ad alteram partem vergunt huiusmodi sunt, ut si quis dicat hominem in senecta canescere, hominem in senecta non canescere: fit quidem frequentius ut canescat, non tamen interclusum est, ut non canescat. Praedicativarum autem propositionum natura ex rerum veritate et falsitate colligitur. Quemadmodum enim sese res habent, ita sese propositiones habebunt, quae res significant. Nam si in se res ullam retinent necessitatem, propositiones quoque necessariae sunt; sin vero tantum inesse significent -- ut si quis dicat: Homo ambulat  homini ambulationem inesse monstravit -- praeter aliquam necessitatem sunt tantum inesse significantes omni uacuae necessitate. Quod si res impossibiles sunt, propositiones quae illas res demonstrant impossibiles nominantur; sin vero res contingenter venientes atque abeuntes, quae illas prodit contingens propositio nuncupatur. Quoniam autem temporum alia sunt futura, alia praesentia, alia vero praeterita, res quoque subiectae temporibus his quoque temporum diversitatibus variae sunt. Aliae enim praesentis temporis sunt, aliae ƿ futuri, aliae praeteriti. Eodem quoque modo propositiones alias praeteriti temporis significatio tenet, ut cum dico Graeci Troiam euertere; aliae praesentis, ut Francorum Gothorumque pugna committitur; aliae futuri, ut Persae et Graeci bella moturi sunt. Et de praeteritis quidem et de praesentibus, ut res ipsae, stabiles sunt et definitae. Nam quod factum est, non est non factum, et quod non est factum, nondum factum est. Idcirco de eo quod factum est verum est dicere definite, quoniam factum est, falsum est dicere, quoniam factum non est. Rursus de eo quod factum non est verum est dicere, quoniam factum non est, falsum est, quoniam factum est. Et de praesenti quoque. Quod fit definitam habet naturam in eo quod fit, definitam quoque in propositionibus veritatem falsitatemque habere necesse est. Nam quod fit definite verum est dicere quoniam fit, falsum quoniam non fit. Quod non fit verum est dicere non fieri, falsum fieri. De definitione ergo propositionum praeteriti vel praesentis supra iam dictum est. Nunc vero ad illarum propositionum veritatem falsitatemque disputationis ordinem vertit, quae in futuro dicuntur quaeque sunt contingentia. Solet autem futura vocare, ƿ quae eadem contingentia dicere consuevit. Contingens autem secundum Aristotelicam sententiam est, quodcumque aut casus fert aut ex libero cuiuslibet arbitrio et propria voluntate venit aut facilitate naturae in utramque partem redire possibile est, ut fiat scilicet et non fiat. Haec ergo in praeteritum et praesens quidem definitum et constitutum habent eventum. Quae enim evenerunt non evenisse non possum et quae nunc fiunt ut nunc non fiant, cum fiunt, fieri non potest. In his autem, quae in futuro sunt et contingentia sunt, et fieri potest aliquid et non fieri. Sed quoniam tres supra modos proposuimus contingentis, de quibus melius in physicis tractavimus, singulorum subdamus exempla. Si hesterno domo egressus inveni amicum, quem in animo habebam quaerere, non tamen tunc quaerebam, ut non invenirem quem inveni antequam invenirem fieri poterat, cum autem inveni vel postquam invent, ut non invenissem fieri non potest. Rursus si ipse sponte praeterita nocte in agrum profectus sum, antequam hoc fieret, ut non proficiscerer fieri poterat, postquam profectus sum vel cum profectus sum, ut id non fieret quod fiebat aut non factum esset quod erat factum, fieri non valebat. Amplius possibile est scindi hanc qua uestior tunicam: si hesterno die scissa est, cum scindebatur aut posiquam scissa est, ut non scinderetur ƿ aut non esset scissa, fieri nequibat, ante vero quam scinderetur, fieri poterat ut non scinderetur. Perspicuum ergo in praesentibus atque praeteritis vel earundem rerum quae sunt contingentes definitum constitutumque esse eventum. In futuris autem unum quidem quodlibet duorum fieri posse, unum vero definitum non esse sed in utramque partem vergere et aut hoc quidem aut illud ex necessitate evenire, ut autem hoc quodlibet definite vel quodlibet aliud definite, fieri non posse. Quae enim contingentia sunt, in utraque parte contingunt. Quod autem dico tale est: egredientem me hodie domo amicum invenire aut non invenire necesse est (in omnibus enim aut affirmatio est aut negatio) sed invenire sine dubio definite aut certe si hoc non est rursus definite non invenire, quemadmodum hesterno die, quo amicum egrediens inveni (definitum est autem, quod non est verum me non invenisse), non eodem modo in his quae sunt contingentia et future sed tantum aut hoc quidem aut illud est et hoc ex necessitate, ut autem una res vel quilibet unus eventus definitus et iam quasi certus sit, fieri non potest. Et in hac re dissimiles sunt propositiones contingentium et futurorum his quae sunt praeteritorum vel praesentium. Nam cum similes sint in eo, quod in his aut affirmatio est aut negatio, ƿ sicut etiam in his quae sunt praeterita vel praesentia, in illo diversae sunt, quod in his quidem id est praeteritis et praesentibus rerum definitus eventus est, in futuris vero et contingentibus in definitus est et incertus, nec solum nobis ignorantibus sed naturae. Nam licet ignoremus nos, utrum astra paria sint an imparia, unum tamen quodlibet definite in natura stellarum esse manifestum est. Et hoc nobis quidem est ignoratum, naturae vero notissimum. Sed non ita hodie me visurum esse amicum aut non visurum nobis quidem quid eveniat ignoratum est, notum vero naturae. Non enim hoc naturaliter sed casu evenit. Quare huiusmodi propositiones non ad nostram sed ad naturae ipsius notitiam secundum incertum eventum et inconstantem veritatem atque mendacium derivabuntur. Talis enim est contingentis natura, ut in utraque parte vel aequaliter sese habeat, ut hodie me esse lauandum vel hodie me non esse lauandum, vel in una plus, minus in altera, ut hominem canescere senescentem vel hominem non canescere senescentem. Illud enim plus fit, illud minus. Sed nihil prohibet id quod rarius fit tamen fieri.De his ergo Aristotelica subtilitas disputatura primum a singularibus inchoans ad universalia tractatui viam pandit. Duobus enim modis contradictiones fiebant: aut in singularibus aut in universalibus universaliter praedicatis et his oppositis. Ingreditur autem ex his tribus quae supra iam dicta sunt: ex casu, ex libero ƿ arbitrio, ex possibilitate, quae omnia uno nomine utrumlibet vocavit, fingens scilicet nomen ad hoc, quod non unius et certi eventus ista sunt sed utriuslibet et quomodo contingit. Hoc autem monstrativum est naturae instabilis et ad utramque partem sine ullius rei obluctatione vergentis. Non autem oportet arbitrari illa esse utrumlibet et contingentium naturae, quaecumque nobis ignota sunt. Neque enim si nobis ignotum est a Persis ad Graecos missos legatos, idcirco missos esse incerti eventus est; nec si letale signum in aegrotantis facie medicina deprehendit, ut aliud esse non possit nisi ille moriatur, nobis autem ignotum sit propter artis imperitiam, idcirco illum aegrum esse moriturum utrumlibet et contingentis naturae esse iudicandum est sed illa sola talia sine dubio esse putanda sunt, quaecumque idcirco nobis ignota sunt, quod per propriam naturam qualem habeant eventum sciri non possunt, idcirco quoniam propria instabilitate naturae ad utraque verguntur, id est ad affirmationis et negationis eventum propria instabilitate atque inconstantia permutantur. Est autem inter philosophos disputatio de rerum quae fiunt causis, necessitatene omnia fiant an quaedam casu. Et in hoc Epicureis et Stoicis et Peripateticis nostris magna contentio est, quorum paulisper sententias explicemus. Peripatetici enim, quorum Aristoteles princeps est, et casum et liberi arbitrium indicii et necessitatem in rebus quae fiunt quaeque aguntur cum ƿ gravissima auctoritate tum apertissima ratione confirmant. Et casum quidem esse in physicis probaut: quotiens aliquid agitur et non id evenit, propter quod res illa coepta est quae agebatur, id quod evenit ex casu evenisse putandum est, ut casus quidem non sine aliqua actione sit, quotiens autem aliud quiddam evenit per actionem quae geritur quam speratur, illud evenisse casu Peripatetica probat auctoritas. Si quis enim terram fodiens vel scrobem demittens agri cultus causa thesaurum reperiat, casu ille thesaurus inventus est, non sine aliqua quidem actione (terra enim fossa est, cum thesaurus inventus est) sed non illa erat agentis intentio, ut thesaurus inveniretur. Ergo agenti aliquid homini, aliud tamen agenti res diversa successit. Hoc igitur ex casu evenire dicitur, quodcumque per quamlibet actionem evenit non propter eam rem coeptam, quae aliquid agenti successerit. Et hoc quidem in ipsa rerum natura est, ut non hoc nostra constaret ignorantia, ut idcirco quaedam casu esse viderentur, quod nobis ignota essent sed potius idcirco a nobis ignorarentur, quod haec in natura quaecumque casu fiunt nullam necessitatis constantiam aut providentiae modum tenerent. Stoici autem omnia quidem ex necessitate et providentia fieri putantes id quod ex casu fit non secundum ipsius fortunae naturam sed secundum nostram ignorantiam metiuntur. ƿ Id enim casu fieri putant, quod cum necessitate sit, tamen ab hominibus ignoretur. Et de libero quoque arbitrio eadem nobis paene illisque contentio est. Nos enim liberum arbitrium ponimus nullo extrinsecus cogente in id quod nobis faciendum vel non faciendum indicantibus perpendentibusque videatur, ad quam rem praesumpta prius cogitatione perficiendam et agendam venimus, ut id quod fit ex nobis et ex nostro iudicio principium sumat nullo extrinsecus aut violenter cogente aut impediente violenter. Stoici autem omnia necessitatibus dantes converso quodam ordine liberum voluntatis arbitrium custodire conantur. Dicunt enim naturaliter quidem animam habere quandam voluntatem, ad quam propria natura ipsius voluntatis impellitur, et sicut in corporibus inanimatis quaedam naturaliter gravia feruntur ad terram, levia sursum meant, et haec natura fieri nullus dubitet, ita quoque in hominibus et in caeteris animalibus voluntatem quidem naturalem esse cunctis, et quidquid fit a nobis secundum voluntatem quae in nobis naturalis est autumant, illud tamen addunt, quod ea velimus quae providentiae illius necessitas imperavit, ut sit quidem nobis voluntas concessa naturaliter et id quod facimus voluntate faciamus, quae scilicet in nobis est, ipsam tamen voluntatem illius providentiae necessitate constringi. Ita fieri quidem omnia ex necessitate, ƿ quod voluntas ipsa naturalis necessitatem sequatur fieri etiam quae facimus ex nobis, quod ipsa voluntas ex nobis est et secundum animalis naturam. Nos autem liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit sed quod quisque iudicio et examinatione collegerit. Alioquin muta quoque animalia habebunt liberum voluntatis arbitrium. Illa enim videmus quaedam sponte refugere, quibusdam sponte concurrere. Quod si velle aliquid vel nolle hoc recte liberi arbitrii vocabulo teneretur, non solum hoc esset hominum sed caeterorum quoque animalium, quibus hanc liberi arbitrii potestatem abesse quis nesciat? Sed est liberum arbitrium, quod ipsa quoque vocabula produnt, liberum nobis de voluntate iudicium quotienscumque enim imaginationes quaedam concurrunt animo et voluntatem irritant, eas ratio perpendit et de his indicat, et quod ei melius videtur, cum arbitrio perpenderit et iudicatione collegerit, facit. Atque ideo quaedam dulcia et speciem utilitatis monstrantia spernimus, quaedam amara licet nolentes tamen fortiter sustinemus: adeo non in voluntate sed in iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium et non in imaginatione sed in ipsius imaginationis perpensione consistit. Atque ideo quarundam actionum nos ipsi principia, non sequaces sumus. Hoc est enim uti ratione uti iudicatione. Omne enim commune nobis est cum caeteris animantibus, sola ratione disiungimur. Quod si sola etiam indicatione inter nos et ƿ caetera animalia distantia, cur dubitemus ratione uti hoc esse quod est uti iudicatione? Quam si quis ex rebus tollat, rationem hominis sustulerit, hominis ratione sublata nec ipsa quoque humanitas permanebit. Melius igitur nostri Peripatetici et casum in rebus ipsis fortuitum dantes et praeter ullam necesaitatem et liberum quoque arbitrium neque in necessitate neque in eo quod ex necessitate quidem non est, non tamen in nobis est ut casus sed in electione iudicationis et in voluntatis examinatione posuerunt. Et in eo autem quod possibile esse dicitur est quaedam inter Peripateticos et Stoicos dissensio, quam hoc modo paucis absolvimus. Illi enim definiunt possibile esse quod possit fieri, et quod fieri prohibetur non sit, hoc ad nostram possibilitatem scilicet referentes, ut quod nos possumus, id possibile dicerent, quod vero nobis impossibile esset, id possibile negarent. Peripatetici autem non in nobis hoc sed in ipsa natura posuerunt, ut quaedam ita essent possibilia fieri, ut essent possibilia non fieri, ut hunc calamum frangi quidem possibile est, etiam non frangi, et hoc non ad nostram possibilitatem referunt sed ad ipsius rei naturam. Cui sententiae contraria est illa quae dicit fato omnia fieri, cuius Stoici auctores sunt. Quod enim fato fit ex principalibus causis evenit sed si ita est, hoc quod non fiat non potest permutari. Nos ƿ autem dicimus ita quaedam esse possibilia fieri, ut eadem sint etiam non fieri possibilia, hoc nec ex necessitate nec ex possibilitate nostra metientes. His igitur expeditis illud addere sufficiat, haec Aristoteli fixa in sententia et disciplina retinenti facile fuisse contingentium propositionum modum de futuris ostendere: in utraque parte facere atque ideo determinatam eventus constantiam non habere. Quod ni ita esset, omma ex necessitate fieri crederentur, quod melius liquebit, cum ad ipsa Aristotelis verba venerimus. Non autem incommode neque incongrue Aristoteles de rebus altioribus et fortasse non pertinentibus ad artem logicam disputationem transtulit, cum de propositionibus loqueretur. Neque enim esset rectitudinem et significantiam propositionum constituere, nisi hanc ex rebus ita esse probavisset. Praedicativae enim propositiones (ut dictum est) non in sermonibus neque in complexione praedicationum sed in rerum significatione consistuut. Quare omnibus quae praedicenda erant explicitis ad ipsius Aristotelis sententias aperiendas enodandasque perveniamus. IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER SEMPER HANC QUIDEM VERAM, NAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA, QUEMADMODUM DICTUM EST. IN HIS VERO QUAE IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER DICUNTUR, NON EST NECESSE; DICTUM AUTEM EST ET DE HIS. Categoricas propositiones quae praedicativae Latine possint nominari (ut supra iam diximus) ex rebus quas ipsae propositiones significant integra ratiocinandi norma diiudicat. Illae namque quas hypotheticas vel conditionales vocamus ex ipsa conditione vim propriam trahunt, non ex his quae significant. Cum enim dico: Si homo est, animal est  et: Si lapis est, animal non est  illud est consequens, illud repugnans. Quare ex consequentia et repugnantia propositionum tota in propositione vis vertitur. Unde fit ut non significatio sed conditio proposita hypotheticarum enuntiationum vim naturamque constituat: praedicativae propositiones (ut dictum est) ex rebus principaliter substantiam sumunt. Atque ideo quoniam quaedam res sunt praesentis temporis, quaedam praeteriti, sicut eventus ipse rerum praesentis temporis vel praeteriti certus est, ita quoque praedicativarum propositionum de praeteritis et praesentibus certa veritas falsitasque est erat autem contradictionis modus duplex: aut enim universalis particularibus angulariter opponebatur aut singularis significatio affirmativa singularem negationem contradictoria oppositione peremerat. Et in his una vera semper, falsa altera reperiebatur. In his autem quae essent indefinitae non necesse erat unam veram esse, alteram falsam. Sed in his, in quibus veritas et falsitas dividebatur, in his non solum una vera est semper, altera semper falsa, in praeterito scilicet et praesenti sed etiam una certam et definitam veritatem retinet, certam et definitam altera ƿ falsitatem. In his autem quae sunt in futuro, si necessariae quidem propositiones sunt, licet et secundum futurum tempus dicantur, necesse est tamen non modo unam veram esse, alteram falsam sed etiam unam definite veram, definite alteram falsam, ut cum dico: Sol hoc anno verno tempore in arietem venturus est  si hoc alius neget, non solum una vera est, altera falsa sed etiam vera est in hoc affirmatio definite falsa negatio. Sed Aristoteles non solet illa futura dicere quae sunt necessaria sed potius quae sunt contingentia. Contingentia autem sunt (ut supra iam diximus) quaecumque vel ad esse vel ad non esse aequaliter sese habent, et sicut ipsa indefinitum habent esse et non esse, ita quoque de his affirmationes indefinitam habent veritatem vel falsitatem, cum una semper vera sit, semper altera falsa sed quae vera quaeue falsa sit, nondum in contingentibus notum est. Nam sicut quae sunt necessaria esse, in his esse definitum est, quae autem sunt impossibilia esse, in his non esse definitum est, ita quae et possunt esse et possunt non esse, in his neque esse neque non esse est definitum sed veritas et falsitas ex eo quod est esse rei et ex eo quod est non esse rei sumitur. Nam si sit quod dicitur, verum est, si non sit quod dicitur, falsum est. Igitur in contingentibus et futuris sicut ipsum esse et non esse instabile est, esse tamen aut non esse necesse est, ita quoque in affirmationibus contingentia ipsa prodentibus veritas quidem vel falsitas in incerto est (quae enim vera sit, quae falsa secundum ƿ ipsarum propositionum naturam ignoratur), necesse est tamen unam veram esse, alteram falsam. Porphyrius tamen quaedam de Stoica dialectica permiscet: quae cum Latinis auribus nota non sit, nec hoc ipsum quod in quaestionem venit agnoscitur atque ideo illa studio praetermittemus. IN SINGULARIBUS VERO ET FUTURIS NON SIMILITER. NAM SI OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO VERA VEL FALSA EST, ET OMNE NECESSE EST VEL ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM EST, QUONIAM NECESSE EST VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO VERA VEL FALSA. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. NAM SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI EST ALBUM VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET SI NON EST, MENTITUR, ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AUT AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM ESSE. NIHIL IGITUR NEQUE EST NEQUE FIT NEC A CASU NEC UTRUMLIBET NEC ERIT NECNON ERIT SED EX NECESSITATE OMNIA ET NON UTRUMLIBET. AUT ENIM QUI DICIT verUS EST AUT QUI NEGAT. SIMILITER ENIM VEL FIERET VEL NON FIERET; UTRUMLIBET ENIM NIHIL MAGIS SIC VEL NON SIC SE HABET AUT HABEBIT. AMPLIUS SI EST ALBUM NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM LERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM ƿ FUIT DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST DICERE QUONIAM EST VEL ERIT;, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURE SUNT NECESSE EST FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX NECESSITATE. Geminas esse contradictiones in propositionibus supra iam dictum est et nunc quoque commemoratum in quibus necesse est unam veram esse, alteram falsam. Sed ea quae dicentur de futuris et contingentibus melius intellegentur, si de his contingentibus loquamur, quae in singular) contradictione proveniunt. Est enim universalium angularis contradictio in contmgentibus huiusmodi: Cras omnes Athenienses bello navali pugnaturi sunt Cras non omnes Athenienses bello navali pugnaturi sunt  In singularibus autem talis est: Cras Socrates in palaestra disputaturus est Cras Socrates in pallaestra disputaturus non est  Non autem oportet ignorare non esse similiter contingentes has quae dicunt: Socrates morietur  et: Socrates non morietur  et illas quae dicunt: Socrates cras morietur Socrates cras non morietur  Illae enim superiores omnino contingentes non sunt sed sunt necessariae (morietur enim Socrates ex necessitate), hae vero quae tempus definiunt nec ipsae in numerum contingentium recipiuntur, idcirco quod nobis quidem cras moriturum esse Socratem incertum est, naturae autem incertum ƿ non est atque ideo nec deo quoque incertum est, qui ipsam naturam optime novit sed illae sunt proprie contingentes, quae neque in natura sunt neque in necessitate sed aut in casu aut in libero arbitrio aut in possibilitate naturae: ex casu quidem, ut cum egredior domo amicum videam non ad hoc egrediens, ex libero arbitrio, ut quod possum et velle et non velle, an velim hoc antequam fiat incertum est, ex possibilitate, quod cum fieri possit et non fieri possit et antequam fiat, quod utroque modo potest, incertum sit. Ideoque Cras Socrates disputaturus est in palaestra  contingens est, quod hoc ex libero venit arbitrio. Ergo in huiusmodi contingentibus si in futurum una semper vera est, altera semper falsa et una definite vera, falsa altera definite et res verbis congruent, omnia necesse est esse vel non esse et quidquid fit ex necessitate fit et nihil neque possibile est esse, quod possibile sit non esse, neque liberum erit arbitrium neque in rebus ullis casus erit in omnibus necessitate dominante. In his namque id est in singularibus contradictionibus verum dicere uterque non potest. Contradictoriae enim erant quae simul esse non possint. Sed nec utraeque, negationes atque affirmationes, falsae esse in contradictoriis possum. Illae enim erant contradictoriae quae simul non esse non poterant. Quare unus verum dicturus est, unus falsum. Quod si nihil datur in huiusmodi rebus id est contingentibus instabili eventus ordine et incerta veritatis ƿ et falsitatis enuntiatione provenire, quidquid verum dicitur in affirmatione definite, hoc definite necesse est, quidquid falsum dicitur in negatione, hoc non esse necesse est. Omnia igitur ex necessitate aut erunt aut ex necessitate non erunt. Nihil ergo nec casus nec liberum arbitrium nec possibilitas ulla in rebus est, siquidem tenet cuncta necessitas. Aristoteles vero sumens istam hypotheticam propositionem, si omne quod in futuro dicitur aut verum definite aut falsum est definite, omnia ex necessitate fieri et nihil casu nihil iudicio nihil possibilitate, ea convenienti ordine monstrat. Et posito unam veram, alteram falsam definite esse omnia ex necessitate contingere ex consensu rerum propositionumque demonstrat hoc modo: proponit enim hanc conditionem et hanc veram esse ex rerum ipsarum necessitate confirmat. Est autem conditio: si omnis affirmatio vel negatio in futurum ducta vera vel falsa est definite, et omne quidquid fit ex necessitate fieri et nihil neque casu neque propria et libera voluntate atque iudicio nec vero aliqua possibilitate, quae hic omnia utrumlibet vocabulo nuncupavit. Ponit enim hanc conditionem dicens: NAM SI OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO VERA VEL FALSA EST (subaudiendum est "definite"), et OMNE NECESSE EST ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM ƿ EST, VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO [uel negatio] VERA VEL FALSA EST. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. Ergo sensus huiusmodi est: si omnis, inquit, affirmatio vel negatio vera vel falsa est definite, et omne necesse est aut esse aut non esse, quod vel affirmatio ponit vel negatio perimit. Nam si quilibet dixerit esse aliquid et alius dixerit idem ipsum non esse, unus quidem affirmat, alter negat sed in affirmatione et negatione, quae in contradictione ponuntur, una semper vera est, altera falsa. Neque enim fieri potest ut utraeque sint verae. Non enim nunc sermo est aut de subcontrarus aut de indefinitis. Namque subcontrariae, id est particularis negatio et affirmatio particularis, et indefinitae utraeque verae in eodem esse poterant, contradictoriae autem minime. Neque enim fieri potest, ut hae quae vel in singularibus contradictiones sunt vel in universalibus angulariter opponuntur simul umquam verae sint. Hoc est enim quod ait UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS, id est utraeque enuntiationes non erunt verae in enuntiationibus contradictoriis. Posita ergo hac conditione: si omnis affirmatio definite vera vel falsa sit, omnia ex necessitate evenire, hanc ipsam rerum ipsarum et propositionum consequentiam et similitudinem monstrare contendit dicens: NAM SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI EST ALBUM VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET ƿ SI NON EST, MENTITUR, ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM ESSE. Omnis, inquit, affirmatio omnisque negatio cum rebus ipsis vel vera vel falsa est, huius autem rei exempla ex praesentibus sumit. Nam sicut se habent secundum necessitatem in praesenti tempore enuntiationes, ita se habebunt etiam in futuro. Speculemur igitur in praesenti quae sit rerum propositionumque necessitas. Si qua enim propositio de qualibet re dicta vera est, illam rem quam dixit esse necesse est. Si enim dixerit, quoniam nix alba est, et hoc verum est, veritatem propositionis sequitur necessitas rei. Necesse est enim esse nivem albam, si propositio quae de ea re praedicata est vera est. Quod si dixerit quis non esse albam picem et haec vera est, manifestum est rem quoque propositionis consequi veritatem. Amplius quoque et propositiones rerum necessitates sequuntur. Si enim est aliqua res, verum est de ea dicere quoniam est, et si non est aliqua res, verum est de ea dicere quoniam non est. Ita secundum veritatem affirmationis et negationis necessitas rei substantiam sequitur et rerum necessitas propositionum comitatur necessitatem.Atque hoc quidem in veris. In falsis quoque idem est e contrario. Nam si falsa est affirmatio, rem de qua loquitur non esse necesse est, ut si falsa est affirmatio quae dicit picem esse albam, non esse albam picem necesse est. Rursus si falsa est negatio quae dicit nivem non esse albam, esse albam nivem necesse est. Rursus si res non est, affirmatio quoque de ea re necessarie falsa est. Quod si rursus res non ƿ sit id quod potest dicere falsa negatio, sine ulla dubitatione illa negatio falsa est et hoc esse necesse est, ut quoniam de nive potest dicere falsa negatio, quoniam alba non est, hoc ipsum quod falsa negatio dicit, id est albam non esse, non est. Nix enim non alba non est.Quare rerum necessitati falsitas veritasque convertitur. Nam si est aliquid, vere de eodem dicitur, quoniam est, et si vere dicitur, illam rem de qua vere aliquid praedicatur esse necesse est; quod si non est id quod dicitur, falsa enuntiatio est, et si enuntiationes falsae sunt, res non esse necesse est. Quod si haec ita sunt, positum est autem omnem affirmationem et negationem veram esse definite, quoniam propositionum veritatem vel falsitatem rerum necessitas secundum esse vel non esse consequitur (esse quidem secundum veritatem, ut dictum est, non esse secundum falsitatem): nihil fit casu neque libera voluntate nec aliqua possibilitate. Haec enim quae utrumlibet vocamus talia sunt, quae cum nondum sunt facta et fieri possunt et non fieri, si autem facta sint, non fieri potuerunt, ut hodie me Vergilii librum legere, quod nondum feci, potest quidem non fieri, potest etiam fieri, quod si fecero, potui non facere. Haec igitur huiusmodi sunt quaecumque utrumlibet dicuntur. Utrumlibet autem quid sit ipse planius monstrat dicens: utrumlibet enim nihil magis sic vel non sic se habet aut habebit. Est enim utrumlibet quod vel ad esse vel ad non esse aequaliter sese habeat, id est neque illud esse necesse sit ƿ neque non esse necesse sit. Putaverunt autem quidam, quorum Stoici quoque sunt, Aristotelem dicere in futuro contingentes nec veras esse nec falsas. Quod enim dixit nihil se magis ad esse habere quam ad non esse, hoc putaverunt tamquam nihil eas interesset falsas an veras putari. Neque veras enim neque falsas esse arbitrati sunt. Sed falso. Non enim hoc Aristoteles dicit, quod utraeque nec verae nec falsae sunt sed quod una quidem ipsarum quaelibet aut vera aut falsa est, non tamen quemadmodum in praeteritis definite nec quemadmodum in praesentibus sed enuntiativarum vocum duplicem quodammodo esse naturam, quarum quaedam essent non modo in quibus verum et falsum inveniretur sed in quibus una etiam esset definite vera, falsa altera definite, in aliis vero una quidem vera, altera falsa sed indefinite et commutabiliter et hoc per suam naturam, non ad nostram ignorantiam atque notitiam. Quocirca recte dictum est, si omnis affirmatio vel negatio vera definite esset, nihil fieri neque esse vel a casu vel a communi nomine utrumlibet nec esse aut non esse contingenter sed aut esse definite aut non esse definite sed magis ex necessitate omnia. Hoc enim consequitur eum qui dicit aut eum qui affirmat verum esse aut eum qui negat. Quod si hoc verum esset, itidem cum veritate vel fieret vel cum falsitate non fieret quod a vere falseue enuntiantibus dicebatur. Quod si hoc impossibile ƿ est et sunt quaedam res quae necessitate non sint (videmus autem quasdam esse casu, quasdam ex voluntate, quasdam ex propriae possibilitate naturae), frustra putatur sicut in praeteritis, ita quoque in futuris enuntiationibus unam esse veram, alteram falsam definite. Quare haec una fuit eius argumentatio. Aliam vero quasi ipse sibi opponens aliquam quaestionem ingreditur validiore tractatu: AMPLIUS SI EST ALBUM NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM ERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM FUIT DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST DICERE QUONIAM EST VEL ERIT, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURA SUNT NECESSE EST FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX NECESSITATE. Ad adstruendum non esse omnes enuntiationes veras definite in futuro vel falsas ex eadem quidem argumentationis virtute et ex eodem possibilitatis eventu, diversam tamen ingreditur actionis viam. Dudum enim ex his quae nondum erant facta, si vere futura esse praedicerentur, in rebus necessitatem solam esse posse collegit. Nunc autem ex his rebus quae facta sunt argumentationem capit, si vere antequam fierent praedicerentur, necessitatis nexu eventus rerum omnium contineri. Arbitrantur enim hi qui dicunt contingentium quoque propositionum stabilem esse enuntiationis modum secundum veritatem scilicet atque ƿ mendacium, quod omnia quaecumque facta sunt, inquiunt, potuerunt praedici, quoniam fient. Hoc enim in natura quidem fuit antea sed nobis hoc rei ipsius patefecit eventus. Quare si omnia quaecumque evenerunt sunt et ea quae sunt futura esse praedici potuerunt, necesse est omnia quae dicuntur aut definite vera esse aut definite falsa, quoniam definitus eorum eventus secundum praesens tempus est. Quare in omnibus in quibus aliquid evenit verum est dicere, quoniam eventurum est, et si nondum adhuc factum est. Hoc autem illa res probat verum fuisse tunc dici, quoniam evenit id quod praedici potuerat; quod si praedictum esset, res eventura definita veritate praediceretur. Hoc Aristoteles sumens ad idem impossibile validissima ratione perducit et praesentis temporis naturam cum futuri enuntiatione coniungit. Ait enim simile esse de praesentibus enuntiare secundum veritatis necessitatem et de futuris: nam si verum est dicere, quoniam est aliquid, esse necesse est, et si verum est dicere, quoniam erit, futurum sine dubio esse necesse est: omnia igitur ex necessitate futura sunt: ad idem scilicet impossibile argumentationem trahens. Sumit autem huius impossibilitatis ordinem ex his propositionibus quae faciliores quidem ad intellectum sunt, idem tamen valent hoc modo: SI SEMPER, inquit, VERUM EST DICERE, QUONIAM EST VEL ERIT, quidquid tunc verum fuit praedicere, illud NON POTEST NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. Quemadmodum enim id quod in praesenti vere dicitur esse, hoc non potest non esse, si vera de eo propositio ƿ fuit, quae dicebat esse, ita quoque in futuro quae dicit aliquid futurum esse, illa si vera est, non potest non futurum esse quod praedicit. Quod si non potest non fieri quod a vera propositione praedicitur, impossibile est non fieri. Idem est enim dicere non potest non fieri, quod dicere impossibile est non fieri. Quod autem impossibile est non fieri, necesse est fieri. Impossibile enim idem necessitati valet contrarie praedicatum, ut ipse post docuit. Nam quod impossibile est esse necesse est non esse. Quod enim ut sit possibile non est, illud non esse necesse est. Quod si hoc est, et contraria se eodem modo habebunt. Quod est impossibile non esse, hoc esse necesse est. Sed dictum est ea quae vera praedicuntur impossibile esse non esse, hoc autem est ex necessitate esse. Ea igitur quae praedicuntur ex necessitate futura sunt. Nihil igitur utrumlibet neque casu nec omnino secundum liberum arbitrium, quod utrumlibet significatio totum clausit. Nam quod dicit utrumlibet et possibilitatem et casum et liberum in significatione tenet arbitrium. Ergo nihil fit a casu. Nam si quaedam casu fieri dicat, ille rursus in ea re perimit necessitatem. Quod enim casu est non ex necessitate est. Nihil autem fit a casu, quoniam omnia ex necessitate proveniunt, quaecumque enuntiatio vera praedixerit. Evenit autem huiusmodi impossibilitas ex eo quod concessum est prius, omnia quaecumque facta sunt definite vere potuisse praedici. Nam si ex necessitate contingit id quod evenit, verum ƿ fuit dicere quoniam erit. Quod si ex necessitate non contingit sed contingenter, non potius verum fuit dicere quoniam erit sed magis quoniam contingit esse. Nam qui dicit erit, ille quandam necessitatem in ipsa praedicatione ponit. Hoc inde intellegitur, quod si vere dicat futurum esse id quod praedicitur non possibile sit non fieri, hoc autem ex necessitate sit fieri. Ergo qui dicit, quoniam erit aliquid eorum quae contingenter eveniunt, in eo quod futurum esse dicit id quod contingenter evenit fortasse mentitur; vel si contigerit res illa quam praedicit, ille tamen mentitus est: non enim eventus falsus est sed modus praedictionis. Namque ita oportuit dicere: Cras bellum navale contingenter eveniet  hoc est dicere: ita evenit, si evenerit, ut potuerit non evenire. Qui ita dicit verum dicit, eventum enim contingenter praedixit. Qui autem ita infit: Cras bellum erit navale  quasi necesse sit, ita pronuntiat. Quod si evenerit, non iam idcirco quia praedixit verum dixerit, quoniam id quod contingenter eventurum erat necessarie futurum praedixit. Non ergo in eventu est falsitas sed in praedictionis modo. Quemadmodum enim si quis ambulante Socrate dicat: Socrates ex necessitate ambulat  ille mentitus est non in eo quod Socrates ambulat sed in eo quod non ex necessitate ambulat, quod ille eum ex necessitate ambulare praedicavit, ita quoque in hoc qui dicit quoniam erit aliquid, etiam hoc si fiat, ille tamen ƿ falsus est, non in eo quod factum est sed in eo quod non ita factum est, ut ille praedixit esse futurum. Quod si verum esset definite, ex necessitate esset futurum. Igitur ex necessitate futurum esse praedixit, quodcumque sine ullo alio modo eventurum pronuntiavit. Quare non in eventu rei sed in praedicationis enuntiatione falsitas invenitur. Oportet enim in contingentibus ita aliquid praedicere, si vera erit enuntiatio, ut dicat quidem futurum esse aliquid sed ita, ut rursus relinquat esse possibile, ut futurum non sit. Haec autem est contingentis natura contingenter in enuntiatione praedicare. Quod si quis simpliciter id quod fortasse contingenter eveniet futurum esse praedixerit, ille rem contingentem necessarie futuram praedicit. Atque ideo etiam si evenerit id quod dicitur, tamen ille mentitus est in eo quod hoc quidem contingenter evenit, ille autem ex necessitate futurum esse praedixerit. Cum ergo sint quatuor enuntiationum veritatis et falsitatis modi, de his scilicet propositionibus quae in futuro praedicuntur (aut quoniam et erit et non erit id quod dicitur, id est ut et affirmatio et negatio vera sit, aut quoniam nec erit necnon erit, id est ut et affirmatio et negatio falsae sint, aut quoniam erit aut non erit, una tamen definite vera, altera falsa, aut rursus quoniam erit aut non erit utrisque secundum veritatem et falsitatem indefinitis et aequaliter ad veritatem mendaciumque vergentibus) docuit quidem supra et esse et non esse fieri nou posse, cum dicit: UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. Docuit etiam aliquantisper aut ƿ esse aut non esse definite in contingentibus et futuris propositionibus esse non posse. Nunc illud addit, quod neque esse neque non esse, id est quod nec illud dici vere possit, posse utrasque inveniri falsas, quae dicuntur in futuro propositiones. Quod si neque utraeque verae sunt neque utraeque falsae neque una definite vera, falsa altera definite, restat ut una quidem vera sit, altera falsa, non tamen definite sed utrumlibet et instabili modo, ut hoc quidem aut hoc evenire necesse sit, ut tamen una res quaelibet quasi necessarie et definite proveniat aut non proveniat fieri non possit. Quemadmodum autem utrasque falsas non esse demonstraret, hic inchoat: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT DICERE, UT QUONIAM NEQUE ERIT NEQUE NON ERIT. PRIMUM ENIM CUM SIT AFFIRMATIO FALSA, ERIT NEGATIO NON VERA ET HAEC CUM SIT FALSA, CONTINGIT AFFIRMATIONEM ESSE NON VERAM. AD HAEC SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM EST ET MAGNUM, OPORTET UTRAQUE ESSE; SIN VERO ERIT CRAS, ESSE CRAS; SI AUTEM NEQUE ERIT NEQUE NON ERIT CRAS, NON ERIT UTRUMLIBET, UT NAVALE BELLUM; OPORTEBIT ENIM NEQUE FIERI NAVALE BELLUM NEQUE NON FIERI NAVALE BELLUM. Sensus argumentationis huiusmodi est: nec illud, inquit, dici poterit, quod contingentium propositionum neutra vera sit in futuro. Hoc autem nihil differt dicere quam si quis dicat utrasque esse falsas. Hoc enim impossibile est. In contradictionibus namque utraeque falsae inveniri non possunt. Hoc enim proprium ƿ contradictoriarum est: ut proprietatem subcontrariarum refugiunt in eo quod simul verae esse non possunt, ita quoque et contrariarum proprietatem vitant in eo quod simul falsae non reperiuntur. Habent ergo propriam naturam, ut neque falsae simul sint neque verae. Quare una ipsarum semper erit vera, semper altera falsa. Impossibile est igitur, cum sit falsa negatio, non veram esse affirmationem, et rursus cum sit falsa affirmatio, negationem esse non veram. Igitur nec hoc est dicere, quod utraeque non verae sint. Quod per hoc dixit quod ait: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT DICERE, id est non nobis contingit dicere, hoc est impossibile est dicere, quoniam neutrum verum est, scilicet quod affirmationibus negationibusue prop onit ur contingentibus scilicet et futuris. Qui autem Aristotelen arbitrati sunt utrasque propositiones in futuro falsas arbitrari, si haec quae nunc dicit diligentissime perlegissent, numquam tantis raptarentur erroribus. Neque enim idem est dicere neutra vera est quod dicere neutra vera est definite. Futurum esse enim cras bellum navale et non futurum non dicitur quoniam utraeque omnino falsae sunt sed quoniam neutra est vera aut quaelibet ipsarum definite falsa sed haec quidem vera, illa falsa, non tamen una ipsarum definite sed quaelibet illa contingenter. His autem ƿ adicit aliud quiddam dicens: si propositionum veritas ex rerum substantia pendet, ut quidquid verum est in propositionibus dicere hoc esse necesse sit, si verum est dicere, quoniam erit aliquid album, veritatem sequitur rei necessarius eventus. Quod si dicat quis quamlibet illam rem cras albam futuram, si hoc vere dixerit, cras ex necessitate alba futura est. Sic igitur, si quis verum dicit neutram esse veram propositionum earum quae in futuro dicuntur, necesse est id quod dicitur et significatur ab illis propositionibus nec esse necnon esse. Fal sa enim et affirmatione et negatione nec quod affirmatio dicit fieri potest nec quod negatio. Ergo ex necessitate neutrum fit, quod vel affirmatio dicit vel negatio. Ergo si dicat affirmatio cras bellum navale futurum, quoniam falsa affirmatio est, non erit cras bellum navale. Rursus si idem neget negatio dicens non erit cras bellum navale, quoniam haec quoque falsa est, erit cras bellum navale. Quare nec erit bellum navale, quia affirmatio falsa est, necnon erit bellum navale, quia negatio. Sed hanc ineptiam nec animus sibi ipse fingere potest. Quis enim umquam dixerit rem aliquam ex necessitate nec esse nec non esse? Quod ille scilicet dicit, qui dicit utrasque propositiones in futuro falsas exsistere. QUAE ERGO CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS ƿ DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON ERIT. NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLENSIMUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT DICERE TUNC. Omnia in futuro vel vera vel falsa esse definite in propositionibus arbitrantes impossibilitas ista consequitur: nihil enim neque ex libero voluntatis arbitrio neque ex aliqua possibilitate, neque ex casu quidquam fieri potest, si omnia necessitati subiecta sunt. Quamquam quidam non dubitaverint dicere omnia ex necessitate et quibusdam artibus conati sunt id quod in nobis est cum rerum necessitate coniungere. Dicunt enim quidam, quorum sunt Stoici, ut omnia quaecumque fiunt fati necessitate proveniant, et omnia quao fatalis agit ratio sine dubio necessitate contingere. Sed illa esse sola in nobis et ex voluntate nostra, quaecumque per voluntatem nostram et per nos ipsos vis fati complet ac perficit. Neque enim, inquiunt, voluntas nostra in nobis est sed idem volumus idemque nolumus, quidquid fati necessitas imperavit, ut voluntas quoque nostra ex fato pendere ƿ videatur. Ita, quoniam per voluntatem nostram, quaedam ex nobis fiunt et ea quae fiunt in nobis fiunt quoniamque voluntas ipsa ex necessitate fati est, etiam quae nos voluntate nostra facimus, quod necessitas imperavit ea, ipsa impulsi facimus necessitate. Quare hoc modo significationem liberi arbitrii permutantes necessitatem et id quod in nobis est coninugere impossibiliter et copulare contendunt. Illud enim in nobis est liberum arbitrium, quod sit omni necessitate uacuum et ingenuum et suae potestatis, quorumdamque nos domini quodammodo sumus vel faciendi vel non faciendi. Quod si voluntatem quoque nostram fati nobis necessitas imperet, in nobis voluntas ipsa non erit sed in fato, nec erit liberum arbitrium sed potius seruiens necessitati. Unde fit ut, qui omnes actus eventnum necessitate constringunt, dicant per hoc poplitem quoque nos non flectere, nisi fatalis necessitas iusserit, caput quoque non scalpere, quare nec lauare, quare nec agere aliquid. His etiam adiciam vel aliquid feliciter vel aliquid infeliciter facere vel pati. Unde fit ut neque casum neque liberum arbitrium nec possibile in rebus ullum esse contendant, quamuis liberum destruere metuentes arbitrium aliam ei fingant significationem, per quam nihilominus libera hominis voluntas euertitur. Aristotelica vero auctoritas ita haec in rebus posita et constituta esse confirmat, ut non exponat nunc, quid sit casus quidue possibile quidue in nobis, nec ea esse in rebus ƿ probet atque demonstret sed in tantum apud illum haec in rebus esse manifestum est, ut opinionem, qua quis arbitratur enuntiationes in futuro omnes esse veras, per hoc impossibilem esse dicat, quod casum et possibilitatem liberumque euertat arbitrium. Haec enim ita constituta in rebus putat, ut non de his ulla opus sit demonstratione sed impossibilis ratio iudicetur, quaecumque vel possibile vel casum vel id quod in nobis est conatur euertere. Et casum quidem quemadmodum definita in propositionibus futuris veritas destruat supra monstravit. Nunc autem quemadmodum eadem ipsa veritas definita futurarum et contingentium propositionum tollat liberi arbitrii facultatem maxima vi argumentationis exsequitur dicens: huiusmodi cuncta contingere impossibilia, si quis unam enuntiationis partem definite veram vel falsam esse confingat. Sed nos secuti Porphyrium, cum huius disputationis expositionem coepimus, id quod prius dixit IN SINGULARIBUS ET FUTURIS ob hoc dixisse praediximus, quod facilior sit intellectus disputationis, si haec prius in singularibus perspicerentur. De quibus singularibus diligentissime praelocutus nunc de universalibus universaliter praedicatis et quae in his fiunt contradictiones loquitur. Ita enim dicit: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM. Alexander autem in singularibus et futuris dixisse eum arbitratur, tamquam si diceret in his futuris ƿ quae in generatione et corruptione sunt. Sunt enim quaedam futura quae in generatione et corruptione non sunt, ut quod de sole vel de luna vel de caeteris caelestibus pronuntiatur. Haec vero, quae sunt in rebus his quarum est et nasci et corrumpi natura, unam semper non necesse est veram esse, alteram falsam. Sed neutram ego improbo expositionem, utraeque enim veracissima ratione firmantur. Omnis autem sensus talis est, quo necessitatem solam in rebus imperare destruit Aristoteles: omne quod natura est non frustra est; consiliari autem homines naturaliter habent; quod si necessitas in rebus sola dominabitur, sine causa est consiliatio; sed consiliatio non frustra est, natura enim est: non igitur potest in rebus cuncta necessitas. Ordo autem se sit habet: QUAE ERGO, inquit, CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, scilicet quoniam qui est in rebus casus euertitur, alia vero quoniam possibilitas et liberi arbitrii voluntas amittitur. Et haec quomodo contingunt ipse secutus est dicens: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. Tunc enim inconvenientia illa contingunt, si omnis affirmatio et negatio definite vera vel falsa est sive in his contradictionibus quae in universalibus angulariter fiunt sive in singularibus. Tunc enim nihil est utrumlibet sed ex necessitate omnia, quoniam veritatem et falsitatem propositionum rerum eventus ex necessitate consequitur. Quare ut ipse ait non oportebit neque consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si vero hoc, non erit. Euertitur enim consiliatio, si frustra est, frustra autem eam esse dicit, quisquis in rebus solam ponit fati necessitatem. Cur enim quisque consilium habeat, si nihil ex eo quod consiliatur efficiet, cum administret cuncta necessitas? Quare non oportebit consiliari vel, si quis consiliatur, negotiari non debet. Negotiari autem est actu aliquid et negotio agere, non lucrum sed aliquam causam vel actum. Nihil enim ipse per actum suum consiliumque expediet, nisi fati necessitas inbet. Docuit autem quid esset consiliatio per hoc quod ait: QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI HOC, NON ERIT. Ita enim semper fit consiliatio, ut si sit Scipio, ita consiliabitur: si in Africam exercitum ducam, cladem Hannibalis ab Italia removebo: sin vero non ducam, non eripietur Italia. Hoc est enim dicere: si hoc facio, ut si in Africam exercitum ducam, erit hoc, id est eripietur Italia: sin vero hoc, id est si hic mansero, non erit hoc, non eripietur Italia. Et in aliis omnibus rebus eodem modo. Simul autem monstravit in consiliis non esse necessitatem. Si enim hoc, inquit, faciam, erit hoc, et si hoc, non erit. Quod si necessitas in rebus esset, sive hoc quis faceret sive non faceret, quod necesse esset eveniret. Quare quod consilii ratione fit non fit violentia necessitatis. Adiunxit ƿ autem ei quod est consiliari NEQUE NEGOTIARI et est ordo hoc modo: QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON ERIT (NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLEN SI MUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT DICERE TUNC) NEQUE NEGOTIARI id est actum incipere atque negotium gerere. Prior enim est consiliatio, posterius negotium sed negotium post consiliationem posuit et cuncta quae ad consiliationis naturam addi oportebat post negotiationis interpositionem subdidit. Est autem hoc modo: si omnia, inquit, necessitas agit, non oportet consiliari, quoniam si hoc facimus proveniet nobis hoc, si vero hoc facimus, non proveniet. Nihil enim prohibet frustra unum dicere, alterum negare dicentem: si hoc facimus, erit hoc aut non erit. Quod enim eventurum est fiet, sive ille per consilium coniectet hoc posse fieri, si quid aliud fecerit, sive ille neget hoc posse fieri, si hoc quod dixit faciat. Ex necessitate enim futurum est quidquid unus ipsorum verum dixerit. Quod si consiliari omnino non oportet, nec negotiari oportebit id est nullum incipere negotium. Sive enim quis incipiat sive non incipiat, quod ex necessitate est sine ulla dubitatione proveniet. Quare nihil alter homo altero distabit homine. Eo enim meliores homines ƿ iudicamus, quod potiores sunt in consilio. Sed ubi consiliatio frustra est cuncta necessitate faciente, homines quoque inter se nihil differunt. Ipsa enim consiliatio nil differt utrum bona an mala sit, cum proventus necessitas in fati administratione consistat. Quare si boni consilii homines laude digni sunt, mali consilii vituperatione, non aliter hoc erit iuste, nisi malus actus malumque consilium et e contra bonum in nostra sit potestate et non in fato. Cum enim nulla ex necessitate constringitur eventus rei, tunc et liberum voluntatis arbitrium, ut non sit fatali seruiens necessitati. Ergo neque qui in hoc mundo simplices rerum ordines posuerunt recipiendi sunt et hi qui in permixta hac mundana mole non permixtas quoque actuum causas accipiunt repudiandi. Nam neque qui casu omnia evenire dicunt recte arbitrantur neque qui omnia necessitatis violentia fingunt sana opinione tenentur neque omnia ex libero arbitrio esse manifestum est sed horum omnium et causae mixtae et eventus. Sunt enim quaedam ex casu, sunt aliqua ex necessitate, quaedam etiam videmus libero teneri iudicio. Et actuum quidem nostrorum voluntas in nobis est. Nostra enim voluntas domina quodammodo est nostrorum actuum et totius vitae rationis sed non ƿ eodem modo eventus quoque in nostra est potestate. Pro alia namque re aliquid ex libero arbitrio facientibus ex isdem veniens causis casus interstrepit. Ut cum scrobem deponens quis, ut infodiat vitem, si thesaurum inveniat, scrobem quidem deponere ex libero venit arbitrio, invenire thesaurum solus attulit casus, eam tamen causam habens casus, quam voluntas attulit. Nisi enim foderet scrobem, thesaurus non esset inventus. Quidam autem eventus nostris voluntatibus suppetit, quosdam impedit quaedam violenta necessitas. Prandere enim vel legere et alia huiusmodi sicut ex nostra voluntate sunt, ita quoque eorum saepe ex nostra voluntate pendet eventus. Quod si nunc imperare Persis velit Romanus, arbitrium quidem voluntatis in ipso est sed hunc eventum durior necessitas retinet et ad perfectionem uetat adduci. Itaque omnium rerum et casus et voluntas et necessitas dominatur nec una harum res in omnibus ponenda est sed trium mixta potentia. Unde fit ut peccantium consideretur magis animus potius quam eventus et puniatur animus non perfectio, idcirco quod voluntas quidem nobis libera est sed aliquotiens perfectionis ordo retinetur. Quod si omnia vel casu vel necessitate fierent, nec laus digna bene facientibus nec ultio delinquentibus nec leges ullae essent iustae, quae aut bonis praemia aut malis restituerent poenas. Venio nunc ad illud, quod multis quaeritur modis, an divinatio maneat, si non omnia in rebus ex necessitate contingunt. Nam quod in vera praedictione est, ƿ idem est in scientia, et sicut cum quis verum praedicit quod vere praedicitur esse necesse est, ita quod quis futurum novit illud futurum esse necesse est. Sed divinatio non omnia ut ex necessitate futura pronuntiat atque idcirco frequenter ita divinatur, quod facillime in ueterum libris agnoscitur: hoc quidem eventurum est sed si hoc fit non eveniet, quasi intercidi possit et alio modo evenire. Quod si ita est, necessitate non evenit. Utrum autem, si omnia futura sciat deus, omnia esse necesse est, ita quaeramus. Si quis dicat dei scientiam de futuris eventuum subsequi necessitatem, is profecto conversurus est, si omnia necessitate non contingunt, omnia deum scire non posse. Nam si scientiam dei sequitur eventuum necessitas, si eueutuum necessitas non sit, divina scientia perimitur. Et quis tam impia ratione animo torqueatur, ut haec de deo dicere audeat? Sed fortasse quis dicat, quoniam evenire non potest, ut deus omnia futura non noverit, hinc evenire ut omnia ex necessitate sint, quoniam deo notitiam rerum futurarum tollere nefas est. Sed si quis hoc dicat, illi videndum est, quod deum dum omnia scire conatur efficere omnia nescire contendit. Binarium enim numerum esse imparem si quis se scire proponat, non ille noverit sed potius nescit. Ita quod non est potentiae nosse se id ƿ arbitrari nosse potius impotentiae est. Quisquis ergo dicit deum cuncta nosse et ob hoc cuncta ex necessitate esse futura, is dicit deum ex necessitate eventura credere, quaecumque ex necessitate non eveniunt. Nam si omnia ex necessitate eventura novit deus, in notione sua fallitur. Non enim omnia ex necessitate eveniunt sed aliqua contingenter. Ergo si quae contingenter eventura sunt ex necessitate eventura noverit, in propria providentia falsus est. Novit enim futura deus non ut ex necessitate evenientia sed ut contingenter, ita ut etiam aliud posse fieri non ignoret, quid tamen fiat ex ipsorum hominum et actuum ratione persciscat. Quare si quis omnia ex necessitate fieri dicat, deo quoque benivolentiam subripiat necesse est. Nihil enim illius benignitas parit, quandoquidem cuncta necessitas administrat, ut ipsum dei benefacere ex necessitate quodammodo sit et non ex ipsius voluntate. Nam si ex ipsius voluntate quaedam fiunt, ut ipse nulla necessitate ciaudatur, non omnia ex necessitate contingunt. Quis igitur tam impie sapiens deum quoque necessitate constringat? Quis omnia ex necessitate fieri dicat, ista quoque vis impossibilitatis eveniet? Quare ponendum in rebus est casu quaedam posse et voluntate effici et necessitate constringi et ratio, quae utrumuis horum subruit, impossibilis iudicanda est. Non igitur immerito Aristoteles ad impossibilem rationem perducit dicens et possibilitatem et casum et liberum arbitrium deperire, quod fieri nequit, si omnium futurarum ƿ enuntiationum una semper vera est definite, falsa semper altera definite. Harum enim veritatem et falsitatem necessitas consequitur, quae et casum de rebus et liberum subiudicat arbitrium. Unde nunc quoque idem repetens dicit: nihil impedire, utrum aliquis ante mille annos dicat aliquid futurum esse an alius neget. Non enim secundum dicere vel negare cuncta facienda sunt vel non facienda sed si necesse est dicentem vel negantem res quoque affirmatas vel negatas subsequi, [etiam si illi non dicant] quae illis dicentibus evenire necesse erat, etiam non dicentibus evenire necesse est. Dicit autem hoc modo: AT VERO NEC HOC DIFFERT, SI ALIQUI DIXERUNT CONTRADICTIONEM VEL NON DIXERUNT; MANIFESTUM EST ENIM, QUOD SIC SE HABENT RES, ET SI HIC QUIDEM AFFIRMAVERIT, ILLE VERO NEGAVERIT; NON ENIM PROPTER NEGARE VEL AFFIRMARE ERIT VEL NON ERIT NEC IN MILLENSIMUM ANNUM MAGIS QUAM IN QUANTOLIBET TEMPORE. QUARE SI IN OMNI TEMPORE SIC SE HABEBAT, UT UNUM verE DICERETUR, NECESSE ESSET HOC FIERI ET UNUMQUODQUE EORUM QUAE FIUNT SIC SE HABERET, UT EX NECESSITATE FIERET. QUANDO ENIM VERE DICIT QUIS, QUONIAM ERIT, NON POTEST NON FIERI ET QUOD FACTUM EST VERUM ERAT DICERE SEMPER, QUONIAM ERIT. Eventus necessariarum rerum Aristoteles non ex praedicentium veritate sed ex ipsarum rerum natura considerans inquit: licet necesse sit, quisquis de re aliqua vera praedixerit, rem quam ante praenuntiaverit evenire, non tamen idcirco rerum necessitas ex praedictionis veritate pendet sed divinandi veritas ex rerum potius necessitate perpenditur. Non enim idcirco esse necesse est, quoniam verum aliquid praedictum est sed quoniam necessario erat futurum, idcirco de ea re potuit aliquid vere praedici. Quod si ita est, eveniendi rei vel non eveniendi non est causa is qui praedicit futuram esse vel negat. Non enim affirmationem et negationem esse necesse est sed idcirco ea esse necesse est quae futura sunt, quoniam in natura propria quandam habent necessitatem, in quam si quis incurrerit, verum est quod praedicit. Ergo si quaecumque nunc facta sunt verum de his fuisset dicere quoniam erunt, sive ille dixisset sive non dixisset, haec quae nunc facta sunt erant ex necessitate futura. Non enim propter dicentem vel negantem in rebus necessitas est sed propter rerum necessitatem veritas in praenuntiatione vel falsitas invenitur. Quare si etiam ea quae nunc facta sunt vere potuissent praedici quoniam erunt et his ita positis rem necesse esset evenire, sive illi praedicerent sive non praedicerent, necesse est omne quod fit ex necessitate es se futurum et nihil omnino utrumlibet ƿ in rebus est. Namque si nihil necessitatem rerum adivuat divinatio et nihil interest, utrum quis praedicat futurum esse aliquid an neget an nullus omnino aliquid nec in affirmatione nec in negatione praedicat, manifestum est quoniam nec de eo ulla distantia est, sive quis ante quamlibet multum tempus aliquid eventurum vere esse praedixerit sive ante quamlibet paucos dies vel horas vel momenta. Nihil enim interest: sive enim quis ante mille annos praediceret, quod ex necessitate esset futurum, sive ante annum vel mensem vel diem vel horam vel momentum, de necessitate rei eventurae nihil moveret. Quod enim nihil interesset utrum praediceretur an non praediceretur, nihil quoque interest an iuxta praedicatur an longius. Quod si haec ita sunt et omnia quaecumque evenerunt futura fuisse necesse est, totum liberum arbitrium perit, totus casus absumitur, rerum possibilitas praeter necessitatem omnis excluditur. Simul autem Aristoteles praenuntiationem eventumque coniungens rerum necessitatem ex ipsa propositionum veritate confirmat dicens: si haec ita sunt, ut in omni tempore sic se haberet unumquodque quod factum est, ut hoc ipsum vere praediceretur, NECESSE ESSET HOC FIERI, id est necesse esset quod praedictum vere est evenire. Unumquodque enim eorum quae fiunt et verepraedicuntur sic se habet, ut ex necessitate fiat. Hoc autem cur fiat haec ratio est: quod enim vere quis dicit, fieri necesse est. Illa enim veritas ex rerum ƿ necessitate procreatur. Quod si etiam id quod factum est veraciter praenuntiaretur futurum, nulla esset dubitatio omnia ex necessitate provenire. Quod si hoc, inquit, est impossibile (videmus enim quasdam res ex principio liberi arbitrii et ex nostrorum actuum fonte descendere), quid dubitamus frivolam rationem omnium necessitatis excludere nec dilectum humanae vitae interpositione necessitatis absumere? Quae enim erit ulla discretio inter homines, si liberi arbitrii iudicium perit? Cur postremum leges conditae, cur publice iura responsa sunt? Cur instituta moresque, publici et privati actus constitutionibus principum et iudiciorum nexibus continentur, si certum est nihil humanis licere propositis? Frustra enim cuncta sunt, si liberum arbitrium non est. Leges enim et caetera ad continendos animos hominum conditas scimus. Quod si se ipsi animi non regunt et eos aliqua quaedam violentia necessitatis impellit, dublum non est quin uacuae istae leges sint, quae nihil sponte facientibus proponuntur. Sed haec quam sint impossibilia ipse Aristoteles probat, cuius recta sententia neque casum neque necessitatem neque possibilitatem in utraque parte naturae neque liberum tollit arbitrium sed cuncta permiscens rebus pluribus mundum compositum non arbitratur simplici vel casu vel necessitate vel liberae voluntatis iudicio contineri. QUOD SI HAEC NON SUNT POSSIBILIA: VIDEMUS ENIM ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR ATQUE AGIMUS ALIQUID. Impossibilia, inquit, ista sunt ut omnia ex necessitate proveniant. Sumus enim quorundam nos ipsi quoque principia et animus noster ratione formatus actionesque nostrae ea ratione directae quarundam rerum principium tenent. Sic enim id quod in nobis est habere videmur: nullo extra impediente vel cogente ad quod nobis videtur ratione iudicante prosilimus. Nec omnia necessitatibus subripienda sunt. Omnium namque animalium genus in eo quod animalia sunt subiectum est aliud naturae, aliud caelestibus siderum cursibus, aliud rationi quoque mentis et animi cogitationi. Arbores namque et animalia irrationabilia illae quidem tantum naturae subiectae sunt, pecudes vero etiam caelestium decretis. Homines autem et naturae et sideribus et propriae voluntati subiecti sunt. Multa enim natura dominante vel facimus vel patimur, ut mortem vel huiusmodi habitudinem corporis. Multa secum rerum ipsarum necessitas trahit, ut ea quae cum facere velimus, non tamen facere valeamus. Multa autem dat liberum voluntatis arbitrium, quae nobis volentibus fiunt ut fierent si velimus. Unde fit ut natura quae motus ƿ est principium et liberi arbitrii facultate animi ratione participet. Anima vero velut inligata corporibus, quibus natura dominatur, imaginationibus et cupiditatibus et iracundiae ardoribus caeterisque, quae afferunt corpora, ex ipsa cui inligata est natura participat. Cuncti autem divinae providentiae subiecti ex illa quoque divinorum voluntate pendemus. Itaque nec caelestium necessitas tota subruitur nec casum disputatio haec de rebus eliminat et liberum firmat arbitrium. Sed haec maiora sunt quam ut nunc digne pertractari queant. Sumus igitur nos quoque rerum principia et ex nostris consiliis atque actibus in rebus plura consistunt. Quod si ea quae per hanc rationem auferuntur perspicua sunt, quod vero ponitur id est affirmationem et negationem omnem in futuro veram esse non aeque perspicuum est, cur dubitamus mendacem subterfugere rationis viam et tenere ea quae cum vera sunt tum manifesta sunt repudiatis his, quae nec veritate ulla firma sunt nec perspicuitate clarescunt? ET QUONIAM SUPRA IAM DIXERAT: QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, nunc hoc reddidit ad id quod ait CONSILIARI DICENS ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR; ad id quod ait NEQUE NEGOTIARI reddidit id quod subiecit ATQUE AGIMUS. Quare tanta brevitate oratio constricta est, ut in ea teneatur rationis ordinisque necessitas. ET QUONIAM EST OMNINO IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT ESSE POSSIBILE ET NON, IN ƿ QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ET ESSE ET NON ESSE, QUARE ET FIERI ET NON FIERI. ET MULTA NOBIS MANIFESTA SUNT SIC SE HABENTIA, UT QUONIAM HANC UESTEM POSSIBILE EST INCIDI ET NON INCIDETUR SED PRIUS EXTERETUR. SIMILITER AUTEM ET NON INCIDI POSSIBILE EST. NON ENIM ESSET EAM PRIUS EXTERI, NISI ESSET POSSIBILE NON INCIDI. QUARE ET IN ALIIS FACTURIS, QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM DICUNTUR HUIUSMODI: MANIFESTUM EST, QUONIAM NON OMNIA EX NECESSITATE VEL SUNT VEL FIUNT SED ALIA QUIDEM UTRUMLIBET ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL NEGATIO, ALIA VERO MAGIS QUIDEM IN PLURIBUS ALTERUM SED CONTINGIT FIERI ET ALTERUM, ALTERUM VERO MINIME. Continuus quidem sensus est ex superioribus hoc modo: supra enim ait quod si haec non sunt possibilia id est ut omnia necessitas administret: videmus enim a nobis quoddam esse principium futurorum et a nostris actibus atque consiliis: his illud addidit: quoniamque sunt aliqua quae possibilia quidem sunt esse cum non sint et non esse cum sint. Haec etiam simul auferuntur, si necessitas in omnibus dominetur. Et sensus quidem cum superioribus ita coniunctus est, quid autem habeat argumentationis tota sententia, hoc modo perspiciendum est: possibile esse dicitur quod in utramque partem facile naturae suae ratione vertatur, ut et cum non sit possibile sit esse nec cum sit ut non sit res ulla prohibeat. Ita ergo et quod possibile dicimus a necessitate seiungimus. Aliter enim dicitur possibile me esse ambulare cum sedeam, aliter solem nunc esse in sagittario et post paucos dies in aquarium transgredi. Ita enim possibile est ut etiam necesse sit. Possibile autem dicere solemus, quod et cum non sit esse possit et cum sit non esse iterum possit. Si quis ergo omnia necessitati subiecerit, ille naturam possibilitatis intercipit. Tres sunt ergo sententiae de possibilitate. Philo enim dicit possibile esse, quod natura propria enuntiationis suscipiat veritatem, ut cum dico me hodie esse Theocriti Bucolica relecturum. Hoc si nil extra prohibeat, quantum in se est, potest veraciter praedicari. Eodem autem modo idem ipse Philo necessarium esse definit, quod cum verum sit, quantum in se est, numquam possit susceptivum esse mendacii. Non necessarium autem idem ipse determinat, quod quantum in se est possit suscipere falsitatem. Impossibile vero, quod secundum propriam naturam numquam possit suscipere veritatem. Idem tamen ipse contingens et possibile unum esse confirmat. Diodorus possibile esse determinat, quod aut est aut erit; impossibile, quod cum falsum sit non erit verum; necessarium, quod cum verum sit non erit falsum; non necessarium, quod aut iam est aut erit falsum. Stoici vero possibile quidem posuerunt, quod susceptibile esset verae praedicationis nihil his prohibentibus, quae cum extra sint cum ipso tamen fieri contingunt. Impossibile autem, quod nullam umquam suscipiat veritatem aliis extra eventum ipsius prohibentibus. Necessarium autem, quod cum verum sit falsam praedicationem nulla ratione suscipiat. Sed si omnia ex necessitate fiunt, in Diodori sententiam non rectam sine ulla dubitatione veniendum est. Ille enim arbitratus est, si quis in mari moreretur, eum in terra mortem non potuisse suscipere. Quod neque Philo neque Stoici dicunt. Sed quamquam ista non dicant, tamen si unam partem contradictionis eventu metiuntur idem Diodoro sentire coguntur. Nam si, quisquis in mari mortuus est, illum necesse fuit in mari necari, impossibile eum fuit mortem in terra suscipere. Quod est perfalsum. Atque haec omnia impossibilia subire coguntur, quicumque cum definite alteram contradictionis partem in futuro veram esse contendunt, solam necessitatem in rebus esse dicunt. Neque enim, si quis naufragio periit in pelago, idcirco si numquam navigasset immortalis in terra futurus fuisset. At ergo non ex eventu rerum sed ex natura eventus ipsos suscipientium propositionum contradictiones indicandae sunt. Si enim mihi omnia nunc suppeditent ut Athenas eam, etiamsi non uadam, posse me tamen ire manifestum est; et cum vero potuisse non ire, id quoque apud eos qui eventus ex rerum natura recta ratione diiudicant indubitatum est. ƿ Non ergo id est possibile ut sit necessarium sed quamquam quod necessarium est possibile sit; est tamen alia quaedam extrinsecus possibilitatis natura, quae et ab impossibili et a necessitate seiuncta sit. Aristoteles enim hanc habet opinionem de his quae semper esse necesse est. Ea enim putat nullam habere ad contraria cognationem: ut nix quoniam semper est frigida numquam calori coniuncta est. Ignis quoque numquam frigori cognatus est, idcirco quod semper in frigoris contrarietate versatur id est in calore. Omnia ergo quaecumque sunt necessaria nullam ad contraria earum qualitatum, quas ipsa retinent, habent cognationem. Quod si quam cognationem haberet ignis ad frigus, frustra esset illa cognatio numquam igne in frigus qualitatem vertente. Sed novimus nihil proprium natum frustra naturam solere perficere. Ergo illa sint posita necessaria quaecumque ad contraria nullam habent cognationem. Quaecumque autem habent illa sunt non necessaria sed quoniam ad utramque partem contrarietatis naturali quadam cognatione videntur esse coniuncta, idcirco in utraque parte eorum eventus possibilis est: ut lignum hoc potest quidem secari sed nihilo tamen minus habet ad contraria cognationem, potest enim non secari, et aqua potest quidem calescere sed nihil eam prohibet frigori quoque esse coniunctam. Et universaliter dicere ƿ est: quaecumque neque semper sunt neque semper non sunt sed aliquotiens sunt, aliquotiens non sunt, ea per hoc ipsum quod sunt et non sunt habent aliquam ad contraria cognationem. Haec autem impossibilium et necessariorum media sunt. Impossibile enim numquam esse potest, necessarium numquam non esse: inter haec propria quorundam natura est, quae horum utrorumque sit media, quae et esse scilicet possit et non esse. Ergo hoc nunc dicit: videmus, inquit, IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT (illa autem non semper actu sunt, quae ad utraque contraria habent cognationem: ignis semper actu calidus est, aqua vero non semper) quocirca videmus IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT esse quaedam possibilia et non, id est ut et sint et non sint. Quod in his evenit IN QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ID EST ET ESSE ET NON ESSE, ut aquam et esse calidam et non esse calidam, fieri quoque calidam et non fieri. Multaque nobis perspicua sunt ita sese habentia, ut in utraque parte eventus sine ullo alicuius rei impedimento vertatur, ut uestem quam possibile est quidem secari sed fortasse ita contingit, ut non ante ferro dividatur, quam eam exterat uetustas. Et hoc fieri potest, ut quaelibet uestis non ferro potius minutatim eat quam usu ipso exteratur. Similiter autem non solum eam secari possibile est. Non enim esset eam prius exteri quam secari, nisi prius possibile esset non secari. Cum enim ƿ exteritur, non secatur. Hoc autem in quibus eveniat universaliter monstrat. Evenit hoc enim, inquit, in facturis. Facturae autem sunt, in quibuscumque generatio est atque corruptio. Sive enim quid natura fiat sive arte, in his a faciendo facturam dixit. In his ergo facturis alia quidem potestate sunt, alia actu: ut aqua calida quidem est possibilitate, potest enim fieri calida, frigida vero actu est, est enim frigida. Hoc autem actu et potestate ex materia venit. Nam cum sit materia contrarietatis susceptrix et ipsa in se utriusque contrarietatis habeat cognationem, si ipsa per se cogitetur, nihil eorum habet quae in se suscipit et ipsa quidem nihil actu est, omnia tamen potestate. Suscipiens autem contraria quamquam unam habeat contrarietatem, habet tamen et alteram simul sed non actu, ut in eadem aqua. Huius enim materia et caloris susceptrix est et frigoris sed cum utrumlibet horum susceperit vel calorem vel frigus, est quidem si ita contigit, calida, est etiam simul frigida sed non eodem modo. Nam fortasse actu calida est, frigida potestate. Ergo quod potestate est in rebus ex materia venit. Alioquin divinis corporibus nihil omnino est potestate sed omne actu: ut soli numquam est lumen potestate, cui quidem nulla obscuritas, vel toto caelo nulla quies. Ita sese ergo habent ex materia ut omnia ipsa essent potestate, nihil autem actu, arbitratu ƿ naturae, quae in ipsa materia singulos pro ratione distribuit motus et singulas qualitatum proprietates singulis materiae partibus ponit, ut alias quidem natura ipsa necessarias ordinarit, ita ut quam diu res illa esset eius in ipsa proprietas permaneret, ut igni calorem. Nam quamdiu ignis est, tamdiu ignem calidum esse necesse est. Aliis vero tales qualitates apposuit, quibus carere possint. Et illa quidem necessaria qualitas informat uniuscuiusque substantiam. Illa enim eius qualitas cum ipsa materia ex natura coniuncta est. Istae vero aliae qualitates extra sunt, quae et admitti possunt et non admitti. Atque hinc est generatio et corruptio. Ex natura igitur et ex materia ista in rebus possibilitas venit. Qua in re casus quoque aliquando subrepit, quae est indeterminata causa et sine ulla ratione cadens. Neque enim natura est quae frustra nil efficit nec arbitrium liberum quod in iudicio et ratione consistit sed extra est casus, qui propter aliam rem quibusdam factis ipse subitus et improvisus exoritur. Ex hac autem possibilitate etiam illa liberi arbitrii ratio venit. Si enim non esset fieri aliquid possibile sed omnia aut ex necessitate essent aut ex necessitate non essent, liberum arbitrium non maneret. Recte igitur nec omnia casu ut Epicurus nec necessitate omnia ut ƿ Stoicus nec rursus omnia libero arbitrio fieri proposuit sed cuncta permiscens in permixto mundo permixtas quoque rerum causae esse proposuit, ut aliae quidem ex necessitate, aliae vero casu vel libero arbitrio vel postremo possibilitate contingerent. Quorum omnium unum nomen est utrumlibet, vel in casu vel in voluntate vel in possibilitate. Sed horum divisionem facit. Nam eorum quae sunt utrumlibet alia sunt quae aequaliter se ad affirmationem et negatio. Nem habent, ut est lecturum me esse hodie Vergilium et non lecturum: utroque enim modo utrumque est. Hoc est enim quod ait ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL NEGATIO. Aequaliter enim et possum legere Vergilium nunc et possum non legere. Alia vero sunt quae non se aequaliter habeant sed quamquam in una re frequentius eveniat, non tamen prohibitum est in altera provenire, ut in eo quod est hominem in senecta canescere. In pluribus quidem hoc contingit sed CONTINGIT FIERI ET ALTERUM, id est ut non canescat, alterum vero minime, id est ut canescat. Ita igitur et ex possibilitate et ex casu et ex libero arbitrio contradictionem in una parte de futuro definite non esse veram vel falsam firmissima et validissima argumentatione constituit. His autem adicit hoc: IGITUR ESSE QUOD EST, QUANDO EST, ET NON ESSE QUOD NON EST, QUANDO NON EST, NECESSE EST; SED NON QUOD EST OMNE NECESSE EST ESSE NEC QUOD NON EST NECESSE EST NON ESSE. NON ENIM IDEM EST OMNE QUOD EST ESSE NECESSARIO, QUANDO EST, ET SIMPLICITER ESSE EX NECESSITATE. Duplex modus necessitatis ostenditur: unus qui cum alicuius accidentis necessitate proponitur, alter qui simplici praedicatione profertur. Et simplici quidem praedicatione profertur, cum dicimus solem moveri necesse est. Non enim solum quia nunc movetur sed quia numquam non movebitur, idcirco in solis motu necessitas venit. Altera vero quae cum conditione dicitur talis est: ut cum dicimus Socratem sedere necesse est cum sedet, et non sedere necesse est cum non sedet. Nam cum idem eodem tempore sedere et non sedere non possit, quicumque sedet non potest non sedere, tunc cum sedet: igitur sedere necesse est. Ergo quando quis sedet tunc cum sedet eum sedere necesse est. Fieri enim non potest ut cum sedet non sedeat. Rursus quando quis non sedet, tunc cum non sedet, eum non sedere necesse est. Non enim potest idem non sedere et sedere. Et potest ista esse cum conditione necessitas, ut cum sedet aliquis, tunc cum sedet, ex necessitate sedeat, et cum non sedet, tunc cum non sedet, ex necessitate non sedeat. Sed ista cum conditione quae proponitur necessitas non illam simplicem secum trahit (non enim quicumque sedet simpliciter eum sedere necesse est sed cum adiectione ea quae est tunc cum sedet), sicut solem dicimus non necesse esse tunc moveri, cum movetur, nec hoc addimus, ut solem moveri necesse sit cum movetur sed tantum simpliciter dicimus solem moveri necesse est. Et haec necessitas simplex de sole dicta veritatem in oratione perficiet. At vero illa quae cum conditione dicitur, ut cum dicimus Socratem sedere necesse est, tunc cum sedet, id ƿ quod proponimus tunc cum sedet et hanc conditionem temporis si a propositione dividamus, de tota propositione veritas perit. Non enim possumus dicere quoniam Socrates ex necessitate sedet. Potest enim et non sedere. Habet enim quandam convenientiam et cognationem potestas Socratis sicut ad sedendum sic etiam ad non sedendum. Ergo id quod dicimus ex necessitate Socraten sedere, tunc cum sedet, ad accidens respicientes proponimus. Nam quoniam accidit Socrati sedere et eo tempore quo accidit ei non accidisse non potest (sic enim fiet ut eidem eadem res et accidat et non accidat uno eodemque tempore, quod impossibile est), idcirco accidens eius inspicientes dicimus necesse esse Socraten sedere sed non simpliciter sed tunc cum sedet. Et sicut Aethiopem dicere simpliciter esse candidum falsum est, verum tamen in aliquo esse candidum (in oculis enim illi vel in dentibus candor est), ita quoque falsum dicere Socraten ex necessitate sedere simpliciter, verum autem est hanc necessitatem in aliquo quodam tempore, non simpliciter praedicare, ut dicamus tunc cum sedet. Quemadmodum enim in sole dicimus, quoniam solem moveri necesse est, simpliciter, si ita dicamus Socraten sedere necesse est, falsum est. Sin vero marmoreum Socraten dicamus, quoniam Socraten marmoreum sedere necesse est, si fortasse sedens formatus sit, verum est et simpliciter de tali Socrate necessitas poterit praedicari. De ipso autem Socrate simpliciter ƿ talis necessitas non dicitur. Neque enim fieri potest, ut Socrates ex necessitate sedeat, nisi forte cum sedet. Tunc enim cum sedet, quoniam sedet et non potest non sedere, ex necessitate sedet. Alioquin non simpliciter ex necessitate sedet sed contingenter, potest enim surgere. Quod autem ex necessitate simpliciter est, illam permutare non potest necessitatem: ut quoniam simpliciter solem moveri necesse est, sol stare nulla ratione potest. Hoc igitur dicit Aristoteles: omne quod est, quando est, et omne quod non est, quando non est, esse cum conditione et non esse necesse est sed non sine conditione aut esse aut non esse simpliciter. Haec enim illis solis necessitatibus attributa sunt quaecumque nullius potentiae aut cognationis ad opposita sunt, ut sol ad quietem vel ignis ad frigus. Neque enim idem est, inquit Aristoteles, ex necessitate esse aliquid, quando est, in conditione vel non esse, quando non est, et simpliciter dicere omne ex necessitate esse vel non esse. Illud enim conditio verum fecit, in hoc simplicitatis natura effecit veritatem. SIMILITER AUTEM, inquit, ET IN EO QUOD NON EST. Etiam in eo quod non est idem est: non omne quod non est non esse necesse est sed tunc cum non est tunc non esse necesse est, et hoc in conditione rursus, non simpliciter. Duabus igitur his necessitatibus demonstratis, una conditionali, altera simplici, nunc ad contradictionem rursus de futuro contingentemque reuertitur. ET IN CONTRADICTIONE EADEM RATIO. ESSE QUIDEM VEL NON ESSE OMNE NECESSE EST ET FUTURUM ESSE VEL NON; NON TAMEN DIVIDENTEM DICERE ALTERUM NECESSARIO. DICO AUTEM NECESSE EST QUIDEM FUTURUM ESSE BELLUM NAVALE CRAS VEL NON ESSE FUTURUM SED NON FUTURUM ESSE CRAS BELLUM NAVALE NECESSE EST VEL NON FUTURUM ESSE, FUTURUM AUTEM ESSE VEL NON ESSE NECESSE EST. QUARE QUONIAM SIMILITER ORATIONES VERAE SUNT QUEMADMODUM ET RES, MANIFESTUM EST QUONIAM QUAECUMQUE SIC SE HABENT, UT UTRUMLIBET SINT ET CONTRARIA IPSORUM CONTINGANT NECESSE EST SIMILITER SE HABERE ET CONTRADICTIONEM. QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER NON SUNT. Planissime quam sententiam haberet de contingentibus propositionibus et futuris exposuit dicens: in his totam quidem contradictionem dictam unam quamlibet partem habere veram alteram falsam sed non ut aliquis dividat atque respondeat hanc quidem ex necessitate veram esse, illam vero ex necessitate alteram falsam: ut in eo quod dicimus: Sol occidit  Sol hodie non occidit  facillime in his aliquis dividens dicit, quoniam solem hodie occidere ex necessitate verum est, non occidere ex necessitate falsum. Ita sese enim habet divinorum corporum ratio et natura, ut in his ƿ nulla cognatio sit ad opposita, atque ideo vel quod sunt ex necessitate sunt vel quod non sunt ex necessitate non sunt. Ea vero quae in generatione et corruptione sunt non ita sunt. Habent enim hoc ipso, quod et gignuntur et corrumpuntur, ad opposita cognationem atque ideo in his non est unam partem contradictionis assumere et eam necessario esse praedicare et rursus aliam necessario non esse proponere quamuis totius contradictionis una quaelibet pars vera sit, altera falsa sed incognite et indefinite, et non nobis, verum natura ipsa harum rerum quae proponuntur dubitabilis, ut in ea propositione quae est: Socrates hodie lecturus est Socrates hodie lecturus non est  Totius quidem contradictionis una vera est, una falsa (aut enim lecturus est aut non lecturus) et hoc confuse in tota oratione perspectum sed nullus potest dividere et respondere, quoniam vera est lecturum eum esse vel certe quoniam vera est non eum esse lecturum. Hoc autem non quod audientes de futuro nesciamus sed quod eadem res et esse possit et non esse. Alioquin si ex nostra inscientia hoc eveniret et non ex ipsarum rerum variabili et indefinito proventu, illa rursus impossibilitas contingeret, ut omnia necessitas administraret. Non enim propter scientiam nostram quod ex necessitate est eventurum est sed etiam si nos nesciamus, erit tamen alicuius rei eventus constitutus et indubitatus: illam rem futuram esse necesse est. Ergo quoniam hoc fieri non potest et ƿ sunt quaedam quae non ex necessitate proveniant sed contingenter, in his quamquam totius contradictionis in qualibet eius parte veritas inveniatur aut falsitas, non tamen ut aliquis dividat et dicat hanc quidem veram esse, illam vero falsam. Quod huiusmodi monstravit exemplo: cras enim bellum navale fieri aut non fieri necesse est, non tamen ex necessitate fiet cras aut ex necessitate cras non fiet, ut possit aliquis dividere et praedicare dicens cras fiet, ut hoc vere dicat et ita ex definito contingat, vel rursus cras non fiet, et hoc eodem modo proveniat: hoc fieri non potest sed tantum indefinite quaecumque una pars contradictionis vera est, altera falsa sed quae evenerit. Eventus autem ipsorum indiscretus est: et illud enim et illud poterit evenire. Hoc autem idcirco est quoniam non est ex antiquioribus quibusdam causis pendens rerum eventus, ut quaedam quodammodo necessitatis catena sit sed potius haec ex nostro arbitrio et libera voluntate sunt, in quibus est nulla necessitas. Quod si, inquit, itidem ORATIONES VERAE SUNT QUEMADMODUM ET RES: hoc sumpsit a Platone, qui dixit similiter se habere orationes rebus et cognatas quodammodo esse in ipsa significatione, si sint res impermutabiles et ratione stabili permanentes oratio quoque de his vera esset et necessaria, sin vero esset res quae varietate naturae numquam perpetuo permaneret in orationibus quoque fixa veritas non esset et nulla per huiusmodi orationes demonstratio proveniret. Hoc igitur sumens Aristoteles ut optime dictum sic ait: quoniam, inquit, orationes similiter sese habent quemadmodum res, manifestum est quoniam quaecumque res ita sunt, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingere possint, necesse est ita contradictionem se habere, quae de illis natura instabilibus atque indefinitis rebus est, ut si res sint dubitabiles et indefinito variabilique proventu contradictio quoque quae de his rebus fit variabili indefinitoque proventu sit. Quae autem essent huiusmodi res, quarum eventus varius indefinitusque constaret, planissime demonstravit dicens: QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER NON SUNT. Ea enim sunt, in quibus contingit utrumlibet, quae neque semper sunt (possunt enim corrumpi) neque semper non sunt (possunt enim generari et fieri). Haec enim sunt quae habent ad opposita cognationem, sicut in ipsa propria substantia rerum ipsarum eventus docet. Nam esse et non esse oppositum est. Quod autem non fuit et generatur et fit ex eo quod non fuit est. Habuit igitur in hoc ad esse et non esse id est ad opposita cognationem. Sin vero idem ipsum quod est corrumpatur, ex eo quod fuit non erit. Habebit igitur rursus ad opposita cognationem. Quare et sicut harum quae sunt in generatione et corruptione rerum proventus indefinitus est, ita quoque et contradictionum partes, quamquam in tota contradictione una vera sit, altera falsa. Indefinitum ƿ enim et indiscretum est, quae una harum vera sit, quae altera falsa. HORUM ENIM NECESSE EST QUIDEM ALTERAM PARTEM CONTRADICTIONIS VERAM ESSE VEL FALSAM, NON TAMEN HOC AUT ILLUD SED UTRUMLIBET ET MAGIS QUIDEM VERAM ALTERAM, NON TAMEN IAM VERAM VEL FALSAM. QUARE MANIFESTUM EST, QUONIAM NON EST NECESSE OMNIS AFFIRMATIONIS VEL NEGATIONIS OPPOSITARUM HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM ESSE. Docuit supra nos in his quae utrumlibet sunt rebus contradictionis unam partem non esse definite veram, falsam vero alteram definite: nunc a frequentiori et a rariori argumentum trahit. Supra namque monstravit esse quasdam res quae frequentius quidem contingent, non tamen interclusum sit, ut et opposita aliquando contingent. Contingit enim ut rarius infrequentiusque contingat. Ergo si in his quaecumque in pluribus eveniunt non necesse est unam veram esse, alteram falsam (idcirco quod quicumque dixerit hominem in senecta canescere et hoc ex necessitate esse protulerit mentietur, potest enim et non canescere): si in his ergo non est definite una vera, altera falsa, in quibus una res frequentius evenit, rarius altera, multo minus in his in quibus oppositorum eventus aequalis est. Et verum est quidem dicere, quoniam hoc contingit frequentius, non tamen omnino quoniam ƿ contingit, idcirco quod, licet rarius, tamen contingit oppositum. Quod si neque in his quae in pluribus praedicantur una definite vera est, altera falsa et multo minus in his quorum aequaliter indiscretus eventus est, manifestum est in futuris et contingentibus propositionibus non esse unam veram, alteram falsam. Hoc enim in principio ut monstraret validissima argumentatione contendit. NEQUE ENIM QUEMADMODUM IN HIS QUAE SUNT, SIC SE HABET ETIAM IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE AUT NON ESSE SED QUEMADMODUM DICTUM EST. Ad divisionem temporum in principio factam totam reuocat quaestionem. Ait enim prius propositiones eas quae fierent aut in praesenti aut in praeterito aut in futuro praedicari. Et eas quidem quae de praeterito vel praesenti dicerentur definitam veritatem vel falsitatem habere, sive in sempiternis et divinis dicerentur rebus sive in nascentibus atque morientibus, in quibus utrumlibet contingeret, ut haberent ad opposita cognationem. In futuris vero, si de divinis quidem rebus aliquis et in mutabilibus loqueretur, eodem modo unam veram definite, alteram falsam esse definite. Non enim habere huiusmodi naturas ad opposita cognationem. In his autem quae in generatione et corruptione essent de futuro praedicatis vel affirmative vel negative non eundem esse modum veritatis definitae sed totius quidem contradictionis unam partem veram esse, alteram falsam, definite autem unam veram, definite alteram falsam minime. ƿ Nunc autem non utraque tempora posuit, praesens scilicet et praeteritum sed tantum praesens. Dixit enim: NEQUE ENIM QUEMADMODUM IN HIS QUAE SUNT, id est in his quae praesentia sunt. Quod vero ait IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE, de futuris loquitur, quae cum non sint tamen esse possunt. Non enim sic se habet in praesenti prasdicata propositio, quemadmodum in futuro, in his scilicet quae utrumlibet sunt et in generatione et in corruptione consistunt. In illis enim id est praeteritis et praesentibus definite una vera est, altera falsa: in his id est futuris et contingentibus veritas et falsitas propositionum nulla definitione constringitur. Sed quoniam de futuris propositionibus Aristotelicam sententiam quantum facultas fuit diligenter expressimus, prolixitatem voluminis terminemus.  Est quidem libri huius -- "De interpretatione" apud Latinos, apud Graecos vero *Peri hermeneias* inscribitur -- obscura orationis series obscurissimis adiecta sententiis atque ideo non hunc magnis expedissem ƿ voluminibus, nisi etiam nihil labori concedens quam pote planissime quod in prima editione altitudinis et subtilitatis omiseram secunda commentatione complorem. Sed danda est prolixitati venia et operis longitudo libri obscuritate pensanda est. Sunt tamen gradus apud nos satisfacientes lectorum et diligentiae et fastidio cupientium facillime magna cognoscere. Huius enim libri post has geminas commentationes quoddam breuarium facimus, ita ut in quibusdam et fere in omnibus Aristotelis ipsius verbis utamur, tantum quod ille brevitate dixit obscure nos aliquibas additis dilucidiorem seriem adiectione faciamus, ut quasi inter textus brevitatem commentationisque diffusionem medius ingrediatur stilus diffuse dicta colligens et angustissime scripta diffundens. Atque haec posterius. Nunc autem quoniam ab Aristotele supra monstratum est in futuro contingentium propositionum veritatem et falsitatem non stabili neque definita ratione esse divisam et quidquid supra latissima disputatio complexa est, nunc haec eius intentio est, ut categoricarum propositionum numerum tradat, quaecumque cum finito vel infinito nomine simpliciter fiunt. Primo enim volumine dictum est nomen esse ut 'homo', infinitum vero nomen ut 'non homo'. Praedicativae autem et categoricae propositiones sunt quae duobus tantum simplicibus terminis constant: hae ƿ sive cum finito nomine, ut est: Homo ambulat  sive cum nomine infinito, ut est: Non homo ambulat  Harum igitur propositionum categoricarum atque simplicium tradere numerum contendit, quaecumque fiunt adiectione nominis infiniti. Sed quoniam propositiones omnes aut secundum qualitatem differunt aut secundum quantitatem (secundum qualitatem, quod haec quidem affirmativa est, illa vero negativa, secundum quantitatem vero, quod haec quidem plura complectitur, illa vero pauca): secundum quam differentiam hae propositiones quae dicunt homo ambulat et rursus non homo ambulat a se differunt? Secundum qualitatem an secundum quantitatem? Nam quod dico: Homo ambulat  qualitatem quandam substantiae id est hominem ambulare designat et rem definitam atque substantiam unamque speciem ambulabilem esse pronuntiat, quod autem dico: Non homo ambulat  nominem quidem rem definitam tollo, innumerabilia vero significo. Quare illa quidem quae dicit: Homo ambulat  secundum qualitatem, quae vero: Non homo ambulat  videbitur secundum quantitatem potius discrepare. An certe illud magis est verius: [ut et] quod dico: Homo ambulat  'homo' simplex nomen quasi affirmationi est proximum, quod vero dico: Non homo ambulat  'non homo' infinitum nomen negationis videtur esse consimile? Sed affirmatio et negatio secundum qualitatem differunt, haec autem affirmationi sunt negationique similia: qualitate igitur potius quam ulla discrepant quantitate. An magis illud est verius, quod quemadmodum ƿ se habet propositio quae dicit Socrates ambulat ad eam quae dicit guidam homo ambulat, ita sese habet homo ambulat ad eam quae dicit non homo ambulat? Propositio namque quae est: Quidam homo ambulat  si plures ambulent, necesse est ut vera sit, si autem plures ambulent, ut: Socrates ambulet  non est necesse. Possunt enim plures ambulare et Socrates non ambulare sed cum plures ambulant, quidam homo ambulat. Hoc autem ideo evenit, quia quod dicimus: Quidam homo ambulat  particularitatem iungimus universalitati id est homini et, si qui sub illa universalitate sunt id est sub homine ambulante, eam quae dicit: Quidam homo ambulat  veram esse necesse est. At vero cum dicitur: Socrates ambulat  quoniam Socrates circa unius cuiusdam proprietatem est, nisi ipse Socrates ambulaverit, quamquam omnes homines ambulent, non est verum dicere Socrates ambulat. Sicut ergo: Quidam homo ambulat  indefinita Socrates ambulat  propria ac definita: sic etiam in eo quod est homo et non homo. Qui dicit: Homo ambulat  dicit quoniam quoddam animal ambulat et hoc nomine et qualitate determinat dicens "Homo ambulat". Qui vero dicit: Non homo ambulat  non quidem omnia subruit sed hominem tantum, caetera vero animalia ambulabilia esse pronuntiat. Ergo sive equus sive bos sive leo ambulat, verum est "Non homo ambulat" sed non est verum "Homo ambulat", si non ipse homo ambulat. Quare ƿ quemadmodum se habet "Quidam homo ambulat" ad "Socrates ambulat", quod illic, si plures homines ambularent, verum erat "Quidam homo ambulat", non etiam "Socrates ambulat", nisi ipse Socrates ambularet: ita quoque in eo quod est "Homo ambulat" et "Non homo ambulat" dici potest. Nam si plura quae sunt non homines ambulent, verum est dicere quoniam non homo ambulat, non autem verum est dicere quoniam homo ambulat, nisi ipse homo ambulet. Secundum definitionem potius et proprietstem videntur discrepare quam aliquam totam quantitatem vel partem vel rursus aliquam qualitatem. Nam, sicut posterius demonstrabitur, ea quae dicit non homo ambulat affirmatio potius quam negatio est. Atque haec hactenus praedixisse sufficiat. QUONIAM AUTEM EST DE ALIQUO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID, HOC AUTEM EST VEL NOMEN VEL INNOMINE, UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE (NOMEN AUTEM DICTUM EST ET INNOMINE PRIUS; NON HOMO ENIM NOMEN QUIDEM NON DICO SED INFINITUM NOMEN; UNUM ENIM QUODAMMODO SIGNIFICAT INFINITUM, QUEMADMODUM ET NON CURRIT NON VERBUM SED INFINITUM VERBUM), ERIT OMNIS AFFIRMATIO VEL EX NOMINE ET VERBO VEL EX INFINITO NOMINE ET VERBO. PRAETER VERBUM AUTEM NULLA AFFIRMATIO VEL NEGATIO. EST ENIM VEL ERIT VEL FUIT VEL FIT, VEL QUAECUMQUE ALIA ƿ HUIUSMODI, VERBA EX HIS SUNT QUAE SUNT POSITA; CONSIGNIFICANT ENIM TEMPUS. QUARE PRIMA AFFIRMATIO ET NEGATIO EST HOMO, NON EST HOMO, DEINDE EST NON HOMO, NON EST NON HOMO; RURSUS EST OMNIS HOMO, NON EST OMNIS HOMO, EST OMNIS NON HOMO, NON EST OMNIS NON HOMO. In secundo (ut arbitror) libro praediximus omnem enuntiationem simplicem id est praedicativam ex subiecto et praedicato consistere, quorum semper praedicatio aut verbum esset aut quod idem posset, tamquam si verbi dictio poneretur: ut cum dicimus: Homo ambulat  verbum ponitur; cum vero dicimus: Homo rationalis  subaudiatur hic verbum 'est', ut totus intellectus sit "Homo rationabilis est". Quocirca necesse est aut verbum semper esse praedicatum aut quod sit verbo consimile idemque in enuntiationibus possit. Quod vero subiectum esset, aut omnino nomen esse aut quod vice nominis fungeretur. Quocirca illud maxime colligendum est omne in categorica propositione subiectum nomen esse, omne vero praedicatum verbum. Sed quoniam, cum de nomine loqueretur, aliud quoddam nomen introduxit, quod simpliciter quidem et per se nomen non esset, infinitum tamen nomen vocaretur, id quod cum negativa particula profertur, omnis autem propositio ex nominis subiectione consistit, est autem categorica propositio, quae aliquid de aliquo praedicat vel negat, et de quo praedicat quidem nomen est quoniamque in nomine infinitum etiam ƿ nomen dicitur, necesse est semper categoricam propositionem aut nomen habere subiectum aut illud quod dicitur infinitum. Infinitum vero nomen est quod ipse nunc INNOMINE vocat. Omnis ergo propositio praedicativa in duas dividitur species: aut ex infinito nomine subiectum est aut ex simplici nomine. Ex infinito quidem, cum dico: Non homo ambulat  ex finito autem et simplici, ut: Homo ambulat  Huius autem quae ex finito et simplici est species sunt duae: quae aut universale nomen subicit, ut "Homo ambulat", aut singulare, ut "Socrates ambulat". Quare ita fit divisio: omnium enuntiationum simplicium, quae ex duobus terminis constant, aliae sunt ex infinito nomine subiecto, aliae vero ex finito et simplici. Earum quae simplex habent subiectum aliae sunt quae universale simplex subiciunt, aliae quae singulare. Supra vero perdocuit quod sint differentiae propositionum simplex nomen in subiecto ponentium: quod aliae sint universales, aliae particulares, aliae indefinitae. Et secundum quantitatem quidem hoc modo differunt, secundum qualitatem vero, quod aliae affirmativae sint, aliae negativae. Idem quoque in his propositionibus quae ex infinito nomine subiecto enuntiantur. Aliae namque harum indefinitae sunt, aliae definitae. Definitarum aliae sunt universales, aliae particulares. Hic quoque secundum quantitatem nec minus secundum qualitatem eaedem infinitorum quoque nominum propositionibus differentiae sunt. Dicimus enim alias esse affirmativas, alias negativas. Subiecta vero descriptio docet, quae sint affirmativae simplices, ƿ quae sint negativae, et rursus quae sint affirmativae ex infinito nomine et quae negativae easque omnes in propriis determinationibus adiunximus nec minus etiam indefinitas in utraque specie propositionum posuimus singulare habentibus subiectum simplicibus propositionibus reiectis. Sint enim indefinitae simplices hae: Homo ambulat  Homo non ambulatcontra has vero divisae secundum infinitum nomen hae: Non homo ambulat Non homo non ambulat  Universales ex simplici subiecto nomine sint hae: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat  contra has divisse ex infinito nomine universales: Omnis non homo ambulat Nullus non homo ambulat  Rursus particulares ex finito nomine subiecto sint: Quidam homo ambulat Quidam homo non ambulat  rursus contra has divisae ex infinito nomine subiecto hae: Quidam non homo ambulat Quidam non homo non ambulat  Hoc autem subiecta descriptione declaratur: Indefinitae ex simplici nomine subiecto: Homo ambulat Homo non ambulat Indefinitae ex infinito nomine subiecto: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex simplici nomine subiecto: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat Universales ex infinito nomine subiecto: Omnis non homo ambulat Nullus non homo ambulat Particulares ex simplici nomine subiecto: Quidam homo ambulat Quidam homo non ambulat ƿParticulares ex infinito nomine subiecto: Quidam non homo ambulat Quidam non homo non ambulat Haec ergo partiens et de propositionibus ex duobus terminis constitutis faciens propositionem colligit omnis ex subiecto nomine propositiones et eas tantum ad divisionem sumit, quae ex infinito nomine fiunt, faciens huiusmodi divisionem principalem, ut sit: propositionum aliae sunt ex finito nomine, aliae ex infinito. Oportuerat quidem volentem cuncta partiri ad differentias propositionum non solum infinita sumere nomina sed etiam verba. Sed quoniam noverat nomen quidem infinitum conservare propositionem quam invenisset, ut si in affirmativa diceretur affirmativam servaret enuntiationem, ut est: Non homo ambulat  si in negativa negativam, ut est: Non homo non ambulat  verba vero quae sunt infinita iuncta in propositione non affirmationem sed perficere negationem, idcirco de his reticuit, quod hae magis quae ex verbo infinito sunt ad unam qualitatem pertinent propositionis id est ad negativam. Semper enim fit ex infinito verbo negatio. Haec igitur colligens ait: QUONIAM AUTEM EST DE ALIQUO SUBIECTO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID id est praedicans, hoc est quoniam omnis propositio ex subiecto et praedicato. Quod autem subiectum EST VEL NOMEN VEL INNOMINATUM. ƿInnominatum autem est quod propositum subruit nomen, ut est 'non homo'. Nomen enim quod est 'homo' differt nominis infiniti privatione quod est 'non homo' atque ideo et innominatum vocavit. Qualis autem debeat esse propositio de qua tractat ostendit dicens: UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE, id est ex duobus terminis propositionem oportere consistere. Commemorat quoque quid sit innominatum se supra dixisse, quoniam quod diceremus 'non homo' nomen quidem Aristoteles non diceret sed quod nomen simpliciter non vocaret hoc addito infinito nomen diceret infinitum, idcirco quoniam unum quidem significat sed infinitum. 'Non homo' enim quod significationem eius quod dicimus homo tollit unum est et unam per se significationem subripiens, multa sunt quae intellegentium sensibus relinquantur. Commemorat etiam quoniam 'non currit' verbum superius infinitum vocavit et non simpliciter verbum. QUONIAM ergo aliquid de aliquo affirmatio est, hoc autem quod subiectum est aut nomen esse oportet aut innominatum id est infinitum nomen, duplex propositionis species invenitur. Omnis enim affirmatio vel ex nomine est et verbo vel ex infinito nomine et verbo. Eodem quoque modo et negatio. Neque enim reperietur ulla umquam affirmatio, cui negatio inveniri non possit. Quod si duplex species affirmationum, duplex quoque species est negationum. Illud ƿ quoque commemorat quod supra iam dixit. Nam licet ex nomine et verbo et rursus ex eo, quod non est nomen sed infinitum, nomine et verbo sit affirmatio et negatio praedicativa id est categorica: ut autem praeter verbum sit ulla affirmatio aut negatio aut praeter id quod idem significet verbo vel in subauditione vel aliquo alio modo fieri non potest. Ponit quoque verba quae paene in omnibus propositionibus aut sub ipsa cadunt aut quae idem valeant. EST ENIM, inquit, VEL ERIT VEL FUIT, VEL QUAECUMQUE ALIA consignificant tempus, verba sunt, sicut ex his doceri possumus quae ante posita sunt atque concessa, cum definitio verborum daretur: verba esse quae consignificarent tempus. Quare si haec consignificant tempus, non est dubium quin verba sins. Sed praeter haec aut praeter idem valentia propositio nulla est. Recte igitur dictum est praeter verba praedicativam propositionem non posse constitui. Iuste tamen aliquis quaestionem videatur opponere, cur cum iam dixerit praeter verbum enuntiationes nulla ratione posse constitui nunc idem repetit, quasi nil de his antea praedixisset. Sed superfivum videri non debet. QUONIAM enim finitum nomen cum negativa particula nomen est infinitum, idcirco putaretur fortasse negatio esse quod diceremus non homo. Quod si haec negatio, homo affirmatio. Ne in hunc ergo quisquam laberetur errorem, hoc dixit et congrue repetivit, quoniam praeter verbum esse enuntiatio non potest, tamquam si diceret: ƿ nemo arbitretur infinitum nomen esse negationem nec nomen affirmationem, praeter enim verbum affirmatio et negatio nulla umquam potest ratione constitui. In hoc illud quoque noverat quod verbum infinitum et negationem significaret et infinitum verbum. Id enim quod dicimus 'non ambulat' et infinitum est verbum et negatio sed per se quidem si dicatur simplex sine aliquibus aliis adiectionibus infinitum verbum est; sin vero cum nomine aut cum infinito nomine proferatur, non iam verbum infinitum sed negatio accipitur: ut 'non' negativa particula cum 'ambulat' iuncta infinitum verbum efficiat non ambulat sed in propositione quae est "Homo non ambulat" hominem non ambulare designet. Atque ideo ait subiecta quidem in propositionibus posse esse vel nomina vel infinita nomina, praedicata vero praeter verba esse non posse. Nam sive in affirmationibus quis coniungat quid, verbum sine dubio praedicavit, sive in negationibus, non infinitum verbum sed tantum verbum, cui addita non particula totem qualitatem propositionis ex affirmativa in negativam commPomba. Quare recte nullam differentiam propositionum de infinitis verbis fecit. Infinita enim verba tunc sunt infinita, cum sola sunt. Si vero cum infinito nomine iungantur aut nomine, non infinita verba iam sunt sed finita, cum negatione tamen in tota propositione intelleguntur. Si ergo, quemadmodum Stoici volunt, ad nomina negationes ponerentur, ut esset "Non homo ambulat" negatio, ambiguum ƿ esse posset, cum dicimus 'non homo' an infinitum nomen esset, an vero finitum cum negatione coniunctum. Sed quoniam Aristoteli placet verbis negationes oportere coniungi, infinita magis verba ambigui intellectus sunt, an infinita videantur, an cum negatione finita. Atque ideo ita discernitur: sumptum cum nomine infinitum verbum negatio fit et negativa propositio, ut est "Homo non ambulat", per se vero dictum infinitum verbum est, ut 'non ambulat'. Atque ideo hic solam differentiam nominum et infinitorum nominum in propositionibus dedit, non etiam verborum infinitorum, idcirco quod de coniunctis loquebatur, id est de nominibus vel infinitis nominibus atque verbis. In qua coniunctione id quod per se infinitum verbum dicitur negatio est. Neque enim oportet sicut omnis propositio aut ex finito nomine aut ex infinito constat, ita quoque aut ex verbo constare aut ex infinito verbo. Infinitum enim verbum in propositionibus non est sed quotiens aliquid (ut dictum est) tale ponitur, finitum quidem verbum est sed illi iuncta negatio totam propositionem privat ac destruit. Et verbum quidem infinitum iunctum nominibus negationem ut faciat necesse est, nomen vero infinitum iunctum verbis non necesse est ut faciat negationem. Quod enim dicimus "Non homo ambulat" affirmatio est, non negatio. Ergo quoniam affirmationem oportet aliquid de aliquo significare, nomen autem infinitum est aliquid, quotiens dicimus: Non homo ambulat  ambulationem (id est ALIQUID) de 'non homine' (id est DE ALIQUO) praedicamus. Sed si dicamus 'non ambulat' non potius de aliquo praedicavimus aliquid sed ab aliquo. Qui enim dicit homo non ambulat, ambulationem ƿ ab homine tollit, non de homine praedicat. Quare negatio potius quam affirmatio est. Si enim affirmatio esset, id est si verbum esset infinitum, aliquid de aliquo praedicaret. Nunc autem aliquid ab aliquo tollit: non est igitur verbum infinitum sed potius negatio, quotiens in tota sumitur propositione. Numerum vero propositionum, quarum nos supra quoque descripsimus, ipse subiecit: indefinitas quidem prius, post vero contra iacentes. Quod si quis vel ad illa reuertitur vel hic intendit animum, in quo vel nostra vel Aristotelica dispositio discrepet diligenter agnoscit. Nos enim et contrarias proposuimus et subcontrarias, Aristoteles vero solum contradictorie sibimet contra iacentes oppositasque proposuit. Sed Aristoteles non solum in praesenti tempore easdem propositionum dicit esse differentias quas proposuit sed etiam in aliis quoque temporibus quae sunt extrinsecus. Extrinsecus autem tempora vocat quae praeter praesens sunt praeteritum scilicet et futurum. QUANDO AUTEM EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR OPPOSITIONES. DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN VEL VERBUM IN AFFIRMATIONE. QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT, QUARUM DUAE QUID EM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME. DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT. INTELLEGIMUS ƿ VERO QUOD DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO. EST ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Fertur autem etiam alia inscriptio quae est hoc modo: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, QUARE ET NEGATIO. Et rursus paulo post: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST HOMINI ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Quod autem dicitur perobscurum est et exponitur a pluribus incurate, quorum cum iudicio competenti enumerabo sententias. Postquam de his propositionibus expedivit, quae duobus constiterint terminis et subiectum habuerint aut nomen aut (ut ipse ait) innominatum id est infinitum nomen, nunc ad eas transit, in quibus est tertium adiacens praedicatur, uno subiecto duobus praedicatis: ut in eo quod dicimus homo iustus est homo subiectum est et iustus et est utraque praedicantur. Ergo in hoc duo sunt praedicata, unum vero subiectum. Et fortasse aliqui inquirat cur ita dixerit: quando autem est tertium adiacens praedicatur. Non enim tertium praedicatur sed secundum. Duo enim sunt quae praedicantur, unum vero subiectum est. Sed non ita dictum est, quasi est in ƿ propositione quae dicit homo iustus est tertium praedicaretur sed quoniam adiacet tertium et praedicatur. Ergo quod dicitur tertium ad adiacere refertur. Etenim in ea propositione quae dicit homo iustus est est tertium adiacet, praedicatur autem iam non tertium sed secundum. Ergo tertium numeratum adiacet, secundum vero numeratum praedicatur. Hoc est igitur quod ait: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, non quoniam tertium praedicatur sed praedicatur tertium adiacens, id est tertio loco. Facit igitur nunc in his propositionibus considerationem, in quibus est tertium adiacens secundum praedicatur. Et sicut in his in quibus tantum praedicatur 'est', non etiam adiacens praedicabatur, ut homo est, de subiecto considerationem fecit, quot modis sumptum subiectum differentias faceret propositionum (aut enim nomen esse subiectum aut infinitum nomen), sic nunc de praedicato loquitur et de praedicati differentiis tractat. In his enim propositionibus, IN QUIBUS EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, sumptum praedicatum alias nomen, alias infinitum nomen facit differentias propositionum. Praedicatum autem dico in ea propositione quae ponit: Homo iustus est  'iustus'. Hoc enim praedicatum de homine est, 'est' autem non praedicatur sed tertium adiacens praedicatur -- id est secundo loco et adiacens iusto, tertium vero in tota propositione praedicatur, non quasi quaedam pars totius propositionis sed potius demonstratio qualitatis. Non enim ƿ hoc quod dicimus est constituit propositionem totam sed qualis sit id est quoniam est affirmativa demonstrat. Atque ideo non dixit TERTIUM PRAEDICATUR tantum sed TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR. Non enim positum tertium praedicatur solum sed adiacens tertium secundo loco et quodammodo accidenter praedicatur. Potest etiam sic intelligi: idcirco dixisse Aristotelem 'est' in his tertium adiacens praedicari, quoniam possit aliquotiens et per se praedicari, ut si quis dicat: Socrates philosophus est  ut propositio haec hoc sentiat: Socrates philosophus vivit  'Est' enim pro 'vivit' positum est. Si quis ergo sic dicat duo inveniuntur subiecta est vero solum praedicatur, non etiam adiacens. Quod enim dicimus 'Socrates philosophus' utraque subiecta sunt 'est' autem praedicatur solum. Si quis autem dicat sic "Socrates philosophus est" ut non iam Socratem philosophum esse atque vivere sed Socratem philosophari et philosophum esse enuntiatione significet, tunc invenitur unum subiectum, duo praedicata. Socrates enim subiectum est, philosophus autem et est praedicata quorum philosophus quidem principaliter praedicatur, est autem adiacens philosopho et ipsum praedicatur sed non simpliciter praedicatur sed adiacens. Sunt autem etiam aliae propositiones hoc modo: Socrates in lycio leget  Et sunt hae ex tribus terminis. Sed de hac interim propositionum natura nil tractat sed de his solis in quibus est tertium adiacens praedicatur, ut est: Homo iustus est  Sed de his duas quidem oppositiones. Quocirca recte duae oppositiones quatuor propositionum sunt. Hoc autem huiusmodi est: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quod principaliter praedicatur aut nomen erit aut infinitum nomen. Et hae aut affirmative praedicandae sunt aut negative. Quocirca simplicis nominis affirmatio et simplicis nominis negatio una est oppositio et duae propositiones. Finitum autem et infivitum hic non subiectum sed sumitur praedicatum, ut in eo quod est homo iustus est iustus praedicatur. Hoc autem nomen erit aut infinitum nomen. Fiunt ergo ex his duae affirmationes: homo iustus est, homo non iustus est. Atque hoc quidem in indefinitis. Posterius autem monstrabitur hoc etiam in his es se, quae determinationem habent universalitatis vel particularitatis. Nunc autem horum ordo subiectus numerum oppositionemque declaret. Oppositio una: Affirmatio simplex: Negatio simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Oppositio una: Affirmatio ex infinito Negatio ex infinito. Homo non iustus est Homo non iustus non est  Simplices in superposita descriptione propositiones vocavi, in quibus nomen praedicatur, ut: Homo iustus ƿ est Homo iustus non est  Ex infinitis autem, in quibus nomen infinitum principaliter praedicatur, ut est: Homo non iustus est Homo non iustus non est  Sive autem est primo dicatur sive postea idem est nec hoc turbet quod Aristoteles 'est' primum dixit, nos vero postremum sed idem est. Fiunt igitur oppositiones duae, quatuor propositiones sunt. Hae quatuor propositiones ex senario propositionum numero ad pauciora reductae sunt. Si enim simplices et ex duobus terminis fuissent, hoc modo essent: Homo est Homo non est Iustus est Iustus non est Non iustus est Non iustus non est  et essent hae sex propositiones. Posset quidem adici hoc quidem etiam, ut de infinito nomine subiecto fierent propositiones, ut est: Non homo est Non homo non est  Sed de his posterius dicit. Nunc autem sex illae simplices in quatuor raptae sunt, idcirco quoniam res simplices iunctae naturaliter redeunt pauciores. Coniunctio enim ipsa numerum minuit, ut si sint decem res et singulae singulis iungantur, ut binae fiant, quinarius numerus coniunctionis redit. Ita etiam hic modo sex erant propositiones (ut supra docui) quae [et] simpliciter dicerentur sed hae adstrictae sunt et coniunctione deminutae. Nam quod posuerunt istae quatuor: Homo est Homo non est Iustus est Iustus non est  hae coniunctione in duas redactae sunt. Iunctus enim homo cum iusto duas propositiones fecerunt: Homo iustus est Homo iustus non est  Rursus ƿ ad eundem ipsum hominem infinitum cum praedicatur, aliae duae propositiones ex infinito praedicato rationabiliter oriuntur: Homo non iustus est Homo non iustus non est  Quorum duae sunt oppositiones, quatuor vero propositiones. Ita igitur ex sex propositionibus, id est: Est homo Non est homo Est iustus Non est iustus Est non iustus Non est non iustus(quae cum sex sint propositiones, tres tamen habent oppositiones) homo iusto et homo non iusto subiectus quatuor solas propositiones fecit, duplicem vero oppositionem. Qui vero dixerunt numerosiores fieri propositiones ex his, in quibus 'est' adiacens praedicaretur, quam ex his, quae duobus terminis constarent, illos non intellexisse rerum naturam manifestum est, quae ita fert, ut semper ex pluribus simplicibus rariores redeant res paucioresque coniunctae. Ait igitur: in his IN QUIBUS EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR: ut hoc quod ait TERTIUM non ad praedicationem referatur potius quam ad ordinem, ipse distinxit dicens: DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN VEL VERBUM IN AFFIRMATIONE. Non inquit tertium praedicari sed tertium adiacere, ad ordinem scilicet, non ad praedicationem, ut tertium quidem adiaceret, adiacens autem praedicaretur id est non simpliciter praedicaretur. Neque enim superius terminus in propositione est. Atque ideo si quis resoluere propositionem velit in suos terminos, ille non resolvit in 'est' sed in id quod est homo et iustus. Et erunt duo termini: subiectus quidem homo, praedicatus vero ƿ iustus, 'est' autem quod adiacens praedicatur et tertium adiacens non in termino sed in qualitate potius propositionis (ut dictum est) iustius accipietur. NOMEN autem VEL VERBUM ait 'est' propter hanc causam. Tertium enim nomen adiacere est dixit, ut doceret prima duo esse hominem scilicet et iustum, idcirco autem ait NOMEN VEL VERBUM, quoniam verba quoque nomina sunt. Hoc autem prius dixit dicens: IPSA QUIDEM PER SE DICTA VERBA NOMINA SUNT. Postquam igitur dixit, quid vellet ostendere per id quod ait EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quoniam ad ordinem non ad praedicationem, subter exposuit quot fierent propositiones dicens: QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT. Dixit autem communem istis quatuor accidentiam, quam paulo post diligenter exponam. Quod autem accidit hoc est: cum sint hae quatuor propopositiones, quas subter positurus est, duae ipsarum se AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM ITA HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME. Sed hanc his propositionibus accidentiam paulo post demonstrabo. Nunc autem illud respiciamus, quemadmodum ipse quatuor fieri propositiones dicat. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO. Fiet enim duplex propositio, si 'est' aut iusto adiaceat aut non iusto, hoc modo: Est homo iustus Est homo non iustus  Quare, inquit, si est affirmativo modo positum nunc quidem cum iusto, nunc autem cum non iusto geminas fecit propositiones scilicet affirmativas, idem quoque est cum negatione coniunctum id est non geminas ƿ quoque faciet negationes eas scilicet quae sunt: non est homo iustus, non est homo non iustus. Hoc est autem quod ait: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO. Si enim adiacet iusto, facit hanc affirmationem: Est iustus homo  si adiacet non iusto, facit hanc affirmationem: Est non iustus homo  Quare etiam negatio, quae iuncta cum est non est facit. Haec igitur negatio copulata iusto et non iusto duas efficiet negationes contra eas quas supra diximus propositiones. Si enim addatur iusto, talem facit negationem: Non est iustus homo  si non iusto: Non est non iustus homo  Hoc autem cur evenit? Quoniam est et non est iusto et non iusto adiacet, est cum iusto et non iusto duas faciente propositiones; non est iterum cum iusto et non iusto alias duas. Ex quibus quatuor duae oppositiones sunt, ut ait supra: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR OPPOSITIONES. Quare sensus sese totus hoc modo habet. Sed quoniam est alia quoque scriptio loci, sic dicat: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT. INTELLEGIMUS VERO QUOD DICIMUS EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO, est hoc loco et non est homini adiacente. Turbabat expositores ƿ et dubitabant quid hoc esset, quod cum supra dixisset: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, in eorum exemplo et dispositione 'est' non apposuit homini aut non homini sed iusto et non iusto dicens: INTELLEGIMUS VERO QUOD DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO, et postquam iusto et non iusto est et non est apposuit quod ante non dixit sed ad hominem et ad non hominem est adiacere proposuit, postea infert: EST ENIM HOC LOCO HOMINI ADIACET, qui posuerat iusto et non iusto est et non est adiacere. Unde Alexander quoque dicit scripturae esse culpam, non philosophi recte dicentis et emendandam esse scripturam. Sed non eum oportuit confundi, si pro homine et non homine iustum et non iustum intulit. Haec enim exempla potius sunt quam propositionum necessitas. Quod enim dixit est homini et non homini adiacere ita sumpsit, tamquam si homo praedicaretur, ut in eo quod est: Socrates homo est  vel rursus: Socrates non homo est  Ergo volens sumere quodcumque praedicatum, nunc quidem simplex, nunc autem infinitum, intulit iustum et non iustum indifferenter habens, an homo et non homo praedicaretur, an iustus et non iustus, modo in praedicato alias sumeretur nomen, alias infinitum nomen. Non ergo oportuit conturbari Alexandrum aliosque in hac inscriptione, in qua nos philosophus exercere voluerit, sicut Porphyrium et Herminum non turbabat, qui dicunt exempla haec esse finiti praedicati et infiniti, in quibus quodlibet praedicatum [sit] aeque accipi oportere. Velut si, cum dixisset homini et non homini adiacere est et non est, album et non album postea intulisset, sufficeret. Hoc enim illud praedicatum alias finitum, alias infinitum sumere quibuscumque nominibus. Et quod ait homini et non homini adiacere est et postea intulit iusto et non iusto et subiecit hominem, non ita putandum est, tamquam de subiectis id est homine et non homine loqui voluerit et postea per errorem intulerit in praedicato iusto et non iusto sed potius ipsum homini et non homini ita sumpsit, tamquam in aliquo praedicaretur, ut (sicut dictum est): Socrates homo est Socrates non homo est  Hic ergo homo et non homo praedicatur. Rursus si quis dicat: Homo iustus est Homo non iustus est  nihil differt. Eodem enim modo praedicatum in una propositione simplex sumptum est, in altera infinitum, velut si dicam: Nix alba est Nix non alba est  eodem modo. Non ergo culpanda scriptura est quae, cum prius proposuisset homini et non homini adiacere est, iustum et non iustum intulit. Nil enim interest, sive iustum aut non iustum praedicetur sive homo aut non homo, dummodo praedicationem alias infinitam, alias vero sumat finitam, tunc cum est tertium adiacens praedicatur. Exercere igitur intellegentiam nostram acumenque philosophus voluit rerum omnium sollertissimus, non falsa scripture confundere. Quando autem ea quae supra dixit colligens ait: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST HOMINI ADIACET, hoc sentit, quoniam in hac propositione quae dicit "Homo iustus est", quam supra proposuerit, iustus de homine praedicatur, 'est' autem adiacens iusto adiacebit; et in ea quae dicit "Homo iustus non est", quoniam iustus praedicatur de homine, 'non est' autem adiacet, 'non est' igitur homini quoque adiacebit. Hoc est enim quod ait: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST HOMINI ADIACET. Nam si iustus praedicatur de homine, est autem et non est adiacet iusto, homini quoque adiacebit, ut dictum est. Hanc quoque scripturam emendandam esse Alexander opinatur faciendumque esse hoc modo, sicut prius quoque exposuimus: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO ADIACET. Sed ordo quidem totius sententiae diligenter expositus est, sive illa scriptio sit sive illa. Neutra enim mutanda est. Et una quidem plus habet exercitii, altera vero facilitatis sed ad unam intellegentiam utraque perveniunt. Restat igitur ut id quod ait: QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT, QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME diligentius exponamus. Locus enim magna brevitate constrictus est et nimia obscuritate ac subtilitate difficilis. Et hunc quidem in prima editione huius operis transcurrentes exposuimus atque in brevissimam ut in aliis quoque dedimus expositionem. Nunc autem quid in se sensus habeat veri, quid hac brevitate latitet, quantum facultas suppetit, nos ipsi patefaciemus, et quantum valet animum lector intendat. Cui si forte paulo obscuriora videantur, rerum impPomba difficultati; si vero planiora quam putaverit, suo gratiam debebit acumini. Sed prius quid de hoc loco Herminus arbitretur quam possibiliter expediam. Ait Herminus tribus modis propositiones cum infinito nomine posse proferri: aut enim infinitum subiectum habent, ut est Non homo iustus est  aut infinitum praedicatum, ut: Homo non iustus est  aut infinitum praedicatum et infinitum subiectum, ut: Non homo non iustus est  Harum igitur, inquit, quaecumque ad praedicatum terminum habent nomen infinitum, similes sunt his quae aliquam denuntiant privationem. Denuntiant autem privationem hae quae dicunt homo iniustus. Ergo istis huiusmodi quae proponunt: Homo iniustus est  illae, inquit, consentiunt quae sunt ex infinito praedicato, ut ea quae est: Homo non iustus est  Idem enim est, inquit, esse hominem iustum quod hominem non iustum. Illae vero quae habent aut subiectum infinitum, ut est: Non homo iustus est  aut utraque infinita, ut est: Non homo non iustus est  non consentiunt ad privatoriam propositionem, quae est: Homo iniustus est  Nulla similitudo est enim eius propositionis quae dicit: Non homo iustus est  et eius quae dicit: Homo inustus est  Nec vero eius quae proponit: Non homo non iustus est  et eius quae enuntiat: Homo iniustus est  Namque illae quae infinitum nomen habent in praedicatione hae privatoriis consentiunt, illae vero propositiones quae aut subiectum habent infinitum aut utraque infinita privatoriis longe diversae sunt. Sed haec Herminus. Longe a toto intellectu ƿ et ratione sententiae discrepans has interposuit, quae aut ex utrisque infinitis aut ex subiecto fierent infinito. Quid autem esset quod ait SECUNDUM CONSEQUENTIAM vel quae duae haberent se secundum consequentiam ut privationes, quae vero non, exponens nihil planum fecit et sensus nihilo magis ante expositionem Hermini quam post expositionem obscurus est. Nos autem Porphyrium sequentes eique doctissimo viro consentientes haec dicimus: quatuor esse propositiones, quarum duae quidem ex finitis nominibus sunt, duae vero ex infinitis nommibus praedicatis. Sunt autem ex finitis nominibus hoc modo: affirmatio est iustus homo, negatio non est iustus homo. Ex infinitis vero nominibus praedicatis affirmatio est quae dicit: Est non iustus homo  negatio quae proponit: Non est non iustus homo  Sed has ex infinitis nominibus praedicatis propositiones in reliquo sermone infinitas vocabimus, ut affirmatio infinita sit extra expositionem ea quae dicit: Est non iustus homo  negatio infinita ea quae dicit: Non est non iustus homo  ut quod dicturi eramus propositionem ex nomine infinito praedicato hanc infinitam nominemus, illas autem duas quae nullum nomen habent infinitum nec subiectum nec praedicatum simplices vocamus. Sunt ergo simplices propositiones hae: Est homo iustus Non est homo iustus  Privatorias autem propositiones voco quaecumque habent privationem. Privatoriae autem sunt hoc modo: Est iniustus homo  haec enim iustitia subiectum privabit, et rursus: Non est iniustus homo  haec rursus iniustitia subiectum privabit. Ergo cum sint duae propositiones simplices, una affirmativa, altera negativa, et sint duae privatoriae, eae quoque una affirmativa, una negativa, necnon etiam sint aliae infinitae, affirmativa rursus et negativa, dico quoniam, quemadmodum se privatoriae propositiones affirmatio scilicet et negatio ad affirmationes et negationes simplices habuerint, sic se habebunt etiam quae sunt infinitae ad easdem ipsas simplices scilicet secundum consequentiam. Quod autem dico tale est. Disponantur prius duae simplices id est affirmatio quae dicit: Est iustus homo  et rursus negatio quae dicit: Non est iustus homo  Sub his autem disponantur privatoriae: sub affirmatione quidem simplici privatoria negativa, sub negativa simplici affirmativa privatoria, ut sub ea quae dicit: Est homo iustus  ponatur ea quae dicit: Non est homo iniustus  et sub ea quae dicit: Non est homo iustus  ponatur ea quae proponit: Est homo iniustus  Rursus sub privatoriis disponantur infinitae: sub affirmatione affirmatio, sub negatione negatio. Sub affirmatione quidem privatoria quae dicit: Est iniustus homo  disponatur affirmativa infinita: Est non iustus homo  sub negativa vero privatoria quae dicit: Non est iniustus homo  ponatur negativa infinita quae dicit: Non est non iustus homo  Hoc autem subiecta descriptio docet: SIMPLICES Affirmatio: Negatio: Est iustus homo Non est iustus homo PRIVATORIAE Negatio: Affirmatio: Non est iniustus homo Est iniustus homo INFINITAE Negatio: Affirmatio: Non est non iustus homo Est non iustus homo  His ergo dispositis dico quoniam, quemadmodum se habent privatoriae, id est affirmatio et negatio quae dicunt: Est iniustus homo Non est iniustus homo  ad simplices quae proponunt: Est iustus homo Non est iustus homo  secundum consequentiam, sic se habebunt etiam infinitae propositiones affirmatio et negatio hae scilicet quae sunt: Est non iustus homo Non est non iustus homo  ad easdem simplices quae sunt: Est iustus homo Non est iustus homo  Videamus quae sit simplicium et privatoriarum consequentia, ut utrum se sic habeant infinitae ad simplices, quemadmodum se habent privatoriae ad easdem simplices, cognoscamus. Dispositae igitur sunt in primo quidem ordine simplices propositiones, affirmatio simplex quae dicit: Est iustus homo  et negatio simplex quae dicit: Non est iustus homo  Sub his id est sub affirmatione simplici duae negationes, una privatoria quae est: Non est iniustus homo  et altera infinita quae est: Non est non iustus homo  Sub negatione vero simplici quae dicit: Non est iustus homo  duae affirmationes, una privatoria quae dicit: Est iniustus homo  altera infinita quae dicit: Est non iustus homo  Illud quoque in descriptione videndum est, quod angulariter se affirmationes negationesque respiciunt. Nam affirmatio quae est simplex: Est iustus homo  angulariter se contra utrasque respicit affirmationes infinitam scilicet et privatoriam quae sunt: Est non iustus homo Est iniustus homo  Rursus negatio simplex quae est: Non est iustus homo  angulariter ƿ respicit duas negationes infinitam scilicet et privatoriam. Et in veritate simplicem affirmationem privatoria negatio sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum est dicere quoniam non est iniustus homo. Nam qui iustus est non est iniustus. Et possumus istam continuam propositionem coniunctamque proponere: si iustus est homo, non est iniustus homo. Sequitur ergo affirmationem simplicem privatoria negatio, ut si vera fuerit affirmatio simplex vera quoque sit negatio privatoria et affirmationis simplicis veritatem negationis privatoriae veritas consequatur. At vero non e converso est. Neque enim affirmatio simplex negationem sequitur privatoriam. Nam si verum est dicere quoniam non est iniustus homo, non est omnino verum dicere quoniam est homo iustus. Potest enim vere de equo dici quoniam equus non est iniustus homo (neque enim omnino homo est et ideo nec iniustus homo est) sed non potest dici de equo quoniam equus est homo iustus. Ita ergo, quoniam verum non est de equo quoniam est iustus homo equus, veritatem negationis privatoriae non sequitur veritas simplicis affirmationis. Atque ideo nec continua propositio hinc et coniuncta proferri proponique potest. Non est enim vera propositio, si quis dicat: "si non est iniustus homo, est iustus homo". De equo enim (ut dictum est) verum est quia non est iniustus homo, non tamen verum est iustum esse hominem equum. Quare negationem privatoriam simplex affirmatio non sequitur. Monstratum est igitur quoniam ƿ affirmationem simplicem negatio privatoria sequeretur, negationem vero privatoriam simplex affirmatio non sequeretur. Rursus videamus et in opposita parte qualis sit consequentia. In diversa enim parte affirmationem quidem privatoriam sequitur negatio simplex, negationem vero simplicem affirmatio privatoria non sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est iniustus homo, verum est dicere quoniam non est iustus homo. Qui enim iniustus est, iustus non est. Et affirmativae privatoriae eius scilicet quae dicit: Est iniustus homo  veritatem sequitur negativa simplex quae est: Non est iustus homo  Hoc autem non convertitur. Neque enim simplicem negativam sequitur privatoria affirmativa. Nam si verum est dicere quoniam non est iustus homo, non est omnino verum quoniam est iniustus homo. De equo enim verum est dicere quoniam equus non est iustus homo (nam qui omnino homo non est nec iustus homo est) sed non de eodem equo dici potest vere quoniam equus est iniustus homo. Nam qui homo non est nec iniustus esse potest. Quare veritatem negativae simplicis non sequitur veritas privativae affirmationis, veritatem autem affirmationis privatoriae sequitur ex necessitate veritas simplicis negativae. Quocirca monstratum est hoc in utrisque, quoniam affirmationem quidem simplicem sequeretur negatio privatoria, negationem vero privatoriam non sequitur affirmatio simplex; rursus affirmationem privatoriam sequitur negatio simplex, negationem simplicem non sequitur affirmatio privatoria. His ergo ita positis de infinitis privatoriisque tractemus. Privatoriae namque et infinitae affirmationes affirmationibus, negationes consentiant negationibus ƿ hoc modo. Affirmatio enim privatoria quae dicit: Est iniustus homo  consentit infinitae affirmationi quae dicit: Est non iustus homo  Idem enim significant utraeque et privatoria affirmatio et infinita affirmatio et quamquam in aliquo sermone prolatione discrepant, tamen significatione nil discrepant, nisi tantum quod quem illa iniustum ponit id est privatoria, haec ponit esse non iustum. Et rursus negatio privatoria quae est: Non est iniustus homo  consentit atque concordat ei negationi quae est infinita: Non est non iustus homo  Hae quoque idem, quod sibi istae consentiunt. Sequitur autem simplicem affirmationem eam quae dicit: Est iustus homo  privatoria negatio quae dicit: Non est iniustus homo  sequitur igitur eandem ipsam simplicem affirmationem infinita negatio, id est eam quae dicit: Est iustus homo  ea quae proponit: Non est non iustus homo  Nam si sibi privatoria negatio et infinita consentiunt, quam consequitur privatoria negatio, eandem quoque infinita negatio consequitur. Sed affirmationem simplicem quae proponit: Est iustus homo  privatoria negatio sequitur quae dicit: Non est iniustus homo  quare sequitur etiam eandem simplicem affirmationem quae enuntiat: Est iustus homo  infinita negatio: Non est non iustus homo  Rursus e diversa parte idem evenit: quoniam affirmationem privatoriam quae dicit: Est iniustus homo  sequebatur negativa simplex quae proponit: Non est iustus homo  sequitur quoque infinitam affirmationem quae dicit: Est ƿ non iustus homo  simplex negatio quae dicit: Non est iustus homo  Nam si privatoria affirmatio et infinita consentiunt, quae sequitur privatoriam, eadem sequitur infinitam. Sed privatoriam affirmationem quae dicit: Est iniustus homo  sequitur simplex negatio quae proponit: Non est iustus homo  sed privatoria affirmatio et infinita affirmatio idem significant sibique consentiunt: sequitur igitur simplex negatio quae est: Non est iustus homo  infinitam affirmationem quae dicit: Est non iustus homo  Sed hoc e converso non evenit.Nunc enim demonstratum est quod simplicem affirmationem sequeretur infinita negatio et simplex negatio veritatem infinitae affirmationis sequeretur sed non est e converso, ut rursus infinitam negationem sequatur finita affirmatio et simplicem negationem infinita rursus affirmatio consequatur. Nam si idem privatoria negatio quae est non est iniustus homo et infinita negatio significat quae est: Non est non iustus homo  quoniam affirmatio simplex quae dicit: Est iustus homo  non sequitur privatoriam negationem quae est: Non est iniustus homo  ut supra monstravimus, eadem ipsa simplex affirmatio quae proponit est iustus homo non seqmiur infinitam negationem quae enuntiat: Non est non iustus homo  Rursus in parte altera si affirmatio privatoria quae proponit: Est iniustus homo  idem significat cum infinita affirmatione quae dicit: Est ƿ non iustus homo  privatoria autem affirmatio quae proponit: Est iniustus homo  non sequebatur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus homo  nec eandem quoque simplicem negationem quae proponit: Non est iustus homo  sequitur infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  Sed quamquam hoc ratio consequentiae et necessitas monstret, nos tamen id quod demonstravimus ratione exemplis quoque doceamus. Dico enim affirmationem simplicem quae dicit: Est iustus homo  sequi infinitam negationem quae dicit: Non est non iustus homo  sicut eandem quoque simplicem affirmationem sequebatur privatoria negatio quae proponit: Non est iniustus homo  Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum quoque de eo dicere quoniam non est non iustus homo (nam qui iustus est non est non iustus) sicut verum erat dicere, quoniam idem qui iustus est non est iniustus. Quare simplicem affirmationem sequitur infinita negatio, sicut eandem quoque simplicem privatoria negatio sequebatur. Sed hoc non convertitur. Neque enim statim verum est, qui non est non iustus homo eundem esse iustum. Equus enim non est non iustus homo (neque enim omnino homo est: qui autem omnino homo non est, non poterit esse homo non iustus) sed de equo, de quo verum est dicere quoniam non est non iustus homo, non est de eo verum dicere quoniam est iustus homo, sicut de eodem equo verum esset dicere privatoriam negationem ƿ quae proponit: Non est iniustus homo  (haec enim poterat etiam de equo dici) nec erat verum quoniam sequeretur hanc id est privatoriam negationem simplex affirmatio quae diceret: Est iustus homo  Quare non sequitur infinitam negationem quae est: Non est non iustus homo  simplex affirmatio quae proponit: Est iustus homo  sicut ne illam quidem quae consentit infinitae negationi id est privatoriam negationem quae proponit: Non est iniustus homo  ea quae dicit: Est iustus homo  simplex affirmatio sequebatur. Concludenti igitur dicendum est quoniam affirmationem quidem simplicem sequitur infinita negatio, Sicut eam privatoria sequebatur, infinitam vero negationem non sequitur simplex affirmatio, sicut nec negationem privatoriam sequebatur. Rursus in parte altera idem e converso evenit. Affirmationem enim infinitam sequitur negativa simplex, sicut privatoriam quoque affirmationem eadem simplex negatio sequebatur. Nam qui est von iustus homo ille ex necessitate non est iustus, sicut etiam qui est iniustus homo ille ex necessitate non est iustus. At vero si verum est dicere quoniam non est iustus homo, non est omnino necesse ilium esse non iustum hominem. Equus enim non est iustus homo (nam qui omnino homo non est nec iustus homo esse potest) sed nullus de eodem dicere potest quoniam equus est non iustus homo (qui enim homo non est nec non iustus homo esse potest), sicut etiam cum diceremus: Non est iustus homo  non sequebatur privatoria affirmatio quae dicit: Est iniustus homo  Equus namque non est iustus homo sed de eodem equo nemo dicit quoniam est iniustus homo. Iterum igitur concludenti dicendum est affirmationem infinitam sequi simplicem negationem, sicut affirmationem quoque privatotiam sequebatur sed non convertere. Neque enim sequitur simplicem negationem infinita affirmatio, sicut eam nec privatoria affirmatio sequebatur. Sic ergo cum sint quatuor propositiones, duae simplices, duae infinitae, quarum duae simplices sunt: Est iustus homo Non est iustus homo  duae vero infinitae: Est non iustus homo Non est non iustus homo  (et harum quatuor duae quidem id est negatio infinita et negatio simplex sequuntur duas id est negatio infinita simplicem affirmationem, ea quae dicit: Non est non iustus homo  eam quae dicit: Est iustus homo  infinitam autem affirmationem simplex negatio, eam quae dicit: Est non iustus homo  ea quae proponit: Non est iustus homo  duae vero aliae id est affirmatio simplex et affirmatio infinita non sequuntur negationem infinitam et simplicem negationem. Hoc autem etiam in privatoriis evenit, ut affirmatio privatoria non sequatur simplicem negationem, cum illam simplex negatio sequatur, et rursus negatio privatoria sequatur affirmationem simplicem, cum simplex affirmatio non sequatur privatoriam negationem): recte dictum est harum quatuor id est duarum simplicium propositionum et duarum infinitarum duas duabus esse consequentes et habere quandam consequentiam ad alias, sicut infinita negatio et simplex negatio sequuntur simplicem affirmationem et infinitam affirmationem, sicut privationes ƿ quoque. Nam et privatoria negatio sequebatur simplicem affirmationem et simplex negatio sequebatur privatoriam affirmationem. Ergo duae habent consequentiam id est infinita negatio et simplex negatio consequentiam ad simplicem et infinitam affirmationem, sicut privationes quoque (namque et privationes similiter sunt, ut saepe supra monstravi), duae vero minime habent consequentiam. Neque enim negativam infinitam simplex sequitur affirmativa aut infinita affirmativa simplicem negativam sequitur, sicut in privationibus quoque fuit. In privationibus namque nec affirmatio simplex privatoriam negationem sequebatur nec simplicem negationem privatoria affirmatio consecuta est. Sensus ergo huiusmodi est: QUATUOR ISTAE ERUNT, id est quatuor propositiones, ex quibus duplicem fieri oppositionem dixerat. Quatuor autem istae sunt duae simplices: affirmativa est iustus homo, negativa non est iustus homo, et duae infinitae: affirmativa est non iustus homo, negativa non est non iustus homo. Quarum, inquit, duae, scilicet negative infinita et negativa simplex, sic se habebunt ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, id est ita alias duas affirmationes simplicem et infinitam ipsae duae negationes sequnutur, ut eas privationes sequebantur; DUAE VERO MINIME id est simplex affirmatio et infimita affirmatio: non se habebunt secundum consequentiam ipsae duae affirmationes ad duas negationes, infinitam scilicet et simplicem, quas non sequebantur, sicut nec dudum has negationes privatoriae quoque affirmationes secutae sunt. Quod vero ait secundum affirmationem et negationem non ita ƿ intellegendum est, quasi una sit affirmatio aut una negatio sed quoniam in quatuor propositionibus, in quibus duae quidem affirmationes erunt, duae vero negationes (affirmationes: simplex quidem "Est iustus homo", infinita autem "Est non iustus homo", negationes autem: simplex quidem "Non est iustus homo", infinita autem "Non est non iustus homo"), quoniam affirmationes duas, simplicem quidem: Est iustus homo  infinitam: Est non instus homo  duae negationes sequebantur (simplex negatio quae est "Non est iustus homo" infinitam affirmationem quae dicit "Est non iustus homo", et rursus infinita negatio simplicem affirmationem sequebatur), quoniam ergo (ut dictum est) duas affirmationes simplicem et infinitam duae negationes simplex et infinita sequebantur, hoc autem et in privationibus erat, idcirco dictum est ad affirmationem et negationem secundum consequentiam sic se habere harum quatuor propositionum duas, sicut etiam se privationes haberent. Ad affirmationem autem et negationem dixit, quod duas affirmationes duae negationes sequerentur, duae vero minime, id est duas negationes duae affirmationes non sequerentur. Neque enim sequebatur negationem infinitam simplex affirmatio aut simplicem negationem infinita affirmatio, sicut nec in privationibus erat, quod saepe supra monstratum est. Ne quis autem nos arbitretur de eodem genere propositionem dicere negationis affirmationisque. Neque enim dicimus negationem simplicem sequi affirmationem simplicem. Hoc enim impossibile est. Numquam ƿ enim sibi consentiunt simplex affirmatio simplexque negatio, nec rursus infinita negatio et infinita affirmatio. Neque enim fieri potest, ut aut negatio quae dicit: Non est iustus homo  affirmationi quae proponit: Est iustus homo  consentiat aut affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  negationi quae dicit: Non est non iustus homo eam enim quae dicit: Est iustus homo  simplicem affirmationem sequitur privatoria negatio quae dicit: Non est iniustus homo  sed negativam, inquiunt, infinitam quae est: Non est non iustus homo  haec non sequitur affirmativa simplex quae dicit: Est iustus homo  Ergo quemadmodum negativa privatoria quae est: Non est iniustus homo  sequitur affirmativam simplicem quae dicit: Est iustus homo  non eodem modo eadem simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo  sequitur infinitam negationem quae dicit: Non est non iustus homo  Quibus dicendum est non eos hanc consequentiam recte intellegere nec quicquam in hac huiusmodi propositionum consequentia discrepare. Cur enim hoc notaverint, quod non sequatur negationem infinitam quae est non est non iustus homo finita affirmatio quae dicit: Est iustus homo  Nam hoc nil mirabile debet videri. Idcirco enim simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo  non sequitur infinii tam negationem quae dicit: Non est non iustus homo  quoniam nec antea privatoriam sequebatur. Neque enim sequebatur eadem simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo  privatoriam negationem quae dicit: Non est iniustus homo  et ea causa est cur infinitam quoque ƿ non sequitur. Infinita enim et privatoria (ut supra saepe iam dictum est) sibi consentiunt. Quare nulla est discrepantia. Nam si simplex affirmatio privatoriam negationem sequeretur, eandem quoque infinitam sequeretur. Nunc autem quoniam simplex affirmatio privatoriam negativam non sequitur, nec infinitam quoque sequitur negativam. Illi autem qui sumpserunt quoniam sequeretur privatoria negatio simplicem affirmationem et in eadem consequentia discrepare dixerunt, quod simplex affirmatio non sequeretur infinitam negationem, non ita oportuit discrepantiam sumere sed magis si, quemadmodum privatoria negatio affirmationem simplicem, sic infinita negatio non sequeretur simplicem affirmationem, tunc in consequentia discreparet, nunc autem nulla est omnino discrepantia. Atque in hac quidem parte nihil omnino discrepant atque discordant. Videamus nunc in altera parte, quam illi esse discrepantiam dicunt infinitarum consequentiae et privatoriarum ad simplices, ut in ea quoque si quid vere discrepant videamus. Dicunt enim affirmationi quidem privatoriae quae dicit: Est iniustus homo  consentientem esse et concordantem simplicem negativam quae dicit: Non est iustus homo  et sicut negatio simplex sequitur privatoriam affirmationem, aiunt, quoniam non ita sequitur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus homo  infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  Haec enim illam non sequitur. Quibus dicendum est rursus, quoniam idcirco infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  non sequitur ƿ simplicem negationem quae proponit: Non est iustus homo  quoniam privatoria affirmatio quae dicit: Est iniustus homo  non sequitur simplicem negationem quae proponit: Non est iustus homo  Quod si privatoria affirmatio sequeretur simplicem negationem, sequeretur sine dubio infinita quoque affirmatio eandem simplicem negationem. Nunc autem quoniam privatoria affirmatio simplicem negationem non sequitur, nec infinita affirmatio simplicem sequitur negationem. Affirmatio enim privatoria et affirmatio infinita sibimet consentiunt. Illi vero qui discrepantiam ostendere voluerunt infinitarum et privatoriarum consequentiae ad simplicem, quod cum negatio simplex sequeretur affirmationem privatoriam non eodem modo infinita affirmatio sequeretur simplicem negationem, non ita oportuit colligi discrepantiam sed potius si, quemadmodum affirmativa privatoria quae dicit: Est iniustus homo Est non est iustus homo  ita infinita affirmatio quae enuntiat: Est non iustus homo  sequeretur simplicem negationem quae est: Non est iustus homo  tunc oportuerat dicere aliquid discrepare consequentiam privatoriarum et infinitarum ad simplices. Nunc autem cum eodem modo privatoria affirmatio non sequatur, simplicem negationem, eodem quoque modo infinita affirmatio non sequatur simplicem negationem, manifestum est nullam esse in his discrepantiam, immo in omnibus simillimum, et illos nihil per hanc rationem ƿ quam volunt addere recte disserere, immo potius maioribus obscuram sententiam obscuritatibus implicare. Sed potius ita intellegendum est, ut id quod ait: QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIANU UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME ita accipiamus tamquam si ita dixisset: quatuor propositionum, duarum simplicmm, duarum vero infinitarum, duas id est affirmationes simplicem et infinitam sequuntur duae negationes, simplex et infinita scilicet, sicut privationes quoque (in privationibus enim affirmativam simplicem sequebatur negatio privatoria et simplex negatio privatoriam affirmationem), reliquae vero duae, id est simplex affirmatio et infinita affirmatio nullam habent consequentiam ad negationes, id est simplicem et infinitam, sicut nec privationes quoque (nam affirmatio privatoria non sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio privatoriam negationem), ut dicamus hoc modo: QUARE QUATUOR ISTAE ERUNT, duae simplices, duae infinitae, QUARUM id est duarum simplicium et duarum infinitarum DUAE QUIDEM id est negationes simplex et infinita habent se ad affirmationes simplicem et infinitam SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME id est affirmationes simplex et infinita ad duas negationes, id est simplicem et infinitam. Hoc est enim quod ait: AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SIC SE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM id est consequentur negationes eas quae sunt affirmationes, UT PRIVATIONES ƿ sicut in privationibus quoque dicebatur, DUAE VERO id est affirmationes simplex et infinita non habebunt se secundum consequentiam ad duas negationes, id est simplicem et infinitam, sicut privationes quoque se secundum sequentiam non habebant. Nam privatoria affirmatio non sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio privatoriam negationem. Est alia quoque simplicior expositio, quam Alexander post multas alias expositiones in quibus animum vertit edidit hoc modo: cum sint, inquit, quatuor propositiones, quarum duae sunt infinitae, duae vero simplices, duae, inquit, infinitae aequaliter se habent secundum affirmationem et negationem ad privatorias, duae vero simplices ad easdem privatorias se similiter non habent hoc modo: affirmativa enim infinita consentit affirmativae privatoriae. Ea enim quae dicit infinita affirmatio est non iustus homo ei consentit privatoriae affirmationi quae dicit: Est iniustus homo  Ea vero infinita negatio quae dicit non est non iustus homo privatoriae negationi consentit quae dicit non est iniustus homo. Atque hae quidem duae, id est infinita affirmatio et infinita negatio, ita sese habent AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT PRIVATIONES, id est eadem affirmant vel negant, quae etiam privationes affirmant vel negant, duae vero minime, id est duae simplices minime se ita habent ad affirmationem ƿ et negationem, sicut privationes. Nam omnino non contingit simplex affirmatio privatoriam affirmationem. Ea enim quae dicit: Est iustus homo  non consentit ei quae dicit: Est iniustus homo  Nec rursus negatio simplex privatoriae negationi consentit. Ea enim quae dicit: Non est iustus homo  quae simplex negatio est plurimum dissidet ab ea quae dicit: Non est iniustus homo  quae est privatoria negatio. Ergo cum sint quatuor, affirmatio simplex et negatio simplex, affirmatio infinita et negatio infinita, harum duae, id est affirmatio infinita et negatio infinita, ita aliquid affirmant vel negant ut privationes (hoc est enim quod ait: ITA SESE HABENT AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT PRIVATIONES), DUAE VERO MINIME. Neque enim ita affirmant et negant duae simplices, sicut duae privatoriae. Affirmatio namque simplex ab affirmatione privatoria discrepat, et rursus negatio simplex a negatione privatoria longe dissidet atque discordat. Sed haec (ut diximus) Alexandri expositio est post multas alias simplicior, non tamen repudianda sed illa superior verior esse videtur, quod Aristoteles ipse testatur. Ait enim paulo post: HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Hanc enim consequentiam quam insuperiori expositione memoravi privatoriarum et infinitarum ad simplices in primi libri Priorum Resolutoriorum quae *analytika* Graeci vocant fine disposuit. Dicit autem Porphyrius fuisse quosdam sui temporis, qui hunc exponerent librum, et quoniam ab Hermino vel Aspasio vel Alexandro expositiones singulas proferentes multa contraria et expositionibus male ab illis editis dissidentia ƿ reperirent, arbitratos fuisse librum hunc Aristotelis, ut dignum esset, exponi non posse multosque illius temporis viros totam huius libri praeterisse doctrinam, quod inexplicabilem putarent esse caliginem. Nos autem brevissime hunc locum in prima editione praeteriimus sed quod illic pro intellectus simplicitate breviter posuimus, hic omni latitudine totam sententiae vim et prolixitatem digessimus. Quare quoniam superiora digne (ut mihi videtur) expressimus, sequentis textus ordinem sententiamque videamus. SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, UT OMNIS EST HOMO IUSTUS, NON OMNIS EST HOMO IUSTUS; OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, NON OMNIS EST HOMO NON IUSTUS. SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. De indefinitis quaedam propositionibus praelocutus nunc de his quae terminatae sunt secundum universalitatis et particularitatis adiectionem dicit, quod etiam ipsae similiter se habeant, sicut illae quoque quae sine ulla determinatione dicebantur, simplex scilicet oppositio atque infinita. Quod vero ait: SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, alii ita intellexerunt, ut quod ait similiter referant ad numerum oppositionum et propositionum. Nam sicut in his quae indefinitae sunt et ƿ indeterminatae duae sunt oppositiones, una simplicis negationis et simplicis affirmationis, altera infinitae affirmationis et infinitae negationis, quatuor autem propositiones, quod supra iam dictum est, ita quoque in his quae terminationem secundum universalitatem particularitatemque habent quatuor fiunt propositiones et oppositio duplex. Oppositio enim una est universalis affirmationis simplicis et particularis negationis simplicis, ut est: Omnis homo iustus est Non omnis homo iustus est  Et haec quidem una est oppositio. Alia vero infinitae universalis affirmationis et infinitae particularis negationis, ut: Omnis homo non iustus est Non omnis homo non iustus est  Quare hic quoque, cum duae sint oppositiones, erunt sine dubio quatuor propositiones, sicut in his de quibus supra dixerat, quae scilicet determinatione carebant. Alii vero qui Aristotelis animum penitus inspexerunt non aiunt similiter solum se habere determinatas propositiones ad numerum oppositionum et propositionum sed etiam ad consequentiam. Nam quae est consequentia negationum ad affirmationes in his propositionibus simplicibus et infinitis, quae praeter determinationem dicuntur, eadem se similitudo habet in his quae terminatione proferuntur. Sed quoniam non in omnibus omnia similia habent, idcirco addidit notans: SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. Sensus autem totus huiusmodi est: similiter, inquit, se habent hae propositiones quae ƿ secundum determinationem dicuntur infinitae ad simplices et simplices ad infinitas, quemadmodum illae quoque sese habebant quae sine determinatione indefinitae dicebantur. Sed habent quandam dissimilitudinem, quod angulares propositiones in his quae cum determinatione dicuntur non eodem modo verae sunt, quomodo illae quae sine determinatione proferebantur vel infinitae vel simplices. Videamus ergo prius an eadem in his quae determinatae sunt sit consequentia quae in his est quae indefinitae proferuntur, post videamus quae sit in angularibus dissimilitudo. Disponantur ergo non solum eae quae simplices vel infinitae sunt sed etiam quae sunt privatoriae. Et prius quidem disponantur hoc modo: simplex affirmatio et simplex negatio et hae quidem indefinitae, id est praeter universalitatis aut particularitatis adiectionem. Sub his sub affirmatione quidem simplici ponatur negatio privatoria, sub negatione vero simplici affirmatio privatoria: hae quoque rursus indefinitae. Sub his autem ponantur sub affirmatione privatoria et sub simplici negatione affirmatio infinita, sub privatoria autem negatione et sub simplici affirmatione ponatur negative infinita, et hae quoque indefinitae et indeterminatae sine ulla vel universalitate vel particularitate. Sub his autem disponantur hae quas determinatas vel universalitatis quantitate vel particularitatis vocamus. Et primo quidem affirmatio universalis simplex, contra hanc negatio particularis simplex. Sub affirmatione autem universali simplici ponatur negatio particularis privatoria, sub negatione autem particulari simplici universalis affirmatio privatoria. Rursus sub negatione particulari privatoria et sub affirmatione universali simplici ponatur ƿ negatio particularis infinita, sub affirmatione vero universali privatoria et sub negatione simplici particulari ponatur universalis affirmatio infinita. Erit autem huiusmodi descriptio: INDEFINITAE Affirmatio simplex: Negatio simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Negatio privatoria: Affirmatio privatoria: Homo iniustus non est Homo iniustus est Negatio infinita: Affirmatio infinita: Homo non iustus non est Homo non iustus est DEFINITAE Affirmatio universalis simplex: Negatio particularis simplex: Omnis homo iustus est Non omnis homo iustus est Negatio particularis privatoria: Affirmatio universalis privatoria: Non omnis homo iniustus est Omnis homo iniustus est Negatio particularis infinita: Affirmatio universalis infinita: Non omnis homo non iustus est Omnis homo non iustus est  In hoc ordine propositionum quem supra descripsimus quae sint angulares manifestum est. Sunt namque affirmationes quidem affirmationibus, negationes vero negationibus. Et in his quidem quae in definitae sunt eodem modo angulares sunt affirmationes. Simplex quidem affirmatio quae dicit: Est homo iustus  privatoriae affirmationi quae dicit: Est homo iniustus  et infinitae affirmationi quae proponit: Est homo non iustus  angularis est. Negatio vero simplex quae est: Non est homo iustus  negationi privatoriae quae dicit: Non est homo iniustus  et negationi infinitae quae est: Non est homo non iustus  angularis est. Item si quis ad definitas propositiones aspiciat, idem sine aliqua dubitatione reperiet. Affirmatio enim universalis simplex quae est: Omnis est homo iustus  affirmationi universali privatoriae quae enuntiat: Omnis est homo iniustus  et affirmationi universali infinitae quae proponit: Omnis est homo non iustus  angularis est, item negatio particularis simplex quae est: Non omnis est homo iustus  negationi particulari privatoriae quae dicit: Non omnis est homo iniustus  et negationi particulari infinitae quae proponit: Non omnis est homo non iustus  angularis. Sunt igitur affirmationes affirmationibus et negationes negationibus angulares et in ordine indefinitarum propositionum et in ordine definitarum. Quocirca de earum sequentia speculandum est. Dictum est enim prius quod affirmationem indefinitam simplicem sequeretur privatoria et infinita negatio, eas vero simplex affirmatio non sequeretur. Rursus infinitam affirmationem privatoriamque affirmationem sequitur simplex negatio, hae vero negationem simplicem non sequuntur. Rursus si quis ad ordinem definitarum respiciat, idem inveniet. Affirmationem namque universalem simplicem sequitur particularis privatoria negatio et particularis infinita negatio. Nam si vera est universalis affirmatio simplex quae dicit: Omnis est homo iustus,  vera est etiam particularis privatoria negatio quae dicit: Non omnis est homo iniustus  Hoc autem idcirco evenit, quod ea quae dicit: Non omnis homo iniustus est  idem potest quod simplex et similis est ei quae proponit: Quidam homo iustus est  particulari simplici affirmationi. Nam si non omnis homo iniustus est, quidam homo iustus est. Sed particularis affirmatio simplex sequitur universalem affirmationem simplicem. Quando enim vera est universalis affirmatio quae dicit: Omnis est homo iustus  vera est et particularis affirmatio quae proponit: Quidam homo iustus est  Sed est quae dicit: Quidam homo iustus est  consentit particularis negatio privatoria quae proponit: Non omnis est homo iniustus  Quocirca etiam particularis negatio privatoria universali simplici affirmationi consentiet. Sequitur igitur eam quae dicit: Omnis est homo iustus  universalem scilicet simplicem affirmationem ea quae proponit: Non omnis est homo iniustus  particularis negatio privatoria. Sed huic particulari negationi privatoriae quae dicit: Non omnis est homo iniustus  consentit infinita particularis negatio quae dicit: Non omnis est homo non iustus  Nam si verum est quoniam non omnis est homo iniustus, et verum est quoniam non omnis est homo non iustus. Idem est enim esse iniustum quod non iustum. Sed privatoria particularis negatio sequitur simplicem universalem affirmationem: infinita igitur negatio particularis sequitur simplicem universalem affirmationem eique consentit, si prius affirmatio universalis vera sit. Quocirca eam quae dicit: Omnis est homo iustus  universalem simplicem ƿ affirmationem sequuntur sine dubio particularis negatio privatoria: Non omnis est homo iniustus  et particularis negatio infinita: Non omnis est homo non iustus  Quare hic quoque affirmationem negationes sequuntur. Sed hoc non convertitur. Quoniam enim (ut dictum est) negatio particularis privatoria quae dicit: Non omnis est homo iniustus  consentit particulari affirmationi simplici, ei scilicet quae dicit: Quidam homo iustus est  hanc autem particularem affirmationem non sequitur universalis affirmatio (neque enim, si verum est quendam esse hominem iustum, idcirco iam et omnem esse hominem iustum necesse est): quare non sequitur affirmatio universalis simplex: Omnis est homo iustus  affirmationem particularem simplicem: Quidam est homo iustus  (potest enim hac vera id est particulari universalis esse falsa) sed particularis affirmatio simplex particulari negationi privatoriae consentit: quare nec privatoriam particularem negationem simplex affirmatio sequitur universalis. Eam igitur quae dicit: Non omnis est homo iniustus  non sequitur affirmatio universalis simplex quae proponit: Omnis homo iustus est  Sed particularis privatoria negatio consentit particulari negationi infinitae: universalis igitur affirmatio simplex non sequitur particularem negationem infinitam. Ea igitur quae dicit: Omnis est homo iustus  affirmatio universalis simplex non sequitur eam quae dicit: Non omnis est homo non iustus  particularem infinitam negationem. Duae igitur negationes infinita et privatoria particulares sequuntur universalem affirmationem simplicem, sicut in his quoque erat quae sunt ƿ indefinitae. Duae enim negationes infinita et privatoria indefinitae simplicem affirmationem sequebantur indefinitam. Sed non e converso. Affirmatio enim universalis simplex non sequitur negationes particularem infinitam et privatoriam, sicut nec indefinita qunque affirmatio simplex indefinitas sequebatur negationes privatoriam atque infinitam. Quare in hoc uno ordine similiter sese habent definitae his quae sunt indefinitae. Aequaliter enim affirmationibus veris verae sunt negationes, veras negationes affirmationum veritas non sequitur nec his consentit. Rursus in altera parte perspiciamus, quemadmodum affirmationes universales privatoriam scilicet et infinitam particularis negatio simplex sequatur. Namque affirmationem universalem privatoriam: Omnis est homo iniustus  sequitur particularis negatio simplex: Non omnis est homo iustus  Ea enim quae dicit: Omnis est homo iniustus  consentit simplici universali negationi quae dicit: Nullus homo iustus est  Nam si omnis est homo iniustus, nullus est homo iustus. Sed hanc, id est universalem simplicem negationem, sequitur particularis simplex negatio. Nam si vera est quoniam nullus homo iustus est, vera est quoniam non omnis homo iustus est. Sed universalis negatio simplex universali affirmationi privatoriae consentit: sequitur ergo particularis simplex negatio quae est: Non omnis est homo iustus  universalem affirmationem privatoriam quae proponit: Omnis est homo iniustus  Sed haec universali affirmationi infinitae consentit. Idem enim significant: Omnis est homo iniustus  ƿet: Omnis est homo non iustus  Quare sequitur quoque particularis negatio simplex quae est: Non omnis est homo iustus  universalem affirmationem infinitam quae dicit: Omnis est homo non iustus  Hic quoque affirmationes universales privatoriam atque infinitam sequitur simplex negatio particularis sed non convertitur. Etenim quoniam simplicem particularem negationem quae dicit: Non omnis est homo iustus  non sequitur universalis negatio quae proponit: Nullus homo iustus est  (neque enim si vera est non omnem hominem esse iustum, vera est nullum hominem esse iustum), haec autem, id est universalis simplex negatio, consentit unumque significat cum affirmatione universali privatoria: non sequitur igitur universalis privatoria affirmativa quae dicit: Omnis est homo iniustus  simplicem particularem negationem quae proponit: Non omnis est homo iustus  sicut nec eandem particularem negationem universalis negatio sequebatur. Sed privatoria universalis affirmatio consentit cum infinita affirmatione universali: igitur particularem negationem quae dicit: Non omnis est homo iustus  universalis affirmatio infinita non sequitur quae proponit: Omnis est homo non iustus  Quare hic quoque affirmationes duas universales, id est privatoriam atque infinitam, particularis simplex negatio sequitur, sicut affirmationes quoque duas indefinitas privatoriam atque infinitam negativa indefinita sequebatur. Sed duae affirmationes universales privatoria et infinita non sequuntur particularem simplicem negationem, sicut quae quoque indefinitae ƿ affirmationes privatoria et infinita indefinitam simplicem negationem non sequebantur. Similiter se igitur habent definitae indefinitis secundum consequentiam. Angulares autem non eodem modo sese habent. Nam indefinitarum propositionum angulares simul veras esse contingit. Nam si verum est quoniam est homo iustus, quae est indefinita affirmatio simplex, nihil prohibet veram esse etiam quae dicit: Est homo iniustus  et rursus eam quae dicit: Est homo non iustus  quae sunt indefinitae affirmationes privatoria et infinita. Rursus negationes negationibus quae sunt angulares veras esse contingit, ut ea quae est: Non est homo iustus  si vera est, nihil prohibet veram esse etiam quae dicit: Non est homo iniustus  et eam quae proponit: Non est homo non iustus  Angulares ergo sibi in indefinitis in veritate consentire nihil prohibet sed in his tantum terminis, ut in secundo huius operis volumine docuimus, quae neque naturalia sunt inesse neque impossibilia. Si quis enim dicat: Est homo rationabilis  huic angulares verae esse non possunt, hae scilicet quae dicunt: Est homo irrationabilis  et rursus: Est homo non rationabilis  Rationabilitas enim homini per naturam inest. Similiter autem et de impossibilibus dicendum est. Quod si sint talia quae neque impossibilia sint inesse nec naturalia sint inesse (ut in ea propositione quae dicit: Est homo iustus  iustitiam neque naturalem esse necesse ƿ est homini nec impossibile esse), manifestum est quoniam angulares sibimet semper in veritate consentiunt. Atque hoc idem de negativis quoque angularibus recte dicitur. In his igitur terminis qui nec naturales sunt nec impossibiles semper angulares et negationes negationibus et affirmationes affirmationibus simul veras esse contingit. Et hoc quidem in his quae indefinitae sunt. In his autem quae definitae sunt et universalitatis particularitatisque participes non eodem modo sunt. In quibusuis enim terminis sive possibilibus sive naturalibus sive impossibilibus affirmationes affirmationibus sibimet angularibus in veritate consentire non possunt, negationes autem negationibus angulares angularibus in his tantum terminis qui neque naturales neque impossibiles sunt in veritate poterunt convenire. Et primum quemadmodum affirmationes affirmationibus sibimet angularibus in veritate consentire non possunt in quibuslibet terminis demonstrandum est. Ea enim quae dicit: Omnis est homo iustus  et ea quae dicit: Omnis est homo iniustus  quae est scilicet angularis, verae simul esse non possunt. Ea namque quae dicit: Omnis est homo iniustus  nil differt ab ea quae proponit: Nullus homo iustus est  Sed "Omnis est homo iustus" et "Nullus homo iustus est", quoniam contrariae sunt, simul verae esse non possunt. Sed ea quae dicit: Nullus est homo iustus  convenit atque consentit ei quae proponit: Omnis est homo iniustus  quare: Omnis est homo iustus  et: Omnis est homo iniustus  simul verae esse non possunt. Sed eadem quae proponit: Omnis est homo iniustus  consentit (ut saepe dictum est) ei quae dicit: Omnis est ƿ homo non iustus  Quare in his nec haec in veritate consentire potest ei quae dicit quoniam omnis est homo iustus. Affirmatio igitur universalis simplex: Omnis est homo iustus  affirmationibus universalibus privatoriae et infinitae quae sunt: Omnis est homo iniustus  et: Omnis est homo non iustus  sibimet angularibus in veritate simul nulla ratione consentit, sicut ipsis quae indefinitae erant et affirmationes affirmationibus et negationes negationibus in veritate poterant consentire. In his autem quae sunt definitae affirmationes angulares simul verae esse non possunt. Recte igitur dictum est quoniam in aliis omnibus similis est consequentia definitarum et indefinitarum. Affirmationibus enim consentiunt in veritate negationes, negationibus autem affirmationes non omnino consentiont, quae similitudo consequentiae in utrisque est id est et in his quae definitae sunt et in his quae indefinitae. Sed est distantia, quod NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. Et affirmationes affirmationibus et negationes negationibus in indefinitis veras esse contingit eas scilicet quae sunt angulares. In his autem quae sunt definitae affirmationes affirmationibus angulares veras esse aliquando nulla ratione contingit. Hoc autem manifestum erit, si quis et ea sibi proponat exempla in quibus sunt termini naturales atque impossibiles et ea in quibus sunt possibiles et non naturales neque impossibiles. In omnibus enim inveniet affirmationes affirmationibus definitas ƿ definitis angulares simul veras esse non posse. Quod autem addidit CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO huiusmodi est: quamquam enim affirmationes affirmationibus angulares definitae simul verae esse non possint in quibuscumque propositis terminis, potest tamen fieri ut negationes negationibus verae inveniantur et sit haec similitudo ad indefinitas angulares. Nam sicut illic negationes negationibus indefinitae angulares verae esse simul poterant in his quae neque naturalia neque impossibilia essent, ita hic quoque id est in ordine definitarum negationes definitas negationibus definitis angulares angularibus simul veras esse contingit in his quae neque impossibiles sunt nec naturales. Negatio enim simplex particularis quae dicit: Non omnis est homo iustus  potest simul vera esse cum ea quae dicit: Non omnis est homo iniustus  Potest enim fieri ut quidam sint iusti, quidam autem non sint iusti et in eo utraeque verae sunt, et ea quae dicit: Non omnis est homo iustus  quia sunt quidam iniusti, et ea quae dicit: Non omnis est homo iniustus  quia poterunt esse aliqui iusti. Sed haec consentit infinitae negationi particulari quae dicit: Non omnis est homo non iustus  Idem est enim dicere "Non omnis est homo iniustus" quod "Non omnis est homo non iustus". Quocirca et hae sibimet angulares simul verae esse possunt. Nam si quidam sunt iusti, quidam iniusti, verum est dicere quoniam non omnis est homo iustus, quia sunt quidam iniusti, rursus verum est dicere non omnis est homo non iustus, quia sunt quidam iusti. Negationes igitur ƿ negationibus angulares definitae simul verae esse possunt et hoc est simile indefinitis, in quibus sicut affirmationes affirmationibus, ita quoque in veritate angulares negationes negationibus consentiunt. Sensus ergo totus huiusmodi est: SIMILITER AUTEM, inquit, SE HABET, id est similis erit consequentia propositionum, quemadmodum fuit in indefinitis, ETIAM SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, id est etiam si definitae affirmationes negationesque ponantur, ut per subiecta exempla monstravit dicens affirmationi simplici universali OMNIS EST HOMO IUSTUS opponi NON OMNIS EST HOMO IUSTUS particularem scilicet simplicem negationem. Et rursus universalem affirmationem infinitam proponens eam scilicet quae est OMNIS EST HOMO NON IUSTUS huic illam opposuit quae dicit NON OMNIS EST HOMO NON IUSTUS. Hae, inquit, similiter se habent ad consequentiam quemadmodum ind efinitae. Quomo do autem se illae haberent ad c onsequentiam supra monstratum est. SED NON, inquit, SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. In his enim quae erant indefinitae affirmationes affirmationibus angulares simul verae esse poterant. In his autem quae definitae sunt simul verae esse non possunt. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO, ut similiter angulares verae sint in his quae definitae sunt, quemadmodum et in indefinitis. Negationes enim negationibus angulares definitae simul in veritate consentiunt, ut in his quoque inveniebatur quas indefinitas supra descripsimus. Plenus est igitur huiusmodi intellectus. Herminus autem hoc aliter sic exponit: similiter, inquit, ƿ duas facient oppositiones quatuor propositiones, si fuerint duae simplices, duae infinitae, determinatione tamen adiecta. Hoc autem sic monstrat: proponit prius simplicem affirmationem universalem quae dicit: Omnis est iustus homo  contra hanc particularem simplicem negationem: Non omnis est iustus homo  sub affirmatione universali simplici affirmationem universalem infinitam quae dicit: Omnis est non iustus homo  contra hanc sub negatione particulari simplici particularem negationem infinitam quae proponit: "Non omnis est non iustus homo". Omnis est iustus homo Omnis est non iustus homo Non omnis est iustus homo Non omnis est non iustus homo. His ergo ita dispositis duae, inquit, fiunt oppositiones. Contra enim eam quae est omnis est iustus homo opponitur illa quae proponit: Non omnis est iustus homo  Hoc autem idcirco quoniam sibi contradictorie oppositae sunt universalis affirmatio simplex et particularis negatio simplex. Et est haec quidem una propositio. Rursus contra eandem affirmationem simplicem quae dicit: Omnis est iustus homo  opponitur universalis affirmatio infinita quae dicit: Omnis est non iustus homo  et hoc contrario modo. Ea namque quae dicit: Omnis est non iustus homo  idem significat eique consentit quae dicit: Nullus homo iustus est  Sed haec quae proponit nullus homo iustus est contrario modo opposita est ei quae dicit: Omnis est iustus homo  Quocirca etiam ea quae proponit: Omnis est non iustus ƿ homo  contrarie erit opposita ei quae dicit: Omnis est iustus homo  Est igitur haec quoque altera oppositio. Duae ergo sunt oppositiones, quemadmodum etiam in his quae sunt indefinitae: licet alio modo essent oppositae, tamen duae erant oppositiones. Secundum diametrum autem non similiter veras contingit esse, ut ipse ait. Illae enim quoniam indefinitae erant, et secundum diametrum quae erant simul veras esse contingebat et omnes omnibus. Quod si quis ad indefinitarum descriptiones redeat diligenter agnoscit. Hic autem, inquit, hoc est in his quae definitae sunt, non idem est. Hoc sic monstrat: ea enim propositio quae dicit: Omnis est iustus homo  non consentit contradictioni suae quae dicit: Non omnis est iustus homo  Rursus ea quae dicit: Omnis est non iustus homo  non consentit rursus ei quae dicit: Non omnis est non iustus homo  Haec enim contrariae ipsius consentiebat. Quare cum vera est universalis affirmatio simplex quae dicit: Omnis est iustus homo  sine dubio falsa est ea quae dicit: Omnis est non iustus homo  Sed hac falsa contradictio eius vera erit: vera igitur est ea quae negat dicens: Non omnis est non iustus homo  Quocirca hae duae propositiones angulares verae aliquotiens inveniuntur: Omnis est iustus homo Non omnis est non iustus homo  Contingit ergo aliquando veras esse sed non, inquit, omnino. Nam si a particulari negatione infinita coeperis, non idem est id est non eadem veritas venit. Hoc autem tali probatur modo: si enim vera est quoniam non omnis est non iustus ƿ homo, falsa est ea quae dicit: Omnis est non iustus homo  Est enim ei contradictorie opposita. Hac autem falsa quae dicit: Omnis est non iustus homo  non omnino veram necesse est esse eam quae proponit: Omnis est iustus homo  idcirco quoniam hae duae sibi contrariorum loco oppositae sunt. Contrarias autem propositiones simul falsas esse posse supra docuimus. Ergo non necesse est, si falsa est omnis est non iustus homo, veram esse eam quae dicit: Omnis est iustus homo  Quod si non necesse est, hoc potest fieri ut utraeque sint falsse. Quare evenit aliquando, ut vera hac propositione quae dicit: Non omnis est non iustus homo  falsa sit illa quae proponit: Omnis est iustus homo  Quare non similiter secundum diametrum in veritate propositiones sibi consentiunt. Atque hoc quidem Herminus non recte expositione dicens ordinem turbat. Si quis autem vel hoc quod Herminus ait diligenter agnoscit vel id quod supra nos diximus, cognoscit multam esse differentiam expositionis et meliorem superiorem iudicans ei, si quid nobis credit, recte consentiet. HAE IGITUR DUAE OPPOSITAE SUNT, ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID ADDITO, UT EST IUSTUS NON HOMO, NON EST IUSTUS NON HOMO; EST NON IUSTUS NON HOMO, NON EST NON IUSTUS NON HOMO. MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT OPPOSITIONES. HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT UT NOMINE UTENTES NON HOMO. Supra iam dixerat omne subiectum aut ex nomine simplici et finito aut ex nomine rursus infinito consistere et eorum oppositiones ostendit quod essent duae et quatuor propositiones, duae quidem simplex subiectum nomen habentes, duae vero infinitum. Post has quando est tertium adiacens praedicaretur, illic quoque dupliciter oppositiones fieri dixit, cum scilicet finitum nomen esset subiectum, vel infinitum praedicatum, earumque inter se eam consequentiam demonstravit, qualem haberent privatoriae ad easdem ipsas simplices, quibus ex infinito nomine propositiones compararentur. Et quoniam omnis harum varietas propositionum ita fit, cum est tertium praedicatur, ut aut et subiectum et praedicatum finita sint aut subiectum quidem finitum, praedicatum vero infinitum (de quibus supra locutus est, cum earum consequentiam demonstravit) aut infinitum habent subiectum, finitum vero praedicatum aut infinitum et subiectum et praedicatum. Et habent quidem propositiones utrumque finitum, ut est: Homo iustus est Homo iustus non est  finitum vero subiectum, infinitum praedicatum, ut est: Homo non iustus est Homo non iustus non est  Et harum quidem consequentia supra monstrata est. Aliae vero sunt, quae infinitum habent subiectum et quasi nomine utuntur nomine infinito, ut: Non homo iustus est Non homo iustus non est  Utuntur enim hae propositiones subiecto, id est ƿ 'non homo' ut nomine, praedicato vero eo quod est iustus. Hoc est enim quod ait: ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID ADDITO. Si quis enim ponat non homo quidem subiectum et de hoc aut finitum nomen praedicet, ut est 'iustus', aut infinitum, ut est 'non iustus', utroque modo duplicem rursus faciet oppositionem. Quatuor sunt autem propositiones hae: Est non homo iustus Non est non homo iustus Est non homo non iustus Non est non homo non iustusIn his igitur quatuor propositionibus, oppositionibus vero duplicibus non homo quidem subiectus est sed in superiore oppositione finitum quidem praedicatur nomen quod est iustus,. Sed illae, inquit, quae praedicatum quidem infinitum habent, subiectum vero finitum vel quibus et praedicatum finitum est et subiectum, habent aliquam ad se consequentiam, hae vero quas postea memoravimus, id est quae infinitum haberent subiectum, praedicatum autem vel infinitum vel finitum, nullam habent consequentiam ad eas propositiones, quae sive finito praedicato sive infinito, ex finito tamen subiecto consisterent. Hoc est enim quod ait: HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT, id est nullam consequentiam ad superiores quae ex finito subiecto constarent habere eas quae infinitum subiectum in propositionis ordine retinerent. Postquam igitur enumeravit et quae ex utrisque finitis consisterent, id est et subiecto et praedicato, et has ƿ quae ex subiecto quidem finito, praedicato vero infinito essent, has etiam quae ex subiecto infinito essent et ex finito praedicato necnon illas addidit quae ex utrisque infinitis constare viderentur: postquam igitur has enumeravit, ait: MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT OPPOSITIONES. Omnis enim oppositio (quod supra iam dictum est) aut ex utrisque finitis est, ut: Est homo iustus Non est homo iustus  aut ex finito subiecto, infinito praedicato, ut: Est homo non iustus Non est homo non iustus  aut ex infinito quidem subiecto, finito vero praedicato, ut: Est non homo iustus Non est non homo iustus  aut ex infinitis utrisque, ut: Est non homo non iustus Non est non homo non iustus  ut autem quinta oppositio reperiri possit, nulla rerum ratione possibile est. De his ergo haec dicta sint, in quibus est tertium adiacens praedicatur. IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON CONVENIT, UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI EST ADDERETUR, UT EST CURRIT OMNIS HOMO, NON CURRIT OMNIS HOMO; CURRIT OMNIS NON HOMO, NON CURRIT OMNIS NON HOMO. NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. OMNIS ENIM NON UNIVERSALE SIGNIFICAT SED QUONIAM UNIVERSALITER. MANIFESTUM EST AUTEM EX EO QUOD EST CURRIT HOMO, NON CURRIT HOMO; CURRIT NON ƿ HOMO, NON CURRIT NON HOMO. HAEC ENIM AB ILLIS DIFFERUNT EO QUOD NON UNIVERSALITER SUNT. QUARE OMNIS VEL NULLUS NIHIL ALIUD CONSIGNIFICAT NISI QUONIAM UNIVERSALITER DE NOMINE VEL AFFIRMAT VEL NEGAT. ERGO CAETERA EADEM OPORTET APPONI. Sunt quaedam propositiones in quibus est quidem tertium adiacens praedicatur et hoc sono ipso et prolatione cognoscitur, aliae vero sunt in quibus tale verbum praedicatur, quod tertium quidem adiacens non praedicetur, habeat tamen contineatque intra se verbum est. Quae praedicatio si solvatur in participium atque verbum, quod ante solo verbo dictum praedicatum secundum praedicabatur, tertio loco praedicabitur est et fit similis propositio, tamquam si prolatione quoque haberet est verbum. Si quis enim dicat:"Omnis homo currit"in hac propositione unum subiectum est, alterum praedicatur. Homo enim subiectus est, praedicatur autem currit. Neque enim possumus in hac propositione tres esse terminos arbitrari, idcirco quod omnis quidem terminus non est sed subiecti termini determinatio. Significat enim quoniam res universalis, id est homo, universaliter subicitur cursui, cum dicit:"Omnis homo currit" Nulla est enim hominis exceptio, ubi omnem currere determinatio est. Ergo non ponitur loco termini id quod dicimus omnis sed potius ƿ subiecti termini determinatio est. Quo circa in hac propositione quae dicit:"Omnis homo currit"duo sunt termini: homo et currit. Ergo in eadem quamquam verbum est non praedicetur in prolatione, in verbi tamen quod est currit significatione concluditur. Si quis enim hanc propositionem quae dicit:"Omnis homo currit"solvat in participium atque verbum, faciet omnis homo currens est et idem significat participium verbo coniunctum quod significat verbum, quod utraque complectitur. Nam cum dico "Omnis homo currit", omni homini actionem praesto esse pronuntio; quod si idem rursus dicam "Omnis homo currens est", eandem actionem homini rursus adesse proponit. Idem igitur significat verbum currit quod currens est. Et in ea propositione quae dicit:"Omnis homo currit"licet in prolatione est non dicatur, tamen tertium potestate praedicatur, quod hinc cognoscitur, si tota propositio dissolvatur in participium scilicet atque verbum. Quamobrem sicut ex nomine infinito subiecto fit affirmatio, non eodem modo ex infinito verbo affirmatio fieri potest sed mox vis in ea negationis agnoscitur. Quomodo enim facimus affirmationem dicentes: Omnis non homo currit  'non homo' scilicet subiectum infinitum ponentes, non ita possumus dicere fieri affirmationem cum proponimus: Omnis homo non currit  Haec enim iam negatio est. Quare ubicumque fuerit 'non currit' vel 'non laborat' vel 'non ambulat' vel 'non legit', in omnibus negatio fit, in quibuscumque infinitum verbum praedicatur. Dubitabit autem aliquis an sicut ex infinito verbo fieri affirmatio non potest sed semper negatio ƿ ex hoc praedicamento fit, ita quoque si eadem propositio solvatur in participium atque verbum, an ex infinito participio possit affirmatio fieri. Quaeritur enim an sicut in hac propositione quae dicit: Omnis homo currit  qui ita proponit dicens: Omnis homo non currit  facere affirmationem non potest sed sine dubio negationem facit, ita quoque si eadem solvatur in participium et verbum, ut dicat quis: Omnis homo currens est  si fiat infinitum non currens et dicatur: Omnis homo non currens est  an haec affirmatio sit an certe negatio tantundem valens tamquam si aliquis dicat: Omnis homo non est currens  Sed fuerunt qui hoc cum ex multis aliis tum ex aliquo Platonis syllogismo colligerent et quid ex ea re definirent doctissimorum virorum auctoritate cognoscerent. Ex duabus enim negativis syllogismus fieri non potest. In quodam enim dialogo Plato huiusmodi interrogat syllogismum: sensus, inquit, non contingunt substantiae rationem; quod non contingit, nec ipsius veritatis contingit notionem: sensus igitur veritatis notionem non contingit. Videtur enim ex omnibus negativis fecisse syllogismum, quod fieri non potest, atque ideo aiunt infinitum verbum quod est non contingit pro participio infinito posuisse id est non contingens est. Est enim in pluribus aliis inveniendi facultas frequenter verbum infinitum positum pro nomine infinito. ƿ Quare verbum quidem dixere quidam semper facere negationem' si infinitum proponatur, participia autem vel nomina si sint infinita posse facere affirmationem. Et ideo quotienscumque a magnis viris infinitum verbum et duae negationes in syllogismo proponuntur, hac ratione defenditur, quod dicatur verbum infinitum pro participio esse propositum, quod participium nominis loco in propositione praedicatur. Et hoc quidem Alexander Aphrodisius arbitratur caeterique complures. Idcirco enim aiunt non posse fieri ex infinito verbo affirmationem, quoniam sicut verbum est infinitum verbum mox totem perficiet negationem, sic etiam verba quae in sese complectuntur verbum est non facient infinitam affirmationem sed potius negationem. Si quis enim sic dicat: Homo currens non est  nullus hanc dixerit affirmationem. Si quis vero sic: Homo non currit  idcirco nec haec propositio affirmatio est quoniam currit est verbum intra se continet et sicut ad est verbum iuncta particula negativa non facit affirmationem sed potius negationem, ita quoque ad illud verbum iuncta negatio quod intra se continet est verbum plenam perficit negationem. Aristoteles autem non videtur ista discernere sed similiter arbitrari, sive cum participio ponatur est verbum ƿ sive sine participio verbum illud quod verbum est intra se claudit atque complectitur. Dicit enim hoc modo: IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON CONVENIT UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI EST ADDERETUR. Et huius subiecit exemplum, UT EST CURRIT OMNIS HOMO. In hac enim propositione quae dicit: Currit omnis homo  non quidem convenit poni est verbum; eodem modo vel si quis dicat: Omnis homo ambulat  hic quoque est verbum poni non convenit sed haec talia sunt, tamquam si est adderetur. Quod exemplo docuit. Nam sicut "Est currens omnis homo" affirmatio est cursus praesentiam monstrans, ita quoque "Currit omnis homo" affirmatio idem valens idemque significans. Has ex simplicibus subiectis affirmationes in quibus est dici non convenit consequenter enumerat dicens: Currit omnis homo  mediam ponens determinationem, quod est omnis, inter currit quod est praedicatio et subiectum quod est homo: contra hanc opponit simplicem negationem dicens: Non currit omnis homo  Rursus facit affirmationem ex infinito nomine: Currit omnis non homo  huic opponit negationem infiniti nominis subiecti: Non currit omnis non homo  Et has idcirco proposuit, ut monstraret idem in his evenire in quibus est non convenit praedicari, quod in illis quoque in quibus est tertium adiacens praedicabatur. Sed quoniam in negatione infiniti nominis subiecti ƿ ait: Non currit omnis non homo  poterat quis dicere non recte fecisse negationem eius affirmationis quae est: Currit omnis non homo  hanc quae dicit: Non currit omnis non homo  sed potius ita debuisse oppositionem constitui: Currit omnis non homo Non currit non omnis homo  Ex hoc autem demonstrat ita faciendam esse negationem, ut eam ipse disposuit. Dicit enim: NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. Qui est sensus huiusmodi: quotiens facimus, inquit, negationem contra hanc affirmationem quae dicit currit omnis non homo, non est negativa particula non adiungenda ei quod est omnis sed potius subiecto id est nomini quod est homo. Cum enim ita dicimus: Currit omnis non homo  facienda est negatio: Non currit omnis non homo  Non enim dicendum est: Non currit non omnis homo  et non negativa particula non est adicienda ad omnis sed potius ad homo. Huius autem haec causa est quod omnis determinatio in terminorum numero non adscribitur sed potius ad vim suam id est ad determinationem. Non enim aliquid universale significat ipsum omnis sed significat quidem universale homo, omnis autem determinatio est, quoniam quis id quod universale est id est homo universaliter praedicat. Non ergo universale aliquid significat omnis determinatio sed potius quoniam universale ƿ nomen universaliter praedicatur. Atque ideo quotiens in his negatio fit, ad subiectum potius nomen trahi oportet negationem non ad determinationem. Sed ne forte quis dubitet, ut etiam in aliis quoque ita fieri oportere oppositiones dicat. In his enim quae subiectum habent finitum, cum dicimus: Omnis homo currit  si contra hanc contradictorie opposita negatio ponitur, ad determinationem particula negative constituenda est, ut contra eam quae dicit: Omnis homo currit  ea sit quae dicit: Non omnis homo currit  In his autem quae ex infinito nomine subiecto fiunt, sive in affirmatione sive in negatione, a subiecto nomine non est separanda negatio. Hoc autem ita esse facillima ratione cognoscitur, si determinationes paulisper auferantur et in his propositionibus ex infinito nomine subiecto quae sunt indefinitae speculatio fiat. Sit enim affirmatio indefinita: Non homo currit  Contra hanc erit negatio: Non homo non currit  Si igitur hae propositiones factae sunt in universalibus terminis (universalis enim terminus est homo) sed non habent additam determinationem, quoniam universaliter praedicantur, id est omnis, et servata est et in affirmatione et negatione ad subiectum negativa particula (semper enim fiebat necessarie infinitum), etiam tunc quando additur aliquid quod determinet, non ad determinationem addenda est negatio sed potius ad subiectum nomen. Quod cum in affirmatione fuerit infinitum, hoc idem infinitum ut in negatione reuertatur providendum est. Sicut enim finitum terminum et simplicem in his indefinitis ƿ propositionibus ad affirmationem et negationem custodiri oportet, ut dicamus: Currit homo Non currit homo  ita quoque in ea oppositione quae est ex infinito nomine subiecto idem servandum est, ut quod in affirmatione subiectum est idem seruetur etiam in negatione. Quod si hoc in his quae indefinitae sunt evenit, cur non etiam in illis idem fieri oportere videatur quae definitae sunt? Hoc solum enim definitae ab indefinitis differunt, quod cum indefinitae universalia praedicant praeter universalitatis determinationem, determinatae et definitae idem illud prasdicant universale cum adiectione et significatione quoniam universaliter praedicatur. Nihil igitur aliud omnis vel nullus significat, nisi quoniam id quod universale dicitur universaliter praedicatur. Ergo omnia eadem quae in affirmatione et negatione indefinitis ponebantur eadem quoque et in eisdem determinatis servanda sunt. Omnis enim et nullus non sunt termini sed universalis termini determinationes. His igitur ab Aristotele decursis nos quoque a Syriano, cui Philoxeno esse cognomen supra rettulimus, propositionum omnium numerum, de quibus in hac libri disputatione perpendit, nimis ad rem pertinentem atque utilem transferamus. Et prius perspiciendum est in categoricis propositionibus quot indefinitae sunt. Quantae enim fuerint indefinitae, tot ƿ erunt universales, tot particulares, tot singularium atque individuorum propositiones. Et prius quidem affirmationes perspiciamus hoc modo: quatuor modi sunt propositionum: aut enim indefinitae sunt aut universales aut particulares aut singularium atque individuorum. Si ergo perspiciantur quantae sint indefinitae affirmationes, has si per quaternarium numerum multiplicavero, colligitur mihi numerus affirmationum. Quem si duplico, colligitur etiam negationum hoc modo. Praedicatur enim est aut ipsum solum aut certe tertium adiacens cum alio. Et si solum praedicatur, aut ad nom en simplex atque finitum praedicandum est aut ad infinitum. Ex his duae sunt affirmationes: Est homo Est non homo  Quotiens autem est tertium adiacens praedicatur, hae quatuor erunt affirmationes: aut cum subiectum infinitum est solum, ut: Est iustus non homo  aut cum praedicatum infinitum est solum, ut: Est non iustus homo  aut cum utraque finita sunt, ut: Est iustus homo  aut cum utraque infinita sunt, ut: Est non iustus non homo  MAGIS PLURES AUTEM HIS, ut ipse ait, propositiones inveniri non possunt. Cum igitur sex sint affirmationes, duae quibus est praedicatur, quatuor vero adiacente, has si per quaternarium ducam, viginti et quatuor fient. Quas rursus si binario multiplicem, quadraginta octo mihi summa subcrescunt. Tot igitur erunt affirmationes et negationes quaecumque vel praedicato est verbo vel tertio adiacenti et praedicato fiunt. Qua in re quoniam tres ƿ sunt aliae qualitates propositionum, quae sunt necessariae, contingentes et inesse tantum significantes, secundum quas qualitates istae omnes propositiones proferuntur, has quadraginta octo propositiones si in ternarium numerum duxerimus, scilicet propositionum qualitates, centum quadraginta quatuor omnis propositionum praedicativarum, de quibus hoc libro tractat, numerositas crescet. Sed nunc praeter has tris qualitates quae sint quadraginta octo propositiones cum negationibus suis (quas si per qualitates propositionum, necessariam scilicet et contingentem et inesse significantem, multiplicavero, centum quadraginta quatuor fient) subter adscripsimus. EST SOLUM Est homo Non est homo Est non homo Non est non homo Est omnis homo Non est omnis homo Est omnis non homo Non est omnis non homo Est quidam homo Non est quidam homo Est quidam non homo Non est quidam non homo Est Socrates Non est Socrates Est non Socrates Non est non Socrates ITEM EST TERTIUM Est iustus homo Non est iustus homo Est iustus omnis homo Non est iustus omnis homo Est iustus quidam homo Non est iustus quidam homo Est iustus Socrates Non est iustus Socrates Est iustus non homo Non est iustus non homo Est iustus omnis non homo Non est iustus omnis non homo Est iustus quidam non homo Non est iustus quidam non homo Est iustus non Socrates Non est iustus non Socrates Est non iustus omnis homo Non est non iustus omnis homo Est non iustus quidam homo Non est non iustus quidam homo Est non iustus Socrates Non est non iustus Socrates Est non iustus non homo Non est non iustus non homo Est non iustus omnis non homoNon est non iustus omnis non homo Est non iustus quidam non homo Non est non iustus quidam non homo Est non iustus non Socrates Non est non iustus non Socrates  Has igitur propositiones Syriano calculis colligente nos quoque nominatim disposuimus, idcirco quoniam facilior fides habobitur numero, si per exempla prodantur, simul etiam quoniam male doctus de his propositionibus peruersissime contendebat et affirmationes quidem negationum loco ponens, negationes vero affirmationum totum ordinem confundebat. Quare ne quem illius oratio a rectae rationis veritate traduceret, idcirco hanc ad tenacioris memoriae subsidium fecimus dispositionem. QUONIAM VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE ƿ EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM ILLA QUAE SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM, HAE QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM IPSO, HIS VERO OPPOSITAE ERUNT ALIQUANDO, NON OMNE ANIMAL IUSTUM EST EST ALIQUOD ANIMAL IUSTUM. Hoc quoque est diligentissime superius demonstratum, quod contrariae aliquotiens verum falsumque dividerent, si aut in rebus naturalibus aut in impossibilibus proponerentur: aliquotiens vero simul inveniri posse falsas, si res neque naturales neque impossibiles praedicarent. Contrarias autemesse dictum est, quaecumque vel affirmative vel negative universalem facerent enuntiationem. Ergo nunc hoc dicit: quae sunt, inquit, contrariae simul verae esse non possunt. Et hoc non sine quadam rerum determinatione locutus est. Ait enim: QUONIAM VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM scilicet affirmationi ILLA QUAE SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM SCILICET NEGATIO, HAE QUIDEM, inquit, quoniam sunt contrariae, quae simul verae esse non possunt, MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM. Sed quod dixit neque verae simul huiusmodi est: nihil enim prohibet alio et alio tempore et affirmationem universalem et negationem veraciter ƿ posse proponi. Ut si quis dicat: Omnis homo iustus est  hoc si aureo saeculo diceretur, verissime proponeretur. Quod si quis rursus dicat: Nullus homo iustus est  hoc si ferreo saeculo enuntiet, erit vera propositio. Quare contingit et affirmationem universalem et negationem veras esse, quas manifestum est esse contrarias sed non simul: illa enim in aureo saeculo si ita contingit, illa in ferreo. Sed haec tempora diversa sunt et non sunt simul. Quare recte hoc quoque addidit ut diceret MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL. Quod autem addidit NEQUE IN EODEM ad aliam eiusdem rei determinationem valet. Possunt enim rursus eodem tempore et simul universalis affirmatio et universalis negatio verae esse sed si non de eodem praedicentur. Ut si quis dicat: Omne animal rationale est  hoc si de hominibus praedicetur, vera est affirmatio. Quod si quis dicat: Nullum animal rationale est  hoc si de equis enuntiet, vera erit uno eodemque tempore contra universalem affirmationem universalis facta negatio sed non in eodem. Illa enim affirmatio de hominibus facta est, haec vero de equis negatio. Quamobrem recte dictum est numquam esse simul contrarias veras posse neque in eodsm id est nec uno eodemque tempore nec de uno subiecto. Sed quoniam his oppositae erant universali quidem affirmationi particularis negatio, universali vero negationi affirmatio particularis et has diximus idcirco subcontrarias dici, quod diversa quodammodo contrariis patiantur, manifestum est quoniam sicut contrariae verae simul esse non possunt, dividunt tamen aliquotiens inter se veritatem ƿ et falsitatem, ita quoque et subcontrariae dividunt quidem verum inter se falaumque aliquotiens, quando contrariae quoque diviserint, simul autem verae inveniri possunt, quando universales et contrariae simul falsae sunt, ut autem simul falsae sint, nulla rerum ratione contingit. Ergo contrarias quidem simul veras esse atque in eodem numquam quisquam poterit invenire, subcontrarias autem quae universalibus et contrariis oppositae sunt sibi inuicem comparatas veras inveniri possibile est: ut in eo ipso exemplo quod ipse proposuit: Non omne animal iustum est  vera est, rursus: Est aliquod animal iustum  haec quoque vera est. Quare contrariae simul verae esse non possunt, subcontrarias simul veras nihil prohibet inveniri. SEQUUNTUR VERO HAE: HANC QUIDEM QUAE EST NULLUS EST HOMO IUSTUS ILLA QUAE EST OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, ILLAM VERO QUAE EST EST ALIQUI IUSTUS HOMO OPPOSITA QUONIAM NON OMNIS EST HOMO voN IUSTUS. NECESSE EST ENIM ESSE ALIQUEM. De consequentia propositionum simplicium atque infinitarum sufficienter quidem supra disseruit sed nunc haec est huic intentio non quae particularis affirmatio vel negatio quam universalem affirmationem vel negationem sequatur, quod iam supra monstravit, ƿ sed quae universalis negatio universalem sequatur affirmationem vel quae particularis negatio particulari scilicet affirmationi consentiat. Proponitque has quatuor dicens negationem quidem simplicem universalem et affirmationem infinitam universalem sese sequi et sibimet consentire nec minus his oppositas id est particularem affirmationem simplicem et particularem infinitam negationem et in veritate et in falsitate se sequi et a se nullo modo discrepare. Disponantur enim hae quatuor: prior affirmatio infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus  sub hac ei consentiens simplex universalis negatio quae proponit: Nullus est homo iustus  rursus in altera parte contra affirmationem infinitam particularis simplex affirmatio quae dicit: Est aliqui homo iustus  et sub hac particularis infinita negatio quae proponit:"Non omnis est homo non iustus" Omnis est homo non iustus Est quidam homo iustus Nulla est homo iustus Non omnis est homo non iustus.  His ergo ita dispositis si affirmatio universalis infinita vera sit ea quae dicit: Omnis est homo non iustus  vera est etiam ea quae proponit: Nullus est homo iustus  quae est universalis simplex negatio. Hoc autem melius in verioribus cognoscitur exemplis. Dicatur enim: Omnis est homo non quadrupes  vera, rursus: Nullus est homo quadrupes  haec quoque vera est. Quod si una harum falsa sit, falsa quoque erit et altera. Nam si falsa est quoniam omnis est homo non iustus, sicut vere quoque falsa est, illa quoque negatio simplex mendacissime praedicavit quae dicit: Nullus est homo ƿ iustus  quocirca affirmatio universalis infinita et negatio uniusrsalis simplex sibimet consentiunt, ut una vera alteram veram esse necesse sit, alterius falsitate reliquam quoque falsitas consequatur. Idem quoque evenit in parte altera. Nam si vera est quoniam quidam homo iustus est, vera quoque est quoniam non omnis est homo non iustus, est enim aliqui. Nam id quod dicitur non omnis tantundem est, tamquam si qui dicat quidam non est, quod in alio quoque exemplo manifestius apparebit. Si quis dicat: Non omnis homo iustus est  hoc est dicere "Quidam homo iustus non est". Ergo 'non omnis' 'quidam' non significat. Si quis ergo ita proponat: Quidam homo non iustus non est  quem dicit non esse non iustum iustum esse confirmat. Quare ille de quo dicitur quoniam non iustus non est erit iustus. Unde fit ut ea quae dicit: Non omnis est homo non iustus  consentiat ei quae dicit: Quidam homo non iustus non est  Sed haec consentit ei quae dicit: Quidam homo iustus est  haec igitur quoque consentit et ei quae proponit: Non omnis est homo non iustus  Sed quoniam hoc fortasse aliquatenus videtur obscurius, consequentiae ipsarum hoc modo sumendae sunt. Sitque nobis hoc positum affirmationem universalem infinitam et negationem universalem simplicem sibimet consentire, ut unius veritatem et falsitatem alterius veritas aut falsitas consequatur. Si falsa est affirmatio infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus  vera erit huic opposita particularis ƿ infinita negatio quae proponit: Non omnis est homo non iustus  Sed cum falsa est affirmatio universalis infinita, falsa quoque est universalis simplex negatio quae dicit: Nullus est homo iustus  Sed hac falsa particularem affirmationem quae huic contradictorie opposita est veram esse necesse est, quae est: Est quidam homo iustus  Quocirca quando affirmatio universalis infinita falsa est, vera est particularis infinita negatio et quando universalis negatio simplex falsa est, vera est simplex affirmatio particularis. Sed affirmatio universalis infinita et negatio universalis simplex simul falsae sunt et sibimet in falsitate consentiunt: simul igitur erunt verae simplex particularis affirmatio et infinita negatio particularis. Rursus si vera est affirmatio universalis infinita, falsa erit negatio particularis infinita: ei enim contradictorie opposita est. Si rursus vera est universalis simplex negatio, falsa est particularis simplex affirmatio. Sed universalis affirmatio infinita et universalis negatio simplex simul verae sunt: simul igitur erunt falsae particularis affirmatio simplex et particularis infinita negatio. Quare hae quoque, id est particularis affirmatio simplex et particularis infinita negatio, sibimet in veritate et falsitate consentiunt et veritatem suam et mendacium inuicem consequuntur. Quare affirmatio quidem et negatio utraque universalis, haec simplex, illa infinita, sequuntur sese sibique consentiunt. Particulares autem id est universalibus oppositae simplex affirmativa et negative infinita, ipsae quoque sibimet consentiunt. Quare rectus est ordo, ut sicut affirmationi universali infinitae consentit simplex universalis negatio, ita particulari ƿ affirmationi simplici particularis negatio infinita consantiat. MANIFESTUM EST AUTEM, QUONIAM ETIAM IN SINGULARIBUS, SI EST VERUM INTERROGATEM NEGARE, QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM EST, UT PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? NON; QUONIAM SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. IN UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, VERA AUTEM NEGATIO, UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? NON. OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS. HOC ENIM FALSUM EST. SED NON OMNIS IGITUR HOMO SAPIENS VERA EST; HAEC AUTEM EST OPPOSITA, ILLA VERO CONTRARIA. De consequentia propositionum disputans et sibi quemadmodum consentirent ilium tractatum parumper egressus docere proposuit, quae veniant in responsionem de singularibus, si ad praedicationem ipsorum sit particula negationis apposita, quae rursus in his quae de universalibus sunt propositionibus ad praedicationem addita particula negative concurrent. Neque enim oportet similiter facere enuntiationes. Non enim simile est quod ex utraque praedicatione contingit. Hoc autem ita manifestum est: si quis de singulari aliquo interrogatus neget, ille qui interrogaverit potest facere ex infinito nomine praedicato illam scilicet negationem iungens quam respondens ante negaverit, et hoc veraciter praedicabit. De universalibus autem apparebit non eandem ƿ veritatem posse contingere, si ex his affirmatio componatur. Si quis enim interroget alium PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? Si ille responderit NON, vere ille concludit dicens: SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sit autem hoc in alio quoque clariori exemplo manifestum atque interrogemus aliquem hoc modo: Socratesne Romanus est? Ille respondeat: non, nos vere concludere possumus: Socrates igitur non Romanus est, facientes ex negatione quam ille respondebat et ex nomine quod nos in propositione praedicavimus affirmationem ex nomine infinito quae dicit: Socrates non sapiens est vel Socrates non Romanus est. Has enim affirmationes esse ex infinito nomine supra monstratum est. Si igitur eodem modo aliquis in universalibus subiectis interroget dicens: OMNISNE HOMO SAPIENS EST? Nos utique respondebimus: NON. Tum ille eadem similitudine concludit. Dicit enim: OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS EST. Quocirca nullus homo sapiens est. Ea enim quae dicit: Omnis homo non sapiens est  consentire monstrata est ei quae dicit: Nullus homo sapiens est  Videbitur ergo quodammodo ex vera responsione falsa inlata esse conclusio. Cui nos dicimus negationem quidem nos respondisse, non ut ea negatio ad praedicatum iungeretur sed ad determinationem. Neque enim nos voluisse ab omni homine sapientiam tollere, cum interrogante an omnis homo sapiens esset ƿ nos negaremus sed ab omni potius id est determinatione voluisse nos abstrahere sapientiam, illud scilicet significantes, quod alicui esset et alicui non esset sapientia, ut quod diximus non tantum valeret tamquam si diceremus non omnis. Ergo si illa negatio ad nomen, id est ad sapientem iongatur, universalis fit affirmatio quae dicit: Omnis homo non sapiens est  consentiens universali negationi quae proponit: Nullus homo sapiens est  Sed haec contraria est interrogationi. Fuit enim interrogatio: Omnisne homo sapiens est?  Haec habet universalem affirmationem, cui contraria est universalis negatio, cui rursus negationi consentit affirmatio universalis infinita. Quocirca affirmationi quoque universali simplici, quae in interrogatione posita est, id est omnisne homo sapiens est? Contraria est ea quae dicit conclusio quoniam omnis homo non sapiens est. Quod si dicat: Non omnis homo sapiens est  et verum est et ei est opposita. Contra enim eam quae dicit interrogationem: Omnisne homo sapiens est?  Cum responsum fuerit non et iuncta negatio fuerit ad omnis, particularis negatio fit dicens: Non omnis homo sapiens est  quae est opposita universali affirmationi ei quae in interrogatione proposita est [universali]. Hoc est enim quod ait: HAEC AUTEM EST OPPOSITA, ILLA VERO CONTRARIA. Per verba autem sensus iste sic constat: ƿ MANIFESTUM EST AUTEM, inquit, QUONIAM IN SINGULARIBUS, ut est Socrates et quidquid individuum est, SI EST VERUM INTERROGATUM NEGARE, id est si quando quis aliquid interrogatus vere negaverit, cum aliquis interrogatur, an Romanus sit Socrates, ille neget, QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM EST? ut ille qui interrogat ex negatione et nomine praedicato faciat infinitam affirmationem. Et huius exemplum: PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? Responsio NON. Conclusio quoniam SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sed hoc non similiter in universalibus se habet, quod per hoc monstrat quod ait: IN UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, id est non est vera affirmatio infinita facta ex praedicato nomine et respondentis negatione sed potius vera est negatio, non affirmatio. Huius exemplum: nam interrogatio est UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? Responsio NON. Falsa conclusio OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS. Hoc enim falsum est et simile ei quod supra de singulari subiecto praediximus sed potius illa quae dicit: Non omnis igitur homo sapiens est  ut respondentis negatio ad omnis iungatur et fiat negatio particularis. Est enim haec vera haec autem est opposita. Nam cum affirmatio universalis interrogata esset ea quae dicit: Omnis homo sapiens est  ex negativa particula factum est: Non omnis homo sapiens est  in conclusione et sunt oppositae. ƿ Illa est enim affirmatio universalis, haec autem particularis negatio. ILLA VERO CONTRARIA. Nam si non negatio ad praedicatum iungatur, fit universalis affirmatio infinita, quae consentit universali negationi finitae. Sed haec contra affirmationem universalem finitam quae in interrogatione est posita contraria est. Contraria igitur erit etiam illa quae universalis est affirmatio infinita. Quae autem causa est cur in singularibus vel affirmatio ex infinito nomine vel negatio finita sibimet consentiant, in universalibus autem universalis affirmatio ex infinito nomine non consentiat particulari negationi finitae, quaerendum est. Etenim si quis dicat Socrates non sapiens est et Socrates sapiens non est, idem est et hae duae sibimet consentiunt? Si quis autem dicat: Omnis homo non sapiens est  et rursus: Non omnis homo sapiens est  hae duae sibi non consentiunt. Sed haec ratio est, quod in singularibus subiectis non sunt duplices oppositiones sed una tantum, id est quae negationem facit, in universalibus autem universaliter praedicatis duplex oppositio est, una contraria, una vero contradictoria. Si ergo sit huiusmodi affirmatio quae dicat: Socrates sapiens est  contra hanc una est oppositio quae proponit: Socrates sapiens non est  Si ergo dicat aliquis: Socrates non sapiens est  haec nullum alium habebit intellectum quam ea quae dicit: Socrates sapiens non est  Unam enim tautum solam diximus in singularibus oppositionem. Quare quaecumque aliae fuerint, eadem significatione ƿ concurrent. In universalibus vero universaliter praedicatis non eodem modo est. Nam si sit affirmatio universalis quae dicit: Omnis homo sapiens est  contra hanc etiam illa est quae dicit: Nullus homo sapiens est  etiam illa quae dicit: Non omnis homo sapiens est  Et illa est contraria, haec contradictoria. Duplex ergo haec oppositio sibi non potest consentire. Illa enim totum tollit quae est universalis negatio, illa partem finita quae est particularis negatio. Sed univerealis negatio universali affirmationi ex infinito nomine consentit: diversa igitur erit haec quoque a particulari finita negatione. Quoniam ergo duplex est oppositio in universalibus, simplex in singularibus, recte in eadem similitudine praedicationis non eadem veritas falsitasque contingit. ILLAE VERO SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA, UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL VERBO ESSE VIDEBUNTUR SED NON SUNT; SEMPER ENIM VEL VERAM ESSE VEL FALSAM NECESSE EST NEGATIONEM, QUI VERO DIXIT NON HOMO, NIHIL MAGIS DE HOMINE SED ETIAM MINUS verUS FUIT VEL FALSUS, SI NON ALIQUID ADDATUR. SIGNIFICAT AUTEM EST OMNIS NON HOMO IUSTUS NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST ƿ OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Novimus propositiones ex infinitis fieri posse nominibus: has ergo dissoluens Aristoteles sumit proxime dictionem nominis infiniti et de ea disputat si contra finitum nomen comparetur haec quaedam enuntiativa oppositio videatur. Si quis enim sumat id quod dicimus non homo et opponat contra id quod dicimus homo, videbitur fortasse aliquatenus facere oppositionem. Quoniam enim omnis negativa particula adiecta verbo, quod continet propositionem, negationem facit, si modus aliquis propositionis non praedicetur, quod posterius demonstrandum est, [et] videtur cum adiecta fuerit negativa particula quandam facere negationem, ut si non particula inugatur ei quod est homo faciet non homo. Hoc est enim quod ait: ILLAE VERO QUAE SUNT SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA, UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL VERBO ESSE VIDENTUR. Si quis enim dicat non currit, haec fit sine nomine negatio; quod si quis dicat non homo, haec quoque est sine verbo negatio. Quae dictiones secundum infirutum nomen et verbum opponuntur fimto verbo vel nomini quod est currit et homo: videbuntur ergo hae negationes secundum infinitum nomen vel ƿ verbum quae praedicantur SED NON SUNT. Maxima enim probatio has negationes non esse conuincit, quod omnis negatio vel vera vel falsa est, quod autem dicimus non homo vel non currit, licet simplicia quoque et finita homo scilicet atque currit nihil verum falsumue significent, tamen haec infinita multo minus aliquid verum aut falsum demonstrant. Non quod simplicia verum aliquid falsumue significent, idcirco dicimus infinitas dictiones simplicibus minus verum falsumue monstrare sed quod quamquam nihil verum vel falsum designet simplex nomen aut verbum, tamen definitum quiddam proponit, ut in eo quod est homo finitum quiddam est et una species. Is vero qui dicit non homo, praesentem quidem speciem interimit, infinitas tamen alias dat intellegere ipse nihil ponens. Quocirca quamquam finita verba vel nomiha per se vera vel falsa esse non possint nisi cum aliis iuncta sint, tamen longe minus veritatis aut falsitatis capacia sunt nomina infinita vel verba, quae nec hoc ipsum quidem quod significant ponunt sed illud quidem perimunt, nihil autem per se aliud in significatione constituunt: postremo propinquius ad veritatis vel falsitatis finita intellectus. Minus igitur vera vel falsa est dictio nominis infiniti quam alicuius simplicis et finiti vocabuli. SIGNIFICAT AUTEM EST OMNIS NON HOMO IUSTUS ƿ NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Postquam de propositionibus infinitum habentibus praedicatum sufficienti disputatione locutus est earumque oppositiones ostendit consequentiasque demonstravit, in medio de infinitis nominibus quod non essent negationes breviter pernotavit, nunc redit ad eas propositiones quae subiectum habent infinitum, praedicatum vero vel finitum vel infinitum. Et primum quidem an eaedem sint idemque significent habeantque ordine aliquam consequentiam hae propositiones quae ex infinito subiecto sunt cum his quae ex infinito praedicato sunt vel ex utrisque finitis docet. Ait enim has duas propositiones quae sunt EST OMNIS NON HOMO IUSTUS, NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS nulli illarum idem significare quae aut ex utrisque finitis esset aut ex praedicato infinito. Et disponantur quidem illae quae aut ex utrisque finitis sunt aut ex praedicato infinito. Et primum quidem ponatur simplex affirmatio universalis, sub hac negatio universalis ex praedicato infinito superiori simplici affirmationi consentiens. Contra vero ponatur universalis simplex negatio et sub hac universalis ex infinito praedicato affirmatio, quas constat sibimet consentire praesidente affirmatione universali quae est ex infinito scilicet praedicato. Est omnis homo iustus Nullus est homo iustus Nullus est homo non iustus Est omnis homo non iustus. Cum ergo ita sint affirmationes positae et negationes quae simplex quidem subiectum habeant, infinitum vero vel simplex praedicatum, nunc Aristoteles dicit quoniam hae propositiones quae subiectum habent infinitum nulli illarum superiorum quas disposuimus idem significant. Haec enim quae dicit: Est omnis non homo iustus  non consentit ei quae dicit: Est omnis homo iustus  nec rursus ei quae dicit: Est omnis homo non iustus  nec his rursus quae sunt: Nullus est homo iustus  vel: Nullus est homo non iustus  Hae enim omnes hominem subiectum habent, illa vero non hominem. Quocirca nec huius negatio, id est universalis affirmationis ex infinito subiecto particularis scilicet negatio, cum ulla earum quae finitum subiectum habent poterit consentire. Ea enim quae dicit: Non est omnis non homo iustus  neque cum ea quae proponit: Est omnis homo iustus  neque cum ea quae dicit: Est omnis homo non iustus  neque cum his quae enuntiant: Nullus est homo iustus  vel: Nullus est homo non iustus  Sed non hoc dicit, quoniam ex infinito subiecto propositiones diversae sunt his quae sunt vel ex finito praedicato vel ex infinito, subiecto tamen finito. Possunt enim diversae quidem esse praedicationes, idem tamen aliquotiens significare, ut ea quae dicit: Omnis est homo iniustus  cum sit diversa ab ea quae dicit: Nullus est homo iustus  idem tamen aliquando significant, si affirmatio privatoria praecesserit. Dictum est enim quod affirmationibus praecedentibus negationes sine dubio ƿ sequerentur ergo non hoc dicit, quoniam diversae sunt ex infinito nomine subiecto, praedicato vel finito vel infinito, subiecto tamen finito sed quod omnino sibi non consentiant nec idem significent id est tota sint propositionis virtute dissimiles. Atque haec quidem dixit de his quae finitum subiectum haberent, infinitum vero praedicatum. Venit autem nunc ad ipsarum consequentias quae ex infinito nomine subiecto constant et sicut supra consequentiam earum quae ex utrisque finitis erant vel ex infinito praedicato docuit, ita quoque nunc e converso quae ex utrisque infinitis nominibus constant vel infinito nomine subiecto qualem ad se habeant consequentiam monstrat dicens: illa vero quae est: Omnis non iustus non homo  illi quae est: Nullus iustus non homo  idem significat. Has duas tantum propositiones monstrat, affirmativam scilicet universalem ex utrisque infinitis quae dicit: Omnis non iustus non homo  ei consentire quae est universalis negatio ex solo infinito subiecto quae dicit: Nullus iustus non homo  In his autem subauditur particula est, ut sit tota propositio: Omnis non iustus non homo est  et rursus: Nullus iustus non homo est  Nam sicut in his, quae finitum habebant subiectum, infinitum vero vel finitum praedicatum, affirmationem ex finito subiecto et infinito ƿ praedicato eam scilicet quae dicit: Est omnis homo non iustus  sequebatur simplex universalis negatio quae ex utrisque finitis constat id est: Nullus homo iustus est  ita quoque in his permutatis tantum subiectis idem evenit. Nam sicut illic negatio ex utrisque finitis universalis sequebatur affirmationem ex finito subiecto et infinito praedicato universalem, ita hic quoque affirmationem ex utrisque infinitis universalem sequitur negatio ex infinito subiecto ipsa quoque universalis. Et has quidem duas propositiones adscripsit solam in his consequentiam, caeteras autem, quod putabat intellectu esse faciles, persequi neglexit. Nos autem eas ne quid relictum videatur apponimus. Est enim sequentia hoc modo: Omnis non homo non iustus est Quidam non homo iustus est Nullus non homo iustus est Non omnis non homo non iustus est Omnis non homo iustus est Quidam non homo non iustus est Nullus non homo non iustus est Non omnis non homo iustus est  ƿ Has igitur si quis diligenter inspexerit duas comparationes duabus convenientissimam consequentiam consensumque monstrabunt.  Maximam operis emensi partem ea quae sequuntur licet magnis quaestionibus impedita, tamen audacius atque animosius exsequimur nec defatigari in singulis partibus oportet totius dialecticae prodere adgressos atque expedire doctrinam. Itaque rectam commentationis seriem conteximus. TRANSPOSITA VERO NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT, UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. NAM SI HOC NON EST, EIUSDEM MULTAE ERUNT NEGATIONES. SED OSTENSUM EST, QUONIAM UNA UNIUS EST. EIUS ENIM QUAE EST EST ALBUS HOMO NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO; EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. SED ALTERA QUIDEM EST NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA ƿ VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS HOMO. QUARE ERUNT DUAE UNIUS. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST. Docet nunc quoniam si verba vel nomina transferantur et aliud prius, aliud vero posterius praedicetur, unam sine dubio significantiam retinere. Sive enim quis dicat: Est homo albus  sive: Est albus homo  sive: Homo albus est  sive: Albus homo est  sive quomodolibet aliter ordinem praedicationis permPomba, eadem sine dubio significatio permanebit. Et hoc quidem fortasse oratoribus vel poetis non eodem modo perspiciendum est quo dialecticis. Etenim qui ad compositionem orationis spectant, maximum differt quo verba et nomina praedicationis suse ordine proferantur. Multum enim interest in eo quod ait Cicero: Ad hanc te amentiam natura peptrit, voluntas exercuit, fortuna servavit  ita dixisse ut dictum est an ita: ad hanc te amentiam peperit natura, exercuit voluntas, servavit fortuna. Sic enim minor est sententiae magnitudo minusque in ea lucet id quod si componatur eminet et sese vel nolentibus hominum auribus animisque patefacit. Rursus cum dicit Vergilius: Pacique imponere morem, potuisset servare metrum  si ita dixisset: moremque imponere paci sed esset debilior sonus nec eo ictu versus tam praeclare nunc compositus diceretur. Ergo non idem valet oratoribus vel poetis verborum nominumque ordo mutatus. ƿ Qui enim ad compositionem spectant, multum in ordine sermonum ornamenti reperient. Dialecticis vero, quibus nulla ad orationis leporem cura dicendi congruit quibusque sola veritas perscrutatur, nihil differt quolibet ordine verba et nomina si permutentur, cum tamen eandem vim quam prius in significatione retineant. Sed nec apud ipsos modis omnibus permutato ordine dictionis eadem semper vis significatioque servatur. Haec enim particula quae negativa est, id est 'non', multum valet multamque differentiam perficit variis adiecta locis. Si quis enim dicat: Homo albus non est  faciet indefinitam simplicem negationem. Si quis vero dicat: Homo non albus est  faciet indefinitam ex infinito praedicato affirmationem. Si quis autem praedicet: Non homo albus est  idem quoque constituit ex infinito subiecto indefinitam affirmationem. Rursus si quis dicat hoc modo: Omnis homo non iustus est  haec consentit ei quae dicit: Nullus homo iustus est  Quod si idem non ad universalitatis determinationem ponatur, ut dicatur: Non omnis homo iustus est  non iam universalis affirmatio infinitae praedicationis consentiens universali simplici negationi fit sed potius particularis negatio simplex. Videsne igitur quam multas faciat differentias negativa particula diversae nominum praedicationi coniuncta? Sed quamquam haec ita sint, potest tamen eadem alio modo diversis in locis posita eandem vim significationemque servare. Si enim posita non particula cum universalitate sua cum eadem ipsa saepius permPombaur, idem sine dubio in significatione consistit. Si quis enim dicat: Non omnis homo albus est  particularis est negatio simplex. Si quis vero sic dicat: Homo non omnis albus est  eadem significatio est, vel si hoc modo: Homo albus non omnis est  nec haec a superiori significatione discedit, vel si quis amplius quoque permPomba dicens: Homo albus est non omnis  a priori significatione nil discrepat. Eodem modo vel si quomodolibet aliter permPombaur cum propria tamen universalitatis determinatione, diverso permutata modo idem semper necesse est in significatione seruetur. Eodem modo si eadem non particula cum alio nomine vel verbo iuncta saepius transferatur, ut cum dicimus homo iustus non est, rursus homo non est iustus, rursus non est homo iustus, eadem significatio retinetur. Quocirca si sola negativa parcula permutata sit et non eodem semper ordine praedicetur, multas differentias faciet propositionum. Sin vero iuncta cum alio nomine saepius (ut dictum est) transferatur, eadem in translationibus omnibus significatio permanebit. His igitur ita dispositis videndum est quae sit Aristotelis demonstratio verba et nomina transposita eandem semper vim significationemque subicere. Ait enim: TRANSPOSITA VERO VERBA VEL NOMINA IDEM SIGNIFICANT, UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. Haec enim transpositis nominibus atque verbis eandem retinet significationem. In illa enim prius albus est, posterior homo, in hac autem prior homo, posterior albus. Quod si hoc falsum est et non sunt eaedem ƿ sed a se diversae sunt, impossibile aliquid inconveniensque contingit. Erunt enim duae negationes unius affirmationis, quod est impossibile. Ostensum enim est quoniam una negatio unius affirmationis est. Nunc igitur videamus si hae affirmationes quae dicunt: Est albus homo  et: Est homo albus  non sunt eaedem sed diversae, quemadmodum unius affirmationis duae sint negationes. Et primo quidem disponantur hoc modo: Est albus homo Est homo albus  huius ergo propositionis quae dicit: Est albus homo  erit negatio ea scilicet quae proponit: Non est albus homo  Alia namque quae esse possit rationabiliter non potest inveniri. Disponantur igitur rursus eaedem et superior cum propria negatione: Est albus homo Non est albus homo Est homo albus  Cum igitur eius quae dicit: Est albus homo  negatio sit ea quae proponit: Non est albus homo  si ea quae dicit: Est homo albus  diversa erit ab ea propositiones quae enuntiat: Est albus homo  alia eius erit negatio. Sit ergo aut ea quae dicit: Non est non homo albus  aut ea quae dicit: Non est homo albus  Rursus igitur disponantur duae quidem affirmationes primae alternatim positae et e contrario confessa prioris negatio. Contra secundam vero utraeque hae negationes quas dicimus adscribantur. Est albus homo Non est albus homo Est homo albus Non est non homo albus Non est homo albus  ƿ His ergo ita descriptis eius propositionis quae dicit: Est homo albus  non potest illa esse negatio quae dicit: Non est non homo albus  Illius est enim negatio quae habet subiectum infinitum quae dicit: Est non homo albus  similiter autem et si quamlibet aliam quis posuerit negationem, eius sine dubio alia affirmatio reperietur. Unde fit ut relinquatur ea eius esse negatio quae proponit: Non est homo albus  Est ergo negatio eius quae dicit: Est homo albus  ea quae dicit: Non est homo albus  Sed eius affirmationis quae proponit: Est albus homo  negatio est et ista quae dicit: Non est homo albus  Quod probat ea res quod inter se verum falsumque dividunt. Nam si verum est esse album hominem, falsum est non esse hominem album. Quod si in aliquibus verum invenitur, hoc secundum definitionem propositionis agnoscitur, non secundum negationis formam, ut magis secundum quantitatem non sint sibi oppositae potius quam secundum qualitatem. Quod illa res nuonstrat si quis sic dicat: Est albus omnis homo  Si contra hanc ponatur non est omnis homo albus, perspicuum est quoniam inter se et veritatem dividunt et falsitatem. Unam enim veram esse necesse est, unam falsam. Quare etiam si determinationes auferantur, eadem oppositio redit, licet sit indefinita. Nam sicut in ea quae dicit: Omnis homo iustus est Non omnis homo iustus est  sublatis omnis et: Non omnis homo iustus est  et: Homo iustus non est  affirmatio et negatio sunt oppositae, ita quoque et in ƿ his sublato omnis et non omnis ea quae dicit: Est albus homo  ei quae dicit: Non est homo albus  opposita est. Additis enim determinationibus una semper vera est, altera falsa. Sed diximus quoniam eius affirmationis quae dicit: Est albus homo  negatio esset: Non est albus homo  Duae igitur negationes: Non est albus homo  et: Non est homo albus  unius affirmationis sunt quae enuntiat: Est albus homo  Quod evenit si negationes hae quae dicunt: Non est homo albus  et: Non est albus homo  a se diversae sunt. Quod ex eo contingit quod prius propositum est eam quae dicit: Est albus homo  diversam esse ab ea quae dicit: Est homo albus  Quod si hoc impossibile est ut una affirmatio duas habeat negationes et perspicuum est contra eam affirmationem quae dicit: Est albus homo  utrasque has negationes quae dicunt: Non est albus homo  et: Non est homo albus  opponi, hae a se diversae non sunt sibique consentiunt et tantum permutatione nominis distant, caeteris autem omnibus eaedem sunt. Quod si hae negationes eaedem sunt, eaedem quoque sunt affirmationes. Recte igitur dictum est quoniam transposita verba et nomina eandem vim significationemque servarent. Sensus ergo totus sese ita habet. Hoc modo autem ordo verborum: TRANSPOSITA VERO, inquit, NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT. Et horum exemplum: UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. In his enim nomina transposita sunt. NAM SI HOC NON EST, id est si non idem significant verba nominaque transposita, quiddam impossibile et inconveniens. Ait enim EIUSDEM ƿ MULTAE ERUNT NEGATIONES, id est eiusdem affirmationis multae erunt negationes. Sed hoc impossibile est. Ostensum est enim quoniam una negatio unius affirmatio his est. Duas ergo negationes uni opponi affirmationi, si verba et nomina transposita non idem significant, sic demonstrat: EIUS ENIM QUAE EST EST ALBUS HOMO scilicet affirmationis NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO (contra illam enim affirmationem haec negatio iuste ponitur), EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS, id est alterius affirmationis, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, id est si diversa est a priore propositione quae dicit: Est albus homo  et non est ei eadem, ac si diceret: si ei non consentit, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS vel quaecumque alia, quam si quis ponat, non esse negationem una ratione refellitur, qua haec quam posuit. Refellitur autem haec hoc modo: ait enim: SED ALTERA QUIDEM EST NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS HOMO. Inter duas enim negationes quas posuit, illam scilicet quae dicit: Non est non homo albus  et eam quae proponit: Non est homo albus  illa quae dicit: Non est non homo albus  negatio est affirmationis infinitum habentis subiectum quae dicit: Est non homo albus  alia vero scilicet quae proponit: Non est homo albus  eius est ƿ negatio quae est: Est albus homo  Cum ea enim verum dividit atque falsum. Quare erunt duae negationes unius affirmationis. Sed hoc impossibile est. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST: superiorem argumentationem hac huius sententiae conclusione confirmans. Fecit autem hunc syllogismum in secundo modo hypothetico quem indemonstrabilem vocat hoc modo: si primum est, secundum est; sed secundum non est, primum igitur non est, id est si transpositis verbis et nominibus non sunt eaedem propositiones, unius affirmationis duae sunt negationes; sed hoc impossibile est: non igitur diversae sunt propositiones transpositis verbis atque nominibus. AT VERO UNUM DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL NEGARE, SI NON EST UNUM EX PLURIBUS, NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. DICO AUTEM UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT POSITUM, NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS, UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT; EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM. QUARE NEC SI UNUM ALIQUID DE HIS AFFIRMET ALIQUIS ERIT UNA AFFIRMATIO SED VOX QUIDEM UNA, AFFIRMATIONES VERO MULTAE, NEC SI DE UNO ISTA SED SIMILITER PLURES. Multos talis loci huius caligo confudit, ut digne exsequi et quod ab Aristotele dicebatur expedire non ƿ possent. Nos autem supra iam diximus magnae fuisse curae apud Peripateticae sectae principes diiudicare, quae esset una affirmatio vel negatio, quae plures. Neque enim vocis sonitu cognoscuntur aut numero terminorum. Est enim ut una quidem res de una re praedicetur et non sit una enuntiatio. Potest item fieri ut vel plures de una re praedicentur vel una de pluribus, una tamen ex his omnibus enuntiatio fiat. Quae res magnae apud eos cautelae fuit, ut ubi incidisset perspecta regula non lateret. Nam si quis dicat: Canis animal est  non est una enuntiatio. Canis enim multa significat. Si quis vero dicat: Homo animal rationale mortale est  vel animal rationale mortale homo, singulae enuntiationes sunt, idcirco quoniam unum ex omnibus quiddam fieri potest. Nam de animali, mortali et rationali simul iunctis unus homo perficitur. Item alia sunt quae plurima praedicantur, de quibus unum aliquid effici constituique non possit. Neque si illa de altero praedicentur neque si de illis aliud, una affirmatio vel una negatio est sed tot dicendae sunt esse affirmationes quot sunt hae res quae vel de una praedicantur vel de quibus una dicitur, ut cum dicimus: Socrates calvus philosophus ambulat  Ex calvitia et philosophia et ambulatione nihil unum coniungitur, ut haec quasi alicuius speciem forment. Quocirca sive haec de uno praedicentur sive unus de istis, non poterit esse una enuntiatio. Et communiter quidem totius propositi sensus huiusmodi est. Nunc autem ad ipsa Aristotelis verba veniamus. Dicit enim: AT VERO UNUM DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL NEGARE, SI NON EST UNUM ES PLURIBUS, NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. Si, inquit, plura de uno praedices, ut cum dicis: Philosophus simus calvus Socrates est  vel rursus cum unum de pluribus praedicas, cum dicis: Socrates philosophus simus calvus est  si ex his pluribus quae vel praedicas vel subicis unum aliquid non fit, quemadmodum fieri unum potest de his quae praedicamus substantia animata sensibilis id quod est animal, non fit una negatio nec una affirmatio, quandoquidem plura vel praedicantur vel subiciuntur, ex quibus congregatis una species non exsistat. Quod si unum de uno aliquis praedicaverit, quorum unum nomen plura significet, ex quibus pluribus unum aliquid non fiat, rursus non est una affirmatio nec una negatio. Si quis enim dicat: Canis animal est  nomen canis significat et latrabilem et caelestem et marinum, ex quibus iunctis nihil unum efficitur. Quare quoniam ex his pluribus unum aliquid effici non potest, ex illo quoque nomine non fit una affirmatio et una negatio, quod praedicatur aut subicitur, cum multa significet ex quibus unum fieri non possit. Quod per hoc ostendit quod ait: DICO AUTEM UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT POSITUM NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS. Potest enim fieri ut unum nomen de uno praedicetur sed si unum ipsorum plura significet, ex quibus unum non sit, non est una affirmatio nec una negatio. Neque enim vox una perficit enuntiationem sed eius quod significatur simplicitas, vel si plura sins, in unum collectorum ƿ aliquid unum faciendi potentia. Huius autem rei subiecit exemplum quo plurimos fefellit dicens: UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM. Putaverunt enim alii ita hunc dixisse, ut ostenderet exempli gratia se hanc quasi definitionem dedisse, ne forte aliquis arbitraretur hanc quasi veram hominis definitionem posuisse, quae est animal bipes mansuetum. Idcirco enim, inquiunt, dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM EST, ne quis omnino putaret huiusmodi esse hominis definitionem Aristotelem arbitrari. Alii vero hoc non ita dictum acceperunt sed potius in hanc sententiam scripturamque Aristotelis dictum interpretati sunt: UT HOMO EST AEQUE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, ut ita intellegeretur: homo quidem aequaliter se habet ad id quod homo est et ad id quod animal bipes mansuetum est. Quocirca si idem et aequum est dicere hominem, quod animal bipes mansuetum, necesse est quotiens de uno haec plura praedicantur, id est animal bipes mansuetum de homine, quoniam aequale est homini, quod unum est, unum quiddam praedices, quamuis tres voces praedicare videaris. Sed omnes hi nihil omnino intellegunt sed est melior expositio quam Porphyrius dedit. Volens, inquit, Aristoteles monstrare, quae una esset affirmatio, quae non una, dixit primo, quoniam plura de uno praedicare vel plura uni subicere non est ad unam enuntiationem, nisi ex illis pluribus unum aliquid fieret. Videns item quod adhuc possint plures esse affirmationes etiam his praedicatis, quae cum plura sint, unum tamen ex his fieri possit, hoc dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES EST ET MANSUETUM quod autem dico tale est: manifestum quidem sit, quoniam si plura de uno praedicentur, ex quibus unum fieri non possit, vel si plura uni subiciantur, ex quibus unum non sit, quoniam non est una affirmatio rel negatio.Nunc autem tractemus de his pluribus ex quibus unum aliquid fieri potest. Inveniemus enim et in his in modo ipso enuntiandi plures aliquotiens enuntiationes et non unam reperiri, quamquam ex pluribus unum fieri aliquid possit. Si quis enim sic dicat: animal rationale mortale homo est, simul iungens animal rationale mortale, quoniam continve dictum est et ex his unum aliquid fit, una est affirmatio. Sin vero sit aliquid interualli, ut ita quis dicat: homo animal et rursus rationale et aliquantulum requiescens dicat mortale est, non est una affirmatio nec una negatio. Haec enim intercapedo plurimas efficit enuntiationes. Rursus si cum coniunctione dicantur homo animal et rationale et mortale est, sic quoque multae propositiones sunt. Nec differt aliquid vel requiescendo vel interponendo coniunctiones dicere quam si quis sic dicat: Homo animal est Homo rationalis est Homo mortalis est  quae perspicue propositiones multae sunt. Videns ergo hoc Aristoteles ita dixit: HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM. Ad hoc inquit fortasse tamquam si ita diceret: de homine quidem et bipede et mansueto fit unum sed est aliquotiens forte ut plures propositiones sins, cum ea coniunctio quaedam separat atque discernit. Erit enim fortasse homo et animal, ut haec una sit propositio, et bipes ut altera et mansuetum ut rursus altera. Sed ex his unum aliquid fit, quae cum continve prolata sunt, quoniam ex his unum aliquid conficitur, una est propositio. Non autem idem evenit in omnibus. EX ALBO enim ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM FIT. Si quis enim dicat: Socrates homo albus ambulat  non est una affirmatio, quoniam ex homine albedine et ambulatione nulla omnino species fit. Quare conclusio est, quoniam nec si de his pluribus, ex quibus unum non fit, unum aliquid praedicetur, ut ex terreno latrabili et caelesti et merino quoniam unum non fit et de his unum aliquid praedicatur, quod dicimus canis, huiusmodi nomen quod plura significat, ex quibus unum non fit, si de altero praedicetur vel si subiciatur alteri, non fit una affirmatio nec una negatio sed erit quidem vox una, affirmationes vero plurimae. Sive enim unum de pluribus praedicetur, ex quibus non fit unum, vel plura huiusmodi de uno, vel si unum de uno praedicetur, quod praedicatum plura significet, ex quibus unum non fit, sive illud praedicatum alteri subiciatur, omnino non fit una affirmatio nec una negatio. Est autem regula huiusmodi: una affirmatio est, si aut duo termini singulas res significent aut si plura ita de uno praedicentur vel uni subiciantur, ut ex his aliquid unum fieri possit, aut unum nomen quod vel praedicatur vel subicitur talia significet plura, quae omnia unam quodammodo speciem valeant congregare. SI ERGO DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO, VEL PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, PROPOSITIO VERO UNIUS CONTRADICTIONIS EST, NON ERIT UNA RESPONSIO AD HAEC; NEC UNA INTERROGATIO, NEC SI SIT VERA. DICTUM AUTEM IN TOPICIS DE HIS EST. SIMILITER AUTEM MANIFESTUM EST, QUONIAM NEC HOC IPSUM QUID EST DIALECTICA EST INTERROGATIO. OPORTET ENIM DATUM ESSE EX INTERROGATIONE ELIGERE UTRAM VELUT CONTRADICTIONIS PARTEM ENUNTIARE QUIA OPORTET INTERROGANTEM DETERMINARE, UTRUM HOC SIT HOMO AN NON HOC. Quisquis dialectica utitur interrogatione, hic aut simpliciter interrogat atque unam propositionem in interrogatione ponit, ut contra eam sit una responsio, aut utrasque interrogans dicit, ad quas non fit simplex responsio sed una tota propositio respondetur. Si quis enim dicat interrogans: Socrates animal est?  Contra hanc talis est responsio: Aut ita aut non  Si quis vero hoc modo interroget: Socrates animal est an non?  Contra hanc non est una responsio. Si enim respondetur ita, de qua adnueris ignoratur, de affirmatione an de negatione; rursus si non responderis, nescitur quam negare volueris, affirmationem an negationem. Quare contra huiusmodi interrogationes tota propositio respondenda est, id est altera pars contradictionis, ƿ aut tota affirmatio aut tota negatio, ut dices aut est animal Socrates aut, si hoc non videtur, respondeas non est animal Socrates. In his igitur quae multa sunt, ex quibus unum fieri nequit, si fiat interrogatio, et ipsa reprehensibilis est et contra eam una responsio. Quisquis enim ea plura interrogat, ex quibus unum esse non possit, multas facit interrogationes. Contra quam si simpliciter respondeatur, etiam si vera sit ipsa responsio, tamen iure reprehenditur. Contra enim multiplicem interrogationem multiplex debet esse responsio. Si quis enim dicat interrogans: Socrates philosophus est et legit et ambulat?  Quia potest fieri ut sit quidem philosophus et legat, non autem ambulet vel ambulet sed non legat, potest item fieri ut et legat et ambulet, contra huiusmodi propositionem non est una responsio. Nam qui ita interrogavit: Socrates philosophus est et legit et ambulat?  Aut imperite aut captiose interrogavit. Contra quam interrogationem, si contigerit Socratem philosophum esse et ambulare et legere, si respondeatur: ita est, haec quoque responsio reprehenditur. Contra plures enim interrogationes una responsio non debet adhiberi, etiam si vere per illam unam respondeatur sicut in hac quoque, si et philosophus est et legit et ambulat. Quocirca si interrogatio dialectica responsionis petitio est, per quam responsionem fiat propositio, ut cum quis dixerit interrogans: Dies est?  Alius respondeat non, fiat inde negatio: Dies non est  vel certe altera pars propositionis, cum ita interrogatur: Dies est an dies non est?  Ut congrue scilicet respondeatur diem esse aut diem non esse, id est tota propositio: hae quae ex his pluribus fiunt atque interrogantur, ut unum ex his fieri non possit, non sunt simplices interrogationes. Quocirca nec ad eas simplex est reddenda responsio. De his autem se in Topicis dixisse commemorat. Rursus QUIA DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO (ut supra dictum est) VEL PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, quod paulo post demonstrabitur, imperite illi interrogant qui ita dicunt: Quid est animal?  vel: Quid est homo?  Oportet enim qui dialectice interrogat dare interrogatione optionem, an sibi respondens affirmationem eligere velit an negationem. Qui vero sic interrogat, ut quid est aliqua res volit dicere respondentem, non est illa interrogatio dialectica. Interrogant autem quidam hoc modo: Putasne anima ignis est?  Cum respondens negaverit, addet: Nonne tibi aliquid videtur esse inter ignem atque aerem, medium corpus, ut sit anima?  Cum respondens hoc quoque abnuerit, ille persequitur: An fortasse magis tibi videtur aquam esse animam vel terram?  Cum ille neque terram neque aquam animam esse consenserit, tunc defessi interrogationibus ita interrogant: Quid est ergo anima?  Haec autem non est interrogatio dialectica sed potius discipuli ad magistrum aliquid addiscere cupientis. Qui enim aliquid cupit addiscere interrogat eum qui docere potest quid sit de quo ambigit. Dialecticus ƿ autem (ut dictum est) ita interrogare debet, ut respondenti sit optio an affirmationem an negationem velit eligere. Oportet autem scire, quoniam omnis INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO, dialectica vero non cuiusdam responsionis sed eius quae in utraque parte habeat optionem. Ergo hoc ipsum quid est non est dialectica interrogatio. Oportet enim ita interrogare, ut ex interrogatione responsor possit eligere alteram contradictionis partem. Debet enim terminare et definire is qui interrogat, an hoc sit quod dicitur an non, ut: Homo animal est an non?  Ut ille aut affirmationem respondeat aut negationem. Quod autem dixit dialecticam interrogationem petitionem esse responsionis, vel propositionis vel alterius partis contradictionis, huiusmodi est: quisquis interrogat affirmationem; aut eandem exspectat ut auditor sibi respondeat aut contradictionem, ut si quis sic interroget: Homo animal est?  Si ille adnuerit, propositionem reddidit, eam scilicet quam proposuit interrogans; si vero interrogante aliquo, an homo animal sit, respondens dixerit: Non est  contradictionem respondisse videbitur. Ille enim affirmationem interrogavit, ille negationem respondet, quod est contradictio. Rursus si negationem interroget et ille respondeat negationem, eandem propositionem reddidit, quam is qui interrogabat ante proposuerat; sin vero interrogante alio negationem ille affirmationem responderit, contradictio responsa est. Hoc est igitur quod ait interrogationem responsionis petitionem esse et cuius responsionis addidit VEL PROPOSITIONIS, si idem respondeat, quod ille interrogat, VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, si cum ille affirmationem interrogat, ille responderit negationem, vel si cum ille negationem in interrogatione posuerit, ille affirmationem in responsione reddiderit. Interrogationis autem secundum Peripateticos duplex species est: aut cum dialectica interrogatio est aut cum non dialectica. Non dialecticae autem interrogationis duae sunt species, sicut Eudemus docet: una quidem quando sumentes accidens interrogamus, cui illud accidat, ut quando videmus domum Ciceronis, si interrogemus: Quis illic maneat?  vel quando subiectum quidem ipsum et rem sumimus, quid autem illi accidat interrogamus, ut si ipsum Ciceronem quis videat et interroget: Quo divertat  Et haec una species est eorum, quae secundum accidens non dialectice interrogamus. Altera vero quando proponentes nomen quid sit quaerimus aut genus aut differentiam aut definitionem requirentes, ut si quis interroget: Quid sit animal  vel quando definitionem aut aliquid superius dictorum sumimus et quaerimus, cuius illa sint, ut si quis quaerat, animal rationale mortale cuius sit definitio. QUONIAM VERO HAEC QUIDEM PRAEDICANTUR COMPOSITA, UT UNUM SIT OMNE PRAEDICAMENTUM EORUM QUAE EXTRA PRAEDICANTUR, ALIA VERO NON, QUAE DIFFERENTIA EST? DE HOMINE ENIM VERUM EST DICERE ET EXTRA ANIMAL ET EXTRA BIPES ET UT UNUM ET HOMINEM ET ALBUM ET HAEC UT UNUM. ƿ SED NON, SI CITHAROEDUS ET BONUS, ETIAM CITHAROEDUS BONUS. SI ENIM, QUONIAM ALTERUTRUM DICITUR, ET UTRUMQUE DICITUR, MULTA ET INCONVENIEN IA ERUNT. DE HOMINE ENIM ET HOMINEM VERUM EST DICERE ET ALBUM, QUARE ET OMNE. RURSUS SI A BUM, ET OMNE. QUARE ERIT HOMO ALBUS ALBUS ET HOC IN INFINITUM. ET RURSUS MUSICUS ALUS AMBULANS; ET HAEC EADEM FREQUENTER IMPLICITA. AMPLIUS SI SOCRATES SOCRATES ET HOMO, ET SOCRATES SOCRATES HOMO. ET BIPES, ET HOMO BIPES. Multa sunt quae cum singillatim vere praedicentur, si quis ea coniungat et praedicet, veram praedicationem tenent. Sunt autem alia quae, si per se et disiuncta praedicentur, vera sunt; sin vero coniuncte dicantur, veritatem in praedicatione non retinent. Quae ergo horum sit differentia oportet agnosci. Si quis enim dicat Socratem animal esse, verum dixerit, si quis rursus praedicet, quoniam Socrates bipes est, hoc ƿ quoque verum est. Quae si coniuncta dicantur, ut est: Socrates animal bipes est  a propria veritate non discrepat. Atque haec quidem in genere et ea differentia quae substantialis est Socrati. Quod si de accidenti quoque dicatur, potest idem nihilominus evenire. Si quis enim sic dicat: Socrates homo est  verum est, rursus: Socrates calvus est  hoc quoque verum est. Quod si iungat dicens: Socrates homo calvus est  veram rursus ex coniunctis faciet praedicationem. Atque in his quidem ea quae singillatim vere dicebantur, iuncta veraciter praedicata sunt. Sunt autem alia in quibus singillatim quidem praedicata vera sunt, iuncta vero qualitatem veritatis amittunt. Ut si quis dicat quoniam Socrates bonus est, verum est, rursus Socrates quoque citharoedus est, sit hoc quoque verum. Haec coniungere non necesse est, ut sit verum Socrates bonus citharoedus est. Potest enim bonus quidem esse homo et cum sit citharoedus, non tamen esse bonus sed in alia re quidem bonus, in alia tantum artis illius cognitor, non tamen in ipsa perfectus. Hoc autem facilius tall liquebit exemplo: si quis enim dicat quoniam Tiberius Gracchus malus est, verum est, rursus Tiberius Gracchus orator est, hoc quoque verum est. Si coniungens dicat: Tiberius igitur malus orator est, falso dixerit, optimus enim orator fuit. Sed ne quis nos ita dicentes ignorare pPomba oratoris esse definitionem utrum bonum dicendi peritum, aliter ista dicta sunt, ad exemplum potius quam ad veritatem. Atque ƿ haec quidem proposita ab Aristotele sunt, cuius in textu verba sic constant: QUONIAM VERO, inquit, ALIA QUIDEM PRAEDICANTUR coniuncta et COMPOSITA, ut ex his unum praedicamentum fiat eorum quae extra vere dicta sunt, alia vero cum extra singillatimque vere praedicarentur iuncta veram non faciunt praedicationem, inquirendum est quae eorum sit differentia. Exempla autem horum talia sunt. Eorum quidem, quae extra praedicantur vere nec si coniuncta sunt naturam veritatis amittunt, tale exemplum est: DE HOMINE VERUM EST DICERE, quoniam et animal est et bipes rursus quoniam animal bipes verum est de eodem homine dicere, ut de Socrate. De eodem quoque Socrate et hominem extra et album, si ita contingit, verum est dicere et de eo praedicare animal bipes a veritate non discrepat. Atque haec quid em extra singillatimque praedicantur vere et iuncta vera sunt. Quod si de aliquo praedicetur, quoniam citharoedus est, et verum sit et rursus quoniam bonus est, et verum sit non necesse est dici quoniam bonus citharoedus est potest enim esse solum quidem citharoedus, bonus autem homo. Hucusque quidem ista disposuit. Quoniam autem videbantur quidam arbitrari, quod omnia quae singillatim vere praedicarentur eadem quoque composita recte dicerentur, contra hos dicit, quoniam multa erunt inconvenientia multaque impossibilia sunt si quis dicat omne quod singillatim praedicatur veraciter id iunctum vere praedicari. De homine enim verum est dicere quoniam homo est. Nam de Socrate ƿ qui homo est vere dicitur quoniam homo est. Rursus de eodem vere potest dici quoniam albus est. Quare et si haec iungas et ut unum praedices, verum est dicere de aliquo homine quoniam homo albue est. Sed homo qui albus est verum est de eo dicere quoniam albus est: quare etiam haec si iungas: erit igitur praedicatio "Socrates homo albus albus est"! Nam de Socrate verum erat dicere quoniam homo albus est. Sed de homine albo verum est dicere quoniam albus est. Haec iuncta homo albus albus faciunt. Quod si de eodem homine albo album rursus praedicari velis, verum est: quocirca et si iungas: erit igitur praedicatio homo albus albus albus est. Atque hoc idem in infinitum. Rursus si quis de aliquo homine dicat quoniam ille homo musicus est, si verum dicat adiciatque quoniam idem homo ambulans est, verum dicit, si iungat quoniam ille homo ambulans musicus est. Sed si verum est de aliquo homine praedicare quod sit ambulans musicus, de ambulante autem musico verum est dicere quoniam musicus est, erit ille homo homo ambulans musicus musicus. Sed de eodem verum est dicere quoniam ambulans est, verum igitur erit de eo rursus dicere quoniam homo ambulans ambulans musicus musicus est. Amplius quoque Socrates Socrates est et rursus homo: erit igitur Socrates Socrates homo. Sed et bipes: erit igitur Socrates Socrates homo bipes. Sed de Socrate verum est dicere quoniam Socrates homo bipes est. Sed cum dixi hominem de eo, iam et bipedem ƿ dixi (omnis enim homo bipes est): verum est ergo de eo dicere quoniam bipes est. Sed verum erat dicere quoniam Socrates Socrates homo bipes est: vera erit igitur praedicatio Socrates homo bipes bipes est. Sed rursus hominem dixi atque in eo aliud bipes nominavi (omnis enim homo bipes est): Socrates igitur homo bipes bipes bipes est. Et hoc in infinitum protractum superfiva loquacitas invenitur. Non igitur fieri potest ut modis omnibus quicquid extra dicitur id iunctum vere praedicetur. QUONIAM ERGO SI QUIS SIMPLICITER PONAT COMPLEXIONES FIERI PLURIMA INCONVENIENTIA CONTINGIT DICERE MAVIFESTUM EST; QUEMADMODUM AUTEM PONENDUM, NUNC DICIMUS. EORUM IGITUR QUAE PRAEDICANTUR ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR QUAECUMQUE SECUNDUM ACCIDENS DICUNTUR VEL DE EODEM VEL ALTERUM DE ALTERO, HAEC NON ERUNT UNUM, UT HOMO ALBUS EST ET MUSICUS SED NON EST IDEM ALBUM ET MUSICUM; ACCIDENTIA ENIM SUNT UTRAQUE EIDEM. NEC SI ALBUM MUSICUM VERUM EST DICERE, TAMEN NON ERIT ALBUM MUSICUM UNUM ALIQUID; SECUNDUM ACCIDENS ENIM MUSICUM ALBUM. QUARE NON ERIT ALBUM MUSICUM. QUOCIRCA NEC CITHAROEDUS BONUS SIMPLICITER SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS. AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALTERO. QUARE NEQUE ALBUM FREQUENTER NEQUE ƿ HOMO HOMO ANIMAL VEL BIPES; INSUNT ENIM IN HOMINE BIPES ET ANIMAL. Quae superius comprehendit ea nunc apertissima ratione determinat dicens de his solis extra praedicatis veraciter non posse unam praedicationem fieri veram, si coniuncta sins, quaecumque aut accidentia sunt eidem, aut cum unum alii accidit, accidens aliud de illo accidenti praedicatur. Si quis enim de Socrate dicat quoniam Socrates citharoedus est, rursus Socrates bonus est, si utraque veraciter praedicet, duo accidentia de uno subiecto praedicavit, id est de Socrate. Quocirca non potest ex his una fieri praedicatio, ut dicatur Socrates citharoedus bonus est. Rursus si de Socrate praedicetur musicus (sit enim Socrates musicus), de musico autem si praedicetur albus, et hoc fortasse sit verum, non tamen iam necesse est musicum album esse. Si enim sit musicus Socrates, si de eodem musico albus praedicetur, praedicatur quidem de Socrate subiecto musicus, de musico autem quod est accidens praedicatur album, rursus aliud accidens: ergo non potest hic una fieri vera propositio ut dicatur: Socrates musicus albus est. Neque enim semper musicus albus esse potest sed hanc naturam habent accidentia, ut veniant et recedant. Ergo si eius, qui musicus albus est, in sole stantis cutem calor fuscaverit, non erit quidem albus cum sit musicus. Quocirca neque tunc cum vere praedicabatur, quoniam Socrates musicus albus est, neque tunc fuit recta veraque praedicatio. Non enim habet permanendi naturam accidens, ut semper vere praedicetur. Ratio autem verborum sic constat: quoniam ergo, inquit, si quis ƿ dicat omnino quomodolibet complexiones fieri, id est ut quod singillatim praedicaveras hoc complexum conexumque proponas, plurima inconvenientia dicere contingit (multa enim concurrunt impossibilia, sicut supra ipse monstravit, tunc quando ad nimiam loquacitatem perduxit eos eadem frequenter nomina repetentes), quemadmodum ponendum est nunc dicimus, id est quemadmodum autem debent quae singillatim vere dicuntur iuncta praedicari, nunc, inquit, dicimus. Omnia, inquit, quae praedicantur de alio et rursus de quibus alia praedicantur duplici modo sunt: aut enim accidentia sunt aut substantialia. Et aliae quidem praedicationes sunt secundum accidens, quotiens aut duo accidentia de substantia aut accidens de accidenti alicui substantiae praedicatur, alia vero non secundum accidens, quotiens aliquid de atliquo substantialiter dicetur. Eorum igitur quaecumque secundum accidens dicuntur, eorum si vel duo sint accidentia et de eodem praedicentur vel si alterum accidens de altero accidenti dicatur, ex his non potest una fieri propositio neque erit unum si iuncta sint. Homo enim et albus est et musicus sed album musicum, quoniam in unam formam non concurrunt, non facient unam propositionem. Non enim idem album et musicum. Utraque enim eidem sunt accidentia, non tamen idem sunt. Nec si album de musico praedicemus, id est accidens de accidenti, et hoc verum sit, non tamen necesse est id quod musicum est esse album. Neque enim unum est aliquid. Accidenter enim id quod musicum est ƿ album est. Quoniam enim id ipsum cui musicum accidit album est, idcirco musicum album dicitur. Non est autem idem musicum album. Quocirca eadem ratione tenetur, ut non possit idem esse citharoedus bonus nec in unum corpus coniuncta faciant aliquid unum, quamquam singillatim vere praedicentur. Quod si quis aliquid substantialiter praedicet duasque res singillatim dicat, possunt in unam propositionem redire, quae substantialiter vere seiuncte separatimque praedicantur. Homo enim, cum et animal sit et bipes, est animal bipes et fit ex his una praedicatio. Nam neque animal secundum accidens inest homini nec bipes. Quod per hoc ostendit quod ait: SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS. Addit quoque illud quoniam nec ea iuncta recte praedicantur, quaecumque vel latenter vel in prolatione in aliquo terminorum continentur, qui in propositione positi sunt. Idcirco enim de homine albo non debet dici albus, ut veniat praedicatio homo albus albus, quoniam iam in homine albo continetur album. Rursus de homine idcirco non debet praedicari bipes, quoniam licet non sit prolatum, tamen qui homo est bipes est. Sed de homine si quis bipes praedicet, de re duos habente pedes deque hac differentia quod est bipes praedicat bipes. Quocirca erit hic quoque homo bipes bipes. Homo enim continet intra se bipes et qui dicit hominem cum sua differentia dicit. Si quis ergo ad hunc praedicet bipes, de re duos habente pedes bipedem praedicavit. Erit igitur homo bipes bipes. Sed ita praedicari non debet. Continetur enim in homine bipes, ƿ ad quod si rursus bipes praedices, molestissimam facies repetitionem. Hoc enim est quod ait: AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALIO: continentur vel prolatione, ut in eo quod est homo albus (continetur in eo albus, quoniam per prolationem iam dictum est) aut potestate et vi, ut in eo quod est homo continetur bipes, quamquam dictum penitus non sit. VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO ET SIMPLICITER, UT QUENDAM HOMINEM HOMINEM AUT QUENDAM ALBUM HOMINEM ALBUM; NON SEMPER AUTEM SED QUANDO IN ADIECTO QUIDEM ALIQUID OPPOSITORUM INEST QUAE CONSEQUITUR CONTRADICTIO, NON VERUM SED FALSUM EST, UT MORTUUM HOMINEM HOMINEM DICERE, QUANDO AUTEM NON INEST, VERUM. Haec quaestio contraria superiori est. Illic enim quaerebatur, si quae singillatim praedicabantur, an semper eadem vere coniuncta compositaque dicerentur; hic autem converso ordine idem quaerit, an ea quae composita vere praedicantur singillatim dicta vere dicantur. Post obitum enim Socratis possumus dicere hoc cadaver homo mortuus est et hominem mortnumque inugentes unam inde veram facere praedicationem. Solum autem hominem dicere cadaver illud non est verum. Rursus eundem Socratem vivum verum est dicere quoniam animal bipes est et singillatim verum ƿ est dicere quoniam animal est. Quare quaeritur quae sit huius quoque differentia praedicationis, ut cum coniuncta dicuntur et vere de subiectis praedicantur alias quidem et extra dici vere possint, alias vero praeter illam coniunctionem simplicia si dicantur falsa sint. Hoc autem quasi dubitans dixit. Ita enim legendum est, quasi si dubitans diceret sic: verum est autem dicere de aliquo compositum coniunctumque aliquid, ut de aliquo homine hominem aut de aliquo albo album, ita ut et horum aliquid simpliciter praedicetur, an certe non semper? Et dat regulam qua pernoscamus, an quae composita dicuntur eadem singillatim dici possint an minime. Quotiens enim talia sunt quae praedicantur cum alio, ut in se non habeant contradictionem praedicata, possunt dici et separata veraciter. Quodsi habeant in se aliquam contradictionem quae praedicantur et composita dicuntur vere, separata vere praedicari non possunt. Qui dicit cadaver hominem mortuum vere dicit, solum autem hominem dicere vere non potest, idcirco quoniam prius cum coniunctione praedicavit dicens hominem mortuum, mortuusque quod adiacet hominis praedicamento (cum homine enim praedicatum est mortuus) contradictionem tenet contra hominem. Est enim homo animal, mortuus vero non animal: ergo mortuus et homo contradictionem quandam inter se habent. Illud est enim animal, illud vero non animal. Quocirca quoniam inter se haec habent quandam contrarietatem, ƿ separatus homo de mortuo homine solus non dicitur. Eodem quoque modo est et si quis dicat manum esse marmoream statuae: verum dicit, solum autem manum dicere esse eam quae statuae est falsum est. Habet enim manus potestatem dandi accipiendique sed illa marmorea non habet. Ergo est quaedam contradictio inter manum et manum marmoream, quod illa dare atque accipere potest, illa non potest. Haec enim sibi contradictionis opponuntur modo. Ergo quotienscumque tale aliquid praedicatur, ut homo de cadavere, cui tale aliquid coniunctum sit atque adiaceat, quod faciat contradictionem contra praedicatum (ut hic adiacet mortnus homo simulque praedicatur de cadavere, ut faciat contra ipsum hominem contradictionem eamque in se contineat), non potest separari una praedicatio, ut singillatim dicatur, sin vero non sit ista contradictio, potest: ut in eo quod est: Socrates animal bipes est  Animal et bipes nulla contradictione opponuntur: quocirca potest de eo et animal singillatim atque simpliciter et bipes dici. Sensus quidem huiusmodi est, ordo autem se sic habet. Dubitans enim dixit: VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO composite et connexe et rursus simpliciter, ut quendam hominem hominem aut quendam album album, an certe non semper sed tunc quando in adiecto, id est in eo quod adiectum cum aliquo praedicatur, inest aliquid oppositorum talium quaecumque consequitur contradictio, id est quam oppositionem mox contradictio consequatur, ut oppositionem hominis et mortui sequitur contradictio, animal scilicet et non animal: si igitur sic sint, non est ƿ verum simpliciter praedicari sed falsum, ut mortuum hominem, quem coniuncte vere dicere possis, eundem hominem solum non vere praedicabis. Quando autem haec oppositio in his quae praedicantur non inest, verum est quod coniuncte praedicaveris et simpliciter praedicare. Adiectum est autem in quo venit aliquotiens oppositio huiusmodi, ut in eo quod est homo mortuus mortuus adicitur homini. Aliter enim vere homo de cadavere non potest praedicari. VEL ETIAM QUANDO INEST QUIDEM SEMPER NON VERUM, QUANDO VERO NON INEST, NON SEMPER VERUM, UT EOMERUS EST ALIQUID, UT POETA. ERGO ETIAM EST AN NON? SECUNDUM ACCIDENS ENIM PRAEDICATUR ESSE DE HOMERO; QUONIAM POETA EST SED NON SECUNDUM SE, PRAEDICATUR DE HOMERO QUONIAM EST. QUARE IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, IN HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT DICERE. QUOD AUTEM NON EST, QUONIAM OPINABILE EST, NON VERUM DICERE ESSE ALIQUID. OPINATIO ENIM EIUS NON EST, QUONIAM EST SED QUONIAM NON EST. Quoniam supra dixerat, quando esset in adiecto contradictio, non esse verum simpliciter praedicare, quando vero non esset, verum esse quod coniuncte ƿ diceretur simpliciter dicere, hoc ipsum quoniam videbatur in aliquibus non esse verum, consequenter emendat. Ait enim verum esse illud quod supra dictum est, quandocumque in adiecto esset aliqua contradictio, non esse verum simpliciter praedicare, quod coniuncte diceretur, quando autem non inest contradictio, non semper verum esse praedicare simpliciter, quod coniuncte vere diceretur sed aliquotiens verum, aliquotiens vero falsum. Huius rei tale exemplum est: cum dico: Homerus poeta est  est et poeta coniuncte de Homero vere praedicavi. Sin vero dixero: Homerus est  falsum est, quamquam non sit aliqua contradictio inter est et poetam, neque in adiecto est ulla talis est oppositio quam consequatur contradictio. Cur autem hoc eveniat, talis ratio est: de Homero enim poetam quidem principaliter praedicamus, cum dicimus Homerus poeta est, est autem verbum de poeta quidem praedicamus principaliter, de Homero autem secundo loco. Non enim idcirco praedicamus esse, quia Homerus est sed quia poeta est. Sublato igitur eo quod principaliter praedicatur, id est poeta, licet nullam contradictionem habeat est, quod adiacet poetae, contra poetam, non fit vera praedicatio dicendo Homerus est. Secundum accidens enim est praedicatur, non principaliter. Sublata autem principali praedicatione, quod secundum accidens praedicabatur, falsum continuo reperitur. Quod autem addit: QUARE IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, ƿ IN HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT DICERE huiusmodi est. Ea quae superius dixit una ratione collegit dicens: quaecumque eo modo praedicantur, ut neque in nominibus neque in definitionibus propriis aliquam teneant contrarietatem, haec et extra simpliciterque praedicata vera sunt, ut in eo quod est homo mortuus mortuus atque homo: haec quidem nominibus nullius contrarietatis contradictionisue sunt sed si horum pro no minibus definitiones sumantur, mox contrarietas oppositionis agnoscitur. Si quis enim dederit hominis definitionem, dicit animal esse rationale, si quis mortui, dicit esse corpus, verum vita privatum atque inanimum atque ex hoc tota vis contradictionis apparet. Quocirca si sumantur definitiones pro nominibus et in his aliqua contrarietas inesse videbitur vel si secundum accidens aliquid praedicetur, ut est de Homero, cum de poeta principaliter praedicetur, non praedicabuntur simpliciter vere quaecumque composita praedicabantur. Quod si neque contrarietas ulla sit et per se praedicentur et non per accidens, quicquid composite vere dicitur, hoc simpliciter vere praedicatur. Quoniam autem fuerunt quidam qui hoc ipsum quod non est esse dicerent totum syllogismum his propositionibus coniungentes: Quod non est opinabile est Quod autem opinabile est est Igitur est quod non est hoc igitur dicit: si verum est praedicare, inquit, de eo quod non est quoniam opinabile est, est quidem verbum de opinabili praedicamus, de eo autem quod non est secundum accidens. Quoniam enim quod non est opinabile est, idcirco secundo loco de eo quod non est verbum est praedicamus. Quare non possumus simpliciter dicere esse quod non est. Idcirco enim opinabile est, quia non est. Scibile enim esset, si per se esset, non opinabile, sicut Homerus idcirco esse dicitur, quia poeta est, non quia per se est. Vel certe idcirco dicitur Homerus esse poeta, quia poesis ipsius exstat et permanet, sicut aliquos in filiis suis saepe vivere dicimus. Quocirca id quod non est idcirco esse dicitur opinabile, quoniam ipsius est opinatio, non autem quoniam id quod non est per se aliquid esse potest. His igitur ante perstructis atque ordine terminatis ad propositionum modos, rem in dialectica utilissimam, de propositionibus tractatum disputationemque convertit. Restat nunc de propositionum modis oppositionumque disserere. Multis enim dubitatum est rationibus, an idem modus esset propositionum sine modo positarum, qui illarum quoque quae propriis modis et qualitatibus terminantur. Inchoat autem de his rebus dubitationem sic. HIS VERO DETERMINATIS PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET AFFIRMATIONES AD SE INVICEM HAE SCILICET QUAE SUNT ƿ DE POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON CONTINGERE ET DE IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO; HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. Omnis propositio aut sine ullo modo simpliciter pronuntiatur, ut Socrates ambulat vel dies est vel quicquid simpliciter et sine ulla qualitate praedicatur. Sunt autem aliae quae cum propriis dicuntur modis, ut est Socrates velociter ambulat. Ambulationi enim Socratis modus est additus, cum dicimus eum velociter ambulare. Quomodo enim ambulet, significat id quod de ambulatione eius velociter praedicamus. Similiter autem si quis dicat Socrates bene doctus est, quemadmodum sit doctus ostendit nec solum doctus dixit sed modum quoque doctrinae Socratis adiungit. Sed quoniam sunt modi alii per quos aliquid posse fieri dicimus, aliquid esse, aliquid necesse esse, aliquid contingere, quaeritur in his quoque quemadmodum fieri contradictionis debeat oppositio. In his enim propositionibus, quae simpliciter et sine ullo modo praedicantur, facile locus contradictionis agnoscitur. Huius enim affirmationis quae est: Socrates ambulat  negatio si ad verbum ponatur, ut est: Socrates non ambulat  rectissime oppositione facta ambulare a Socrate disiunxit. Rursus huius propositionis quae est: Socrates philosophus est  si quis ad est verbum negationem ponat, integram faciet negationem dicens: Socrates philosophus non est  Neque enim fieri potest ut ad aliud in simplicibus affirmationibus negatio ƿ ponatur nisi ad id verbum quod totius vim continet propositionis. Si quis enim in hac propositione quae est homo albus est non dicat fieri negationem eam quae est homo albus non est sed potius homo non albus est, hoc modo falsum ostenditur: proposito lapide interrogetur de eo: An lapis ille homo albus sit?  ut si ille negaverit ponens negationem eius quae est: Homo albus est  eam quae dicit: Homo non albus est  dicatur ei: si non est de hoc lapide vera affirmatio quae dicit: Homo albus est  vera erit de eo negatio ea scilicet quae dicit: Homo non albus est  Sed haec quoque falsa est. Omnino enim lapis homo non est atque ideo de eo non poterit praedicari quoniam homo non albus est. Quod si neque affirmatio neque negatio de eo vera est, hoc autem impossibile est, ut contradictoriae affirmationes et negationes de eodem praedicatae utraeque falsae sins, constat non esse eius affirmationis quae dicit: Homo albus est  illam negationem quae dicit: Homo non albus est  sed potius eam per quam proponitur quoniam albus non est. Nusquam igitur alibi ponenda negatio est in his quae simpliciter et sine modo aliquo praedicantur nisi ad verbum quod totem continet propositionem. De his autem sufficienter supra iam diximus. In his autem in quibus aliqui modus apponitur dubitatio est, an ad modum ilium ponatur negativa particula an locum suum serues ad verbum, sicut in his quoque propositionibus fiebat, ƿ quae simplices et sine modo ullo proponebantur. Nam si serues locum suum negativa particula, ut ponatur ad verbum, proprietas contradictionis excidit et verum inter se falsumque non dividit. Modus enim quidam est faciendi aliquid, quotiens dicimus possibile esse vel necesse esse vel quicquid huiusmodi est. Ergo si quis me dicat nunc posse ambulare, idem neget negationem ponens ad verbum quod est ambulare dicatque me posse non ambulare, affirmatio et negatio contradictoriae de eodem dictae verae simul invenientur. Me namque et ambulare posse et non ambulare posse manifestum est. Quod si in hoc modo possibilitatis non recte verbo particula negatira coniangitur, etiam in his quoque quae nullam habent differentiam, an ad modum an ad verbum negatio ponatur, custodienda est talis oppositio quae huic speciei propositionum quae cum modo proferuntur conveniat. In hac propositione quae dicit: Socrates velociter ambulat  sive quis ita neget: Socrates velociter non ambulat  ad verbum ponens negationem sive sic: Socrates non velociter ambulat  modo negativam particulam iungens, prope simile esse ridebitur. Dividit enim cum affirmatione veritatem falsitatemque utroque modo apta negatio. Sed quoniam sunt plurimi modi, in quibus si ad verbum inugatur particula negativa, non est negatio superius enuntiatae affirmationis, idcirco servanda est in omnibus secundum modum propositionibus ista oppositio, ut uno eodemque modo cunctarum ƿ fieri oppositiones dicantur, ut in illis quidem negatio quae simplices sunt rem neget, in his autem quae cum modo sunt modum neget, ut in eo quod est: Socrates ambulat  rem ipsam id est ambulat neget adimatque propositio dicens: Socrates non ambulat  in illis autem quae cum modo sunt rem quidem esse consentiat, modum neget, ut in ea propositione quae dicit: Socrates velociter ambulat  negatio dicat: Socrates non velociter ambulat  ut sive ambulet sive non ambulet nulla sit differentia, modum autem id est velociter ambulandi perimat ex adverso constitute negatio. Quamquam in quibusdam hoc non sit: simul enim cum modo ipso etiam rem perimi necesse est, ut in eo quod est: Socrates potest ambulare Socrates non potest ambulare  et modum et rem modo ipsi iuncta particula negationis intercipit. Sed hoc in his fere evenit, in quibus non fieri quidem aliquid dicitur et actus ipsius additur modus sed potius faciendi in futuro modus, ut si quis dicat Socratem ambulare posse, non quod iam ambulet sed quod eum sit ambulare possibile. Hic si possibili negatio coniungatur, etiam rem illam tulisse videbitur de qua illa possibilitas praedicatur. Si quis autem dicat quoniam Socrates velociter ambulat, facere eum aliquid dicit modumque illi actui iungit, ut quemadmodum illud faciat quod facere dicitur quilibet agnoscat. In his res quidem permanet, modus autem subruitur, ut superius dictum. An certe illud magis verius est dicendum, quod semper huiusmodi ƿ propositiones modum quidem auferant, rem vero de qua modus ille praedicatur non perimant? Et in quibus ponitur res, ut in eo quod est: Socrates velociter ambulat  et in quibus praedicatur actus ipse et praesens, quia fiat atque agatur, manifestum est modum quidem subrui, rem vero quae fieri dicitur permanere, ut cum dicimus: Socrates non velociter ambulat  ambulare eum quidem non subtractum est sed tantum haec negatio velocitatem ab ambulatione disiunxit. In his autem quae possibilitatem aliquid in futuro faciendi per modum ponunt nullus omnino actus ponitur sed tantum modus. Ad quem modum iuncta negatio modum quidem perimit sed res illa de qua modus praedicabatur non permanet, idcirco quoniam nec tunc cum praedicabatur cum modo aliquid fieri agive propositum est, ut si quis dicat: Socratem possibile est ambulare  positus quidem modus est, res vero actu constitute non est. Non enim dictum est quoniam ambulat sed quoniam eum possibile est ambulare. Hanc ergo possibilitatem tollit negatio in propositione quae dicit: Socratem non possibile est ambulare  sed in eadem propositione res de qua dicebatur modus ille non permanet. Hoc autem idcirco evenit, quia ne in affirmatione quidem posita est res de qua praedicatus est modus. Atque ideo non a negatione perempta res, quippe quam negatio positam non invenit sed tantum modus, qui etiam ab affirmatione constitutus est. Magna autem distantia est, an ad modum negatio ponatur an ad verbum. Nam si ad verbum ponam, praedicaho a subiecto disiungitur, ut est: Socrates non ambulat  Nam ambulat quod praedicatio ƿ est a subiecto quod est Socrates divisum est. Sin vero ad modum ponatur, non praedicatio a subiecto dividitur sed a praedicatione potius disiungitur modus, ut in eo quod est: Socrates non velociter ambulat  non ambulationem a Socrate propositio ista disiunxit sed velocitatem ab ambulatione id est modum a praedicato. Et hoc in his facilius evidentiusque apparet, quaecumque ita praedicantur ac fieri. Oportet autem quid possibile, quid necessarium, quid inesse definire eorumque significationes ostendere, quod nobis et ad huius loci subtilitatem proderit, quem tractamus, et superiora quaecumque de contingentibus dicta sunt magis liquebunt et Analyticorum nobis mentem apertissima luce vulgabit. Quatuor modi sunt quos Aristoteles in hoc libro de interpretatione disponit: aut enim esse aliquid dicitur aut contingere esse aut possibile esse aut necesse esse. Quorum contingere esse et possibile esse idem significat nec quicquam discrepat dicere cras posse esse circenses et rursus cras contingere esse circenses, nisi hoc tantum quod possibile quidem potest privatione subduci, contingens vero minime. Contra enim id quod dicitur possibile esse et negatio possibilitatis infertur aliquotiens, ut est non possibile esse, et privatio, ut est impossibile esse. Namque quod dicimus impossibile esse privatio possibilitatis est. In contingenti autem quamquam idem significet sola tantum opponitur negatio, nulla vero privatio ƿ reperitur: ut in eo quod est contingens, si hoc perimere volumus, dicimus non contingens et hoc negatio est, incontingens autem nullus dixerit quod est privatio. Cum igitur contingens esse et possibile esse idem significent, multa in his diversitas est secundum Porphyrium quae sunt necessaria et inesse tantum significantia et contingentia vel possibilia. Quod enim esse aliquid dicitur, de praesenti tempore iudicatur. Si quid enim nunc alicui inest, hoc esse praedicatur, quod vero ita inest, ut semper sit et numquam mPombaur, illud necesse esse dicitur, ut soli motus lunaeque cum terra obstitit defectus. Quae autem contingere dicuntur vel possibilia esse, illorum neque secundum praesens neque secundum aliquam immutabilitatem speculamur euentum sed tantum respicimus quantum contingentis propositio pollicetur. Quod enim posse esse vel contingere dicitur, nondum quidem est sed esse poterit. Sive autem eveniat sive non eveniat, quia tamen esse potest, contingens vel possibilis dicitur propositio. Non enim ex euentu diiudicantur huiusmodi propositiones sed potius ex significatione hoc modo: si quis enim dicat posse cras esse circenses, possibilis est contingensque affirmatio. Quod si cras sint circenses, non tamen aliquid est actu propositionis contingentis vel possibilis permutatum, ut necesse fuisse videatur, quod illa possibiliter promittebat. Quod si rursus non sint circenses, omnino nec sic aliquid permutatum est, ut necesse fuisse non esse circenses ƿ videatur. Non enim (ut dictum est) secundum euentum ista iudicantur sed potius secundum ipsius propositionis promissum. Quid enim dicit quisquis dixerit cras posse esse circenses? Hoc, ut opinor, sive sint sive non sint nulla tamen interclusum esse necessitate ne non sint. Quare quatuor modorum duo quidem idem sunt, contingens atque possibile, hi autem duo cum duobus reliquis atque ipsi reliqui a se dissentiunt. Possibile enim et contingens distat ab ea propositione quae esse aliquid dicit. Haec enim secundum possibilitatem futuri temporis affirmationem proponit, illa vero secundum praesentis actum. Utraeque vero, et ea quae esse et ea quae possibile esse vel contingere significat, a necessaria propositione disiunctae sunt. Necessitas enim non modo inesse uult aliquid sed etiam immutabiliter inesse, ut illud quod esse dicitur numquam esse non possit. Quocirca consequentiae quoque ordinis evidenter apparent. Quod enim est necessarium sine eo quod est esse vel contingere esse vel possibile esse dici non potest. Quidquid enim necessarium est et est et esse potest vel si esse non posset, nec esset omnino. Quod si non esset, nec necesse esse diceretur. Quare omne necessarium et est et possibile est. Sed neque omne est necessarium est (possunt enim esse quaedam, quae ut sint non est necesse, ut Socratem ambulare vel caetera quae de separabilibus accidentibus sumuntur) vel rursus quod contingit esse vel esse possibile est mox esse necesse ƿ est. Quare necesse est quidem sequuntur esse et possibilitas, Sed neque esse neque possibile esse necessitas ulla consequitur. Rursus omne esse sequitur posse esse. Quod enim est et potest esse. Nam si esse non posset, sine ulla dubitatione nec esset. Possibile autem esse non consequitur esse. Quod enim possibile est potest et non esse, ut me possibile est quidem nunc procedere sed hoc mihi non est esse. Non enim nunc procedo. Quare gradatim haec omnis est consequentia. Necesse est namque et esse sequitur et possibilitas. Rursus esse eadem sequitur possibilitas, possibilitatem autem nec esse sequitur nec necessitas. Liquet ergo, quoniam duo modi sunt possibilium: unum quod iam sequitur necessitatem, alterum quod non sequitur ipsa necessitas. Nam cum dico: Necesse est ut nunc sol moveatur  hoc etiam possibile est, cum vero dico: Possibile est me nunc sumere codicem  non est necesse. Recte igitur ab Aristotele paulo post dubitabitur, utrum sit illud possibile quod necessitati conveniat. Sed cum ad eadem loca venerimus, quid sibi ista possibilium similitudo velit vel quemadmodum discerni possit agnoscemus. Nunc autem quoniam affirmativarum propositionum consequentias explicuimus, negativarum rursus consequentias exploremus. Harum namque quatuor propositionum, quae fiunt ex esse, ex necesse esse, ex possibile esse vel contingit esse, quatuor negationes sunt id est non esse, non necesse esse, non possibile esse vel non contingere esse. Sed quemadmodum affirmationes contingere esse et possibile esse eaedem ƿ erant secundum significationum similitudinem, ita quoque negationes eaedem sunt. Neque enim discrepat quicquam dicere non possibile est quam si enuntiet non contingit. Consequentiae autem se in affirmativis habebant hoc modo, ut necessaries propositiones sequerentur esse aliquid significantes atque possibiles, eas autem quae esse aliquid dicerent eaedem possibiles sequerentur sed neque possibilibus esse aliquid significantes nec necessariae consentiebant. In negativis vero e contra est. Negationem enim possibilitatis sequitur et eius quae est esse aliquid significantis negatio et necessariae. Negationem vero necessarii neque eius quod est esse neque eius quod est possibile esse negatio sequitur. Disponantur enim in ordinem omnes hoc modo: Possibile esse Non possibile esse Contingens esse Non contingens esse Esse Non esse Necesse esse Non necesse esse  Repetendum igitur breviter est affirmativarum consequentias, ut quemadmodum e converso sint in negativis evidentius patefiat. Esse sequitur possibilitas et contingentia, possibilitatem vero et contingentiam esse non sequitur, necesse esse vero sequitur et esse et possibilitas et contingentia, possibilitatem autem et contingenham nec esse sequitur nec necessitas. In negationibus vero e contra est. Non posse esse et non contingere sequitur non esse. Quicquid enim non potest esse non est. Non esse autem non posse esse ƿ non sequitur. Quod enim non est non omnino interclusum est ut esse non possit. Nunc ego enim Traiani forum non video sed non est necesse ut non videam. Fieri enim potest ut propius acceders videam. Rursus non posse esse et non contingens esse nec non esse sequitur nec non necesse esse. Quod enim esse non potest non videbitur vere dici, quoniam illud non necesse est esse sed potius quoniam illud necesse est non esse. Negationem autem necessitatis, id est non necesse esse, neque non esse sequitur neque non possibile esse. Me enim cum ambulo non necesse est ambulare. Neque enim ex necessitate quisquam ambulat. Nec rursus quod non est necesse id non potest fieri. Quisquis enim ambulat non quidem illi ambulare necesse est sed tamen potest. Atque ideo quod non est necesse esse non omnino interclusum est ut esse non possit. Et de non contingenti eadem ratio est. Diverso igitur modo quam in affirmationibus negativa conversio est. Illic enim necessitatem et essentia et possibilitas sequebatur, essentiam autem possibilitas sed neque possibilitatem essentia vel necessitas nec rursus essentiam necessitas sequebatur. Hic autem non possibile esse et non esse et non necesse esse consequitur. Sed neque non necesse esse non esse sequitur neque utrasque possibilitatis negatio, quae non posse aliquid esse proponit. An magis illud dicendum est, quod sicut se in affirmationibus habet, ita quoque in negationibus, ut Theophrastus ƿ acutissime perspexit? Fuit enim consequentia in affirmativis, ut necessitatem et esse consequeretur et possibilitas, possibilitatem vero nec esse nec necessitas sequeretur. Idem quoque penitus perspicientibus in negationibus apparebit. Veniens namque negatio in necessario faciensque huiusmodi negationem quae dicit "non necesse est" vim necessitatis infringit et totam propositionem ad possibile duxit. Quod enim non necesse est esse fracto rigore necessitatis ad possibilitatem perductum est. Sed possibilitatem nec esse sequebatur nec necessitas. Recte igitur fractam necessitatem et ad possibile perductam, cum negatio dicit non necesse esse, nec non esse nec non contingere esse consequitur. Rursus qui dicit possibile esse, si ei disiunctio negationis addatur, tollit possibile et ad necessitatis perpetuitatem negativa forma totam propositionem reuocat, ut est non possibile. Quod enim non possibile est fieri non potest ut sit, quod autem fieri non potest ut sit necesse est ut non sit. Ergo necessariam quandam vim habet haec propositio in qua dicimus non posse esse aliquid. Sed necessitatem sequebatur et essentia et possibilitas. Non necesse autem esse ad possibilitatem respicit. Recte igitur non necesse esse, quod est iam possibilitatis, sequetur propositionem quae dicit non posse esse, quod est necessitatis. Alii ergo ordines propositionum sunt, vis tamen eadem, ut necessitatem cuncta sequantur, possibilitatem vero necessitas non sequatur. Hic oritur quaestio subdifficilis. Nam si necessitatem sequitur possibilitas, non necesse autem possibilitati confine est, cur non necesse esse sequatur id quod dicimus non necesse esse? Nam si possibilitas sequitur necessitatem, non necesse autem esse possibilitatem, sequi debet necessitatem id quod non necesse praedicamus. Quae hoc modo dissolvitur: non possibile esse quamquam vim habeat necessitatis, differt tamen a necessitate, quod illud affirmativam habet speciem, illud vero negativam. Sic etiam possibile esse et non necesse esse differunt eo tantum, quod illud est affirmativum, illud vero negativum, cum vis significationis eadem sit. Sed necessitatem affirmatio possibilitatis et contingentis sequebatur. Quamquam tamen possibilitatem imitetur eique consentiat id quod dicimus non necesse esse, tamen negatio quaedam est. Recte igitur affirmationem quod est necesse esse non sequitur negatio per quam aliquid non necesse esse proponimus. Et hanc quidem huius solutionem quaestionis Theophrastus vir doctissimus repperit. Nos autem his determinatis ad sequentia proMilanius. Sunt enim, ut ipse ait Aristoteles, in his multae dubitationes. Sed totius textus plenissimum sensum primo ponimus. Quod etsi longum est, tamen ne intercisa videatur esse sententia non grauabor apponere.  NAM SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES, QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR, ƿ UT EIUS QUAE EST ESSE HOMINEM NEGATIO EST NON ESSE HOMINEM, NON, ESSE NON HOMINEM ET EIUS QUAE EST ESSE ALBUM HOMINEM, NON ESSE NON ALBUM HOMINEM SED NON ESSE ALBUM HOMINEM. SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE ESSE NON ALBUM HOMINEM. QUOD SI HOC MODO, ET QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS, QUAE EST AMBULAT HOMO NON, AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERS DICERE HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM AMBULANTEM ESSE. QUARE SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON ƿ AMBULARE ET NON DIVIDI POSSIBILE EST. RATIO AUTEM, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE EST NON SEMPER ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST VISIBILE. AT VERO IMPOSSIBILE DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA NEGATIO. CONTINGIT ENIM EX HIS AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONEA SI ERGO ILLUD IMPOSSIBILIUS, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NON POSSIBILE ESSE. EADEM QUOQUE RATIO EST ET IN EO QUOD EST CONTINGENS ESSE; ETENIM EIUS NEGATIO NON CONTINGENS ESSE. ET IN ALIIS QUOQUE SIMILI MODO, UT NECESSARIO ET IMPOSSIBILI FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM, SIMILITER ƿ AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Haec Aristotele subtiliter discutiente illud oportet agnoscere, quod multum differt ipsius possibilitatis vim naturamque definire vel propriae scientiae qualitate concludere et possibilem enuntiationem qualis esse debeat iudicare. Namque in possibilis cognitione illud solum perspicitur, an id quod dicitur fieri possit nuilo extrinsecus impediente casu. Quod etiamsi accidat, nihil de statu prioris possibilitatis. Ipsius possibilis enuntiationis diiudicatio plurimum differt, quod mox poterit ex ipsa de possibilibus enuntiationibus disputatione cognosci. Nam sicut non est idem hominis definitionem respondere quaerentibus et ipsam definitionem alio termino definitionis includere, ita non idem est de possibili enuntiatione et quid ipsum possibile est tractare. Unde fit ut, cum possibile atque contingens idem in significationibus sit, diversum esse in enuntiatiombus videatur. Supra namque docuimus possibilitatem et contingentiam eiusdem significationis esse, ut quod contingeret fieri idem esset possibile, quod possibile esset idem quoque contingeret. Sed possibilis enuntiatio non est eadem quae contingens. Neque enim si quis possibilem affirmationem proponat eique opponat contingentem negationem, rectam faciet contradictionem. Si quis enim dicat quodlibet illud esse possibile, alius respondeat negans rem illam contingere, licet quantum in significatione est priorem possibilitatem abstulerit, non tamen est dicenda contradictio, ƿ in qua alii termini in negatione, alii in affirmatione enuntiati sunt. Possibilis enim affirmatio de possibilitate negationem, non de contingentia habere debebit. Idem quoque in contingentibus. Neque enim si quis aliquid contingere dixerit, opponenda illi est possibilitatis negatio, licet idem sit possibile quod contingens. Constat igitur diversissimam esse rationem modi per se diiudicandi et enuntiationis, quae cum modo et cum qualitate praedicatur. Unde fit ut quamquam idem in significationibus possibilitas et contingentia sint, quasi diversae ab Aristotele in modorum ordine proponantur. Illud autem ignorandum non est quod Stoicis universalius videatur esse quo distet possibile a necessario. Dividunt enim enuntiationes hoc modo: enuntiationum, inquiunt, aliae sunt possibiles, aliae impossibiles, possibilium aliae sunt necessariae, aliae non necessariae, rursus non necessariarum aliae sunt possibiles, aliae vero impossibiles: stulte atque improvide idem possibile et genus non necessarii et speciem constituentes. Novit autem Aristoteles et id possibile quod non necessarium est et id possibile rursus quod esse necessarium potest. Eodem namque modo non dicitur possibile esse, quod vel ex falsitate in verum transit aliquando vel rursus ex veritate in falsum. Ut si quis dicat nunc, quoniam dies est, verum dixerit, idem si hoc nocte praedicet, falsum est et haec veritas propositionis in falsum est permutata sic ergo quaedam sunt possibilitates, ut eas et esse et non esse contingat, quae non eodem modo dicuntur quemadmodum illae quae mutabilem naturam non habent, ut hae scilicet quas necessarias dicimus. Ut ƿ si quis dicat solem moveri vel solem possibile esse moveri, haec numquam ex veritate in falsitatem mutabitur. Sed nunc de Aristotelis Stoicorumque dissensione tacendum est. Illud tamen solum studiosius perquirendum est, quo loco sit ponenda negatio in his propositionibus, in quibus modus aliqui praedicatur, ut quae dicentur esse possibiles enuntiationes. Possibiles, contingentes et necessariae et quaecumque cum modo sunt propositiones illae veraciter esse dicentur, in quarum significationibus rei de qua prasdicantur subsistendi qualitas invenitur, ut cum dico: Socrates bene loquitur  modus quidam est loquendi Socratem. Ergo sicut in his propositionibus, quaecumque cuiuslibet illius rei subsistentiam promittunt, ad ipsam subsistentiam negatio ponitur (ut cum dicimus "Socrates est", ad esse aptatur negatio, cum negamue "Socrates non est"), ita quoque in his quae modum subsistentiae dicunt ad eum modum ponenda negatio est, qui ad illam subsistentiam videtur adiectus, ut cum dicimus: Socrates bene loquitur  modus ipsius rei est id quod praedicatum est bene: ad hunc igitur modum et qualitatem ponenda negatio est. Possibiles autem propositiones vel contingentes eas esse dicimus, in quibus modus ipse monstratur et potius non esse de modo dicitur sed modus de eo quod est esse. Cum enim dicimus possibile esse, esse quidem quiddam dicimus, quemadmodum autem sit additum est, id est possibile, ut non necessarium neque aliquo alio modo nisi tantum secundum potestatem dicatur. Fit ergo esse ƿ subiectum, praedicatio vero modus vel contingans vel possibilis vel necessarius vel quilibet alius. Atque hae quidem propositiones secundum modum dicuntur, in quibus de substantia nihil ambigitur, de modo autem et qualitate sola tractatur. Sin vero subiciatur quidem modus, praedicetur vero esse, tunc de substantia rei quaeritur non de modo, ut si quis dicat possibile est, ut ipsum possibile in rebus esse pronuntiet, huic propositioni nullus modus adiectus est. Cum enim dicimus possibile esse modum habere, hoc per se ita non dicimus sed particulam propositionis ablatam. Ita enim perspicimus quasi si cum propositione esset iuncta. Quam si cum propria propositione iunxerimus, et quali modo praedicetur apparet. Cum enim dicimus possibile est, ut modum significet, particula propositionis est. Quam si suo corpori adgregemus facientes aliquam propositionem, quid modus ille profiteatur agnoscimus. Age enim id quod dixi possibile est coniungamus aliis praedicamentis atque inde una enuntiatio conficiatur dicamusque Socratem ambulare possibile est. Videsne modum in propositione possibile, ut etiam sive Socrates ambulet sive non ambulet, posse eum tamen ambulare ex ipso propositionis modo quilibet agnoscat? Ita igitur auferentes de toto partem possibilem enuntiationem quasi si tota sit propositio speculamur, ut in his dictionibus fieri solet, quae pluralitatem determinant, ut si dubitemus contra omnis an nullus ponatur an non omnis, ita eas speculemur, quasi si integras propositiones, quas determinationes propositionum ƿ esse manifestum est. Concludenti igitur dicendum est: in his quae modum praedicant omnes aliae res subiectae sunt vel esse vel ambulare vel legere vel dicere vel quicquid aliud cum aliquo modo fieri dicetur, in his autem ubi modus ipse praedicatur, ut integra sit propositio, non enim propositionis, non est cum modo propositio sed ibi tantum de subsistentia modi proponitur. Ut si qui dicat possibile est, quiddam in rebus dicit esse possibile, et rursus contingens est, quiddam in rebus dicit esse quod contingat, et rursus necesse est, esse quiddam dicit in rebus quod sit necesse: hic non de modo sed de solo esse tractatur. Quare quotiens esse quidem subicitur, modus autem praedicatur, ut cum dicimus: Socratem ambulare possibile est  ad modum iungenda negatio est, quotiens vero modus subicitur, esse autem praedicatur, ad esse ponenda negatio est. Ut cum dicimus possibile est, quia ita dicimus tamquam si diceremus possibilitas est, et cum dicimus contingere est, ita dicimus tamquam si diceremus contingentia est, ad esse ponenda negatio est dicendumque possibile non est, quod idem valet tamquam si diceretur possibilitas non est. Eodem quoque modo et de contingentia. Non autem perfecte speculantibus idem semper videri debet subiectum, quod primo loco reperiri dicitur, idem praedicatum semper, quod secundo loco praedicatur. In quibusdam enim verum est, in ƿ aliis vero ex significatione potius propositionum colligimus, qui terminus subiectus sit, qui vero praedicatus. Nam cum dico: Homo animal est  prius mihi necesse est dicere hominem, post praedicare animal atque ideo subiectum dicitur homo, animal vero praedicatur. In his autem in quibus modus additur sic est: cum dicimus: Socrates bene loquitur  idem valet tamquam si dicamus: Socrates bene loquens est  et hic quidem bene prius dictum est, postea vero loquens est et videtur subiectum quidem esse id quod dictum est bene, praedicatum autem id quod dictum loquens est. Sed hoc falsum est. Et hinc facillime poterit inveniri, quod loquentem quidem esse eum nullus ignorat, quisquis audit Socratem bene loquentem esse, vim autem totius propositionis modus continet. In id enim intendendus est animus, non si loquatur. Hoc enim indubitatum est. Nam qui eum bene dicit loqui, loqui quoque consentit. Quare ad modum intendendus est animus, ad id quod dictum est bene. Socrates enim bene loquitur quod dixit, loqui quidem non sufficit dicere, nisi etiam dicat bene. Continet igitur totam propositionem modus. Sed rursus propositionem continet praedicatio: modus igitur in his propositionibus potius praedicatur. Concludendum igitur universaliter est omnem modorum contradictionem non secundum esse verbum fieri nec secundum id rursus verbum quod in se esse contineat sed potius secundum modum. Continere autem in se verba id quod est esse dicuntur, ut cum dicimus loquitur. Tantundem enim valet tamquam si dicamus loquens est. Quare quaecumque propositiones quemlibet illum in se retineant modum, ƿ dubitandum non est quin non ad id quod ponit esse negatio iuste applicetur sed potius ad eum modum quo aliquid esse fierive pronuntietur. Omnis namque cum modo affirmatio talis est, ut non intendere debeat animum auditor ad id quod esse dicitur sed ad id potius quomodo illud esse dicatur. Ut cum dicimus: Socrates bene loquitur  non perspiciendum est an loquatur sed illuc potius animi dirigenda intentio est quemadmodum loquatur. Hoc enim videtur totam continere propositionem. Ergo contra possibile esse non est ea negatio quae dicit possibile non esse sed non possibile esse. Eodem modo et contra eam quae dicit contingere esse non ea quae enuntiat contingere non esse sed potius ea negatio est quae dicit non contingere esse. Idem quoque et in necessariis impossibilibusque modis caeterisque, quae nunc Aristoteles pro solita brevitate transgressus est, faciendum videtur. Sed quoniam commentationis virtus est non solum universaliter vim sensus expromere, verum etiam textus ipsius sermonibus ordinique conectere, ea quae superius confuse dicta sunt nunc per sermonum ipsorum ab Aristotele dictorum ordinem dividamus. HIS VERO DETERMINATIS PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET AFFIRMATIONES AD INVICEM HAE SCILICET QUAE SUNT DE POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON CONTINGERE ET IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO; HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. PERSPICIENDUM, inquit, est de affirmationibus negationibusque, qua ƿ ratione videantur opponi in his propositionibus, quas quidam modus continet, ut in his quae sunt possibiles vel contingentes vel necessariae vel impossibiles vel verae vel falsae vel bene vel male vel quicquid aliqua qualitate praedicatur. HABET ENIM, inquit, ALIQUAS DUBITATIONES et quas dubitationes habeat continuo eas subicit. NAM SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES, QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR. Sensus totus huiusmodi est: in omnibus complexionibus propositionum illa in his oppositio valet, quaecumque secundum esse et non esse fit. Ut cum dicimus: Homo est  huius negatio: Homo non est  sed non ea quae dicit: Non homo est  Et rursus eius quae proponit: Est albus homo  illa negatio est quae dicit: Non est albus homo  non ea quae proponit: Est non albus homo  Hoc ipsum autem, quoniam eius quae dicit: Est albus homo  non est negatio ea quae dicit: Est non albus homo  sed potius ea quae dicit: Non est albus homo  sic demonstrat: SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE ESSE NON ALBUM HOMINEM. Breviter dictum est sed ita posse videtur exponi: propositum, inquit, sit lignum, de quo duae enuntiationes dicantur. Illud tamen nobis manifestum sit de omnibus, si affirmatio vera est, falsam esse negationem, eam scilicet quae contradictorie opponitur, et si vera negatio, falsam affirmationem. Pronuntietur igitur de proposito ligno, quoniam lignum hoc est albus homo. Hoc falsum est. ƿ Si igitur haec affirmatio falsa est, vera debet eius esse negatio. Si igitur ea est negatio affirmationis quae dicit: Est albus homo  ea quae negat dicens: Est non albus homo  haec negatio vere praedicabitur de ligno dicente quolibet quod lignum hoc est non albus homo. Sed hoc fieri non potest. Perspicue enim falsum est lignum esse non album hominem. Quod enim omnino homo non est nec non albus homo esse potest. Falsae igitur utraeque, et affirmatio quae dicit de ligno quoniam est albus homo et negatio de eo quae dicit quoniam est non albus homo. Quod si sunt falsae utraeque, haec negatio illius affirmationis non est. Quaerenda igitur est alia quae cum ea verum dividat atque falsum. Qua in re nulla alia reperietur contra eam quae dicit: Est albus homo  praeter eam quae dicit: Non est albus homo  Nam si ea dicitur esse affirmationis huius quae dicit: Est albus homo  negatio quae enuntiat: Est non albus homo  erit ut de ligno de quo affirmatio dicta falsa est vera sit enuntiata negatio eritque de ligno verum dicere, quoniam lignum hoc est non albus homo sed hoc impossibile est. Constat igitur neque eam propositionem quae dicit: Est non albus homo  illius affirmationis esse negationem quae proponit: Est albus homo  et eam quae dicit: Non est albus homo  negationem esse eiusdem affirmationis quae dicit: Est albus homo  Videsne igitur ut prope in omnibus affirmationes et negationes secundum esse vel non esse fiant? Illa enim album quod esse dixit, illa negat album non esse dicens rursus illa dicit hominem esse, illa vero negat dicens hominem non esse et in caeteris eodem modo est. QUOD SI HOC MODO, ET IN QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS, QUAE EST AMBULAT HOMO, NON EA QUAE EST AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED EA QUAE EST NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERT HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM AMBULANTEM ESSE. Nec hoc solum, inquit, in his evenire potest propositionibus, quae secundum esse vel non esse disponuntur sed etiam in his quaecumque verbis talibus continentur, ut verba illa vim eius quod est esse concludant, ut est: Homo ambulat  ambulat continet in se esse. Idem enim est ambulat quod est ambulans. Ad haec igitur verba quae in propositionibus esse continent aptanda negatio est. Si enim omnis contradictio secundum esse vel non esse fit, haec autem verba esse propria significatione concludunt quoniamque verba haec ita ponuntur tamquam si hoc ipsum esse poneretur, manifestum est ad ea verba quae esse continent negationem poni oportere ad earum similitudinem propositionum, quae secundum esse et non esse supra dicta ratione sibimet opponuntur. His igitur ante praedictis quid inconveniens ex his possit esse persequitur. QUARE SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON AMBULARE ET NON DIVIDI POSSIBILE EST. Superius demonstratum est quemadmodum in his quae complectuntur enuntiationibus secundum esse potius et non esse fierent oppositiones, nunc hoc dicit: si hoc, inquit, in omnibus propositionibus faciendum est, ut earum contradictiones secundum esse et non esse ponantur, et in his quae aliquid possibile esse pronuntiant non ita ponenda negatio est, ut dicat non possibile esse sed potius secundum non esse constituenda est, ut dicatur possibile non esse negationem eius esse quae dicit possibile esse. Sed si hoc dicimus, inquit, affirmatio et negatio contradictoriae verum inter se falsumque non dividunt. Omne enim quod potest esse idem etiam potest non esse. Quod enim potest dividi idem potest non dividi et quod potest ambulare idem potest et non ambulare. Quae autem sit huiusmodi possibilitas, per quam cum dicitur aliquid fieri posse, illud tamen relinquatur posse non fieri, consequenter explanat dicens: RATIO AUTEM EST, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE EST NON SEMPER IN ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST viSIBILE. AT VERO IMPOSSIBILE EST DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA NEGATIO. Causa est igitur, inquit, cur id quod posse esse dicitur idem possit non esse, quod omne quod possibile dicimus ita pronuntiamus, ut non semper in actu sit, id est non sit necessarium. Omne namque quod semper in actu est necessarium est, ut sol semper movetur: itaque illi semper agitur motus. Si quis autem me dicat ambulare posse, quoniam ƿ mihi ambulationis motus non semper agitur et inest mihi aliquotiens non ambulare, inest quoque illud ut vere de me dicatur posse me non ambulare, cum vere pronuntietur posse ambulare. Ergo quaecumque non semper in actu sunt et posse esse et posse non esse recipiunt. Potest igitur et quod est ambulabile, id est quod ambulare potest, non ambulare et quod est visibile non videri. Quocirca docetur non esse negationem eius quae dicit posse esse eam quae proponit posse non esse, idcirco quod utraeque sunt verae in his quae (ut ipse ait) NON SEMPER ACTU sunt. CONTINGIT ENIM unum ex utrisque quae Aristoteles dicit: AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONES, ut aut idem sint affirmatio et negatio sibique consentiant, si secundum esse et non esse in omnibus contradictio fit, ut est in eo quod est posse esse et posse non esse (idem enim utraeque sunt sibique consentiunt et si quis eam dicit contradictionem esse contradictionem sibi consentire dicit), aut certe non in omnibus negationibus secundum esse et non esse ea quae apponuntur fieri affirmationes vel negationes, id est non in omnibus negationibus secundum appositionem esse vel non esse vel eorum verborum quae esse continent fieri contradictionem. SI ERGO ILLUD, INQUIT, IMPOSSIBILIUS EST, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. Duo supra posuerat quae ex supra dictis rationibus evenirent: aut unum et idem ipsum esse ƿ dicere et negare simul de eodem, id est ut dictio et negatio idem essent simul de eodem praedicatae sibique consentirent, aut non secundum esse vel non esse fieri contradictionem. Sed videntur utraque quasi quodammodo inconvenientia esse, quippe cum illud unum etiam impossibile sit, ut affirmatio negatioque consentiant, illud alterum id est non secundum esse et non esse fieri oppositiones inconsentiens sit aliis propositionibus, in quibus hoc modo contradictionem fieri manifestum est. Nunc ergo hoc dicit: quoniam utrumque, inquit, inconveniens est, unum autem ex his erit eligendum, quod minus est impossibile, hoc sumendum est. Minus autem est impossibile, ut secundum esse et non esse non fiant oppositiones. Hoc enim nihil prohibet, illud autem impossibilius, ut affirmatio negatioque consentiant. Hoc igitur erit eligendum potms: has quae cum modo sunt propositiones non eas habere oppositiones, quae secundum esse et non esse fiunt sed potius eas quae ad modum ponuntur. Non autem ita dixit impossibilius est, tamquam si altera impossibilis sit sed ad hoc potius rettulit quod utraeque quasi inconvenientes videntur, quarum unam etiam impossibilem esse non dubium est. Hinc quoque disponit secundum modum aliquem pronuntiatarum propositionum quae esse negationes ponuntur. Dicit enim: EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE EA QUAE EST NON POSSIBILE ESSE, negationem scilicet ƿ addens non ad esse verbum sed ad modum quod est possibile. Eandem quoque rationem dicit esse et in contingentibus. Eius enim quae est contingere esse negatio est non contingere esse. Docet etiam de necessario et impossibili sibi idem videri. Quae autem natura huius oppositionis sit, licet breviter, veracissime tamen expressa est, de qua nos superius diutius locuti sumus. Quod si quis perspicacius intendit, illius intellegentiam loci cum hac gradatim proficiscente expositione communicat. FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM, SIMILITER AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Appositiones vocat praedicationes. Dicit ergo in his propositionibus, quae praeter aliquem modum dicuntur, praedicantur quidem semper ess e et non es se vel ea verba quae esse continent, subiciuntur vero res de quibus illa praedicantur, ut album, cum dicimus album est, vel homo, cum dicimus homo est. Atque ideo quoniam in his praedicatio totam continet propositionem veritatemque et falsitatem praedicatio illa determinat, praedicatur autem esse vel quicquid esse continet, iure secundum esse et non esse contradictiones ponuntur. In his autem, id est in quibus modus aliqui praedicatur, esse quidem subiectum est vel ea verba quae esse continent, modus autem solus quodammodo praedicatur. ƿ Nam quod dicitur esse solum sine modo aliquo ipsius rei substantia pronuntiatur et quaeritur in eo quodammodo an sit: idcirco esse ponente affirmatione dicit negatio non esse. In his autem in quibus modus aliquis est non dicitur aliquid esse sed cum qualitate quadam esse, ut esse quidem nec affirmatio ambigat nec negatio, de qualitate autem, id est quomodo sit tunc inter aliquos dubitatur. Atque ideo ponente aliquo, quoniam Socrates bene loquitur, non ponitur negatio, quoniam bene non loquitur sed quoniam non bene loquitur, idcirco quoniam (ut dictum est) non ad esse vel ad ea verba quae es se continent propositio nem totam conficiunt sed potius ad modum intenditur animus audientis, cum affirmatio aliquid esse pronuntiat. Si igitur haec continent totius propositionis vim quod autem propositionis vim continet praedicatur et secundum id quod praedicatur semper oppositiones fiunt, recte solis modis vis negationis apponitur. His autem rationabiliter constitutis illud rursus exsequitur quod non modo contradictio non est posse esse et posse non esse, verum etiam huiusmodi propositiones, quae cum modis positae, negationem tamen habent ad esse coniunctam, omnino negationes non sunt sed affirmationes. Possunt enim earum negationes aliae reperiri. Ait enim: EIUS VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE NEGATIO EST NON POSSIBILE NON ESSE. In tantum inquit, non est ulla contradictio eius quae est posse esse et eius quae est posse non esse, ut ea quae dicit ƿ posse non esse non esse negatio sed potius affirmatio conuincatur. Affirmatio autem affirmationi numquam contradictorie opponitur. Docetur autem esse affirmatio ea quae dicit posse non esse, quod eius alia quaedam negatio reperitur, ea scilicet quae dicit non posse non esse. Simulque illud adiungit: cum sint, inquit, huius propositionis quae dicit aliquid posse esse duae quae videantur esse negationes, ea scilicet quae dicit posse non esse et ea quae proponit non posse esse, hinc agnoscitur quae harum sit contradictoria contra eam quae dicit posse esse affirmationem: quae enim verum falsumque cum ea dividit, ipsa eius potius potest esse quam ea quae illi consentit. Ei autem quae est posse esse consentit ea quae dicit posse non esse, ut supra iam docui: ea quae dicit non posse esse si falsa est, vera est ea quae dicit posse esse, haec rursus si falsa est, vera est illa quae enuntiat non posse esse. Dividunt igitur hae veritatem falsitatemque, quod in singulis exemplis facillime poterit inveniri. Age enim dicat quis posse me ambulare, ille verum dixerit, si quis vero dicat non posse me ambulare, mentitus est. Rursus si quis dicat posse solem consistere, mentitur, si quis vero dicat non posse solem consistere, de ipsius nullus ambigit veritate. Dividunt igitur veritatem falsitatemque hae scilicet quae dicunt posse esse et non posse esse, illae vero se sequuntur quae dicunt posse esse et posse non esse. Quae igitur consentiunt, contradictiones non sunt, quae autem veritatem inter se falsitatemque dividunt, ipsas contradictiones magis esse ƿ putandum est. Quod per hoc ait: QUARE ET SEQUI SESE INVICEM VIDEBUNTUR  Quae autem propositiones sese sequantur dicit:  IDEM ENIM POSSIBILE EST ESSE ET NON ESSE  Cur autem sese sequantur monstrat adiciens:  NON ENIM CONTRADICTIONES SIBI INVICEM SUNT  Si enim contradictiones essent, numquam sese sequerentur. Sed quae sint contradictiones declarat dicens: SED POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT  Cur autem numquam simul sint, non tacuit. Ait namque: OPPONUNTUR ENIM. Nam idcirco numquam simul sunt et veritatem falsitatemque dividunt, quoniam opponuntur. Docet quoque eius propositionis quae dicit posse non esse illam esse negationem quae proponit non posse non esse. Ex eadem vi ad propositionem transit. Dicit enim: AT VERO POSSIBILE NON ESSE ET NON POSSIBILE NON ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT,  per quod ostenditur illam esse affirmationem, illam vero negationem. Universaliter enim quaecumque idem de eodem haec ponit, haec aufert, si illa sit affirmatio, illa negatio et nihil aequivocationis aut universalium determinationis impediat, contradictorie sibimet opponuntur.  Caetera iam ita ut ait per se expedita sunt, ut longa expositione non egeant, nisi quaedam in eorum ordine permiscenda sunt, quae id quod per se est lucidum clarius monstrent. Persequitur enim similiter caeteros modos dicens quae propositiones quarum affirmationum non sint negationes et quae sint ƿ et eas, quas negationes non esse dicit, ut affirmationes esse demonstret, alias negationes opponit. SIMILITER AUTEM, inquit, ET EIUS propositionis QUAE EST NECESSARIUM ESSE NON est ea negatio quae dicit NECESSARIUM NON ESSE (haec enim affirmatio est, sicut mox negatione opposita comprobavit) SED POTIUS ea negatio est eius quae est necessarium esse quae dicit NON NECESSARIUM ESSE. Eodem quoque modo cuncta persequitur dicens: EIUS VERO QUAE EST NECESSARIUM NON ESSE, quam supra dixerat non esse oppositam ei quae dicit necessarium esse, illa negatio est quae proponit NON NECESSARIUM NON ESSE. Quaecumque enim negationem ad esse positam habent, illas si cum modo sint affirmationes esse putandas. EIUS VERO QUAE EST IMPOSSIBILE ESSE, NON est ea negatio quae dicit IMPOSSIBILE NON ESSE (non enim ad modum habet negativam particulam iunctam) SED potius ea quae dicit NON IMPOSSIBILE ESSE. Hae namque inter se verum falsumque dividunt. Illius vero quae ad esse habet negativam particulam, quam affirmationem esse manifestum est, id est eius quae dicit IMPOSSIBILE NON ESSE, ea negatio est quae dicit NON IMPOSSIBILE NON ESSE. Concludit etiam breviter id quod superius demonstravit dicens: ET UNIVERSALITER VERO (QUEMADMODUM DICTUM, EST) ESSE ƿ QUIDEM ET NON ESSE OPORTET PONERE QUEMADMODUM SUBIECTA, NEGATIONEM VERO ET AFFIRMATIONEM HAEC FACIENTEM AD UNUM APPONERE ET HAS PUTARE OPORTET ESSE OPPOSITAS DICTIONES. Universaliter, inquit, dicimus, sicut supra iam dictum est, in his propositionibus quae modos additos habent esse et non esse subiecta potius fieri, modos vero praedicari atque ideo ad unum quemlibet modum, id est secundum unum, fieri debere affirmationem semper et negationem, ut sicut affirmationem praedicatus modus continet, ita negativa particula ad modum iuncta totam contineat negationem. Proponit autem eas quas putat esse oppositas dictiones hoc modo: Possibile Non possibile Contingens Non contingens Impossibile Non impossibile Necessarium Non necessarium  Quod autem addidit VERUM NON VERUM, ad hoc pertinet ut omnes modos includeret. Vere enim modus quidam est, sicut et bene, sicut velociter, sicut laete, sicut graviter, et quicumque modi sunt, hoc modo facienda est contradictio: verum est, non verum est non autem non est verum, velociter ambulare, non velociter ambulare sed non illa quae dicit velociter non ambulare. Concludenti igitur semper ad modum inugenda negatio est. Illae enim semper sibimet opponuntur, ut supra iam dictum est, quae secundum praedicationes habent negativas particulas iunctas. Praedicantur autem in his modi, ut supra iam monstravimus. ƿ Secundum modos igitur in his negatio posita integram vim contradictionis efficiet. Expeditis modorum oppositionibus de consequentia propositionum atque consensu habebitur subtilis utilisque tractatus. Si igitur possibile esse simpliciter diceretur, simplex et facilis propositionum videretur esse consensus nec quicquam in earum consequentia posset errari: nunc autem quoniam dupliciter dicitur, secundum diversos modos non eaedem propositionum sunt consequentiae. Quod autem dico tale est. Possibilis duae sunt partes: unum quod cum non sit esse potest, alterum quod ideo praedicatur esse possibile, quia iam est quidem. Prior pars corruptibilibus et permutabilibus propria est. In mortalibus enim Socrates potest esse cum non fuit, sicut ipsi quoque mortales, qui sunt id quod antea non fuerant. Potest enim homo cum non loquitur loqui et cum non ambulat ambulare. Ergo haec pars secundum id dicitur quod non quidem iam est, esse tamen potest. Illa vero alia pars possibilis quae secundum id dicitur, quod iam est aliquid actu, non potestate, utrisque se naturis accommodat, et sempiternis scilicet et mortalibus. Nam quod in sempiternis est esse possibile est, rursus quod est in mortalibus nec hoc a subsistendi possibilitate discedit sed tantum differt, quia id quod in aeternis est nullo modo permutatur et semper esse necesse est, illud vero quod in rebus mortalibus invenitur poterit et non esse et ut sit non est necesse. Ego namque cum scribo inest mihi scribere, quocirca et scribere ƿ mihi possibile est sed quoniam sum ipse mortalis, non est haec potestas scribendi necessaria: neque enim ex necessitate scribo. At vero cum caelo dicimus inesse motum, nulla dubitatio est quin necesse sit caelum moveri. In mortalibus igitur rebus cum est aliquid et esse potest et ut sit non est necesse, in sempiternis autem quod est necesse est esse et quia est esse possibile est. Cum igitur principaliter possibilis duae sint partes: una quae secundum id dicitur quod cum non sit esse tamen potest, altera quae secundum id praedicatur quod iam est aliquid actu non solum potestate, huiusmodi possibile quod iam sit actu duas ex se species profert: unam quae cum sit non est necessaria, alteram quae cum sit illud quoque habet ut eam esse necesse sit. Nec hoc solius Aristotelis subtilitas deprehendit, verum Diodorus quoque possibile ita definit: quod est aut erit. Unde Aristoteles id quod Diodorus ait erit illud possibile putat quod cum non sit fieri tamen potest, quod autem dixit Diodorus est id possibile Aristoteles interpretatur quod idcirco dicitur esse possibile, quia iam actu est. Cuius possibilitatis modi duas partes esse docuimus: unam quam necessariam dicimus, alteram quam non necessariam praedicamus. Huius autem non necessariae duae rursus partes sunt: una quae a potestate pervenit ad actum, altera quae semper actu fuit, a quando res illa quae susceptibilis ipsius est fuit. Et illa quidem quae a possibilitate ad actum venit utriusque partis contradictionis susceptibilis est, ut nunc ego qui scribo ex potestate ad actum veni et agens possum scribere. ƿ Ante enim quam scriberem erat mihi scribendi potentia sed ex potestate scribendi veni ad actum scribendi. Quare utraque mihi conveniunt et non scribere et scribere. Possum enim et non scribere, possum et scribere, quae est quodammodo contradictio. Atque ideo quaecumque ex potestate ad actum renerunt, ea et facere possum et non facere et esse et non esse, ut qui loquitur, quia antea potuit loqui quam loqueretur et nunc ideo potest loqui quia loquitur, et potest loqui et potest non loqui. Alia vero quae numquam ante potestate fuit sed semper actu, a quando res ipsa fuit quae aliquid potestate esse diceretur, ad unam rem tantum apta est, ut ignis numquam fuit potestate calidus, ut postea actu calidus sentiretur, nec nix ante frigida potestate, post actu sed a quando fuit ignis actu calidus fuit, a quando nix actu frigida. Quocirca hae potentiae non sunt aptae ad utraque. Neque enim ignis frigus incutere nec nix calidum quicquam possit efficere. Quare facienda a principio huiusmodi divisio: possibilis alia pars est quae cum non sit esse tamen potest, alia vero quae actu est et ideo possibilis dicitur. Si enim non posset, nec esset omnino. Huius autem possibilitatis quae secundum illum dicitur modum, quod iam est actu, duae partes sunt: una secundum id quod ex necessitate esse dicimus, altera secundum id quod cum sit non tamen esse ex necessitate ƿ aliquid arbitramur. Huius autem non necessariae possibilitatis duae sunt aliae partes: una quae quoniam ex potestate ad actum venit et esse et non esse recipiet facultatem, altera quae quia numquam actum habere destitit, a quando fuit id quod dicitur ei esse possibile, ad unam tantum partem apta est atque possibilis, eam scilicet quam actus semper exercuit, ut igni calor vel nivi frigus vel adamanti durities vel aquae liquor. Sed nullus arbitretur ex necessariae possibilitatis specie esse id quod dicimus numquam potestate fuisse actus quosdam in quibusdam rebus, ut igni calorem. Ipse enim ignis exstingui potest. In illis autem quae necessaria sunt non modo qualitas a subiecta re discedere numquam debet, quod videtur etiam in igni, a quo sua caloris qualitas non recedit sed etiam illud quod subiecta illa substantia immortalis esse videatur, quod igni non accidit. Solem enim et caetera mundi huius corpora quae superna sunt et caelestia immortalia Peripatetica disciplina putat atque ideo consentienter sibi dicit solem necessario moveri, quod non modo a sole motus ille numquam recedit sed ne sol ipse esse quidem desinet. His igitur praedictis id ad quod haec praemissa sunt id est consequentia propositionum diligentius exsequenda est. ET CONSEQUENTIAE VERO SECUNDUM ORDINEM FIUNT ITA PONENTIBUS: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET NON IMPOSSIBILE ESSE ET NON NECESSARIUM ESSE; ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE; ILLI VERO QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE ILLA QUAE EST NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE; ILLI VERO QUAE EST NON POSSIBILE NON ESSE ET NON CONTINGENS NON ESSE ILLA QUAE EST NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON ESSE. CONSIDERETUR AUTEM EX SUBSCRIPTIONE QUEMADMODUM DICIMUS. Haec Aristoteles consentienter his quae nos supra praemisimus addidit de consequentia propositionum. Quae etsi manifesta sunt acute perspicientibus, tamen ne nos nihil huic quoque loco addidisse videamur brevissima ea expositione percurrimus. Primum voluit demonstrare, quoniam quaecumque de possibili dicerentur eadem etiam de contingenti dici veracissime possint atque ideo ait: ILLI QUAE EST POSSIBILE ESSE consequentem esse illam quae dicit aliquid contingere. Et ne in his aliquid discrepans videretur, adiecit dicens: ET HOC ILLI CONVERTITUR, ut intellegeremus quod esset possibile hoc contingere et quod contingeret illud esse possibile. Quare quae sibi convertuntur, ea aequalia sunt atque eadem. Quicquid igitur in possibili dici potest, idem in contingenti praedicatur. Haec ergo, id est possibile atque contingens, sequi dixit illas propositiones quae dicerent non impossibile esse et eas quae necessarium negant id est non necesse esse aliquid ƿ praedicant. Ait enim: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET EA QUAE EST NON IMPOSSIBILE ESSE ET NON NECESSARIUM ESSE, tamquam si hoc diceret: et possibile est sequitur contingentia et haec utraque sibi convertuntur sed has sequitur non impossibile esse et non necessarium esse. Hoc quam recte dictum sit neminem latet. Nam quod est possibile esse atque esse contingit, ut sit impossibile non est. Nam si esset impossibile, non diceretur posse esse, quod ut non esset ratio impossibilitatis adstringeret. Ergo id quod potest esse non est impossibile esse. Similiter non est necesse esse id quod posse esse dicitur. Hoc autem idcirco evenit, quia id quod possibile praedicamus ad utramque partem facile vertitur. Nam et ut sit fieri potest et ut non sit. At vero necessitas et impossibilitas in alterutra parte constringitur. Nam quod impossibile est esse numquam potest. Porro autem quod necesse est non esse numquam potest. Ergo id quod negamus impossibile esse consentire facimus possibilitati. Id autem quod negamus necessarium rursus eidem naturae vim possibilitatis adinugimus [ut sit hoc modo dicendum] et ut verius loquamur, ita dicendum est: quod possibile est et esse poterit et non esse, rursus quod impossibile est esse non potest, quod necesse est non esse non potest. Ergo si impossibilem enuntiationem negationis adiectione frangamus dicentes non impossibile esse, illi partem possibilitatis ƿ adiungimus in qua esse posse aliquid dicitur, sin vero necessariae propositionis rigorem negatione minuamus dicentes non necesse esse, illud evenit ut ad eam partem necessariam propositionem applicemus, quae in possibilitate est, ut possit non esse. Quare possibilitatem sequitur non esse impossibile, idcirco quia quod possibile est fieri potest. Eandem rursus possibilitatem sequitur propositio quae dicit non necesse esse, idcirco quia quod possibile est poterit et non esse. Aliter idem dicimus: quod possibile est non est verum dicere, quoniam impossibile est, quia fieri potest rursus quod possibile est non est verum dicere, quoniam necesse est esse. Potest enim quod possibile est esse idem non esse. Quare si de possibilitate impossibilitas et necessitas recte dici non potest, eorum negationes possibilitati consentient, quae sunt non impossibile esse et non necessarium esse. Sed meminisse debemus eandem semper in omnibus de contingenti et de possibili esse rationem, de eo scilicet possibili quod cum adhuc non sit poterit tamen esse aut non esse. Aliam rursus consequentiam dicit hoc modo: ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE. Propter eandem causam has quoque esse consequential dixit. Illi enim quae est possibile non esse et ei quae est contingere non esse illam consentire ait quae dicat non necesse esse non esse et non impossibile esse non esse. Hoc autem ideo quia quod potest non esse potest et esse et rursus quod contingit non esse contingit et esse. At vero quod necesse est non esse illud non potest esse, quod autem impossibile est non esse illud non esse nou poterit. Quare a possibili utraeque discrepant. Nam quia possibilitas posse esse aliquid promittit, contrarium sentit ea quae dicit necesse esse non esse. Rursus quia possibilitas habet in se vim, ut id quod potest esse possit et non esse, dissentit ab ea multumque discrepat quae dicit impossibile esse non esse. Quod si propositio quae praedicat necesse esse non esse et rursus quae dicit impossibile es se non esse a possibilitate dissentiunt, recte nimirum harum negationes possibilitati consentire creduntur. Possibiles autem propositiones voco huiusmodi quae vel in affirmatione vel in negatione possibilitatem aliquam monstrant altera parte non interclusa, ut quae dicit possibile esse aliquid esse ab hac non intercluditur ea per quam dici poterit possibile esse non esse vel si quis dicat possibile aliquid non esse, ab hac rursus non interclusum est, ut esse possit atque ideo affirmationem quae praedicat posse esse possibilem voco nec minus eam quae dicit aliquid posse non esse. Et in istis propositionibus quas Aristoteles ponit, in quibus dicit possibile non esse, non videatur ita dicere tamquam si hoc modo pronuntiet, ut velit intendere aliquid impossibile esse cum dicit possibile non esse. Ita enim hanc propositionem dicit non quo possibilitatem illam auferat sed quo dicat possibile esse aliquid ut non sit. Subaudiendum enim est adiungendumque ad possibile verbum quod est esse, ut cum ƿ ille dicit possibile non esse nos intellegamus possibile esse non esse, id est possibile esse ut non sit. Tertiam consequentiam ponit hanc in qua consentire dicit ILLI QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE illam quae dicit NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE. Hoc ita plenum est ut expositione non egeat. Quod enim non possibile est hoc fieri non potest, quod fieri non potest necesse est ut non sit, quod autem necesse est ut non sit ut sit impossibile est. Recte igitur dicitur eam propositionem quae dicit aliquid non posse esse et eam quae dicit non contingere esse consequi illas quae esse cum necesse est negant et quae impossibilitatem affirmant [non est contingens scilicet esse et non necessarium esse]. Reliquam consequentiam, in qua eas propositiones quae dicerent NON POSSIBILE ESSE aliquid NON ESSE ET NON CONTINGERE NON ESSE illas quae proponerent NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON ESSE, neque ullam habet obscuritatem. Nam quod non est possibile ut non sit hoc impossibile est ut non sit. Id quod enim dicimus impossibile esse idem valet tamquam si dicamus non possibile esse. Quod enim facit negatio in ea interpretatione in qua dicimus non possibile, idem facit privatio in ea in qua dicimus impossibile. Quod autem impossibile est non esse late patet, quia necesse est esse. Ergo et quod non est possibile ut non sit manifestum est quoniam esse necesse est. Idem quoque ƿ et de contingenti dicendum est. Describit autem eas hoc modo, ut non solum mente et ratione capiantur verum etiam subiectae oculis faciliores intellectu sint. Nos autem, ut sit lucidior explanatio, de his duos facimus ordines. Et in primo quidem eas proposuimus quae praecedunt, in secundo vero eas quae sequuntur, ut sit multa facultas vel per se earum rationes non intellegentibus, ad descriptionem tamen respicientibus, quae quam sequatur agnoscere. PRAECEDENTES: SEQUENTES: Possibile esse Non impossibile esse Contingens esse Non necesse esse Possibile non esse Non necessarium non esse Contingens non esse Non impossibile non esse Non possibile esse Necessarium non esse Non contingens esse Impossibile esse Non possibile non esse Necesse esse Non contingens non esse Impossibile non esse  Hac igitur descriptione facta, quid Aristoteles communiter de propositionibus universaliterque tractaverit, nulli sollertius intuenti videtur ambiguum. Caetera vero quae singillatim de eorum consequentiis disputavit, quoniam defetigari lectores nolumus, sextum volumen expediet.  Sextus hic liber longae commentationi terminum ponit, quae quodam magno labore constiterit ac temporis mora. Nam et plurimorum sunt in unum coaceruatae sententiae et duorum ferme annorum spatium continuo commentandi sudore consumpsimus. Neque ego arbitror quibusdam sinistre interpretantibus gloriose factum videri, ut quod dici breviter posset id nos ostentatione doctrinae non ad lectorum scientiam potius quam prolixitate ad fastidium tenderemus. Quibus responsum velim non haec tam mendaciter esse sensuros, si prioris commenti perlegerent brevitatem. Nam neque brevius explicari potuit angustissimorum obscuritas impedita sermonum et quam multa ad plenam libri huius intellegentiam desint agnoscitur. Quid autem utrumque opus legentibus utilitatis exhibeat, hinc facillime mihi videtur posse perpendi, quod cum hanc secundam editioneni in manus quisquam primum sumpserit rerum ipsarum spatiosa varietate confunditur, ut qui in maioribus intendere mentem nequit editionis primae brevitatem simplicitatemque desideret. Quod si quis ad prioris editionis duos libros rector accesserit, sumpsisse sibi ad scientiam quiddam fortasse videbitur sed cum postremo hanc secundam cognoverit editionem, quam multa in prima ignorarit agnoscit. Nec homines a legendo longum opus labore deterreat, cum nos non impedierit ad scribendum. Sed ne ipsum quoque prooemium tendi longius videatur, ad Aristotelis seriem et ad ea quae de consequentia propositionum diligenter exsequitur reuertamur. Ea quae communiter universaliterque de propositionibus omnibus et de earum ad se inuicem consequentiis speculanda fuerant in superiori propositionum ipsarum descriptione disposuit nunc vero quae singillatim singulis accidunt diligentissimo tractatu persequitur. Ait enim ita: ERGO IMPOSSIBILE ET NON IMPOSSIBILE ILLUD QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR QUIDEM CONTRADICTORIE SED CONVERSIM; ILLUD ENIM QUOD EST POSSIBILE ESSE NEGATIO IMPOSSIBILIS, NEGATIONEM VERO AFFIRMATIO; ILLUD ENIM QUOD EST NON POSSIBILE ESSE ILLUD QUOD EST IMPOSSIBILE ESSE; AFFIRMATIO ENIM EST IMPOSSIBILE ESSE, NON IMPOSSIBILE VERO NEGATIO. Consequentia propositionum (ut superior descriptio docet) secundum possibile et necessarium facta est. Quam rem illa quoque secuta est, ut et de contingentibus ƿ et impossibilibus propositionibus consequentiisque diceretur. Nam cum contingens recto modo possibili consentiat, impossibile converso ordine necessarium est, ut paulo post docebimus. Speculatur ergo de possibili contingenti et impossibili, quemadmodum ad se inuicem vel quas habeant consequentias idque constituit hoc modo dicens: impossibile et non impossi bile sequuntur quidem possibile et non possibile contradictorie quidem sed conversim. Hoc autem huiusmodi est: scimus affirmationem privatoriam esse eam quae dicit impossibile esse, huius vero negationem non impossibile esse, rursus affirmationem possibilem eam quae dicit possibile esse, huius negationem quae proponit non possibile esse. Sequitur ergo affirmationem possibilem negatio impossibilitatis. Nam quod possibile est idem est non impossibile. Alioquin si ea quae dicit non impossibile est non sequitur possibilitatem, sequitur eius affirmatio, id est impossibile esse. Erit ergo quod possibile est impossibile, quod fieri non potest. Quod si impossibilitas possibilitatem non sequitur, non impossibile esse sequitur possibilitatem. At vero negationem possibilitatis sequitur affirmatio impossibilitatis. Nam quod non possibile est impossibile est. Eandem enim vim optinet negatio in propositionibus quam etiam privatio. Et de contingenti eodem modo. Nam quod contingens est illud est non impossibile. Nam si contingens et possibile se sequuntur, possibile vero et non impossibile consentiunt, contingens et non impossibile idem designant. Rursus non contingens ƿ et impossibile idem videri poterit perspicienti, quod non contingens quidem et non possibile idem sentiunt. Sed non possibile impossibilitati consentit. Quocirca et non contingens quoque impossibile aliquid esse denuntiat. Fit ergo ut affirmatio impossibilitatis contradictionem possibilitatis sequatur sed non ut affirmatio affirmationem, nec ut negatio negationem sed conversim, id est ut affirmatio negationi, negatio vero affirmationi consentiat. Affirmationem namque quae est possibile es se sequitur negatio impossibilis quae dicit non impossibile esse, negationem vero possibilitatis quae est non possibile esse sequitur impossibilitatis affirmatio quae proponit impossibile esse. Idem quoque et de contingenti dicendum est. Affirmationem namque contingentis sequitur negatio impossibilitatis, negationem vero contingentis sequitur affirmatio impossibilitatis. Omnino enim quicquid de possibilitate proponitur idem de contingentibus iudicatur. Disponantur ergo hoc modo: primum quidem affirmatio impossibilis, contra eam negatio impossibilis, et sub affirmatione impossibili ponantur ex contingentibus et possibilibus, quas ipsa sequitur impossibilitas, sub negatione vero impossibilitatis illae possibilis et contingentis propositiones, quibus ipsa impossibilitatis negatio consentit, hoc modo: ƿ AFFIRMATIO CONTRADICTIO NEGATIO Impossibile esse Non impossibile esse NEGATIO CONTRADICTIO AFFIRMATIO Non possibile esse Possibile esse Non contingens esse Contingens esse  Patet ergo ut contradictiones quidem aliis contradictionibus consentiant. Qua in re illud quoque manifestum est, quod affirmationes negationibus, negationes vero affirmationibus consentiunt. Seusus ergo totus talis est, sermonum vero ratio haec est: IMPOSSIBILE, inquit, ET NON IMPOSSIBILE scilicet quod est contradictio duas contradictiones id est ILLUD QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR QUIDEM CONTRADICTORIE (nam una contradictio impossibilis duas sequitur contradictiones, id est contingens et non contingens, possibile et non possibile) sed quamquam contradictionem sequatur alia contradictio, CONVERSIM tamen sibi consentiunt. Nam QUOD EST POSSIBILE ESSE SEQUITUR NEGATIO IMPOSSIBILIA, ut superior descriptio docet, NEGATIONEM VERO possibilis AFFIRMATIO scilicet impossibilis. Nam quod est non possibile consentit ei quod est impossibile. Est autem affirmatio impossibilis ea quae dicit impossibile esse. Et quamquam inuoluta sit sermonum ratio, tamen si quis secundum superiorem expositionem ad ipsius Aristotelis sermones superiores ƿ redeat et quod illis deest ex nostra expositione compenset, sensus planissimus a ratione non denat. NECESSARIUM VERO QUEMADMODUM, CONSIDERANDUM EST. MANIFESTUM QUONIAM NON EODEM MODO SED CONTRARIAE SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE AUTEM EXTRA. NON ENIM EST NEGATIO EIUS, QUOD EST NECESSE NON ESSE, NON NECESSE ESSE, CONTINGIT ENIM VERAS ESSE IN EODEM UTRASQUE; QUOD ENIM EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST NECESSARIUM ESSE. Impossibilis atque possibilis dudum comparatione didicimus, quod affirmationem possibilem impossibilis negatio sequeretur, rursus negationi possibilis impossibilis affirmatio consentiret. Quaerens ergo nunc, quemadmodum possibilium et necessariarum propositionum fiat consequentia, dicit non eodem modo in his evenire quemadmodum in illis evenit quae ex possibilis et impossibilis comparationibus nascebantur. In illis enim contradictiones oppositae contradictiones rursus oppositas sequebantur, ut affirmationem negatio, negationem affirmatio sequeretur. In his autem hoc est in necessariis et possibilibus non eodem modo est sed contrariae quidem sequuntur, contradictoriae vero et oppositae extra sunt et non sequuntur. Et prius quidem quae sint contrariae, quae contradictoriae disponamus. Propositionis enim quae dicit necesse esse ea quae proponit non necesse esse contradictoria est, ea ƿ vero quae dicit necesse esse non esse contraria: ut si quis dicat solem necesse esse moveri, huic est opposita contradictorie solem non necesse esse moveri, contraria vero solem necesse esse non moveri. Possibilem igitur propositionem sequitur contradictio necessarii, contradictionem vero possibilis non sequitur necessitas (quod eveniret si in his sese oppositae sequerentur) sed potius ea quae est contraria necessitati. Age enim propositioni quae dicit possibile esse videamus quae ex necessariis consentiat. Illa quidem quae dicit necesse esse non ei poterit consentire. Quod enim possibile est esse potest et non esse, quod autem esse necesse est non esse non poterit. Ergo si possibilitatem necessitas non sequitur, sequitur eam necessitatis contradictio. Non sequitur ergo propositionem eam quae dicit possibile esse ea scilicet quae proponit necesse esse: sequitur ergo propositionem possibilem contradictio necessitatis quae proponit non necesse esse. Sed contradictioni possibilis necessitas non consentit. Neque enim dicere possumus, quoniam eam propositionem quae dicit non possibile esse sequatur ea quae proponit necesse esse sed potius contraria necessariae illa quae dicit necesse esse non esse. Nam cum non possibile est, necesse est non esse. Disponantur enim hae scilicet quae se sequuntur et sub his necessaria et quae sit contradictio, quae contrarietas adscribatur. ƿ Possibile Non possibile Non necesse esse Necesse esse non esse CONTRADICTIO CONTRARIETAS Necesse esse  Nulli ergo dubium est quin affirmationem possibilis sequatur necessarii negatio, negationem vero possibilis necessarium non sequatur sed potius contrarietas necessarii. Nam cum possibile esse sequatur contradictio necessitatis, quod est non necesse est, contradictionem possibilis quae dicit non possibile esse non sequitur necessitas ipsa sed potius contraria ea scilicet quae proponit necesse esse non esse. Sensus ergo huiusmodi est, talis vero est ordo sermonum: NECESSARIUM VERO, inquit, QUEMADMODUM id est quas habeat consequentias, CONSIDERANDUM EST. Primo quidem definit dicens: MANIFESTUM EST QUONIAM NON EODEM MODO, quo loco subaudiendum est: quemadmodum in his quae sunt possibiles et impossibiles SED CONTRARIAE SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE VERO EXTRA sunt et non sequuntur. Namque contradictionem possibilis necessarii non contradictio sed (ut supra docuimus) contrarietas sequebatur. Non enim contradictio contradictioni in hac necessarii consequentia consentiebat. Sequebatur namque possibilitatem illud quod est non necessarium, non possibile autem sequebatur ea propositio quae diceret necesse esse non esse, non autem necesse esse. Sed rursus necesse esse non esse et non necesse esse non sunt contradictiones sed non necesse esse quidem negatio necessarii est, illa vero quae dicit necesse esse non esse contraria necessarii. Contra se autem non sunt contradictoriae. Possunt enim in uno eodemque simul inveniri. Quod per hoc ait quod dixit:CONTINGIT ENIM VERAS ESSE IN EODEM UTRASQUE. NAM QUOD EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST NECESSARIUM ESSE ut quoniam necesse est hominem quadrupedem non esse, non necesse est esse hominem quadrupedem. Nam si hoc falsum est, necesse erit hominem esse quadrupedem, cum necesse sit non esse. Quocirca manifestum est, quoniam simul aliquando inveniri possunt non necesse esse et rursus necesse esse non esse propositiones. Quae cum ita sint, contradictiones non sunt. Causam vero reddens cur, cum secundum possibilis comparationem ad contradictiones sit reddita consequentia, non eodem modo in necessariis potuerit evenire, sic dicit: CAUSA AUTEM CUR NON CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO REDDITUR IDEM VALENS. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE SED NON ESSE; SI VERO IMPOSSIBILE NON ESSE, HOC NECESSARIUM EST ESSE. QUARE SI ILLA SIMILITER ƿ POSSIBILE ET NON, HAEC E CONTRARIO: NAM IDEM SIGNIFICAT NECESSARIUM ET IMPOSSIBILE SED (QUEMADMODUM DICTUM EST) CONTRARIE. Causa est, inquit, cur consequentia in necessariis ita reddatur, quod necessarium semper impossibili contraria ratione consentit. Nam quod impossibile est esse hoc necesse est non esse, et rursus quod necesse est esse hoc impossibile est non esse. Fit igitur contrarietas quaedam. Nam cum impossibilitas esse habet, necessitas non esse, et cum necessitas esse, impossibilitas non esse. Ergo idem valet impossibilitas et necessitas non eodem modo reddita sed si necessitas secundum esse, impossibilitas secundum non esse, et si impossibilitas secundum esse, secundum non esse necessitas. Quare idcirco evenit ista contrario modo consensio. Nam ubi est impossibile esse, ibi est necesse non esse sed impossibile esse et non possibile esse consentiunt: igitur non possibile esse et necesse non esse consentiunt. Nulli ergo dubium est idcirco necesse esse non esse sequi possibilis negationem, quoniam impossibilitas quae sequitur possibilis negationem consentit ei quae dicit necesse non esse. Hoc autem ideo quia impossibilitas et necessitas idem valent (ut dixi) si contrarie proponantur. Quare quod dicitur hoc modo est: CAUSA AUTEM est, inquit, CUR NON CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, id est quae secundum possibile et impossibile factae sunt, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO REDDITUR IDEM valENS, id est contrario ƿ modo reddita et pronuntiata impossibilitas necessitati idem valet. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE SED necesse NON ESSE hoc est quod impossibile est esse. Nullus ergo dixerit quoniam esse necesse est sed potius quoniam necesse est non esse, tamquam si ita dixisset: nam si impossibile est esse, necesse est hoc non esse sed non putandum est quoniam impossibile est esse hoc est quod necesse est esse. Quod si rursus impossibile est non esse, hoc necesse est esse. Conversim igitur et contrarie impossibilitas necessitati redditur idem valens [id est contrario modo reddita et pronuntiata impossibilitatis necessitati]. Quod si impossibilitas ad possibile simili contradictione et contradictionum conversione consequentiam reddit, idem autem valet impossibilitas et nesessitas contrarie praedicata, nulli dubium est quin recte hic contraria et non opposita fuerit consequentia. An certe ita exponendum est: quoniam in consequentia impossibilis et non impossibilis ad eas quae proponebant possibile et non possibile eam quae est non possibile ea quae dicit aliquid esse impossibile sequebatur, contrarie vero impossibile idem valet quod necessarium, manifestum est quoniam, si similiter se habet, id est eo modo quo dictum est, impossibile ad consequentiam possibilis et non possibilis, impossibile vero ei quod est non possibile consentaneum sit, id quod e contrario idem valet, id est necessarium non esse, id sequi eam propositionem quam etiam impossibilitas ƿ sequebatur. Est autem contrarie idem valens impossibilitati ea quae est necessarium non esse sequiturque impossibilitas eam propositionem quae est non possibile esse: et necessarium non esse igitur sequitur eam quae est non possibile esse, ut sit sensus hic: quoniam impossibile necessario idem potest e contrario, similiter vero sese habet, id est eo modo quo dictum est, impossibilis consequentia ad eas quae sunt possibile et non possibile. AN CERTE IMPOSSIBILE SIC PONI NECESSARII CONTRADICTIONES? NAM QUOD EST NECESSARIUM ESSE, POSSIBILE EST ESSE, NAM SI NON, NEGATIO CONSEQUETUR; NECESSE ENIM AUT DICERE AUT NEGARE. QUARE SI NON POSSIBILE EST ESSE, IMPOSSIBILE EST ESSE: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE QUOD NECESSE EST ESSE, QUOD EST INCONVENIENS. AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR, HOC VERO ILLUD QUOD EST NON NECESSARIUM ESSE. QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE NON NECESSARIUM ESSE, QUOD EST INCONVENIENS. AT VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE NEQUE NECESSARIUM NON ESSE; ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE, HORUM AUTEM UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. SIMUL ENIM POSSIBILE ESSE ET NON ESSE; SIN VERO NECESSE ESSE VEL NON ESSE, NON ƿ ERIT POSSIBILE UTRUMQUE. RELINQUITUR ERGO NON NECESSARLUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. HOC ENIM VERUM EST ET DE NECESSE ESSE. HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR NON POSSIBILE ESSE; ILLUD ENIM SEQUITUR IMPOSSIBILE ESSE ET NECESSE NON ESSE, CUIUS NEGATIO NON NECESSE NON ESSE. SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM PRAEDICTUM MODUM ET NIHIL IMPOSSIBILE CONTINGIT SIC POSITIS. Superius quidem propositionum facta conversio est ita, ut possibilem propositionem necessarii negatio sequeretur. Atque his ita positis non evenit, ut contradictio contradictionem sequeretur nec ut converso modo sequeretur, quod in illis scilicet eveniebat in quibus possibilium et impossibilium sequentia considerabatur, quoniam contradictio necessarii, quod est scilicet non necessarium esse, sequebatur possibilem propositionem, possibilis vero contradictionem non consecuta est necessitas sed contrarium necessitatis. Hoc permutare volens intendit ita constituere consequentias, ut simili modo contradictio quidem contradictioni consentiat sed conversim. Hoc autem hac ratione disponit. Dicit enim: erravi fortasse quod necessarii et possibilis consequentiam ex possibili inchoavi et non ex necessario, ut eius hoc consensionem metiretur. Posuit enim praecedens ƿ possibile esse eique sicut consentiens non necessarium esse. Et haec quidem superius. Nunc autem convertit et dicit: an fortasse, inquit, errore lapsi ita has consequentias constituimus, ut primo poneremus possibile esse, huic autem adiungeremus velut consequens necessarii negationem quae diceret non necesse esse? Ac potius illud verum est, ut posito prius necessario necessitati possibilitas consentiens subsequatur? Videtur enim omnem necessariam propositionem possibilitas subsequi. Quod si quis neget, illi confitendum est, quoniam negatio possibilis sequitur necessitatem. In omnibus enim aut affirmatio aut negatio est. Ergo si necessariam propositionem non sequitur possibilitas, possibilitatis negatio consequitur. [Ut ita dicatur] ergo recta consequentia ita dicit: quod necesse est esse non possibile est esse. Sed dudum dictum est, quod ei propositioni quae proponeret non possibile esse impossibilitas consentiret. Sed non possibile esse consequitur necessitatem, et impossibilitas igitur consequitur necessitatem. Erit itaque recta propositionum consequentia: si necesse est esse, impossibile est esse. Sed hoc fieri non potest. Si igitur impossibilitas non sequitur necessitatem, sequitur autem propositio quae aliquid non posse esse denuntiat impossibilem propositionem, necessariae propositioni possibilitatis negatio quae est non possibile esse non consentit. Quod si haec necessariae enuntiationi non consentit, consentiet affirmatio. Necessitatem igitur possibilitas consequitur. ƿ Erit ergo recta propositionum consequentia hoc modo: si necesse est esse, possibile est esse. Sed rursus alia nobis ex his impedimenta nascuntur. Nam si quis dicat necessitati propositionem possibilem consentire quoniam possibilitati ea propositio quae dicit non impossibile esse et rursus ea quae enuntiat non necesse esse consentit, quod superior ordo praedocuit, erit ut necessariae propositioni consentiat ea quae dicit non necesse esse. Erit igitur recta consequentia: si necesse est esse, non necesse est esse. Sed hoc rursus est impossibile. Quod si ita est, aliquid in possibilis consequentiis propositionum permutandum est, ut possit ipsa sibi ratio consentire. Aut igitur illud primo inconvenienter dictum est, quod necessarii negatio affirmationem possibilem sequeretur, ut ea quae est non necesse esse sequatur eam quae dicit possibile esse vel certe illud non recte sensimus ad possibilem propositionem necessarium consentire. Quod quia perabsurdum est (nullus enim dixerit necessitati possibilitatem esse contrariam: evenit enim quod necesse est' hoc fieri non posse) rectaque est haec consequentia: si necesse est, possibile est, fit ut potius necessarii negatio propositionem possibilem non sequatur. Sed cum haec dicuntur, illud intellegi placet, quod necessitatem possibilitas sequatur, ut id quod necesse est, hoc dicatur esse possibile, illud autem quod per se possibile est non modis omnibus sit necesse. Nam si necesse est, fieri non potest ut non sit, quod vero possibile est, et non esse potest. Igitur quod possibile ƿ est non est necesse. Dico autem quia neque ea propositio sequitur possibilitatem, quae necessitati omnino contraria est. Est namque necessariae propositioni contraria ea quae dicit necesse est non esse. Hanc possibilitati consentire nullus impellet. Nam quod necesse est non esse, illud non potest esse, quod autem possibile est, et esse et non esse potest. Necessitas ergo propositionis quae secundum esse praedicatur idcirco non sequitur possibilitatem, quoniam possibilitas quidem et non esse potest, necessitas vero quae secundum esse est non esse non potest. Rursus necessitas quae secundum non esse praedicatur a possibilitate differt eamque non sequitur, quod necessitas ea quae secundum non esse dicitur non potest esse, possibile vero et esse et non esse potest. Quid igitur ut neque opposita negatio necessarii possibilitatem sequatur, quae non necesse esse proponit, neque ipsa necessitas affirmandi quae dicit necesse esse neque huic contraria quae dicit necesse esse non esse? Sed in his quatuor videbuntur. Est enim necessaria affirmatio quae dicit necesse esse, huic opposita est ea quae praedicatur non necesse esse, rursus contraria necessitati affirmatio est quae dicit necesse est non esse, huic opponitur ea quae proponit non necesse est non esse, quod subiecta docet subscriptio: Necesse est esse Non necesse est esse Necesse est non esse Non necesse est non esse  Si igitur neque ea quae dicit necesse est esse neque huic opposita quae proponit non necesse est esse nec necessitati contraria, cuius sententia est quoniam ƿ necesse est non esse, possibilitati consentit, restat ut ei consentiat quarta quae dicit non necesse est non esse, quae scilicet quarta aliquatenus etiam ipsi necessitati consentit, necessitas vero possibilitati minime. Omne enim quod necesse est esse et possibile est esse et ut non sit non est necesse. Idcirco autem haec propositio quae dicit non necesse est non esse necessitati consentit, quia necessitati quidem contraria est ea quae dicit necesse est non esse, haec vero opposita est huic propositioni quae dicit necesse est non esse, ea scilicet quae proponit non necesse est non esse: quare consentiet ei propositio quae contraria est sibimet oppositae affirmationi. Quod si quis attentius inspicit et ad supra scriptum omnino reuertitur, facile cognoscit. Si igitur possibile est (ut dictum est) sequitur ea propositio quae dicit non necesse est non esse, negationem possibilis sequitur huic opposita quae dicit necesse est non esse eritque huiusmodi consequentia: si possibile est, non necesse est non esse, rursus si non possibile est, necesse est non esse. Reuersa est igitur illa consequentia quae contradictorie quidem fiebat sed conversim, sicut supra de possibilibus dictum est. Hic namque affirmationem possibilem negatio sequitur quae necessarium quidem destruit sed id quod ad non esse ponitur, ea scilicet quae dicit non necesse est non esse, rursus negationem possibilis affirmatio sequitur necessaria quae secundum non esse ponitur. Est igitur hic quoque eadem conversio, ut contradictio quidem contradictionem sequatur sed conversim, ut affirmatio negationi, negatio vero affirmationi conveniat. Melius vero hoc si sub ƿ oculos caderet liquere credidimus atque ideo apertissime sententiam rei subiectae dispositionis nos ordo commoneat. Affirmatio possibilis Negatio possibilis oppositae secundum esse: secundum esse: Possibile esse Non possibile esse Negatio necessaria Affirmatio necessaria secundum non esse: secundum non esse: Non necesse est non esse Necesse est non esse  Omnis quidem sententia est talis, ordo autem sermonum huiusmodi est: postquam dixit de possibilium et impossibilium consequentia, quod contradictiones quidem contradictionibus convenirent sed conversim, id est quod affirmatio negationi, negatio vero consentiret affirmationi, haec eadem, inquit, consequentia quemadmodum in necessariis evenit, videndum est. Speculatus igitur et de necessariis idem non repperit. Nam cum dixisset necessarii negationem consentire possibilitati, affirmatio necessaria negationi possibilitatis non consensit. Eiusdem rei reddens causas illud arguit quod impossibilitas necessitati idem valeret contrarie reddita. Quam rem emendare volens ita dixit: AN CERTE, inquit, IMPOSSIBILE EST SIC PONI NECESSARII CONTRADICTIONES? Ut negationem scilicet necessarii possibilitati consentire diceremus. Addit autem dubitationem quandam, quae ita sese habet. NAM QUOD EST, inquit, NECESSARIUM ESSE, illud sine dubio POSSIBILE EST ESSE. NAM SI NON, id est si quod necessarium est possibile non est, NEGATIO possibilitatis CONSEQUITUR. NECESSE EST ENIM in omnibus rebus AUT DICERE id est affirmare AUT CERTE NEGARE. In omnibus namque rebus aut affirmatio vera est aut negatio. QUARE SI NON POSSIBILE EST ESSE, id est si hoc est non possibile esse [quod impossibile est, fiet id] quod necessarium est esse, sequitur autem propositionem quae dicit non possibile est esse illa quae proponit IMPOSSIBILE EST ESSE, fit aliquid impossibile ut dicatur: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE ID QUOD NECESSE EST ESSE. Sed hoc inconveniens est. Ergo hic docuit, quod necessitatem possibilitas sequeretur. Nunc autem aliud addit: quoniam supra dixit possibili propositioni necessariae affirmationis negationem consentire, nunc de eadem re dubitationem dicens: AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR. Nam quod possibile est, hoc non est impossibile sed quod non est impossibile esse non necesse est esse. Ergo si non impossibile esse sequitur possibilitatem, non impossibilitatem autem sequitur id quod dicitur non necessarium esse sequiturque possibilem propositionem id quod dicimus non necessarium ƿ esse, nulli dubium est quin, si necessitatem possibilitas sequitur, sequatur affirmationem necessariam negatio necessariae. QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE id ipsum NON NECESSARIUM ESSE. QUOD EST INCONVENIENS. Constat ergo quoniam affirmationem possibilem non sequitur opposita negatio necessariae affirmationi, idcirco quod illud removendum est: aut, quod supra diximus, ne sequatur possibilem affirmationem negatio necessariae, aut ne necessitatem possibilitas sequatur. Quod quia fieri nullo modo potest, illud est removendum, ne possibilitatem necessitati opposita negatio subsequatur. Igitur ea quae dicit non necesse est esse non sequitur possibilitatem. Et quia haec omnia in medio tacuerat, supra dictis addit: AT VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE, hoc scilicet sententiae includens possibilitati non consentire necessarium, nec hoc solum sed NEQUE illud quod dicimus NECESSARIUM NON ESSE. Hoc ut tractatum sit ipse planius monstrat. ILLI ENIM id est possibili UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE et esse scilicet et non esse, HORUM AUTEM, id est necessarii secundum esse et necessarii secundum non esse, UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. Hoc ipse exponit. De possibili enim utroque ita dicit: SIMUL ENIM POSSIBILE EST ET ESSE ET NON ESSE (hoc est ergo quod ait: ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE); SIN VERO, INQUIT, NECESSE EST ESSE ƿ VEL NON ESSE, id est si non potest non esse et non poterit esse, NON ERIT POSSIBILE UTRUMQUE, ut si esse necesse est, non poterit non esse vel si non esse necesse est, non poterit esse. Tres igitur propositiones non necesse esse, necesse esse, necesse esse non esse possibilitatem non sequuntur. RELINQUITUR ERGO id est ut quarta propositio, quae opponitur necessario secundum non esse affirmatur, possibilitatem sequatur, id est NON NECESSARIUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. Sed quia possibile consentit necessario, haec quoque necessario consentit. Namque hoc est quod dixit: HOC ENIM VERUM EST ET DE NECESSE ESSE. Nam quod necesse est, non necesse est ut non sit. Haec igitur propositio quae dicit non necesse est non esse contradictio est eius affirmationis quae sequitur negationem possibilitatis eam scilicet quae dicit non possibile esse. Nam cum affirmationem eam quae est scilicet possibile esse sequatur necessarii secundum non esse negatio ea quae proponit non necesse est non esse, negationem possibilis eam scilicet quae proponit non possibile est esse sequitur affirmatio necessaria secundum non esse quae dicit necesse est non esse, quam eandem quae proponit non possibile esse, quae est scilicet negatio possibilitatis, impossibilis affirmatio sequitur quae proponit impossibile esse. Hoc est ergo quod ait: HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR ID QUOD EST NON POSSIBILE ESSE. Nam cum possibilem affirmationem sequatur necessariae secundum ƿ non esse negatio quae dicit non necesse est non esse, haec necessaria secundum non esse negatio contradictio est eius quae sequitur negationem possibilitatis. ILLUD ENIM, id est negationem possibilitatis, SEQUITUR ID QUOD EST IMPOSSIBILE. Nam cum negatio possibilitatis sit quae dicit non possibile esse, hanc sequitur ea quae dicit impossibile est esse, cui consentit ea quae dicit necesse esse non esse. Sequitur igitur possibilis propositionis negationem ea quae dicit necesse esse non esse, cuius est contradictio ea quae dicit non necesse esse non esse. Fit ergo hic quo que ut contradictio contradictionem sequatur sed conversim. Quod ait per hoc cum dixit: SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM PRAEDICTUM MODUM eum scilicet, ut affirmatio negationem, negatio vero sequatur affirmationem, et nihil quidem erit vel inconveniens vel impossibile ita positis consequentiis, ut affirmationem quidem possibilem negatio necessarii secundum non esse sequatur, negationi vero possibilis affirmatio necessaria secundum non esse consentiat. Quibus explicitis alias rursus adicit dubitationes. Sopra namque consequentias ita disposuit, ut praecedens necessarium possibilitas sequeretur, nunc de eodem ipso ambigit. Sive enim quis ponat consentire necessario possibile, sive quis neget, utrumque videtur incongrnum, quoniam si quis neget possibilitatem ƿ necessitati congruere, is dicit quoniam possibilitatis negatio necessariae propositioni conveniet. Si quis enim abnuat propositioni quae dicit aliquid necesse esse consentire eam quae proponit possibile esse, is illud abnuere non potest, quia negatio possibilitatis necessitati consentiat, eritque integra consequentia: si necesse est esse, non possibile est esse, quandoquidem illa falsa est consequentia quae dicit: si necesse est esse, possibile est esse. Quod si hoc fieri non potest, ut possibilitatis negatio necessariae consentiat affirmationi, illud verum est affirmationem possibilem necessariae convenire. Sed in hoc quoque maior inerit difficultas. Omne namque quod possibile est esse, possibile est et non esse. Sed si possibilitas necessitatem sequitur, erit id quod necesse est ut possit esse et possit non esse secundum naturam scilicet possibilitatis, quae ipsi convenit necessitati. Sed hoc impossibile est: non igitur possibilitas sequitur necessitatem. Quod si possibilitas necessitatem non sequitur, negatio possibilitatis sequitur, ea scilicet quae est non possibile esse, evenientque ea rursus incommoda, quae dudum cum eum locum tractaremus expressimus. Quod si quis possibilitatis non velit esse negationem eam quae dicit non possibile esse sed potius eam quae dicit possibile esse non esse, quamquam ille non recto ordine affirmationem negationi accommodet dictumque supra sit, quotiens cum modo propositiones dicuntur ad modos ipsos potius negationem poni oportere quam ad verba, dandae tamen manus sunt, ut cum eo quoque concesso, quod ad defensionem ƿ utile aliquibus videri possit, argumentationis falsam sententiam fregerimus, penitus atque altius sit veritas constituta. Sit ergo haec negatio possibilitatis quam ipsi volunt, id est ea quae dicit possibile esse non esse sed haec quoque necessitati non convenit. Si quis enim dicat quoniam possibile esse necessarium non sequitur, sequitur mox possibilis contradictio necessitatem. Quod si quis contradictionem possibilis ponat eam quae dicit possibile esse non esse eaque necessitati consentire putatur, erit secundum eum recta consequentia: si necesse est esse, possibile est non esse sed hoc fieri non potest. Quod enim necesse est esse non potest non esse. Si igitur possibilitas non sequitur necessitatem (erit enim quod necesse est contingens, possibile namque et contingens idem valet), negationes possibilitatis, sive ea quae dicit non possibile esse, sive ea cuius sententia est possibile esse non esse, necessitati convenient. Sed utrumque impossibile est. Quod si haec non sequuntur, sequitur ea quae est earum affirmatio, id est possibilitas. Sed hoc quoque fieri non potest, ut saepius supra monstravi. Haec ergo huiusmodi quaestio in sequenti ordine ab ipso resolvitur. Nunc quoniam quaestionis supra dictae talis sensus est, verba ipsa sermonumque ordo videatur. Ait namque ita: DUBITABIT AUTEM, inquit, ALIQUIS, SI ILLUD QUOD EST NECESSARIUM ESSE POSSIBILE ESSE SEQUITUR, ƿ id est si necessitati possibilitas consentit. NAM SI NON SEQUITUR, id est si neget aliquis ut possibilitas necessitatem sequatur, CONTRADICTIO CONSEQUITUR, possibilitatis scilicet contradictio. Nam quod possibilitas non sequitur, contradictio possibilitatis sequitur, ea scilicet quae dicit non possibile esse. Et praetermisit quod ex his esset impossibile. Hoc autem est ut, si necessitatem possibilitas non sequatur et contradictio possibilitatis consentiat, sit recta consequentia: si necessarium est esse, non possibile est esse, quod est inconveniens. ET SI QUIS NON HANC DICAT ESSE CONTRADICTIONEM, id est si quis neget possibilitatis contradictionem esse quae dicit non possibile esse, illud certe ei NECESSE EST DICERE quod possibilitatis contradictio ea sit quae dicit POSSIBILE esse NON ESSE. SED UTRAEQUE FALSAE SUNT DE NECESSE ESSE. Nam quod necesse est, fieri non potest ut non possibile sit, et rursus quod necesse est, fieri non potest ut possibile sit non esse. RURSUS IDEM VIDETUR ESSE POSSIBILE INCIDI ET NON INCIDI. Possibilitas enim affirmationi negationique communis est. Namque ET ESSE ET NON ESSE potest quod possibile esse dicitur. HOC AUTEM FALSUM est, id est de necessario praedicari. Necessarium namque si est, non esse non poterit; si non est, nulla ratione contingit. Quod si quis dicat quoniam possibilitas necessitatem sequitur, eadem possibilitas consentit contingenti et ERIT NECESSE ESSE CONTINGERE NON ESSE, id est erit contingens id quod necesse ƿ esse praedicatur. Nam si quod possibile est potest non esse, quod autem potest non esse contingit ut non sit, non dubium est quin, si necessitatem possibilitas sequitur, sequatur eam quoque et contingentia. Sed, contingens possumus dicere in negatione, ut dicatur contingit non esse: est igitur quod necesse est esse contingens non esse. HOC AUTEM FALSUM EST. Atque hic quidem ordo sermonum est, ut in aliis fere omnibus perplexus atque constrictus: alias enim similitudo enuntiationum, alias id quod deest implicitam reddit obscuramque sententiam. Quod si quis Aristotelis verbis seriem nostrae expositionis adnectat et quod illic propter similitudinem confusum est per expositionis nostrae distinctionem ac separationem disgreget, quod vero in Aristotelis sermonibus minus est hinc compenset, sententiae ratio totius elucebit.Nunc ergo quoniam proposuit quaestionem, eam continenter exsequitur his verbis: MANIFESTUM AUTEM QUONIAM NON OMNE POSSIBILE VEL ESSE VEL AMBULARE ET OPPOSITA valET SED EST IN QUIBUS NON SIT VERUM, ET PRIMUM QUIDEM IN HIS QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT, UT IGNIS CALFACTIBILIS ET HABET viM IRRATIONABILEM. ERGO SECUNDUM RATIONEM POTE, STATES IPSAE EAEDEM PLURIMORUM ETIAM CONTRARIORUM. IRRATIONABILES VERO NON OMNES SED QUEMADMODUM DICTUM EST, IGNEM NON EST POSSIBILE ƿ CALEFACERE ET NON, NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT. ALIQUA VERO POSSUNT ET SECUNDUM IRRATIONABILES POTESTATES SIMUL QUAEDAM OPPOSITA. SED HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST QUONIAM NON OMNIS POTESTAS OPPOSITORUM EST NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Cum de possibilis et necessarii consequentia dubitasset cumque si possibilitas necessitati consentiret, quod erat incommodum, vel si possibilitas rursus necessitatem sequeretur necessitas ipsa cui possibilitas consentiret in se et esse et non esse susciperet, nunc incongruentem ambiguitatem rationabili argumentatione dissolvit dicens. Non vere illud metui, ne possibilitas necessitatem sequens ipsam naturam necessitatis atque rigorem frangeret, ut id quod necesse esset in contingentiam permPombaur neque enim, inquit, omne quod possibile est esse et possibile est non esse. Sunt enim plura quae unam tantum vim continent et ad negationem nullo modo sint apta, ut in his possibilitatibus quas irrationabilis actus efficit. Nam cum sit possibile ignem calefacere, non est possibile ut non calefaciat. Quare haec potestas non potest opposita. Si qua enim potestas opposita potest, illa et esse potest et non esse et facere et non facere, quae vero non potest opposita, unam ƿ rem tantum potest, quae affirmationem tantum dat, negationem vero repudiet. Si quis ergo ponat possibilitatem necessitati consentire, non idcirco iam necesse est ipsam necessitatem in contingentiam verti, cui contingenti scilicet possibilitas consentit. Non enim, inquit, omne possibile utrumque potest, id est et posse esse et posse non esse, atque ideo non omne possibile contingentiae consentit. Docet autem hoc his modis: IN HIS, inquit, QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT, possibilitas quae esse dicitur non valet opposita, ut ignem calefacere irrationale est. Nulla onim ratio est cur ignis calefaciat: omnium namque quae naturaliter fiunt nulla ratio est. Ergo haec quorum potestas irrationabilis est non possum opposita, ut ignis non potest calefacere et non calefacere. Si enim utrumque possint, opposita possum. Calefacere enim et non cale. Facere opposita sunt. Cum ergo irrationabiles potestates et opposita agendi non habeant facultatem, illa quae secundum rationem fiunt ad oppositorum aecum actuary poterunt retineri, ut quicquid ex voluntate et ratione conceptum est ad utrumque valeat, medicinam mihi exercere et possibile est et possibile non est vel rursus ambulare. Quod enim quisquis animi ratione vel appetentia uult, hoc ex ratione venire dicitur. Et in his omnibus illa potestas est quae ad utrumque valeat, id est et ad affirmationem et ad negationem, ut sit scilicet et non sit. In his autem quae sunt ƿ irrationabilia, licet in solis evenire possit, ut ea potestas quae dicitur non etiam possit opposita, tamen non omnis irrationabilis potestas opposita non potest, ut aqua et friget et humida est: ergo et frigescere potest facile et humectari sed eadem permutata in calidam potest frigescendi non habere vim, cum non possit humectandi amittere potestaten, dum aqua sit. Quocirca non omnis potestas opposita valet sed valet quidem opposita potestas ea quae secundum rationabiles motus valuit, illa vero potestas quae opposita non valet in solis irrationabilibus invenitur, licet non in omnibus. Sunt enim irrationabiles potestates quae utrumque possint, ut id quod dictum est de aquae frigore. Et tota quidem sententiae vis talis est, nunc quis sermonum ordo sit explicetur. MANIFESTUM, inquit, est QUONIAM NON OMNE POSSIBILE VEL ESSE VEL AMBULARE ET OPPOSITA valET. Quod ita dictum esse manifestum est, non ut putaremus quoniam omne quod ambulare potest vel quod esse potest non possit opposita, id est non possit non esse: hoc enim videtur textus ostendere sed nemo ita intellegat potiusque sic dictum videatur: manifestum est quoniam non omne possibile, ut possibile frequenter solemus usurpare, cum dicimus possibile esse ambulare, opposita valet. Neque enim quod omnis potestas affirmationi negationique conveniat sed sunt quaedam quae unum tantum possint, ut supra iam diximus. Atque hoc apertius intellegitur si ita dicamus: manifestum est autem quoniam non ƿ omne possibile et opposita valet, quoniam scilicet possibile frequenter et de esse et de ambulare praedicamus. Hoc ita cogitans facilius quis agnoscit, quid ipsius textus verba denuntient, cum etiam adminiculari quis debeat obscuris sensibus patientia atque consensu, quod ad sententiam potius dicentis exspectet, etsi se sermonum ratio ita non habeat. Hoc ergo ita constituto manifestum esse scilicet non omnes potestates opposita valere sed esse quasdam IN QUIBUS NON SIT VERUM dicere quoniam opposita valent, [et] datur exemplum: in his quidem primum quae irrationabiliter possunt, id est non secundum aliquam rationem, quarum scilicet potestatum reddi ratio non potest, quod ipsarum natura sit, ut quoniam ignis calfactibilis est, idcirco de eo ratio reddi non potest: hoc namque illi naturaliter adest. Et haec quidem ignis potestas non valet opposita, scilicet sit irrationalis, quae vero rationabiles sunt et secundum rationabilem potestatem EAEDEM PLURIMORUM ETIAM CONTRARIORUM SUNT. Nam quibus ratio dominatur, ad utraque opposita natura ipsorum apta est, ut eaedem potestates sint plurimorum quae sunt contraria, ut si est mihi possibile ambulare, quoniam hoc ex ratione et ex voluntate fit, sit possibile non ambulare et est haec potestas non unius sed plurimorum eorumque contrariorum. Licet enim affirmatio et negatio sit quodammodo ambulare et non ƿ ambulare, tamen nunc ab Aristotele in contrarii vice disponitur. Et hoc quidem in omnibus rationabilibus potestatibus planum est eas plurimorum esse contrariorum et opposita valere, quae vero secundum rationem non sunt, licet sint quaedam quae opposita valeant, non tamen omnia. Nam cum aqua frigendi habeat potestatem, quod est irrationabile, est ei rursus alia potestas calefaciendi, cum ipsa sit calefacta sed non in omnibus potestatibus irrationabilibus hoc inveniri potest. Ignis enim (ut dictum est) unam calefaciendi tantum videtur habere potestatem. Hoc est enim quod ait: IRRATIONABILES VERO NON OMNES, id est opposita valent sed QUEMADMODUM DICTUM EST, IGNEM NON EST POSSIBILE CALEFACERE ET NON, daturque in omnibus regula quae non sint possibilia contrariorum, ea scilicet quae semper unam rem actu continent, ut ignis semper calet, sol semper movetur et caetera huiusmodi, quod per hoc ait quod dixit: NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT. Aliqua vero possunt quaedam opposita etiam secundum irrationabiles potestates, ut dictum est de aqua. Sed hoc idcirco dictum esse testatur, ut cognosceremus nihil evenire contrariorum, si quis diceret possibilitatem necessario consentire. Cum enim non omnis possibilitas contraria valeret, ea scilicet necessitati consentit, quae contraria non valet sed unam rem semper agit. Hoc est enim quod ait: SED HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST, QUONIAM NON OMNIS POTESTAS OPPOSITORUM EST, NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Quod ait: NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR tale est: non modo, inquit, omne quod dicitur possibile contrariorum esse potest sed etiam quae sub eadem specie sunt quaedam contraria non possunt, ut ea quae sunt irrationabilium. Nam cum omnium irrationabilium in eo quod irrationabilia sunt una sit species, tamen ne in his quidem inveniri potest, ut in omnibus eadem sit contrariorum potestas, ut de igne quod supra iam dictum est. Nam cum eius irrationabilis sit potestas, non tamen talis est ut ad contraria transferatur. Recte igitur dictum est, quoniam nec quae sub eadem specie sunt poterunt omnia contrariorum esse potentia. Nam cum ignis potestas cum aliis omnibus potestatibus irrationabilibus sub eadem sit specie, quod irrationabilis est potestas, tamen non valet opposita. Atque hoc quidem quod attemptare possit totam quaestionem, non tamen validissime dissoluere praedixit: quo vero maxime dirigat dubitationem ambiguitatemque constituat, ipse continuata oratione adicit dicens: QUAEDAM VERO POTESTATES AEQUIVOCAE SUNT. POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER DICITUR SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST UT IN ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST ESSE QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE, ILLUD VERO QUOD FORSITAN AGET, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULABIT. ET HAEC QUIDEM IN MOBILIBUS SOLIS EST POTESTAS, ILLA VERO ET IN IMMOBILIBUS. IN ƿ UTRISQUE VERO VERUM EST DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET AGIT ET AMBULABILE. SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER DICERE, ALTERUM AUTEM VERUM EST. QUARE QUONIAM PARTEM UNIVERSALE SEQUITUR, ILLUD QUOD EX NECESSITATE EST SEQUITUR POSSE ESSE SED NON OMNINO. Quid haec sententia contineret, quam nunc Aristoteles proposuit, quinto quidem libro diligenter expressimus et nunc eam breviter exsequimur. Expositionis enim causa doetrinaeque hunc nobis secundum expositionis sumpsimus laborem, non augendi prolixitate fastidii. Talis ergo est tota sententia: possibile quod frequenter in rebus dicimus non simpliciter dicitur atque ideo quoniam possibile a potestate traductum est, ipsa quoque potestas aequivoca est. Hoc hinc manifestum est, quod quaedam possibilitates ad hoc dicuntur non quoniam aguntur sed quoniam ut agantur nihil impedit, ut si de aliquo sano corpore omnibusque aliis quae impedire poterant remotis sedente dicatur possibile esse eum ambulare, non quoniam ambularet sed quoniam ut ambularet nihil omnino prohibet. Quaedam vero potestates ita dicuntur quoniam iam actu sunt atque aguntur, ut si quis de ambulante homine dicat possibile eum esse ambulare. Atque ideo illa possibilitas quae non secundum actum aliquem dicitur sed secundum id quod posset agere dicitur, eo quod agere non prohibetur, a potestate possibilitas ƿ nominatur. Haec vero quae iam agit atque in actu est, actus ipse, possibilitas appellatur. Duae ergo significationes sunt possibilitatis: una quae eam possibilitatem designat quae est potestate, quae scilicet actu non sit, altera quae eam possibilitatem significet quae iam actu sit. Haec autem possibilitas quae iam actu est aut ex potestate ad actum transit aut semper in actu naturaliter fuit, ut cum homo ex eo quod sedet ambulat, potest ambulare atque ideo ex potestate in actum vertit, sol vero cum movetur, numquam ex potestate in actum vertit (neque enim aliquando hunc motum non egit) neque ignis ut nunc caleret, aliquando non caluit. Ergo ea rursus possibilitas quae secundum actum aliquem dicitur duas intra se species continet: unam quae talem actum possibilitatis designet, quem non esse non liceat, et haec dicitur necessaria et numquam ex potestate in actum vertit sed in actu naturaliter mansit; alterum vero quod liceat et non esse, quod scilicet ex potestate in actum migravit, et hoc non necessarium, cum sit actu. Et haec talis potestas, quae ex potestate in actum vertit, in solis mobilibus est, hoc est quae moveri possunt, haec autem sunt corporalia. Incorporalia enim non moveri quibus rationibus adstruatur paulo post dicemus. Illae vero quae semper in actu propria naturae qualitate manserunt, et in mobilibus inveniuntur, ut igni calor qui semper actu et numquam fuerit potestate, ƿ et in his quae sunt immobilia, haec autem sunt incorporalia et divina. Quare potestas ea quae ex potestate in actum migravit solorum est corruptibilium et corporalium, ea vero quae semper actu fuit divinis corporalibusque communis est. Ut igitur tota ratio breviter accingatur, ita dicendum est: possibilitas aequivoca est et multa significans. Est enim una possibilitas quae ipsa quidem non sit in actu, esse tamen possit atque ideo de ea possibilitas praedicetur, est autem alia quae iam est actu. Haec autem potestas quae iam actu est non est aequivoca sed genus. Habet enim sub se species eam potestatem quae actu quidem est sed ex potestate migraverit, aliam vero quae actu est sed ex potestate non migravit. Et illa quidem quae ex potestate non migraverit, ipsa dicitur necessaria, quae numquam relinquet subiectum, illa vero quae ex potestate ad actum transiit sine ulla dubitatione dicitur non necessaria, idcirco quod poterit relinquere aliquando subiectum. Sed de his utrisque, scilicet quae vel in potestate vel in actu possibilitates dicuntur, communis poterit esse praedicatio, si dicamus utrasque esse non impossibiles. Nam et qui potest ambulare, cum non ambulet, et qui iam ambulat, verum est de his dicere quoniam non est impossibile eos id agere quod possunt agere vel agunt. Cum vero sub significatione possibilitatis duo sint: una possibilitas quae actu non est, alia vero quae actu est, illa possibilitas quae secundum potestatem dicitur necessario non accommodatur neque aliquando necessitati poterit consentire. Restat igitur, ut sub ea possibilitate necessitas ponatur quae actu est. Sed ea ƿ quoque habet unam speciem per quam ex potestate in actum migrat, quae est non necessaria: quare ne in hac quidenu potest poni necessitas. Restat igitur ut, quoniam id quod necesse est esse nullus negat esse possibile, sub possibili est autem et ea quae potestate esse dicitur sed necessitas non ponitur neque sub ea potestate quae actu est et poterit subiectum relinquere, ponatur sub eo actu qui subiectum relinquere non potest, ut sit necessitas possibilitas quae sit actu et subiectum numquam relinquat, eo quod ad actum ex potestate non venerit. Species igitur quaedam erit necessitas possibilitatis, siquidem illic ponitur, ubi est ea possibilitas quae actu semper est. Quod quoniam speciem sequitur genus et ubi est species genus deesse non potest, sequitur speciem suam, id est necessitatem, genus proprium, id est possibilitas sed non omne. Ea vero possibilitas necessitatem non sequitur, quae potestate tantum est, non etiam actu, neque ea quae cum sit actu relinquere subiectum potest sed ea tantum quae cum actu sit numquam poterit a subiecto discedere. Sequitur ergo possibilitas necessitatem nihilque evenit impossibile sed ea, ut dictum est, quae in actu sit et numquam in subiecto natura esse desistat. Totus quidem sensus huiusmodi est, ratio vero verborum ita constabit: QUAEDAM VERO, inquit, POTESTATES AEQUIVOCAE SUNT. Hoc idcirco dictum est, quoniam non omnis potestas aequivoca est. Est enim potestas quae ut genus sit, ea scilicet quae secundum actum praedicatur. Quemadmodum autem quaedam potestates aequivocae sint exsequitur dicens: POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER ƿ DICITUR, ET HOC PARTITUR: SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST UT IN ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST ESSE, QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE. Hoc planius nihil poterit demonstrari quin illud possibile dicat, quod iam agitur. Quod si quis possibile esse neget, hoc agi et fieri atque esse dicit quod impossibile est sed hoc omnem modum irrationabilitatis excedit. Aliam vero partem significationis possibilitatis hanc dicit: ILLUD VERO QUOD FORSITAN AGET, et dat huius exemplum, UT POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULABIT. Non ergo quod iam agit sed QUOD FORSITAN AGET, id est quod ut agat fortasse nihil prohibet. ET HAEC QUIDEM, inquit, IN MOBILIBUS SOLIS EST POTESTAS, haec scilicet possibilitas quae potestate dicitur non secundum actum. Mobilia vero, ut dictum est, sola corpora dicit. ILLA VERO, id est quae actu sunt, ET IN IMMOBILIBUS, id est divinis. Atque ideo addidit haec cum dicit et IN IMMOBILIBUS, ut non suspicemur in solis esse divinis actus possibilitatem sed etiam in mortalibus atque corporeis. IN UTRISQUE VERO VERUM EST DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET QUOD AGIT ET AMBULABILE. In utrisque, inquit, significationibus una praedicatio poterit convenire, ut dicamus non esse impossibile ƿ vel ambulare quod iam ambulat vel ambulare quod potest ambulare et non ambulat, quod per hoc ait quod dixit AMBULABILE. Ambulabile enim est quod non quidem ambulet, possit tamen ambulare. His addit: SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER DICERE, id est sic possibile, quemadmodum aequivoce possibilitas praedicatur, non est verum de necessario simpliciter et universaliter atque omnino praedicare, hoc est non omne possibile necessario consentit. ALTERUM AUTEM id est possibile VERUM EST, hoc est de necessario praedicare, illud scilicet quod secundum actum dicitur immutabilem. QUARE QUONIAM PARTEM suam, id est speciem, id quod est UNIVERSALE, id est genus, SEQUITUR, ILLUD QUOD EX NECESSITATE EST, quod scilicet species est possibilitatis, SEQUITUR POSSE ESSE, id est possibilitas SED NON, inquit, OMNINO. Nam illa possibilitas, quae in actu praedicatur et relinquere subiectum potest, non sequitur necessitatem sed ea tantum, quae cum in actu sit neque ex potestate in actum vertit neque poterit subiectum relinquere. Atque haec quidem quae Aristoteles dixit huiusmodi sunt, quae vero nos distulimus, ut doceremus immobilia esse divina, mobilia vero sola corpora vocari brevissime demonstrandum est. Sex motus species esse manifestum est, sicut in praedicamentorum libro Aristoteles digessit, quamquam hoc in physicis permutaverit. Sed nunc ita ponamus tamquam si omnino sex sint. Si secundum nullam motus speciem moveri divina atque incorporalia ratio declaravit, ordine conuincitur non moveri divina. Ergo neque generantur neque corrumpuntur neque crescunt neque minuuntur neque de loco in locum transeunt, quippe quae plenitudine naturae suae ubique tota sunt nec de deo aliquid intellegi fas est, nec rursus aliqrubus passionibus permutantur. Quod si secundum nullum horum motuum divinarum rerum permutabilis est natura, manifestum est ea omnino non esse mobilia atque sex motus hos solis corporibus evenire. Atque hoc quidem de plurimis quae de ea re possunt dici rationibus atque argumentis limasse sufficiat. Nunc quoniam Aristoteles consentire necessario possibilitatem non omnem docuit et quae ei conveniret expressit, rursus de ipsorum consequentia et quid primo, quid posterius poni debeat, memoriter subicit dicens: ET EST QUIDEM FORTASSE PRINCIPIUM QUOD NECESSARIUM EST ET QUOD NON NECESSARIUM OMNIUM VEL ESSE VEL NON ESSE, ET ALIA UT HORUM CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT, QUONIAM QUOD EX NECESSITATE EST SECUNDUM ACTUM EST, QUARE SI PRIORA SEMPITERNA, ET QUAE ACTU SUNT POTESTATE PRIORA SUNT. ET HAEC QUIDEM SINE POTESTATE ACTU SUNT, UT PRIMAE SUBSTANTIAE, ƿ ALIA VERO CUM POTESTATE, QUAE NATURA PRIORA SUNT, TEMPORE VERO POSTERIORA, ALIA VERO NUMQUAM SUNT ACTU SED POTESTATE SOLUM Postquam de possibilis et necessarii consequentia quid videretur exposuit, haec ad emendationem quodammodo superioris ordinis apponit, ut quoniam superius a possibili inchoans caeteras omnes propositiones ad possibile et contingens et ad eorum consensum reduxit, nunc hoc rationabiliter mPomba, ut non potius a possibilitate inchoandum sit sed a necessitate. Nam si quis animadvertat diligentius superiorem descriptionem, primo positum est possibile et contingens et ad eadem cunctorum consensus relatus est. Nunc autem hoc permutatum videtur. Dicit enim fortasse hoc esse rectius, ut magis propositionum consequentia a necessariis inchoetur. Est autem totus sensus huiusmodi: quoniam, inquit, necessaria sempiterna sunt, quae autem sempiterna sunt omnium aliorum quae sempiterna non sunt principium sunt, necesse est ut id quod necessarium est caeteris omnibus prius esse videatur. Ergo consequentiae quoque eodem modo faciendae sunt, ut primo quidem necessitas, post vero possibilitas et caetera proponantur, sintque consequentiae hoc modo: Necesse esse Non necesse esse Non possibile esse non esse Possibile esse non esse Necesse esse non esse Non necesse esse non esse Non possibile esse Possibile esse  ƿ Videsne igitur ut primo quidem necesse esse et non necesse esse propositum sit, secundo vero loco ad necessitatis caetera consensum consequentiamque relata sint? Hoc est ergo quod dixit fortasse principium quoddam esse omnium vel esse vel non esse id quod esset necessarium, ut a necessario speculandarum propositionum principium sumeretur, quod esse aliarum propositionum vel non esse secundum consequentiam consensum constitueret. Et quoniam prius positum est necesse esse, huic consentit ea quae dicit non possibile esse non esse. Istius ergo propositionis quae dicit non esse possibile ut non sit, quae scilicet non esse denuntiat (tollit enim possibile quod modus est), principium est necessitas, cui sine ulla dubitatione consentit. Et rursus quoniam ei quae dicit non necesse esse consentit ea quae dicit possibile est non esse, huius propositionis, quae aliquid esse constituit, id est possibile, principium est ea propositio quae dicit non necesse est. Ergo sive affirmative necessitas proponatur sive negative, vide principium quoddam esse caeterorum et caetera velut his, id est necessarlis, consentientia iudicari oportere. Et hoc est quod ait: ET ALIA QUEMADMODUM ISTA CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. Cur autem istud eveniat, consequenter ostendit dicens: quoniam ea quae necessaria sunt actu ƿ sunt, ut frequenter supra monstratum est, ea vero quae necessaria sunt sempiterna sunt, quae vero sempiterna sunt priora sunt his quorum sunt huiusmodi potestates quae in actu nondum sint, manifestum est quoniam et quae actu sunt et potestate ad actum non veniunt priora sunt. Sed de eo actu loquimur, qui ex potestate ad actum non venit sed semper actu propriae naturae constitutione permansit, ut cum ignis calet vel sol movetur et caetera huiusmodi ita sunt, ut actum numquam reliquerint neque ab his actus afuerit aliquando neque ex potestate ad hunc venerint actum. Quoniam ergo huiusmodi fuerunt ut semper essent, quae autem semper sunt, ea omnibus sunt priora, erunt etiam potestate secundum propriam naturam priora. Sed quae priora semper sempiterna sunt et rursus eadem necessaria, actu sunt et necesse est, ut ea quae actu sunt his quae sunt potestate priora sint. Post haec fit ab Aristotele divisio rerum hoc modo: rerum aliae sunt actu semper, qui ex potestate non venerit, et istae sunt quarum nullae sunt potestates sed semper in actu sunt. Aliae vero quae in actum ex potestate migraverint, quarum quidem substantia et actus secundum tempus posterior est potestate, natura vero prior. In omnibus enim illud quod est actu prius est et nobilius quam id quod potestate est. Illud enim quod potestate est adhuc ad actum festinat atque ideo perfectio quidem est actus, ƿ potestas vero adhuc quiddam est imperfectum, quod tunc perficitur cum ad actum aliquando peruenerit. Quod autem perfectum est eo quod est imperfectum generosius et prius esse manifestum est. Nam si res quae ad actum suum ex potestate venerunt, prius fuerunt potestate, post vero actu, ergo actus earum rerum posterior est potestate, si ad tempus referamus, prior vero eadem potestate, si ad naturam. Et hoc est quod ait: alias res esse, quae cum possibilitate sunt et actu sunt sed actum potestate tempore quidem posteriorem habeant, natura vero priorem, quasdam autem res esse in quibus sola potestas sit, numquam actus, ut numerus infinitus. Crescere enim potest in infinita numerus, quicumque vero numerus dictus sit vel centum vel mille vel decem milia et caeteri finitos; esse necesse est. Ergo actu numerus numquam est infinitus, quoniam vero potest in infinita concrescere, idcirco solum potestate est infinitus. Eodem quoque modo et tempus. Quantumcumque enim tempus dixeris finitum est sed quoniam tempus potest in infinita concrescere, idcirco dicimus tempus esse infinitum, quod potestate sit infinitum, non actu. Nihil enim actu esse poterit infinitum. Quod autem supra dixit quae semper actu essent primas esse substantias, non ita putandum est primas eum substantias dicere quemadmodum in categoriis, ubi primas substantias indinduas dicit. Hic autem primas substantias quae semper ƿ actu sunt idcirco nominat quia, ut dictum est, quae semper actu sunt principalia caeterarum rerum sunt atque ideo primas eas substantias esse necesse est. UTRUM AUTEM CONTRARIA EST AFFIRMATIO NEGATIONI ET ORATIO ORATIONI QUAE DICIT QUONIAM OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST NULLUS HOMO IUSTUS EST AN OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST OMNIS HOMO INIUSTUS EST? CALLIAS IUSTUS EST, CALLIAS IUSTUS NON EST, CALLIAS INIUSTUS EST: QUAE HARUM CONTRARIA EST? Post propositionum consequentias pertractatas easque subtili inquisitione dispositas illud exoritur inquirendum, quod magnam in se utilitatem ita praefert, ut quanta in eo vis utilitatis sit, prima quoque fronte legentium mentibus ingeratur. Nam cum sit manifestum, quoniam affirmationem opposita negatio semper oppugnat maximeque perimet universalem affirmationem universalis negatio quoniamque non ignoratur, quod affirmatio quae contrarium affirmat ipsa quoque contrarii perimat propositionem, quaeritur quae magis perimat magisque oppugnet affirmativam, utrumne ea quae universalis negatio est an ea quae contrarii vel privationis affirmatio. Sit enim positum hanc esse affirmationem quae proponit OMNIS HOMO IUSTUS EST, hanc ergo duae perimunt propositiones, et universalis scilicet negatio quae dicit quoniam NULLUS HOMO IUSTUS EST et ea quae privationem ƿ iustitiae praedicat affirmando, ea scilicet quae dicit OMNIS HOMO INIUSTUS EST. Affirmatio igitur quae proponit: Omnis homo iustus est  perimitur et a negatione propria universali quae dicit: Nullus homo iustus est  et ab affirmatione privatoria quae proponit: Omnis homo iniustus est  Cum igitur ab utrisque perimatur, quod autem perimitur ei quod [eam] perimit videtur esse contrarium quoniamque a duobus, ut dictum est, perimitur et duae unius contrariae esse non possunt, quae duarum propositionum quas supra memoravimus, id est negationis universalis et privatoriae affirmativae, contraria sit universali affirmationi superius comprehensae? In qua re quam sit utilis quaestio nullus ignorat, qui cogitat, quia nisi hoc ab Aristotele quaesitum enodatumque esset, magnam fore dubitationem, an illud reciperetur, ut duo unius possent esse contraria, quod manifesto fieri non potest. Nam cum duo unam rem perimant, quis esset qui dubitaret aut unam rem duabus opponi aut duabus unam rem perimentibus quaeri oportere, quae magis earum videretur contraria? Contrarias autem nunc dicimus non secundum eum modum, quem Aristoteles in praedicamentis explicuit sed tantum ad id quod res rem vel propositio perimit propositionem, ut quasi hoc modo ƿ quaeratur: affirmatio universalis secundum quam magis perimitur, utrumne secundum eam quae universalis est negatio an secundum eam quae vel prirationem praedicat vel quodlibet aliud quod ex ipsa oppositione vim contrarii repraesentet? Unde etiam illud latere non oportet, nulli esse dubium inter universalem affirmationem privatoriam et universalem negationem quae esset opposita contrarie. Supra enim iam dictum est affirmationi universali negationem universalem esse contrariam sed hic, ut dictum est, non hoc dicitur sed illud potius quae magis perimat rem. Nam quae magis perimit ea propemodum magis videbitur esse contraria. Atque ideo non solum de universalibus proposuit sed ne suspicaretur quis quod illam contrarietatem diceret quam vel in praedicamentis locutus est vel rursus supra cum de universali affirmatione et negatione loqueretur, de particularibus adiecit, quibus non erat contrariae oppositionis affirmatio atque negatio. Nam si recte superius comprehensa meminimus, affirmatio universalis et negatio universalis contrariae esse dicebantur. Nec solum hoc sed etiam secundum iustum et iniustum constituit quaestionem, quod habitus et privatio potius est quam ulla contrarietas. Quare, ut diximus, intellegendum est esse nunc in quaestione, quae propositio quam propositionem proxime efficaciusque destruat ac perimat. Huius inquirendae rei via exsistet hoc modo: NAM SI EA QUAE SUNT IN VOCE SEQUUNTUR EA ƿ QUAE SUNT IN ANIMA, ILLIC AUTEM CONTRARIA EST OPINIO CONTRARII, UT OMNIS HOMO IUSTUS EI QUAE EST OMNIS HOMO INIUSTUS, ETIAM IN HIS QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONIBUS NECESSE EST SIMILITER SESE HABERE. QUOD SI NEQUE ILLIC CONTRARII OPINATIO CONTRARIA EST, NEC AFFIRMATIO AFFIRMATIONI ERIT CONTRARIA SED EA QUAE DICTA EST NEGATIO. QUARE CONSIDERANDUM EST, QUAE OPINATIO VERA FALSAE OPINIONI CONTRARIA EST, UTRUM NEGATIONIS AN CERTE EA QUAE CONTRARIUM ESSE OPINATUR. DICO AUTEM HOC MODO. EST QUAEDAM OPINATIO VERA BONI QUONIAM BONUM EST, ALIA VERO QUONIAM NON BONUM FALSA, ALIA VERO QUONIAM MALUM. QUAENAM ERGO HARUM CONTRARIA EST VERAE? ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Haec investigatio, quae magis sit universali affirmationi contraria, utrumne privatoria universalis affirmatio an universalis negatio, hinc sumitur quod omnis fere proprietas, quam in vocibus venire necesse est, ex opinionibus venit quas voces ipsae significant. Quod igitur quaerendum in vocibus est, hoc prius est in opinionibus perspiciendum. Neque enim fieri potest ut, cum vocum significatio ex opinionibus veniat, quas scilicet voces ipsae significant, non prius proprietates vocum in opinionibus reperiantur. Requirendum igitur ƿ est quemadmodum se ista in opinionibus posita habeant, ut quod in his fuerit repertum ad voces rationabiliter transferatur. Quaeratur igitur prius in opinionibus hoc modo: si opinio privatoriae universalis affirmationis magis est contraria opinioni simplicis universalis affirmationis quam opinio universalis negationis, manifestum quoniam privatoria universalis affirmatio magis perimit universalem simplicem affirmationem quam universalis negatio. Quod si illud magis ratio reppererit, quod opinio negationis universalis opinionem affirmationis universalis magis perimat potius quam opinio privatoriae affirmationis opinionem universalis affirmationis, constat quod universalis negatio magis contraria est universali affirmationi potius quam privatoria affirmatio. Hoc autem ut inveniatur, ita faciendum est: ponatur opinio quaedam vera, contra eam duae falsae, quarum una affirmatio sit privatoria, altera universalis negatio. De duabus igitur falsis quam mendaciorem ratio invenerit, eam dicimus verae opinioni magis esse contrariam. Sint igitur tres opiniones, una vera, duae falsae, et sit quidem vera haec quae id quod bonum est bonum esse arbitratur, ea scilicet quam dicit Aristoteles opinionem esse BONI QUONIAM BONUM EST; sit autem ex falsis una quae id quod bonum est non bonum esse arbitratur, quam Aristoteles dicit falsam opinionem ƿ boni quoniam NON BONUM EST; reliqua quae id quod bonum est malum esse arbitratur ea est quae ab Aristotele dicta est opinio boni quoniam malum est. Ex his igitur tribus, una vera, duabus falsis, quaerendum est quae magis sit contraria verae. Sed quia contingit saepe et negationem et privationem unum significare, in his praesertim contrariis in quibus nulla medietas invenitur, addit: ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Hoc autem huiusmodi est: in his contrariis in quibus nulla medietas est idem negatio valet quod etiam privatio, in his vero in quibus est quaedam medietas affirmatio privatoria et negatio non eiusdem significationis sunt. Age enim sint huiusmodi contraria quae sint immediata genitum esse et ingenitum esse. In contrariis igitur immediatis idem privatoria affirmatio quod negatio valet, in his autem quae medietatem habent non idem. Neque enim aequum est dicere quemlibet illum esse malum et rursus non esse bonum. nam cum bonum negatur, potest aliquid medium audientis animus suspicari; cum vero malum ponitur, tota audientis suspicio in contrarium reiecta est, atque ideo non idem significant. Sed quia saepe (ut dictum est) privatio vel contrarietas negationi consentit, quotiens tales quaedam propositiones reperiuntur, in quibus nihil negatione diserepet privatoria affirmatio, quaerendum est, ut Aristoteli videtur, secundum quam potius prolationem ƿ vel opinionem verae affirmationi vel opinioni contraria propositio vel opinio fiat. Quamquam enim interdum idem eignificent, alio tamen modo ipsis propositionibus utuntur. Nam qui negationem ponit id quod est dicit non esse, qui vero privationem id quod non est dicit esse. Cum igitur diversum initium et diversa intentio quodammodo sit propositionum sub eadem significatione, et quae earum magis verae propositioni contraria sit et secundum quem motum animi magis vera propositio perimatur quaerendum est. Hoc est enim quod ait: ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Non enim dicit quoniam omnino negatio et privatio idem sunt sed in his in quibus idem sunt, hoc est in immediatis contrariis, et quando idem significant, quoniam non secundum unum motum animi unam significationem dicunt, qui contrarium vel privationem ponunt et qui negationem, secundum quam contraria magis est propositio, utrumne secundum eam quae privationem ponit an secundum eam quae negationem? Post hoc quemadmodum sit contrarietatis natura designat. NAM ARBITRARI CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI IN EO, QUOD CONTRARIORUM SUNT, FALAUM EST. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST ET MALI QUONIAM MALUM EADEM FORTASSE ET VERA, SIVE PLURES SIVE UNA SIT. SUNT AUTEM ISTA CONTRARIA SED NON EO QUOD CONTRARIORUM SINT CONTRARIAE SUNT SED MAGIS EO QUOD CONTRARIE. Sensus quidem breviter expeditus sed summa rationis veritate contextus est. Cum enim de contrariis disputat, quemadmodum contrariae opiniones esse pos sint prima fronte disponit. Arbitratur enim quidam contrarias esso opiniones, quae de contrariis aliquid arbitrarentur sed hoc falsum esse conuincitur. Neque enim si bonum et malum contrarium est et aliqui de bono et malo opinetur, mox necesae est ut contrarietas subsequatur. Age enim quilibet de bono opinetur quoniam bonum est et rursus de malo opinetur quoniam malum est. Cum igitur idem de bono et de malo opinetur, illud quoniam bonum, illud quoniam malum, tamen contrariae opiniones non sunt. Neque enim contrarium est opinari id quod bonum est bonum esse et id quod malum est malum esse. Utraeque enim verae sunt, opinionum autem contrarietas in falsitate cognascitur. Quo autem modo huiusmodi opiniones contrariae esse possunt, quae de eadem quodammodo affectione animi proficiscuntur, id est opiniones cognoscentes quod verum est? Non igitur si quis contrariorum aliquam opinionem habeat et quicquam de contrariis arbitretur, statim necesse est subsequi in opinionibus contrarietatem. Ergo non est contrarietas opinionum in ea arbitratione, quae contrariorum est vel quae de contrariis habetur sed potius contrarietas in opinionibus tunc fit, quotiens de una eademque re contrarie quisquam opinatur. Ut ƿ quaelibet res sit proposita bona: de ea si quis contrario modo opinetur, quoniam bonum est, de eadem rursus quoniam malum est, opinio quae id quod est bonum bonum esse putat vera est, altera vero quae id quod est bonum malum esse arbitratur falsa est, vera autem et falsa contrariae sunt. Recte igitur has opiniones quas veritas falsitasque disiungit contrarias esse dicimus et sunt non contrariorum sed de una eademque re per contrarietatem ductae. Recte igitur dictum est non oportere definire contrarias opiniones in eo quod contrariorum sint sed potius in eo quod de eadem re contrarie suspicentur. Ordo vero sermonum talis est: NAM ARBITRARI, inquit, CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI IN EO, QUOD CONTRARIORUM SINT, id est in eo quod quaedam de contrariis opinentur, FALSUM EST. Quomodo autem falsum sit ipse declarat. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST ET MALI QUONIAM MALUM est EADEM FORTASSE est, id est non sibi sunt contrariae opiniones sed utraeque idem sunt. Quemadmodum autem idem sint ipse subiunxit dicens ET VERA. Idcirco enim idem sunt, quia verae sunt, contrarietas autem in veritate, ut dictum est, et falsitate est posita. Qua in re si consentiunt, idem in veritate et falsitate esse videbuntur. Nec hoc numerositas impediet. SIVE ENIM PLURES SIVE UNA SIT, in eo quod verae sunt idem sunt. SUNT AUTEM, inquit, ISTA CONTRARIA, id est quae in opinionibus versantur. SED NON EO QUOD VEL CONTRARIORUM SUNT vel do contrariis arbitrantur, contrariae opiniones inveniuntur sed ipsarum contrarietas inde nascitur, quod de una re contrario modo opinantur. Hoc est qund ait: sed magis eo quod contrarie. Hic enim contrarie adverbii loco positum est, tamquam si diceret: sed magis ea re contrariae sunt, quod contrarie opinantur, et subintellegimus de una scilicet re. Si enim non de una re contrarie opinentur sed de pluribus, poterunt non esse contrariae. Quod facile cauteque perspiciens unusquisque reperiet. SI ERGO EST BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM, EST VERO QUONIAM ALIQUID ALIUD QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, ALIARUM QUIDEM NULLA PONENDA EST, NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINANTUR NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST (INFINITAE ENIM UTRAEQUE SUNT, ET QUAECUMQUE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST ET QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST) SED IN QUIBUS EST FALLACIA. HAE AUTEM EX QUIBUS SUNT GENERATIONES. EX OPPOSITIS VERO GENERATIONES, QUARE ETIAM FALLACIA. Validam quidem sententiam brevissimis sermonibus clausit, cuius, ut breviter dicendum sit, haec vis est: qui de contrarietate propositionum nosse quaerebat, debebat primo quae propositionum non esset infinita constituere atque ad eam vim contrarietatis aptare. In omnibus enim contrariis unum uni contrarium est. Si autem sit quaedam in propositionibus infinitas, illa. Tota infinitas propositionum uni propositioni contraria esse non poterit. Hoc sumendo totum textum argumentationis ingreditur aitque non solum exspectari oportere in propositionibus quod falsa verae sit contraria sed quod inter omnes falsas illa falsa sit verae contraria, quae una est et non infinita. Possum esse infinitae propositiones et falsse, potest una finita eadem quoque falsa, quae verae contraria esse rationabiliter ponenda est. Volens ergo constare, quoniam negatio potius contraria sit affirmationi quam ea affirmatio quae contrarium ponit, hoc dicit: potest, inquit, esse opinatio quaedam quae id quod est de unaquaque re esse opinetur. Est etiam alia quae id quod non est rem ullam esse arbitretur. Est alia quae id quod secum habet res ulla proposita non eam habere pPomba. Est rursus alia quae id quod est res ipsa non eam id esse arbitretur. Ut autem hoc per uagatum luceat exemplum, sumpsit propositum de quo opinaretur aliquis id quod est bonum. Si quis igitur hoc bonum bonum esse opinetur, vere opinabitur. Rursus si quis hoc esse bonum quod non est bonum pPomba, falsa opinabitur: ut si quis arbitretur quoniam bonum laedit, quoniam inutile est, quoniam bonum iniustum est, is ea de bono opinabitur quae non sunt et hoc falsum est Rursus qui id quod in se habet bonum non habere arbitratur, is opinabitur hoc modo: bonum non esse utile, bonum non esse iustum, bonum non esse expetendum, et is quoque fallitur. Quod si quis sit qui hoc ipsum quod est bonum, non esse bonum arbitretur, ut non pPomba bonum neque malum esse, id est quod non est, neque expetendum esse, id est quod in sese habet sed id quod est ipsum bonum non esse, ita arbitratur bonum non esse bonum. Caeterae igitur omnes opiniones infinitae sunt. Possumus enim permulta colligere falsa quae cum non sint de unaquaque re ea tamen esse dicamus, ut in eo ipso bono possum dicere, quia malum est, possum quia turpe, quia iniustum, quia vitabile, quia periculosum, et caetera quaecumque in bono nullus inveniet et haeo sunt infinita. Rursus possum dicere ea quae habet bonum non esse in bono, ut si dicam bonum non esse utile, bonum non esse expetendum, bonum non esse quod auget atque haec quidem rursus infinita sunt. Sed quando id quod est aliqua res aufert opinio, hoc facere nisi semel non potest. Neque enim aliqua per id effici possum, si quod bonum est non esse bonum arbitratur. Ergo caeterae quaecumque aut id ƿ quod non est bonum esse arbitrantur aut id quod habet in sese bonum non esse arbitrantur falsae sunt sed in infinitum. Bonum autem ita nunc usurpat, tamquam si dicat bonitas. Si quis autem ipsam bonitatem non esse bonum arbitretur, is et falsus est et definito modo falsus est. Sed in falsis quae definita sunt et una numero, ea magis et proxime veris videntur esse contraria. Una enim res semper uni rei est contraria. Quocirca recte haec magis contraria est quae negat id quod est potius quam ea quae negat vel id quod in sese habet vel affirmat quod in se non habet. Hoc autem ut ostenderet non recto sermone usus est sed ad quiddam aliud orationem detorsit, quae res confusionem non minimam fecit. Nam cum dixisset non debere nos illas potius ponere contrarias verae opinioni quae infinitae sunt, subiunxit illud quod ait: SED IN QUIBUS EST FALLACIA. Haec autem est ex his ex quibus sunt et generationes. Hoc autem talem sententiam claudit: inquit opiniones veris opinionibus opponendum esse contrarias in quibus principium est fallaciae. Fallaciae autem ex his nascuntur ex quibus etiam et generationes, generationes autem in oppositis inveniuntur. Hoc autem tale est: omnis generatio ex permutatione eius quod fuit surgit. Nisi enim id quod fuit prius esse desierit, non potest esse generatio. Omne enim quod gignitur in aliam quodammodo formam substantiae permutatur. Ergo cum non fuerit id quod fuit tunc gignitur et est quiddam aliud quam fuit et qui fallitur id quod est quaelibet ƿ res non esse arbitratur. Nam qui quod bonum est malum esse putat fallitur sed fieri aliter non potest ut sit malum, nisi non sit bonum et in caeteris eodem modo. Fallacia igitur est et principium fallaciae est, quod quis id quod est aliqua res non eam esse arbitratur. Haec autem fallacia ex his est ex quibus sunt generationes. Omnis enim, ut dixi, generatio ex detrimento surget, ut quod fit dulce non fit ex albo sed ex non dulci, et rursus quod fit album non fit ex duro sed ex non albo, et caeterae generationes es negationibus potius proficiscuntur et est prima inde fallacia. Quod si ubi prima fallacia [ex quibus sunt generationes], ibi integerrima falsitas est et proxima verae opinioni, haec autem in oppositis reperiuntur, hoc est in affirmationibus et negationibus, dubium non est quin negationis opinatio magis contraria sit ea opinione quae contrarium aliquid in arbitratione confirmat. Et sensus quidem huiusmodi est, verba autem sese sic habent: SI ERGO EST, inquit, BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, quae scilicet vera est, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM EST, quae falsa est ac definita, EST VERO QUONIAM ALIQUID ALIUD EST QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, id est ea quae id esse adscribit quod non est, ALIARUM ƿ QUIDEM omnium NULLA PONENDA EST, dicit, NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINATUR, id est quae id quod non est res proposita esse eam putat, NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST, id est neque ea quae id quod habet res proposita in opinionibus negat. Cur autem istae non ponantur contrariae docet hoc modo: INFINITAE ENIM, inquit, UTRAEQUE SUNT, ET QUAE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST, ET QUAE NON ESSE QUOD EST. Sed quae magis ponenda est? IN QUIBUS EST, inquit, FALLACIA, id est in quibus principium fallaciae. Principium autem fallaciae unde ducitur? Ex his ducitur, EX QUIBUS SUNT ET GENERATIONES. Unde autem sunt generationes? EX OPPOSITIS. Omnis enim, ut dictum est, generatio ex eo quoniam non est id quod fuit, quod scilicet ad negationem vergit. Quare, inquit, etiam fallacia et principium fallaciae in oppositis invenitur, ubi etiam generahones, ex quibus est ipsa fallacia. SI ERGO QUOD BONUM EST ET BONUM ET NON MALUM EST, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS (ACCIDIT ENIM EI MALO NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST, ETIAM FALSA, SIQUIDEM ET VERA. ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST ƿ BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM ACCIDENS. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII.  Licet haec omnia in primae editionis secundo commentario diligentissime explicuerimus, ne tamen curta expositio huius libri esse videatur, hic quoque eadem repetentes explicabimus. Est namque ingressus huius argumentationis huiusmodi: si, inquit, posita vera propositione plures sint quae eam perimunt falsae, illa inter eas verae propositioni magis erit contraria, quaecumque magis est falsa. Quaerendum igitur est quae inter plures falsas propositiones magis falsa sit, ut ea verae propositioni magis videatur esse contraria. Hoc autem per veritatem dicendum est. Nam cum vere et per ipsam rem aliquid dici possit et per accidens, illud tamen maxime veritatis naturam tenet, quod secundum rem ipsam dicitur potius quam quod secundum aecidens venit. Ut si quis de bono opinetur, quoniam bonum est, hic secundum ipsam rem veram opinionom habet, sin vero aliquis arbitretur, quoniam bonum utile est, verum quidem opinabitur sed ista veritas de bono per accidens fit boni. Accidit ƿ enim bono ut utile quoque sit. Quare illa quae bonum bonum esse arbitratur per se vera est, id est secundum ipsam rem vera est, illa vero quae id quod bonum est utile esse opinatur per accidens boni vera est. Quare propinquior naturae bonitatis est ea quae id quod bonum est bonum esse arbitratur quam ea quae id quod bonum est utile. Quod si ita est, verior illa est quae secundum ipsam rem vera est potius quam ea quae secundum accidens videtur. His igitur ita constitutis et de falsitate idem dicendum. Falsa enim propositio quae illi verae contraria est, quae secundum se est, magis falsa est quam ea quae illam veram perimit, quae secundum accidens vera est. Nam si verior ea quae de ipsa natura rei verum aliquid opinatur, illa erit magis falsa quae perimit veriorem. Quod si illa, quamquam sit vera, minus tamen, quae de rei accidente pronuntiat, minus quoque illa erit falsa quae minus veriorem perimit. His igitur ita constitutis videamus nunc quemadmodum se in his habeant opinionibus vel propositionibus de quibus nunc tractatur. Idem igitur sit exemplum: ut supra dictum, id quod est bonum et bonum est et non malum sed quod bonum est secundum ipsam rem est, quod vero malum non est accidit ei. Nam id quod bonum est per naturam bonum est, quod vero malum non est secundo loco et quasi accidenter est. Ergo opinio de bono quoniam bonum est verior erit propinquiorque naturae ea opinione quae est de bono ƿ quoniam malum non est. Si igitur ita est et ea quae veriorem opinionem perimit magis falsa est quam ea quae illam quae quamquam vera sit minus tamen est vera, manifestum est quoniam negatio magis est falsior quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Nam negatio dicit non esse bonum quod bonum est, affirmatio vero malum esse quod bonum est: negatio ea quae est non esse bonum quod bonum illam secundum se opinionem veram perimit quae dicit bonum esse quod bonum est, illa vero affirmatio contrarii quae est malum esse quod bonum est illam opinionem perimit veram quae de bono secundum accidens est, id est non malum esse quod bonum est. Constat igitur magis falsam esse opinionem quae dicit non esse bonum quod bonum est potius quam eam quae opinatur malum esse quod bonum est. Quod si haec falsior, magis contraria: magis igitur contraria est negationis opinio quam contrariae affirmationis. Expedito igitur sensu verba ipsa discutienda sunt. SI ERGO, inquit, QUOD BONUM EST sit bonum et non sit malum, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, id est ut quod bonum est bonum sit, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS, hoc est quod bonum est ut malum non sit, (ACCIDIT ENIM EI MALUM NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA, QUAE SECUNDUM SE EST, nam quod secundum uniuscuiusque naturam est propinquius ƿ est ei rei cui secundum naturam: quocirca et veritas secundum rem, quia rei proxima est, verior est quam est ea quae secundum accidens est (hoc est enim quod ait: MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST): quod si hoc ita est, ETIAM FALSA, id est etiam illa est falsitas magis falsior quae illam perimit opinionem vel propositionem quae secundum se vera est, siquidem illa secundum naturam rei vera verior est quam quae secundum accidens vera est, hoc est enim quod dixit: SIQUIDEM ET VERA. Hoc igitur disponens exemplo confirmat: ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, hoc est illa quae opinatur illi opinioni quae secundum se vera fuit. Hoc enim haec verba demonstrant, quod dixit: ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, id est quae ipsum bonum negat bonum esse per se verae propositionis falsa est, id est opposita. Falsitas enim veritati opponitur. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM ACCIDENS, hoc est illa opinio quae id quod bonum est malum arbitratur esse falsa est et apta ei propositioni quae est secundum accidens vera, id est quae ƿ opinabatur bonum non esse malum. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII, id est magis contraria est negatio quam affirmatio contrarii, siquidem cum sint de bono utraeque praedicatae, falsior tamen negatio reperitur. Sed quod dixit bono accidere, ut malum non sit, non ita intellegendum est, quemadmodum solemus dicere substantiae aliquid acoidere. Neque enim fieri potest sed accidere hic intellegendum est secundo loco dici. Principaliter enim quod est bonum dicitur bonum, secundo vero loco dicitur non est malum. Hoc autem tractum est a similitudine substantiae et accidentis. Unaquaeque enim substantia principaliter quidem substantia est, secundo vero vel alba vel bipeda vel iacens vel quicquid substantiis accidere potest. FALSUS EST AUTEM MAGIS CIRCA SINGULA QUI HABET CONTRARIAM OPINIONEM; CONTRARIA ENIM EORUM QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT. QUODSI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, MAGIS VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS, MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC ERIT CONTRARIA. Vis omnis argumentationis, ut brevissime expediatur, huiusmodi est: omne verum aut secundum se verum est aut secundum accidens, quare necesse est etiam falsum aut secundum se falsum esse aut per accidens. Verum autem illud esse verius constat quod secundum se est potius quam illud quod per accidens. Qui vero contrariam de re aliqua habet opinionem quam res ipsa est, necesse est ut plurimum falsus sit. Etenim contrarietas opinionum, quotiens de una eademque re longissime a se absistentes opiniones sunt. Quod igitur magis falsum est, hoc erit etiam falsum contrarium. Illud enim quod magis a veritate abest, hoc magis falsum est. In opinionibus vero quae a se plurimum differunt, ea sunt contraria illa igitur in opinionibus contraria est quae plurimum falsa est. Est autem, ut dictum est, plurimum falsa, quae secundum se falsa est, id est quae illam perimit propositionem quae secundum se vera est. Quocirca (haec enim est negatio) negatio contraria est affirmationi potius quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Talis igitur sensus his verbis includitur: FALSUS EST AUTEM MAGIS, inquit, CIRCA SINGULA QUI HABET CONTRARIAM OPINIONEM. Quamquam enim possit esse quilibet falsus, etiamsi de eadem re contrariam non habeat opinionem, ille tamen magis fallitur qui contrarium aliquid opinatur. Hoc autem cur eveniat dicit: CONTRARIA ENIM EORUM SUNT QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT. Idcirco enim maxime falsa contraria opinantur, quia contrarietas non nisi in plurimum discrepantibus invenitur. QUOD SI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, id est quod si harum propositionum, quae per se falsa est vel quae per accidens, unam contrariam esse necesse est, MAGIS VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS, hoc est magis autem falsa negatio ƿ (hoc enim quod ait: MAGIS VERO CONTRARIA hoc sensit tamquam si dixisset: magis vero falsa contradictionis est, id est magis vero falsa negatio est), concludit: si illa, ut dictum est superius, ita sunt, MANIFESTUM esse, QUONIAM HAEC, id est contradictionis, ERIT CONTRARIA. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EST QUOD BONUM IMPLICITA EST; ETENIM QUONIAM NON BONUM EST NECESSE EST FERE IDEM IPSUM OPINARI.Postquam idcirco contrariam potius negationem esse monstravit, quod haec magis esset falsa quam ea quae contrarium affirmaret, et distinctione falsitatis contrariam esse propositionem opinionemque quae rem propositam negaret edocuit, nunc ex simplicibus implicitisque propositionibus opinionibusque idem nititur approbare. Dicit enim quod ea affirmatio quae contrarium ponit implicita et non simplex sit. Idcirco autem implicita est, quod quae arbitratur id quod bonum est malum esse mox illi quoque opinari necesse est id quod bonum est bonum non esse. Neque enim aliter esse malum potest, nisi bonum non sit. Quare qui quod bonum est malum esse arbitratur, et rem bonam malum putat et eandem ipsam non esse bonum. Non igitur simplex est haec opinio de bono, quoniam malum est. Continet enim intra se illam, quoniam non est bonum. Qui vero opinatur non esse bonum quod bonum est, non illi quoque necesse est opinari quoniam ƿ malum est. Potest enim et non esse aliquid bonum et malum non esse. Atque hoc quidem in his innititur rebus in quibus aliqua medietas poterit inveniri. Hoc quoque cautissime addidit. His igitur ita positis quoniam contrarii opinio non est simplex, simplex vero est negationis, necesse est ut contra simplicem opinionem simplex potius videatur esse contrarium. Est autem simplex opinio boni quoniam bonum est vera, simplex vero boni quoniam non bonum est falsa. Simplici igitur opinioni de bono quoniam bonum est simplex erit contraria, negationis scilicet, quae est boni quoniam non est bonum. Tota vero vis huius argumentationis hinc tracta est: quotiens vera est quaedam propositio et duae quae eam perimere possint, si una earum nihil indigens alterius veram propositionem perimat, reliqua vero praeter alteram eandem veram propositionem perimere non possit, illa magis dicenda contraria est, quae sibi sufficiens nec reliquae indigens propositam propositionem perimere valet. Veram autem propositionem de bono quoniam bonum est sola perimere potest et ad illius verae interitum est sibi ipsa sufficiens illa quae opinatur non esse bonum quod bonum est. Illa vero quae opinatur malum esse sibi sola non sufficiet, nisi illa quoque ei auxilietur, quae est id quod bonum est bonum non esse. Idcirco enim contraria illa aufert, quia secum negationem trahit. Manifestum est hanc quae ad verae ƿ propositionis interitum sibi ipsa sufficit recte magis videri contrariam quam eam quae sibi ipsa non sufficit, nisi ei vis negativae propositionis addatur. AMPLIUS, SI ETIAM IN ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM; AUT ENIM UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS AUT NUSQUAM. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIA, DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM FALSUS EST. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT, ET ALIAE CONTRADICTIONIS.Quod de his, inquit, propositionibus dicimus si hoc in omnibus invenitur, firmum debet esse quod dicimus. Neque enim verisimile est in aliis quidem propositionibus negationes esse contrarias, in aliis vero affirmationes quae contrarium ponunt sed si hoc in omnibus propositionibus invenitur et contradictionibus, ut contradictio potius contraria sit, id est negatio, quam quae contrarium habet, nihil est dubium quin haec ratio consistat in omnibus: sin vero in aliis ea quae contrarium ponit magis contraria est quam negatio, hic quoque ita sese manifestum est non habere. Ubi enim inveniri potest contrarietas, in his dubitatio est, quaenam sit contraria, utrumne ea quae contrarium affirmat an ea quae id quod propositum est negat. Ergo in his in quibus dubium non est quemadmodum ƿ sit hoc speculandum est. Dubium autem non est in his in quibus nulla est contrarietas, ut in substantiis. Hic enim solae sunt contrariae negationes. Si ergo huic opinioni quae est de homine quoniam homo est illa opponitur quae est de homine quoniam homo non est, manifestum est in aliis quoque in quibus contrarietas invenitur locum contrarietatis negationem potius optinere. [Nam si in his in quibus contrarietas est, ut in bono vel malo, manifestum est potius illam esse contrariam quae bonum negaret quam eam quae malum opponeret ei quae id quod bonum est bonum esse arbitretur, nec in his eam contrariam esse oporteret in quibus contrarietas nulla est.] Quid enim attinet cum de homine dicimus, quod contrarium non habet, ibi esse negationem contrariam, cum vero de bono, quod contrarium habet, ibi non esse sed potius eam quae contrarium poneret? Quodcumque enim convertitur a negatione suam vim in omnibus servare debet.Quod ergo dicitur ab Aristotele, ut breviter explicem, tale est: si in aliis negatio est contraria, hie quoque negationem esse contrariam manifestum est quod si in aliis minime, in his quoque quae supra posuit. Sed in omnibus aliis in quibus contrarietas non invenitur contradictio contrarietatis locum tenet, et in his igitur in quibus est aliqua contrarietas eundem locum neque alium tenebit. Quod in his verbis ƿ explicuit: AMPLIUS, SI ETIAM IN ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM. Nam si in caeteris omnibus ita se habere necesse est, et in his quae supra sunt dicta ita sese habet et id quod dictum est optime dictum esse videbitur. AUT ENIM UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS alicubi quidem contrariam reperiri, alicubi vero minime. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIUM, ut in substantiis in quibus nulla est contraria (hoc enim nos, si bene meminimus, praedicamenta docuerunt), DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, id est in his invenitur quidem opposita falsa opinio verae opinion) sed quae sit ista manifestum est. Nam ubi nulla contrarietas, liquet contradictionis esse contrarietatem. UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM FALSUS EST. Haec enim sola contrarietas verae propositionis invenitur. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT, et illae aliae quae sunt CONTRADICTIONIS, id est si in his quae contrarietatem non habent negationes sunt contrariae (necesse est enim aliquas esse contraries), in aliis omnibus etiam in quibus est aliqua contrarietas, ut bono et malo, negatio locum optinet contrarietatis. AMPLIUS SIMILITER SE HABET BOND QUONIAM BONUM EST ET NON BOND QUONIAM NON BONUM ƿ EST, ET SUPER HAS BONI QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI QUONIAM BONUM EST. ILLI ERGO QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM VERAE OPINIONI QUAE EST CONTRARIA? NON ENIM EA QUAE DICIT QUONIAM MALUM; SIMUL ENIM ALIQUANDO ERIT VERA, NUMQUAM AUTEM VERA VERAE CONTRARIA EST; EST ENIM QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE CONTINGIT SIMUL VERAS ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET HAEC ERUNT. RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM CONTRARIA EA QUAE EST NON BONI QUONIAM BONUM, QUARE ET EA QUAE EST BONI QUONIAM NON BONUM EI QUAE EST BONI QUONIAM BONUM. Quaecumque superius dicta sunt, ea rursus validiore per proportionem argumentatione confirmat. Proportio autem est rerum inter se inuicem similitudo. Si igitur positae sint res quatuor, quarum duae sint praecedentes, reliquae sequentes, et sic se habeat prima ad secundam quemadmodum tertia ad quartam, necesse est ita sese habere primam ad tertiam quemadmodum fuerit secunda ad quartam. Hoc enim ipsum ƿ breviter facillimeque numeris agnoscamus. Sit enim primus numerus II, secundus VI, rursus inchoantibus tertius IIII, quartus XII. II VI IIII XII  In his igitur praecedentes quidem unt duo et quattuor, sequentes vero sex et duodecim. Sunt autem ut duo ad sex, ita quatuor ad duodecim. Nam sicut duo senarii tertia pars est, ita quaternarius duodenarii tertia pars est. Quocirca sicuti quaternarius praecedens ad sequentem, ita alius praecedens ad alium sequentem erit; ut praecedens ad praecedentem, ita sequens ad sequentem. Sed duo ad quatuor qui sunt praecedentes medietas est, et sex igitur ad duodecim medietas est. Igitur in omni proportione hoc respiciendum, quod si de quatuor propositis rebus sicut prima est ad secundam, ita tertia ad quartam, erit ut prima ad tertiam, ita secunda ad quartam. Ista igitur numerorum proportio ad propositionum vim naturamque transferatur sintque duae propositiones primae, quarum una praecedens, altera sequens, et aliae rursus duae, quarum una praecedens, altera similiter sequens, et in his sit aliqua similitudo. Sit enim prima boni quoniam bonum est, hanc sequatur boni quoniam ƿ bonum non est. Rursus sit praecedens tertia non boni quoniam non bonum est, hanc autem sequens quarta non boni quoniam bonum est. I II Boni quoniam bonum est Boni quoniam boni non est III IIII Non boni quoniam non bonum est Non boni quoniam bonum est  Praesciatur igitur in his quae sit proportionis similitudo. Est enim ut prima boni quoniam bonum est ad secundam boni quoniam bonum non est, ita tertia non boni quoniam bonum non est ad quartam non boni quoniam bonum est. Nam sicut boni quoniam bonum est vera propositio est, falsa autem boni quomam non est bonum, ita quoque non boni quoniam non est bonum vera propositio est, falsa autem non boni quoniam bonum est. Quod si ita est et eodem modo sese habet opinio boni quoniam bonum est ad opinionem quae est boni quoniam bonum non est, quemadmodum etiam opinio non boni quoniam non bonum est ad opinionem non boni quoniam bonum est, et quemadmodum se habet prima ad tertiam, ita sese habebit secunda ad quartam. Quemadmodum sese habet igitur boni quoniam bonum est ad eam quae est non boni quoniam non bonum est, cum utraeque sint verae, ita sese habet opinio boni quoniam bonum non est ad opinionem non boni quoniam bonum est, quod ipsae quoque utraeque sunt falsae. Nam ut istae ƿ simul verae, ita illae simul falsae. Quocirca ut est prima ad tertiam, ita secunda ad quartam. Ostensa igitur hac proportione immutato ordine eaedem disponantur. Sed sit prior opinio ea quae est non boni quoniam bonum non est eamque sequatur boni quoniam bonum est et sub his praecedens tertia non boni quoniam bonum est, quarta sequens boni quoniam bonum non est. I VERA II VERA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam bonum est III FALSA IIII FALSA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam bonum non est  Ut igitur superius demonstratum est, ita se habet opinio non boni quoniam non bonum est ad eam opinionem quae est boni quoniam bonum est, quemadmodum non boni quoniam bonum est ad eam quae est boni quoniam non est bonum. Ut enim illae simul verae, ita hae simul falsae eademque proportio est. Quocirca erit sicut prima quae est non boni quoniam non bonum est ad tertiam eam quae est non boni quoniam bonum est, ita erit secunda boni quoniam bonum est ad quartam boni quoniam non est bonum. Requirendum igitur est quemadmodum hic nunc sit prima ad tertiam, ut ex eo speculemur, quemadmodum sit secunda ad quartam. Dico enim, quoniam huic opinioni quae arbitratur non esse bonum quod bonum non est contraria illa est quae arbitratur id quod ƿ bonum non est bonum esse. Age enim, si potis est, contra eam opinionem quae id quod bonum non est non bonum putat sit ea quae id quod bonum non est malum putat. Sed hoc fieri non potest. Contrariae enim opiniones simul numquam verae sunt, possunt autem simul hae esse verae. Si quis enim parricidium quod non est bonum pPomba non esse bonum, idem quoque parricidium quod per naturam non est bonum malum pPomba, vere in utraque opinione arbitratur. Igitur non est contraria opinio ei quae id quod bonum non est non bonum putat ea quae id quod bonum non est malum arbitrator. Rursus ponatur eidem opinioni de non bono quoniam non est bonum contraria ea quae arbitratur id quod non est bonum non esse malum. Id quoque interdum est. Fieri enim potest ut id quod bonum non est nec malum sit. Neque enim omnia quaecumque bona non sunt statim mala sunt sed est ut bona quidem non sint, nec tamen mala sint. Si quis enim lapidem nequiquam iacentem, quod per se bonum non est, non bonum esse pPomba, vere arbitrabitur, idem ipsum lapidem, quod per se bonum non est, si non malum pPomba, nihil eius opinioni falsitatis incurrit. Quare quoniam ea quae est non boni quoniam non bonum est et cum ea quae est non boni quoniam malum est et cum ea quae est non boni quoniam non est malum vera aliquotiens ƿ invenitur, neutri contraria est. Restat igitur ut ei sit contraria opinio non boni quoniam non bonum est quae opinatur id quod non est bonum bonum esse, haec autem est non boni quoniam bonum est. Contraria igitur est non boni quoniam non bonum est ei quae est non boni quoniam bonum est. Sed hic ita sese habebat opinio non boni quoniam bonum est ad opinionem non boni quoniam non bonum est, quemadmodum opinio boni quoniam bonum est ad eandem opinionem quae est boni quoniam non est bonum. Sed prima tertisque contrariae, secunda igitur quartaque secundum similitudinem proportionis sunt sine ulla dubitatione contrariae. Potest vero et simplicius intellegi hoc modo: si boni quoniam bonum est opinio et non boni quoniam non est bonum opinio similes secundum veritatem sunt, boni autem quoniam non est bonum et rursus non boni quoniam bonum est ipsae quoque similes secundum falsitatem sunt, si una falsarum uni verarum opinionum inventa fuerit contraria, erit reliqua falsa reliquae verae contraria, quod sola efficit similitudo. Ostenditur autem una falsa uni verae, quemadmodum supra exposuimus, contraria, hoc est ea quae dicit id quod non est bonum bonum esse ei quae arbitratur id quod non est bonum non esse bonum. Relinquitur igitur ea quae arbitratur id quod bonum est non esse bonum contraria esse ei quae opinatur id quod bonum est esse bonum. Qua in re colligitur negationem potius quam contrarium ƿ ponentem affirmationem verae affirmationi esse contrariam. Perplexa igitur sententia his modis quibus diximus expedita est sed se sic habet ordo sermonum: AMPLIUS, inquit, SIMILITER SE HABET BONI QUONIAM BONUM EST ET NON BONI QUONIAM NON BONUM EST, quae utraeque verae sunt, ET SUPER HAS BONI QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI QUONIAM BONUM EST, quae sunt utraeque mendaces. ILLI ERGO QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM est VERAE OPINIONI QUAENAM EST CONTRARIA? Hoc quasi interrogativo modo dictum est. NON ENIM EA QUAE DICIT QUONIAM MALUM est, quoniam simul aliquando esse poterit vera. Hoc autem in contrariis non potest inveniri. NUMQUAM enim VERA VERAE CONTRARIA EST. Quemadmodum autem fieri potest, ut simul sint verae? Quoniam est QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE CONTINGIT SIMUL VERAS ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET HAE ERUNT, id est possunt aliquando simul esse verae, in his praesertim rebus quae inter bonum malumque sunt. RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM, quae scilicet vera est, CONTRARIA EA QUAE EST NON BONI QUONIAM BONUM est, quae falsa est et simul vera non potest inveniri. QUARE, ad similitudinem superius positam proportionis reuertitur, ut dicat ET EAM QUAE EST BONI QUONIAM NON BONUM EST EI QUAE EST BONI QUONIAM ƿ BONUM est contrariam. Quod si quis ea quae superius dicta sunt diligentius intuetur, nec in totius sententiae statu nec quicquam in ordine fallitur. MANIFESTUM VERO QUONIAM NIHIL INTEREST, NEC SI UNIVERSALITER PONAMUS AFFIRMATIONEM; HUIC ENIM UNIVERSALIS NEGATIO CONTRARIA ERIT, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST EA QUAE EST QUONIAM NIHIL EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST. In superiori argumentatione omnia de indefinitis explicuit sed quoniam fortasse aliquis poterat suspicari non eandem rationem esse posse in his propositionibus quae sunt definitae atque in his aliquid interesse, utrum eadem demonstratio in his quae indefinitae sunt eveniret, hoc addit nihil interesse, utrum eandem demonstrationem, quam ipse superius in propositionibus indefinitis fecit, quisquam faciat in universalibus, quae iam sine dubio definitae sunt. Si quis enim secundum indefinitarum propositionum superiorem dispositionem definitas disponat easque secundum praedictum modum speculetur, non aliam universatis affirmationis opinioni contrariam reperiet quam eam quae est universalis negationis opinio. Nihil enim interest inter indefinitas definitasque propositiones, nisi quod indefinitae quidem sine determinatione, definitae ƿ vero cum augmento determinationis sunt, vel universalitatis vel particularitatis. Hoc est enim quod ait: NIHIL INTEREST, NEC SI UNIVERSALITER ponatur affirmatio. Universali namque affirmationi universalis contraria erit negatio, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST, quae scilicet est universalis affirmationis, EA SIT CONTRARIA QUAE EST QUONIAM NIHIL EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST, hoc est opinio universalis negationis. Hoc autem cur fiat ostendit. NAM EA QUAE EST BOVI QUONIAM BONUM, SI UNIVERSALITER SIT BONUM, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID EST BONUM QUONIAM BONUM EST. NIHIL DIFFERT AB EO QUOD EST OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER AUTEM ET IN NON BONO. Gradatim indefinitam propositionem ad similitudinem universalis adduxit. Dicit autem: quaecumque fuerit indefinita propositio, ei si quod in sermone solemus dicere quicquid addatur, universalis fit, ut nihil omnino distet ea quae ad rem in affirmatione omne praedicat. Ut ea opinio vel propositio quae est de bono quoniam bonum est hoc scilicet opinatur, quoniam bonum bonum est, huic si addatur quicquid, ut ita dicamus: quicquid bonum est bonum est, nihil differt ab ea quae opinatur omne bonum bonum esse. Quare eadem vis est superioris demonstrationis in ƿ propositionibus indefinitis, quae etiam in universalibus, quae paruulum quiddam distant, quod non ad qualitatem nec ad vim propositionis sed ad quantitatem refertur. Universalitas enim quantitatis ponitur. Et sensus quidem huiusmodi est, verba vero sic sunt. Superius proposuerat nihil interesse, an indefinita esset propositio an universalis. Cur autem nihil intersit hoc modo dicit: NAM EA QUAE EST BONI QUONIAM BONUM est, id est indefinita affirmatio, SI UNIVERSALITER SIT BONUM, id est si bonum universaliter proferatur, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID BONUM EST QUONIAM BONUM EST, id est nihil discrepat ab ea opinione quae opinatur quicquid bonum est bonum esse. Huiusmodi autem opinio NIHIL DIFFERT AB ea, quae aperte universaliter proponitur, quae est OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER AUTEM ET IN NON BONO, id est non bonum quoque eadem ratione dicimus. Ea namque propositio vel opinio quae opinatur non bonum esse quod non bonum est, si ei adicitur universalitas, nihil differt ab ea quae dicit quicquid non bonum est non est bonum. Haec autem nullo distat ab ea, quae universaliter aperte proponitur, quae est omne quod bonum non est non est bonum. QUARE SI IN OPINIONE SIC SE HABET, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET ƿ NEGATIONES NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRM ATIONI CONTRARIA QUIDEM NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS, UT EI QUAE EST QUONIAM OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EA QUAE EST VEL QUONIAM NULLUM VEL NULLUS, CONTRADICTORIE AUTEM AUT NON OMNIS AUT NON OMNE. Superiores omnes argumentationes ad unum colligit redigitque ad conclusionem omnem quaestionis vim. Supra enim negationes et affirmationes earumque contrarietates de opinionibus pensari oportere praedixerat, nunc vero quoniam in opinionibus repperit illam contrariam esse, quae esset universalis negatio, idem refert ad propositiones, quas manifestum est, quoniam voces sunt et significativae, passiones animi designare. In principio enim libri significativas voces passiones animae monstrare veraciter docuit, nunc ea velut probaturus est: quoniam in opinionibus illa potius contraria universali affirmationi reperta est, quae esset universalis negatio potius quam ea quae contrarium universali affirmationi affirmaret, idem quoque arbitratur in vocibus provenire, hoc est affirmationi universali non affirmationem contrariam rem ponentem sed universalem negationem esse contrariam, ƿ contradictorias vero eas quae, cum affirmatio universalis esset, particularis negatio inveniretur. Atque hoc quidem planissime dictum est nec aliquis in verbis error est sed nos, ut caetera nihil ambiguum relinquentes ipsorum quoque verborum, eorum ordinem persequemur. Ait enim: QUARE SI IN OPINIONE SE SIC HABET, id est quod opinio negationis contraria invenitur opinioni affirmationis potius quam contrarium ponens affirmatio, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET NEGATIONES NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA (nam sicut in voce affirmatio et negatio est, ita quoque etiam in opinione, cum ipse animus in cogitatione sua aliquid affirmat aut quid negat, quod nos alio loco diligentius expediemus): ergo quoniam affirmationes et negationes quae sunt in voce notae earum sunt affirmationum vel negationum quae sunt in anima, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRMATIONI CONTRARI. QUIDEM EST NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS. CIRCA IDEM autem addidit, ne disiunctas affirmationes et negationes contrarias diceremus sed ut affirmatio et negatio de una eademque re illa quidem universaliter affirmaret, illa vero universaliter negaret. Earum autem exempla haec sunt: UT EI QUAE EST QUONIAM ƿ OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EST EA QUAE EST QUONIAM NULLUM, id est nullum bonum bonum est, quae contraria est, VEL NULLUS, hoc est quoniam nullus homo bonus est. CONTRADICTORIA AUTEM AUT NON OMNIS, id est non omnis homo bonus est contra eam quae dicit: Omnis homo bonus est  AUT NON OMNE, hoc est non omne bonum bonum est contra eam quae dicit quoniam omne bonum bonum est. Constat igitur in his propositionibus quas supra proposuit illam magis esse contrariam, affirmationi quae dicit: Omnis homo iustus est  eam quae dicit: Nullus homo iustus est  potius quam eam quae dicit: Omnis homo iniustus est  MANIFESTUM AUTEM QUONIAM ET VERAM VERAE NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM NEC OPINIOVEM NEC CONTRADICTIONEM. CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT VERUM DICERE EUNDEM; SIMUL AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA. Post haec libri terminum expedit in ea speculatione et demonstratione, per quam, licet verum sit manifestumque omnibus duas propositiones veras non esse contrarias, tamen id ipsum demonstrare conatur. Est autem huius argumentationis ingressus huiusmodi: ea quae sunt contraria opposita sunt, opposita vero non possunt eidem simul inesse: contraria igitur eidem simul inesse non possunt. De quibus autem aliquid simul verum dici potest, illa simul eidem inesse possunt, quae vero simul eidem inesse ƿ non possunt, de his simul verae propositiones, affirmatio et negatio, esse non possunt. Sed contraria simul eidem inesse non possunt: quae igitur simul verum dicunt contrariae non sunt, idcirco quoniam de quibus et affirmatio et negatio simul verae esse possunt, illa simul eidem insunt. Quocirca quae simul verae sunt contrariae non sunt. Sensus hic est, verba autem sic constant: MANIFESTUM AUTEM EST, inquit, QUONIAM ET VERAM VERAE NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM, id est duas veras propositiones non posse esse contrarias? NEC OPINIONEM NEC CONTRADICTIONEM: si opinio non est vera verae contraria, multo magis nec contradictio quae ex opinionibus venit. Contradictio autem hic pro contrarietate posuit: de ea enim non agebatur. CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, id est omne contrarium oppositum. CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT VERUM DICERE, idcirco quod de his solis et negatio et affirmatio verae simul esse possunt, quae eidem simul esse contingit, SIMUL AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA, ut concludatur: quoniam de quibus affirmatio et negatio simul verae sunt, ea simul eidem inesse possunt, contraria vero simul eidem inesse non possunt, quae simul verae sunt non possunt esse contrarialNoster quoque labor iam tranquillo constitit portu. Nihil enim, ut arbitror, relictum est quod ad plenam ƿ huius libri notitiam pertineret. Quare si rem propositam studio diligentiaque perfecimus, erit perutile his qui harum rerum scientia complectendarum cupiditate tenebuntur: sin vero minus id eiecimus, quod nobis propositum fuit, ut obscurissimas libri sententias enodaremus, labori nostro nihil ut aliis nocituro, et si non proderit, obloquitur.  Multa ueteres philosophiae duces posteriorum studiis contulerunt, in quibus priusquam ad res profunda mersas caligine peiuenirent qandam quasi intelligentiae luctatione praeluderent: hinc institutionum breuior compendii facilitate doctrina, hinc per ea quae illi *prolegomena* uocant, ad intelligentiam promptior uiam unitur. Huius igitur aemulus prouidentiae statui obscura rum aditus doctrinarum praemissae institutionis luce reserare, et praesentem operam syllogismis quorum connexionibus omnis ratio continetur, addicere, modumque eum custodire dicendi, ut facilitati atque intelligentiae seruientes, astringamus a ueteribus dicta latius, enuntiata breuius porrigamus, obscurata improprii nouitate sermonis consueti uocabuli proprietate pandamus. Sed qui ad hoc opus lector accedit, ab eo primitus petitum uelimus ne in hic quae nunquam alias attigerit statim audeat iudicare, neue si quid in ludo puerilium disciplinarum rudis adhuc et nondum firmus acceperit, id amplexandum atque etiam colendum pPomba; alia enim teneris atque imbuendis adhuc auribus accomotata, alia firmis ac robustioribus doctrina mentibus, reseruatur. Quare si quid est quod discrepet, ne statim obstrepat sed ratione consulta, quid ipse sentiat quid nos afferamus, ueriore mentis acumine et subtiliore consideratione diiudicet. Idem namque eueniet, ut quae in primo statim studendi aditu didicerunt, perspecta penitus ac potius deprehensa contemnant. At si iam quisque duae scientiae defensor esse cupidus malit (habent hoc quoque uitii homines quos comprehendit discendi uetus ac longa, segnities, ut si arreptis semel opinionibus non recedant, ne in senectute discendo, nihil usque in senectutem didicisse uideantur), si, inquam, malunt uindicare quam uertere quae uulgatis semel etudiis imbiberunt, nemo expetit ut priora condemnent sed ut maiora quaedam construant atque altiora coniungant. Non enim una atque eadem diuersarum ratio disciplinarum, cum sit diuersissimis disciplinis una atque eadem substantia materies. Aliter enim de qualibet orationis parte grammatico, aliter dialectico disserendum est, nec eodem modo lineam uel superficiem mathematicus ac physicus tractant. Quo fit ut altera alteram non impediat disciplina, sed multorum consideratione coniuncta fiat uera naturae atque ex omnibus  explicata cognitio.  Sed de his hactenus; nunc de propositis ordinamur. Quoniam igitur nobis hoc opus est in categoricos syllogismos, syllogismorum uero compago propositionibus texitur, propositionum uero partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est, prior est; de nomine et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur, dehinc de propositione ad ultimum de syllogismorum connexione tractabitur.  Nomen est uox significatiua secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars significatiua eit separata; quae definitio paulo enodatius explicanda est.  Nomen enim uocem esse dicimus, quoniam uox nominum genus est; omne autem genus de sua specie praedicatur, omnisque definitio a genere sumitur, ut si definias hominem prius animal dicas, quod est genus, Post uero differentias iungas quae sunt rationale et mortale. Ita igitur nos quoque in nominis difinitione uocem quidem ut genus sumimus, caetera autem uoci quasi differentiae aggregamus, uelut quod nomen designatiua uox dicitur. Sunt enim uoces quae nihil designant, ut syllabae, nomen uero designatiua uox est, quon iam nomen designat id semper cuius nomen est.  Secundum placitum uero adiunctum est, quoniam nullum nomen natura significat sed secundum placitum ponentis constituentisque uoluntatem. Illud enim unaquaeque res dicitur quodei placuit qui primus rei nomen impressit. Aliae enim sunt uoces naturaliter significantes, ut canum latratus, iras canum significat, et aliae eius quaedam uox blandimenta; gemitus etiam designant dolorem, sed non sunt nomina, quia non designant secundum placitum sed secundum naturam.  Sine tempore uero, quod et uerba uoces sunt significatiuae et secundum placitum sed distant a nominibus, quia nomina quidem sine tempore sunt, uerba uero cum tempore.  Cuius nulla pars significatiua est separata, nomina ab oratione disiungit. Oratio namque uox est significatiua secundum placitum et aliquoties sine tempore, ut hic uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae. Sed orationis partes, separatae a tota oratione, designant: nominum uero nihil extra designat, atque in illis quidem nominibus quae figurae sunt simplicis nihil pars omnino significare manifestum est, ut in eo quod est Cicero, nulla pars separata [763C] designat neque ci, neque ce, neque ro.  At si nomen compositum fiat, significare aliquid separata, partes uidentur; sed in eodem nomine quod ex utrisque compositum est, separate nihil designant, ut si dicam magister, partes eius nominis sunt magis atque ter, quae sumpta extrinsecus et a nominis parte separatae significatione non carent, utraque enim ad uerbi aliter significat quantitatem; sed cum magister quod est compositum nomen alicuius artis peritum doctoremque significet, magis neque partem doctoris, neque totum doctorem poterit designare. Eodem quoque modo ter, neque in toto significat, neque in parte doctorem, id est, rem illam quae magistri uocabulo subiecta est nulla ratione designat.  Compositorum ergo nominum partes nihil eius rei quam in unum conuenientes uocabulum designabant disiunctae distractaeque significant; alia uero significare possunt sed tunc non partes nominis sed ipsa sunt nomina. Quod enim coniuncta significant, id diuisa atque se posita non designant. iuncta autem magis et ter doctoris significationem tenebant, separata igitur omnem significationem doctoris amitunt.  Sed ne quis superius posito calumnietur exemplo, nec magister compositum nomen esse concedat, uir fortis esse compositum nomen, si uno praeferatur accentu nullus negabit, cuius partes uir atque fortis quod in eo quod est uir fortis significare dicantur, non iam nominis partes sed ipsa sunt nomina, nec uir fortis unius erit nomen sed potius oratio, quae duorum nominum collata significatione conuincitur, quod uir fortis cum unius accentus intentione prolatum non est oratio sed nomen, cuius partes nomina esse non poterunt, ac si nomina non sunt, cum neque naturales affectus neque actus, ut uerba significent, omnino non nihil designant. Quare concludendum est, cum quaelibet uoces propriam significationem tenent, non partes nominum, sed ipsa esse nomina, cum uero unius formam nominis copulauerint, eo considerantur ut partes uim propriae significationis amittere.  Sed de his in commentario libri *Peri hermeneias* Aristotelis satis dictum est, et maior eius rei tractatus est quam ut nunc totus ualeat expediri.  Sed quoniam sunt quaedam uoces quae et designatiuae sunt et secundum placitum, et sine tempore, quarumque partes nihil extra significant, neque tamen proprietates nominis naturamque obseruent, discernendae prius sunt, additisque differentiis a nomine segregandae, ut quae sit uis nominis euidenter appareat. Adiecta enim semper negatio nomini, uocem dubiam facit, quae neque uerbo neque orationi, etsi interius consideratum sit, neque nomini possit annecti, ut si quis dicat, non homo, uox est significatiua. Designat enim quidquid homo non fuerit, secundum placitum. Eas enim omnino partes habet quis ad significationem uel negationis uel hominis placitum uocabula ponentis assumpsit. Sine tempore, quae res eam uocem quae dicit non homo separat ac seiungit a uerbo, cuius partes nihil extra significant, ne oratio esse uideatur. Non homo enim uox seiuncta est ex negatiua particula et homine, quae in eodem nomine separata nihil designant, significat enim non homo, uel equum, uel canem, uel quidquid (ut dictum est) non homo non fuerit. Sed quae est negatiua, neque hominis, neque equi, neque ullius substantiae significationem tenet. Item homo neque canem, neque quidquid homo non fuerit, significare potest; quocirca in ea uoce quae est non homo partes nihil separatae significant eius rei quam tota uocis compositio designabat. Atque ideo nec in oratione quidem poni potest. Si quis enim eam uocem quae est non homo orationem concedat, nihil aliud eam esse fatebitur quam negationem. Negatio autem omnis uera uel falsa est. Qui autem dicit non homo, neque ueritatem nuntiat, neque mendacium. Praeterea ab omni negatione si quis negatiuum seiungat aduerbium, affirmatio relinquetur; ab ea autem uoce quae est non homo, si quis aufert id quod est negatiuum aduerbium, homo relinquetur, quod nondum est affirmatio. Quocirca si non homo haec uox negatio esse non potest, nihil autem aliud esse uideretur si esset oratio, concludendum est negationem iunctam eum nomine orationem esse non posse. Nomen enim omne certum aliquid definitumque significat, ut homo, equus, canis et caetera; non homo autem uox aufert quidem quod significatur a nomine, nec praescribit quid ipse significet. Quocirca quoniam significat quidem aliquid sed non finitum negatio iuncta cum homine, infinitum nomen uocetur.  Addenda est ergo definitioni nominis differentia, scilicet ut nomen sit quod cum caeteris quae dicta sunt sit definitae significationis. Iam uero casus nominum non altius intuentibus nomina uideantur. Quid enim Catonis, et Catoni, atque huiusmodi uoces quae rectis nominibus inflectuntur, nomina esse non existimet? Sed hae quoque uoces a nomine quadam differentia discrepabunt. Omne enim nomen iunctum cum est uerbo, enuntiationem reddit ac suscipit mendacii ueritatisque naturam, ut Cato est, uel dies est, at si est uerbum casibus adiungatur, neque enuntiatio sit, neque plena sententia orationis absoluitur, ut Catonis est, nec sententiam habet absolutam, nec ueri aliquid potest notare nec falsi, atque idcirco non nomina, sed casus nominum nuncupantur. Nam cum id a quo quidquam flectitur primum sit, illud uero quod ab inflexione primi nascitur sit secundum, neque idem primum ac secundum esse possit, manifestum est casus nominum non idem esse quod nomina: idcirco caeteros quidem genitiuum, datiuum, accusatiuum, casus appellant grammatici, primum uero rectum ac nominatiuum quod hic locum principem in significatione possederit.  Facienda est igitur nominis plena neque ullo diminuta definitio sic: Nomen est uox significatiua secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum designans, cum est uerbo coniuncta faciens enuntiationem.  Separat igitur nomen uox quidem ab articulis atque inanimatis sonis; designatiua uero a uocibus quae nihil significant, secundum placitum a uocibus aliquid natura significantibus; sine tempore a uerbo quod a temporis significatione non recedit, cuius nulla pars separata significat, ab oratione, cuius quemadmodum partes extra significent, paulo posterius disseram; aliquid definitum designans, ab his uocibus quae nomen negationemque coniungunt et nomina faciunt infinita, cum est uerbo faciens enuntiationem, a casibus qui cum est copulati non possunt plenam perficere atque explicare sententiam.  In uerbo quoque eadem fere cuncta conueniunt, nisi quod in significatione temporis a nomine separatur. Omne enim uerbum actionem passionemue designat, quae fieri sine temporis notatione non potest. Est itaque uerbi definitio haec: uerbum est uox significatiua secundum placitum cum tempore, cuius nulla pars significatiua est separata, ut currit, uincit; sed si uerbis negatiua copulentur aduerbia, fiunt infinita uerba, sicut fieri nomina diximus infinita, ut cum currit, nut uincit, certum aliquid finitumue designet, addita negatione, id quidem quod a uerbo designatur intercipit, quid uero aliud fieri dicat tali significatione non terminat; praeterea negatio iuncta cum uerbo siue in eo quod est, siue in eo quod non est, recte dici potest, ut homo non currit. Non esse autem orationem aut enuntiationem negatiuam illa prorsus argumenta monstrabunt, quae infinitum nomen ab oratione aut negatione diuidebant. Sed quoniam principaliter praesentia quaeque sentimus, his autem rebus quas praesenti sensu concipimus indita esse a mortalibus uocabula manifestum est, recte dicis uerbum semper significationis temporis habere praesentis, ut currit aut uincit. Curret autem aut uincet, et cucurrerit aut uicerit, non sunt uerba sed uerborum casus, scilicet quia a praesentis temporis significatione flectuntur; est ergo uerbi plena definitio sic: Verbum est uox significatiua secundum placitum cum significatione temporis, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum designans et praesens.  Restat igitur ut de oratione dicamus sed prius uidetur esse monstrandum utrumne nomen et uerbum sola in partibus orationis ponantur, an ut grammatici uolunt et reliquae orationis partibus debeant aggregari. Grammatici enim considerantes uocum figuras, octo orationis partes annumerant. Philosophi uero, quorum omnis de nomine uerboque tractatus in significatione est constituta, duas tantum orationis partes esse docuerunt, quidquid plenam significationem tenet, siquidem sine tempore significat, nomen uocantes, uerbum uero si cum tempore: atque ideo aduerbia quidem atque pronomina nominibus iungunt, sine tempore enim quiddam constitutum definitumque significant, nec interest quod flecti casibus nequeunt, non est hoc nominum proprium ut casibus inflectantur. Sunt enim nomina quae a grammaticis *monoptota* nominantur, participium uero quia temporis significationem trahit, etsi casibus effertur, uerbo tamen recte coniungitur. Interiectiones autem siquidem, naturaliter significent, nec uerbo, nec nomini copulandae sunt; uerbi enim ac nominis definitiones non habent esse naturalia sed ad ponentis placitum constituta, atque ideo nec in orationis partibus numerabuntur. Oratio enim positione significat, nam si naturaliter significaret oratio, non diuersa gentes orationes loquerentur. Si quae uero interiectionem positione significant, quoniam finitam sine tempore affectionem designant, recte nominibus annumerantur. Quae uero ipsa, quidem nulla propria significatione nituntur, cum aliis uero iunctae designant, ut coniunctiones atque praepositiones, illae ne partes quidem orationis esse dicendae sunt; oratio enim ex significatiuis partibus iuncta est. Quocirca recte nomen ac uerbum solae orationis partes esse dicuntur. Oratio est uox significatiua secundum placitam, cuius partes aliquid extra significant ut dictio, non ut affirmatio.  Oratio igitur habet simul cum uerbo et nomine commune, quod uox est, quod significatiua est, quod secundum placitum est. Separatim uero cum nomine illi commune, est quod aliquando sine tempore est, ut Virgilianus quem supradiximus uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae  et qui sequitur: Candidior cygnis, bedera formosior alba.  Cum uerbo autem quod interdum cum temporis significatione profertur, ut: Si qua tui Coridonis habet te cura, uenito.  Differt autem ab utroque quod partes orationis a tota separatae oratione significant. Sunt enim partes orationis nomen et uerbum quae significatiua esse dum ea definiremus ostendimus. Significant igitur partes orationis ut dictio, non ut affirmatio, quanquam aliquoties quidem ut affirmatio sed non semper tamen, semper autem ut dictio. Est enim dictio simplex uerbi ac nominis nuncupatio. Nam cum dicimus: Si dies est, lux est  hanc totam orationem si diuidere in partes uelimus, scilicet dies est, lux est, utraque pars ut affirmatio significabit, dies est, lux est, aftirmationes esse manifestum est. At si minutatim tota orationis membra carpamus, usque in nomina ac uerba postrema fiet resolutio. Dicemus enim partes esse superius positae orationis, dies et lux et est, quae per se prolata non sunt affirmationes sed tantum dictiones. Omnis uero oratio, quoniam ex uerbis nominibusque consistit, in nomina et uerba solui potest. Non enim omnem orationem in affirmationem cedi possibile est, ueluti si quis dicat lux est, huius partes sunt, lux atque est, quas non esse affirmationes sed simplices dictiones nullus ignorat. Cum igitur oratio quidem non semper in affirmationem solui queat semper autem in simplices dictiones, iure dictum est orationis partes extra aliquid designare non ut affirmationes sed potius ut dictiones.  Orationis autem species (ut arctissime diuidamus) sunt quinque, interrogatiua, ut  Quo te, Meri, pedes? an quo uia ducit in urbem?  Imperatiua, ut: Suggere tela mihi.  Inuocatiua, ut: Dii maris et terrae, tempestatumque potentes.  Deprecatiua: Ferte uiam, uenti, facilem, et spirate secundi.  Enuntiatiua: Est mihi disparibus septem compacta cicutis Fistula.  Quarum quidem praeter enuntiationem nulla uel esse aliquid, uel non esse designat. Caeterae namque uel interrogant, uel inuocant, uel imperant, uel precantur. Enuntiatio uero semper esse aliquid aut non esse significat. Atque ideo sola enuntiatio est, in qua ueritas uel falsitas inueniri queant. Unde etiam enuntiationis nascitur definitio, est enim enuntiatio quae uerum falsumue denuntiat. Hanc etiam proloquium uel propositionem Tullius uocat, quae quidem partim simplex, partim composita. Simplex est quae conditione seposita esse aliquid uel non esse proponit, ut: Plato philosophus est.  Composita uero quae ex duabus simplicibus copulante conditione consistit, ut: Plato si doctus est, philosophus est.  Simplicium uero enuntiationum alias in qualitate sitas, alias in quantitate differentias inuenimus. In qualitate quidem quod alia affirmatiua, alia negatiua est. Enuntiatio affirmatiua est enuntiatio aliquid de aliquo significans, ut: Plato philosophus est  philosophum de Platone praedicamus. Negatiua uero est enuntiatio aliquid ab aliquo praedicatione seiungens, ut: Plato philosophus non est  philosophum enim a Platone tali praedicatione seiunximus. Secundum quantitatem uero differentiae enuntiationum sunt, quod aliae quidem uniuersales aliae particulares aliae indefinitae, alio singulares. Uniuersales sunt quae siue affirment, siue negent, uniuersaliter tamen enuntiant uniuersale subiectum, ut: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens est  homo uniuersale quiddam est. Multos enim sub se indiuiduos coercet et continet, qui uniuersaliter enuntiantur, dum ei omnis uel nullus adiungitur. Particulares uero quae uel affirmando uel negando ambitum subiecti uniuersalis in partem redigunt, ut: Quidam homo sapiens est. Quidam homo sapiens non est  hic enim uniuersalitas hominis, adiecta particulari determinatione minuta est, atque in partem redacta. Indefinitae uero sunt quae absque uniuersalitatis et particularitatis determinatione dicuntur, ut: Est homo sapiens. Non est homo sapiens  Singulares uero sunt quae de singulari aliquid et de indiuiduo affirmando negandoue proponunt, ut: Socrates sapiens est. Socrates sapiens non est  Differt autem particularis propositio a singulari, quod particularis quidem unum aliquem subiicit, nec quis sit iste designat, ut: Quidam homo sapiens est  quis iste homo sit propositio non declarat. Singularis uero unum aliquem sumit, et quis iste sit significat, ut: Socrates sapiens est  unum enim et hunc Socratem sapientem esse proposuit. Amplius particularis omnis uniuersalem quidem terminum ponit sed ei detrahit uniuersalitatem, dum qualitatem particularitas adiungit, ut in propositione: Quidam homo sapiens est  Homo uniuersalis est terminus, multos enim propria praedicatione concludit. Sed quia dicitur quidam, ad unum homo redigitur, qui uniuersale persisteret, nisi particularitas fuisset adiuncta; in singularibus uero propositionibus praedicato termino semper indiuiduum supponitur, ut: Socrates sapiens est  Socrates enim singularis est, atque indiuiduus; idcirco igitur illa particularis propositio quae partem ex uniuersalitatem detrahit, haec singularis quae in singularis atque indiuidui praedicatione consistit.  Simplicium uero enuntiationum partes sunt subiectum atque praedicatum. Subiectum st quod praedicati suscipit dictionem, ut in ea propositione quae est: Plato philosophus est. Plato subiectum est, de ipso enim philosophos praedicatur, et in eo philosophi suscipit dictionem. Praedicatum uero est quod dicitur de subiecto, ut in eadem propositione, philosophos dicitur de Platone subiecto, semper enim quod subiectum est uel minus est, uel aequale praedicato: minus quidem ut in ea propositione de qua paulo ante tractauimus. Plato enim philosophi nomen non potest aequare neque solus Plato philosophus est; aequalis uero est subiectus terminus praedicato, ut si quis dicat: Homo risibilis est  homo enim qui subiectus est terminos praedicato risibili coaequatur. Unde fit ut possit reddi reciproca praedicatio, scilicet, ut uices subiectum praedicatumque permutent, subiectumque fiat quo erat antea praedicatum, uersoque ordine praedicetur quod fuerat ante subiectum, ut si dicatur quod risibile est homo est; omnia enim quae sunt aequalia de se inuicem praedicantur. Ut uero id quod subiectum est maius possit esse praedicato, nulla prorsus enuntiatione contingit, ipsa enim praedicata natura minora esse non patitur. Sed quod aequale uel maius est, id semper de aequali uel minore praedicatur. Has uero enuntiationum partes, id est praedicatum atque subiectum terminos appellamus. Termini uero dicuntur quod in eos postrema sit resolutio: itaque in singularibus uel indefinitis propositionibus duos terminos semper inuenimus, et uerbum quod propositionis determinet qualitatem, ut in propositione qua dicimus: Socrates sapiens est  Socrates quidem ac sapiens terminos esse manifestom est. Est uero uerbum non est terminus sed designatio qualitatis, et qualis propositio sit negatiuam affirmatio significat, et nunc quidem solo est uerbo propositioni accommodato facta est affirmatio. At si non, quod est abuerbium negatiuam esset ad iunctum ita diceretur: Socrates sapiens non est  atque hoc modo mutata qualitate fieret de affirmatione negatio.  "Est" igitur et "non est" non sunt termini sed, ut dictum est, significatio qualitatis. Eadem omnia etiam in indefinita propositione conueniunt; quod si sint tales orationes: Socrates est, dies est  "est" ui gemina fungitur, scilicet praedicati, est enim uerbum de Socrate et die praedicatum, et signi qualitatis, idem namque est solum positum affirmationem efficit, cum negatiuo aduerbio negationem. At si sint propositiones quae differentias secum habeant quantitatum, ut sunt uniuersales ac particulares, eadem uis permanet terminorum; "omnis" enim ac "nullus" et "quidam" terminis non annumerantur sed enuntiationem significant qualitatem.  Atque ideo recte quod subiicitur ac praedicatur termini nuncupati sunt, quoniam in eos tantum resoluitur propositio. Caetera enim quae simplicibus enuntationibus adiunguntur, aut qualitatem propositionum retinent, aut quantitatem significant.  Propositionum uero simplicium aliae sunt quae in nulla parte conueniunt, ut: Plato philosophus est  et: Virtus bona est  utraque enim aliud quiddam de alio praedicatur, nec babent aliquid in proponendi ratione commune. Illa enim Platonem philosophum dicit, illa uirtutem bonam esse pronuntiat. Aliae uero sunt quae aliqua terminorum participatione iunguntur. Id autem duobus fieri modis potest, aut enim ordine eodem, aut per ordinis commutationem. Eodem uero ordine duplici modo, si uel simplices terminos in utriusque constituas uel si per oppositionem fiat participatio terminorum: quod tribus neque amplius continget modis, nam uel praedicato, uel subiecto, uel utriusque terminis negatio copulatur. Ordinis etiam commutatione conueniunt duobus modis, aut enim per simplicem terminorum praedicationem, aut per eorumdem terminorum oppositionem. Haec quoque oppositio terminorum triplicem recipit modum, cum negatio uel praedicato, uel subiecto, uel utrisque coniungitur; illae uero quae altero termino participant et tribus modis, uel cum in una propositione quod praedicatur in altera subiectum est, uel cum idem in utriusque praedicatur, uel cum idem in utrisque subiectus est. Et quoniam omnium sibimet conuenientium propositionum ordinatissimam fecimus diuisionem, nunc de singulis quibusque tractemus, ac primum de ea propositionum conuenientia, quae cum utrisque participet terminis, participandi tamen ordinem seruent, ea est huiusmodi: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens est.  Utraque enim propositio hominem subiicit, et praedicat sapientiam, et cum utroque termino congruant, sunt tamen diuersae, quoniam haec affirmatio est, illa negatio. Et hoc quidem exempli gratia dictum sit, plenius uero fiet de tali participatione tractatus hoc modo.  Cunctarum simplicium propositionum differentias, uel in qualitate, uel in quantitate sitas esse ostendimus; in quantitate cum uniuersaliter pronuntiat [F. pronuntiantur] uel particulariter uel indefinite, uel singulariter proferuntur, in qualitate uero cum hae quidem affirmatiuae sunt, illae uero negatiuae. Si igitur duas affirmatiuas aggregamus fiunt mixtae cum utrisque octo differentiae, quae simul qualitatem quantitatemque contineant. Sunt autem mixtae hae, affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affimatio particularis, negatio particularis, affirmatio indefinita, negatio indefinita, affirmatio singularis, negatio singularis.  Quarum quidem indefinitas singularesque segregemus, et de uniuersalibus ac particularibus disseramus. Describatur ergo uniuersalis primum affirmatio: Omnis homo iustus est  cuius aduersum tenet locum negatiua propositio uniuersalis: Nullus homo iustus est  item sub uniuersali affirmatione ponatur particalaris affirmatio, quidam homo iustus est, hanc aduersa fronte respiciat, sitque uniuersali negatiuae supposita particularis negatio: Quidam homo iustus non est.   Uniuersalis affirmatio:  Omnis homo iustus est.  Uniuersalis negatio: Nullus homo iustus est. Particularis affirmatio: Quidam homo iustus est  Particularis negatio: Quidam homo iustus non est  Harum igitur affirmatio atque negatio uniuersalis qualitate quidem discrepant sed quantitate concordant; nam quod haec quidem affirmatio est, illa uero negatiua est, sunt in qualitate diuersae, quia uero utraque unuersalis est quantitate conueniunt. Harum igitur uel utrasque falsas, uel alteram ueram alteram falsam recipere possibile est, utraeque autem simul uerae nequeunt inueniri, nam in proposita descriptione affirmatio quae est: Omnis homo iustus est  et negatio quae est: Nullus homo iustus est  cum utraeque sint uniuersales, neutra tamen est uera. At si sit affirmatio: Omnis homo animal est  atque uniuersaliter denegetur ita: Nullus homo animal est  uel ita: Omnis homo lapis est. Nullus homo lapis est  unam ueram, alteram falsam esse necesse est. Atque ideo quoties ea praedicantur quae et conuenire subiecto et ab eo ualeant segregari et uniuersaliter illa confirmat haec denegat, utrasque falsas contingit, et superius positis declaratur exemplis. Iustitia enim cum esse in hominibus possit, non tamen ita hominibus inhaesit, ut ab eis separari nullo modo queat, atque ideo neque omnis homo iustus est, neque omnis homo iustus non est, contingit utrasque mentiri; at si tale sit quod a subiecto abstrahi separarique non possit, uel quod nunquam possit euenire subiecto, et quae uniuersaliter affirmatiua est uniuersaliter abnuatur, euenit uni ueritatem, alteri semper adesse mendacium sed ita ut si a subiecto quod praedicatur non potest segregari, uera sit semper affirmatio, falsa negatio; at si quod euenire non potest praedicatur, affirmatio quidem falsa sit sed uera sit negatio. Nam quoniam anima non ab homine potest segregari, quae hominem animal esse confirmat uera est, falsa uero illae quae denegat; item si quod non potest fieri praedicetur, fiatque affirmatio, omnem hominem esse lapidem, idque aduersa propositio neget, nullumque hominem lapidem esse concedat, negatio quidem ueritati, affirmatio autem iuncta est mendacio: simul autem ueras esse affirmationem uniuersalem uniuersalemque negationem nulla poterunt exempla monstrare. Atque ideo uniuersalis quidem affirmatio, uniuersalisque negatio contraria dicuntur, nam ut in contrariis aliquid medium cortinentibus potest neutrum inesse subiecto, ut corpus neque nigrum sit neque album, quoniam est quod praeter ea esse possit, ut rubrum, itemque in contrariis medietate carentibus necesse est alterum semper inesse subiecto ut omne animal aut dormita ut uigilat, quoniam inter dormire ac uigilare nihil medium est; autem simul atque in eodem utraque contraria reperiantur fieri nequit. Ita etiam in uniuersalibus affirmatione ac negatione: ut utraeque falsae sint, exemplo contrariorum aliquid medium claudiunt; uel altera uera, falsa uero altera, sicut in contrariis quae medio carent fieri posse manifestum est sed impossibile est ut utriusque sententia in ueritate conueniat, sicut nulla contraria simul esse patiuntur. Atque ideo uniuersalis aftirmalio uniuersalisque negatio contrariae nominantur. Hae igitur non eam uim ipsa semper aduersitate conseruant, ut eis sit perpetua atque inconciliata discordia, nec se semper inuicem perimunt, quae cum sententia dissideant communi tamen falsitate concordant.  Si igitur earum una sub mota sit, non necesse est ut esse altera consequatur: fieri enim potest ut neutra sit, uelut si omnem iustum esse hominem destruat, non est consequens ut nullus homo sit iustus. Quae autem sub his propositionibus collocantur, id est particularis affirmatiua atque negatio, subcontrariae nomen habent, idcirco quod uniuersalitati particulare commune subiectum est; cum igitur uniuersales intelliguntur esse contrariae, subcontrarias esse necesse et quae sub uniuersalibus contrariis collocantur. Horum quoque quantitas est eadem, quoniam utraeque sunt particulares; diuersa qualitas intelligitur, quoniam affirmatio haec est, illa uero negatio; sed quanquam contrariis uideantur esse subiectae, conuerso tamen modo particulares in ueritate sibimet, noii in falsitate consentiunt. Nam ut haec uerum, falsum illa pronuntiet, atque utraeque sint uerae tacile propositis declaratur exemplis; ut uero utraeque falsae sint, non potest inueniri. Nam si quod neque separari, neque possit adesse subiecto, alterutra enuntiet propositio, una est ueritati, altera cognata mendacio. Et siquidem quod a subiecto separari non potest praedicetur, affirmatio sola ueritatis calculum tenet; at si quod subiecto impossibile adesse dicatur, sola obtinet negatio ueritatem, ut si quis enuntiet: Quidam homo animal est  et alius neget: Quidam homo animal non est  uel ita: Quidam homo lapis est. Quidam homo lapis non erat  utraque affirmationum negationumque oppositio uerum inter falsumque partitur. Sed in prioribus quidem affirmatio, in posterioribus autem uera negatio est. At si quod euenire quadem possit sed a subiecto tamen aliquando ualeat segregari, affirmatio particularis, negatioque pronuntietur, utrasque ueras esse necesse est, ut: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est  ut uero utraeque falsae sint, nulla potuerunt exempla congruere. Quocirca ne ista quidem quas subcontrarias appellamus semper sese inuicenm perimunt, quandoquidem aliquoties in ueritate concordant.  At si omnibus differentiis dissidentes ac inuicem destruentes inuenire conemur, respiciendae sunt angulares; hae uero sunt uniuersalis affirmatio et negatio particularis, uel uniuersalis negatio et affirmatio particularis; his enim tanta inter se discordia manifesta est, ut neque in falsitate unquam, neque in ueritate conueniant, semperque necesse est cum affirmatio sit uera, negationem esse mendacem, cum negationi adsit ueritas, affirmationi esse propriam falsitatem. At primum cum geminas esse propositionum differentias dixerimus in qualitate scilicet et quantitate, harum et qualitas diuisa esse probator et quantitas: nam quod haec affirmatio est, illa negatio, in qualitate dissentiunt; quod uero haec uniuersalis, in particularis quantitate discordant.  Item neque in falsitate, neque in ueritate unquam poterunt conuenire.  Siue enim de his quae a subiecto abesse non possunt unam semper ueram esse necesse est, alteram falsam, nam si talis terminus praedicatur, ut cum uel adesse subiecto uel non adesse contingat, uniuersales semper falsae sunt, particulares uerae sunt, si quis enim ita proponat: Omnis homo iustus est  atque alius neget: Quidam homo iustus non est  uniuersalis affirmatio falsa est, particularis est uero negatio, similiter autem si quis ita pronuntiet: Nullus homo iustus est  uniuersalis negationis falsa, particularis affirmationis uera sententia est; ita in his quae uel adesse subiecto, uel abesse contingant, uniuersales falsitati coniunctae sunt, particulares obtinent ueritatem.  At si tales termini sint, qui separari atque a subiecto diuidi nequeant, siue illa sit uniuersalis, siue particularis, haerebit semper affirmationi ueritas, negationi mendacium, ut si quis uniuersaliter enuntiet omnem hominem esse animal, aliusque particulariter neget, quemdam hominem non esse animal affirmatio uniuersalis uerum loquitur, particularis negatiuae falsa sententia est. Item si quis uniuersaliter negando proponat nullum hominem esse animal, particularem affirmationem ueritas sequitur, haeret uniuersalis negatio falsitati; quod si sint quae predicantur ut nunquam possint adesse subiecto, seu illae uniuersaliter seu particulariter proponantur, negationes ornat ueritas, affirmationes falsitas decolorat. Si quis enim confirmat dicens omnem hominem lapidem esse, aliusque quemdam hominem non esse lapidem respondeat, uniuersalem affirmationem falsitas, particularem negationem ueritas tenet; quod si ita quis uniuersaliter neget: Nullus homo lapis est  et particulariter affirmet: Quidam homo lapis est  uniuersali constat negatione ueritas, particularis affirmatio non caret falsitate. Quoquo igitur modo praedicata uel subiecta mutaueris, si tamen uniuersalem affirmatiuam particulari negatiuae, uel uniuersalem negatiuam particulari affirmatiuae consertam a singulari consideratione committas, si haec falsa illam reram esse contingit, et si haec uera est illam falsam necesse est inueniri, atque idcirco has inter se oppositas et contradictorias nuncupamus.  Et hactenus quidem affirmationes et negationes auersis intentionibus conferentes, quid in eis discordiae ac diuersitatis esset ostendimus; nunc uniuersalem affirmationem particulari affirmatiuae, et uniuersale in negationem particulari negatiuae ad ueritatis falsitatisque conuenientiam comparemus. Harum namque inter se nulla discordia est, atque ideo non de earum dissensu sed de consensu potius uidetur esse quaerendum.  Primum igitur uniuersalis affirmatio et particularis affirmatio subalternae dicuntur, quoniam altera subiacet alteri, id est particularis affirmatio uniuersali affirmationi supposita est atque subiecta, ueluti pars intra totius semper ambitum latet; idemque de uniuersali et particulari negatiua dicendum est, subalternae enim uocantur, quod superior atque amplior uniuersalis negatio intra se particularem negationem claudit et continet.  Haec igitur tali ratione consentiant, si enim uniuersales in ueritate praecedant, particulares ueras esse necesse est, ut si quis uniuersaliter affirmando proponat, omnem hominem animal, ea cum sit uera, particularis sibi affirmationis ueritatem comitem trahit, ea uero est: Quidam homo animal est.  Nam si uerum est omnem hominem esse animal, uerum est esse aliquem; item si quis uniuersaliter enuntiet nullum hominem esse lapidem, et uerum dixerit, subiecta ei particularis negatio idem retinet, nec mentitur qui dixerit quemdam hominem lapidem non esse; ita igitur uniuersalibus affirmatione ac negatione uera dicentibus, particularis affirmatio et negatio ueram uniuersalium sententiam consequuntur. At si uniuersales falsae sint, non necesse est particulares uniuersalium consensu praebere mendacinm, uelut in his uniuersalibus qua proponunt omnem hominem esse iustum, uel nullum hominem esse iustum, quae cum una sit affirmatio, altera negatio, utraeque sunt falsae; sed eas particularium falsitas non ex necessitate consequitur, nam et quemdam hominem esse iustum, quae particularis est affimatio, uere quis dixerit, atque ideo falsis uniuersalibus, particulares ueras esse non necesse est. Quod enim uniuersalis affirmatio falsa dicatur omnem hominem esse lapidem, errat particularis affirmatio quae proponit quemdam hominem esse lapidem. At si uniuersalis negatio falsa proponatur nullum hominem esse animal non idcirco partirularis erit uera negatio, si pronuntiet quendam hominem non esse animal, atque ideo uniuersalibus quidem in ueritate manentibus, particulares necesse est uniuersalium consentire ueritati, at si uniuersalibus falsitas inhaerebit, particulares tum ueras, tum etiam falsas esse possibile est, ueras quidem si quidtale praedicetur quod adesse subiecto possit, et a subiecto ualeat separari, falsas esse utrasque, affirmationem quidem particularem, si in eo sit uniuersalis falsa affirmatio quod subiecto non potest conuenire, negationem particularem, si in eo uniuersalis negatio mentiatur quod a subiecto non potest segregari, ut posita superius exempla declarant.  Quod si ad ueritatis et falsitatis consequentiam particulares propositiones locum principem sortiantur, contraria eis uniuersalis propositionis ratione conueniunt. Nam si sint falsae, particulares falsas esse necesse est; sin uero particulares uerae sint, tum uniuersales uerae sunt, tum etiam falsae. Nam si particularis affirmatio est falsa, quae dicit aliquem hominem esse lapidem, uniuersalis quoque affirmatio falsa est quae proponit omnem hominen esse lapidem. Item si particularis est falsa negatio quae decernit quemdam hominem non esse animal, falsa erit uniuersalis negatio quae nullum hominem animal esse contendit. At si particularis affirmatio uel negatio uerae sunt, idque praedicatur quod a subiecto diuidi ac segregari queat, affirmationem negationemque uniuersales non est dubium posse mentiri, ut quod iam uerae sint particulares quae proponunt quemdam hominem esse iustum, et quemdam hominem non esse iustum, his suppositas uniuersales falsas esse manifestum est, ut ea quae dicit: Omnis homo iustus est  et: Nullus homo iustus est.  At si quid tale affirmatio particularis pronuntiet quo subiectum carere non possit, uera erit superposita affirmatio uniuersalis, ut cum aliquis enuntiat quemdam hominem esse animal, huic uniuersalis affirmatio in ueritate consentit, quae est omnis homo animal est. At si quid particularis negatio tale proponat, quod subiecto nequeat inhaerere, ueritatem particularis negationis uniuersalis negatiuae ueritas necesso est consequatur, ut cum aliquis dicit quemdam hominem lapidem non esse, consonat uniuersalis ueritas propositionis quae nullum hominem lapidem esse pronuntiat: quo fit ut praecedentibus quidem uniuersalibus ueris, particulares ueras esse necesse sit; praecedentibus uero in falsitate particularibus, uniuersalium ueritas non subsequatur; manentibus uero uniuersalibus falsis, particulares mendacium dicere non sit necesse, sicut ne uera quidem particularibus proponentibus, ueram uniuersalium necesse est esse sententiam. Et hoc quidem exempla docuerunt: ut autem firma demonstratione clarescat, utilis ad euidentiam rerum descriptio proponatur. Ex his ergo quae superius dicta sunt intelligi potest contrarias quidem uel uerum inter se falsumque diuidere, uel simul posse mentiri, ueras simul esse non posse; subcontrarias uero uel utrasque ueras esse, uel alteram ueram, alteram falsam, nunquam tamen simul proferre mendacium; angulares autem neque in ueritate unquam, neque in mendacio consonare sed uni semper ueram, alteri semper falsam esse sententiam.  Nunc demonstrandum est uniuersalibus ueris particulares non posse mentiri, falsis autem uniuersalibus posse particulares non falsa proferre. Dico enim si uniuersalis affirmatio sit uera, particularem quoque affirmationem ueram futuram; nam si falsa est, erit uera quae particulari affirmationi opponitur uniuersalis negatio sed posita est uera affirmatio uniuersalis; hoc igitur modo utrasque simul ueras esse contingit, affirmationem scilicet uniuersalem uniuersalemque negationem, quod euenire non posse monstratum est; non igitur fieri potest ut affirmatiua uniuersali uera proposita, particularis affirmatio mentiatur.  Rursus si uera est uniuersalis negatio, particularem quoque negationem ueram esse concedo, nam si falsam quis dixerit uniuersalem affirmationem, quae est ei opposita ueram necessario esse fatebitur. At si uniuersalis negatio uera esse proposita est, simul igitur uniuersales negationem et affirmationem ueras esse contingit; quod fieri non posse superius posita exempla docuerunt.  At si falsa est uniuersalis affirmatio, particularis uel falsum poterit enuntiare uel uerum: quo posito nihil impossibile comitatur, siue enim falsa sit, erit uera negatio uniuersalis, seu uera illa sit, uniuersalem negationem falsitas obtinebit. Quod fit ut falsa uniuersali affimatione, uniuersalis negatio, tum si falsitate consonet, tum ab ea ueritate discordet, quod non esse impossibile superioribus docetur exemplis.  Eodem quoquo modo et si uniuersalis negatio falsa sit, particularem negationem, uel ueram uel falsam esse possibile est, neque idcirco aliquid sequitur incongruum. Particulari namque negatione uera, uniuersalis affirmatio mentietur; eadem falsa, uerum uniuersalis affirmatio pronuntiat: quo fit ut falsa uniuersali negatione proposita, affirmationem uniuersalem tum ueram, tum falsam rationis demonstret euentus, quod impossibile non est.  Rursus si particulares false sunt, uniuersalis quoque falsitas sequitur. Nam si particularis affirmatiua pronuntiet mendacium, uniuersali quoque affirmationi falsitas inhaerebit, nam si haec uera est, falsa erit ei apposita negatio particularis; sed affirmationem particularem constituimus esse mendacem, simul igitur particularis affirmatio et negatio falsa sunt, quod esse inconueniens praecedens tractatus declarauit.  Item, si particularis negatio falsa dicatur, uniuersalis quoque negationis falsitas consonabit: nam si negatio uniuersalis uera est, falsa est opposita, quae est affirmatio particularis, quomodo utrasque particulares, affirmationem scilicet ac negationem, simul falsas esse contingit, quod fieri non posse praediximus.  At si uera sit affirmatio particularis, falsa uel uera uniuersalis affirmatio esse potest: sed si falsa sit particularis, negationem ueram esse necesse est; si uera sit, habebit particularis negatiua mendacium. Sed cum uera sit affirmatio particularis, negationem particularem uel falsam esse uel ueram nihil est impossibile.  Rursus si negatio particularis teneat ueritatem, uniuersalis negatio uel ueritatem tenere potest uel proferre mendacium. Nam si uera est, oppositam affirmationem particularem falsam esse manifestum est; si falsa est, ueritatem particularis affirmatiua custodiet: quo fit ut si particularis negatio teneat ueritatem, affirmatio particularis uera uel falsa sit, quorum neutrum impossibile. non esse praemissa docuerunt.  Atque haec quidem de uniuersalibus dicta sufficiant.  Nunc de infinitis ac singularibus disseramus, quarum quidem indefinitae sunt, quibus nulla significatio determinationis adiungitur sed praeter uniuersalis et particularis intelligentiam quantitatis proferuntur, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est  quibus tametsi ut, dictum est, nulla significatio determinationis adiungitur, uim tamen obtinent particularium propositionum. Namque ut illae quas subcontrarias in priore descriptione signauimus, alias quidem inter se uerum falsumque distribaunt, alias quidem inuicem ueritate conspirant, nunquam tamen simul uidentur posse mentiri, ita etiam indefinitae, siquidem tale est quod enuntiat quod subiecto semper inesse necesse sit, affirmatio est uera, falsa negatio, ut in his propositionibus: Homo animal est. Homo animal non est.  At si id in indefinitis propositionibus efferatur quod subiecti natura non suscipit, negatio quidem uera est sed affimatio iuncta est falsitati, ut si quis dicat: Homo lapis est. Homo lapis non est  ut uero utraeque in pronuntianda falsitate consentiant, non potest inueniri. Eadem tamen ab uniuersalibus affirmatiuis atque negatiuis, ita dissentiunt, ut quoquo modo subiecta permutes, una semper ueritatis, altera sit semper plena mendacii. Exemplum uero huiusmodi praedicati, quod subiecto semper inhaereat, hoc est: Omnis homo animal est. Homo animal non est. Nullus homo animal est. Homo animal est.  Hic indefinitae ui eadem funguntur qua et particularis, huius uero quod nunquam inhaeret, hoc est: Omnis homo lapis est. Homo lapis non est. Nullus homo lapis estt. Homo lapis est  in his quoque indefinita, uniuersalibus oppositae per unamquamque oppositionem unam ueram, falsam alteram reddiderunt, item quod suscipere subiecti naturam ualeat et possit amittere. Omnis homo iustus est. Homo iustus non est. Nullus homo iustus est. Homo iustus est  in his etiam indefinitae particularibus immutatae sunt, quae uniuersalibus obiecta per unamquamque propositionum aduersitatem, uni semper uerum, alteri diuisere mendacium. Praeterea quoque modo terminorum exempla ponantur, si affirmationes affirmationibus, negationes negationibus comparemus, uniuersalibus ueris indefinitarum ueritas prouenit, ut cum uerae sunt, omnem hominem esse animal, et nullum hominem esse lapidem, constat ueritas indefinitis quae proponunt, et hominem animal esse, et hominem lapidem non esse. At si uniuersalium falsitas antecedat, indefinitarum uel ueritas, uel mendacium uariabit, hoc modo. Falsa enim est uniuersalis enuntiatio quae proponit omnem hominem esse iustum; sed ea quae dicit hominem esse iustum, tenet in humanae naturae parte ueritatem. Nam si non habet omnis homo iustitiam, cum tamen aliquis habeat, uere dici potest hominem esse iustum.  Item, cum proponitur uniuersaliter: Nullus homo iustus est  falsum est, at si id indefinitae denegetur, a ueritate non discrepat. Nam cum sit aliquis homo non iustus, non mentietur qui pronuntiauerit hominem esse non iustum. Item cum sit falsa quae uniuersaliter affirmat dicens omnem hominem esse lapidem, falsa est quae idem indefinita enuntiatione confirmat dicens hominem esse lapidem.  Rursus cum sit falsa negatio per quam proponitur nullum hominem esse animal, falsa est indefinita negatio quae pronuntiat hominem non esse animal. Hic quoque particularium similitudo seruata est. Nam in subalternis uera uniuersalitas ueritatem particularitatis trahebat. Falsa uero uniuersalitas nec ueritatis, nec mendacii necessitatem particularibus afferebat. Eadem omnia uniuersalium atque indefinitarum collatione proueniunt.  Rursus indefinitas primum falsas constet, uniuersales quoque necesse est esse mendaces, ut si falsum sit esse hominem iustum, falsum erit omnem hominem esse iustum, quandoquidem non capit ueritatem, si iustus uel unus homo non fuerit. Item, si indefinita negatio mentiatur, uerum uniuersalis negatio non habebit, ueluti si falsa sit ea qeae dicit hominem non esse iustum, quandoquidem non potest uniuersaliter ab homine denegari, si uel uni hominum probabitur adesse iustitia. At si indefinitae sententiam ueritatis obtineant, uniuersales tum ueras, tum eueniet esse mendaces: uelut cum dicimus hominem esse iustum uerum est, est enim homo qui iustitia non careat. Huius uniuersalis negatio mentietur, cum quis dixerit nullum hominem esse iustum. At si id affirmabitur indefinite quod a subiecto diuelli secernique non possit, uera nihilominus erit affirmatiua que proponit omnem hominem esse animal. At si id quod subiecti naturam non recipit proponit indefinita negatio, ueluti si dicat hominem lapidem non esso nihil ab eius ueritate uniuersalis negatiua dissentiet ut ea quae nullum animal esse proponit. Nihil igitur dubium est indefinitas particularibus esse consimiles, eamdemque uim ueritatis ac falsatis significationibus obtinere: de quibus sufficienter dictum est.  Nunc de singularibus explicemus, quae nihil superioribus similes exstant.  Illae namque quoniam constituebant uniuersale subiectum, de quo praedicatum terminum dicerent, idcirco suscipiebant etiam differentias quantitatis. Nam quod uniuersale est et uniuersaliter et particulariter et indefinite poterit pronuntiari. At hae quae unum aliquid ponunt, singuiariter atque indiuidue differentias quantitatis habere non possunt, atque ideo sola in eis relinquitur discrepantia qualitatis, quod haec quidem affirmatio, illa uero negatio. Semper igitur inter se affirmatio et negatio singularis uerum falsumque distribuent, si non caetera impediant quae sensum in alias atque in alias significationes solent deflectere ac detorquere.  Cum uero unum atque idem praedicatum atque subiectum in affirmatione et negatione constiterit, uno eodemque sumptum tempore, uno eodemque prolatum modo, ad unum atque idem relatum, de una atque eadem parte propositum, necesse est ex his unam semper esse ueram, alteram semper esse falsam. Nam siue aequiuocos terminos sumant siue non ad idem tempus procedant, siue alius utrisque insit modus, siue ad alias partes uel ad aliquid aliud referantur, ueras utrasque esse contingit. Age enim aequiuocum terminum sumat affirmatio, dicatque: Cato Uticae se peremit  negetque negatio: Cato se Uticae non peremit.  Hic igitur utraeque sunt uerae, quoniam Cato aequiuocum est. Namque Cato praetorius Uticae sibi manus intulit, Cato uero censorius minime. Item proponatur affirmatiua hoc modo: Nocte lucet  negatio respondeat: Nocte non lucet.  Hic igitur lucere aequiuocum est. Atque ideo nihil impedit quominus utraeque in ueritate permaneant. Affirmatio namque cum dicit lucere nocte, lunae loquitur locem. Illa uero cum negat, de solis luce significat. Hic igitur aequiuocum praedicatum utrasque uerum conseruare permisit.  Item si quis de Socrate proponat dicens: Socrates sedet  atque alius neget: Socrates non sedet  utraeque uerae esse queunt, si ad diuersa tempora referantur. Potest enim nunc quidem Socrates sedere, alio uero tempore non sedere. Rursus si quis humani oculi colorem nigrum esse confirmet, aliusque nigrum non esse contendat, utrique uerum loquentur, si ad singulas oculi partes affirmatio negatioque referantur. Nam quod circa orbem est qui medius pupulam tenet, album est. Ipse uero orbis niger uisitur.  Rursus si de Socrate inter duos locato quis dixerit: Socrates dexter est  aliusque respondeat: Socrates dexter non est  utrisque constare ueritas potest. Ad eum qui cum sinistra Socratis est, dexter est. Ad eum uero cuius laeuo lateris pars Socratis dextra coniungitur, dexter non est.  Item, si quis ouum animal esse constituat, aliusque ouum animal esse neget, utraeque a ueritate non dissonant: namque ouum potestate animal est, actu animal non est. Ita igitur inter se singulariam subiectorum propositiones uerum faleumque distribuent, ut unam ueritatem necesse sit habere, alteram mendacium, si neque quod subiectum est, neque quod predicatum, aliqua sit aequiuocatione confusum ad idem tempus, ad easdem partes, ad eumdem modum, eademque rem ad quam affirmatio retulit ea quae proponuntur in negatione afferatur, ut si quis de Socrate pronuntiet: Socrates caluus est Socrates caluus non est  si igitur de Socrate eodem affirmatio negatioque proponant, si eamdem caluitii significationem affirmatio sumpserit et negatio, si eamdem utraeque capitis partem loquantur, si uel actum utraeque potestatemue significant, si nulla diuersitate temporis erretur, si non ad alium affirmatio, ad alium negatio referatur, una semper ueritati coniuncta est, retinet semper altera falsitatem.  Quoniam de ea conuenientia propositionum quae utrisque simplicibus terminis eodemque ordine captaretur explicui, nunc de ea partici patione dicendum est quae et utrosque terminos et eumdem ordinem seruat; hoc autem (ut dictum est) tribus contingere modis potest -- aut enim predicatus tantum, aut subiectus terminus, aut uterque cum negatione proponitur. At tum enuntiatio uel ab infinito subiecto, uel ab infinito praedicato, uel ab infinitis utrisque consistit. Quoties enim nomini negatio subiungitur, nomen redditur infinitum. Atque ideo per oppositionem participatio fieri dicitur. Nomini enim simplici semper infinitum nomen opponitur, ut "homo" "non homo", "animal" "non animal", et caetera: quae cum ita sint, disponantur simplices, atque ex earum natura caeteras colligamus. Primo igitur propositionum series describatur, ea scilicet quae utrisque iungitur finitis, propositisque simplicibus ita ex infinitis omnibus copulatarum propositionum ordo iungatur, ut affirmationes affirmationibus, negationes negationibus, aduersis frontibus collocentur. Omnis homo rationalis est. Omnis non homo non rationalis est. Nullus homo rationalis est. Nullus non homo non rationalis est. Quidam homo rationalis est. Quidam non homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non est.   Quidam non homo non rationalis non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo non grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam non homo non grammaticus non est.  Omnis homo lapis est.  Omnis non homo non lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non homo non lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo non lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam non homo non lapis non est.  Omnis homo iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non homo non iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo non iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo non iustus non est.  Omnis homo risibilis est. Omnis non homo non risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis est. Quidam non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo non risibilis non est.  Harum igitur talis est consocianda falsitate uel ueritate proprietas, ut affirmationes quidem inter se uniuersales particularesque negationes uel in ueritate uel in mendacio consentire queant, uel uerum inter se falsumque diuidere. Si quid enim de subiecto tale praedicetur quod uel de subiecto nequeat segregari, ut ab homine rationabilitas, uel a subiecto quidem recedere queat sed subiecti naturam non possit aequare, ut hominis grammaticus, unam ueram, alteram falsam esse proueniet. Nam qui dicit: Omnis homo rationalis est  uerum loquitur, et qui dixerit: Omnis non homo non rationalis est  mentietur. Diuinae namque substantiae rationis quidem compotes sunt sed homines non sunt.  Item si quis pronuntiet, omnis homo grammaticus, est falsum dixerit. At qui proponit: Omnis non homo non grammaticus est  uerum dixerit. Nam qui homo non est, grammaticus esse non potest. At si id de subiecto praedicetur quod uel nunquam subiecto ualeat conuenire, ut lapis homini, uel conueniens ab eo possit abscedere, cum sit maius atque uniuersalius subiecto, ut iustitia homini, simul utrisque falsitas prouenit. Nam si quis dicit: Omnis homo lapis est  falsam fecerit propositionem. Eodem quoque modo qui dixerit, omnis non homo non lapis est, cum silex homo non sit sed lapis. Item propositio: Omnis homo iustus est  falsa est, cuius sequitur falsitatem: Omnis non homo non iustus est.  Nam diuinis substantiis adest semper iustitia, cum non sit humanitas.  At si quid tale de subiecto praedicetur quod et semper ei copuletur, neque tamen subiectum possit excedere, ut risibile homini, utrinque sententia in significandi ueritate concurrit: Omnis homo risibilis est  uera est: Omnis non homo non risibilis est  haec retinet ueritatem. Nam quia risibile hominis proprium est, recte dicitur non esse risibile quidquid homo non fuerit. Eadem omnia in particulari negatione redduntur. Nam siue quae sunt maiora subiecto atque ab eo discedere nequeunt, at rationabilitas ab homine, uel quae discedunt quidem sed sunt maiora subiecto, ut grammaticus homine, de subiecto praedicentur, unam ueram, alteram falsam faciunt. Nam qui dicit: Quidam homo rationalis non est  falsum proposuit; qui uero respondet: Quidam non homo non rationalis non est  uerum loquitur.  Diuina quippe substantia non est quidam homo sed carere non potest humanae ratione naturae. Item: Quidam homo grammaticus non est  uera est sed falsa est si dicam: Quidam non homo non grammaticus non est. Cum illud sit uerius, quoniam qui homo non fuerit, non potest esse grammaticus.  At si quae uel nunquam de subiecto possunt uere praedicari, ut lapis de homine, uel praedicantur quidem et sunt maiora subiecto sed ab eo discedere separarique patiuntur, ut iustitia ab homine, ueras protinus utrasque conseruant. Nam qui dicit: Quidam homo lapis non est  uerum dixerit. At si quis respondeat: Quidam non homo non lapis non est  is quoque uerum dixerit: si quidem de silice uel de huiusmodi caeteris uelit intelligi, quae cum non sint homines, non lapides non sunt.  Item: Quidam homo iustus non est  propositio ueritatem tenet. Sed ne illa quidem falsa est quae proponit: Quemdam non hominem non iustum non esse  hoc enim, ut dictum est, diuinis substantiis inuenitur, ut iustitiam teneant, quamuis ab hominis definitione seiunctae sunt.  Item, si id quod abesse non potest, et sit aequale subiecto, de eodem subiecto praedicetur, ut risibile homini, incurrit utrisque mendacium. Nam:  Quidem homo risibilis non est  falsa est, cuius falsitati sese aemulam praestat quae proponit: Quidam non homo non risibile non est  quasi qui homo non sit possit esse risibilis. Ita igitur quidem in affirmationibus uniuersalibus et particularibus negatiuis ueritas falsitasque et simul aliquoties inuenitur, et inter utrasque diuiditur. Negationes uero uniuersales et particulares affirmationes non simili respondent modo. Sed negationes quidem uniuersales, unam uerum dicere, alteram falsam, simul utrasque falsas esse possibile est. Simul autem ueras nunquam esse contingit. Nam si id quod adesse subiecto non potest, praedicetur, ut lapis homini, unam ueram faciunt, alteram falsam, ut est: Nullus homo lapis est  uera est; falsa est quae proponit: Nullus non homo non lapis est  omnia quippe animalia praeter hominem ita non sunt lapides, sicut ab hominum natura seiuncta sunt.  Quidquid uero aliud de subiecto praedicetur, neutri constare ueritas potest, ut si quis proponat: Nullus homo rationalis est  falsum dixerit; aliusque respondeat: Nullus non homo non rationalis est  hanc quoque conuincit ratio mentiri, equus quippe non homo est, nec eum quis dixerit rationis esse participem; ut autem simul uerae sint, nullus poterit terminus approbare.  Particulares autem affirmatiuae in differentiam ueritatis falsitatisque discedunt, quoties aliquid tale de subiecto dicitur, quod nunquam possit adesse subiecto, ut lapis: nam si quis enuntiet: Quidam homo lapis est  falsa propositio est; at si quis respondeat: Quidam non homo non lapis est  tenet contrariam ueritatem, equus quippe non homo est, nec lapis esse dicetur. Quidquid uero aliud de subiecto praedicabitur, est eas in ueritatis significationem conuenire, ut: Quidam homo rationalis est  uera est, Quidam non homo non rationalis est  huic quoque ueritas constat, equus quippe non homo est, nec ratione subsistit; ut uero simul falsae sint, nullis reperietur exemplis. Ad hunc igitur modum ei de caeteris quae uel subiectum uel praedicatum retinent infinitum, ad ueritatis falsitatisque consensum enuntiationum proprietas consideranda est, de quibus modo breuiter quid eueniat tetigisse sufficiat, singula uero lectoris exploranda diligentiae, et per conuenientes terminos rimanda permittimus. Disponantur igitur propositiones quae ex utrisque simplicibus terminis constant, easque quarum subiectum tantum abnuatur ex aduerse parte respiciant. SIMPLICES EX SUBIECTIS FINITIS  Omnis homo rationalis est. Omnis non homo rationalis est. Nullus homo rationalis est.  Nullus non homo rationalis est. Quidam homo rationalis est. Quidam non homo rationalis est. Quidam homo rationalis non est. Quidam non homo rationalis non est.  Omnis homo risibilis est. Omnis non homo risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo risibilis est. Quidam homo risibilis est.Quidam non homo risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo risibilis non est.  Omnis homo iustus est. Omnis non homo iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non homo iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo iustus non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam non homo grammaticus non est.  Omnis homo lapis est.  Omnis non homo lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non homo lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam non homo lapis non est. In harum igitur affirmationibus quidem uniuersalibus ueritas et falsitas distribuitur, si quis tale de subiecto praedicetur quod abesse non possit, siue illud maius sit, ut animal homine, siue aequale, ut risibile homini. In his enim unam ueram, alteram falsam esae neoesse est, quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam semper ueritas, alteram semper falsitas non sequetur: ut autem simul uerae sint nequit ostendi.  Particularium uero in affirmationibus quidem, siquidem ea praedicentur quae ualeant transire subiectum, siue ab eo separari nequeunt, ut animal ab homine, seu possint, ut iustitia ab homine, loquitur utraque uera sententia. Quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram falsitas tenet; falsae uero simul nequeunt inueniri. Negationes uero particulares siquidem id praedicent quod a subiecto non possit abscedere, siue illud maius sit, ut rationale homine, seu aequale, ul risibile homini, uni constabit ueritas, aItera mentietur. Si quid uero praeter ei fuerit praedicatum, ueras semper utrasque constat, ut ineas communis falsitasnunquam possit incidere. Item disponantur in ordinem primum quidem simplices, has e regione respiciant quae subiecto simplici denegantur praedicato.  SIMPLICES EX INFINITO PRAEDICATO  Omnis homo lapis est.  Omnis homo non lapis est Nullus homo lapis est. Nullus homo non lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam homo non lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam homo non lapis non est.  Omnis homo animal est.  Omnis homo non animal est Nullus homo animal est. Nullus homo non animal est. Quidam homo animal est. Quidam homo non animal est. Quidam homo animal non est. Quidam homo non animal non est.  Omnis homo risibilis est. Omnis non homo non risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis est. Quidam non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo non risibilis non est.  Omnis homo iustus est.  Omnis non homo non iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non homo non iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo non iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo non iustus non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo non grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam non homo non grammaticus non est. Harum igitur affirmationes uniuersales, siquidem praedicent quod subiecto nequeat conuenire, ut lapis homini, uel a subiecto, cum sit aequale uel sit maius, non possit abscedere, ut animal uel risibile ab homine, unam semper necesse est ueritatem. alteram proferre mendacium: quidquiduero praeterea fuerit praedicatum, utrisque falsitas inuenitur, ut ad ueritatem conuenire non possint. Negationes uero uniuersales siquidem id de subiecto praedicent quod subiecto adesse possit et abesse, ita ut excedat, ut uirtus hominem, uel id quod adesse quidem queat sed non possit adaequare subiectum, ut grammaticus hominem, utraeque in falsitate communicant. Quidquid uero aliud fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram falsitas consequetur; ut autem simul uerae sint, nequit ostendi.  Particularium uero affirmationes quidem simul uerae sunt, si id quod uel adesse possit uel abesse praedicetur, siue illud maius sit ut iustitia homine, seu minus ut grammaticus ab homine. Si quid uero aliud fuerit praedioatum, ueritas in eas ac falsitas distribuitur, ita ut nunquam communem consonent falsitatem. Particulares quoque negatiuae in similibus terminis ueritate concordant. Nam si quod adesse uel abesse potest, siue illud maius sit ut iustus ab homine, siue minus, ut grammaticus ab homine, de subiecto praedicetur, ueritas utrisque constabit. In aliis uero cunctis praedicationibus uni ueritas, alteri falsitas cedit. Nunquam tamen utraeque in prodenda falsitate consentient.  Praeter hanc autem inter se conuenientiam propositionum, habent aliquid hae proprium quae praedicatum adiecia negatione pronuntiant, quod caeteris inesse non possit.Affirmationes namque negationibus, negationesque affirmationibus, quarum uniuersalis est propositio, itemque particulares affirmationes negationibus, negationes affirmationibus ita conueniunt, ut nunquam neque in falsitate, neque in ueritate discordent. Conuenientium autem ordinem seriemque describimus quas si quis in superius posita respexerit; uidebit angulariter conuersas.  Omnis homo rationalis est. Nullus homo non rationalis est. Omnis homo non rationalis est. Nullus homo rationalis est Quidam homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non est. Quidam homo rationalis est. Quidam homo non rationalis non est. Quod idcirco in his tantum uidetur euenire, quod de eodem subiecto uterque intelligitur ordo oppositionis. Nam quae dicit: Omnis homo rationalis est  de homine rationale praedicauit; item quae proponit: Omnis homo non rationalis est  de eodem homine rationale seiunxit, ut merito simplices affirmationes negationi consentiant. At non in aliis intelligitur idem esse subiectum. Nam et illa quae proponit omnem non hominem esse rationalem, et illa quae enuntiat omnem non hominem esse non risibilem, de homine non loquantur sed quolibet alio quod hominis negatione relinquitur. Atque ideo uelut extraneae atque a semet alienae, nec in ueritate possidet aliquam nec in falsitate concordiam.  Indefinitas autem propositiones, quoniam particularibus similes esse monstrauimus, adiungendas superioribus non putaui. Id enim indefinitis necesse est euenire, quod particularibus solet incurrere.  Expeditis igitur his propositionibus quae ex utrisque communicant terminia atque eodem ordine collocatis, nunc eam propositionum conuenientiam uel participationem loquimur, quae in utrisque quidem terminis conuenientia sed ordinis commutatione consistunt, cuius disceptationis hic finis est, de propositionum conuersione docuisse, quid enim est aliud propositiones mutato ordine conuenire utrisque terminis, nisi propositiones conuerti? Conuerti autem uel sibi uel aliis propositiones dicuntur, quoties, mutato ordine terminorum, id est quod subiectum fuerat praedicato et quod praedicabatur ante subiecto, ueritatem simul obtinent uel falsitatem. De quibus plenissime hic disputandi sumemus exordium.  Quatuor propositiones esse praediximus, quae habeant differentias quantitatum et utrisque terminis absque ordinis permutatione participant. Hae uero sunt affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio particularis.  Harum igitur particularis affirmatio particulariter quidem sibi ipsa conuertitur, uniuersali autem affirmationi per accidens, et rursus uniuersalis negatio, loco principe sui recipit conuersionem, ad particularem uero negationem per accidens conuerti potest.  Affirmationis uero uniuersalis ad se ipsam perpetua non potest esse conuersio, ad particularem uero affirmationem per accidens potest. Nec uero negationis particularis ad se ipsam principaliter stabilis ac firma conuersio est sed negationi uniuersali secundo loco atque accidentaliter. Quae omnia facilius declarantur exemplis. Affirmatio enim particularis, ut ea quae proponit: Quidam homo albus est  facile sibi ipsa conuertitur, si dicamus, quoddam album homo est, atque in utrisque simul ueritas constat. At si quis proponat quendam hominem esse lapidem, eamque conuertat dicens quemdam lapidem esse hominem, mansit in utrisque mendacium. Hoc igitur modo affirmatio particularis sui recipit conuersionem.  Item negatio uniuersalis conuerti potest, ut si quis enuntiet nullum hominem esse lapidem, eamdemque conuersis terminis dicat nullum lapidem esse hominem, simul ueritatem tuentur. At si quis dicat nullum hominem esse animal, atque eamdem sub terminorum conuersione proponat dicens nullum animal esse hominem; neutra suam perdidit falsitatem. Hoc igitur modo uniuersalis quoque negatio sibi ipsa conuertitur, uniuersalis uero affirmatio non tenet perpetuam conuersionem: quamuis enim quoties de speciebus propria praedicentur conuerti uniuersales affirmationes queant, ut si quis dicat: Omnis homo risibilis est  poterit terminorum ordinem permutare, omne risibile esse hominem, tamen non est haec aequalis atque in omnibus terminis fida conuersio. Quid enim cum quis ita proponit: Omnis homo animal est  nunquid conuertere uere potest, ut omne animal hominem esse pronuntiet? Quare cum aliquoties uniuersalis affirmatio conuersa propriam non teneat ueritatem, dicitur conuersionis naturam non posse suscipere.  Negatio quoque particularis interdum uidetur posse conuerti, ueluti si quis enuntiet quemdam hominem lapidem non esse, uerum loquetur, cum dixerit quemdam lapidem hominem non esse; sed est instabilis et incerta conuersio: nam cum quidam homo grammaticus non sit, falsum est dicere quemdam grammaticum hominem non esse. Ita igitur haec quoque conuersio protinus a sua ueritate deficit.  Superius igitur propositarum quatuor enuntiationem duae quidem oppositae, id est particularis affirmatio et uniuersalis negatio, conuersionem sui firmam perpetuamque suscipiunt; duae uero oppositae, id est affirmatio uniuersalis et negatio particularis, conuersionis non tenent firmitatem sed quia uniuersalis affirmatio, quae in sui conuersione uidetur instabilis, si uera est, particularem quoque affirmationem ueram esse necesse est. Si autem particularis affirmatio conuersa non amittit propriam ueritatem, uniuersalis quoque affirmatio conuersa particulari affirmationi eamdem ueritatem sonabit, uelut his exemplis probabitur. Si quis enim proponat omnem hominem esse animal, uerum dixerit, huius subalterna particularis affirmatio quemdam hominem esse animal, ea quoque uera est, quoniam uniuersalis affirmationis ueritas antecessit. Sed eamdem conuerti sibi uerissime potest, dicitur enim quoddam animal esse hominem. Quocirca affirmatio uniuersalis quae proponit omnem hominem esse animal, et conuersa particularis affirmatio quae pronuntiat quoddam animal esse hominem, utraeque simul a ueritatis significatione non deficiunt. Ita igitur uniuersalis affirmatio, quae sui conuersionem perpetuam ferre non poterat, per accidens particulari affirmationi conuersa est. Per accidens autem idem quoniam particularis affirmatio principe sibi ipsa loco conuertitur, conuersae autem particulari affirmationi uniuersalis affirmatio eamdem retinet in ueritate sententiam. Eadem ideo est etiam uniuersalis negationis, quae quoniam ipsa principaliter conuerti potest, conuersaeque negationi uniuersali illa quae subalterna est eamdem.  ueritatis refert sententiam. Particularis negatio conuersa ad ueritatis signiticationem poterit conuenire, ut si quis nullum hominem esse lapidem confiirmet, et huius conuersio est, nullum lapidem esse bominem, quae cum uera praecedat, subalternae particularis negatiuae perficit ueritatem: ea uero est, quidam lapis homo non est, quae comparata uniuersali negationi quae dicit nullum hominem esse lapidem, quamuis terminis discrepans, tamen similis ueritate proponitur. Igitur particularis negatio, quae sibi ipsi conuerti non poterit, uniuersali negationi per accidens conuerti potest. Per accidens autem idcirco quoniam uniuersalis negatio in se ipsam priore loco conuerti potest. Per conuersionem autem sui cum particulari negatione similem ueritatis uidetur obtinere sententiam. Itaque concludendum est particularem quoque affirmationem uniuersalemque negationem conuersionem sui firmam ac stabilem custodire. Affirmationem autem uniuersalem particularemque negationem in conuertendo firmas esse non posse sed hanc affirmationi particulari, illam uniuersali negationi per accidens, posse conuerti.  Restat nunc de ea propositionum conuenientia uel participatione disserere, in qua utrinque terminorum ordine permutato, uni uel utrique eorum negatiuum copulatur aduerbium.  Sed quanquam huiusmodi participationis plures esse differentias nouerimus, ad instructionem tamen Categoricorum Syllogismorum de hac tantum proposuisse sufficiat, quarum quidem propositionum pars ex simplicibus nominibus constat, pars uero ex infinitis. Nam propositio uniuersalis, quae est: Omnis homo animal est  ex utrisque nominibus finitis constat. Namque et homo et animal finita nomina esse manifestum est. Ea uero affirmatio quae proponit omne non animal non hominem esse infinitorum terminorum positione coniuncta est. Non animal enim et non homo nomina esse infinita, in nominis definitione praediximus, quae quidem sese ad ueritatis falsitatisue rationem sic habent, ut enim negationibus adiunctis infinita nomina simplicibus opponuntur, ita etiam conuersio propositionum econtrario contingit quam paulo ante in simplicibus hababatur. Atque in his enuntiationibus conuerti termini per appositionem dicuntur, unusque enim terminorum negatione praeposita terminis simpliciter pronuntiatis uidetur oppositus. Huius uero participationis est triplex modus: aut enim praedicato tantum termino, negatio iungitur, aut subiecto, aut utrique termini denegantur. Primum igitur supposita descriptione pandantur exempla. Post autem quemadmodum se habent ad ueritatis falsitatisue consensum consequentis ordine dispPombaur. Ac primum quidem de hac disserimus cuius subiectum praedicatumque negatur. Post uero cuius subiectum solum, postremo cuius qui praedicatur terminus cum negatione profertur. Atque earum quidem naturam atque ordinem ex simplicibus informabimus. Simplices autem, in quantitatum differentiis constitutas, quatuor esse monstrauimus. Sit igitur prima quidem affirmatio uniuersalis, quae proponat omnem hominem esse animal; aduersum hanc collocetur affirmatio uniuersalis, quae non solum conuersis terminis enuntietur uerum in uno quoque termino negatiuum aduerbium habeat adiunctum hoc modo: Omne non animal non homo est.  Rursus proponatur uniuersalis negatio, ea quae est: Nullus homo animal est  huic aduersam teneat locum uniuersalis negatio terminis cum negatione conuersis, id: Nullum non animal non homo est. Item sit particularis affirmatio simplex: Quidam homo animal est  huic terminus atque ex aduerso referatur particularis affirmatio, quae, commutatis in ordinem terminis, negationes utrisque gestet oppositas, ut est: Quoddam non animal non homo est.  Item sit particularis simplex negatio quae proponat quemdam hominem animal non esse; hanc ex aduerso respiciat particularis negatio, quae, permutatis ad ordinem terminis, aduerbium negationis adiecerit, ut est: Quoddam non animal non homo non est. SIMPLICES CONVERSAE UTRISQUE INFINITIS  Omnis homo animal est. Omne non animal non homo est Nullus homo animal est. Nullum non animal non homo est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal non homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam animal non homo non est. In illis enim affirmatio uniuersalis particularisque negatio conuersionem stabilem non tenebant. Affirmatio autem particularis atque uniuersalis negatio conuersae certissime tuebantur uel in ueritate, uel in falsitate consensum. Hic omne diuersum est. Uniuersalis namque affirmatio et particularis negatio per oppositionem sibi ipsa conuertitur, uniuersalis autem negationis et particularis affirmationis non est ad ueritatis falsitatisue consensum fide conuersio.  Ac primum de uniuersali affirmatio tractemus, quae cum in simplicibus uera sit, ueritatem quoque per oppositionem conuerse custodit, ut ea qua dicit omnem hominem esse animal, uera est, atque illi per oppositionem conuertitur, id est: Omne non animal non homo est  eam quoque ueram esse necesse est. Propositionis autem huius ista sententia est, quoniam non est homo, quidquid animal non est, quod uerum esse nullus ignorat. Item si sit falsa uniuersalis affirmatio in simplicibus terminis constituta, falsa quoque eius per oppositionem probabitur esse conuersio: nam cum dicimus: Omnis lapis animal est  falsa est, atque illi per oppositionem conuertitur, id est: Ommne non animal non lapis est  eam quoque fals&m esse necesse est. Id enim ex tali enuntiatione sentitur, quoniam quidquid animal non fuerit, id lapis non est, quod apertissime falsum est, cum lapis ipse animal non sit: quod si uniuersalis affirmatio terminorum oppositionem conuersa sibimet in ueritate conuenit et in falsitate, non est dubium quin uniuersalis simplex affirmatio stabili per oppositionem conuersione monstretur. Idem de simplici etiam particulari negatione dicemus. Nam cum haec falsa est, ut ea quae dicit: Quidam homo animal non est  illa quoque falsitatem tenebit, quae huic terminorum oppositione conuertitur, ut ea quae proponit:  Quoddam non animal non homo non est.  Id enim ex bac enuntiatione colligitur, quod res quae non sit animal, sit homo. Etenim hoc esse hominem, quod non esse non hominem. At si uera sit negatio particularis ex simplicibus terminis iuncta, ut est: Quidam lapis animal non est  non deerit ueritas cum terminorum oppositione conuersae quae proponit quoddam non animal non lapidem non esse. Id enim conuersio ita significat, quod res quaedam quae animal non sit lapis sit, hoc est enim esse lapidem quod non esse non lapidem; quod si particularis simplex negatio per oppositiones propriae conuersioni et in ueritatis et in falsitatis significatione concordat, non est dubium particularem simplicem negationem certo sibi ac stabili modo per oppositionem terminorum posse conuerti.  In negatione uero uniuersali non est perpetua neque fida conuersio. Quod quidem fallere poterit, si quis ad solam respiciat conuenienliam falsitatis. Nam cum sit falsa simplex uniuersalis negatio quae proponit nullum hominem esse animal, falsa est quae ei per oppositionem conuertitur, ut est: Nullum non animal non homo est. Id enim ex haec propositione monstratur, quoniam omne quod animal non est, id homo est, hominem esse significat, quidquid animal non sit, quae proponit, nullum esse non hominem, qui animal non sit. Sed hic in falsitate consensus ad ueritatem usque non peruenit. Age enim sit uera simplex uniuersalis negatio: Nullus homo lapis est  non uera potest esse: Nullus non lapis non homo est.  Id namque designat ista conuersio, quoniam quidquid lapis non fuerit, id homo est; hominem namque esse designat quod lapis non sit, qui pronuntiat nullum esse non hominem quod lapis non est, quod apertissime falsum est; quamuis enim multa proferam quaecum lapides non sint, tamen ab hominum natura seiuncta sunt, ut equus, arbor atque alia plurima. Si igitur negatio uniuersalis per oppositionem propriae conuersioni in falsitate quidem conuenit, nec tamen in ueritate consentit, recte pronuntiatur conuersionem perpetuam atque aequabilem non habere.  Eadem quoque ratio est in affirmatione simplici particulari. Nam in hoc quoque saepe error deprehenditur, ut certae propositionum conuersiones putentur, si quis non ad falsitatis quoque sed ad solam conuenientiam ueritatis aspiciat. Nam cum affirmatio simplex particularis uera sit, ut est: Quidam homo animal est  si huius termini cum oppositione conuertantur, fiatque propositio: Quoddam non animal non homo est  a ueritate non discrepat. Quid enim aliud enuntiatio ista designet quam esse rem aliquam quae cum animal non sit, ne homo quidem sit, ut lapis simul et animalis et hominis natura deficiat. Sed hic in ueritate consensus ad falsitatem usque non tendit. Quid enim si sit falsa simplex affirmatio particularis, ut est: Quidam homo lapis est  non erit eius per oppositionem falsa conuersio: Quidam non lapis non homo est?  Atqui haec firma ueritate consistit, id enim ex hac propositione datur intelligi quod sit quidam quod cum lapis non sit, ne homo quidem sit, ut equus atque arbor, quae neque hominis, neque lapidis definitione clauduntur. Quod si particularis affirmatio, dum per oppositionem conuertitur, in ueritate quidem tenet secum ipsam concordiam, in falsitate autem sibimet ipsa dissentit, rectum est pronuntiare quod termini negatione coniuncta conuersionem firmam stabilemque non teneant. Quare cum in simplicibus, ac praeter oppositionem conuersionibus, uniuersalis quidem negatio particulurisque affirmatio pernetua fidaque terminorum permutatione uertantur, affirmamatio uero uniuersalis particularisque negatio minime, dum per terminorum oppositionem simplex propositio sibi ipsa conuertitur, omnia, ut dictum est, aduersa ratione contingunt, uniuersalia namque affirmatio et particularis negatio firmam negatarum partium retinent conuersionem. Uniuersalis autem negatio in falsitate quidem recte sibi ipsa conuertitur. In ueritate autem sibi ipsa discordat. Particularis autem affirmatio in ueritate quidem sibi conuenit sed in falsitate dissentit. Similis autem contemplatio est in his quae, conuerso ordine terminorum, praedicato tantum uel subiecto sibi copulant negationem: in quibus, ut in superioribus quoque fecimus, propositionum tantum ordinem describemus, et quid eueniat sub breuilate monstrabimus, perquirenda atque examinanda singula lectoris diligentiae derelinquentes. Descriptis ergo simplicibus ex aduersa parte, quae, conuerso ordine praedicatum cum negatione pronuntiant, conferantur. SIMPLICES CONVERSAE DE PRAEDICATO INFINITO: Omnis homo animal est. Omne animal non homo est. Nullus homo animal est. Nullum animal non homo est. Quidam homo animal est. Quoddam animal non homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam animal non homo non est. Omnis homo iustus est. Omnis iustus non homo est. Nullus homo iustus est. Nullus iustus non homo est. Quidam homo iustus est.  Quidam iustus non homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam iustus non homo non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis grammaticus non homo est. Nullus homo grammaticus est. Nullus grammaticus non homo est. Quidam homo grammaticus est. Quidam grammaticus non homo est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam grammaticus non homo non est.  Omnis homo lapis est. Omnis lapis non homo est Nullus homo lapis est. Nullus lapis non homo est. Quidam homo lapis est. Quidam lapis non homo est. Quidam homo lapis non est. Quidam lapis non homo non est. Omnis homo risibilis est. Omne risibile non homo est. Nullus homo risibilis est. Nullum risibile non homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam risibile non homo est. Quidam homo risibilis non est.    Quoddam risibile non homo non est. Harum igitur in affirmationibus quidem uniuersalibus si ea de subiecto praedicentur quae et adesse et abesse contingent, siue illud subiecto maius sit ut iustitia homine, siue minus ut grammaticus homine, uel si ea quae omnino adesse non possum ut lapis homini, simul semper falsas esse necesse est. Si quid uero praeter haec fuerit praedicatum, unam ueram, falsam alteram esse proueniet, nunquam uero utrique ueritas consonabit.  In negationibus uero uniuersalibus siquidem ea de subiecto praedicentur quae a subiecto ualeant segregari, siue illa maiora sint ut iustitia homine, siue minora ut eodem homine grammaticus, utrisque aderit falsa sententia.  Quidquid uero reliquorum fuerit praedicatum uni uerum, alteri faciet adesse mendacium. Nunquam uero in his concors ueritas inuenitur.  In particularibus uero affirmationibus siquidem ea praedicentur, quae [792A] cum separari possint, tum uel maiora sunt ut iustus homine, uel minora ut grammaticus homine, communis affirmationes ueritates obtinebit. Alia uero quaelibet praedicatio unam ueram, alteram semper faciet esse mendacem sed nunquam communiter mentientur.  In negationibus uero particularibus hic modus est, ut siue ea quae adesse non rossunt, ut lapis homini, siue quae possum ac poterunt segregari, cum tamen eorum aliud maius sit, ut iustitia homine, aiitld minus, ut grammaticus homine, praedicentur, ueritas utrisque constabit.  Quidquid uero absque hic praedicabitur, ueritatem uni, alteri diuides falsitatem, simul tamen falsas esse non euenit. Item descriptio supponatur quae priore parte simplicibus collocatis, eas quae conuerso ordine subiectum cum negatione proponunt contraria fronte constituat. SIMPLICES  CONVERSAE DE SUBIECTO INFINITO: Omnis homo animal est. Omne non animal homo est. Nullus homo animal est. Nullum non animal homo est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam non animal homo non est.  Omnis homo risibilis est.  Omne non risibile homo est. Nullus homo risibilis est. Nullum non risibile homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam non risibile homo est. Quidam homo risibilis non est. Quoddam non risibile homo non est.  Omnis homo lapis est. Omnis non lapis homo est. Nullus homo lapis est.  Nullus non lapis homo est. Quidam homo lapis est. Quidam non lapis homo est. Quidam homo lapis non est. Quidam non lapis homo non est.  Omnis homo iustus est. Omnis non iustus homo est. Nullus homo iustus est. Nullus non iustus homo est. Quidam homo iustus est.  Quidam non iustus homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam non iustus homo non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis non grammaticus homo est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non grammaticus homo est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non grammaticus homo est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam non grammaticus homo non est. Superius igitur descriptarum enuntiationum affirmationes quidem uniuersales, siue de subiecto praedicentur quae ab eo nunquam ualeant amoueri, siue illud maius sit, ut animal homine, seu aequale ut risibile homini, seu tale quod subiecto nullo modo possit obtingere ut lapis homini, uni ueritatem dispartient, alteri falsitatem. At si quod absque his praedicabitur, utrasque falsitas obtinebit, communi autem propositionum ueritati locus esse non poterit. At in negationibus quidem uniuersalia et maiora praedicentur, seu ea quae relinquere subiectum nequeant ut animal hominem, seu quae possint ut iustitia hominem, utrisque falsitas inhaeredit. Aliae quaelibet praedicamenta unam ueram faciunt, alteram falsam, ita ut communis utraeque ueritatis non possint esse participes.At in particularibus affirmationibus quidem, siquidem maiora de subiecto praedicentur, quae uel nunquam subiecti coniunctione diicedant ut animal homine, uel etiam segregentur ut iustitia ab homine, respondebit utraque ueritatem; caeterae uero praedicationes ueritatem propositionibus falsitatemue distribuunt in commune participantibus falsitatem. Particulares uero negationes, siquidem ea praedicent quae possint a subiecto separari, siue illud maius sit ut iustitia homine, seu minus ut grammaticus homine, ueras utrasque esse recesse est. Si quid uero extra praedicabitur, uni oportet uerum, alteri adesse mendacium, ut simul falsae nequeant inueniri. Atque haec quidem de his propositionibus quae cum determinatione proferuntur dicta sunt. Quae uero indefinitae sunt, quoniam particularium proprietatibus adaequantur, eadem omnia comparatae uniuersalibus obtinebunt quae in superiore descriptione particularium propositionum ordo seruauit.  Restarent subiectorum singularium propositiones, de quibus, quoniam et longum est dicere, et nihil ad operis propositi affert utilitatem, et sibi ipse exemplo earum quas superius proposuimus easdem lector inueniet, praetereundum uidetur. Multa Graeci ueteres posteris suis in consultissimis reliquere tractatibus, in quibus priusquam ad res densa caligantes obscuritate uenirent, quasi quadam intelligentia luctatione praeludunt: hinc per introductionem est facilior discibiliorque doctrina, hinc per ea quae illi *prolegomena* uocant, nos praedicta uel praedicenda possumus dicere, ad intelligentiam promptior uia munitur. Hanc igitur prouidentiam non exosus, statui ego quoque in res obscurissimas aliquem quodammodo pontem ponere, mediocriter quidque delibans ita ut si quid breuius dictum sit, id nos dilatione ad intelligentiam porrigamus; si quid suo more Aristoteles nominum uerborumque mutatione turbauit, nos intelligentiae seruientes ad consuetum uocabulum reducamus; si quid uero ut ad doctos scribens summa tantum tangens designatione monstrauit, nos id introductionis modo aliqua in eas res tractatione disposita perquiramus.  Sed si qui ad hoc opus legendum accenserint, ab his petitum sit ne in his quae nunquam attigerint statim audeant iudicare; neue si quid in puerilibus disciplinis acceperint, id sacrosanctum iudicent, quandoquidem res teneris auribus accommodatas saepe philosophiae seuerior tractatus eliminat. Si quid uero in his non uidebitur, ne statim obstrepant sed, ratione consulta, quid ipsi opinentur, quidue, nos ponimus, ueriore mentis acumine et subtiliore pertractata ratione diiudicent. Et hi quidem sic. Nos enim, ut arbitror, suffecimus eos commentarios, de quibus haec nos protulimus, degustent blando fortasse sapore subtilitatis eliciti, quamuis infrenis et indomiti creatores sint, tamen ueterum uirorum inexpugnabilibus auctoritatibus acquiescent; si quis uero Graecae orationis expers est, in his, uel si qua aliorum sunt similia, desudabit. Itaque haec huius prooemii lex erit, ut forum nostrum nemo non intellecturus, et ob id culpaturus inspiciat. Sed ne prooemiis nihil afferentibus tempus teratur, inchoandum nobis est illo prius depulso periculo, ne a quoquam sterilis culpetur oratio. Non enim eloquentiae compositiones sed planitiem consectamur: qua in re si hoc efficimus, quamlibet incompte loquentes, intentio quoque nostra nobis perfecta est. Sed quoniam syllogismorum structura nobis est hoc opere explicanda, syllogismis autem prior est propositio, de propositionibus hoc libello tractatus habebitur.  Et quoniam propositionis partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est prior est, de nomine, et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur. Nomen est uox designatiua ad placitum sine tempore, cuius nulla pars extra designatiua est. VOX autem dictum est, quia uox nominum genus est. Omnis autem definitio a genere trahitur, ut si definias hominem, animal dicis, id est genus; post uero rationale, id est differentia. DESIGNATIVA uero dicta est, quia sunt uoces quaedam quae nihil significant, ut sunt syllabis. NOMEN uero, designat id cuius est nomen. AD PLACITUM uero, quia nullum nomen aliquid per se significat sed ad ponentis placitum. Illud enim unaquaeque res dicitur quod ei placuit qui primus rei nomen illud impressit. Sunt enim uoces naturaliter significantes, ut canum latratus iras canum significat, et alia eius quaedam uox blandimenta; sed non sunt nomina non sunt ad placitum significantes sed natura. SINE TEMPORE uero, quod uerba quidem uoces sunt designatiuae et secundum placitum sed distant, quod nomina sine tempore sunt, uerba cum tempore. CUIUS NULLA PARS EXTRA DESIGNATIVA EST: nomen ab oratione disiungit, quod oratio et ipsa uox est, et desiguatiua, et secundum placitum, aliquoties sine tempore est sed orationis partes significant, nominum uero minime. In Ciceronis enim nomine nulla extra pars designatiua est, neque 'ci' neque 'ce' neque 'ro'. Neque si ex duobus integris nomina sint. Quod enim in uno consignificat, id extra non significat.  In nomine enim 'magister', 'magis' et 'ter' consignificauit, quia est magister.  Sublatum uero 'ter' et 'magis' non erit alicuius significatio, nisi tibi hoc alii nomen dare placuerit. Omnia enim nomina non naturaliter sunt, sed ad placitum ponuntur. Sed de hoc in commentario libri *Peri hermeneias* Aristotelis dictum est et maior eius rei tractatus est, quam ut nunc queat expediri.  Reuertamur igitur ad nomen. Sed quoniam sunt quaedam uoces quae et designatiuae sunt, et secundum placitum et sine tempore, quarum dubia sit natura, ut est 'non-homo', hoc enim significat quiddam et secundum placitum, impositum est enim sed dubium est cui subdi possit, nomini enim non potest, omne enim nomen significat aliquid definitum, 'non-homo' autem quod definitum est perimit, oratio uero dici non potest, omnis enim oratio ex nominibus et uerbis constat, 'non-homo' autem, neque ex nominibus constat neque ex uerbis sed multo magis esse non potest uerbum, omne enim uerbum cum tempore est, 'non-homo' uero sine tempore est: quid sit ergo ita uidendum est: et quoniam 'non-homo' uox significat quiddam, quid autem significet in homine ipso non continetur (potest enim 'non-homo' et equus esse et lapis et domus, et quidquid homo non fuerit, quoniam ea qui re significare potest infinita sunt, infinitum nomen uocatur); et quoniam sunt quaedam uoces et designatiuae et ad placitum, et definitae, et quarum partes extra nihil significant, ut sunt casus nominum, ut 'Ciceronis' et 'Cicerone' et caetera, haec nomina non erunt. Omne enim nomen iunctum cum est uerbo, aut uerum aut falsum demonstrat. Ut si dicas: Dies est  hoc uero aut uerum aut falsum est. Si uero casum iungas, neque uerum neque falsum efficis. Si enim dicas: Diei est  nihil quod sit aut non sit demonstrasti. Itaque nihil ex hoc neque uerum neque falsum efficies. Et merito dictum uidetur. Quod enim primo uocabulum nomina rebus imponentes dixerunt, id solum numen uocabitur merito. Qui enim primus circo circum nomen imposuit, ita dixisse uidetur: Dicutur hoc circus!  Atque ideo primus hic casus nominatiuus uocatur, quod nomen sit. Aliis uero nominibus non nominis caeteros casus appellauere.  Ergo a capite reuoluendum est, uocem dictum quod uox nominum genus sit; designatiuam uero, quod sunt quaedam uoces quae nihil designant, ut ad his uocibus separetur quae nihil significant; ad placitum, ut ab his uocibus separetur quae naturaliter significant, ut sunt pecudum. Sine tempore uero dictum est, ad diuisionem uerbi quod cum tempore est; cuius nullapars extra significat, ut diuideretur ab oratione, cuius partes nomina sunt et uerba, quae significant; finita uero, ut ab infinitis separetur; recta, ut a casibus distingueretur.  Et in uerbo eadem omnia fere conueniunt. Est enim uerbum uox significatiua ad placitum cum tempore, cuius nulla pars extra significatiua est.  Et quia est quaedam uox significatiua et ad placitum cum tempore, cuius pars nihil significat, ut 'non albet' (Albet enim, quod cum non iunctum consignificat, solum non significat), et quia nihil definitum monstrat (quod enim non albet, potest et rubere, potest et nigrescere, potest et pallere, et quidquid non albet), ideo "infinitum uerbum" uocatum est. 'Faciebat' autem et 'facturus', ut superius in nomine, non uerba sed casus uerborum sunt.  Repetendum est igitur ab initio uerbum esse uocem dictum, a genere; significatiuam, ut a non significatiuis uocibus diuidatur; ad placitum, ut ab illis quae natura sunt significatiuae uocibus separetur: cum tempore, ut a nomine diuideretur; praesens aliquid significare, ut a uerbi casibus disiungeretur; finita, ut ab infinitis disterminaretur.  Restat ergo nunc quid sit oratio dicere. Haec enim ex nomine et uerbo componi uidetur: sed prius utrum nomen et uerbum solae partes orationis sint consideremus, an etiam aliae sex, ut grammaticorum opinio fert, an aliquae ex his in uerbi et nominis iura uertantur; quod nisi prius constitutum sit, tota propositionum ac deinceps ea ipsa quae ex propositionibus componitur syllogismorum ratio titubabit. Nam si ex quo sint genere termini nesciatur, totum ignorabitur. Nomen et uerbum, duae solae partes sunt putandae, caeterae enim non partes sed orationis supplementa sunt: ut enim quadrigarum frena uel lora non partes sed quaedam quodammodo ligaturae sunt et, ut dictum est, supplementa non etiam partes, sic coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non partes orationis sunt sed quaedam colligamenta. Participium uero quod uocatur, uerbi loco ponetur, quoniam temporis demonstratiuum est. Aduerbium uero nomen est, cuiusdam enim definitae significationis est sine tempore, quod si per casus non flectitur, nihil impedit. Non enim est proprium nominis flecti per casus. Sunt enim quaedam nomina quae flecti non possunt, quae a grammaticis *monoptata* nominantur -- sed hoc grammaticae magis quam huius considerationis est. Oratio est uox designatiua ad placitum, cuius partes aliquid extra significant, ut dictio, non ut affirmatio.  Et est orationi commune cum nomine et uerbo quod VOX est, et DESIGNATIVA, et AD PLACITUM. Cuius enim partes ad placitum sunt, ea quoque ipsa ad placitum est; orationis autem partes sunt nomen et uerbum; sed haec ad placitum; oratio igitur ad placitum est. Termini uero orationis a dialecticis nominantur nomina et uerba. Termini uero dicti sunt, quod usque ad uerbum et nomen resolutio partium orationis fiat, ne quis orationem usque ad syllabas nominum uel uerborum tentet resoluere, quae iam designatiuae non sunt.  Distat autem a nomine uel uerbo oratio quod illis partes extra significant, uerbi et nominis partes nihil extra designant. Est autem dictio unius simplex uocabuli nuncupatio, uel simplex affirmatio. Atque ideo dictum est orationis partes significare ut dictionem id est ut simplicis uocabuli nuncupationem. In oratione enim: Socrates ambulat  utraque extra significat tantum quantum simplex uocabuli nuncupatio designare queat. Quomodo autem ut affirmatio simplex non significet in commentario Perihermeneias explicui. (Quid autem sit affirmatio et negatio paulo post explicabimus.)  Sunt uero species orationis in angustissima diuisione quinque. Interrogatiua, ut: Putasne anima immortalis est?  Imperatiua, ut: Accipe codicem!  Optatiua uel deprecatiua, ut: Faciat Deus. Vocatiua, ut: Adesto Deus.  Enuntiatiua, ut: Socrates ambulat  sed in illis quatuor nulla neque ueritas est, neque falsistas Enuntiatiua uero sola aut uerum aut falsum continet. Atque hinc propositiones oriuntur.  Enuntiatio autem in duas partes secabitur, in affirmationem et negationem. Affirmatio est enuntiatio alicuius ad aliquid. Negatio est enuntiatio alicuius ab aliquo. Et est affirmatio, ut puta: Plato philosophus est. Negatio: Plato philosophus non est. Affirmatio enim ad Platonem philosophiam enuntiat aliquam, id est Platonem esse philosopbum. Negatio uero ab aliquo Platone aliquam pbilosophiam enuntiando tollit, id est enuntiat Platonem non esse philosophum. Enuntiatiuarum igitur orationum aliae sunt simplices, aliae non simplices. Simplices sunt ut si dicas: Dies est. Lux est.  Non simplices ut: Si dies est lux est.  Affirmationes uero simplices et negationes, aliae sunt uniuersales, aliae sunt particulares, aliae indefinitae. Uniuersales sunt quae aut omne affirmant ut: Omnis homo animal est  aut omne negant, ut: Nullus homo animal est  Particulares uero quae aliquem affirmant uel aliquem negant, ut: Aliquis homo animal est. Aliquis homo animal non est  indefinitae uero quae neque uniuersaliter affirmant aut negant, neque particulariter, ut: Homo animal est. Homo animal non est  Diuiditur autem simplex propositio in duas partes: in subiectum et praedicatum, ut: Homo animal est  'homo' subiectum est, 'animal' uero de homine praedicatur. Hae autem partes termini nominantur. Quos definimus sic: Termini sunt partes simplicis propositionis in quibus diuiditur principaliter propositio. Est enim simplicis propositionis uniuersalis secunda diuisio, ut sit in propositione:  Omnis homo animal est  'omnis homo' unus terminus, alius uero 'animal est'. Sed hoc secundo loco, illud uero principaliter. Nam primi termini sunt subiectum et praedicatum. 'Est' enim et 'non est', non magis termini sunt quam affirmationis uel negationis designatiua sunt, et 'omnis' uel 'nullus' uel 'aliquis' non magis sunt termini quam definitionum, utrum particulariter an uniuersaliter dictum sit, designatiua sunt.  Diuiditur ergo, ut dictum est, propositio in id quod subiectum est, et in id quod praedicatur. Dico autem subiectum, ut in: Omnis homo animal est  propositione hominem, id uero quod pradicatur dico animal, et semper quod praedicatur, aut abundat et superest sub#ecto, aut aequatur. Minus autem praedicatum a subiecto nunquam reperietur. Sed id quod diximus diuersis demonstremus exemplis. Subiecto praedicatum abundat quoties genus aliquod de aliquo praedicatur, ut si dicas: Omnis homo animal est  Non enim potes conuertere, ut dicas: Omne animal homo est  quia animal ab homine plus est et abundat. Aequatur autem praedicatum subiecto quoties proprium quoddam cuipiam praedicatur, ut: Omnis homo risibile est  potes conuertere: Omne risibile homo est  ut autem minus sit id quod praedicatur, fieri nequit. Dicitur etiam praecedere pracdicatum, sequi quod subiectum est. Idonior est enim praedicatio constituere propositionem, quam id quod subiectum est.  Simplicium autem propositionum aliae sunt in nullo sibi participantes ut sunt: Omnis homo animal est  et: Virtus bona est  et aliae huiusmodi propositiones, aliae uero quae participant. Participantium aliae sunt quae in utroque termino participant, aliae quae in altero, et quae altero termino participant tribus modis, utroque uero duobus.  Ostendamus ergo exemplis quomodo altero tribus modis participant. Communis enim terminus est, cum in una subiectus sit, in altera praedicatus, ut est: Omnis homo animal est  et: Omne animal animatum.  In priore enim propositione animal praedicatur ad hominem, in posteriore praedicatur ad animal animatum, et fit animal subiectum. Et est hic primus modus de eis qua altero termino participant.  Secundus uero modus est in quo in utrisque communis terminus praedicatur, ut si quis dicat: Omnis nix est candida  et: Omnis margarita est candida.  Etenim in prima et secunda propositione candida praedicatur, in prima ad niuem, in secunda ad margaritam. Et est hic secundus modus altero termino participantium.  Tertius uero modus est, quoties in utrisque propositionibus cornmunis terminus subiectus est, ut si dices: Virtus bonum est Virtus iustum est  In utrisque enim ad iustum et ad bonum uirtus subiectum est.  Sunt igitur participantes alterum terminum his tribus modis, aut cum in una communis terminus praedicatur, in illa subiectus est; aut cum in utrisque praedicatur; aut cum in utrisque subiectus est.  Earum uero quae ad utrosque participant terminos duo sunt modi. Aliae enim ad eumdem ordinem, aliae ad ordinis commutationem. Ad eumdem sunt quae de eodem idem demonstrant, uel affirmatiue uel negatiue, uel uniuersaliter aliter uel particulariter: Omnis uoluptas bonum est. Nulla uoluptas bonum est  et rursus particulariter: Quaedam uoluptas bonum est. Quaedam uoluptas bonum non est.  Ad ordinis uero commutationem sunt quoties qui in altera subiectus est terminus, in alia praedicatur ut: Omne bonum iustum est  et: Omne iustum bonum.  Nam in priore bonum subiectum est, iustum praedicatum, in secunda iustum subiectum est, bonum praedicatum. Nunc ergo quoniam aliae ad eumdem ordinem, aliae ad ordinis commutationem sunt, prius dicemus de his quae ad eumdem ordinem utroque termino participant. Et quoniam sunt propositiones, aliae affirmatiuae aliae negatiuae; aliae uniuersales aliae particulares aliae indefinitae: -- duae sunt ex his quae qualitate differunt, tres quae quantitate. Et sunt quae qualitate differunt affirmatiua et negatiua; ad quantitatem quae uero differunt, sunt uniuersalis, particularis, et indefinita.  In affirmatiuis enim et negatiuis quale quid sit aut non sit ostenditur. In uniuersali particulari et indefinita de omnium uel nullorum uel nonnullorum quantitate monstratur. Ex his ergo quinque differentiis, id est uniuersali, particulari, indefinita, affirmatiua, negatiua, sex coniunctiones fiunt, ita ut tribus quae ad quantitatem dicuntur duae quae ad qualitatem dicuntur aptentur, et fit uniuersalis affirmatiua, et uniuersalis negatiua, ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est  et particularis affirmatiua, et particularis negatiua, ut: Quidam homo iustus est. Quidam homo iustus non est  et indefinita affirmatiua et negatiua, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est  fiunt ergo ex duabus quae sunt ad qualitatem, tribus quae sunt ad quantitatem iunctis, sex coniunctiones, de quibus indefinitas, affirmatiuas et negatiuas separemus, et de solis uniuersalibus et particularibus tractatus habeatur.  Subscribantur etiam earum participantium quae ad eumdem ordinem utroque termino participant, duae uniuersales propositiones, una affirmatiua, et altera negatiua, et sit affirmatiua uniuersalis: Omnis homo iustus est  et contra ipsam uniuersalis negatiua: Nullus homo iustus est.  Item sub his ponantur particularis affirmatio et particularis negatio, ita ut sub uniuersali affirmatiua ponatur particularis affirmatiua, et sub uniuersali negatiua ponatur particularis negatiua, et sit particuiaris affirmatiua: Quidam homo iustus est  et contra ipsam particularis negatiua: Quidam homo iustus non est  quod demonstrat sequens descriptio. In superiori igitur descriptione uniuersalis affirmatiua et uniuersalis negutiua contrariae sunt, subcontrariae uero particularis affirmatiua et particularis negatiua, subalternae uero dicuntur uniuersalis affirmatiua et particularis affirmatiua, et item uniuersalis negatiua et particularis negatiua. Contraiacentes sunt angulares, id est uniuersalis affirmatiua et particularis negatiua. Et item uniuersalis negatiua et particularis affirmatiua, ut: Omnis homo iustus est. Quidam homo iustus non est. Nullus homo iustus est. Quidam homo iustus est  et sunt ut hoc modo definiri possint. Contrariae sunt quae uniuersaliter eidem idem haec affirmat, haec negat. Subcontrariae sunt quae particulariter eidem idem haec affirmat, haec negat. Subalternae sunt quae eidem idem affirmant uel negant, haec particulariter, illa uniuersaliter. Contraiacentes sunt quando eidem eamdem rem haec affirmat, haec negat, uel haec negat, haec affirmat, illa generaliter, haec particulariter, et uocantur contrariae, quis quod affirmatio uniuersaliter ponit negatio uniuersaliter tollit. Subalternae uero, quoniam quod illa uniuersaliter ponit, etiam haec particulariter ponit. Subcontrariae uero dictae sunt, uel quod naturaliter sub ipsis contrariis positae sunt, ut descriptio docet, uel quod a contrariis diuersae sunt, et ipsis contrariis quodammodo contrariae. Nam contraria, ut utraeque simul sint fieri non potest, ut utraeque omnino non sint fieri potest, contrariam uim obtinebunt subcontrariae. Nam ut utraeque omnino non sint fieri non potest, ut utraeque simul sint fieri potest, quod in sequentibus melius explicabitur. Contraiacentes dicuntur, quoniam uniuersalis affirmatio uel negatio, particularem affirmationem uel negationem angulariter respiciunt.  Cum autem singulae propositiones habeant duas differentias, unam ad qualitatem, alteram ad quantitatem, ut quae uniuersalis, affirmatiua est, habeat differentiam ad quantitatem quod uniuersalis est, et aliam ad qualitatem quod affirmatiua est; eodem modo caeterae propositiones binas habeant differentias, unam secundum qualitatem, alteram secundum quantitatem.  Subalternae quae sunt, una tantum differentia distant quantitatis, quod haec particularis, illa uniuersalia est. Nam qualitatis differentiam nullam retinent. Utraeque enim affirmatiuae sunt. Hae uero aliae, id est contrariae et subcontrariae ad qualitatem, quod illa affirmatiua, illa negatiua est, nam ad quantitatem nihil differunt. Utraeque enim contrariae uniuersales, utraeque subcontrariae particulares sunt, illae autem quae contraiacentes dicuntur utrisque differentiis differunt. Nam et illa uniuersalis affirmatio est, haec particularis negatio, et illa uniuersalis negatio, est, haec particularis affirmatio.  Nunc quoniam quae secundum qualitatem uel secundum quantitatem et quomodo differant dictum est, earum proprietates, qus secundum uerum falsumque sunt, explicemus.  Igitur earum quae subalternae sunt, si fuerit uera uniuersalis affirmatio uera erit particularis affirmatio. Si enim: Omnis homo iustus est  uera est, uera erit etiam quae dicit: Aliquis homo iustus est.  Nam si omnis homo iustus est, et quidam. Eodem modo negatiuae subalternae nam si uniuersalis negatiua uera fuerit, erit etiam uera negatiua particularis, ut si: Nullus homo iustus est  uera fuerit, etiam erit uera: Quidam homo iustus non est.  Nam si nullus homo iustus est, nec quidam. Conuerti autem non potest, nam si particularis uera fuerit, non necesse erit ueram esse etiam uniuersalem. Ut si: Quidam homo iustus est  uera fuerit, non necesse erit ueram esse: Omnis homo iustus est.  Possunt enim esse non omnes. Et eodem modo de negatiua. Nam si particularis negatiua uera fuerit, ut est: Quidam homo non est iustus  non necesse erit uniuersalem: Nullus homo iustus est  ueram esse. Potest enim fieri ut quidam iusti sint.  Ergo dicamus in subalternis propositionibes si uniuersales uerae sint, ueras esse necesse est particulares sed non conuertitur. Nam si particulares uerae fuerint non necesse est ueras etiam uniuersales esse.  Particulares uero ad uniuersales contrariam conuersionem habent. Nam ut superius si uniuersales uerae essent, etiam particulares uerae essent; et si particulares uerae essent, non omnino uere essent etiam uniuersales in particularibas; si particulares falsae fuerint, falsae erunt etiam uniuersales. Nam si particularis: Quidam homo iustus est  falsa fuerit, uniuersalis etiam: Omnis homo iustus est  falsa erit. Nam si quidam homo iustus est falsa est, uera est nullus homo iustus est. Si uera est: Nullus homo iustus est  falsa est: Omnis homo iustus est.  Falsa igitur particulari, falsa erit uniuersalis.  Item si negatiua particularis falsa fuerit, quae est: Quidam homo iustus non est  falsa erit etiam: Nullus homo iustus est.  Nam si falsum est quia quidam homo iustus non est, uera est quia omnis homo iustus est. Si uera est haec, falsa est: Nullus homo iustus est  falsa igitur particulari, falsa erit etiam uniuersalis. Sed non conuertitur, ut si uniuersales falsae sint, falsas necesse sit esse particulares: nam si uniuersalis: Omnis homo iustus est  falsa fuerit, non necesse est particularem: Quidam homo iustus est  falsam esse. Potest enim fieri ut si omnis homo iustus non fuerit, sit quidam iustus. Et item si uniuersalis negatiua: Nullus homo iustus est  falsa fuerit, non necesse erit: Quidam homo non est iustus  falsam esse. Nam si falsa est nullus homo iustus est, uerum est esse aliquos iustos, uera est etiam quae dicit: Quidam homo iustus non est  quod sint quidam etiam non iusti.  Repetens igitur a capite dicat quod in subalternis. Si uniuersales uerae fuerint, uerae erunt etiam particulares. Sed non conuertitur. Item si particularea falsae fuerint, falsae erunt etiam uniuersales; sed non conuertitur, contrariae uero simul eese uerae nunquam possunt. Potest autem fieri ut alias utraeque falsae sint, alias una uera, altera falsa. Utraeque falsae sunt, ut si quis dicat: Omnis homo grammaticus est  falsa est, nam non omnis; et: Nullus homo grammaticus est  falsa est, nam non nullus; est autem una uera, altera alsa, ut si quis dicat: Omnis homo bipes est  haec affirmatiua uera est; Nullus homo bipes est  haec negatiua falsa est. Et item: Omnis homo quadrupes est  haec affirmatiua falsa est; Nullus homo quadrupes est  haec negatiua uera est. Sunt ergo contrariae aliquoties utraeque falsae, aliquoties inter se uerum falsumque diuidentes; ut utraeque autem uerae sint fieri nunquam potest, subcontrariae uero contraria patiuntur. Nam falsae nunquam reperiri queunt. Sed alias uerae utraeque sunt, ut est: Quidam homo grammaticus est  uera est, et: Quidam homo grammaticus non est  etiam haec uera est. Potest enim alius esse grammaticus et alius non esse. Alias una uera est, altera falsa. Vera est enim affirmatio: Quidam homo bipes est  falsa est autem negatio: Quidam homo bipes non est.  Item falsa est affirmatio: Quidam homo quadrupes est  uera est negatio: Quidam homo quadrupes non est  ut uero utraeque falsae sint fieri nunquam potest.  Restat igitur ut de contreiacentibus dicamus, quae neque falsae simul aliquando esse possunt neque uerae sed semper una uera est, altera falsa, quod facilius liquet, si quis sibi quaecumque fingat exempla.  Res admonet ut quaedam de indefinitis propositionibus consideremus. Indefinitae etenim propositiones aequam uim retinent particularibus propositionibus. Dictum est enim quod si uniuersales uel affirmatiuae uel negatiuae in subalternis propositionibus essent uerae, essent quoque uerae particulares. Nunc uero dicimus quod si uniuersalis propositiones uerae fuerint, uerae erunt etiam indefinitas. Nam si uera est: Omnis homo bipes est  uera est etiam:  Quidam homo bipes est  uera erit etiam indefinita quae dicit: Homo bipes est.  Item dictum est quod si particulares falsae essent, falsae essent etiam uniuersales, nunc uero dicendum est quod si indefinita falsa fuerit, falsa erit etiam uniuersalis. Nam si falsa est quae dicit: Homo quadrupes est  falsa erit etiam quae dicit: Quidam homo quadrupes est  et: Omnis homo quadrupes est.  Atque idem hoc etiam in negatiuis conuenire uidetur. Unde constat quod omnes indefinitae particularibus propositionibus aequam uim continent.  Rursus dictum est quod subcontrariae, quae particulares affirmatiuae et negatiuae sunt, simul uerae esse possunt, diuidere etiam uerum falsumque ualent, simul uero falsae esse non posse. Hoc idem in indefinitis propositionibus exspectandum est. Nam diuidunt inter se uerum falsumque, ut si quis dicat: Homo bipes est  uera est; Homo bipes non est  falsa est, et item: Homo quadrupes est  falsa est; Homo quadrupes non est  uera est; uerae autem simul inueniri possunt, ut si quis dicat: Homo grammaticus est  si quis hoc dicat de Donato, uerum est. Item: Homo grammaticus non est  si quis hoc dicat de Catone, uerum est, ut simul falsae sint nunquam reperiemus. Hinc quoque ostenditur indefinitas cum particularibus aequali esse potentia.  Amplius quod dictum est, contraiacentes, id est uniuersalem affirmatiuam et particularem negatiuam, et item uniuersalem negatiuam et particularem affirmatiuam neque ueras simul esse neque falsas sed inter se diuidere uerum falsumque, hoc idem euenit in indefinitis.  Nam uniuersalis affirmatiua et indefinita negatiua, uel uniuersalis negatiua et indefinita affirmatiua, neque uerae simul esse possunt, neque simul falsae. Diuiduntur autem inter se uerum falsumque: nam si dixeris: Omnis homo bipes est  uera est; et si dicas: Homo bipes non est  falsa est. Item si dixeris: Homo quadrupes est  falsa est, si dixeris, Nullus homo quadrupes est  uera est: unde hinc quoque colligere licet omnes indefinitas potestate et ui aequales esse particularibus. Sunt etiam quaedam propositiones quae diuidunt quidem et ipsae uerum et falsum, ut: Deus fulminat. Deus non fulminat.  Sed istae tunc diuidunt inter se uerum et falsum, cum idem tempus, idem subiectum, idem praedicatum sit. Quod autem dico tale est, si aequiuocum subiectum fuerit, non diuidunt uerum et falsum. Si quis enim dicat:Cato se Uticae occidit  et respondeatur: Cato se Uticae non occidit  utraeque uerae sunt. Nam et Cato Minor se peremit, et Cato Censorius se Uticae non occidit. Sed hoc idcirco euenit, quod Catonis nomen aequiuoce dicitur, dicitur enim et Maior Cato Censorius, et Minor Uticensis. Item si aequiuoca fuerit in propositione praedicatio, uerum inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Si quis enim sic dicat: In nocte lucet  et respondeatur: In nocte non lucet  fieri potest ut utraeque uerae sint. Nam in nocte lucerna lucere potest, et sol lucere non potest: hoc ideo euenit quia lucere aequiuoce et ad lucernae lumen et ad solis dicitur.  Amplius si aliud est aliud in subiectis et praedicatis tempus fuerit, uerum falsumque inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Nam si quis dicat: Socrates ambulat  et respondeatur: Socrates non ambulat  possunt utraeque uerae esse, potest enim fieri ut Socrates alio tempore ambulet, alio tempore non ambulet; sed aut stet aut sedeat, aut quodlibet aliud: in talibus ergo propositionibus quales sunt: Socrate ambulat. Socrates non ambulat  illae inter se uerum falsumque diuidunt quae ad idem subiectum, ad idem praedicatum, ad idem tempus dicuntur.  Sunt etiam aliae quae contradictoriae uocantur, quae sunt huiusmodi, quoties affirmationem uniuersalem tollit negatio particularis: Omnis homo iustus est. Non omnis homo iustus est  et rursus: Nullus homo iustus est  et:  Quidam homo iustus est  in his enim uniuersalis determinatio tollitur. Sed de his alias.  Et quoniam dictum est de his quae eodem ordine participant, dicamus nunc de his quae ordinis commutatione participant. Harum quoque propositionum quae ad comnmutationem ordinis participant duplex modus est. Est enim per contrapositionem conuersio, ut si dicas: Omnis homo animal est Omne non animal non homo est  simplex conuersio est, ut si dicas: Omnis homo <est> risibile  et conuertas: Omne risibile est homo  sed in illis terminorum tantum commutatio conuersionem facit, in quibus neque praedictum subiecto, neque subiectum praedicato abundat. In hac enim propositione quae dicit: Omnis homo est risibile  homo subiectum, risibile praedicatum, aequam uim habet, et ideo conuerti potest ut si risibile subiectum et homo praedicatum, et dicatur omne risibile homo. In quibus uero unus terminus alio abundauerit, conuerti propositio non potest. Nam si dicas: Omnis homo animal est  uera est; non tamen potest ueri ut conuersa haec propositio terminis commutatis uera sit: falsum est enim dicere: Omne animal homo est.  Sed hoc cur euenit? Quia homine animal abundat.  Illa uero conuersio, quae per contrapositionem fit hoc modo fit quoties in affirmatiua subiectum fuerit, idem mutatum et factum praedicatum ad negatiuam particulam ponitur, ut est: Omnis homo animal est.  Hic homo subiectum est et ad hoc animal praedicatur. Si uero quis per contrapositionem conuertat, et faciat animal subiectum hominem praedicatum, et ad hominem particulam negatiuam ponat, hoc modo faciet: Omne non animal non homo est  et erit ista conuersio: Omnis homo animal est. Omne non animal non homo est.  Sed de his posterius tractabimus.  Nunc ad simplices reuertamur. Cum sint igitur quatuor propositiones quarum quae uniuersales sunt, id est affirmatiua et negatiua, duae uero particulares, id est affirmatiua et negatiua, particularis affirmatiua, et uniuersalis negatiua commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Conuertuntur autem illae ut dictum est quoties, commutatis terminis, uel simul uerae sunt, uel simul falsae. Nam si quis dicat: Quidam homo animal est  uera est. Conuersio uero eius: Quoddam animal homo est  uera est. Item: Quidam homo lapis est  falsa est, quemadmodum et eius conuersio: Quidam lapis homo est  nam et ista falsa est. Est igitur particularis affirmatiua quae commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Idem uere patitur uniuersalis negatio. Si quis enim dicat: Nullus homo lapis est  uera est, et potest conuerti: Nullus lapis homo est  nam et ista uera est. Item: Nullus homo rhetor est  falsa est, et eius conuersio: Nullus rhetor homo est  falsa est. In quatuor igitur his propositionibus quae tantum contraiacentes sibi ipsae conuertuntur, id est particularis affirmatio et uniuersalis negatio. Aliae uero duae sibi ipsis non conuertuntur. Nam neque uniuersalis affirmatio, neque particul&ris negatio sibi ipsa conuertitur. Si quis enim dicat: Omnis homo animal est  uera est. Si quis uero conuertat:  Omne animal homo est  falsum est. Non igitur sibi ipsi conuerti potest, quoniam conuersa prioris ueritatem non recipit. Neque uero particularis negatio sibi conuertitur. Nam si quis dicat: Quidam homo grammaticus non est  uera est; si uero conuertat: Quidam grammaticus homo non est  falsa est: omnis enim grammaticus homo est.  Repetendum est igitur a capite quod cum quatuor propositiones sint, affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio particularis, particularis affirmatio et uniuersalis, negatio quae contraiacentes sunt, sibi ipsis conuerti possunt. Uniuersalis uero affirmatio et particularis negatio, quae ipsae contraiacentes sunt, nunquam possunt sibi ipsis conuerti. Nec hoc nos turbet quod quaedam affirmationes uniuersales et quaedam particulares negationes conuerti possunt. Potest enim dici: Omnis homo risibilis est  Omne risibile homo est  et utraeque uerae sunt. Et item: Omnis homo hinnibilis est  falsa est; et: Omne hinnibile homo est  et haec quoque falsa est. Item in particulari negatione: Quidam homo non est lapis  uera est; et: Quidam lapis non est homo  uera est. Item: Quidam homo non est risibile  falsa est; Quoddam risibile homo non est  et haec quoque falsa est. Ergo uidentur posse uniuersales affirmationes et particulares negationes conuerti, et conuertuntur quidem sed non uniuersaliter.  Generaliter autem dico propositiones posse conuerti, quoties uniuersaliter, id est in omnibus conuertuntur. Istae autem in duabus solis materiebus conuerti possunt. Si quis enim proprium cuiuslibet speciei ad ipsam speciem cuius est proprium uelut ad subiectum praedicet, potest conuertere. Nam quia risibile proprium est homini, si praedices risibile, et subiicias hominem, ut est: Omnis homo risibile est  potes iterum subiicere risibile et hominem praedicare, ut si dicas: Omne risibile est homo.  In illis uero simul falsae sunt generalium affirmationum conuersiones, in quibus id quod praedicatur ad subiectum nullo tempore uere dici potest, ut si quis dicat: Omnis homo lapis est  falsa est. Et iterum: Omnis lapis homo est  falsa est haec, quoniam nullo tempore neque homo lapis est, neque lapis homo uere praedicabitur. In particularibus negatiuis contrarium est; nam aut falsae sunt, cum proprium subiectum est aut praedicatum, ut si quis dicat: Quidam homo risibile non est  falsum est. Item: Quoddam risibile homo non est  et haec quoque falsa est. In illis uerae sunt, quando id quod affirmando nullo tempore uere praedicari potest ad subiectum praedicant, ut si dicas: Quidam homo lapis non est  uera est. Iterum: Quidam lapis homo non est  uera est. Ergo uniuersales affirmationes tum sibi conuertuntur ut uerae sint cum proprium praedicant, tum sibi conuertunturut falsae sint cum id quod nullo tempore adsubiectum uere dici poterit praedicatur. Item in particularibus negatiuis, tum falsae sunt, cum proprium praedicant, tum uerae, cum id quod nullo tempore uere dici poterit praedicant. In his ergo solae conuerti possunt. In aliis uero conuerti non possunt. Atque ideo uniuersaliter non conuertuntur; remanet ergo ut in aliis rebus omnibus, ut superius dictum est, non conuertantur.  Hoc uero perpiciendum est, quod particularis affirmatioque sibi ipsi conuertitur, uniuersali affirmationi, quae sibi non conuertitur, per accidens conuerti potest. Et item contraiacens uniuersali affirmationi particularis negatio, quae sibi ipsi non conuertitur, conuerti potest per accidens negationi uniuersali, quae sibi ipsi conuertitur. Sed quomodo particularis affirmatio et uniuersalis negatio sibi ipsis conuertantur ostendimus.  Nunc uero quomodo particularis affirmatio uniuersali affirmationi per accidens, uel quomodo particularis negatio uniuersali negationi per accidens couertantur, demonstrandum est. Dictum est superius quod si uera est uniuersalis affirmatio, uera est etiam particularis, et sequeretur particularis uniuersalem. Nam si uera est: Omnis homo animal est  uera est etiam: Quidam homo animal est.  Si enim omnis, et quidam; sed particularis affirmatio sibi ipsi conuertitur, conuertitur etiam uniuersali affirmationi. Nam si omnis homo animal est, et quidam homo animal est. Sed ista sibi conuertitur hoc modo, si dicas: Quidam homo animal est  potest igitur conuerti ad: Omnis homo animal est  uniuersalem affirmationem particularis affirmatio, quae est: Quidam homo animal est  et conuertitur, ut si dicas: Quoddam animal homo est  utraeque enim uerae sunt -- et quae dicit: Omnis homo animal est  et quae dicit: Quoddam animal homo est  per accidens autem conuerti dicitur particularis affirmatio uniuersali affirmationi, qui particularis affirmatio sibi ipsi principaliter conuertitur, secundo uero loco uniuersali affirmationi conuertitur.  Restat igitur ut hoc monstremus: quomodo particularis negatio quae sibi non conuertitur uniuersali negationi quae sibi conuertitur per accidens conuertatur, et hic eadem ratio est. Nam quoniam uniuersalis negatio si uera est, uera est etiam particularis, uniuersalis uero negatio sibi ipsa conuertitur potest uniuersali negationi conuersae particularis conuerti negatio. Age enim uniuersalem negationem, id est:. Nullus homo hinnibilis est  conuertamus, ut sit: Nullum hinnibile homo est. Sed istam propositionem, id est uniuersalem negatiuam quae est: Nullus homo hinnibilis est  sequitur particularis negatio quae est: Quidam homo non est hinnibilis.  Conuerte igitur uniuersalem quae est: Nullus homo hinnibilis est  et fac: Nullum hinnibile homo est  conuerte huic particularem negationem quae est: Quidam homo non est hinnibilis  et fac: Quoddam hinnibile non est homo  utraeque uerae sunt. Nam et: Nullum hinnibile homo est  quae est uniuersalis conuersio negationis, uera est, et: Quoddam hinnibile non est homo  quae conuersio particularis negationis est. Cur autem per accidens conuerti dicatur, superius dictum est. Liquet ergo talis per accidens conuersio: quod igitur habet uniuersalis affirmatio, hoc habet etiam contraiacens particularis negatio, utraeque enim sibi conuerti non possunt; quod autem habet uniuersalis negatio, hoo habet et ei contraiacens affirmatio particularis, utraeque enim sibi conuerti possunt. Iunctae ergo quae sibi conuerti possunt, et quae sibi conuerti non possunt, ut quae sibi conuerti potest iungatur ei quae sibi conuerti non potest, et quae sibi conuerti non potest iungatur ei quae sibi conuerti potest, faciunt per accidens conuersiones quae superius demonstratae sunt.  Restat ut de his conuersionibus dicamus quae per contrapositionem fiunt, et primum earum sit dispositio in descriptione subiecta, generalis enim affirmationis quae dicit: Omnis homo animal est  conuersio per contrapositionem est quae dicit:  Omne non animal non homo est.  Item generalis negationis quae dicit: Nullus homo animal est  conuersio per contrapositionem est: Nullum non animal non homo est.  Item particularis affirmationis quae dicit: Quidam homo animal est  conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam non animal non homo est.  Item particularis negationis quae dicit: Quidam homo animal non est  conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam non animal non homo est  quod demonstrat subiecta descriptio: Omnis homo animal est Omne non animal non homo est    Nullus homo animal est. Nullum non animal non homo est. Quidam homo animal est Quoddam non animal non homo est Quidam homo animal non est    Quoddam non animal non homo non est. His ergo ita positis, quomodo dictum est superius in simplici terminorum conuersione, quod particularis affirmatio et generalis negatio sibi ipsis conuerterentur, generalis uero affirmatio et particularis negatio sibi ipsis non conuerterentur, hic in per contrapositionem conuersionibus contra est. Nam generalis affirmatio per contrapositionem sibi ipsa conuertitur, et particularis negatio sibi ipsi conuertitur. Generalis uero negatio et particularis affirmatio per contrapositionem sibi non conuertuntur.  Quod ita esse his exemplis probabimus. Si enim uera sit affirmatio generalis quae dicit: Omnis homo animal est  uera erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Omne non animal non homo est.  Quod enim animal non fuerit, id homo non erit. Et si falsa fuerit generalis affirmatio quae dicit: Omne animal homo est  falsa erit etiam eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Omnis non homo non animal est  potest enim fieri ut quod homo non est, animal sit. Illa enim negat esse animal quod homo non fuerit. Quod si cum uera est generalis affirmatiua, uera est eius per contrapositionem conuersio, et si cum falsa est generalis affirmatio, falsa est eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin generalis affirmatio possit sibi ipsa conuerti.  Item nunc ostendendum est quomodo particularis negatio sibi ipsi per contrapositionem conuertitur. Nam si falsa est quae dicit: Quidam homo animal non est  falsa eius erit etiam per contrapositionem conuersio quae dicit: Quoddam non animal non homo est.  Hoc enim uidetur haec propositio dicere, ac si diceret: Quaedam res quae animal non est homo est, qui enim dicit: Non homo non est  hominem esse significat quod animal non sit. Hoc uero aperte falsum est, omnis enim homo animal est, et si uera fuerit particularis negatio quae dicit: Quoddam animal homo non est  uera erit et eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Quidam non homo non animal non est. Aequale est enim ac si diceret: Res quae homo non est non est non animal sed est animal, ut equus et bos homo non est, et non est non animal.  Ergo si cum particularis negatio falsa est, falsa est etiam eius per compositionem conuersio, et si cum particularis negatio uera est, uera est eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin particularis negatio possit per contrapositionem sibi ipsa conuerti.  Nunc quoniam ostensum generalem affirmatiuam et particularem negatiuam, per contrapositionem sibi posse conuerti, ostendamus generalem negatiuam et particularem affirmatiuam per contrapositionem sibi non posse conuerti.  Et prius de generali negatione dicendum est. Nam si generalis negatio uera est, non necesse erit per contrapositionem sibi conuersam ueram esse. Sed si falsa fuerit et per contrapositionem sibi conuersam falsam esse necesse est. Nam si falsa est quae dicit: Nullus homo animal est  falsa erit fortasse eius per contrapositionem conuersio, quae dicit: Nullum non animal non homo est.  Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae non sit animal et sit non homo, quod est omnis res quae animam non habet homo est, quod aperte falsum est. Item si uera fuerit generalis negatio, falsa erit eius per contrapositionem conuersio. Nam si uera est quae dicit: Nullus homo est lapis  falsa erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Nullus non lapis non homo est.  Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae cum non sit lapis non homo sit, quod est omnis res quaecumque lapis non fuerit homo est, quod falsum est. Innumerabilia enim inuenies quae non sunt lapides, et non homines non sunt; ergo quoniam si generalis negatio falsa fuerit, Falsa est eius per contrapositionem conuersio, uel si eadem uera fuerit, falsa erit eius per contrapositionem conuersio, non est dubium generalem negationem sibi non posse conuerti, quod enim in aliquo fallit, generaliter colligi non potest.  Restat igitur ut id quod reliquum est monstremus, particularem affirmationem per contrapositionem sibi non posse conuerti. Cum enim fuerit particularis affirmatio uera, uera erit eius etiam per contrapositionem conuersio. Nam si uera est quae dicit: Quidam homo animal est  uera est eius per contrapositionem conuersio:  Quoddam non animal non homo est.  Aequale est enim ac si dicat: Quaedam res quae animam non habet homo non est, quod uerum est. Lapis enim animam non habet, et tamen homo non est. Item si particularis affirmatio quae dicit: Quidam lapis homo est  falsa est, uera erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Quidam non homo non lapis est.  Aequale est enim ac si diceret: Quaedam res quae homo non fuerit lapis non est, quod uerum est. Equus enim homo non est, et tamen lapis non est. Ergo si cum in quibusdam particularis affirmatio uera fuerit, uera erit eius per contrapositionem conuersio, et si cum in quibusdam falsa fuerit particularis affirmatio, uera erit eius per contrapositionem conuersio, non est dubium particulares affirmationes per contrapositionem sibi non posse conuerti. Generalis enim negatio et particularis affirmatio, quae contraiacentes sunt, in per contrapositionem conuersionibus contraria patiuntur. Nam in generalibus negatiuis siue generales negatiuae uerae fuerint siue falsae per contrapositionem conuersiones semper falsae sunt; in particularibus autem affirmatiuis, siue particularis affirmatio uera fuerit siue falsa, siue per contrapositionem conuersio uera est. Repetendum est igitur a superioribus et confirmandum quod in simplicibus terminorum conuersionibus particularis affirmatio et generalis negatio sibi conuerti possunt. Generales uero affirmatio et particularis negatio sibi conuerti uon possunt. In his uero conuersionibus quae per contrapositionem fiunt, contra est; nam generalis affirmatio et particularis negatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti possunt, generalis uero negatio, et particularis affirmatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti non possunt, et generalis negatio et particularis affirmatio quae sunt contraiacentes in ueri falsique distantia (ut demonstratum est), sibi ipsis inuicem contraria patiuntur.  Haec de categoricorum syllogismorum categoricis propositionibus dicta sufficiant. Si qua uero in his praetermissa sunt, in Perihermenias Aristotelis commentario diligentius subtiliusque tractata sunt.  Superioris series uoluminis quod ad categoricorum syllogismorum propositiones attinebat explicuit. Nunc autem, quantum introductionis patitur temperamentum, de ipsa categoricorum syllogismorum ratione tractabitur; et quoniam omnium compositorum firmitudo uel uitium, aut in his maxime reperitur ex quibus est compositum, aut penes bonam malamue compositionem eius laus uituperatioque tenetur: namque domus si fortibus lapidibus debilibusue constructa, ipsa quoque est fortis aut debilis; porro autem si artificis compositionem aequabilem solertemque fuerit nacta, ipsa quoque constructio, merito stabilitatis erit laudabile fundamentum; si uero insolertior compositio fiat, tota quoque quamuis ex bonis ordinata lapidibus, nulla sese gerens fabrica stabilitate nutabit; nos quoque hanc eamdem imaginem secuti, prius de his quibus ipse syllogismus constat, id est propositionibus explicuimus.  Nunc uero de ipsa inter se syllogismorum coniunctione compositioneque tractubimus. Illud uero meminisse debebis, introducendis hic me praestitisse docendis, non introductis.  Et prius quid sit esse in omni uel non esse, paucis ostendam. Si qua enim res alterius generis fuerit, omnem intra se speciem continebit, et in toto species genere illa esse dicetur. Sit enim genus animal, homo uero species. Homo ergo quoniam minus est quam animal, in toto animali esse dicetur. Omnis enim homo animal est. Si quis ergo sic dicat aliquam rem de omni alia re praedicari, conuersa uice nihil interest. Nam sicut in toto animali homo est, sic etiam animal de omni homine praedicatur. In toto uero non esse est, quoties alia res ab alia re omni disiuncta est: ut si dicas: Animal in nullo lapide est  nullum enim animal lapis est; et si dicas: Animal de nullo lapide praedicatur  de nulloenim lapide animal dicitur. Definimus ergo in toto esse, uel in toto non esse sic: in toto esse, uel de omni praedicari dicitur, quoties non potest inueniri aliquid subiecti ad quod illud quod praedicatur dici non possit. Namque nihil hominis inuenitur ad quod animal dici non possit. In toto uero non esse, uel de nullo praedicari dicitur, quoties nihil subiecti poterit inueniri ad quod illud quod praedicatur dici possit. Nihil enim lapidis inueniri potest de quo possit animal praedicari.  Illud sane notandum est, quod esse in toto uersa uice dicitur. Nam si aliquid de omni aliquo praedicatur, illud de quo illud praedicatur in toto illo esse dicitur quod praedicatur, ut animal de omni homine dicitur. Homo uero in toto est, id est uelut quaedam pars intra totum animal latet. Et si quid in alio omni fuerit, in eo toto res illa de quo superius dicebatur esse dicitur, ut idem animal cum in omni sit homine, et de eo omni praedicetur, homo in toto est animali.  His igitur ita positis, quotiescumque ita dicimus, ut litteras pro terminis disponamus, pro breuitate hoc et compendio facimus, id quod per litteras demonstrare uolumus uniuersaliter demonstrarnus. Nam fortasse in terminis aliquibus falsum ingerendum necesse sit. In litteris uero nunquam fallimur, quoniam ad hoo utimur litteris quasi terminos poneremus. In litteris uero ipsis, nisi terminorum coniunctio per se firma ualensque fuerit, ulla neque ueritas, neque falsitas reperietur. Quoties igitur aliud de alio omni predicari uolumus ostendere, sic ponimus. Sit primus terminus a, secundus b, et praedicetur a de omni b. Hoc autem ita accipito tanquam si posuerimus a animal, b hominem. Eodem modo et de negatiuis. Nam si dicamus, a de nullo b praedicatur, tale est ac si dicamus, a, quod est animal, de nullo lapido praedicatur, quod est b, et alia quaecumque eis fuerint consimilia. Omnis autem syllogismus simplex tribus terminis demonstratur atque concluditur.  Sed prius ipsorum syllogismorum figurae aspiciumus, post uero do modis ordinibusque eorum tractabimus.  Tribus igitur terminis ita positis, ut prope se et sibi connexi sint, tres non ultra fieri complexiones necesse est hoc modo: sit enim a, sit b, sit c; aut enim a de b praedicabitur, et b de c, aut certe a et de b praedicabitur et de c, uel iisdem ipsis a et b c terminus uidebitur esse subiectus. Sit enim a bonum, sit b iustum, sit c uirtus, aut enim a, id est bonum erit in omni b, id est iusto, et dicetur: Omne iustum bonum est  et item b iustum in omni c, id est uirtute, et dicetur: Omnis uirtus iusta est.  Et erunt huiusmodi propositiones: Omne iustum bonum est  et: Omnis uirtus iusta est  aut a, id est bonum, de b, quod iustum est, et de c, quod uirtus est, predicabitur, ut sit: Omne iustum bonum est. Omnis uirtus bona est  aut certe a bonum, b iusto, et c uiriuti subiacebit, ut dicatur: Omne bonum iustum est  et:Omne bonum uirtus est.  In hac enim complexione b et c de solo a termino praedicantur. Ubi uero a de omni b termino, et b item predicatur de omni c. Hanc figuram uoco primam quae definitur sic:  Prima figura est in qua is qui subiectus est de alio praedicatur.  Namque b, quod a termino subiectum est, ad c item terminum praedicatur. Extremitates uero dico huius figurae quod praedicatur et quod subiectum est, id est a c. Namque a pradicatur de b termino, c uero terminus b termino subiacet. Medium autem illud uoco quod alii subiacet, et de alio praedicatur, id est b. Nam b terminus a termino subiacet, de c uero termino praedicatur. Maior uero extremitas est, quae prima praedicatur, id est a. Namque idem a de b termino praedicatur. Minor uero quae medio termino subiicitur, id est c, namque c terminus medio termino, id est b, subiecius est; de eo enim b medius terminus dicitur. Maior uero terminus a uocatus est, id est qui praedicatur, quoniam omne praedicatum ab e. de quo praedicatur maius est. Et in conclusionie, sicut in prima propositione, semper a terminus praedicatur, a enim bonum praedicatur de b iusto, et dicitur: Omne iustum bonum est  b uero medius terminus predicatur de c, et dicitur: Omnis uirtus iusta est.  Ex his igitur concluditur in syllogismo: Omnis uirtus bonum est  et a bonum nominabitur de c uirtute, atque ideo maior a nobis extremitas appeliatur.  Id uero meminisse debemus, quod ea quae paria sunt retorqueri possunt, et ad se inuicem praedicari, et sicut id quod predicatur in eo quod subiectum est, omni est, ita rursus conuersum quod fuerit subiectum, in eo quod antea praedicabatur omne erit. Nam si f et g duo termini ita sibi sint aequales, ut neuter neutro maior sit, cum praedicaueris f de omni g, erit f terminus in omni g termino. Si uero conuertas et praedices g terminum de f termino, erit iterum g terminus in omni f termino. Sit enim f risibile, g homo. Ergo si praedices f risibile, et g hominem subiicias, f risibile in omni g inuenitur. Omnis enim homo risibile est. Si uero praedicas g hominem ad f risibile, g homo in omni f risibile reperitur. Omne enim risibile homo est.  Quid autem termini sint, uel quid praedicatio, aut subiecto, priori de propositionibus libro satis dictum est. Sed ne forte erremus quod uidetur uniuersalis affirmatio conuersa. Nam de hoc quoque superius dictum est.  Modo uero hoc solum monstrare uolumus, quod quae sunt in toto paria sola conuertantur. Hoc tamen prodest ad ostensionem syllogismorum quae fit in circulo, quam in Analyticis diximus.  Ac de prima syllogismorum categoricorum figura expeditum est. Secunda uero figura est quoties a terminus de utrisque b et c terminis praedicatur hoc modo: Si enim dicas a bonum de omni b iusto, ut sit hoc modo propositio: Omne iustum bonum est  et inde a bonum de omni c uirtute, ut dicas: Omnis uirtus bonum est  solum a de utrisque b et c terminis praedicasti, et erit haec secunda figura. Medius autem terminus in hac figura erit qui de utrisque praedicatur, id est a. Extremitates uero ea quae subiecta sunt, id est b et c. Maior uero extremitas est de qua primo a terminus appellatur, id est b iustum; uel si ad c primo praedicabitur c terminus maior extremitas inuenitur. Idcirco quod ea extremitas de qua medius terminus primo praedicatur, in conclusione ipsa quoque praedicabitur, ut posterius demonstrandum est. Minor uero extremitas erit ad quod medius terminus posterius praedicabitur.  Tertia uero figura est, quoties a et b termini de ullo c praedicantur. Si quis enim praedicet a, id est bonum de c, id est uirtute, ut sit huiusmodi propositio: Omnis uirtus bonum est  item b praedicetur de c, ut sit: Omnis uirtus iustum est  tertiam figuram facit. In hac uero figura medius terminus erit qui utrisque subiectus est, id est c. Namque de c termino a et b termini praedicantur. Maior uero extremitas est quae primo praedicatur, id est a; minor uero quae postea, id est b; uel si quem libuerit b prius, a posterius praedicare secundum priorem posterioremque praedicationem, maior minorue extremitas inuenietur, et hic quoque maior extremitas in conclusionibus, sicut in superioribus aliis figuris, de minore praedicatur.  Expeditis igitur tribus syllogismorum figuris, dicendum est quia perfectus syllogismus est cui ad integram probatamque conclusionem ex superius sumptis et propositis nihil deest. Sed modo atque ordine facta conclusio nihil dehabens, per ea quae antea proposuit terminatur.  Imperfectus uero syllogismus est cui nihil aeque ad perfectionem deest, uerumtamen in his quae in propositionibus sumpta sunt aliqua desunt cur ita esse uidetur. Sed et hae definitiones omnes posterius liquebunt.  Nunc autem unde hae figurae nascantur breuiter expliicandum est. Quoniam unde nascuntur, in eadem iterum resoluuntur. Sed secunda et tertia figura de prima figura nasci et procreari uidentur. Sit enim a terminus in omni b termino, et de omni eo praedicetur, b uero terminus de omni c termino praedicatur. Haec, ut dictum est, prima syllogismorum figura est. Si quis igitur maiorem extremitatem propositionemque conuertat, et quod fuerat antea praedicatum faciat esse subiectum, secundam faciet figuram. Nam quemadmodum a terminus praedicatur de b termino, ita b de c. Si ergo conuertatur, et fiat b terminus de a termino praedicetur, inuenitur b terminus qui antea medius fuerat, et a termino subiectus, de c uero termino praedicatur ad utrosque terminos praedicatiuus.   Age enim quoniam a bonum de b iusto praedicabatur, b uero iustum de c uirtute praedicabatur, erat propositio: Omne iustum bonum est  Omnis uirtus iusta est  manente propositione quae est: Omnis uirtus iusta est  prima propositio (id est "Omne iustum bonum est") contrauertatur et fiat: Omne bonum iustum est.  Inueniuntur igitur propositiones sic: Omne bonum iustum est. Omnis uirtus iusta est  et iustum, id est b de a et c terminis praedicabitur. Conuersa igitur maiore prioris figurae extremitate, secunda syllogismorum figura procreatur.  Tertia uero figura nascitur, minori propositione conuersa. Nam si a bonum predicatur de b iusto, ut dicatur: Omne iustum bonum est  b uero iustum praedicatur de c uirtute, ut dicatur: Omnis uirtus iusta est  si, priore propositione manente, id est: Omne iustum bonum est  secunda quae est: Omnis uirtus iusta est  conuertatur et fiat: Omne iustum uirtus est  inuenietur omnes propositiones sic: Omne iustum bonum est. Omne iustum uirtus est  et de b iusto a et c termini praedicantur, et fit tertiae figurae connexio. Conuersis igitur primis posterisque extremitatibus primae figure, tertia uel secunda figura nascuntur. At uero unaquaeque harum trium figurarum habet sub se plures syllogismorum modos, ut modi sub figuris ita sint ut sunt species sub suis generibus.  Habet enim prima figura sub se, Aristotele auctore, modos quatuor; sed Theophrastus uel Eudemus super hos quatuor quinque alios modos addunt, Aristolele dante principium in secundo Priorum Analylicorum uolumine, quod melius postmodum explicabitur. Secunda uero figura habet sub se quatuor modos; tertia uero, auctore Aristotele, sex; addunt etiam alii unum, sicut ipse Porphyrius, superiores scilicet sequens.  Et quoniam (ut superiore libro dictum est) aliae propositiones affirmatiuae sunt, aliae negatiuae, et earum aliae uniuersales, aliae uero particulares, secundum eas ipsas, propositiones syllogismorum conclusionesque iunguntur. BARBARA Namque primae figurae primus modus est qui fit ex duabus uniuersalibus affirmatiuis, uniuersalem colligens affirmatiuam. Si enim a termimis fuerit in omni b termino, et si b terminus de omni c termino fuerit praedicatus, a terminus de omni c termino praedicabitur. Namque a bonum si praedicetur de omni b iusto, ut sit:  Omne iustum bonum est  b uero iustum, si de c praedicetur uirtute, ut sit: Omnis uirtus iustum est  necessario concluditur extremitatibus ad se inuicem praedicatis, id est a et c, ut sit: Omnis uirtus bonum est  Sunt igitur huiusmodi propositiones atque conclusio? Si a in omni b fuerit, et b in omni c fuerit, a terminus de omni c praedicabitur, id est: Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;  et conclusio:  Omnis igitur uirtus bonum est  et hic primae figurae primus modus est. CELARENT Secundus uero modus primae figurae est, quoties ex prima uniuersali negatiua et secunda uniuersali affirmatiua conclusio uniuersali negatione colligitur. Si enim sit a malum, b bonum, c iustum, a terminus de nullo b termino praedicabitur. Nullum enim bonum malum est, b uero terminus de omni c termino praedicabitur, omne enim iustum bonum est. Quare colligitur, nullum iustum malum est, ut est hoc modo: Si a terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de omni c fuerit praedicatus, a terminus de nullo c praedicabitur, ut est:  Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum est. DARII Tertius uero modus primae figurae est, quoties ex uniuersali affirmatiua, et particulari affirmatiua, particularis affirmatiua colligitur. Nam si a uirtus de omni b, id est bono, praedicetur, et b bonum de quodam c, id est iusto, fuerit praedicatum particulariter, erit quoque conclusio particularis, hoc modo, ut a uirtus de quodam c iusto particulariter praedicetur. Si igitur fuerit a terminus in omni b, et b terminus in aliquo c particulariter, erit a terminus in aliquo c particulariter, ut sit:  Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum uirtus est.  FERIO Quartus modus primae figurae est talis, quoties ex uniuersali negatione et particulari affirmatione paricularis negatiua colligitur. Nam si a terminus de nullo b termino praedicetur, b uero termimis de quodam c termino praedicetur, a terminus de quodam c termino non praedicabitur, quod monstrat subiecta descriptio. Nam sunt huiusmodi propositiones: Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.  Hos ergo quatuor in prima figura modos in Analyticis suis Aristoteles posuit. Caeteros uero quinque modos Theophrastus et Eudemus addiderunt, quibus Porphyrius, grauissimae uir auctoritatis, uisus est consensisse, qui sunt huiusmodi. Nam quoniam particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, quisquis ostenderit in conclusione a terminum de quodam c termino particulariter praedicari, in eadem ipsa conclusione monstrauit quod c terminus de a termino rursus particulariter praedicetur. Nam si sibi particularis propositio in coliclusione conuertitur, si a terminus in quodam c termino fuerit, c terminus de quodam a termino praedicabitur. Item quisquis uniuersalem negatiuam in conclusione probauerit, necesse est eum ipsius quoque conuersionem in eadem conclusione probasse. Uniuersalis enim negatio semper sibi couuertitur. Nam si quis probauit quod a terminus de nullo c termino praedicatur, non est dubium quin in hac conclusione illud quoque probatum sit, quod c terminus de nullo a termino praedicetur. Semper enim, ut dictum est, uniuersalis negatiua sibi ipsi conuertitur. Uniuersalis quoque affirmatiua duplici conclusione continetur: nam quisquis ostendit a terminum de omni c termino praedicari, illud quoque ostendit quod c terminus de quodam a termino particulariter praedicetur. Si quis enim probauerit animal de omni homine praedicari, ita dicens, omnis homo animal est, illud quoque necessario monstrauit particulariter, quoniam quoddam animal homo est. Ita semper uniuersalis negatio, et uniuersalis affirmatio, uel particularis affirmatiua dupliciter concluduntur. Aliae enim sibi ipsis conuertuntur, quae particularis est particulariter, quae uniuersalis uniuersaliter. Alia uero, cum ipsa uniuersalis affirmatiua sit, particulariter sibi ipsi conuertitur. Particularis autem negatio nunquam sibi ipsi conuertitur, atque ideo simplicem in se retinet conclusionem.  Hoc autem quod nuper diximus, in secundo priorum Analyticorum libro ab Aristotele monstratur, quod scilicet Theophrastus et Eudemus principium capientes ad alios in prima figura syllogismos adiiciendos animum adiecere, qui sunt huiusmodi qui *kata anaklasin* uocantur, id est, per refractionem quamdam conuersionemque propositionis.  BARALIPTON Et est quintus modus ex duabus uniuersalibus affirmationibus, particularem colligens affirmatiuam hoc modo: Si a fuerit in omni b, et b fuerit in omni c, posset equidem concludi quod a terminus esset in omni c termino. Sed quoniam ista uniuersalis propositio, ut dictum est, particulariter conuertitur, praetermisso eo quod a terminus de omni c termino praedicatur, conclusio esse dicitur quod c terminus de quodam a termino praedicatur, quod hoc exemplo monstrandum est. Si enim sint propositiones sic:Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;  posset concludi equidem quoniam: Omnis uirtus bonum est.  Sed quoniam illa propositio sibi conuertitur, ut sit: Quoddam bonum uirtus est  particulariter, particularis syllogismus conclusioque colligitur ex duabus uniuersalibus affirmatiuis. Eius uero forma talis est, a terminus in omni b, b terminus in omni c; igitur c terminus in quodam a, ut est: Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam bonum iustus est.  Per conuersionem refractionemque dicitur, quoniam quod uniuersaliter colligebatur conuersum, particulariter collectum est.  CELANTES Sextus modus est primae figurae qui fit ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem conclusionem per conuersionem colligens. Nam si a terminus in nullo b fuerit, b uero terminus in omni c termino fuerit, posset equidem colligi quoniam a terminus in nullo c termino est: se quoniam uniuersalis negatiua conuertitur, dicimus quoniam c terminus in nullo a termino est, ut sit hoc modo:  Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;  posset colligi: Nullum iustum malum est  sed ex his per conuersionem colligimus:  Nullum malum iustum est.  DABITIS Septimus modus primae figurae est, qui ex uniuersali affirmatiua et particulari affirmatiua per conuersionem particularem colligit affirmatiuam. Si enim fuerit a terminus in omni b, et b terminus de quodam c termino praedicetur, potest a terminus de quodam c termino praedicari. Sed quoniam particularis affirmatio sibi ipsi conuertitur, per conuersionem fit conclusio, et dicitur c terminus de quodam a termino praedicari, ut sit sic: Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;  posset equidem concludi, quoniam:  Quoddam iustum uirtus est  sed quia particularis affirmatio conuertitur, dicimus quoniam:  Quaedam uirtus iusta est. FAPESMO Octauus modus primae figurae est, quoties ex uniuersali affirmatione et uniuersali negatione particulariter colligitur. Si enim a terminus de omni b termino praedicatus fuerit, b uero terminus de nullo c termino praedicetur, non posset colligi quoniam a terminus de nullo c termino praedicatur. Cur autem non possit, in resolutoriis dictum est. Sed quoniam uniuersalis negatiua sibi ipsa conuertitur, potest dici et conuerti, quoniam c terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de quodam a termino dicitur, quoniam uniuersalis affirmatiua purtioulariter sibi ipsa conuertitur: quare c terminus de quodam a termino non praedicabitur, ut sit sic: Omne bonum iustum est, Nullum malum bonum est;  non posset colligi, quoniam: Nullum malum iustum est,  sed conuertitur sic:  Nullum bonum malum est,  Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. FRISESOMORUM Nonus modus primae figurae est, qui ex particulari affirmatiua et uniuersali negatiua particularem colligit negatiuam per conuersionem. Si enim a terminus de quodam b termino, b uero terminus de nullo c termino praedicetur, non potest quidem dici quoniam a terminus de quodam c termino non praedicabitur. Cur autem non possit, hoc quoque in resolutoriis diximus; sed quoniam uniuersalis negatio conuerti potest, dicitur quoniam c terminns de nullo termino praedicatur, et b terminus de quodam a praedicatur; c igitur terminus de quodam a non praedicabitur, ut sit sic:  Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. Expeditis igitur nouem primae figurae modis, ad secundae figurae quatuor modos ueniamus. lllud tantum constet, quod quemadmodum in prima figura per nouem supradictos modos et affirmatio uniuersalis, et negatio uniuersalis, et affirmatio particularis, et negatio particularis, in conclusione colligitur, in secunda figura affirmatiuam neque generalem neque particularem posse colligi sed tantum uel particulariter, uel uniuersaliter solas colligi negatiuas.  CESARR Est autem secundae figurae primus modus hic, quoties ex uniuersali negatione, et uniuersali affirmatione, uniuersalis negatiue colligitur. Si enim a terminus de nullo b termino et de omni c termino praedicetur, terminus de nullo c termino praedicabitur. Sit enim a bonum, sit b malam, c iustum. Si quis igitur sic dicat:  Nullum malum bonum est,  Omne iustum bonum est;  concludit: Nullum iustum malum est.  Liquet igitur maiorem extremitatem de minore in conclusione praedicari. Sed omnes secundae fgurae syllogismis quam uis ueri sint, uerum tamen ex seipsis non probatur sed ex primae figurae modis implentur. Namque si a terminos de nullo b termino praedicetur, et in omni c termino sit, nondum probatum est quoniam omnino b terminus de nullo c termino praedicetur. Sed si quis ex isto secundae figurae primo modo primae figurae secundum modum faciat, per conuersionem totus syllogismus conclusioque probata est. Si quis enim in hoc syllogismo qui est a terminus in nullo b, et idem a terminus de omni c praedicetur, et a b propositionem conuertat, ut faciat esse b a, nam omnis uniuersalis negatiua conuertitur; si quis igitur dicat quoniam a terminus de nullo b termino praedicatur, et b igitur de nullo a termino praedicabitur sed a terminus de omni c termino praedicabitur.  Fit igitur primae figurae secundus modus ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem colligens negatiuam, ut sit conclusio. De nullo igitur c termino b praedicabitur. His igitur conuersionibus omnis secundae et tertiae figurae syllogismus conclusioque colligitur et probatur. Atque ideo quoniam ex seipsis non sunt probati nisi ex superioribus comprobentur, id est, primae figurae modis, quicumque in secunda uel tertia figura inuentus fuerit, imperfectus uocatur syllogismus. CAMESTRES Secundus uero modus secundae figurae est quoties ex uniuersali affirmatiua et uniuersali negatiua commutatis ordinibus uniuersalibus rursus negatiua concluditur, Si enim a terminus in omni b termino fuerit, et de nullo c termino praedicetur, b term in us de nullo c termino praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c malum. Si quis igitur sic dicat: Omne iustum bonum est, Nullum malum bonum est;  concludit:  Nullum igitur malum iustum est.  Sed haec complexio coniunctioque propositionum duplicem conuersionem habet. Ostenditur enim de secundo primae figurae modo sic. Nam si a terminus in omni b termino est, et de nullo c termino praedicatur, hic uniuersalis negatiua conuertitur. Erit igitur ut c terminus de nullo a termino praedicetur. Quod si ita est, erit huiusmodi syllogismus: c terminus de nullo a termino praedicatur, a terminus in omni b termino est, c igitur terminus de nullo b termino praedicabitur. Ecce una conuersio facta est propositionis negatiuae. Sed quoniam diximus concludi non c in nullo b sed b in nullo c termino, hic uniuersalis conclusio negatiua conuertitur: et sicut conclusum est c terminum de nullo b termino praedicari, ita concluditur de nullo c termino b terminum praedicari. FESTINO Tertius modus secundae figurae est, quoties ex uniuersali negatiua et particulari affirmatiua particularis negatiua colligitur.  Si enim a terminus de nullo b termino praedicetur, et in quodam c termino fuerit, b terminus de quodam c termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b malum, c iustum. Si quis igitur sic dicat: Nullum malum bonum est,  Quoddam iustum bonum est;  concludat necesse est:  Quoddam iustum malum est.  Hic quoque syllogismus per conuersionem hoc modo probatur. Nam si a terminus de nullo b termino praedicatur, et b terminus de nullo a termino praedicabitur. Sed a terminus de quodam c termino praedicatur. Redit igitur primae figurae modus quartus, qui est ex uniuersali negatione est particulari affirmatione, particularem scilicet colligens negatiuam, ut in hoc quoque syllogismo. Nam hic quoque particularem nagatiuam colligit, id est b terminum de quodam c termino non praedicari. BAROCO Quartus modus secundae figurae est, qui ex uniuersali affimatione et particulari negatione particularem colligit negatiuam, Nam si a terminus in omni b termino sit, et de quodam c termino non praedicetur, b terminus de quodam c termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c malum. Si quis igitur dicat:  Omne iustum bonum est, Quoddam malum bonum non est;  concludit: Quoddam igitur malum iustum non est.  Haec uero complexio atque ordo propositionum per conuersionem non potest approbari. Generalis enim affirmatiua sibi ipsa conuerti non potest. Monstratur igitur iste syllogismus ex prima figura non per conuersionem sed per impossibilitatem, quoniam si particularis conclusio negatiua in hoc syllogismo non concluditur, aliquod inconueniens impossibileque contingit. Sed haec impossibilitas per primam figuram demonstrabitur. Dico enim quoniam si a terminus de omni b termino praedicetur, et in aliquo c termino non sit, talem colligi conclusionem, ut b terminus de aliquo c termino non praedicetur. Nam si hoc falsum est, huic contraiacens propositio uera erit. Particularibus autem negatiuis uniuersales affirmatiuae contraiacentes sunt, ut in superiore libro docuimus. Si igitur hic particularis negatio non est conclusio, erit generalis affirmatio. Sit enim affirmatio generalis, et b terminus de omni c termino praedicetur; sed a terminus de omni b termino predicatur, b uero terminus de omni c termino praedicari dicitur; a igitur terminus de omni c termino praedicatur, quod fieri non potest. lta enim a c propositionem posuimus prius, ut diceremus a terminum de quodam c termino non praedicari. Hoc igitur ostensum est per primum modum primae figurae.  Quare in secunda figura omnis syllogismus imperfectus est, et eius probatio aut per conuersionem in primam figuram reducitur, aut ex hypothetica dispositione per impossibilitatem, et primam figuram aliter fieri non posse monstratar, et alii quidem omnes per impossibile probantur, quod paulo post dernonstrabitur.  Restat ut tertiae figurae modos atque ordines explicemus. Sed antea quam id faciamus, illud prius uidendum est, quod in tertiae figurae modis quam conclusio colligitur uniuersalis. Sed si uel negatiuae uel affirmatiuae fuerint collectiones, particulares semper erunt, nunquam etiam generales.  DARAPTI Est autem tertiae figurae primus modus hic, qui ex duabus uniuersalibus affirmationibus particularem colligit affirmationem. Nam si a et b termini de omni c termino praedicentur, a terminus de quodam b termino praedicabitur per conuersionem. Nam si b terminus de omni c termino praedicatur, et uniuersalis affirmatio particulariter sibi conuertitur, c terminus de quodam b termino praedicatur. Quod si ita est, fit tertius primae figurae modus, qui est ex uniuersali et particulari affirmatiua, et colligit a terminuni de quodam b termino praedicari. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis enim sic dicat: Omne bonum iustum est, Omne bonum uirtus est;  fit conclusio:  Quaedam uirtus iusta est.  Mutant alii terminos, et uolunt facere secundum modum, ut sit a uirtus, b iustum, c bonum, ut si talis syllogismus: Omne bonum uirtus est, Omne bonum iustum est;  et concludatur: Quoddam iustum uirtus est.  Sed hunc Aristoteles a superiore non diuidit, et hos duos unum modum putat, et idcirco nos septem tertiae figurae esse diximus modos dubitantes; sed magis Aristoteles sequendus est, atque ideo alium modum dicamus esse qui possit integre uideri secundus.  <III-2: FELAPTON> Secundus uero modus tertiae figurae est, quoties ex uniuersali negatione et uniuersali affirmatione negatio colligitur particularis.  Si enim a terminus de nullo c termino, b terminus uero de omni c termino praedicetur, a terminus de quodam b termino non praedicabitur.  Nam si a terminus de nullo c termino praedicatur, b uero de omni c, et c terminus de quodam termino praedicabitur.  Particulariter enim sibi uniuersalis affirmatiua conuertitur.  Concluditur igitur in quarto primae figurae modo, a terminum de quodam b termino non praedicari. Sit enim a malum iustum, c bonum. Si quis sic dicat: Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum est;  concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non est.  Ex quo considerandum est maiorem extremitatem in conclusione praedicari. DISAMISTertius modus tertiae figurae est, quoties ex particulari et uniuersali affirmatiua particularis affirmatio concluditur. Si enim a terminus de quodam c, et b terminus de omni c termino praedicetur, concluditur a terminum de quodam b termino praedicari per duplicem conuersionem. Quoniam enim b terminus de omni c termino praedicatur, et a terminus de quodam c termino praedicatur, et particularis affirmatiua semper sibi ipsi conuertitur, c terminus de quodam a termino praedicabitur. Sunt igitur propositiones sic: b terminus de omni c termino, c uero terminus de quodam a termino praedicatur: quod si ita est, colligitur in primae figurae modo tertio b terminum de quodam a termino praedicari. Atque ita particularis affirmatiua conuertitur, et a terminus de quodam b termino praedicabitur, eruntque duplices couuersiones, una propositionis, alia conclusionis. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis igitur sic dicat:  Quoddam bonum iustum est, Omne bonum uirtus est;  concludat necesse est: Quaedam uirtus iusta est. DATISI Quartus modus tertiae figurae est quoties ex uniuersali affirmatione et particulari affirmatione affirmatio particularis colligitur. Nam si a terminus de omni c termino praedicetur, b uero terminus in quodam c termino sit, concluditur a terminum de quodam b termino praedicari per conuersionem. Si enim b terniinus de quodam c termino praedicetur, et c terminus de quodam b termino praedicatur, quonium particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, et fit syllogismus in primae figurae tertio modo, qui at ex uniuersali affirmatiue et particulari affirmatiue, particularem colligens affirmatiuam, ut sit syllogismus hoc modo: a terminus in omni c, et c terminus in quodam b. Igitur b terminus in quodam b. Sit n uirtus, h iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est;  concludet quoniam: Quoddam iustum uirtus est. BOCARDO Quintus modus tertiae figurae est quoties ex particulari negatione et uniuersali affirmatione particularis colligitur negatiua. Sed hic modus per conuersionem probari non potest sed per impossibilitatem, sicut quartus secundae figurae probatus est modus. Si enim a terminus de quodam c termino non praedicetur, b uero terminus de omni c termino praedicetur, a terminus de quodam b termino non praedicabitur; nam si non ita est, erit illud uerum, a terminum de omni b termino praedicari; sed b terminus de omni c termino praedicatur, a igitur terminus de omni c termino praedicabitur, quod fieri non potest. Prius enim ita positus est a terminus, ut de quodam c termino non praedicaretur. Quod si generalis affirmatio in conclusione syllogismi non est, ut sit a terminus in omni b termino, erit huic contraiacans particularis negatio, ut a terminos de quodam b termino non praedicetur. Sit enim a malum, b iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Quoddam bonum malum non est, Omne bonum iustum est;  concludat necesse est: Quoddam igitur malum non est.  FERISON Sextus modus tertiae figurae est quoties ex uniuersali negatiua et particulari affirmatiua particularis negatio colligitur per conuersionem. Nam si a terminus in nullo c termino sit, b uero terminus de quodam c termino praedicetur, fit conclusio a terminus de quodam b termino non praedicari. Nam si a terminus de nullo c termino praedicatur, b uero termimis de quodam c termino praedicabitur, et c terminus de quodam b termino praedicabitur, quoniam particularis affirmatiua potest conuerti. Fit igitur talis syllogismus, ut a terminus de nullo c termino praedicetur, c terminus de quodam b termino praedicetur, et a terminus de quodam b termino non praedicetur. Sit a malum, b iustum, c bonum. Si quis igitur dicat: Nullum bonum malum est, Quoddam bonum iustum est;  concludit:   Quoddam iustum malum non est.  His igitur expeditis, quid ipse syllogismus sit definiendum est. Definitur autem sic: Syllogismus est oratio in qua positis quibusdam atque concessis, aliud quiddam quam sint ea quae posita et concessa sunt, necessaria contingit per ipsa quae concessa sunt.  Orationem diximus esse syllogismum idcirco quoniam omnis definitio a generali trahitur, genus autem syllogismi EST ORATIO. Quod autem dictum IN QUA POSITIS QUIBUSDAM ET CONCESSIS, ita intelligendum est, quasi sic dictum esset, secundum quam positis et concessis; ut enim syllogismus fiat, ante aliquid a proponente dicitur, quod audiens concedat, quod si ille concesserit, concludit et perficit syllogismum, idoirco, quia dubiae res per quaedam CONCESSA et probata monstrantur, conceditur autem aequaliter et negatio uera. Caetera uero in syllogismi definitione talia sunt quae non integre dispositos syllogismos a syllogismorum definitione uerorum discernant. Nam quod dictum est IN QUA POSITIS QUIBUSDAM, sumptorum scilicet et propositionum multitudo monstratur. Sunt enim qui putantur esse huiusmodi syllogismi, in quibus tantum una propositio est et una conclusio. Qualis est hic: Vides; Viuis igitur. Homo es; Animal igitur es.  et alia huiusmodi, quos scilicet ueteres in syllogismis non acceperunt, syllogismos enim est aliquorum collectio. At uero collectio non nisi plurimorum est, et quicumque unam posuit propositionem, ille non colligit. Nullum igitur faciet syllogismum. Debet enim syllogismus, ut angustissimus sit, duabus propositionibus comprobari. Quod autem dictum est, aliud quiddam necessario euenire quam sint ipsa quae concessa sunt, quoniam freqaenter tales ab aliquibus flunt syllogismi, ut ea quae proposuerunt, ipsa etiam in conclusione concludant, ut est hic: Si homo es, homo es; Homo autem es; Homo igitur es.  Idem enim conclusit quod ante proposuit. Atque ideo, ad istorum discretionem, aliud quiddam contingere debere dictum est QUAM SINT EA QUAE CONCESSA SUNT, ut in superioribus omnibus syllogismis quos in trium figurarum modis et demonstratione posuimus. Tales uero syllogismi quales nunc dicti sunt per ridiculi sunt, quod id quod ante concessum est quasi dubium quiddam in conclusione colligitur. Nam quod positum est, necessario contingere, ad hoc pertinet, quoniam frequenter ad inductionem uerae quaedam propositiones sunt quarum conclusio nullo modo uera est, ut si quis sic dicat: Qui musicam nouit musicus est  et concedatur; et: Qui arithmeticam arithmeticus est  et: Qui medicinam medicus est  et: Qui bonum bonus est.  Cum igitur haec omnia concessa sunt, dicat: Et qui malum, malus est  quod quasi superioribus simile uidetur sed omni modo falsum est: boni enim homines non aliter cauent, nisi mala nouerint. Atque ideo propter eas conclusiones quae sunt per eas propositiones quae per inductionem dicuntur, additum est conclusiones in syllogismis necessarias contingere, id est ex necessitate contingere.  Est etiam alia exposilio sed in Analyticis nostris iam dicta est. Illud uero quod dictum est, PER IPSA QUAE POSITA SUNT, hoc propter eos dictum est qui tales faciunt syllogismis, in quibus aut minus aliquid, aut plus, aut aliud propositum est quam proponi debuerat. Fiunt enim huiusmodi syllogismi. Si quis enim ita dicat:  Socrates homo est, Omnis homo animal est;  et concludat: Socrates igitur animatus est  minus proposuit, quod non dixit omne animal esse animatum. Nunc si sic proposuisset, recte Socrates animatum esse concluderet, ita dicendo: Socrates homo est, Omnis homo animal est, et: Omne animal animatum est; Socrates igitur animatus est.  Plus autem proponere hoc est, ut si quis sic dicat: Omnis homo animal est, Omne animal animatum est, sed et: Sol in Ariete est; Omnis igitur homo animatus est  hic uero superfluum est quod solem in Ariete esse interposuit. Aliud autem quam necesss est quidam proponunt hoc modo, ut si quis sic dicat:  Omne homo animal est, Virtus autem bonum est;  Omnis igitur homo animatum est.  Nulla igitur harum propositionum ad rem pertinet quod concludere cupiebat. Expedita igitur syllogismi definitione, ad priorum modorum naturam resolutionemque ueniamus, et prius omnes in ordinem disponatur. PRIMAE FIGURAE MODI  PRIMUS Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Omnis igitur uirtus bona est. SECUNDUS Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;  Nullum igitur iustum malum est. TERTIUS. Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum uirtus est. QUARTUS Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. QUINTUS Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam igitur bonum uirtus est. SEXTUS Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur malum iustum est. SEPTIMUS Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quaedam igitur uirtus iusta est. OCTAVUS Omne bonum iustum est, Nullum malum honum est;  Quoddam igitur iustum malum non est. NONUS Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.  SECUNDAE FIGURAE MODI   PRIMUS Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum est. SECUNDUS Omna iustum bonum est, Nullum malum bonum est; Nullum igitur malum iustum est. TERTIUS Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.QUARTUS Omne iustum bonum est, Quoddam malum bonum non est; Quoddam igitur malum iustum non est.  TERTIAE FIGURAE MODI PRIMUS Omne bonum iustum est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta est. SECUNDUS Omne bonum uirtus est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum uirtus est. TERTIUS Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est  QUARTUS Quoddam bonum iustum est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta est. QUINTUS Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam igitur iustum uirtus est. SEXTUS Quoddam bonum malum non est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est. SEPTIMUM Nullum bonum malum est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est. Hi sunt igitur omnes trium figurarum modi quorum primae figurae quatuor primae indemonstrabiles nominantur et directi, id est sine aliqua conuersione monstrati; indemonstrabiles autem quoniam non per alios demoiistrantur, et perfecti dicuntur, quoniam per seipsos comprobantur. Et primi quoniam positione et natura primi sunt, et in eos omnes caeteri resoluuntur. Illi quoque quinque primae figurae modi imperfecti et per conuersionem sunt. Secundae uero figurae, uel tertiae, omnes imperfecti sunt, quoniam per primos primae figurae modos quatuor comprobantur, namque in ipsos resoluuntur: ut eos per conuersionem resoluamus, et per impossibilitatem, ut duo illi superius demonstrati sunt, consideremus igitur eorum principia, quoniam unde nascuntur in idipsum resoluuntur. Quintus igitur primae figurae modus de prima, primo figurae modo procreatur. Binis enim propositionibus prioribus manentibus, conclusio primi modi particulariter conuersa quintum efficit syllogismum, quod in subiecta declaratur descriptione:  Omne iustum bonum est,- eadem - Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;- eadem -  Omnis uirtus iusta est; Omnis uirtus bona est.- uersa - Quoddam bonum uirtus est. Sextus uero primae figurae modus de secundo primae figurae modo capit principium. Manentibus enim duabus prioribus propositionibus secundi modi, uniuersali conclusione uniuersaliter conuersa, sextus nascitur syllogismus, ut subiecta docet descriptio:  Nullum bonum malum est,- eadem - Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum bonum est; Nullum iustum malum est.- uersa - Nullum malum iustum est. Septimus modus primae figurae de tertio primae figura, nascitur modo.  Manentibus enim binis propositionibus prioribus, particulari affirmatiua in conclusione conuersa, septimi modi collocatio procreatur:  Omne bonum uirtus est,- eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- eadem - Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum uirtus est.- uertitur - Quaedam uirtus iusta est. Octauus uero et nonus primae figurae modus in quartum primae figurae modum resoluuntur, non etiam initium sumunt. Octauus resoluitur in quartum hoc modo: prima enim quarti in secundam octaui uniuersaliter conuersa, et prima propositione octaui modi particulariter in secundam quarti modi conuersa, eadem conclusio colligitur, id est negatio particularis. Nullum bonum malum est, negatio uniuersalis. Quoddam iustum bonum est, particularis affirmatio. Uniuersaliter conuersa, Omne bonum iustum est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est.  Quoddam iustum malum non est, eadem conclusio, Quoddam iustum malum non est. Nonus uero modus in quartum modum resoluitur sic, prima quarti in secundam noni propositionem uniuersaliter conuertatur, et secunda quarti particulariter in primam noni, et eadem conclusio maneat negatio particularis. Nullum bonum malum est, uniuersalis negatiua. Quoddam iustum bonum est, particularis affirmatiua. Particulariter conuersa. Quoddam bonum iustum est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est. Quoddam iustum malum non est, eadem conclusio: Quoddam iustum malum non est. Resolutis igitur quinque primae figurae modis in quatuor superioribus, secundae figurae quatuor modos in prioris figurae modos quatuor resoluamus, quorum tres per conuersionem probantur. Quartus uero per solam impossibilitatem. At uero primus et secundae figurae secundus modus in secundum prioris figure modum resoluuntur, et resoluitur primus sic. Conuersa enim prima uniuersali oegatione uniuersaliter, et manente secunda uniuersali affirmatione, eadem conclusio utrorumque nascitur:  Nullum bonum malum est,- conuersa -  Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum bonum est; Nullum iustum malum est- eadem - Nullum iustum malum est. Secundae figurae secundus modus in primae figurae secundum modum resoluitur sic: conuersa secunda propositione, et secunda prima manente, uniuersaliter fit conuersa conclusio:  Nulllum bonum malum est, Omne iustum bonum est, Omne iustum bonum est;- conuersa -  Nullum malum bonum est; Nullum iustum malum est.- conuersa -  Nullum malum iustum est. Tertius uero secundae figurae modus, de quarto primae figurae procreatur. Ut enim uniuersaliter negatio in primam propositionem uniuersaliter conuertatur, et secundae propositiones maneant, idem syllogismi terminus propositioque colligitur hoc modo:  Nullum bonum malum est,- conuersa -  Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;- similis -   Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum malum non est.- eadem -  Quoddam iustum malum non est. Quartus modus seoundae figurae quoniam iam primo, cum factus est per conuersionem, in superioris primae figurae modum retorqueri non poterat sed per impossibile demonstratum est, hic quoque per impossibile ad superiores reducitur modos, et quoniam omnes secundae figurae modi per impossibile monstrantur, idcirco nos quoque inchoantes a quarto omnes per impossibile resoluamus. Nam quartus secundae figurae modus in primum primae figurae resoluitur per impossibilitatem, tertius in secundum, secundus in tertium, primus in quartum, quod hoc modo liquebit. Si quis ergo duas istas concesserit propositiones, id est: Omne bonum uirtus est.  et: Quoddam iustum uirtus non est  necesse est quoque conclusionem concedat quae est: Quoddam igitur iustum bonum non est.  Nam si haec falsa est, erit ei contraiacens uera quae est, omne iustum bonum est sed illam concessit quae est prima quarti modi, id est: Omne bonum uirtus est.  Ex his igitur concludat: Omne igitur iustum uirtus est.  Sed prius concessit quarti modi secundum propositionem, quae est: Quoddam iustum uirtus non est.  Nunc uero concedit: Omne iustum uirtus est  duas sibi contraiacentes simul conclusurus est, quod fieri non potest. Hoc autem idcirco euenit, quia conclusio quarti modi in primi modi secundam propositionem conuersa est: quod si secunda propositio primi modi in quarti conclusione non colligitur, quarti oonclusio, id est particularis negatio, permanebit. Sed ne forte nos conturbet quod alios terminos in resoluendo modo posuimus, quam superius in disponendo; non enim modo in terminis laboramus sed in figuris et modis et complexionibus construendis atque resoluendis operam consumimus. Eodem modo et caeteri secundae figurae in primos quatuor resoluuntur:  Omne bonum uirtus est- eadem -   Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum uirtus non est; Omne iustum bonum est; Quoddam igitur iustum bonum non est. Omne igitur iustum uirtus est. Tertus secundae figurae modus secundo primae figurae modo sic resoluitur: si quis duas primas tertii modi concesserit, particuiarem quoque negatione concludet, quae est:  Quoddam igitur iustum bonum non est.  Nam si haec falsa est uera erit contraiacens, quae est: Omne iustum bonum est.  Sed etiam illa concessa est, quae est: Nullum bonum malum est.  Ex his ergo colligitur: Nullum igitur iustum malum est.  Sed prius concessa erat: Quoddam iustum malum est  nunc uero: Nullum iustum malum est  duas sibi contraiacentes, uno tempore concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur uniuersali conclusione, quae est: Omne iustum bonum est  remanebit particularis negatio, quae est: Quoddam iustum bonum non est.  Nullum bonum malum est,- conc. -  Nullum bonum malum est. Quoddam iustum malum est; - contr. -    Omne iustum bonum est. Quoddam igitur iustum bonum non est. - perm. contr. - Nullum ergo iustum malum est. Secundus secundae figurae in tertio primae figura, modo sic resoluitur: si quis duas secundae figura, propositiones concesserit, conclusionem quoque concedit, quae est: Igitur iustum bonum est.  Nam si haec falsa est, erit uera contraiacens ei particularis affirmatio: Quoddam iustum bonum est.  Sed idem concessit illam quae est: Omne bonum uirtus est  concludat necesse est: Quoddam iustum uirtus est  qui iam ante concesserat secundam secundi modi quae est: Nullum iustum uirtus est  duas contraiacentes uno tempore concedit, quod fieri non potest.  Omne bonum uirtus est,- concessae -  Omne bonum uirtus est, Nullum iustum uirtus est;   - contraiac.-  Quoddam iustum bonum est;   Nullum iustum bonum est. - permut. - Quoddam iustum uirtus est. Primae item secundae figurae in quartum primae figurae sic resoluitur: qui concedit duas primi modi propositiones, concedat necesse est et conclusionem. Nam si illa falsa est, erit uera contraiacens ei particularis affirmatiua quae est: Quiddam iustum bonum est.  Sed idem concessit illam quae est: Nullum bonum malum est  concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non est  qui ante concesserat illam quae est: Omne iustum malum est.  Uno tempore duas contraiacentes concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur particulari affirmatione quae est: Quoddam iustum bonum est  remanet illa quae est:  Nullam iustum bonum est.  Nullum bonum malum est,   - similes - Nullum bonum malum est. Omne iustum malum est;  - contraiac. - Quoddam iustum bonum est. Nullum iustum bonum est.  - perm. iacen. -  Quoddam igitur iustum malum non est.  Sequitur ut tertiae figurae modos ad primos quatuor reducamus, quorum quinque per conuersionem et per impossibilitatem ad primos quatuor resoluuntur unus uero solus, id est quintus, per solam impossibilitate in priora resoluitur. Primus tertiae modus figurae in tertium primae figurae hoc modo resoluitur: Si enim prima propositio tertii modi primae figurae maneat, et secunda propositio particularis tertii modi prime figurae uniuersaliter conuertatur, et sit secunda propositio primi modi tertiae figurae, eadem conclusio, colligitur, id est affirmatio particularis.  Omne bonum iustum est,- manet -   Omne bonum iustum est, Quaedam uirtus bona est;- conu. -  Omne bonum uirtus est; Quaedam uirtus iusta est.- manet -  Quaedam uirtus iusta est. Vel certe sic, quia superius talem syllogismum diximus terminis commutatis, quem Aristoteles dissimilem non putat.  Omne bonum uirtus est,- similes -  Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- conu. -  Omne honum iustum est; Quoddam iustum uirtus est.- manet - Quoddam iustum uirtus est. Secundus modus tertiae figurae in quartum modum primae figura, hoc modo resoluitur. Si enim primae propositiones secundi tertiae figurae modi, et quarti modi primae figurae maneant, quarti uero modi primae figurae secunda propositio uniuersaliter conuertatur, et secunda sit proposilio secundi modi tertiae figurae, eadem conclusio procreatur.  Nullum bonum malum est,- manet -  Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est;- uersa - Omne bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- manet - Quidam iustum malum non est. Tertius modus tertiae figurae in tertium modum primae figurae resoluitur. Si enim propositio prima tertii primae figurae modi, et secunda propositio tertii modi tertiae figurae maneat, et secunda propositio tertli modi primae figurae particularis particulariter conuertatur, ut sit prima tertii modi tertiae figurae, conuersa particulariter conclusio nascitur.  Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est, Quoddam iustum bonum est; Omne bonum uirtus est; Quoddam iustum uirtus est.- uersa -   Quaedam uirtus iusta est. Quartus modus tertiae figurae in tertium modum primae figure resoluitur: si enim utrorumque prima, maneant propositiones, et secundae particulares particulariter conuertantur, eaedem conclusiones nascuntur. Omne bonum uirtus est,- manet - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- uertitur - Quoddam bonum iustum est; Quoddam iustum uirtus est - manet - Quoddam iustum uirtus est.  Reliquus sextus syllogismus tertiae figurae de primae figurae quarto modo procreatur; manentibus enim primis eorum propositionibus atque secundis particulariter immutatis particulis in utroque manebit concluso.  Nullum bonum malum est,- eadem - Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est;- mutata - Quoddam bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est. - manet - Quoddam bonum iustum est. Quintus autem qui restat, sicut ante per impossibile probatur, ita etiam nunc per impossibilitatem resoluitur. Sed quemadmodum unus fuerit resolutus, eodem ordine omnes resoluendi sunt. Resoluitur autem sextus tertiae figurae modus in tertium prima, flgurae modum. Quintus autem tertiae figurae modus resoluitur in primum primae figurae. Quartus tertiae figurae modus resoluitur in quartum primae figurae modum.  Tertius tertiae figurae modus resoluitur in secundum primae figurae modum. Secundus tertiae figurae modus resoluitur in primum primae figurae modum. Primae tertiae figurae modi resoluuntur in secundos primae figurae modos. Resoluitur autem per impossibilitatem sextus tertiae figurae modus in primae figurae modum tertium hoc modo: si quis igitur duas proportiones sexti modi tertiae figurae concesserit, concedat etiam necesse est conclusionem quae est: Quoddam iustum malum non est.  Nam si haec falsa est, erit uera contraiacens ei primae figurae tertii modi prima propositio quae est: Omne iustum malum est.  Sed etiam concessit propositionem secundam, quae est: Quoddam bonum iustum est.  Ex his igitur concedat necesse est, quoddam bonum malum est qui ante concesserat primam propositionem sexti modi tertiae figurae quae est: Nullum bonum malum est.  Uno tempore duas sibi contraiacentes concedit, quod fieri non posse descriptio declarat.  Nullum bonum malum est,- contraiac. -  Omne iustum malum est Quoddam bonum iustum est;- concessae - Quoddam bonum iustum est Quoddam iustum malum est.- permut. iac. - Quoddam bonum malum est. Hoc modo omnes caeteri modi tertiae figurae in primos modos primae figurae referuntur, quod subiecta descriptio declarat, in qua prior quintus, qui per conuersionem resolui non potuit, per impossibilitatem resolutus est.  Quoddam bonum malum non est,- contraiac. - Omne iustum malum est Omne bonum iustum est- concessae -  Omne bonum iustum est. Quoddam iustum malum non est- permut. -  Omne bonum malum est. Omne bonum uirtus est- contraiac. - Nullum iustum uirtus est. Quoddam bonum iustum est- concessae -  Quoddam bonum iustum est. Quoddam iustum uirtus est- permut. -  Nullum bonum uirtus est. Quoddam bonum iustum est- contraiac. - Nulla uirtus iusta est. Omne bonum uirtus est- concessae -  Omne bonum uirtus est. Quaedam uirtus iust. est- permut. - Nullum bonum iustum est. In resolutione modi secundi tertiae figurae in primum modum primae figurae, haec impossibilitas euenit, quod duas contrarias uno tempore concedit, quod fieri nequit. Numquam enim duae contrariae uno tempore simul uerae inueniuntur.  Nullum bonum malum est,- contraiac. - Omne iustum malum est., Omne bonum iustum est;- concessae - Omne bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- permut. -  Nullum bonum iustum est. Et in sequenti quoque syllogismo duas concedit, quod impossibile est.  Omne bonum iustum est,- contraiac. - Nulla uirtus iustus est, Omne bonum uirtus est;- concessae -  Omne bonum uirtus est; Quaedam uirtus iusta est.- permut. -  Nullum bonum iustum est. Nec nos illud turbet, quod in quibusdam contraria propositio et conclusio inuenitur, in quibusdam uero contraiacens. Namque aequaliter peccauit tam qui utrasque contrarias concesserit, quam si utrasque contraiacentes. Nam quo modo contraiacentes uno tempore uerae esse non possunt unquam, sic etiam contrariae.  Omne bonum uirtus est,- contraiac. - Nullum iustum uirtus est, Omne bonum iustum est;- concessae -  Omne bonum iustum est; Quoddam iustum uirtus est.- permut. -  Nullum bonum uirtus est. Haec de categoricorum syllogismorum introductione Aristotelem plurimum sequens, et aliqua de Theophrasto et Porphyrio mutuatus quantum parcitas introducendi permisit, expressi. Si qua uero desint in Analyticis nostris calcatius exprimemus. Nunc uero quantum ad solam categoricorum syllogismorum formam spectabat, perfectum hic nobis est, et ad cumulum introductionis elaboratum. Nec hoc nos perturbet, si que hic propositiones et conclusiones falsae sunt, quandoquidem non ueritates rerum sed connexiones syllogismorum figuras et modos suscepimus disserendos. Nam his cognitis, si quos ad perfectum studium logicae disciplinee disputationis subtibilitas traxerit, prius de ambiguis disputationibus discant, post ab his ueritas in rebus mendaciumque meditabitur.  Cum in omnibus philosophiae disciplinis ediscendis atque tractandis summum in uita positum solamen existimem, tum iocundius, et ueluti cum quodam fructu etiam laboris arripio quae tecum communicanda compono. Nam et si ipsa speculatio ueritatis sua quodam specie sectanda est, fit tamen amabilior cum in commune deducitur. Nullum enim bonum est quod non pulchrius elucescat, si plurimorum notitia comprobetur; namque alias taciturnitate compressum et iam iamque silentio periturum, latius efflorescit et ab obliuionis interitu scientium participatione defenditur. Fit quoque iocundior disciplina, cum inter eiusdem sapientiae conscios iubet esse sapientem: quod si accedat, ut tecum mihi nunc res est, ea quae sponte iocunda sunt in amicitiae participationem deduci, necesse est studii suauitatem quodam ueluti dulcissimo caritatis sapore condiri. Nam cum id in se obtineat amicitia proprium munus, ut nolit habere solitarias cogitationes, tunc quod honeste quisque cogitat, nulli promptius, nisi quem diligit, confitetur. Quo factum est ut, etiam si immensus labor coepto operi uiam negabat, animus tamen ad efficiendum quod aggressus fuerat tui contemplatione sufficeret. Quid enim magnum studiosus tui amor efficeret, si intra facilitatis terminos constitisset? Quod igitur apud scriptores quidem Graecos per quam rarissimos strictim atque confuse, apud Latinos uero nullos repperi, id tuae scientiae dedicatum noster etsi diuturnus, coepti tamen efficax labor excoluit. Nam cum categoricorum syllogismorum plenissime notitiam percepisses, de hypotheticis syllogismis saepe quaerebas, in quibus nihil est ab Aristotele conscriptum. Theophrastus uero, uir omnis doctrinae capax, rerum tantum summas exsequitur; Eudemus latiorem docendi graditur uiam sed ita ut ueluti quaedam seminaria sparsisse, nullum tamen frugis uideatur extulisse prouentum. Nos igitur, quantum ingenii uiribus et amicitiae tuae studio sufficimus, quae ab illis uel dicta breuiter uel funditus omissa sunt, elucidanda diligenter et subtiliter persequenda suscepimus; in qua re superatae difficultatis praemium fero, si tibi munus implesse uidear amicitiae, etsi non uidear satisfecisse doctrinae. Vale. Omnis syllogismus certis et conuenienter positis propositionibus continetur. Propositio uero omnis aut categorica est, quae praedicatiua dicitur, aut hypothetica, quae conditionalis uocatur. Praedicatiua est in qua aliquid de alio praedicatur hoc modo: Homo animal est  hic enim animal de homine praedicatum est; hypothetica est quae cum quodam conditione denuntiat esse aliquid si fuerit aliud, ueluti cum ita dicimus: Si dies est, lux est  Hypotheticae autem propositiones ex categoricis constant, ut paulo posterius apparebit, quo fit ut syllogismus quidem, qui ex categoricis propositionibus iunctus est, categoricus appelletur, id est praedicatiuus, qui uero ex hypotheticis propositionibus constat, dicatur hypotheticus, id est conditionalis. Ut igitur horum syllogismorum differentia peruideatur, spectanda prius est eorum in propositionum natura discretio. Videtur enim in aliquibus propositionibus nihil differre praedicatiua propositio a conditionali, nisi tantum quidem orationis modo; uelut si quis ita proponat: Homo animal est  id si ita rursus enuntiet: Si homo est, animal est  hae propositiones orationis quidem modo diuersae sunt, rem uero non uidentur significasse diuersam. Primum igitur dicendum est quod praedicatiua propositio uim suam non in conditione sed in sola praedicatione constituit, in conditionali uero consequentiae ratio ex conditione suscipitur. Rursus praedicatiua simplex est propositio, conditionalis uero esse non poterit, nisi ex praedicatiuis propositionibus coniungatur, ut cum dicimus: Si dies est, lux est; Dies est;  atque: Lux est  duae sunt praedicatiuae, id est simplices propositiones. Ad hoc illud est, quo maxime declaratur utrarumque proprietas, quod praedicatiua quidem propositio habet unum terminum subiectum, alterum praedicatum; et id quod in praedicatiua propositione subicitur, illius suscipere nomen uidetur quod in eadem propositione praedicatur hoc modo, ut cum dicimus: Homo animal est  homo subiectum est, animal praedicatum, et homo animalis suscipit nomen, cum ipse homo animal esse proponitur. At in his propositionibus quae conditionales dicuntur non est idem praedicationis modus; neque enim omnino alterum de altero praedicatur sed id tantum dicitur esse alterum, si alterum fuerit, ueluti cum dicimus: Si peperit, cum uiro concubuit  Non enim tunc dicitur ipsum peperisse id esse quod est cum uiro concumbere sed id tantum proponitur quod partus numquam esse potuisset nisi fuisset cum uiro concubitus. Quod si quando in una eademque propositionum proprietas incurrerit, tunc secundum modum enuntiatae propositionis intelligendi ratio uariabitur hoc modo. Nam cum dicimus: Homo animal est  propositionem facimus praedicatiuam; at si ita proponamus: Si homo est, animal est  in conditionalem uertitur enuntiationem. In praedicatiua igitur id spectabimus quod ipse homo animal sit, id est nomen in se suscipiat animalis, in conditionali uero illud intellegimus, quod si fuerit aliqua res quae homo esse dicatur, necesse sit aliquam rem esse quae animal nuncupetur. Itaque praedicatiua propositio rem quam subicit praedicatae rei suscipere nomen declarat; conditionalis uero propositionis haec sententia est, ut ita demum sit aliquid, si fuerit alterum, etiamsi neutrum alterius nomen excipiat. Ita igitur propositionibus disgregatis ex enuntiationum proprietate syllogismi quoque uocabulum perceperunt, ut alii dicantur praedicatiui alii conditionales. Nam in quibus propositiones praedicatiuae sunt, eos praedicatiuos syllogismos uocamus, in quibus uero hypothetica propositio prima est (potest namque et assumptio et conclusio esse praedicatiua), hi tantum per unius hypotheticae propositionis naturam hypothetici et conditionales dicuntur. At de simplicibus quidem, id est praedicatiuis syllogismis, duobus libellis explicuimus, quos de eorum institutione confecimus. Post simplicium uero syllogismorum disputationem, ordo est ut de non simplicibus disseramus. Non simplices autem syllogismi sunt qui hypothetici dicuntur, quos latino nomine conditionales uocamus. Non simplices uero dicuntur quoniam ex simplicibus constant, atque in eosdem ultimos resoluuntur, cum praesertim primae eorum propositiones uim propriae consequentiae ex categoricis, id est simplicibus, capiant syllogismis. Namque prima propositio hypothetici syllogismi, si dubitetur an uera sit, praedicatiua conclusione demonstrabitur. Assumptio uero in pluribus modis talium syllogismorum praedicatiua esse perspicitur, itemque conclusio, uelut cum dicimus: Si dies est, lucet; Atqui dies est;  Haec assumptio praedicatiua est, et, si quaeratur, praedicatiuo probabitur syllogismo: Lucet.  igitur consecuta rursus est praedicatiua conclusio. Super haec omnis conditionalis propositio ex praedicatiuis (ut dictum est) iungitur; quod si ex his et fidem capiunt, et ordinem partium sortiuntur, necesse est categoricos syllogismos hypotheticis uim conclusionis ministrare. Sed quoniam de hypotheticis loquimur, quid significet hypothesis praedicendum est. Hypothesis namque, unde hypothetici syllogismi accepere uocabulum, duobus (ut Eudemo placet) dicitur modis: aut enim tale adquiescitur aliquid per quamdam inter se consentientium conditionem, quod fieri nullo modo possit, ut ad suum terminum ratio perducatur; aut in conditione posita consequentia ui coniunctionis uel disiunctionis ostenditur. Ac prioris quidem propositionis exemplum est, ueluti cum res omnes corporales materiae formaeque concursu subsistere demonstramus. Tunc enim quod per rerum naturam fieri non potest, ponimus, id est omnem formae naturam a subiecta materia, si non re, saltem cogitatione separamus; et quoniam nihil ex rebus corporeis reliquum fit, demonstratum atque ostensum putamus eisdem conuenientibus corporalium rerum substantiam confici, quibus a se disiunctis ac discedentibus interimatur. In hoc igitur exemplo posita consentiendi conditione, ut id paulisper fieri intelligatur quod fieri non potest, id est ut formae a materia separentur, quid consequatur intendimus, perire scilicet corpora, ut eadem ex iisdem consistere comprobemus. Nam quoniam interitus corporalium rerum consequitur, iure dicimus res omnes corporeas forma materiaque constare. Sed hae quidem huiusmodi propositiones quae ex consentientium conditione proueniunt, nihil his differunt quas simplices categoricae institutionis primi libri tractatus ostendit; quae uero a simplicibus differunt illae sunt, quando aliquid dicitur esse uel non esse, si quid uel fuerit uel non fuerit. Hae semper cum coniunctionibus proponuntur, ut cum dicimus: Si homo est, animal est. Si ternarius est, impar est  uel caetera huiusmodi. Haec enim ita proponuntur, ut si quodlibet illud fuerit, aliud consequatur. Vel cum dicimus: Si homo est, equus non est  rursus haec eodem modo proponitur in negatione, quo superior in affirmatione proponebatur; hic enim dicitur: Si hoc est, illud non est  et ad hunc modum caeterae. Possunt autem aliquando etiam hoc enuntiari modo: Cum hoc sit, illud est  ueluti cum dicimus: Cum homo est, animal est  uel: Cum homo est, equus non est  quae enuntiatio propositionis eiusdem potestatis est cuius ea quae hoc /216/ modo proponitur: Si homo est, animal est. Si homo est, equus non est. Fiunt uero propositiones hypotheticae etiam per disiunctionem ita: Aut hoc aut illud est. Nec eadem uideri debet haec propositio quae superior, quae sic enuntiatur: Si hoc est, illud non est  haec enim non est per disiunctionem sed per negationem. Negatio uero omnis infinita est, atque ideo et in contrariis, et in contrariorum medietatibus, et in disparatis fieri potest (disparata autem uoco, quae tantum a se diuersa sunt, nulla contrarietate pugnantia, ueluti terra, ignis, uestis, et caetera). Nam: Si album est, nigrum non est Si album est, rubrum non est Si disciplina est, homo non est  at in ea quae disiunctione fit, alteram semper poni necesse est hoc modo: Aut dies est aut nox est  quod si cuncta ea quae per negationem dici conuenit ad disiunctionem transferamus, ratio non procedit. Quid enim si quis dicat: Aut album est aut nigrum  Aut album est aut rubrum Aut disciplina est aut homo...?  fieri enim potest ut nihil horum sit. Igitur quoniam per disiunctionem propositio in certis tantum rebus in quibus alterum eorum euenire necesse est ponitur, haec autem per negationem separatio in omnibus etiam his quae suam inuicem naturam non perimunt poni potest, aperta ratione discreta est. Omnis igitur hypothetica propositio uel per connexionem fit (per connexionem uero illum quoque modum qui per negationem fit esse pronuntio), uel per disiunctionem; uterque enim modus ex simplicibus propositionibus comparatur. Simplices autem propositiones sunt quas praedicatiuas primo Institutionis Categoricae libro diximus. Haec uero sunt cum aliquid de aliquo praedicatur, uel affirmando, uel negando, ut: Dies est, lux est.  At si his media conditio interueniat, fiet: Si dies est, lux est  fitque una hypothetica propositio ex duabus categoricis iuncta. Sed quoniam omnis simplex propositio uel affirmatiua est uel negatiua, quatuor modis per connexionem fieri hypotheticae propositiones possunt, aut enim ex duabus affirmatiuis, aut ex duabus negatiuis, aut ex affirmatiua et negatiua, aut ex negatiua et affirmatiua. Harum omnium exempla subdenda sunt, quo id quod dicimus clarius innotescat. Ex duabus affirmatiuis: Si dies est, lux est  ex duabus negatiuis: Si non est animal, non est homo  ex affirmatiua et negatiua: Si dies est, nox non est  ex negatiua et affirmatiua: Si dies non est, nox est. Sed quoniam dictum est idem significare "si" coniunctionem et "cum" quando in hypotheticis propositionibus ponitur, duobus modis conditionales fieri possunt: uno secundum accidens, altero ut habeant aliquam naturae consequentiam. Secundum accidens hoc modo, ut cum dicimus: Cum ignis calidus sit, caelum rotundum est.  Non enim quia ignis calidus est, caelum rotundum est sed id haec propositio designat, quia quo tempore ignis calidus est, eodem tempore caelum quoque rotundum est. Sunt autem aliae quae habent ad se consequentiam naturae; harum quoque duplex modus est, unus cum necesse est consequi, ea tamen ipsa consequentia non per terminorum positionem fit; alius uero cum fit consequentia per terminorum positionem. Ac prioris quidem modi exemplum est, ut ita dicamus: Cum homo sit, animal est  non enim idcirco animal est quia homo est, sed fortasse a genere principium ducitur, magisque essentiae causa ex uniuersalibus trahi potest, ut idcirco sit homo quia animal est. Causa enim speciei genus est. At qui dicit: Cum homo sit, animal est  rectam ac necessariam consequentiam facit, per terminorum uero positionem talis consequentia non procedit. Sunt autem aliae hypotheticae propositiones in quibus et consequentia necessaria reperitur, et ipsius consequentiae causam terminorum positio facit, hoc modo: Si terrae fuerit obiectus, defectio lunae consequitur.  Hic enim consequentia rata est, et idcirco defectio lunae consequitur, quia terrae interuenit obiectus. Istae igitur sunt propositiones certae atque utiles ad demonstrationem. Partimur autem propositiones hypotheticas in suas ac simplices propositiones, et primam quidem, cui coniunctio praeponitur, praecedentem dicimus, secundam uero consequentem, ut in hac: Si dies est, lux est  praecedentem dicimus eam quae dicit: "si dies est"; consequentem uero partem: "lux est". In disiunctiuis uero propositionibus ordo enuntiandi praecedentem uel consequentem facit, ut: Aut dies est aut nox est  nam quae prima proponitur praecedens, quae posterior consequens appellatur. Ac de partibus quidem hypotheticarum propositionum ista suffficiunt. Illud nunc expediendum uidetur, quod etiam ab Aristotele dicitur. Idem cum sit et non sit, non necesse est idem esse, ueluti cum sit a, si idcirco necesse est esse b, idem a si non sit, non necesse est esse b, idcirca quoniam non est a. Ad huiusmodi uero rei demonstrationem impossibilitatis definitio praemittenda est, quae est huiusmodi. Impossibile est quo posito aliquid falsum atque impossibile comitatur, eo nomine quod impossibile primitus propositum fuit. Sit igitur positum, cum sit a, esse b, id est hanc inter a atque b esse consequentiam, ut si concessum fuerit esse a, necesse sit concedere esse b. Itaque proponatur: Si a est, b est  dico quia si a non fuerit, non necesse est esse b.  Ac primum quae sit propositionum consequentia consideremus. Si enim fuerit tale coniunctum, ut si sit a, etiam b esse necesse sit, si b non fuerit, a non esse necesse est; quod tali demonstratione cognoscitur. Si sit a, necesse sit esse b; dico quia si b non sit, a non erit. Ponatur enim non esse b, et sit si fieri potest a. Sed dictum est, si sit a, necessario concedi esse b. Cum igitur sit b, non erit b: nam quia ponimus non esse b, non erit b, quia uero ponimus esse a, erit b; erit igitur b ac non erit, quod fieri non potest. Impossibile est igitur non esse b et esse; et demonstratione quidem firma sic utimur. Exemplo uero id clarius innotescet. Nam si homo est, animal est; si non est animal, non est homo; non uero si homo non fuerit, animal non est, multa enim sunt animalia quae homines non sunt. Itaque in consequentia propositionis coniunctae, si est primum, secundum esse necesse est, si secundum non fuerit, non erit primum; at uero si primum non fuerit, non necesse est ut non sit secundum, nec uero necesse est ut sit. Id enim demonstrandum esse dudum nobis propositum fuit. Sit enim a, idque cum sit, necesse sit esse b: dico quia si non fuerit a, non necesse est esse b; nec id dico quoniam si non fuerit a, necesse est non esse b sed tantum non necesse est esse b. Nam quia paulo ante demonstratum est, si b non fuerit, necessario non esse a, si eundem b terminum non esse contingerit, non erit a. Sed si cum non sit a, necesse est esse b, idem b ex necessitate erit, ac non erit: nam quia b terminum non esse contingit, non erit; quia uero, si a non fuerit, b esse necesse est, erit. Idem igitur b terminus erit ac non erit, quod est impossibile. Ex his igitur demonstratum esse arbitror, in coniuncta hypothetica propositione, si sit primum consequi ut sit secundum; si non sit secundum, consequi ut non sit primum; si uero non sit primum, non consequi ut sit uel non sit secundum. Nam et illud apparet, si sit secundum non consequi ut sit uel non sit primum, ut in ea propositione quae est: Si homo est, animal est  si animal sit non consequitur ut sit homo uel non sit; quod si primum non sit, non consequitur ut necessario sit uel non sit secundum, uelut in eadem propositione, si homo non fuerit, non necesse est ut aut sit animal, aut non sit. Ex omnibus igitur solae duae consequentiae stabiles sunt et immutabiliter constant: si sit primum, ut consequatur ut sit secundum; si secundum non fuerit, necessario consequi ut non sit primum. His ita determinatis, illud adiungam, quoniam, cum omnis hypothetica propositio simplex non sit, atque ex aliis propositionibus coniungatur, sunt tamen quaedam hypotheticae quae, si reliquis conditionalibus comparentur, simplices existimentur. Omnis enim conditionalis propositio aut connexa est aut disiuncta; haec uero quoniam ex praedicatiuis copulantur, in connexis propositionibus quatuor fieri necesse est huius copulationis modos. Namque hypothetica propositio aut ex duabus simplicibus coniuncta est, et uocatur simplex hypothetica, ut haec: Si a est, b est  ueluti cum dicimus: Si est homo, animal est; Homo est enim; et Animal est.  duae sunt simplices propositiones; aut ex duabus hypotheticis copulatur, et dicitur composita, ueluti cum dicimus: Si cum a est, b est; Cum sit c, est d  ueluti cum tali propositione enuntiamus:  Si cum homo est, animal est, cum sit corpus erit substantia.  Etenim: Si cum homo est, animal est  una est hypothetica; alia uero: Cum sit corpus substantia est  ex quibus coniungitur una propositio quae composita nuncupatur. Aut ex una simplici et ex una hypothetica copulatur, uelut haec: Si a est, cum sit b, est c  ueluti cum dicimus: Si homo est, cum sit animal, est substantia  namque: Homo est  simplex est propositio; Cum sit animal esse substantiam  hypothetica ex ipsa consequentia conditionis ostenditur; aut ex priore hypothetica et simplici posteriore committitur, ut cum dicimus: Si cum sit a, est b, erit et c  ueluti hoc modo: Si cum sit homo, animal est, est et corpus.  Hypothetica namque est prior ea quae proponit: Si cum sit homo, animal est  simplex posterior quae hanc hypotheticam propositionem sequitur, id est, corpus esse. Haec quoque quoniam non ex simplicibus copulatae sunt, compositae dicuntur. Sed priores quidem quae ex simplicibus propositionibus constant, et simplices hypotheticae nuncupantur, in duobus terminis constitutae sunt. Terminos autem nunc partes propositionis simplices, quibus iunguntur, appello. Quae uero compositae hypotheticae sunt, illae quidem quae ex duabus hypotheticis constant, quatuor terminis copulatae sunt; illae uero quae ex hypothetica et simplici, uel simplici atque hypothetica coniunctae sunt, ex tribus terminis coniunctae sunt. Harum igitur quae sunt hypotheticae simplices uel compositae differentiae similitudinesque dicendae sunt. Nam quae ex simplicibus copulantur, si ad eas quae ex hypotheticis duabus iunctae sunt comparentur, consequentia quidem eadem est et proportio manet, tantum termini duplicantur. Nam quem locum in his propositionibus hypotheticis quae ex simplicibus constant ipsae simplices propositiones tenent, eundem in his propositionibus quae sunt hypotheticae ex hypotheticis constantes, illae conditiones tenent quibus illae propositiones inter se iunctae et copulatae esse dicuntur. Nam in hac propositione quae dicit:  Si est a, est b  et in ea quae dicit:  Si cum sit a, est b, cum sit c, est d  quem locum in ea propositione quae ex duabus simplicibus continetur tenet ea quae prior est: Si est a eundem locum tenet, in ea propositione quae ex duabus hypotheticis propositionibus copulatur, ea quae prior est:  Si cum est a, est b.  Hic namque duarum inter se propositionum coniunctionis conditione facta est consequentia. Itemque quam uim obtinet ex utrisque propositionibus copulatae hypotheticae portio quae infertur, id est esse b  eandem uim obtinet in propositione ex hypotheticis iuncta ea quae sequitur, id est  Cum sit c, esse d  atque id tantum differt, quia cum in prima propositione ex simplicibus iuncta propositio propositionem sequatur, in secunda propositione ex hypotheticis iuncta conditio consequentiae conditionis consequentiam comitatur.  Nihil est enim aliud dicere: Si est a, est b  quam ei propositioni per quam dicimus esse a, illam esse comitem per quam b esse praedicamus; at in ea propositione quae ex hypotheticis iuncta est cum dicimus:  Si cum sit a, est b, cum sit c esse d  illud dicitur, ei consequentiae quae inter a et b est, eam esse consequentiam comitem quae est inter c et d, ita ut si consequitur posito a esse b, consequatur sine dubio c posito esse d. At in his propositionibus quae ex simplici et hypothetica consistunt, illa ratio est ut uel propositionem conditio consequentiae consequatur, uel conditionem consequentiae propositio comitetur.  Nam cum dicimus: Si a est, cum sit b, esse c  id intellegi uolumus, ei propositioni per quam dicimus: Est a  consequi eam conditionem per quam dicimus: Cum sit b, esse c  id est ut, si est a, necesse sit b termino comitem esse c terminum; cum uero dicimus:  Si cum a est, b est, esse c  nihil aliud intellegi uolumus, nisi duarum inter se consequentium propositionum alterius propositionis consequi ueritatem, ut si habeant inter se consequentiam a atque b, necesse sit hanc conditionem consequentiae propositionis eius per quam dicimus esse c consequi ueritatem, id est, si necesse est a posito esse b, necesse est etiam c esse.  Similes igitur syllogismi fient earum propositionum quae ex simplicibus et earum quae ex non simplicibus utrisque iunguntur: earum uero quae ex una simplici et ex altera hypothtica copulantur, diuersi quidem a superioribus, ipsi tamen inter se similes fiunt. Nec interest utrum prima hypothetica, secunda sit simplex, an e conuerso, ad syllogismorum modos, nisi forsitan ad ipsius tantum ordinis permutationem. Cum igitur demonstrata fuerit earum propositionum quae ex simplicibus constant, syllogismorum ratio demonstrata quoque uidetur earum propositionum esse, quae ex hypotheticis committuntur; et cum quarumlibet earum propositionum quae ex simplici et hypothetica constant syllogismorum natura perspecta sit, etiam conuersi ordinis propositionum natura quales faciat syllogismos ostenditur. Est etiam species alia propositionum in connexio. ne positarum, quae media quodammodo sit earum propositionum quae ex hypotheticis simplicibusque iunguntur, et earum quae duabus hypotheticis copulantur. Nam si ad numerum respicias propositionum quasi ex tribus terminis constant; quod si ad conditionales animum referas, quasi ex duabus conditionalibus uidentur esse compositae: quae medietas idcirco euenit quoniam unus in his terminus communis utrisque conditionalibus inuenitur. Proponuntur uero hae uel per primam figuram, uel per secundam, uel per tertiam. Per primam hoc modo: Si est a, est b; et si est b, est c  igitur b in utrisque numeratur, et sunt tres quidem termini hi: Est a. Est b. Est c. Duae uero conditionales hoc modo: Si est a, est b Si est b, est c  namque b utrisque communis est: atque ideo inter eas propositiones quae ex tribus terminis, et eas quae ex quatuor componuntur, mediae sunt huiusmodi propositiones. Per secundam uero figuram proponitur hoc modo: Si est a, est b; si non est a, est c. Per tertiam uero figuram sic: Si est b, est a; si est c, non est a. Ac de connexis quidem ista sufficiunt. Disiunctiuae uero propositiones semper ex contrariis constant, ut haec: Aut a est aut b est. Altero enim posito alterum tollitur, et interempto altero ponitur alterum: nam si est a, non est b, si non est a, est b, eodem modo etiam, si sit b, non erit a, si non sit b, erit a. His igitur expeditis, ad connexas reuertamur. In illis enim uel propositio propositionem, uel conditio conditionem, uel propositio conditionem, uel conditio sequitur propositionem. Dicendum igitur est quae propositiones quarum propositionum consequentes esse uideantur, et quae contrarietatis modo quam longissime a se differant, quae uero oppositionis contradictione dissentiant. Simplicium namque, id est praedicatiuarum propositionum, aliae praeter modum proponuntur, aliae cum modo: praeter modum sunt quaecumque purum esse significant hoc modo: Dies est Socrates philosophus est  et quae similiter proponuntur; quae uero cum modo sunt, ita proponuntur: Socrates uere philosophus est.  Hoc enim 'uere' modus est propositionis. Sed maximas syllogismorum faciunt differentias haec propositiones cum modo enuntiatae, quibus necessitatis aut possibilitatis nomen adiungitur. Necessitatis hoc modo, cum dicimus: Ignem necesse est calere  possibilitatis, ut cum ita proponimus: Possibile est a Graecis superari Troianos. Quo fit ut omnis propositio aut inesse significet, aut necessario inesse, aut, cum non sit aliquid, tamen enuntiet posse contingere; quarum quidem ea quae inesse significat simplex est, neque in nullas partes alias diduci potest, ea uero quae ex necessitate aliquid inesse designat, tribus dicitur modis. Uno quidem quo ei consimilis est propositioni quae inesse significat, ut cum dicimus, Necesse esse Socratem sedere, dum sedet.  Haec enim eandem uim obtinet ei quae dicit: Socrates sedet.  Alia uero necessitatis significatio est, cum hoc modo proponimus: Hominem necesse est habere cor dum est atque uiuit  hoc enim significare uidetur haec dictio, non quoniam tamdiu eum necesse sit habere quamdiu habet sed tamdiu eum necesse est habere quamdiu fuerit ille qui habeat.  Alia uero necessitatis significatio est uniuersalis et propria, quae absolute praedicat necessitatem, ut cum dicimus: Necesse est Deum esse immortalem  nulla conditione determinationis apposita. Possibile autem idem quoque tribus dicitur modis: aut enim quod inest possibile esse dicitur, ut: Possibile est Socratem sedere, dum sedet  aut quod omni tempore contingere potest, dum ea res permanet cui aliquid contingere posse proponitur, ut: Possibile est Socratem legere  quamdiu enim Socrates est, legere potest; item possibile est quod absolute omni tempore contingere potest, ut auem uolare. Ex his igitur apparuit alias propositiones esse inesse significantes, alias necessarias, alias contingentes atque possibiles, quarum necessariarum et contingentium cum sit trina partitio, singulae ex iisdem partitionibus ad eas quae inesse significant referuntur. Restant igitur duae necessariae et duae contingentes, quae cum ea quae inesse significat numeratae, quinque omnes propositionum faciunt differentias. Omnium uero harum propositionum aliae sunt affirmatiuae, aliae negatiuae. Affirmatiua inesse significans est quae dicit: Est Socrates  negatiua quae proponit: Non est Socrates. Necessariarum uero propositionum affirmatiuarum duae uidentur esse negationes, una contraria, altera uero opposita. Eius namque, quae dicit: Necesse est esse a  quolibet modo ex utrisque qui dicti sunt, aut ea est negatio quae dicit: Necesse est non esse a  aut ea quae dicit: Non necesse est esse a  quarum quidem ea quae dicit: Necesse est non esse a  contraria est ei quae dicit: Necesse est esse a.  Utraeque enim falsae poterunt inueniri, ueluti si dicimus: Necesse est Socratem legere Necesse est Socratem non legere  utraque mentitur. Nam et cum legit, non ex necessitate legit, et cum non legit, nulla ne legat necessitate constringitur sed est utrumque possibile.  At uero ea quae dicit: Non necesse est esse  opposita est ei quae proponit: Necesse est esse  una enim semper uera est, semper falsa altera reperitur. In contingentibus uero atque possibilibus eadem ratio est.  Huic enim quae dicit: Contingit esse a  tum ea uidetur obiecta quae dicit: Contingit non esse a  tum ea quae proponit: Non contingit esse a.  Atque ea quidem quae dicit: Contingit non esse a  contingens negatio nuncupatur, ueraque esse potest cum ea affirmatione quae dicit: Contingit esse a  ueluti cum dicimus: Contingit sedere Socratem  Contingit non sedere Socratem. Et haec quidem non dicuntur esse contrariae, quoniam simul uerae esse possunt; at uero opposita sunt quotiens ipsum contingens negatur, ut si aduersus eam quae dicit: Contingit esse a  ea proponatur quae dicit: Non contingit esse a  id enim ista significat omnino non posse contingere. Quae cum ita sint, cumque inesse significantes propositiones praeter ullum dicuntur modum, his ad esse iuncto aduerbio negatiuo, negatio plena perficitur; quae uero cum modo proponuntur, si necessariae sint et ad esse negatio coniungatur, ut ea quae dicit: Necesse est non esse  fit necessaria negatio. Si uero ipsi necessario negatio praeponatur, fit negatio necessarii uehementer affirmationi opposita, ut ea quae dicit: Non necesse est esse.  Item in contingentibus si ad esse negatio ponatur, fit contingens negatio, ut ea quae dicit: Contingit non esse.  Si uero ipsi contingenti negatio iungatur, fit contingentis negatio contingenti affirmationi uehementer opposita, ut ea quae dicit: Non contingit esse. Sed quoniam omnis propositio aut uniuersalis aut particularis aut indefinita aut singularis proponitur -- uniuersalis hoc modo: Omnis homo legit  particularis sic: Quidam homo legit  indefinita sic: Homo legit  singularis sic: Socrates legit  -- necesse est ut sicut in Categoricorum Syllogismorum Institutione monstratum est, illae sibi maxime uideantur oppositae quaecumque uel uniuersale affirmant, si particulariter denegetur, uel uniuersale denegant, si particulariter affirmetur, et quae singulares sunt, si illa quidem in affirmatione sit posita, illa uero in negatione. Quae cum ita sint, si haec eadem ratio ad contingentes et necessarias referatur, idem in necessariis et contingentibus inuenitur, ut si quis dicat: Omnem a terminum esse necesse est  aliusque neget dicens: Non necesse est omnem a terminum esse  fecit oppositam negationem.  Et si dicat aliquis: Contingit omnem a terminum esse  itaque aliquis neget: Non contingit omnem a terminum esse  fecerit oppositam negationem; in utrisque enim negatio et modum remouet, et significationem uniuersalitatis exstinguit. Atque hoc quidem in simplicibus et categoricis propositionibus euenire necesse est, de quarum natura diligentius persecuti sumus in his uoluminibus, quae secundae editionis expositionum in Aristotelis *Perihermeneias* inscripsimus. Si quis igitur propositionum omnium conditionalium numerum quaerat, ex categoricis poterit inuenire; ac primum in connexis ex duabus simplicibus inquirendus est hoc modo. Nam quoniam propositio simplex hypothetica ex categoricis duabus iungitur, una earum uel inesse significabit, uel contingere esse dupliciter, uel necesse esse dupliciter; quod si sint affirmatiuae, quinquies affirmatiua enuntiatione proponentur; sed quoniam omnis affirmatio habet oppositam negationem, rursus quinquies negatiua enuntiatione poterunt pronuntiari. Erunt igitur in prima propositione, quae una pars est hypotheticae propositionis in negatione et affirmatione constitutae modorum, propositiones decem. Secunda etiam propositio, quae pars est hypotheticae, totidem affirmationibus et negationibus proponi potest; erunt igitur eius quoque enuntiationes decem. Sed cum prima propositio secundae propositioni quodam consequentia copuletur, ut una hypothetica fiat, omnes decem affrmatiuae ac negatiuae propositiones omnibus decem affirmatiuis negatiuisque propositionibus applicabuntur. Itaque complexae centum omnes efficiunt propositiones, haec quae connexae ex simplicibus coniunguntur. Secundum hunc uero modum potest propositionum numerus inueniri etiam in his propositionibus /246/ quae ex categorica et hypothetica copulantur, uel quae ex duabus conditionalibus fiunt. Nam quae ex categorica et conditionali constant, uel e diuerso, haec tribus categoricis iunctae sunt. Quod si duarum inter se praedicatiuarum in afffirmatione uel negatione complexio secundum esse, uel necessario, uel contingenter esse, quinque modos, centum efficit complexiones, quoniam tertia propositio uel affirmatiua erit uel negatiua, et si affirmatiua quinque modis uel inesse significans, uel necessario inesse dupliciter, uel contingenter inesse dupliciter, itemque totidem negabitur modis, simul non amplius quam decies proponetur. Quo fit ut tertia propositio cum duabus superioribus, centum inter se modis copulatis atque complexis, iuncta atque commissa, mille omnes faciat complexiones. Centum namque duarum propositionum modi, cum decem modis tertiae propositionis complicati, mille perficiunt; decies enim centum mille sunt. Rursus quoniam ex duabus hypotheticis iuncta conditionalis quatuor categoricis copulatur, et duae inter se primae categoricae centum complexionibus iungebantur, necesse est ut posteriores quoque duae centum complexionibus connectantur; quod si centum superiorum propositionum categoricarum modi centum posteriorum categoricarum modis complicentur, fient decem milia complexiones. In illis autem propositionibus quae tribus uariantur figuris, siquidem medius terminus similiter et in prima et in secunda hypothetica proponatur, mille erunt complexiones, ad earum similitudinem quae ex tribus categoricis connectuntur; tunc enim unus atque idem terminus in utrisque tres neque amplius faciet enuntiationes. Similiter uero in utrisque proponitur hoc modo: Si est a, est b; si est b, est c  hic enim b terminus, et ad a terminum, et ad c positus est, esse significans.  Idem in necessariis et contingentibus intelligendum est. At si ita proponatur: Si est a, est b, et, si necesse est esse b, est uel non est c  duae propositiones conditionales, id est quatuor praedicatiuae fiunt. Quo fit ut secundum eas quae ex quatuor praedicatiuis connectuntur, decem millia faciunt complexiones. Atque hi numeri tam in prima quam in secunda uel tertia figura sunt inspiciendi. Et nos quidem quantus esse propositionum numerus posset, ascripsimus.  Numquam tamen dissimiliter medius terminus enuntiatur: namque ut fiat extremorum conclusio, medius terminus intercedit, cuius communitas extrema coniungit. Quod si medius diuersis modis in utraque propositione dicatur, nec connectuntur extrema, atque ideo ne syllogismus quidem ullus fieri potest, cum praesertim ne una quidem propositio dici possit, in qua medius terminus dissimiliter enuntiatur. Longe autem multiplex propositionum numerus existeret, si inesse significantes et necessarias et contingentes affirmatiuas negatiuasque propositiones per uniuersales ac particulares, uel oppositas ac subalternas uariaremus; sed id non conuenit, quia conditionalium termini propositionum indefinito maxime enuntiantur modo. Atque ideo superuacuum iudicaui determinatarum secundum quantitatem propositionum quaerere multitudinem, cum determinatae conditionales proponi non soleant; fere autem hypotheticae propositiones ne per necessitatem quidem uel per contingens enuntiantur sed illae maximae in usum collocutionis deducuntur, quae inesse significant. Omnes uero necessariam tenere consequentiam uolunt, et quae inesse significant, et quibus necessitas additur, et quibus praedicatio possibilitatis aptatur; haec enim terminis applicatur. Necessitas uero hypotheticae propositionis, et ratio earum propositionum ex quibus iunguntur inter se connexiones, consequentiam quaerit, ut cum dico: Si Socrates sedet, et uiuit  neque sedere eum, neque uiuere necesse est sed, si sedet, uiuere necesse est. Item cum dicimus: Si sol mouetur, necessario ueniet ad occasum  tantumdem significat quantum, si sol mouetur, ueniet ad occasum. Necessitas enim propositionis in consequentiae immutabilitate consistit. Item cum dicimus: Si possibile est legi librum, possibile est ad uersum tertium  perueniri  rursus necessitas consequentiae conseruata est; nam si possibile est legi librum, necesse est etiam id esse possibile, ut ad uersum tertium perueniatur. Opponuntur autem hypotheticis propositionibus illne solse quae earum substantiam perimunt. Substantia uero propositionum hypotheticarum in eo est, ut earum consequentiae necessitas ualeat permanere. Si quis igitur recte conditionali propositioni repugnabit, id efficiet ut earum destruat consequentiam, ueluti cum ita dicimus: Si a est, b est  non in eo pugnabit si monstret, aut non esse a, aut non esse b sed si posito quidem a, ostendit non statim consequi esse b sed posse esse a, etiamsi b terminus non sit. Uel si negatiua sit conditionalis, eodem destruetur modo: ut cum dicimus: Si a est, b non est  non ostendendum est, aut non esse a, aut b esse; sed cum a sit, posse esse b terminum. Sunt autem hypotheticae propositiones, aliae quidem affirmatiuae, aliae negatiuae; sed de his nunc loquor quae in consequentia positae in connexione esse dicuntur: affirmatiuae quidem, ut cum dicimus: Si est a, est b. Si a non est, b est  negatiuae uero: Si a est, b non est. Si non est a, non est b.  Ad sequentem enim propositionem respiciendum est, ut an affirmatiua uel negatiua sit propositio iudicetur; idem de compositis syllogismis conditionalibus intellegi oportebit. De his autem propositionibus quae in disiunctione sunt positae, cum de earum syllogismis tractauero, commodius atque uberius dicam. Hypotheticos syllogismos, quos latine conditionales uocamus, alii quinque, tribus alii constare partibus arbitrantur, quorum mox controuersiam diiudicabo, si prius quibus nominibus talium syllogismorum partes appellentur ostendero. Quoniam enim omnis syllogismus ex propositionibus texitur, prima uel propositio, uel sumptum uocatur; secunda uero dicitur assumptio, his quae infertur, conclusio nuncupatur. Cum enim ita dicimus: Si homo est, animal est; Homo autem est; Animal igitur est  ea quidem enuntiatio per quam diximus: Si homo est, esse animal  propositio uel sumptum uocatur, ea uero quam huic adiunximus: Est autem homo  assumptio dicitur, tertia conclusio nominatur, per quam ostendimus animal esse qui fuerit homo. Sed quoniam saepe euenit ut propositionis enuntiatae consequentia non sit uerisimilis, propositioni saepe adiungitur approbatio, per quam id quod est propositum uerum esse monstretur. Assumptio saepe ad fidem per se non uidetur idonea: huic quoque iuuamen probationis adiungitur, ut uera esse uideatur; quo fit ut saepe quinque partes, saepe quatuor, interdum tres hypotheticos syllogismos habere contingat. Nam quinque constabit partibus si et propositio et assumptio probationibus indigebunt; quod siue propositio, siue assumptio probatione indigent, quadripartitus est syllogismus, quod si neutra est approbanda, tripartitus esse relinquitur. In hac uero sententia etiam Marcus Tullius esse deprehenditur: in Rhetoricis enim syllogismos quosdam quinquepartitos, quadripartitos alios esse confirmat. Quibus uero non placet talium syllogismorum partes ultra ternarium numerum propagari, hi probationes propositionum atque assumptionum non putant in syllogismi partibus esse ponendas, neque enim propositionem esse, de qua syllogismus possit existere, cui non consentit auditor; quod si per se dubia est ea probatio quae propositioni dubiae iungitur, fidem faciens eidem cui coniungitur propositioni, faciat ut sit idonea syllogismo.  Ac per hoc tunc incipit esse propositio syllogismi, cum talis per probationem redditur, ut ex ea colligi aliquid possit; tunc uero colligi ex se aliquid potest, cum probationis auxilio poterit ab auditore concedi. Quocirca membrum quoddam, et quasi fulcimentum dubiae propositionis uel assumptionis, probatio esse uidetur, non pars etiam syllogismi; sed nostra sententia his potius accedit qui tribus eum partibus constare pronuntiant. Etenim quaelibet probatio quae uel propositioni uel assumptioni copulatur, propositionis esse uel assumptionis probatio dicitur.  Cum igitur non ad syllogismum sed ad propositionem uel assumptionem cuius est probatio referatur, non oportet eam syllogismi proprie partem uideri. Nam illud quod obici potest, nullus ignorat, quin partium partes etiam totius partes esse dicantur; sed plurimum refert utrum ipsae sint primitus partes totius, an in secundarum partium postremitate ponantur. Amplius, si sit per se nota ac probabilis propositio, totus syllogismus probatione non indiget; quod si per se propositionis nulla fides est, necesse est ut ea propositio quodam ueluti testimonio probationis indigeat.  Non igitur syllogismus probatione, in eo quod syllogismus est, indigebit, sed propositio, si fide propria fuerit destituta. Idem etiam de assumptione dici potest. Quare manifestum est eorum esse sententiam praeponendam, qui sullogismum putant tribus partibus constare. Praeterea si qua propositio probationis indigeat, ut eam ueri fides sequatur, aliquo demonstrabitur syllogismo. Quocirca qui fieri potest ut recte syllogismus pars syllogismi simplicis esse dicatur? ipsam enim probationem propositionis syllogismum, uel ex syllogismo esse necesse est. His itaque determinatis, de his protinus syllogismis quorum propositiones in connexione positae duobus terminis constant, explicandum uidetur. Horum autem duplex forma est: quatuor enim fiunt per praecedentis positionem qui sunt primi hypothetici atque perfecti, quatuor uero per sequentis negationem, qui cum demonstratione egeant, non uidentur esse perfecti. Prioris uero negatione, uel sequentis positione, nullus omnino syllogismus efficitur. Omnium igitur talium propositionum primum numerus explicetur, ut qui fiant ex his syllogismi facilis acquiratur agnitio. Sunt autem quatuor: Si est a, est b Si est a, non est b Si non est a, est b Si non est a, non est b  Ac de prioribus quidem syllogismis atque perfectis primo loco dicendum est. Horum enim primus modus est hic ueniens a prima propositione: Si a est, b est; Atqui est a; Est igitur b.  Cum enim prima propositio eam conditionem proponat, ut si sit a necesse sit consequi essentiam b termini, idem assumptio quod praecedit assumit ac ponit, dicitque: At est a  consequitur igitur ut sit b. Si enim ex consequentia primae propositionis id quod secundum est assumendo ponamus, nullus efficitur syllogismus. Age enim sit huiusmodi consequentia, ut si sit a, sit b assumaturque quod sequitur hoc modo: At est b  non consequitur ut sit uel non sit a. Id uero clarius fiet exemplo: sit enim propositio: Si homo est, animal est  assumaturque esse animal, scilicet quod consequitur, non necesse erit esse hominem uel non esse; potest enim, cum sit animal, homo uel esse uel non esse. Secundus uero modus est eorum in quibus prior propositionis pars in assumptione repetitur, uenit autem ex secunda propositione superius digesta, hoc modo: Si est a, non est b; Atqui est a; Non est igitur b. Id enim propositum fuerat, si esset a, non esset b. Sumpto igitur praecedente, consequentis est facta conclusio; quod si consequens sumas, nullus uidetur fieri syllogismus, quia nec consequitur ulla necessitas, hoc modo: Si est a, non est b; Atqui non est b;  non necesse est esse a uel non esse. Age enim ita sit propositio: Si est nigrum, album non est  et id quod sequitur assumatur: Atqui non est album  non necesse erit esse nigrum uel non esse, quia cum non sit album potest aliquid esse medium. Tertius uero modus est talium syllogismorum qui uenit ex tertia propositione, quorum in assumptione id ponitur quod praecedit hoc modo: Si non est a, est b; Atqui non est a; Est igitur b.  Haec igitur conclusio rursus ex conditione propositionis euenit: id enim fuerat propositum, ut si non esset a esset b; quod si conuertas et sumas esse b, id est quod sequitur, non necesse erit uel esse uel non esse id quod praecedit. Sed huius exemplum non potest inueniri, eo quod si ita proponitur, ut: Cum non sit a sit b  nihil esse medium uideatur inter a atque b; sed in his si alterum non fuerit, statim necesse est esse alterum, et si alterum fuerit, statim alterum non esse necesse est. Videtur ergo quodammodo et sequenti posito in his fieri syllogismus; sed quantum ad rerum naturam ita est, quantum uero ad propositionis ipsius pertinet conditionem, minime consequitur. Quod quidem ex his patet quae superius dicta sunt. In utrisque enim superioribus modis sequenti posito nihil ex necessitate collectum est, hic uero tertius modus, quantum ad complexionem propositionum pertinet, in quo ponendo si id quod consequebatur assumitur, nullum efficit syllogismum. Quantum uero ad rerum naturam, in quibus solis hae propositiones enuntiari possunt, uidetur esse necessaria consequentia hoc modo, ut: Si dies non est, nox sit  Si nox sit, dies non sit  ex necessitate consequitur; similesque sunt hi syllogismi his qui in disiunctione sunt constituti, de quibus paulo posterius commemorabo, quorumque ad illos et differentias et similitudines dabo. Quartus uero modus est ex quarta propositione, cum ita proponitur: Si a non est, b non est; Atqui non est a; Non est igitur b  rursus enim id quoque consequi ex propositione monstratur, quae proposuit non fore b, si a prior terminus non fuisset. At si id quod consequitur assumamus, nulla uidetur fieri posse necessitas, ueluti si ita dicamus: Non est autem b  non necesse erit uel esse uel non esse a. Age enim proponatur si animal non est, non esse hominem, assumaturque: At non est homo  non necesse est ut uel sit animal uel non sit. Demonstratum igitur est in huiusmodi syllogismis, si id quidem quod praecedit ponendo assumatur, perfectos atque ex ipsis propositionibus probabiles et necessarios fieri syllogismos. Si uero id quod sequitur ponendo assumatur, nullam fieri necessitatem, praeter in tertio modo, qui cum sit similis his syllogismis qui secundum disiunctionem propositis enuntiationibus fiunt, uidetur in rebus de quibus proponi possit seruare necessitatem, cum in complexione non seruet, quod ex caeteris tribus modis arguitur primo, secundo atque quarto, in quibus assumpta ponendo sequente propositionis parte, nihil ex necessitate conficitur. Ac de his quidem syllogismis, qui duobus terminis coniunguntur, quorum prima pars propositionis ponendo assumitur, quantum ad institutionis pertinet modum, sufficienter expressimus. Nunc uero de his dicendum est, quorum consequens propositionis pars ita assumitur, ut perimatur. Ex his quoque quatuor fiunt modi, cum prior propositionis pars in assumptione non possit interimi, ut ulla syllogismi necessitas consequatur. Est igitur primus modus talium syllogismorum a prima ueniens propositione sic: Si est a, est b; Atqui non est b; Non est igitur a.  Hic igitur b terminus, qui in prima propositione consequens fuerat, in assumptione est interemptus, ut a terminus, qui propositionis prima pars fuerat, interimeretur, eaque necessitas tali ratione probabitur. Positum namque est si a sit, b esse; et assumptio facta est ut consequens pars propositionis interimeretur, id est, non esse b. Dico quia consequitur non esse a: nam si potest esse a, ut non sit b, frustra erit prior propositio quae ait, si a sit, b esse. Atqui ea propositio ualet; cum igitur a sit est b. Quod si cum non sit b, sit a, quod scilicet ex assumptione proponitur, idem b erit /268/ et non erit: non erit quidem, quia b non esse proponit assumptio; erit autem, quia si est a, erit b, quod fieri non potest; non igitur, si b non fuerit, erit a. Hic est igitur primus modus talium syllogismorum, qui ex interempta parte consequenti propositionis fiunt, qui non sunt perfecti neque ex se cogniti sed indigent uel eius quam superius proposui, uel cuiuslibet alterius probationis, ut ueri esse monstrentur. Quod si prima pars interimatur, non erit syllogismus; age enim ita dicamus: Si est a, est b; Atqui non est a  non consequitur ut sit uel non sit b, ut exemplo etiam demonstratur. Sit enim propositio: Si est homo, animal est; Sed homo non est;  non necesse erit uel esse animal, uel non esse. Secundus modus per contradictionem assumptionis, qui a secunda propositione descendit, ille est cum ita proponimus: Si a est, b non est; Atqui est b; Igitur a non est.  Hic enim rursus secunda pars propositionis est interempta: nam cum secunda pars propositionis b non esse diceret, si a fuisset, assumptio b esse pronuntiat. Affirmatio autem perimit negationem, quam assumptionem consequitur, ut a non sit, hoc modo. Sit enim propositio: Si a est, b non est  et sit b. Dico quia a non erit: nam si erit a, cum sit b, idem b erit et non erit: non erit quidem ex prima propositione quae dicit: Si a est, b non est  erit autem per assumptionem, qua dicimus esse b. At si praecedens propositionis pars auferatur, non fiet ulla necessitas.  Age enim in huiusmodi propositione: Si a est, b non est  ita dicamus: Atqui non est a  non consequitur ut b sit aut non sit. Id uero tali arguitur exemplo. Dicamus enim: Si nigrum est, album non est  assumamusque non esse nigrum, non statim consequitur ut uel album sit, uel non sit: potest enim aliquid esse mediorum. Tertius modus ille est ex tertia propositione deductus, cum ita proponimus: Si a non est, b est; b autem non est; a igitur est.  Hic quoque consequens pars propositionis assumpta est, et cum in propositione affirmaretur, in assumptione negata est, et est rata consequentia, et perficiens syllogismum hoc modo. Nam si uerum est, cum non sit a, esse b, dico quia si b non sit, esse a: nam si poterit, cum b non sit, non esse a, frustra est prima propositio, quae dicit cum non sit a esse b eritque b ac non erit; non erit quidem ex ea assumptione quae proponit non esse b; erit autem, quia, si a terminus esse negabitur, posito non esse b termino, cum non sit a, erit b, quod est impossibile. Non igitur potest fieri ut cum non sit b, non sit a; consequitur igitur ut, cum non sit b, sit a. Quod si prior pars propositionis quae praecedens est auferatur, nullus est syllogismus, hoc modo: cum enim dicimus si a non est, esse b, si assumamus: Atqui est a  nihil euenit necessarium, ut uel sit b uel non sit, secundum ipsius complexionis naturam. Nam hic quoque, ut in his in quibus in assumptione secundus terminus ponebatur, dicendum est secundum quidem ipsius complexionis figuram nullum fieri syllogismum; secundum terminos uero in quibus solis dici potest, necesse esse, si a fuerit, b non esse. In contrariis enim tantum, et in his immediatis, id est medium non habentibus, haec sola propositio uere poterit praedicari, ueluti cum dicimus: Si dies non est, nox est  siue non fuerit dies, nox erit, siue nox non fuerit, dies erit, siue dies fuerit, nox non erit, siue nox fuerit, dies non erit.  Quartus modus est horum syllogismorum ex quarta propositione descendens, cuius haec prima est propositio: Si a non est, non est b; Est autem b; Erit igitur a.  Hic quoque secunda pars propositionis assumpta est, et quaniam eadem in negatione fuerat posita, affirmatione est interempta; affirmatio enim uim negationis interimit. Hic quoque eodem modo syllogismi necessitas continetur, nam, si posito cum non sit a, non esse b, sumatur esse b, dico quia consequens est etiam a esse. Nam si potest, cum sit b, non esse a, frustra est prima propositio, quae, cum a non sit, b non esse pronuntiat; fiet igitur rursus ut idem b sit ac non sit. Ex assumptione namque erit b; ita enim dicitur: Atqui est b  si uero hoc posito possit non esse a, rursus b non erit, quia prima propositio ait: Si non sit a, non est b  quod est impossibile. Quod si ea portio propositionis quae praecedens est auferatur, nihil euenit necessarium. Age enim ita dicamus: Si non est a, non est b  assumamusque: Atqui est a  non consequitur ut b uel esse uel non esse necessario concludatur, ut in hoc syllogismo: Si non est animal, non est homo; Atqui est animal;  non necesse est uel esse hominem uel non esse. Hi igitur quatuor syllogismi imperfecti /274/ dicuntur, idcirco quoniam per se non habent apertam atque perspicuam consequentiae necessitatem, eaque illis ex probatione conficitur. Ut igitur breuiter concludendum sit, in hypotheticis simplicibus syllogismis connexas habentibus propositiones, quoquo modo factis, si quidem prima pars propositionis assumitur, si ea ponatur, fient quatuor syllogismi per se cogniti atque perfecti; si uero id quod consequitur assumatur, nulla est syllogismo necessitas, nisi in tertio tantum modo, qui non propter complexionis naturam sed propter terminorum contrarietatem, in quibus solis dici potest, uidetur conclusionis necessitatem tenere. Itaque si quid in assumptione ex his quae in propositione sunt prolata ponatur, quatuor uel quinque fieri necesse est syllogismos perfectos: quatuor, ubi prima pars propositionis, quintum uero, ubi secunda pars propositionis ponendo assumitur, si non ad complexionis naturam sed ad terminos aspiciamus. Si quid uero ex his quae in assumptione prima propositio enuntiat, auferatur, si quidem consequens pars propositionis auferatur, fient imperfecti et probatione indigentes quatuor syllogismi; si uero prior propositionis pars auferatur, nulla erit necessitas syllogismi, nisi in tertio tantum modo, ubi non facit necessitatem complexionis sed terminorum natura. Quocirca hi quoque quatuor uel quinque sunt syllogismi: quatuor quidem, si secunda propositionis pars fuerit interempta; quintus /276/ uero, si eum non complexionis natura sed terminorum proprietate metiamur. Quocirca si ex duobus terminis propositio prima consistat, octo sunt uel decem, nec amplius syllogismi. Ac de his quidem conditionalibus syllogismis, quorum propositiones connexae sunt, et ex duabus praedicatiuis simplicibus constant, sufficienter expeditum est. Nunc de his syllogismis dicendum est, qui uel ex praedicatiua et hypothetica, uel ex hypothetica praedicatiuaque nectuntur. Horum autem facile complexiones omnium syllogismorum apparebunt, si prius earum numerus exponatur.  Sunt igitur priores quidem quae ex praedicatiua atque hypothetica connectuntur hae: Si sit a, cum sit b, est c. Si est a, cum sit b, non est c. Si est a, cum non sit b, est c. Si est a, cum non sit b, non est c. Si non est a, cum sit b, est c. Si non est a, cum sit b, non est c. Si non est a, cum non sit b, est c. Si non est a, cum non sit b, non est c.  Ac primum quae sit earum natura, uidetur esse tractandum. Neque enim quoquo modo conditio ponatur, conditionalis propositio fiet sed si illa consequentia propter positam euenit conditionem. Nam si quis ita dicat: Si homo est, cum sit animal, animatum est  non uidetur facere apposita conditio consequentiae necessitatem; nam etiam si non sit homo, nihilominus tamen, cum sit animal, animatum est. At si ita ponatur: Si homo /278/ est, cum sit animatum, animal est  uidetur consequentiae ratio in conditione consistere. Neque enim necesse est, cum animatum sit, esse animal, nisi homo uel tale aliquid fuerit, quod animatum esse proponitur; tunc enim quod animatum est, animal esse necesse est, homo namque uel quodlibet aliud tale animal est. Per singulas igitur propositiones eundum est, et spectanda est earum singularis natura hoc modo. Prima propositio per quam enuntiatur si est a, cum sit b, esse c, talis esse debet ut b quidem possit esse etiam praeter a, si tamen a fuerit, b non esse non possit; rursus idem b terminus possit esse etiam cum non est c, nec sit necesse ut b posito sit etiam c sed tunc tantum necesse sit esse c, quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit a homo, b animatum, c animal. Animatum enim et praeter hominem et praeter animal esse potest; si uero sit homo, animatum esse necesse est, et cum animatum hominis essentiam consequatur, consequitur ut idipsum animatum sit animal. Item secundam propositionem, quae ait si est a, cum sit b, non esse c, huiusmodi esse oportebit ut b quidem praeter a esse possit sed cum fuerit a, necesse sit esse etiam b; at uero c tale sit ut simul quidem cum a esse non possit, cum b uero esse possit sed tunc tantum cum b esse non possit, quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit a homo, b animatum, c insensibile. Namque animatum praeter hominem esse potest; at si homo sit, ut sit animatum necesse est; insensibile uero potest esse animatum sed tunc /280/ insensibile et animatum non conueniunt, cum idcirco est animatum quia homo esse praedictus est. Tertia uero propositio a quidem terminum debet habere, qui numquam simul esse possit cum b termino; c uero terminum talem esse oportebit, ut possit quidem non esse, si non fuerit b sed tunc tantum necesse sit, si b terminus non sit, esse c terminum, si idcirco non est b quaniam terminus a esse praedictus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c sensibile. Nam si est homo, non est inanimatum, sensibile uero potest simul non esse cum inanimato; possunt enim esse quaedam quae nec inanimata sint, nec sensibilia, ut arbores. Idem tamen sensibile necesse est esse, cum non sit inanimatum, si idcirco inanimatum non est quia homo esse praedictus est. Rursus quarta propositio huius debet esse proprietatis, ut b quidem terminus nullo modo esse possit, si fuerit a, at uero c possit esse, si non fuerit b; sed tunc tantum c, cum non fuerit b, non esse necesse sit, si b terminus non sit quia prius a terminus esse positus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c insensibile. Inanimatum enim non erit si fuerit homo; insensibile uero potest esse et non esse, si non sit inanimatum; tunc tamen insensibile non esse ne cesse est, cum inanimatum non sit, cum idcirco inanimatum non est quia homo esse praedictus est. Quinta quoque propositio tales habere terminos debet, ut a quidem si non sit, necesse sit esse b, si b terminus sit, c et esse possit et possit non esse: tunc tantum c esse necesse sit, cum fuerit b, cum idcirco est b quia a terminus esse negatus est, ut si sit a quidem animatum, b uero insensibile, c inuitale. Igitur si non sit animatum, statim consequitur ut sit insensibile; inuitale autem potest esse, si sit insensibile, ut lapis, potest uero non esse inuitale, si sit insensibile, ut sunt arbores; sed tunc tantum, posito insensibili, consequitur ut inuitale esse necesse sit, cum idcirco est insensibile quia non est animatum.  Sexta uero propositio tales terminos habere desiderat, ut b quidem esse necesse sit, si non fuerit a, at uero c terminus, si sit b, uel esse uel non esse possit; tunc tamen c non esse necesse sit, cum sit b, quando idcirco est b quia a terminus non esse propositus est, ueluti si sit a animatum, b insensibile, c uitale. Nam necesse est esse insensibile, si non fuerit animatum; cum uero sit insensibile, fieri quidem potest ut non uiuat, ueluti lapis, fieri autem potest ut uiuat, ueluti arbor; tunc tamen necesse est non uiuere, cum sit insensibile, quando idcirco est insensibile quia animatum non esse propositum est. Septimus modus talibus terminis debet esse contextus, ut b quidem sine a esse non possit, c autem si non sit, b et esse et non esse possit; tunc tamen necesse sit c terminum esse, si non sit b, cum idcirco b non esse propositum est quoniam a fuerit ante denegatum. Sit enim a quidem animatum, b uero sensibile, c inuitale; sensibile igitur esse non potest nisi fuerit animatum; si igitur non sit animatum, non erit sensibile, si uero non sit sensibile, potest esse inuitale, uelut in lapidibus, idem potest non esse, uelut in arboribus; tunc tamen sensibili denegato inuitale necesse est esse, cum idcirco non est sensibile quia prius animatum non esse propositum est. Octaua propositio his terminis connectenda est, ut b terminus esse non possit si non fuerit a, cum uero non sit b, terminus c et esse et non esse possit sed tunc necesse sit c terminum non esse, cum non fuerit b, cum idcirco non est b quia a terminus prius esse negatus est, ut si sit a quidem animatum, b uero sensibile, c uitale. Sensibile igitur esse non potest nisi fuerit animatum; idem tamen sensibile si non sit, et non esse uitale potest, ut lapides, et esse uitale, ut arbores; tunc tamen necesse est uitale non esse, si non sit sensibile, cum idcirco sensibile non est quia prius animatum esse negatum est. Ex his igitur constat c terminum, quoquo modo fuerit b, in conditionalibus propositionibus, quae in tota enuntiatione post praedicatiuas locantur, posse tam loco afFirmationis quam negationis assumi, ex quibus assumptionibus fiunt complexiones uariae syllogismorum. His igitur ita expeditis, de omnibus in commune praecipiendum uidetur. Nam cum sint octo propositiones quae ex praedicatiua hypotheticaque nectuntur, quae superius ascriptae sunt, earum quatuor ita faciunt consequentiam, si a terminus sit; quatuor uero ita conditionem proponunt, si a terminus non sit. Fiunt uero ex his syllogismi hoc modo. Ex prima propositione: Si est a, cum sit b, est c; Atqui est a; Cum igitur sit b, est c  uel sic: Atqui cum sit b, non est c; Non est igitur a  (posse autem huiusmodi esse assumptionem ex superius descripta propositionum natura cognoscitur). Ex secunda propositione: Si est a, cum sit b, non est c; Atqui est a; Cum igitur sit b, non est c  uel ita: Atqui cum si b, est c; Non est igitur a.  Ex tertia: Si est a, cum non sit b, est c;  Atqui est a; Cum igitur non sit b, est c  uel ita: Atqui cum non sit b, non est c;  Non est igitur a. Ex quarta: Si est a, cum non sit b, non est c; Atqui est a; Cum igitur non sit b, non est c  uel ita: Atqui cum non sit b, est c; Non est igitur a.  In his igitur quatuor propositionibus, in quibus a terminus esse proponitur, si assumptum fuerit eundem a terminum esse, c terminus uel esse uel non esse monstratur; idem uero si c terminus assumatur, siquidem cum est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus non esse monstrabitur. Ex quinta etiam propositione ita syllogismi fiunt: Si non est a, cum sit b, est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, est c  uel ita: Atqui est a; Cum igitur sit b, non est c  uel ita: Atqui cum sit b, non est c; Est igitur a  uel sic: Atqui cum sit b, est c; Non est igitur a.  Quod idcirco euenit ut huiusmodi propositio quatuor colligat syllogismos, quia in his tantum si non sit aliquid esse aliud proponi potest, in quibus contraria medietatibus carent; in his enim uel interempto altero alterum ponitur, uel posito altero alterum necesse est perimatur. Ex sexta: Si non est a, cum sit b, non est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, non est c  uel ita: Atqui cum sit b, est c; Est igitur a.  Ex septima: Si non est a, cum non sit b, est c; Atqui non est a;  Cum igitur non sit b, est c  uel ita: Atqui est a; Cum igitur non sit b, non est c  uel ita: Atqui cum non sit b, non est c; Est igitur a  uel ita: Atqui cum non sit b, est c; Non est igitur a.  In hac quoque complexione propter eandem causam quatuor collectiones hunt. Ex octaua: Si non est a, cum non sit b, non est c; Atqui non est a; Cum igitur non sit b, non est c  uel ita: Atqui cum non sit b, est c; Est igitur a.  In his quoque quatuor propositionibus, si quidem a non esse assumatur, c uel esse uel non esse concluditur; si uero c cum est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus semper esse concluditur, nisi in quinto et septimo tantum modis, ubi cum c esse assumatur, a non esse monstratur. Omnium uero communis est ratio, praeter quintum ac septimum modum, ut si a terminus ita assumatur, quomodo in prima enuntiatione propositus est, conditio quae sequitur in conclusione firmetur.  Si uero conditio quae sequitur contrario modo atque in enuntiatione proposita est assumatur, categorica propositio, quae prima est, interimetur. In septimo autem uel quinto modo, quaque ratione sumptum sit alterum, in utrisque partibus faciet conclusionem. Itaque fiunt sedecim uel uiginti potius syllogismi: octo quidem, si a terminus, ut est propositus, assumatur, octo uero, si c terminus conuerso modo atque in propositione est positus assumatur, quatuor uero ex quinto et septimo modis utrobique facientibus conclusionem. Reliquis uero complexionibus nulla est consequentia necessitatis. Ut autem plenior fieret intellectus ipsas propositiones cum suis terminis positas annotaui, ut secundum praedictos assumptionum modos non ratione solum demonstratio fieret, uerum etiam per exempla currentibus doctrina clarior elucesceret. Si est a homo, cum sit b animatum, est c animal. Si est a homo, cum sit b animatum, non est c insensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, est c sensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, non est c insensibile. Si non est a animatum, cum sit b insensibile, est c inuitale. Si non est a animatum, cum sit b insensibile, non est c uitale. Si non est a animatum, cum non sit b sensibile, est c inuitale. Si non est a animatum, cum non sit b sensibile, non est c uitale. Expeditis igitur his syllogismis qui ex talibus propositionibus fiunt, quae ex prima praedicatiua secunda hypothetica copulantur, nunc ad eos transitum faciamus qui ex prima conditionali secunda uero praedicatiua nectuntur, quamm omnium numerus proponendus est, ut de quibus loquimur lector agnoscat. Si cum sit a, est b, est c.  Si cum sit a, est b, non est c.  Si cum sit a, non est b, est c. Si cum sit a, non est b, non est c. Si cum non sit a, est b, est c. Si cum non sit a, est b, non est c. Si cum non sit a, non est b, est c. Si cum non sit a, non est b, non est c.Prima igitur propositio tales habere terminos debet, ut a quidem possit esse praeter c ac b; sed tunc, si a fuerit, c esse necesse sit, cum a terminum b terminus subsequatur, ut si sit a quidem animatum, b homo, c animal. Animatum namque praeter animal et praeter hominem esse potest; tunc uero id quod animatum est etiam animal esse necesse est, si id quod est animatum, homo est. Secunda propositio talibus terminis contexenda est, ut a quidem praeter b atque c, et cum eisdem esse possit; tunc tamen necesse sit non esse c, si a posito b sequatur, ut si a sit animatum, b homo, c equus.  Animatum quippe et ut homo uel equus sit aut non sit fieri potest; tunc uero necesse est id quod animatum est non esse equum, si id ipsum quod animatum est, homo fuerit. Tertia propositio his terminis copulatur, ut a quidem cum b et c uel esse uel non esse possit, tunc tamen necesse sit simul esse cum c, si, posito a termino, b terminus abnuatur, ut si sit a animatum, b animal, c insensibile. Nam quod animatum est, uel animal uel non animal, uel insensibile uel non insensibile esse potest sed tunc necesse est id quod animatum est esse insensibile si, animato posito, animal abnuatur.  Quartae propositionis hi termini sunt, ut a quidem cum b atque c esse et non esse possit, tunc uero ab eo modis omnibus separetur, si, posito a termino, b terminus abnuatur, ut si sit a quidem animatum, b animal, c homo. Nam quod animatum est uel animal esse uel non esse, itemque homo esse uel non esse potest; tunc tamen necesse est ut, cum sit animatum, non sit homo, cum posito esse animato animal denegatur. Quinta uero propositio his terminis conectatur, ut si non sit a, possit et esse et non esse b atque c; tunc tamen cum non sit a, terminum c esse necesse sit si, posito non esse a, esse b terminum consequatur, ut si sit a quidem inuitale, b homo, c animal. Nam si non sit inuitale, tunc possunt homo atque animal esse uel non esse; at necesse est esse animal, negato inuitali, si, cum inuitale negabitur, esse hominem subsequatur. Sextam uero propositionem talia debent membra coniungere, ut, si non sit a terminus, b atque c uel esse uel non esse possint; tunc uero, denegato a termino, c non esse necesse sit, cum negationem a termini b termini affirmatio comitabitur, ut si sit a inuitale, b homo, c equus. Nam quod non est inuitale, potest esse homo uel equus uel non esse sed necesse est non esse equum, inuitali denegato, si negationem inuitalis hominis positio subsequatur. Septimae propositionis hos esse terminos oportebit, ut, si non sit a terminus, b atque c et esse et non esse possint; /296/ sed tunc necesse sit esse c terminum, si negationem a termini b termini negatio subsequatur, ut si sit a animal, b animatum, c inuitale. Animal quidem si non sit, animatum et inuitale esse uel non esse potest; tunc uero necesse est, si animal non sit, esse inuitale, quando, si animal non sit, non erit animatum.  Octaua propositio est cum, negato a termino, possunt et esse et non esse b atque c termini; sed tunc necesse est, si a terminus abnuatur, non esse c terminum, cum negationem a termini negatio b termini subsequetur, ut si sit a inuitale, b animal, c homo. Si igitur non sit inuitale, potest esse uel non esse animal uel homo, tunc uero si non sit inuitale necesse est hominem non esse, cum animal non fuerit.  His igitur ita expeditis, illud in commune dicendum est, quod superiores quatuor propositiones ita faciunt conditionem, si fuerit a, posteriores uero si non fuerit, ex quibus omnibus syllogismi tali ratione nascuntur. Ex prima propositione: Si cum sit a, est b, est c; Atqui cum sit a, est b; Est igitur c uel ita: Atqui non est c; Cum igitur sit a, non est b.  Posse uero tales fieri conclusiones, ex superius descriptarum propositionum natura cognoscimus: poterat enim a terminus esse uel non esse cum b. Item ex secunda: Si cum sit a, est b, non est c; Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c  uel ita: Atqui est c;  Cum igitur sit a, non est b. Ex tertia uero utrobique assumptis terminis collectiones fiunt, ut: Si cum est a, non est b, est c; Atqui cum est a, non est b; Est igitur c  uel ita: Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c uel ita: Atqui non est c; Cum igitur sit a, est b  uel sic: Atqui est c; Cum igitur sit a, non est b.  Quae idcirco facta est utrobique collectio, quoniam in his terminis hae propositiones poterant poni, in quibus immediata contraria reperiebantur; in illis enim alterius positio alterum perimebat, et alterius interemptio ponebat alterum.  Ex quarta:  Si cum sit a, non est b, non est c; Atqui cum sit a, non est b; Non est igitur c  uel ita: Atqui est c; Cum igitur sit a, est b.  Ex quinta:Si cum non sit a, est b, est c; Atqui cum non sit a, est b; Est igitur c  uel ita: Atqui non est c; Cum igitur non sit a, non est b.  Ex sexta: Si cum non sit a, est b, non est c; Atqui cum non sit a, est b; Non est igitur c  uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est b. Ex septima utrobique colligitur hoc modo: Si cum non sit a, non est b, est c; Atqui cum non sit a, non est b; Est igitur c  uel ita: Atqui cum non sit a, est b;  Non est igitur c  uel sic: Atqui non est c; Cum igitur non sit a, est b  uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est b. Hic quoque propter eandem causam in alterutra assumptione syllogismus fiet; non esse aliquid cum alind non sit in immediatis tantum contrariis dicebatur. Ex octaua: Si cum non sit a, non est b, non est c; Atqui cum non sit a, non est b;  Non est igitur c  uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, est b.  In omnibus igitur superius descriptis syllogismis, haec ratio est, ut, si b terminus assumatur, ita ut in propositione est positus, ita c terminum concludat, ut in eadem propositione fuerit collocatus.  At si c terminus contrario modo assumatur quam in propositione fuerit positus, contrario modo b terminus in conclusione monstrabitur, praeter tertium et septimum modum, in quibus etiamsi b terminus contrario modo atque in propositione est positus assumatur, c terminum contrario modo atque positus est colligit, uel si c terminus ita ut in propositione est positus assumatur, simili modo b terminum concludit, ut in eadem propositione fuerat collocatus. Quare sedecim quidem uel uiginti fiunt syllogismi: assumptis namque primis hypotheticis propositionibus, octo; octo uero si secundae praedicatiuae assumantur; quatuor autem his adinuguntur ex tertio et septimo modo utrobique colligentibus, ut omnes etiam in his propositionum complexionibus fiant sedecim uel uiginti syllogismi.  Quoquo autem modo aliter assumptiones uerteris, nihil euenit necessarium. Ut autem omnis propositionum ac syllogismorum ratio colliquescat, exempla subiecimus, quibus facilius id quod superius docuimus declaretur. o  Si cum sit a animatum, est b homo, est c animal. o  Si cum est a animatum, est b homo, non est c equus. o  Si cum sit a animatum, non est b animal, est c insensibile. o  Si cum sit a animatum, non est b animal, non est c homo. o  Si cum non sit tale, est b homo, est c animal. o  Si cum non sit a inuitale, est b homo, non est c equus. o  Si cum non sit a animal, non est b animatum, est c inuitale.  o  Si cum non sit a inuitale, non est b animal, non est c homo. Ac de his quidem syllogismis qui talibus propositionibus conectuntur, quae ex hypothetica praedicatiuaque consistunt, sufficienter est dictum. Nunc de his dicendum est syllogismis, quorum propositiones ita tribus terminis continentur, ut mediae sint earum quae ex hypothetica categoricaque texuntur, et earum quae ex duabus hypotheticis connectuntur, quas idcirco hoc loco proponimus, quia, ut superiores, ita haec quoque tribus terminis continentur, et a similibus ad similia facilior transitus fiet. Harum uero fiunt multiplices syllogismi, quorum nullus poterit esse perfectus, cum nec per se perspicui sint, et ut his fides debeat accomodari adiumento extrinsecus positae probationis indigeant; est autem probatio talium syllogismorum alio constitutus ordine syllogismus. Fiunt uero, ut dictum est, tum per primam, tum per secundam, tum uero per tertiam figuram. Sunt autem primae figurae propositiones hae: Si est a, est b; et si est b, est c. Si est a, est b; et si est b, non est c. Si est a, non est b; et si non est b, est c. Si est a, non est b; et si non est b, non est c. Si non est a, est b; et si est b, est c. Si non est a, est b; et si est b, non est c. Si non est a, non est b; et si non est b, est c. Si non est a, non est b; et si non est b, non est c. Ergo ratio colligentiae talis est, ut si constituat et confirmet assumptio quod enuntiatio prima pronuntiat, sexdecim necesse est fieri complexiones, ex quibus octo tantum seruant consequentiae necessitatem, reliquae uero octo nihil habere idoneum uidentur ad fidem. Rursus id quod propositio prima constituit euertat assumptio: sic quoque sexdecim necesse est fieri complexiones, quarum octo firma necessitas tenet, octo uero reliquas infida saepius uarietas mutat. Fiunt uero hi syllogismi, tum in prima figura, tum in secunda, tum uero in tertia. Omnes igitur trium figurarum modos, a prima ordientes, ut nihil subterfugiat explicemus. Est enim primae figurae primus modus a prima ueniens propositione, cum ita proponimus: Si est a, est b; Si est b, necesse est esse c.  Tunc enim si est a, etiam c esse necesse est, cuius haec demonstratio est: nam si est a, consequitur ut sit b (id est enim quod proponit prima conditio, si sit a, esse b); at si b fuerit est c, id est enim quod propositionis pars secunda pronuntiat, si sit b, consequi necessario ut sit c. Quibus ita concessis, euenit ut, cum sit a, etiam c esse necesse sit; imperfectum uero hunc dicimus syllogismum, quia testimonio probationis indiguit; probatio uero ea fuit per syllogismum demonstratio. Ita namque firmauimus talis consequentiae necessitatem: cum enim ita proponeretur: Si est a, est b; Et si est b, necesse est ut sit c;  poneretque assumptio id quod affirmatio constituerat, esse a, eamque assumptionem talis sequi conclusio diceretur, quod necessario esset c, neque id esset ipsius syllogismi natura et proprietate perspicuum, addita est probatio per syllogismum hoc modo: Si est a, est b; At si est b, est c; Si igitur est a, necesse est ut sit c. Et in reliquis quidem eandem rationem exspectari oportere manifestum est. Et haec quidem complexio ea est, quae id quod primo in propositione positum fuerat assumit atque constituit; quod si id ponendo quis quod sequebatur assumat, nulla est necessitas syllogismi, ueluti cum dicimus: Si est a, est b; Et si est b, necesse est esse c; Atqui est c;  non necesse est esse b uel non esse; sed cum non sit necesse esse b uel non esse, non erit necesse a esse uel non esse. Idem quoque tale firmabit exemplum: Si est homo, animal est; Et si est animal, erit corpus animatum; Atqui est corpus animatum;  non necesse erit esse animal, quocirca ne hominem quidem. Secundus uero modus est hic primae figurae, cum ita proponimus: Si est a, est b; Et si est b, necesse est non esse c; At uero est a; Non est igitur c. Huius demonstratio talis est. Nam Si est a, est b  id enim prima conditio monstrabat, quae est, si sit a esse b; cum uero sit b, necesse est non esse c: id enim consequentia praeferebat in qua pronuntiabatur, si esset b consequi ex necessitate ut non esset etiam c; si igitur sit a, non erit c. Quod si id quod ultimum propositio constituit ponat assumpio, id est non esse c  nullus est syllogismus. Nam si de aliqua re ita proponatur: Si homo sit, est animal; Et si est animal, non est lapis; At non est lapis;  non necesse erit aut esse aut non esse animal, eodem modo nec hominem. Potest enim, si lapis non sit, esse lignum uel caetera quae neque animalia sunt, nec inter homines numerantur. Tertius uero modus est primae figurae, cum id assumptio constituit quod propositio prima ponebat, cuius ex tertia propositione principium est cum ita proponimus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse c;  hic enim rursus, si a terminus assumatur ita ut in prima est enuntiatione propositus, ita dicetur: Atqui est a; Est igitur c.  Probatio uero superioribus similis. Nam quia est a, non est b, et quia non est b, est c; quia igitur est a, est c. Quod si c terminus assumatur, nihil necessarium fiet, ut si ita proponamus: Si homo est, non est insensibile; Si non est insensibile, animal est; Est autem animal;  non est necesse esse hominem. Quartus uero modus est qui ex quarta propositione principium capit, qui tali propositione formatur: Si sit a, non est b;  Si non est b, non est etiam c;  hic enim si est a, necesse est c non esse. Demonstratio uero eadem quae in prioribus modis. Quod si c assumatur, nulla erit necessitas complexionis, hoc modo. Age enim proponatur: Si est homo, lapis non est; Si lapis non est, non est inanimatum; Atqui non est inanimatum;  non necesse est esse hominem. Quintus modus est ex quinta enuntiatione descendens, cuius prima talis est propositio: Si non est a, est b; Si est b, etiam c esse necesse est;  Atqui non est a; c igitur necesse est esse.  Hic quoque prius dicta conditio facit consequentiam necessitatis; at si id quod est c assumatur, nulla necessitas euenit. Sit enim propositio: Si non est irrationabile rationabile est;  Et si rationabile est, animal est;  et assumamus: Sed est animal;  non necesse erit uel esse uel non esse irrationabile.  Sextus modus est ita propositus, quem sexta propositio facit: Si non sit a, est b; Et si est b, non est c; Atqui non est a; Non est igitur c.  Similis uero superioribus demonstratio. At si c assumatur, eodem modo nullus est syllogismus; nam si sit propositio: Si animatum non est, inanimatum est; Et si inanimatum est, sensibile non est;  si assumatur: Atqui non est sensibile;  non necesse erit uel esse uel non esse animatum. Septimus modus est, qui ex septima propositione est: Si a non est, b non est; Et si b non est, necesse est esse c;  Atqui non est a;  Necesse est igitur esse c. Quod si c assumatur, nihil fit necessarium: nam si proponamus: Si animatum non est, animal non esse; Et si animal non sit, insensibile esse;  assumamusque: At est insensibile;  non necesse est uel esse uel non esse animatum. Octauus uero modus est qui ita proponitur: Si non est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse c; Atqui non est a; Non est igitur c. Quod si c assumatur, nec in complexione nec in terminis erit ulla necessitas. Age enim ita proponamus: Si non est animatum, non est animal; Et si non est animal, necesse est non esse sensibile; Atqui non est sensibile;  non necesse erit non esse animatum, ut arbores, herbas, et quidquid uitali tantum anima, non etiam sensibili, uegetatur. In prima igitur figura ex tribus terminis fiunt hypotheticae sexdecim complexiones, ita ut id quod positum est in propositione, idem in assumptione quoque ponatur: octo quidem, si a terminus in propositione ponatur; octo uero, si c. Quod si a terminus ponendo assumatur, erunt octo necessarii syllogismi; si uero c terminus ponendo assumatur, quinque equidem complexiones, id est quae primo secundo tertio quarto atque octauo respondent modo, nullius necessitatis esse deprehenduntur; tres uero complexiones, quae quinto sexto septimoque modo accomodantur, per complexionis quidem naturam nullam necessitatis constantiam seruant; per terminorum uero proprietatem necessarium colligunt syllogismum, ut sint omnes octo uel undecim syllogismi. Eodem quoque modo syllogismorum complexionumque ordo constabit, si id in assumptione quod in propositione positum fuerat, auferatur.  Fient quippe sexdecim complexiones, quarum octo quidem, ubi id quod sequitur aufertur, integra necessitate perdurant, octo uero, in quibus id quod praecedit aufertur, necessitatem non eadem ratione conseruant.  Sed hae quidem complexiones quae primo secundo ac tertio, quarto atque octauo modo accomodantur, nihil colligunt nec per terminorum nec per complexionis proprietatem; tres uero, id est quintus, sextus et septimus, nihil quidem colligunt secundum complexionis naturam, uidentur uero colligere secundum terminorum proprietatem, ut hinc quoque octo uel undecim sint syllogismi. Horum uero omnium subdantur exempla. Primus igitur modus hic est: Si est a, est b; Et si est b, etiam c esse necesse est; At non est c; Igitur a non est.  Quod si assumamus: At non est a;  nihil euenit necessarium. Sit enim propositio haec: Si est homo, animal est; Et si animal est, animatum esse necesse est; Atqui non est homo;  necesse non erit ut non sit animatum. Secundus modus est: Si est a, est b; Et si est b, non esse c necesse est; Atqui est c; Igitur a non erit.  Quod si assumamus ita: Atqui non est a;  non necesse erit esse c uel non esse. Nam si sit propositio talis: Si est homo, animal est; Et si animal est, lapis non est;  si assumamus: Atqui non est homo;  non necesse erit lapidem uel esse uel non esse. Tertius modus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse c; Atqui non est c; Necesse est igitur non esse a. Quod si a terminum tollat assumptio, nihil euenit necessarium: age enim sit propositio: Si homo est, non est inanimatus; Et si inanimatus non est, animatum esse necesse est; Atqui non est homo;  non necesse est uel esse uel non esse animatum. Quartus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse c; At est c; Igitur a non erit.  Quod si assumamus non esse a, nulla complexionis necessitas inuenitur: nam si sit propositio: Si homo est, non est irrationabile; Si irrationabile non est, inanimatum eum non esse necesse est; Atqui non est homo;  non necesse est eum uel esse inanimatum uel non esse. Quintus: Si a non est, b est; Et si b est, c esse necesse est; Atqui non est c; Igitur a esse necesse est.  Quod si a terminus assumatur, non fiet syllogismus: sit enim propositio: Si irrationabile non est, rationabile est; Et si rationabile est, animal est; Atqui irrationabile est;  non necesse erit esse uel non esse animal. Sextus: Si non est a, est b; Et si est b, necesse est non esse c; Atqui est c; Igitur a esse necesse est. Quod si a terminum sumam, nulla necessitas inuenitur: sit enim propositio talis: Si animatum non sit, inanimatum est; Et si inanimatum est, sensibile non est; Atqui animatum est;  non erit necesse uel esse uel non esse sensibile. Septimus: Si a non sit, b non est; Et si b non est, c esse necesse est; Atqui c non est; Igitur a esse necesse est.  Quod si a terminum sumpserimus, complexio nullam faciet necessitatem: sit enim proposititio talis: Si non est animal, non est rationabile; Si rationabile non est, irrationabile est;  et si assumamus: Atqui animal est;  non necesse est uel esse irrationabile uel non esse. Octauus modus est qui hac propositione formatur: Si a non est, nec b est;  Et si b non est, c non esse necesse est; Atqui est c; Igitur a esse necesse est.  Quod si a terminum sumpserimus, non fiet ulla necessitas: sit enim propositio: Si non est animal, non est homo; Et si non est homo, necesse est non esse risibile;  Atqui est animal;  non necesse erit uel esse uel non esse risibile. Ac de prima quidem figura satis dictum est, sequenti uero uolumine de secunda tractabitur. Conditionalium propositionum, quae tribus terminis constant, secunda figura est, quotiens cum aliquid dicitur uel esse uel non esse, consequitur ut duo quaedam uel esse uel non esse dicantur. Variantur autem in ipsis propositionibus uel etiam in conclusionibus secundum assumptionis ordinem multis modis; quod ut facilius innotescat, prius cunctae propositiones ordine digerantur. In quibus illud est praedicendum, quod saepe aequimodae propositiones ponuntur, saepe uero non; aequimodis quidem nullus est syllogismus. Aequimoda enim propositio est si ita dicamus: Si a est, b est; Et si a est, c non est;  inaequimoda uero secundae figurae propositio est in his syllogismis hypotheticis quorum enuntiationes tribus terminis componuntur, ueluti cum ita proponimus: Si est a, est b; Si autem non est a, est c. Huius propositionis tale intellegatur exemplum: Si animal est, animatum est; Si animal non est, insensibile est;  hic igitur animal, quod est a, non est uno modo utrisque propositum sed ad b quidem afiirmatiue, ad c autem negatiue coniungitur, et id uocatur non aequimode praedicari. Quod si in utrisque a esse uel non esse poneretur, aequimoda praedicatio diceretur. Disponantur igitur (ut dictum est) omnes non aequimodae propositiones hoc modo: o Si est a, est b; si non est a, est c. o Si est a, est b; si non est a, non est c. o Si est a, non est b; si non est a, est c. o Si est a, non est b; si non est a, non est c.  Nunc igitur a quidem esse propositum est cum b, non esse uero cum c; rursus a non esse ponamus cum b, esse uero cum c: o Si non est a, est b; si est a, est c. o Si non est a, est b; si est a, non est c. o Si non est a, non est b; si est a, est c. o Si non est a, non est b; si est a, non est c.  Si igitur non sit aequimoda praedicatio, assumpto quidem b fiunt sexdecim complexiones, quarum tantum octo sunt syllogismi; rursus, si assumatur c, sic quoque sexdecim complexiones fiunt sed in octo tantum syllogismorum deprehenditur firma necessitas. Sit igitur secundae figurae primus modus hic, ex prima ueniens propositione: Si est a, est b; Si autem non est a, est c. Dico quoniam: Si non est b, est c  quoniam enim si est a est b, secundum ordinem consequentiae si non est b, non erit a; atqui si non esset a, esset c, si igitur non sit b, erit c. Quod si idem b esse ponatur, nihil euenit necessarium: age enim sit b, non necesse est esse uel non esse a. Nihil igitur necessarium sequitur, ut sit uel non sit c; ut si sit a animal, b animatum, c insensibile: nam si est animal, est animatum; si uero non est animal, insensibile est; atqui si sit animatum, non necesse est esse animal, uel non esse, non igitur necesse est esse insensibile uel non esse. Quod si c terminus assumatur, siquidem non esse ponatur, erit necessario b; si uero esse, nullus est syllogismus. Nam si non est c, est a, at si est a, est b, si igitur non est c, est b; quod si est c, non necesse est esse a, aut fortasse necesse sit non esse. Haec enim propositio, id est:  Si non est a, est c  in talibus tantum euenit, in quibus alterum eorum esse necesse sit; quod si est c, non erit a, si non est a, nihil ad b, ueluti si est insensibile, non erit animal, at si non sit animal, nihil animatum uel esse uel non esse necesse erit. Ex secunda rursus propositione fit syllogismus cum ita proponimus: Si est a, est b; Si non est a, non est c;  dico quia: Si non est b, non est c  propositum quippe est: Si est a, est b.  Ordo uero consequentiae est, si non est b, non esse a, quod si non est a, non est c, si igitur non est b, non est c. Quod si fuerit b, non necesse est esse c; sit enim a animal, b animatum, c rationabile, et proponatur: Si animal est, animatum est; Si animal non est, rationabile non est; Atqui est animatum;  non necesse est esse animal, quo fit ut ne rationabile quidem. Quod si c terminum dicat assumptio, si quidem c terminus affirmatus fuerit, erit b; quod si idem c terminus abnuatur, nullus est syllogismus. Nam quoniam si est a, erit b, si non est a, non erit c, si est c, erit a; at cum est a, est b, si est igitur c, erit b; quod si non sit c, nihil sit necessarium, nam in hac propositione quae dicit: Si animal est, animatum est; Si animal non est, /326/ rationabile non est;  assumamus: Atqui non est rationabile;  non necesse erit esse uel non esse animal, quocirca ne animatum quidem.  Item ex tertia propositione talis est syllogismus: Si est a, non est b; Si non est a, est c;  dico quia: Si est b, est c;  nam quoniam ita propositum est: Si est a, non esse b  necesse est consequi ut, si sit b, non sit a; at si non sit a, erit c; si igitur sit b, erit c; quod si non sit b, nihil est necessarium. Si enim sit a animal, b inanimatum, c insensibile, in hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si non est animal, est insensibile;  si assumamus non esse inanimatum, non necesse erit esse animal uel non esse, quare ne insensibile quidem. Si uero a c termino fiat assumptio, si quidem non sit c, non erit b; si uero sit, nulla erit necessitas conclusionis. Nam quoniam ita propositum est, ut si sit a, non sit b, si uero non sit a, sit c, ea est consequentia, ut si non sit c, sit a (in his enim tantum terminis dici potest, qui medietate priuati sunt); at si sit a, non est b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si sit c, nullus est syllogismus; nam in hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si uero non est animal, insensibile est;  assumat aliquis esse insensibile, sequitur quidem ut non sit animal, sed non consequitur ut uel sit uel non sit inanimatum. Ex quarta propositione est syllogismus ita:  Si est a non est b;  Si non est a, non est c;  dico quoniam: Si est b, non est c;  nam quoniam ita propositum est: Si est a, non est b  ea rerum consequentia est, ut si sit b, non sit a. Atqui cum non sit a, positum fuerat non esse c; si igitur sit b, non est c. Quod si b non esse assumatur, nullus est syllogismus; age enim sit a quidem animal, b inanimatum, c rationabile, et sit haec propositio: Si est animal, non est inanimatum; Si non est animal, non est rationabile;  assumamus igitur non esse inanimatum, non necesse erit esse animal, quocirca nec rationabile. Rursus si c terminus assumatur, si quidem esse ponatur, necesse erit non esse b; at si non est c, nullus est syllogismus. Nam quoniam propositum est: Si a sit, non esse b; Si a non sit, non esse c;  necesse est ut, cum sit c, sit etiam a, at si sit a, non sit b; si igitur sit c, non erit b. Quod si c non esse ponatur, nullus est syllogismus, ueluti in hac propositione: Si est animal non est inanimatum; Si non est animal, non est rationabile.  Si quis igitur assumat non esse rationabile, non necesse erit esse animal, quocirca ne inanimatum quidem uel esse uel non esse. Atque in his quidem quatuor propositionibus ita a terminus positus est, ut ad b quidem esse diceretur, ad c uero non esse; quod si ordo mPombaur, rursus quatuor erunt alii syllogismi, si b terminus assumatur, quatuor etiam alii, si c; ex utraque autem parte quaternae complexiones erunt, quae nullos faciant syllogismos. Sit enim quinta propositio: Si non est a, est b; Si est a, est c;  dico quia: Si non est b, erit c. Assumatur enim: Atqui non est b  erit igitur a (hic enim consequentiae ratus ordo constabat); sed cum est a, est c, si igitur non est b, erit c. Quod si b esse ponatur, nihil sit necessarium; si enim est b, non erit a, quod si a non est, nihil ad c, quocirca nullus est syllogismus. Non esse autem a, si b sit, ea propositio monstrat per quam dicimus: Si a non est, est b  haec enim immediatis tantum contrariis conuenit. Age enim sit a quidem animal, b uero insensibile, c animatum, et proponatur: Si animal non est, insensibile est; Si animal est, animatum est;  et ponatur esse insensibile, non necesse est esse uel non esse animal, quocirca ne animatum quidem esse uel non esse necesse est. Quod si c terminus assumatur, si quidem negatiue, faciet syllogismum, affirmatiue uero, nullo modo. Nam si non est c, non est a; quod si non est a, est b, si igitur c non est b est; quod si sit c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem esse aut non esse necesse sit. Nam si est animatum, non necesse est esse uel non esse animal, cum uero animal non sit, non necesse est esse uel non esse insensibile. Propositio uero eadem quae superius.  Rursus ex sexta propositione fit syllogismus hoc modo: Si non est a, est b; Si est a, non est c;  dico quia: Si non est b, non erit c;  si enim non est b, est a, at si est a, non est c; si igitur non est b, non erit c. Quod si b terminum ponat assumptio, nulla est necessitas conclusionis; si enim est b, non est a. Id enim ex superioribus manifestum est. At si non est a, nihil ad c; tunc enim c non erat, si esset a. Exemplum uero hoc est, ut si sit a animal, b insensibile, c inanimatum. Si igitur sit propositio talis: Si non est animal, est insensibile; Si est animal, non est inanimatum; Atqui est insensibile;  non est igitur animal sed non consequitur ut sit uel non sit inanimatum.  Quod si c terminum sumpseris, si quidem affirmes, facies syllogismum; nam si est c, non erit a, quod si a non sit, erit b, si igitur c fuerit, erit b. At si negaueris, nihil est necessarium. Si enim assumas: Atqui non est c  non necesse erit esse uel non esse a, quocirca ne b quidem; nam si inanimatum negaueris, non necesse est esse uel non esse animal, quocirca ne insensibile quidem esse uel non esse. Ex septima propositione conclusio est cum ita proponimus: Si non est a, non est b; Si est a, est c  dico quia: Si est b, erit c  nam quoniam ita propositum est, si non esset a, non esse b, si sit b erit a. Atqui si sit a, erit c; si igitur sit b, erit c.Quod si b terminum neget assumptio, nulla est in conclusione necessitas. Nam si non sit b, nihil erit necessarium esse uel non esse a, quocirca ne c quidem, uelut in his terminis. Si enim sit a animatum, b animal, c uiuere, si sic enuntiemus: Si non est animatum, non est animal; Si est animatum uiuit;  si igitur assumamus: Atqui non est animal;  non necesse est esse uel non esse animatum, quocirca nec uiuere. Quod si assumamus c terminum, si quidem negemus, erit syllogismi perfecta necessitas; si uero affirmemus, nulla conclusio est. Nam si non est c, non erit a, si non est a, non erit b, si igitur non sit c, non est b. Quod si affirmetur, nihil est necessarium; siue enim necesse est esse, siue non necesse est esse a, nihil ad b, ut in superioribus terminis poterit ostendi: si enim uiuit, et si necesse est esse animatum, non necesse est tantum esse animal; quod si non est necesse esse animatum, non necesse est esse uel non esse animal; ut uero necesse sit non esse animatum, fieri non potest. Ex octaua enuntiatione conclusio est, cum ita proponitur: Si non est a, non est b;  Si est a, non est c;  dico quoniam: Si est b, non est c  nam si est b, est a, quod si est a, non est c, si igitur est b, non erit c.  Quod si b terminum neget assumptio, nihil est necessarium: Si enim non sit b, non necesse erit a uel esse uel non esse, quo fit ut ne c quidem, uelut in his terminis, si sit a animatum, b animal, c inanimatum. Si igitur proponamus: Si non est animatum, non est animal; Si est animatum, non est inanimatum;  et assumamus: Sed non est animal  non necesse est uel esse uel non esse animatum, quocirca ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem cum affirmatione ponatur, erit necessitas syllogismi: nam si est c, non est a, quod si non est a, non est b, si igitur est c, non est b; at si c terminum neget assumptio, nihil est necessarium: nam si non est c, non necesse erit esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non est inanimatum, fortasse quidem necesse sit esse animatum sed non necesse est esse animal. Inuenientur autem termini ut non sit necesse esse a, ueluti si c ponamus nigrum, a album; negato enim nigro non consequitur ut affirmetur album. Et secundae quidem figurae inaequimodas complexiones omnes (ut arbitror) explicuimus; si uero aequimodae sint, nullus omnino fit syllogismus. Aequimodae uero fiunt hoc modo: quotiescumque enim a terminus ad b et ad c simul uel esse uel non esse ponitur, quoquomodo b atque c termini uarientur, harum igitur quae aequimodae complexiones esse dicuntur, nulla est collectibilis. Sunt autem omnes aequimodae complexiones hae: o Si est a est b, si est a est c. o Si est a est b, si est a non est c. o Si est a non est b, si est a est c. o Si est a non est b, si est a non est c. o Si non est a est b, si non est a est c. o Si non est a est b, si non est a non est c. o Si non est a non est b, si non est a est c. Si non est a non est b, si non est a non est c. Quarum imbecillam conclusionem atque omni carentem necessitate ex assumptionibus quoquo modo factis inueniemus, nec non secundum superius descriptos modos etiam terminos facillime reperire poterimus, per quos demonstratur nullam in talibus complexionibus inueniri posse constantiam. Ac de secunda quidem figura, quanti sint quotque modis fiant syllogismi diligenter ostendimus. Fiunt autem, si inaequimodae quidem complexiones fuerint, b termino assumpto, syllogismi octo, totidemque si c terminus assumatur. Sunt igitur secundae figurae sedecim syllogismi, totidem uero, b atque c termino non ita ut oportet assumptis, complexiones fiunt, quibus nihil admodum colligatur.  Nunc igitur de tertia figura dicendum est, in qua quidem totidem complexiones fiunt et totidem syllogismi sed ita ut non aequimodae propositiones ponantur; quod si aequimodae fuerint, nullus omnino (ut in secunda figura dictum est) fiet syllogismus. Exponamus igitur omnes figurae tertiae inaequimodas propositiones: o Si est b est a, si est c non est a. o Si es b est a, si non est c non est a. o Si non est b est a, si est c non est a. o Si non est b est a, si non est c non est a. Et nunc quidem a cum b esse, cum c uero non esse propositum est; rursus uero a quidem cum b non esse, cum c uero esse proponatur: o Si est b non est a, si est c est a. o Si est b non est a, si non est c est a. o Si non est b non est a, si est c est a. o Si non est b non est a, si non est c est a. Tertiae igitur figurae primus modus huiusmodi est: Si est b, est a; Si est c, non est a; qui quidem diuersus est a secundae figurae primo modo. Illic enim si a esset uel non esset, b et c esse dicebantur. Nunc uero si b uel c fuerint, a esse uel non esse proponitur. Aequimodae autem propositiones non sunt, quae in alia parte esse, in alia non esse constituunt, uelut in superius comprehensa: nam si b est, a est, si autem c est, a non est. Quibus ita positis, dico quoniam Si est b, c non esse necesse est;  si enim est b, est a, quod si est a, non est c, si igitur est b, non est c. Quod si b terminus abnuatur, nullus est syllogismus: si enim b non sit, non necesse erit esse uel non esse a, nec c igitur necesse erit esse uel non esse, uelut in hoc exemplo. Si sit b animal, a animatum, c mortuum, et proponatur: Si animal est, animatum est; Si mortuum est, animatum non est; Atqui non est animal;  non necesse est esse uel non esse animatum. Quae enim non sunt animalia, possunt esse animata, ut arbores; possunt esse non animata ut lapides. Quocirca, si animal non fuerit, ne mortuum quidem esse uel non esse necesse est. Plura enim non sunt animalia, quae mortua non sint, ut lapides; ea enim mortua dicuntur quae aliquando uixerunt. Ab assumptione uero c termini affirmatio faciet syllogismum. Nam si c est, b non erit, si enim c est, non est a: at si non sit a, non erit b, si igitur c est, b non erit.  Negatio uero nihil explicat necessitatis; nam si non est c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non sit mortuum, non necesse est esse animatum uel non esse: quaedam enim quae non sunt mortua, animata sunt, ut arbores, quaedam uero, cum mortua non sint, non sunt animata, ut lapides, quo fit ut ne animal quidem esse uel non esse necesse sit, si mortuum destruatur. Ex secunda uero propositione hic modus est colligendus: Si est b, est a; Si non est c, non est a;  dico quia: Si est b, erit c. Nam si est b, est a, quod si est a, est c -- ita enim conuertitur talis propositio --; si igitur est b, est c. Quod si b terminus negetur, nulla est necessitas syllogismi: nam si non est b, non necesse est esse uel non esse a, quocirca ne ad c quidem ulla necessitas perueniet, ut in terminis patet. Nam si sit b animal, a animatum, c corporeum, et proponatur: Si est animal, est animatum; Si non est corporeum, non est animatum; et assumatur: Atqui non est animal;  non necesse est esse uel non esse corporeum -- c uero terminus si negetur, erit necessitas syllogismi: nam si non est c, non est a, quod si non est a, non est b (ita enim conuerti potest), si igitur non est c, non erit b; si affirmetur c, nulla est necessitas, nam si est corporeum, non necesse est animatum esse uel non esse, quocirca nec animal quidem esse uel non esse necesse est.  Tertia propositio talem recipit conclusionem: Si non est b, est a; Si est c, non est a;  dico quia: Si non est b, non erit c.  Si enim non sit b, est a; quod si sit a, non erit c (ita enim poterat conuerti ea pars propositionis, quae, si esset c terminus, a terminum non esse dicebat); fit igitur ut si non sit b, non sit c. Quod si affirmetur esse b terminum, nulla est necessitas conclusionis; nam si sit b, necesse est quidem non esse a, sed non necesse est esse c, ut in his terminis, si sit b animatum, a inanimatum, c animal. Si quis igitur sic proponat: Si non est animatum, inanimatum est; Si est animal, non est inanimatum;  si igitur ponamus esse animatum, sequitur quidem ut non sit inanimatum sed non necesse est ut sit animal. C uero terminus si affirmetur, fiet necessaria conclusio hoc modo. Nam si est c, non est a, si non est a, est b (id enim sequebatur eam propositionem quae, si non esset b terminus, a terminum esse dicebat); si igitur sit c, est b. Quod si idem c terminus abnuatur, nullus est syllogismus: nam si non sit c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non est animal, non necesse est esse uel non esse inanimatum, quocirca ne animatum quidem. Ex quarta propositione talis est syllogismus: Si non est b, est a; Si non est c, non est a;  dico quia:  Si non est b, est c.  Nam si non est b, est a, si uero a fuerit, necesse est esse c -- id enim consequitur eam propositionis partem quae ait: Si non est c, non est a  -- si igitur non sit b, est c. At si b terminus affirmetur, nullus est syllogismus. Sequitur namque ut non sit a sed non sequitur ut sit uel non sit c, uelut in his terminis: nam si sit b quidem insensibile, a animal, c animatum, et proponatur:  Si sit insensibile, non est animal;  sed non necesse est esse uel non esse animatum.  C uero terminus si negetur, fiet protinus syllogismus. Nam si non est c, non est a, si non est a, erit b -- id enim consequitur eam propositionis partem quae dicit: Si non est b est a  -- si igitur non sit c, erit b. Quod si sit c, non est necesse esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si est animatum, non necesse est esse animal uel non esse, quo fit ut ne insensibile quidem esse uel non esse necesse sit. Et hactenus quidem quatuor modos ita disposuimus, ut ad b terminum, quoquo se modo haberet, a terminus esse poneretur, ad c uero non esse. Nunc ita statuamus ut a terminus ad b terminum non esse dicatur, ad c uero esse, ordine scilicet immutato.  Omnes uero non esse aequimodas propositiones illud ostendit quod a quidem si affirmatiue est ad b, ad c negatiue proponitur, aut si negatiue ad b, affirmatiuam ad c retinet enuntiationem. Quinta igitur propositio talem facit syllogismum, cum talis est propositio: Si est b, non est a; Si est c, est a;  dico quia: Si est b, non est c.  Nam si est b, non est a, si uero non sit a, non est c (id enim talem propositionem consequebatur, quae, si esset c terminus, a quoque esse dicebat); si est igitur b, non est c. At si negetur b, nullus est syllogismus: si enim /348/ non sit b, non necesse est esse a, quo fit ut ne ad c quidem necessitas ulla perueniat. Et in terminis idem patet: nam si sit b quidem mortuum, a animatum, c animal, et sit ita propositio: Si est mortuum, non est animatum; Si animal est, animatum est;  et assumamus non esse mortuum, non necesse est esse uel non esse animatum. Nam et quae adhuc animata sunt, et quae numquam fuerunt, non sunt mortua, quocirca non sequitur ut sit uel non sit animal; quod enim mortuum non est, potest et esse animal, ut canis uiuens, et non esse, ut lapis. At si c terminus affirmetur, erit perfecta conclusio non esse b; nam si sit c, est a, si uero sit a, non erit b (id enim consequitur superius positum propositionis modum); si igitur sit c, non erit b. At si negetur c, neque ad a neque ad b necessitas ulla perducitur, uelut in his terminis: nam si non est animal, neque animatum, neque mortuum uel esse uel non esse necesse est. Sextae propositionis haec conclusio est: Si est b, non est a; Si non est c, est a;  dico quia: Si est b, erit c.  Nam si est b, non est a, si non sit a, erit c (talis enim in hac parte propositionis est consequentia); si igitur sit b, erit c. Quod si b terminus abnuatur, nihil necessarium fiet: nam si non sit b, nec a nec c terminos uel ad esse uel ad non esse sequitur ulla necessitas, ut in terminis patet. Nam si sit b mortuum, a animatum, c inanimatum, si non sit mortuum, non necesse est esse uel non esse animatum, quocirca ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem in negatione sit positus, fiet rata conclusio non esse b terminum: nam quoniam non est c, est a, at si sit a, non est b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si affirmetur c terminus, nihil est necessarium; neque enim si sit c, quamuis a non esse necesse sit, ad b terminum necessitas ulla perueniet, ut etiam in terminis patet: nam si sit inanimatum, necesse est non esse animatum sed non necesse est esse mortuum. Septimae propositionis talis est syllogismus: enuntietur enim:  Si non est b, non est a; Si est c, est a;  dico quia: Si non est b, non est c  si enim non sit b, non erit a, quod si a non fuerit, non erit c (id enim sequebatur eam propositionem qua dicebatur, si esset c terminus, a quoque consequi ut esset); si igitur non sit b non erit c. Quod si affirmetur b, nihil est necessarium; neque enim si sit b, uel a uel c aut esse aut non esse necesse est, ut in terminis patet: nam si sit b animatum, a animal, c sensibile, et sit propositio: Si animatum non est, non est animal; Si sensibile est, animal est;  si assumatur esse animatum, neque animal necesse est esse, neque sensibile. At si per c terminum fiat assumptio, si quidem affirmabitur, erit firma conclusio; si negetur, nullus est syllogismus: nam si est c, est a, si sit a, erit b (id enim consequebatur eam propositionem quae ait: si non sit b, non esse a); si igitur sit c, erit b. At si idem c terminus abnuatur, nihil est necessarium; nam si non sit c, neque a neque b terminum necessitas ulla constringit, uelut si non sit sensibile, non sit forsitan animal sed non necesse est esse animatum; reperientur uero termini quibus ne a quidem non esse necesse sit. Octauus modus est in quo ita proponitur: Si non est b, non est a; Si non est c, est a;  dico quia: Si non est b, est c.  Si enim non sit b, non erit a, quod si non sit a, erit c -- id enim consequebatur eam partem propositionis quae dicebat: Si non est c, est a  -- si igitur non sit b, erit c. Quod si b terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam si sit b, neque esse neque non esse necesse est a terminum, quo fit ne c quidem. Id uero tali liquet exemplo, si sit b animatum, a animal, c insensibile, et proponatur: Si non sit animatum, non est animal; Si non sit insensibile, est animal.  Si igitur in assumptione affirmemus b terminum, ac dicamus:  Atqui est animatum;  non necesse est esse uel non esse animal uel insensibile, quocirca nullus est syllogismus. At si c terminus abnuatur, fiet protinus syllogismus: nam si non est c, est a, si uero est a, erit b, si igitur non sit c, erit b. Quod si c terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam et si a terminum non esse necesse est, quantum ad b terminum nihil necessarium cadit. Id uero tali demonstratur exemplo: Si sit insensibile, non est animal;  quod si animal non est, non necesse est esse uel non esse animatum. In non aequimodis igitur propositionibus, siue b siue c terminus assumatur, octo necesse est ex utraque parte fieri syllogismos; reliquae uero ex utraque parte octonae complexiones necessitate priuatae sunt. At si sint aequimodae, nullus omnino est syllogismus. Aequimodae uero dicuntur quotiens a terminus ad utrosque uel esse uel non esse proponitur; omnes autem aequimodae propositiones sunt huiusmodi: o Si est b, est a, si est c, est a. o Si est b, est a, si non est c, est a. o Si non est b, est a, si est c, est a. o Si non est b, est a, si non est c, est a. o Si est b, non est a, si est c, non est a.o Si est b, non est a, si non est c, non est a. o Si non est b, non est a, si est c, non est a. o Si non est b, non est a, si non est c, non est a. In quibus et per consequentiam propositionum superius designatam, et per exempla currentes, possumus lucide et constanter agnoscere nullam omnino in syllogismis fieri necessitatem. Quocirca, cum tribus terminis texitur propositio, ex prima quidem figura fiunt syllogismi sedecim, ex secunda syllogismi sedecim, ex tertia etiam totidem colliguntur, omnes ex tribus terminis syllogismi quodraginta octo. Restat nunc ut de his syllogismis dicamus qui duabus hypotheticis continentur, quorum quidem similis consequentiae modus est, ut in his propositionibus quae ex duabus categoricis ac simplicibus efficiebantur. In omnibus enim si quidem uelimus astruere, primam totius propositionis assumemus partem, si uero in conclusione aliquid destruendum est, secunda negabitur. Siue autem prima denegetur, siue posterior affirmetur, nulla fit omnino necessitas, nisi in quinta, septima, tertia decima et quinta decima propositione, in quibus non complexionis natura sed terminorum proprietas consequentiam facit, sicut in his syllogismis fieri docuimus qui in his propositionibus constant, quae duabus simplicibus continentur. Horum autem omnium qui ex duabus hypotheticis constant propositiones apposui, quarum differentias cum lector agnouerit, ad earum exempla necesse est reuertatur, quae ex simplicibus et categoricis iunctae sunt. Sunt autem omnes propositionum differentiae, quae ex duabus hypotheticis copulantur, huius modi: o Si cum est a, est b, cum sit c, est d. o Si cum est a, est b, cum sit c, non est d. o Si cum est a, est b, cum non sit c, est d. o Si cum est a, est b, cum non sit c, non est d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, est d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, non est d. o Si cum sit a, non est b, cum non sit c, est d. o Si cum sit a, non est b, cum non sit c, non est d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, est d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, non est d.  o Si cum non sit a, est b, cum non sit c, est d. o Si cum non sit a, est b, cum non sit c, non est d. o Si cum non sit a, non est b, cum sit c, est d. o Si cum non sit a, non est b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, est d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, non est d. In his quoque propositionibus illud inspiciendum est quod, cum sedecim sint, octo quidem ita uariantur, ut tamen in omnibus a terminus esse ponatur, octo uero ita, ut idem a terminus non esse dicatur. Non uero quoquo modo positae fuerint habebunt uim conditionalium propositionum ex duabus hypotheticis constantium; nam si quis sic dicat: Si cum homo est, animal est; Cum sit animatum, corpus est;  non fecerit eam propositionem quae ex duabus conditionalibus constet. Neque enim idcirco quod animatum est corpus est, quia qui homo est animal est, nec conditio sequitur conditionem; sed si eas separes, per seque pronunties, utraque habet in terminorum consequentia necessitatem: nam et qui homo est animal est, et quod animatum est corpus est, et per se istae propositiones uerae sunt nec conditione iunguntur.  Ut igitur singularum natura clarescat, de unaquaque est disserendum. Prima igitur propositio talis esse debet, ut si sit a positum, b terminus non continuo subsequatur, itemque, si c ponatur, non necesse sit d terminum consequi sed, posito quidem a termino, c terminum, posito uero b, terminum d esse necesse sit. Tunc enim eueniet ut si, posito a, fuerit b, necesse sit c posito subsequi d, ut si sint termini a homo, b medicus, c animatum, d artifex. Posito enim homine non necesse est ut medicus sit, et cum sit animatum, non necesse est ut sit artifex; at si homo sit, necesse est ut sit animatum, et si medicus sit, necesse est ut artifex sit. Hoc itaque posito, eueniet ut si, cum homo sit, medicus est, cum sit animatum, sit artifex.  Secunda propositio ita esse debet, ut a atque b, itemque c atque d praeter se esse possint sed a praeter c esse non possit, b autem atque d simul esse non possint. Tunc enim eueniet ut si, posito a termino, b fuerit consecutum, posito c non esse d necesse sit, ut si sit a homo, b niger, c animatum, d albus: homo namque praeter nigrum, et animatum praeter album uel esse uel non esse potest; homo uero praeter animatum, nigrum autem cum albo esse non potest, euenitque ut si cum sit homo, niger sit, cum sit animatus non sit albus. Item tertiae propositionis tales terminos esse oportebit, ut a praeter b esse possit, c uero uel cum a uel cum d simul esse non possit.  Quocirca euenit ut, si a posito fuerit b, negato c termino d esse necesse sit, ut si sit a quidem animatum, b medicus, c inanimatum, d artifex: animatum enim praeter medicum esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum artifice iungi potest; itaque si cum animatum est, medicus est, cum inanimatum non sit artifex est. Quarta propositio his terminis contexenda est, ut a quidem cum b termino, c autem cum d uel esse uel non esse possit, neque uero a cum c, neque b cum d ullo modo esse possibile sit. Tunc enim euenit ut, si a posito, b subsequatur, c negato negetur etiam d, ut si sit a homo, b niger, c inanimatum, d album: homo quidem praeter nigrum, inanimatum uero praeter album esse et non esse potest; neque tamen homo cum inanimato, neque nigrum cum albo esse possibile est. Si tamen, cum homo sit, niger est, sequitur ut, cum non sit inanimatum, non sit album. Quintae propositionis haec membra sunt, ut a praeter b, et c praeter d esse uel non esse possit sed a praeter c esse non possit, b atque d numquam simul esse possint, ita ut si alterum non sit, alterum esse necesse sit. Tunc enim eueniet ut si a posito b negetur, c posito d sequatur, ut si sit a quidem homo, b aeger, c animatum, d sanus. Homo quidem praeter aegritudinem, animatum uero praeter sanitatem et esse et non esse potest; sed si homo sit, animatum esse necesse est; itaque fiet ut si, cum homo sit, non sit aeger, cum sit animatus sanus sit. Sexta propositio hos terminos habere desiderat, ut a praeter b, et c praeter d, et esse et non esse possit; idem uero a praeter c, et d praeter b esse non possit. Tunc enim eueniet ut si a posito non est b, posito c non sit d, ut si sit a homo, b artifex, c animatum, d medicus. Homo quidem praeter artificium, animatum uero praeter medicinam et esse et non esse potest; neque uero homo praeter animatum, neque medicus praeter artificium esse potest. Quo fit ut si cum homo est, artifex non est, cum sit animatum, non sit medicus.  Septimae propositionis hi termini sunt, ut a quidem praeter b esse et non esse possit, c autem neque cum d neque cum a esse possit, b etiam cum c simul esse et non esse non possit; ita namque eueniet ut si, posito a esse, b denegetur, negato c termino d sequatur, ut si a quidem sit animatum, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Animatum quidem praeter sanitatem et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum aegro conuenire potest; quo fit ut, si cum animatum est, sanum est, cum non sit inanimatum aegrum sit.  Item octaua propositio his terminis copulanda est, ut a quidem praeter b terminum et esse et non esse possit, c autem cum d non esse possit, /364/ sed a cum c et d praeter b esse non possit. Hoc enim pacto eueniet ut, si a posito b denegetur, denegato c termino d terminus non sit, ut si sit a animatum, b artifex, c inanimatum, d medicus. Animatum enim praeter artificium et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum medico conuenit, medicus uero praeter artificium esse non potest; unde euenit ut, si cum animatum est, non sit artifex, cum non sit inanimatum non sit medicus.  Nona propositio fiet si a quidem atque b simul esse non possint, c uero possit esse praeter d, cum a uero esse non possit. Tunc enim eueniet ut, si a denegato, b esse consequitur, c posito d sequatur, ut si sit a quidem inanimatum, b medicus, c animatum, d artifex. Inanimatum quippe medicus esse non potest, animatum uero potest non esse artifex; inanimatum uero atque animatum simul esse non possunt, quo fit ut si quod non est inanimatum, medicus sit, cum sit animatum sit artifex. Decimam propositionem tales termini copulabunt, ut a quidem praeter b, at uero c praeter d esse possit sed a cum c, et b cum d esse non possit. Ita enim proueniet ut, si negato a esse, b consequatur, posito c termino d non esse necesse sit, ut si sit a inanimatum, b nigrum,c animatum, d album.Inanimatum quippe praeter nigrum, et animatum praeter album esse et non esse possunt; sed inanimatum cum animato, et nigrum cum albo simul esse non possunt. Sed si negatum fuerit inanimatum et consecutum fuerit nigrum, posito animato album esse negabitur. Item undecima propositio ea sit, ut neque a cum b, neque c cum d simul esse pcssit, a uero sine c et b sine d esse non possit. Ita enim si cum a sit negatum, b sequitur, cum c negabitur, d esse necesse est, ut si sit a inanimatum, b medicus, c inuitale, d artifex. Inanimatum quidem medicus esse non potest, quocirca ne inuitale quidem artifex; sed quod inanimatum est non potest non esse inuitale, itemque qui medicus est non potest non esse artifex.  Si igitur inanimatum negetur et medicum esse consequatur, cum negabitur inuitale artifex esse consequitur. Duodecima propositio est quam talibus terminis constare oportebit, ut a quidem praeter b, at uero c praeter d uel esse uel non esse possit, a uero sine c, et b cum d, esse non possint. Ita enim cadet ut si, a negato, b sequitur, c negato d etiam denegetur, ut si fuerit a inanimatum, b album, c inuitale, d nigrum. Inanimatum quidem praeter album, inuitale autem praeter nigrum uel esse uel non esse potest; si tamen inanimatum non sit, et sit album, cum inuitale non sit non erit nigrum.  Tertia decima propositio his terminis connectenda est, ut a quidem prneter b, at uero c praeter d esse possit, a uero atque c, et b atque d ita simul esse non possint, ut si alterum eorum non fuerit, alterum esse necesse sit. Ita namque fiet si cum a negatum sit, b negetur, cum c affirmatum sit d affirmetur, ut si sit a irrationabile, b aegrum, c rationabile, d sanum. Irrationabile /368/ namque praeter aegrum, et rationabile praeter sanitatem esse potest, irrationabile uero atque rationabile, et aegrum atque sanum simul esse non possunt; si tamen alterum eorum non fuerit, alterum esse necesse est. Itaque fit ut si irrationabili denegato aegrum denegetur, rationabili posito sanum ponatur.  Quarta decima propositio his texenda membris est, ut a quidem praeter b, et c praeter d esse possint sed a atque c simul esse non possint, ita ut cum alterum non fuerit alterum esse necesse sit, d uero praeter b esse non possit. Fit igitur ut, si cum sit a denegatum, b denegetur, cum sit c non sit d, ut si sit a inanimatum, b artifex, c animatum, d medicus. Inanimatum quidem praeter artificem, animatum uero praeter medicum esse potest; inanimatum uero cum animato non conuenit, et medicus ab artifice nullo modo separatur; fit igitur ut si, cum non est inanimatum, non sit artifex, cum sit animatum non sit medicus.  Quinta decima propositio hos terminos habere debet, ut a quidem cum c, at uero b cum d esse non possit, b uero atque d talia sint, ut altero eorum negato, alterum eorum esse necesse sit. Ita namque fiet ut si, cum sit a denegatum, b negetur, cum negabitur c aflirmetur d, ut si sit a quidem irrationabile, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Irrationabile quidem si non sit, non est inanimatum; sanum etiam atque aegrum simul esse non possunt, et qui sanum negauerit aegrum necesse est affirmet, itemque e diuerso; est igitur ut, si negato irrationabili negetur sanum, negato inanimato aegrum ponatur.  Sexta decima propositio est quae his terminis constat, ut a quidem praeter c, at uero d praeter b esse non possit, a uero cum b et c cum d esse nullo modo queant. Euenit igitur ut si, a quidem negato, negetur b, denegato c terminus d abnuatur, ut si sit a inanimatum, b artifex, c inuitale, d medicus. Inanimatum igitur praeter inuitale et medicus praeter artificem esse non potest, inanimatum uero cum artifice et inuitale cum medico esse non poterit: si igitur negato inanimato negetur artifex, negato inuitali negatur medicus. Atque haec quidem ratio propositionum, quarum superius exempla descripsimus, idcirco intellegatur assumpta ut earum natura claresceret, non quo aliter inter se termini esse non possint. Nam, ut superius dictum est, non sufficit quolibet modo iungere terminos, ut fiant hypotheticae propositiones ex duabus conditionalibus coniugatae; neque enim si quis dicat: Si cum homo est, animal est, cum dies est, lucet  talem fecerit propositionem quae ex duabus conditionalibus constet, idcirco quia prior conditio non est secundae causa conditionis. Hoc igitur superius positarum propositionum ratio demonstrat, quemadmodum fit ut conditionem conditio consequatur. Quae cum ita sint de earum dicendum est syllogismis. Fit igitur ex prima propositione syllogismus hoc modo:  Si cum est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, erit d.  Vel ita:  Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero hanc esse assumptionem superius descripta propositionum natura demonstrat. Item ex secunda propositione: Si cum est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex tertia: Si cum sit a, est b, cum non sit c, est d; Atqui cum sit a est b; Cum igitur non sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a, non est b. Item ex quarta: Si cum sit a, est b, cum non sit c, non est d; Sed cum sit a, est b;Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex quinta propositione hunt quatuor collectiones: ita namque termini proponuntur, ut utrobique fiat rata conclusio hoc modo: Si cum est a, non est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d  Vel ita:  Atqui cum sit c, non est d;  Cum igitur sit a, est b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex sexta: Si cum est a, non est b, cum sit c non est d. Atqui cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Ex septima item fiunt quatuor syllogismi hoc modo:  Si cum est a, non est b, cum non sit c, est d; Atqui cum est a, non est b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a, est b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex octaua propositione: Si cum est a, non est b, cum non sit  c, non est d. Atqui cum sit a, non est b;  Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Hactenus quidem ex his propositionibus quae a esse proponebant, atque ita caeteros terminos affirmando negandoque uariabant, ostendimus qui fierent syllogismi. Nunc ex his propositionibus quinam syllogismi fiant dicendum est, quae ita caeteros terminos uariant, ut a non esse proponant. Ex nona enim propositione ita fit syllogismus:  Si cum non est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur sit c, est d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur non sit a, non est b.  Item ex decima: Si cum non est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum non est a, est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex undecima: Si cum non est a, est b, cum non sit c, est d. Atqui cum non est a, est b; Cum igitur non sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur non sit a, non est b.  Ex duodecima: Si cum non est a, est b, cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b.  Item ex tertia decima, quae quatuor colligit syllogismos hoc modo: Si cum non est a, non est b, cum sit c, est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur non sit a, est b. Vel ita:  Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex quarta decima: Si cum non est a, non est b, cum sit c, non est d; Atqui cum non est a, non est b; Cum igitur sit c, non est d.  Vel ita:  Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit a, est b. Quinta decima rursus quatuor colligit syllogismos, hoc modo: Si cum non est a, non est b, cum non sit c, est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum non est a, est b; Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur non sit a, est b.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex sexta decima propositione: Si cum non est a, non est b, cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, non est b;  Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a, est b. Ex quibus omnibus quodraginta conclusiones fiunt: sedecim quidem assumpta prima conditione, ita ut in prima propositione est posita; sedecim uero assumpta secunda conditione, contrario modo atque in propositione est collocata; octo uero ex quinta, septima, tertia decima et quinta decima propositionibus fiunt, assumptis primis quidem conditionibus contrario modo atque in propositione proferebantur, secundis uero conditionibus eodem modo assumptis, ut in propositione fuerant collocatae. Ut igitur omnium propositionum conclusionumque ratio clarescat, omnes huiusmodi enuntiationes cum propositis apposuimus exemplis. o Si cum est a homo, est b medicus, cum sit c animatum, est d artifex. o Si cum est a homo, est b niger, cum sit c animatum, non est d albus. o Si cum est a animatum, est b medicus, cum non sit c inanimatum, est d artifex. o Si cum est a homo, est b niger, cum non sit c inanimatum, non est d albus. o Si cum est a homo, non est b aeger, cum sit c animatum, est d  sanus. o Si cum est a homo, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d medicus. o Si cum est a animatum, non est b sanum, cum non sit c inanimatum, est d aegrum. o Si cum est a animatum, non est b artifex, cum non sit c inanimatum, non est d medicus. o Si cum non est a inanimatum, est b medicus, cum sit c animatum, est d artifex. o Si cum non est a inanimatum, est b niger, cum sit c animatum, non est d albus. o Si cum non est a inanimatum, est b medicus, cum non sit c inuitale, est d artifex. o Si cum non est a inanimatum, est b albus, cum non sit c inuitale, non est d nigrum. o Si cum non est a irrationale, non est b aegrum, cum sit c   rationale, est d sanum.  o Si cum non est a inanimatum, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d medicus. o Si cum non est a irrationale, non est b sanum, cum non sit  inanimatum, est d aegrum. o Si cum non est a inanimatum, non est b artifex, cum non sit c inuitale, non est d medicus. Ac de his quidem qui per connexionem fiunt haec dicta sunt. Hi uero qui in disiunctione sunt positi illis uidentur adiuncti, eorumque modos formasque suscipiunt, quos superius in connexione positos ex his propositionibus fieri diximus quae duabus simplicibus iungerentur. Si igitur in disiunctione propositarum propositionum ad eas similitudinem demonstrauerim quae in connexione positae ex simplicibus copulatae sunt, quot modi qualesque conclusiones sunt in unaquaque illarum quae per connexionem fiunt propositionum, tot etiam in his esse necesse est quae per disionctionem pronuntiatae eamdem uim connexioni habere monstrantur. Quatuor ergo superius differentias per connexionem enuntiatarum propositionum esse diximus, si ex simplicibus propositionibus copularentur, hoc modo: Si est a, est b. Si non est a, non est b. Si est a, non est b. Si non est a, est b. Per disiunctionem quoque propositiones quatuor diderentias tenent hoc modo: Aut a est aut b est Aut a non est aut b non est Aut a est aut b non est. Aut a non est aut b est.  Quarum quidem ea quae prima est et proponit aut a esse aut b, in his tantum dici potest in quibus alterum eorum esse necesse est, uelut in contrariis medietate carentibus, similisque est ei propositioni quae dicit: Si a non est, b est.  Quae enim proponit: Aut a est aut b est  id intellegit, neque simul utraque esse posse, et, si unum non fuerit, consequi ut sit alterum. Itaque si non sit a, erit b; sed haec una est earum propositionum quas in his quae per connexionem fiunt superius numerauimus.  Quicumque igitur syllogismi in ea propositione fiunt, quae est: Si a non est, b est  hi etiam in ea faciendi sunt quae per disiunctionem proponitur, cum dicimus: Aut a est aut b est.  Fiunt autem in superiore quatuor modis: quamlibet enim partem propositionis assumpseris, siue praecedentem, siue etiam consequentem, siue negatiuo modo, siue affirmatiuo, faciet sullogismum. Nam si haec propositio sit: Si non est a, est b  siue non sit a, erit b; siue sit a, non erit b; siue non sit b, erit a; siue sit b, non erit a. In propositione quoque disiunctiua idem est. Nam cum dicitur: Aut a est aut b est  siquidem a fuerit, b non erit; quod si a non fuerit, erit b, et si b non sit, erit a: si b fuerit, non erit a. Id quoque tali declaratur exemplo. Nam si sit propositio: Aut aeger est aut sanus  quidquid horum in assumptione assumptum fuerit, uel negatum, altera pars uel affirmabitur, uel negabitur hoc modo: nam si sanus est, non est aeger; si non est sanus, aeger est; si aeger est, non est sanus; si non est aeger, sanus est. Item ea propositio disiunctiua quae proponit: Aut non est a aut non est b  fit quidem de his quae quolibet modo simul esse non possunt, etiamsi non alterum eorum necesse sit esse, similisque est ei propositioni connexae per quam ita proponatur: Si est a, non est b.  Quae enim sic enuntiat: Aut non est a aut non est b  id nimirum sentit, quod si a sit, b esse non possit. Id ita probabitur. Cum enim proponitur hoc modo: Aut non est a aut non est b  tum si assumatur esse a, non erit b. Quocirca ei propositioni connexae similis est quae ita enuntiat: Si sit a non esse b.  In hac uero propositione duae tantum complexiones syllogismos creabant: nam si esset a, non erat b, et si esset b non erat a. Siue autem non esset a, non necesse erat esse uel non esse b; siue non esset b, non necesse erat esse uel non esse a. Quocirca et in disiunctiua propositione totidem syllogismos esse necesse est, totidem uero incollectibiles complexiones; nam cum ita proponitur: Aut non est a aut non est b  ita dicitur: Si sit a, non erit b  et si sit b, non erit a. Siue autem non sit a, non necesse erit esse uel non esse b; siue non sit b, non necesse erit esse uel non esse a, ueluti in his apparet exemplis. Si enim quis dicat: Aut non est album aut non est nigrum  si igitur assumat: Atqui est album  non erit nigrum; uel rursus: Atqui est nigrum  non erit album. Siue autem album non esse assumpserit, non necesse erit esse uel non esse nigrum; siue nigrum non esse assumpserit, ut sit uel non sit album nullam faciet necessitatem. Item ea propositio per quam ita proponitur: Aut est a aut non est b  dicitur quidem de sibimet adhaerentibus, proponiturque in his propositionibus quae ad minora de maioribus tendunt, similisque est ei propositioni connexae quae enuntiat: Si non est a, non est b. Nam qui dicit: Aut est a aut non est b  si assumat: Atqui non est a  modis omnibus non erit b; si igitur non sit a, non erit b. Id enim haec disiunctio praemittebat. In hac uero siquidem a negaretur, uel confirmaretur b, habet aliquis syllogismus; siue autem a affirmaretur, siue b negaretur, nulla erat in conclusione necessitas. Idem prouenit in disiunctis: nam cum proponitur: Aut est a aut non est b  siquidem non sit a, non erit b; si uero sit b, erit a: quod si sit a, uel non sit b, nihil est necessarium.  Id uero in his terminis approbatur, si quis ita proponat: Aut animal est aut non est homo  si igitur animal non sit, non est homo; si homo sit, animal est; siue autem animal sit, non necesse est esse hominem, siue homo non sit, animal non necesse est interire. Ea uero propositio quae dicit:  Aut non est a aut est b  in his quae sibi adhaerent proponi potest, et a minoribus ad maiora contendit sed est similis ei propositioni connexae quae dicit: si est a, est b.  Nam cum ita quis enuntiat, siquidem assumat esse a, statim consequitur ut sit b; sed in hac propositione, siquidem affirmaretur esse a, sequebatur ut esset b. Quod si negaretur b, sequebatur ut non esset a; siue autem negaretur a, siue affirmaretur b, nihil necessarium uidebatur accidere. Et in ea igitur propositione disiuncta quae dicit: Aut non est a aut est b  siquidem fuerit a, erit b; si non fuerit b, non erit a: siue autem non sit a, siue sit b, nulla est necessitas syllogismi, ut in hoc declaratur exemplo: Aut non est homo aut animal est.  Si igitur assumamus: Atqui est homo  erit animal; si negemus esse animal, non erit homo; si autem hominem negemus, uel animal affirmemus, nihil necessarium cadit. Quocirca ex his quae superius dicta sunt declaratur quot disiunctarum propositionum syllogismi sint, uel quibus ab his quae connexae sunt differentiis segregentur. Quae enim connexae sunt quandam in eo quod est esse uel non esse consequentiam monstrant; quae uero secundum disiunctionem proponuntur ita sunt, ut sibimet consentire non possint.  Inuenias quoque per connexionem propositiones, quae id intellegi uelint, ut a se nequeant separari, ut cum ita proponimus: Si est a, est b.  Id nimirum haec propositio intellegit, quod si esse in disiunctione sunt ita proponitur, ut simul esse uideantur. Cum enim dicimus: Aut a est aut b est  aut easdem propositiones quolibet modo alio uariamus, id et coniunctio quae disiunctiua ponitur sentit simul eas esse non posse. Et cum late earum pateat differentia, idcirco nunc de eisdem pauca subiunximus, quoniam totidem syllogismos fieri dicebamus in his propositionibus quae per disiunctionem fierent, quot etiam fuerant /390/ in connexis; et quoniam de omnibus qui quoquo modo fieri possunt hypotheticis syllogismis sufficienter dictum est, hic operis longitudinem terminemus.  Quam magnos studiosis afferat fructus scientia dividendi quamque apud peripateticam disciplinam semper haec fuerit in honore notitia, docet et Andronici, diligentissimi senis de divisione liber editus[;]et hic idem a Plotino gravissimo philosopho comprobatus et in libri Platonis, qui Sophistes inscribitur commentariis a Porphyrio repetitus, et ab eodem per hanc introductionis laudata in Categorias utilitas. Dicit enim necessarium fore generis, speciei, differentiae, proprii, accidentisque peritiam, tum propter alia multa tum propter utilitatem quae est maxima partiendi. Quare, quoniam maximus usus est facillimaque doctrina, ego id quoque sicut pleraque omnia Romanis auribus tradens, introductionis modo habitaque in eandem rem et competenti subtilique tractatione et moderata brevitate perscripsi, ut nec anxietas decisae orationis et non perfectae sententiae legentium ƿ mentibus ingeratur; nec pPomba supervacuam loquacitatem harum rerum inexperiens, rudis, insolensque novi audientium mentes habere aequum, nec ullus livor id quod et arduum natura est et ignotum nostris, nobis autem magno et labore et legentium utilitate digestum, obliquis morsibus obtrectationis obfuscet, denique potius viam studiis, nunc ignoscendo nunc etiam comprobando, quam frena bonis artibus stringant, dum quicquid novum est imprudenti obstinatione repudiant. Quis enim non videat plurimum ad bonarum artium valere defectum si apud mentes hominum numquam sit desperatio displicendi? Sed haec hactenus. Nunc divisionis ipsius nomen dividendum est et secundum unumquodque divisionis vocabulum uniuscuiusque propositi proprietas partesque tractandae sunt, divisio namque multis modis dicitur. Est enim divisio generis in species, est rursus divisio cum totum in proprias distribuitur partes, est alia cum vox multa significans in significationes proprias recipit sectionem. Praeter has autem tres est alia divisio quae secundum accidens fieri dicitur. Huius triplex modus est: unus cum subiectum in accidentia separamus, alius cum accidens in subiecta dividimus, tertius cum accidens in accidentia secamus (hoc ita fit si utraque eidem subiecto inesse videantur). Sed harum omnium exempla subdenda sunt quatenus totius huius ratio divisionis eluceat. Genus dividimus in species cum dicimus "animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; rationabilium alia mortalia, alia immortalia" vel cum dicimus "coloris alia quidem sunt alba, alia nigra, alia media". Oportet autem omnem generis in species divisionem aut in duas fieri partes aut in plures, sed neque infinitae species esse possunt generis nec minus duabus. Hoc autem cur eveniat posterius demonstrandum est. Totum in partes divididur quotiens in ea ex quibus est compositum unumquodque resolvimus, ut cum dico domus aliud esse tectum, aliud parietes, aliud fundamenta, et hominem anima coniungi et corpore, cumque hominis dicimus partes esse Catonem, Virgilium, Ciceronem et singulos qui, cum particulares sint, vim tamen totius hominis iungunt atque componunt; neque enim homo genus, nec singuli homines species, sed partes quibus totus homo coniungitur. Vocis autem in significationes proprias divisio fit quotiens una vox multa significans aperitur et eius pluralitas significationis ostenditur, ut cum dico "canis" quod est nomen et hunc quadrupedem latrantemque designat et caelestum qui ad Orionis pedem morbidum micat; est quoque alius, marinus canis, qui in immoderatam corporis magnitudinem crescens caeruleus appellatur. Sed huius divisionis duplex modus est, aut enim unum nomen multa significat aut oratio iam verbis nominibusque composita. Et nomen quidem multa significat ut id quod supra proposui, oratio vero multa designat ut est: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse. Et nominis quidem per significationes proprias divisio aequivocationis partitio nuncupatur, orationis vero in significationes proprias distributio ambiguitatis discretio est, quam Graeci amphiboliam dicunt, ita ut nomen multa significans aequivocum, oratio vero multa designans amphibola atque ambigua praedicetur. Eorum autem quae secundum accidens dividuntur subiecti in accidentia divisio est ut cum dicimus "omnium hominum alii sunt nigri, alii candidi, alii medii coloris", haec enim accidentia sunt hominibus, non hominum species, et homo his subiectum, non horum genus est. Accidentis vero in subiecta sectio evenit ut est "omnium quae expetuntur alia in anima, alia in corporibus sita sunt", animae namque atque corpori id quod expetitur accidens, non genus, est, et boni quod in anima et corpore situm est non sunt haec species sed subiecta. Accidentis vero in accidentia divisio est ut "omnium candidorum alia sunt dura", ut margarita, "alia liquentia", ut lac, liquor namque et albedo atque durities haec sunt accidentia, sed album in dura et liquida separatum est. Cum ergo sic dicimus, accidens in alia accidentia separamus. Sed huiusmodi divisio vicissim semper in alterutra permutatur, possumus enim dicere "eorum quae dura sunt alia sunt nigra, alia alba" et rursus "eorum quae liquida alia sunt alba, alia nigra"; sed haec rursus conversa dividimus: "eorum quae sunt nigra alia sunt dura, alia liquentia". Differt autem huiusmodi divisio omnibus quae supra sunt dictae, nam neque significationem partiri possumus in voces, cum vox in significationes proprias discernatur, nec partes in totum dividuntur, quamvis totum separetur in partes, nec species secatur in genera, licet genus in species dividatur. Quod vero superius dictum est, hanc divisionem ita fieri si utraque eidem contingerent inesse subiecto, si attentius perspicitur liquet, nam cum dicimus eorum quae dura sunt alia esse alba, alia nigra, ut est lapis atque hebenum, manifestum est hebeno utraque inesse, et duritiem scilicet et nigredinem. In caeteris quoque id diligens lector inveniet. Quibus autem summa operatio veritatis inquiritur, his prius intelligendum est quae sit horum omnium simul proprietas quibusque inter se singillatim differentiis segregentur. Omnis enim vocis et generis totiusque divisio secundum se divisio nuncupatur, reliquae vero tres in accidentis distributione ponuntur. Secundum se autem divisionis huiusmodi differentia est. Differt enim divisio generis a vocis divisione quod vox quidem in proprias semper significationes separatur, ƿ genus non in significationes sed in quadam a se quodammodo creatione disiungitur, et genus semper speciei propriae totum est et universalius in natura, aequivocatio vero universalior quidem significata re dicitur, tantum voce non etiam totum est in natura. Illo quoque a vocis distributione dividitur, quod nihil habent commune praeter solum nomen quae sub ea voce sunt, quae vero sub genere collocantur et nomen generis et definitionem suscipiunt. Amplius quoque non eadem apud omnes vocis est distributio: quod apud nos dicitur canis cum eius multae significationes in lingua Romana sint simpliciter fortasse praedicatur in barbara, cum ea quae apud nos uno nomine nuncupantur illi pluribus fortasse significent. Generis vero apud omnes eadem divisio distributioque permanet, unde fit ut vocis quidem divisio ad positionem consuetudinemque pertineat, generis ad naturam, nam quod apud omnes idem est natura est, consuetudinis vero est quod apud aliquos permutatur. Et hae quidem sunt differentiae generis distributionis et vocis. Generis quoque sectio totius distributione seiungitur quod totius divisio secundum quantitatem fit, partes enim totam substantiam coniungentes actu aut ratione animi et cogitatione separantur, generis vero distributio qualitate perficitur. Nam cum hominem sub animali locavero tunc qualitate divisio facta est, quale namque animal est homo idcirco quoniam quadam qualitate formatur, unde quale sit animal homo interrogatus aut "rationale" respondebit aut certe "mortale". Amplius {quoque} genus omne naturaliter prius est propriis speciebus, totum autem partibus propriis posterius; partes sunt quae totum iungunt, compositi sui perfectionem alias natura tantum, alias ratione quoque temporis antecedunt, unde fit ut genus in posteriora, totum vero in priora solvamus. Hinc quoque illud vere dicitur: si genus interimatur statim species deperire, si species ƿ interempta sit non peremptum genus in natura consistere. Contra evenit in toto, nam si pars totius perit totum non erit, cuius pars una sit interempta; sin totum pereat partes permanent distributae, ut si de integra domo quis abstulerit tectum, totum quod ante fuit intercipit, sed pereunte toto parietes et fundamenta constabunt. Amplius quoque genus speciebus materia est, nam sicut aes accepta forma transit in statuam ita genus accepta differentia transit in speciem; totius vero partium multitudo materia est, forma vero earundem partium compositio. Nam sicut species ex genere constat et differentia, ita totum constat ex partibus, unde fit ut totum ab unaquaque parte sua partium ipsarum compositione differat, species vero a genere differentiae coniunctione. Amplius quoque species idem semper quod genus est, ut homo idem est quod animal et virtus idem est quod habitus, partes vero non semper idem quod totum, neque enim manus idem est quod homo nec idem paries quod domus. Et in his quidem quae dissimiles partes habent hoc clarum est, sed non eodem modo in his quae similes, ut in aeris virgula cuius partes, quia sunt continuae quia eiusdem sunt aeris, videntur idem esse quod totum est, sed falso; fortasse enim idem sint partes huiusmodi substantia, non etiam quantitate. Restat autem vocis et totius distributionis differentias dare. Differunt autem quod totum quidem constat partibus, vox vero non constat ex his quae significat; et fit totius quidem divisio in partes, vocis autem fit non in partes sed in eas res quas vox ipsa significat, unde fit ut sublata parte una totum pereat, sublata una re quam vox significat multa designans vox illa permaneat. Nunc ergo quoniam secundum se divisionis differentiae dictae sunt generis distributio pertractetur. Primum quid genus sit definiendum est: genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod ƿ quid sit praedicatur, species vero est quam sub genere collocamus, differentia qua aliud ab alio distare proponimus. Et est quidem genus quod interroganti quid quaeque res sit convenit responderi, differentia quae ad qualis percontationem rectissime respondetur; nam cum quis interrogatur "Quid est homo?" recte "Animal", "Qualis est homo?" convenienter "Rationabilis", respondetur. Dividitur autem genus alias in species, alias in differentias si species quibus genus oportet dividi nominibus carent, ut cum dico "animalium alia rationabilia sunt, alia irrationabilia" rationabile et irrationabile differentiae sunt. Sed quoniam speciei huius quae est animal rationabile nomen unum non est, idcirco pro specie differentiam ponimus eamque superiori generi copulamus, omnis enim differentia in genus proprium veniens speciem facit, unde fit ut materia quaedam genus sit, forma differentia, cum autem propriis nominibus species appellantur, non in differentias generis fit recta divisio. Unde est ut ex pluribus terminis definitio colligatur. Si enim omnes species suis nominibus appellarentur ex duobus solis terminis omnis fieret definitio; ut cum dico "Quid est homo?" quid mihi necesse esset dicere "Animal rationale mortale" si animal rationale esset nomine proprio nuncupatum, quod cum reliqua differentia, id est mortali, iunctum definitionem hominis verissima ratione et integra conclusione perficeret? Nunc autem ad definitiones integras specierum divisio necessaria est et forte in eodem divisionis definitionisque ratio versetur, nam divisionibus iunctis una componitur definitio. Sed quoniam alia sunt aequivoca, alia univoca, et quae sunt univoca ipsa in generum suscipimus sectiones, quae vero sunt aequivoca in his divisio sola significationis est, videndum prius est quid sit univocum quid aequivocum ne, cum ista fefellerint, aequivocum nomen quasi in species ita in significativas ƿ resolvamus. Unde fit ut rursus ad divisionem necessaria sit definitio, quid enim sit aequivocum quid univocum definitione colligimus. Sunt autem differentiae aliae per se, aliae vero per accidens, et harum aliae sunt consequentes, aliae statim relinquentes. Statim relinquentes sunt huiusmodi, dormire vel sedere vel stare vel vigilare, consequentes vero ut capilli crispi (si non amissi sint) et glauci oculi (si non sint quadam extrinsecus debilitate turbati). Sed haec ad generis divisionem sumenda non sunt, neque enim ad definitionem sunt commoda; omne enim quicquid ad divisionem generis aptum est idem ad definitiones rectissime congregamus, illa vero quae per se sunt sola ad divisionem generis apta sunt, haec autem informant perficiuntque uniuscuiusque substantiam, ut hominis rationabilitas et mortalitas. Sed has quemadmodum probare possimus utrum ex eo sint genere statim relinquentium an consequentium an in substantia permanentium hoc modo mihi videndum est, neque enim sufficit scire quas in divisione sumamus nisi illud quoque sit cognitum, quemadmodum easdem ipsas quae sumendae et quae reiciendae sunt rectissime cognoscamus. Videndum ergo primum est utrum proposita differentia omni possit et semper inesse subiecto; quod si ipsa vel actu vel ratione seiungitur, haec a divisione generis separanda est. Si enim saepe et actu et ratione seiungitur, ex eorum est genere quae statim relinquunt, ut sedere quidem frequentius separatur et actu ipso a subiecto dividitur. Quae vero ratione sola a subiecto dividuntur ea sunt consequentium differentiarum, ut glaucis oculis esse a subiecto ratione seiungimus, ut cum dico "Est animal luminibus glaucis, ut quilibet homo", quod si hic non esset huiusmodi non eum ƿ res aliqua esse hominem prohiberet. Aliud rursus est quod ratione separari non possit, quod si separatum sit species interimatur, ut cum dicimus inesse homini ut solus numerare possit vel geometriam discere. Quod si haec possibilitas ab homine seiungatur, homo ipse non permanet; sed haec non statim earum sunt quae in substantia insunt, nam non idcirco homo est quoniam haec facere potest, sed quoniam rationalis est atque mortalis. Hae igitur differentiae propter quas species consistit ipsae et in definitione speciei et in generis eius divisione quod continet speciem collocantur. Et universaliter dicendum est, quaecumque differentiae huiusmodi sunt ut non modo praeter eas species esse non possit sed propter eas solas sit, hae vel in divisione generis vel in speciei definitione sumendae sunt. Quoniam vero quaedam sunt quae differunt quae contra se in divisionibus poni non debent, ut in animali rationale et bipes (nullus enim dicit "Animalium alia sunt rationabilia, alia duos pedes habentia" idcirco quod rationale et bipes, licet differant, nulla a se oppositione disiunguntur), constat quaecumque a se aliqua oppositione differunt eas solas differentias sub genere positas genus ipsum posse disiungere. Sunt autem oppositiones quatuor: aut ut contraria, ut bonum malo, aut ut habitus et privatio, ut visus et caecitas, quamquam sint et quaedam res in quibus discernere difficultas sit utrum in contrariis an in privatione vel habitu ea oporteat collocari, ut sunt motus quies, sanitas aegritudo, vigilatio somnus, lux tenebrae -- sed haec alias, nunc autem de reliquis oppositionibus dicendum est. Tertia oppositio est quae est secundum affirmationem et negationem, ut: “Socrates vivit”, “Socrates non vivit.” Quarta secundum relationem, ut pater filius, dominus servus. Secundum quas igitur harum quattuor oppositionum ƿ divisio generis sit rectissima ratione monstrandum est, manifestum est enim et oppositiones esse quattuor et species et genera per opposita separari. Nunc ergo dicendum est secundum quam oppositionem harum quattuor vel quemadmodum species a genere disiungi conveniat. Et prima quidem sit contradictionis oppositio, voco autem contradictionis oppositionem quae affirmatione et negatione proponitur. In hac igitur negatio per se nullam speciem facit, nam cum dico "homo" vel "equus", et aliquid huiusmodi, species sunt, quicquid autem quis in negatione protulerit speciem non declarat, non esse enim hominem non est species. Omnis enim species esse constituit, negatio vero quicquid proponit ab eo quod est esse disiungit, ut cum dico "homo" quasi si sit quiddam locutus sum, cum vero "non homo" substantiam hominis negatione destruxi. Sic igitur per se caret divisio generis in species negatione. Necesse est autem saepe speciem negatione componere cum ea quam simplici nomine speciem volumus assignare nullo vocabulo nuncupatur, ut cum dico "Imparium numerorum alii primi", ut tres, quinque, vel septem, "alii non primi", ut novem, et rursus "Figurarum aliae sunt rectilineae, aliae non rectilineae" et "Colorum alii sunt albi, alii nigri, alii nec albi nec nigri". Ergo quando nomen unum speciebus positum non est, eas negatione proferre necesse est. Hoc igitur cogit interdum necessitas, non natura. In eodem quoque quotiens negatione facimus sectionem prius aut affirmatio aut simplex dicendum est nomen, ut est "Numerorum alii sunt primi, alii non primi", nam si prius negatio dicta sit, tardior fit rei quam proponimus intellectus. Nam cum primum dicis esse aliquos numeros primos, cum quales sint primi exemplo vel definitione docueris, quales non sint primi mox auditor intelliget. Sin vero e contrario feceris, aut neutra subito aut tardius utraque cognoscet, divisio vero quae propter apertissimam generis naturam reperta est debet potius ad intelligibiliora deducere. Amplius quoque prior affirmatio est, posterior negatio, quod autem primum ƿ est in divisione quoque oportet primitus ordinari. Necesse est quoque semper finita infinitis esse priora, ut aequale inaequali, virtutem vitiis, certum incerto, stabile fixumque mutabili. Sed omnia quae aut definita parte orationis aut affirmatione proferuntur plus finita sunt quam aut nomen cum particula negativa aut tota negatio, quare finito potius quam infinito est facienda divisio. Sed si cui per haec quaedam paratur anxietas aut obscuriora sunt fortasse quam ipse desiderat, nihil ad me cognitionem facilem pollicentem, neque enim rudibus haec totius artis sed imbutis et ulteriore paene loco progressis legenda et discenda proponimus. Qui vero huius operis ordo sit cum De ordine Peripateticae disciplinae mihi dicendum esset diligenter exposui. Haec quidem dicta sunt de oppositione quam affirmatio negatioque constituit, illa vero quae secundum habitum privationemque fit ipsa quoque superiori videtur esse consimilis. Negat enim quodammodo privatio habitum, sed differt quod semper quidem potest esse negatio, privatio vero non semper, sed tunc quando habitum habere possibile est (hoc vero nos iam Praedicamenta docuerunt). Quare forma quaedam intelligitur esse privatio, non enim tantum privat sed etiam circa se ipsam privatum quemque disponit. Neque enim solum oculum caecitas privat lumine sed ipsa quoque secundum se privatum luce disponit, caecus enim dicitur ad privationem quodammodo quasi dispositus et affectus (hoc quoque Aristoteles testatur, in Physicis). Unde fit ut privationis differentia ad generum divisionem frequenter utamur. Sed hic quoque eodem modo sicut in contradictione faciendum est, prius enim ponendus est habitus, qui est affirmationi consimilis, post privatio, quae negationi. Aliquotiens tamen privationes quaedam habitus vocabulo proferuntur, ut "orbus", "caecus", "uiduus", aliquotiens cum particula privationis, ut cum dicimus "finitum" et "infinitum", "aequum" et "inaequale", sed in his "aequum" et "finitum" in divisione prima ponenda sunt, privationes secundae. Ac de oppositione quidem privationis et habitus haec dicta sufficiant. Contrariorum vero oppositio dubitatur fortasse an secundum ƿ privationem et habitum esse videatur, ut album et nigrum, an album quidem privatio nigri sit, nigrum vero albi -- sed haec alias, nunc autem ita tractandum est tamquam si sit aliud oppositionis genus, sicut est in Praedicamentis ab ipso quoque Aristotele dispositum. In contrariis autem generum multa divisio est, fere enim cunctas differentias in contraria ducimus, sed quoniam contraria sunt alia medio carentia, alia mediata, ita quoque divisio facienda est, ut "Colorum alia sunt alba, alia nigra, alia neutra". Fieret autem omnis definitio omnisque divisio duobus terminis praedicatis nisi, ut supra iam dictum est, indigentia (quae saepe existit) in nomine prohiberet. Quo autem modo utraeque duobus terminis fierent erit manifestum hoc modo. Cum enim dico "Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia" animal rationale ad hominis definitionem contendit, sed quoniam animalis rationalis unum nomen non est ponamus ei nomen a litteram: "rursus a litterae", quod est animal rationale, "alia sunt mortalia, alia immortalia". Volentes igitur definitionem hominis reddere dicemus: “Homo est a littera mortalis” nam si hominis definitio est animal rationale mortale, animal vero rationale per a litteram significatur, idem sentit "a mortale" tanquam si diceretur "animal rationale mortale", a enim, ut dictum est, animal rationale significat. Sic ergo a littera et mortali, duobus terminis, facta definitio est; quod si reperirentur in omnibus quoque nomina, duobus semper terminis tota definitio constitueretur. Divisio vero nominibus positis quoniam semper in duos terminos secatur manifestum est si quis generi et differentiae cum deest nomen imponat, ut cum dicimus: "Figurarum quae sunt trilaterae aliae sunt aequilaterae, aliae duo latera habentes aequa, aliae totae inaequales". Trina igitur ista divisio si sic proferretur fieret duplex: "Figurarum quae trilaterae ƿ sunt aliae sunt aequales, aliae inaequales; inaequalium aliae sunt duo latera tantum aequa habentes, aliae tria inaequalia", id est omnia; et cum dicimus "Rerum omnium alia sunt bona, alia mala, alia indifferentia", quae nec bona scilicet nec mala, si ita diceretur gemina divisio proveniret: "Rerum omnium alia sunt differentia, alia indifferentia; differentium alia sunt bona, alia mala". Ita ergo divisio omnis in gemina secaretur si speciebus et differentiis vocabula non deessent. Quartam vero oppositionem diximus quae est secundum ad aliquid, ut pater filius, dominus servus, duplex medium, sensibile sensus. Haec igitur nullam habent substantialem differentiam qua a se discrepent, immo potius habent huiusmodi cognationem qua ad se inuicem referantur ac sine se esse non possint. Non est ergo generis in relativas partes facienda divisio, sed tota huiusmodi sectio a genere separanda est, neque enim hominis species est servus aut dominus nec numeri medium aut duplum. Cum igitur quattuor sint differentiae, affirmationis et negationis si non necesse est semper tamen relationis reicienda divisio est, privationis et habitus et contrariorum sumendae. Maxime autem contrarietas in differentiis ponenda est nec non etiam privatio, idcirco quoniam contra habitum quiddam contrarium videtur apponere, ut est finitum et intinitum; quanquam enim sit privatio, infinitum tamen contrarii imaginatione formatur, est quaedam namque, ut dictum est, forma. Dignum vero inquisitu est utrum in species an in differentias recte genera dividantur, definitio namque divisionis est generis in species proximas distributio. Oportet igitur secundum naturam divisionis et secundum definitionem in proprias species semper fieri generis disgregationem (sed hoc interdum fieri nequit propter eam quam supra reddidimus causam, multis enim speciebus non sunt nomina) atque ideo, quoniam quaedam sunt prima genera, quaedam ultima, quaedam media: primum quidem ut substantia, ultimum ut animal, medium ƿ ut corpus, corpus namque animalis genus est, substantia corporis, sed neque super substantiam quicquam inveniri potest quod generis loco valeat collocari neque sub animali, homo namque species, non genus, est. Quare antiquior videbitur speciei divisio si non sit indigentia nominum, quod si his omnibus non abundamus, prima genera usque ad ultima convenit in differentias separare. Hoc autem fit hoc modo, ut primum genus in suas differentias disgregemus non in posteriores, et posterius rursus in suas sed non in posteriores. Neque enim eaedem sunt differentiae corporis quae animalis, si quis enim dicat "Substantiae aliud est corporale, aliud incorporale" recte divisionem fecerit, hae namque differentiae propriae substantiae sunt; si quis vero sic, "Substantiarum alia sunt animata, alia inanimata", hic non recte substantiae differentias disgregavit, corporis namque differentiae sunt, non substantiae, id est secundi generis non primi. Quare manifestum est secundum proprias differentias, non secundum posterioris generis, priorum generum divisionem esse faciendam. Quotiens autem genus aut in differentias aut in species solvitur, post divisionem factam mox definitiones aut exempla subdenda sunt, sed si quis definitionibus non abundet satis est exempla subicere, ut cum dicimus "Corporum alia sunt animata" subiciamus "ut homines vel ferae; alia inanimata, ut lapides". Oportet autem divisionem quoque, sicut terminum neque diminutam esse, neque superfluam, nam neque plures species quam sub genere sunt oportet apponi nec pauciores, ut in se ipsa divisio sicut terminus convertatur. Convertitur enim terminus sic: "Virtus est mentis habitus optimus", rursus "Habitus mentis optimus virtus est". Sic etiam divisio: "Omne genus aliquid eorum erit quae sunt species", rursus "quaelibet species proprium genus est". Fit autem generis eiusdem multipliciter divisio, ut omnium corporum et quaecumque alicuius sunt magnitudinis. Sicut enim circulum in semicirculos et in eos quos Graeci *tomeas* vocant (nos divisiones possumus dicere) distribuimus, et tetragonum alias ducto per angulum ƿ diametro in triangula, alias in parallelogrammata, alias in tetragona separamus, ita quoque genus, ut cum dicimus "Numerorum alii sunt pares, alii impares" et rursus "alii primi, alii non primi", et "Triangulorum alia sunt aequilatera, alia duo sola latera aequa habentia, alia totis inaequalia lateribus" et rursus "Triangulorum alia sunt rectiangula, alia acutos habentia tres angulos, alia obtusum". Sic igitur generis unius fit divisio multiplex. Illud autem scire perutile est, quoniam genus una quodammodo multarum specierum similitudo est quae earum omnium substantialem convenientiam monstret, atque ideo collectivum plurimarum specierum genus est, disiunctivae vero unius generis species. Quae quoniam differentiis informantur, ut dictum est, idcirco sub uno genere minus duabus speciebus esse non possunt, omnis enim differentia in discrepantium pluralitate constat. Sed de divisione generis et speciei perplura dicta sunt. Hanc igitur insistentibus viam promptior per divisionem generis ad speciei definitionem facultas aperitur, oportet autem non solum quas ad definitionem sumamus differentias addiscere, sed ipsius quoque definitionis artem diligentissima cognitione complecti. Et illud quidem, an ulla possit definitio demonstrari et quemadmodum per demonstrationem valeat inveniri, et quaecumque de ea subtilius in postremis Analyticis ab Aristotele tractata sunt, praetermittam, solam tantum exsequar regulam definiendi. Rerum enim aliae sunt superiores, aliae inferiores, aliae mediae. Superiores quidem definitio nulla complectitur idcirco quod earum superiora genera inveniri non possunt; porro autem inferiores, quae sunt individua, specificis differentiis carent, quocirca ipsae quoque a definitione seclusae sunt; mediae igitur quae et habent genera et de aliis vel ƿ de generibus vel de speciebus vel individuis praedicantur sub definitionem cadere possunt. Data igitur huiusmodi specie quae et genus habeat et de posteriori praedicetur, primo eius sumo genus et illius generis diffferentias divido; et adiungo differentiam generi, et video num illa differentia iuncta cum genere aequalis possit esse cum ea specie quam circumscribendam definitione suscepi. Quod si minor fuerit species, illam differentiam rursus quam dudum cum genere posueramus quasi genus ponimus eamque in alias suas differentias separamus, et rursus has duas differentias superiori generi coniungimus, et, si aequavit speciem, definitio speciei esse dicetur, sin minus, secundam differentiam rursus in alia separamus. Quas omnes coniungimus cum genere et rursus speculamur si omnes differentiae cum genere illi aequales sunt speciei quae definitur. Et postremo totiens differentias differentiis distribuimus usque dum omnes iunctae generi speciem aequali definitione describant. Huius autem rei clariorem facient exempla notitiam hoc modo. Sit nobis propositum quod definire velimus "nomen". Vocabulum ergo nominis de pluribus nominibus praedicatur et est quodammodo species sub se continens individua. Definio ergo nomen sic. Sumo eius genus quod est vox et divido: "Vocum aliae sunt significativae, aliae vero minime". Vox autem non significativa nihil ad nomen, etenim nomen significat; sumo ergo differentiam quae est significativa et iungo cum genere, id est cum voce, et facio "uox significativa" et tunc respicio utrum genus hoc et differentia nomini sint aequalia. Sed nondum aequalia sunt, potest enim et vox significativa esse et nomen non esse, sunt enim quaedam voces quae dolorem designant, aliae quae animi passiones naturaliter quae nomina non sunt, ut interiectiones. Rursus ipsam vocum significantiam in alias differentias divido: "Vocum significativarum aliae sunt secundum positionem, aliae ƿ sunt naturaliter", et vox quidem significans naturaliter nihil ad nomen, vox vero significans positione hominum nomini congruit. Quocirca duas has differentias significativam et secundum positionem, iungo cum voce, id est cum genere, et dico: "Nomen est vox significativa secundum placitum". Sed rursus mihi non aequatur ad nomen, sunt namque et verba voces significativae et secundum positionem; non igitur solius nominis definitio est. Distribuo iterum differentiam quae est secundum positionem et dico "Secundum positionem vocum significativarum aliae sunt cum tempore, aliae sine tempore", et differentia quidem cum tempore nomini non iungitur idcirco quod verborum est consignificare tempora, nominum vero minime; restat ergo ut congruat illa differentia quae est sine tempore. Iungo igitur has tres differentias generi et dico: "Nomen est vox significativa ad placitum sine tempore". Sed rursus mihi non plena conclusio definitionis occurrit, potest enim vox et significativa et secundum positionem et sine tempore esse et nomen non esse unum sed nomina iuncta, quae est oratio, ut: “Socrates cum Platone et discipulis”, sed quamquam imperfecta quidem haec sit oratio, tamen est oratio. Quocirca ultima differentia quae est sine tempore aliis item differentiis dividenda est, et dicemus: "Vocum significativarum secundum positionem sine tempore aliae sunt quarum pars extra aliquid significat", hoc pertinet ad orationem, "aliae quarum pars extra nihil significat", hoc pertinet ad nomen, nominis enim pars nihil extra designat. Fit ergo definitio sic: "Nomen est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars extra significativa est separata". Videsne igitur quam recta definitio constituta sit? Nam quod dixi "uocem" a caeteris sonis nomen disiunxi, quod "significativam" apposui nomen a non significativis vocibus separavi, quod "secundum placitum" et "sine tempore" a naturaliter significantibus vocibus et a verbis proprietas nominis distributa est, quod eius partes extra nihil significare proposui ab oratione distinxi, cuius partes aliquid separatae extra significant. Unde fit ut quodcumque nomen fuerit illa definitione claudatur et ubicumque haec ratio definitionis aptabitur illud nomen esse non dubitem. Illud quoque dicendum est, quod genus in divisione totum est, in definitione pars, et sic est definitio quasi quaedam partes totum coniungant, sic est divisio quasi totum solvatur in partes, et est similis divisio generis totius divisioni, definitio totius compositioni. Namque in divisione generis animal totum est hominis, intra se enim complectitur hominem, in definitione vero pars est, specie namque genus cum aliis differentiis iunctum componit, ut cum dico "Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia" et rursus "Rationabilium alia sunt mortalia, alia immortalia", animal rationalis totum est et rursus rationale mortalis, et haec tria hominis. Si vero in definitione dicam: “Homo est animal rationale mortale”tria haec unum hominem iungunt, quocirca pars ipsius et genus et differentia reperitur. Sic igitur in divisione genus totum est, species pars, eodem quoque modo differentiae totum, partes in quas illae dividuntur. In definitione vero et genus et differentiae partes sunt, definita vero species totum. Sed haec hactenus. Nunc de ea divisione dicemus quae est totius in partes, haec enim erat secunda divisio post generis divisionem. Quod enim dicimus totum multipliciter significamus: totum namque est quod continuum est, ut corpus vel linea vel aliquid huiusmodi; dicimus quoque totum quod continuum non est, ut totum gregem vel totum populum vel totum exercitum; dicimus quoque totum quod universale est, ut hominem vel equum, hi enim toti sunt suarum partium, id est hominum vel equorum, unde et particularem unumquemque hominem dicimus; dicitur quoque totum quod ex quibusdam virtutibus constat, ut animae alia potentia est sapiendi, alia sentiendi, alia uegetandi. Tot igitur modis cum totum dicatur, facienda totius divisio est - primo quidem, si continuum fuerit, in eas partes ex quibus ipsum ƿ totum constare perspicitur, aliter enim divisio non fit. Hominis enim corpus in partes suas divideres, in caput, manus, thoracem, pedes, et si quo alio modo secundum proprias partes fit recta divisio. Quorum autem multiplex est compositio multiplex etiam divisio, ut animal separatur quidem in partes eas quae sibi similes habent partes, in carnes, et ossa, rursus in eas quae sibi similes non habent partes, in manus, in pedes, eodem quoque modo et navis et domus. Librum quoque in versus atque hos in sermones, hos autem in syllabas, syllabas in litteras solvimus, ita fit ut litterae et syllabae et nomina et versus partes quaedam totius libri esse videantur, alio tamen modo acceptae non partes totius sed partes partium sint. Oportet autem non omnia speculari quasi actu dividantur sed quasi animo et ratione, ut vinum aquae mixtum dividimus in vina aquae mixta, hoc actu, dividimus etiam in vinum et aquam ex quibus mixtum est, hoc ratione, haec enim iam mixta separari non possunt. Fit autem totius divisio et in materiam atque formam, aliter enim constat statua ex partibus suis, aliter ex materia atque forma, id est ex aere et specie. Similiter etiam illa tota dividenda sunt quae continua non sunt eodem quoque modo et ea quae sunt universalia, ut "Hominum alii sunt in Europa, alii in Asia, alii in Africa". Eius quoque totius quod ex virtutibus constat hoc modo facienda est divisio: "Animae alia pars est in virgultis, alia in animalibus" et rursus "eius quae est in animalibus alia rationalis, alia sensibilis est" et rursus haec aliis sub divisionibus dissipantur. Sed non est anima horum genus sed totum, partes enim hae animae sunt, sed non ut in quantitate, sed ut in aliqua potestate atque virtute, ex his enim potentiis substantia animae iungitur. Unde fit ut quiddam simile habeat huiusmodi divisio et generis et totius divisioni, nam quod quaelibet eius pars fuerit animae praedicatio eam sequitur, ad generis divisionem refertur, cuius ubicumque fuerit species ipsum mox consequitur genus; quod autem non omnis anima omnibus partibus iungitur sed alia aliis, hoc ad totius naturam referri necesse est. Restat igitur ut de vocis in significantias divisione tractemus. Fit autem vocis divisio tribus modis. Dividitur enim in significationes ut aequivoca vel ambigua, plures enim res significat unum nomen, ut "canis", plures rursus una oratio, ut cum dico Graecos vicisse Troianos. Alio autem modo secundum modum, haec enim non plura significant sed multis modis, ut cum dicimus "infinitum" unam rem quidem significat cuius terminus inveniri non possit, sed hoc dicimus aut secundum mensuram aut secundum multitudinem aut secundum speciem: secundum mensuram, ut est infinitum esse mundum, magnitudine enim dicimus infinitum; secundum multitudinem, ut est infinitam esse corporum divisionem, infinitam namque divisionum multitudinem significamus; rursus secundum speciem, ut infinitas dicimus figuras, infinitae enim sunt species figurarum. Dicimus etiam infinitum aliquid secundum tempus, ut infinitum dicimus mundum, cuius terminus secundum tempus inveniri non possit, eodem quoque modo infinitum dicimus Deum, cuius supernae vitae terminus inveniri secundum tempus non possit. Sic igitur haec vox non plura significat secundum se sed multimode de singulis praedicatur, unum tamen ipsa significans. Alius vero modus secundum determinationem. Quotiens enim sine determinatione dicitur vox ulla, facit intellectu dubitationem, ut est "homo", haec enim vox multa significat, nulla enim definitione conclusa audientis intelligentiam multis raptat fluctibus erroribusque traducit. Quid enim quisque auditor intelligat ubi id quod dicens loquitur nulla determinatione concluditur? Nisi enim quis ita definiat dicens: “Omnis homo ambulat” aut certe: “Quidam homo ambulat” et hunc nomine, si ita contingit, designet, intellectus audientis quod rationabiliter intelligat non habet. Sunt etiam aliae determinationes, ut si quis dicat: “Det mihi!” quando vel quid dare debeat nullus intelligit nisi intellectus et certa ƿ ratio determinationis addatur, vel si quis dicat: “Ad me venite!”quo veniant vel quando nisi determinatione non cognoscitur. Est autem omne quidem ambiguum dubitabile, non tamen omne dubitabile ambiguum, haec enim quae dicta sunt dubitabilia quidem sunt, non tamen ambigua. In ambiguis enim uterque auditor rationabiliter se ipsum intellexisse arbitratur, ut cum quis dicit: “Audio Graecos vicisse Troianos” unus potest intelligere quod Graeci Troianos vicerint, alius quod Troiani Graecos, et uterque hoc dicentis ipsius sermonibus rationabiliter intellegunt. Cum autem dico: “Da mihi!” quid dare debeat nullus ex ipsis sermonibus rationabiliter auditor intelligit, quod enim ego non dixi ille potius suspicabitur quam aliqua ratione id quod a me prolatum non est perspicaciter videat. Tot igitur modis cum vocis divisio fiat, aut per significantias aut per modum significationum aut per determinationem, in his quae secundum significantiam dividuntur non solum dividendae sunt significationes sed etiam diversas res esse quae significantur definitione monstrandum est. Aristoteles enim hoc in Topicis diligenter praecepit, ut in his quae dicuntur bona alia sunt bona, ut ea quae boni retinent qualitatem, alia quae ipsa quidem nulla qualitale dicuntur sed quod bonam rem faciunt idcirco bona dicuntur. Oportet autem maxime exercere hanc artem, ut ipse Aristoteles ait, contra sophisticas importunitates, si enim nulla subiecta sit res quam significat vox, designativa esse non dicitur, sin vero una res sit quam significat vox, dicitur simplex, quod si plures, multiplex et multa significans. Dividenda igitur haec sunt ne in aliquo syllogismo capiamur. Sin vero amphibola oratio est, evenit ut aliquotiens utroque modo possibilia sint quae significantur, ut id quod superius dixi; potuit ƿ enim fieri ut Graeci vincerent Troianos et Troiani Gracos superarent. Sunt vero alia quae impossibilia sunt, ut cum dico hominem comedere panem, significat quidem quod homo panem comedat, rursus quod panis hominem, sed hoc impossibile est. Ergo quotiens ad contentionem venitur dividenda et possibilia et impossibilia, quotiens ad veritatem sola possibilia dicenda, impossibilia relinquenda sunt. Quoniam ergo plures sunt species plura significantium vocum, dicendum est quod aliae in particula multiplicitatem significationis habent, aliae in tota oratione, et eorum quae in particula habent pars ipsa aequivoca dicitur, tota vero ipsa oratio secundum aequivocationem multiplex, illa vero quae in oratione tota significationis multiplicitatem retinet (ut supra iam dictum est) ambigua nuncupatur. Dividitur autem significationes aequivocarum secundum aequivocationem unius particulae orationum definitione, ut cum dico: “Homo vivit”intelligitur et verus et pictus; dividitur autem hoc modo: “Animal rationale mortale vivit” (quod verum est), “Animalis rationalis mortalis simulatio vivit” (quod falsum est). Dividitur qualibet adiectione quae terminet, vel generis vel casus vel alicuius articuli; ut cum dico: “Canna Romanorum sanguine sorduit” et calamum demonstrat et fluuium, sed dividimus sic: articulo quidem, ut dicamus: “Hic Canna Romanorum sanguine sorduit” vel genere, ut: “Canna Romanorum sanguine plenus fuit”uel casu vel numero, in illo enim singularis tantum est, in illo pluralis, et de aliis quidem eodem modo. Sunt autem alia secundum accentum, alia secundum orthographiam, et secundum accentum quidem ut "pone" et "pone", secundum orthographiam ut "quaeror" et "queror" ab inquisitione et ƿ querela; et haec rursus vel secundum ipsam orthographiam dividuntur vel secundum actionem et passionem, quod "quaeror" ab inquisitione passivum est, "queror" autem a querela agentis est. Ambiguarum vero orationum facienda est divisio, aut per adiectionem aut per diminutionem aut per divisionem aut per aliquam transmutationem, ut cum dicitur: “Audio Troianos vicisse Graecos”ita dicamus: “Audio quod Graeci vicerint Troianos” haec enim ambiguitas quolibet eorum modo solvitur. Non tamen ita dividenda est omnis vocum significatio tamquam generis: in genere omnes species enumerantur, in ambiguitate vero tantae sufficiunt quantae ad eum sermonem possint esse utiles quem alterutra nectit oratio. Ac de vocis quidem significatione sufficienter dictum est, est autem et de generis totiusque divisione propositum atque expeditum. Quare de omnibus secundum se partitionibus diligentissime pertractatum est. Nunc de his divisionibus dicemus quae per accidens fiunt. Harum autem commune praeceptum est, quicquid ipsorum dividitur in opposita disgregari, ut si subiectum in accidentia dividimus non dicamus "Corporum alia sunt alba, alia dulcia", quae opposita non sunt, sed "Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia neutra", eodem quoque modo in aliis secundum accidens divisionibus dividendum est. Atque illud maxime perspiciendum, ne quid ultra dicatur aut minus, sicut fit in generis divisione. Non enim oportet relinqui aliquod accidens ex eadem oppositione quod subiecto illi inest quod non in divisione dicatur, neque vero addi aliquid quod subiecto inesse non possit. Posterior quidem Peripateticae secta prudentiae differentias divisionum diligentissima ratione perspexit et per se divisionem ab ea quae est secundum accidens ipsasque inter se disiunxit atque distribuit, ƿ antiquiores autem indifferenter et accidente pro genere et accidentibus pro speciebus aut differentiis utebantur, unde nobis peropportuna utilitas visa est et communiones harum divisionum prodere et eas propriis differentiis disgregare. Et de divisione quidem omni quantum introductionis brevitas patiebatur diligenter expressimus. Exhortatione tua, Patrici rhetorum peritissime, quae honestati praesentis propositi et futurae aetatis utilitati coniuncta est, nihil antiquius existimaui. Cui muneri libentius acquieui, non quod ad instruendum te, commentarios in M. Tullii Topica laborare me credidi (ridiculus quippe forem si Mineruam, ut aiunt, litterae docere uellem) sed ut ex disciplinarum liberalium sumptum penu, nostrae apud te semper pignus amicitias permaneret. Quod enim munus ex animo diligentibus iocundius inueniri potest, quam quod ipsius animi partes format et instruit? Nam caetera fere caduca, imbecilla, labantia, et si ad fortunae uicem spectes, pene semper aliena sunt. At uero opulentiam litterarum, nec praesens imminuit aetas, earumque auctoritatem ipsa etiam cunctae conficiens, auget potius et confirmat uetustas. Accipe igitur opus, non efficientiae securitate sed amicitiae praesumptione susceptum, apud quam nescio quonam pacto garrire non dedecet, simul quia praelato a nobis munere cum tuorum aliquid operum postulauero, iniurius fueris, si negabis.  Sed cum in M. Tullii Topica Marius Victorinus rhetor plurimae in disserendi arte notitiae commenta conscripserit, non me oportuisset melioribus forsitan attemptata contingere nisi esset aliquid quo se noster quoque labor exercere atque parere potuisset. Quatuor enim uoluminibus Victorinus in Topica conscriptis, eorum primo declarandis tantum libri principiis occupatur.  Addit etiam et si qua in eodem uolumine praedicenda fuissent perpendit, ut ab exordio uoluminis Topicorum quod est:  MAIORES NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI...  usque ad eum locum qui est:  SED IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE.  primi uoluminis Victorini expositio terminetur.  Secundo uolumine de iudicandi, atque inueniendi dialecticae partibus, et de loco atque argumenti definitione pertractat, ut ab eo loco Topicorum qui est:  CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI...  usque ad eum locum qui est: ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM, QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM.  secundi libri explanatio subsistat.  Tertius uero atque quartus discretionem locorum inter se eorumque exempla multiformiter persequuntur. Ita ut tertius quidem Tulliana sibi de iure proponat exempla. Quartus uero eosdem locos per alias rursus similitudines monstret ex Virgilio et Terentio poetis, oratoribus Cicerone et Catone, ut quod praeceptis ostenditur, exemplis multipliciter collucescat, neque ab eo loco qui est in Topicis sed ex his locis in quibus argumenta inclusa sunt, expositio progressa eum transcendit locum qui est: VALEAT AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT.  Quanta uero pars reliqua si Topicorum ipsius uoluminis magnitudo demonstrat, quam Victorinus, neque attigit, neque attingere potuisset, ita est rebus minimis immoratus, nisi opus multa librorum pluralitate distenderet.  Nos uero et hanc ipsam particulam, quam Victorinus attigit diligenter (ut possumus) aggrediamur, et longius expositione progressi, cum Topicorum debemus fine consistere. Quare hinc de tota operis propositione conueniens sumamus exordium. Sed antequam de topicae facultatis ratione pertractem, proemium, quoad Trebatium M. Tullius utitur, paucis absoluam. Ait enim: MAIORES NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI, ET HIS LIBRIS, QUOS BREVI TEMPORE SATIS MULTOS EDIDIMUS, DIGNIORES E CURSU IPSO REVOCAVIT VOLUNTAS TUA. CUM ENIM MECUM IN TUSCULANO ESSES ET IN BIBLIOTHECA SEPARATIM UTERQUE NOSTRUM AD SUUM STUDIUM LIBELLOS QUOS VELLET EVOLVERET, INCIDISTI IN ARISTOTELIS TOPICA QUAEDAM, QUAE SUNT AB ILLO PLURIBUS LIBRIS EXPLICATA.  QUA INSCRIPTIONE COMMOTUS CONTINUO A ME LIBRORUM EORUM SENTENTIAM REQUISISTI. QUAM CUM TIBI EXPOSUISSEM, DISCIPLINAM INUENIENDORUM ARGUMENTORUM, UT SINE ULLO ERRORE AD EA RATIONE ET VIA PERVENIREMUS, AB ARISTOTELE INVENTAM ILLIS LIBRIS CONTINERI, VERECUNDE TU QUIDEM UT OMNIA, SED TAMEN FACILE UT CERNEREM TE ARDERE STUDIO, MECUM UT TIBI ILLA TRADEREM EGISTI. CUM AUTEM EGO TE NON TAM VITANDI LABORIS MEI CAUSA QUAM QUIA TUA ID INTERESSE ARBITRARER, VEL UT EOS PER TE IPSE LEGERES VEL UT TOTAM RATIONEM A DOCTISSIMO QUODAM RHETORE ACCIPERES, HORTATUS ESSEM, UTRUMQUE, UT EX TE AUDIEBAM, ES EXPERTUS.  [1.03] SED A LIBRIS TE OBSCURITAS REIECIT; RHETOR AUTEM ILLE MAGNUS HAEC, UT OPINOR, ARISTOTELIA SE IGNORARE RESPONDIT. QUOD QUIDEM MINIME SUM ADMIRATUS EUM PHILOSOPHUM RHETORI NON ESSE COGNITUM, QUI AB IPSIS PHILOSOPHIS PRAETER ADMODUM PAUCOS IGNORETUR; QUIBUS EO MINUS IGNOSCENDUM EST, QUOD NON MODO REBUS EIS QUAE AB ILLO DICTAE ET INVENTAE SUNT ADLICI DEBUERUNT, SED DICENDI QUOQUE INCREDIBILI QUADAM CUM COPIA TUM ETIAM SUAVITATE. NON POTUI IGITUR TIBI SAEPIUS HOC ROGANTI ET TAMEN VERENTI NE MIHI GRAVIS ESSES -- FACILE ENIM ID CERNEBAM -- DEBERE DIUTIUS, NE IPSI IURIS INTERPRETI FIERI [1042C] VIDERETUR INIURIA. ETENIM CUM TU MIHI MEISQUE MULTA SAEPE SCRIPSISSES, VERITUS SUM NE, SI EGO GRAVARER, AUT INGRATUM ID AUT SUPERBUM VIDERETUR. SED DUM FUIMUS UNA, TU OPTIMUS ES TESTIS QUAM FUERIM OCCUPATUS. UT AUTEM A TE DISCESSI IN GRAECIAM PROFICISCENS, CUM OPERA MEA NEC RES PUBLICA NEC AMICI UTERENTUR NEC HONESTE INTER ARMA VERSARI POSSEM, NE SI TUTO QUIDEM MIHI ID LICERET, UT VENI VELIAM TUAQUE ET TUOS VIDI, ADMONITUS HUIUS AERIS ALIENI NOLUI DEESSE NE TACITAE QUIDEM FLAGITATIONI TUAE. ITAQUE HAEC, CUM MECUM LIBROS NON HABEREM, MEMORIA REPETITA IN IPSA NAVIGATIONE CONSCRIPSI TIBIQUE EX ITINERE MISI, UT MEA DILIGENTIA MANDATORUM TUORUM TE QUOQUE, ETSI ADMONITORE NON EGES, AD MEMORIAM NOSTRARUM RERUM EXCITAREM. SED IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE.  Omne proemium, quod ad componendum intendit auditorem, ut in rhetoricis discitur, aut beneuolentiam captat aut attentionem praeparat aut efficit docilitatem: his tribus partibus sibi Cicero Trebatium format. Nam quod se a magnarum rerum inchoatione reuocatum ad amici contulit uoluntatem, fauorem Trebatii uelut iudicis, beneuolentiae partibus meretur. MAIORES autem RES sunt a quarum scriptione ad amici studium uersus est, moralis philosophiae tractatus. Maior est enim morum ratio quam peritia disserendi. Id autem tempus fuisse coniicimus, quo propter turbulenta reipublicae tempora in otium se contulit, atque ad philosophiae disciplinas.  Sed quia nobis audientium mentes ueritatis quoque opinio praesumpta conciliat, in eo etiam praeparandae beneuolentiae partibus utitur. Quod in commemorandis ueraciter iis quae Trebatius nouerat, facit illis fidem quae posterius euenire et Trebatio potuerunt esse ignota. Haec autem sunt, quod in Tusculano ad suum studium uterque libros euoluerit. Quodque Trebatius casu in Aristotelis Topica inciderit, et quod titulum operis admiratus, a M. Tullio inscriptionis sententiam perquisierit. Illud etiam quod ei Cicero se exposuisse commemorat, inueniendorum argumentorum illis libris scientiam contineri, ut sine ullo errore ad argumentorum inuentionem uia quadam et recto filo atque artificio ueniretur, quae res breuiter enuntiata, uelut intentionem operis monstrat, et docilem perficit auditorem. In hoc namque uidetur esse comprehensum quae sit intentio Topicorum, quoniam Cicero ait disciplinam esse inueniendorum argumentorum, non ut inueniantur (id enim natura suppeditat).   Sed ut sine ullo labore; ac sine ulla confusione non casu ad ea mens sed quadam uia et ratione perueniat, post hanc beneuolentiam captationem, Trebatii laudem subiungit, cum eius uerecundiam in his commemorat expetendis, quae si postulanti amico Cicero praestilisset et gloriae praemium ferret et gratiae sed quod petenti Trebatio, ut ei Topica traderet minime concessit. Id non proprii laboris fuga sed Trebatii potius causa factum esse contendit, ut in eo quoque Trebatii ueluti tunc repulsi subiratus forsitan animus, nunc non sit alienus. Intererat uero Trebatio ut uel per se ipse illa legens exercitatior fieret, uel ei perfectius si qua dubitaret rhetor doctior expediret. Utrumque uero a Trebatio se narrat audisse. Nam et expertum cum, ut per se ipse legeret sed obscuritate reiectum, et illum rhetorem a quo Topicorum explanationem petiisset, illa sese Aristotelica ignorare confessum.  Quae res, propter operis difficultatem, nec esse est auditorem reddat attentum. Ea quippe non negligentes inspicimus, quae non facilis esse intelligentiae suspicamur, in quo etiam Cicero minime se miratum esse commemorat, quod is philosophus a rhetore nesciretur, qui multis etiam philosophis uideretur incognitus. Quorum etiam iure culpat ignauiam, quod ad Aristotelicae philosophiae disciplinam non inuentorum utilitas, non orationis nitor illexerit. In quo etiam maioris perspicaciae crescit attentio, quia facile ad studium mentes, aliorum segnities culpata conuerterit, quocumque uero attentio fuerit, non poterit ab esse docilitas. In his etiam laus quaedam Trebatii latenter inducitur. Magnum est enim philosophis in suo quasi munere cessantibus hunc ne proprio quidem studio praepeditum, alienae scientiae secreta rimari.  Iam uero sequentia multo etiam clarius beneuolentiam petunt, uelut hoc quod elegantissime dictum est, ueritum se esse ne, si modeste postulantis uerecundiae pernegasset, ipsi quodammodo iuris interpreti fieri uideretur iniuria, et quod praecedens Trebatii meritum percepti beneficii memor exsequitur, id uero est quod uel ipsi uel iis quos ipse defenderit, plura cauisset. Fuit igitur, ut ait, uerendum, ne, si restituere gratiam noluisset, aut ingratum id aut superbum esse uideretur. Ingratum quidem, si magna Trebatii merita quibus ipse usus fuerat, paruo aestimare uideretur, cum nullam ei gratiam restituendam putaret, superbum uero, si sperneret.  Ad idem caetera reuertuntur, id est ad beneuolentiam. Quod eiusdem testimonio nititur dum fuerit in urbe, se ne debitam redderet gratiam occupationum necessitate constrictum. Quod ut uenerit Veliam, amicorum Trebatii conuentione commonitus, ne tacitae quidem eius flagilationi deesse uoluisset, et quod licet librorum copia nulla suppeteret, de memoriae tamen repetitae promptuariis in ipsa nauigatione conscripserit, eique ex itinere miserit, ut beneficii cumulo parendi etiam celeritas adderetur. Quae cum omnia benignum captare Trebatii uideantur assensum, quaedam tamen breuitas Topicorum memoria repetita, attentionis nec esse est animaduersione fungatur, ipsa namque memoriae repetitio breue monstrat esse quod colligit. Quodque diligentiae sibi fuerint mandata Trebatii, et quod ad excitandam sui memoriam quasi pignus amico aliquod atque monimentum uoluisset exstare. Cui adiicit illud, et si admonitione non eges, ne offendat animum amici sedulitate si quem commonendum credit, obliuionis uideatur arguere.  Haec omnia, ut dixi, beneuolentiae partibus plena sunt. Sed de prooemio satis dictum est. Nunc ad sequentia transeamus, nec si quis haec apud Victorinum latius tractata repererit, nos neglecti integritatis stringat inuidia. Nam nec in singulis (ut ille facit) uerbis haerere uolumus, et ad ampliora huius operis festinamus.  CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI, UTRIUSQUE PRINCEPS, UT MIHI QUIDEM VIDETUR, ARISTOTELES FUIT. STOICI AUTEM IN ALTERA ELABORAVERUNT; IUDICANDI ENIM VIAS DILIGENTER PERSECUTI SUNT EA SCIENTIA QUAM *DIALEKTIKEN* APPELLANT, INVENIENDI ARTEM QUAE *TOPIKE* DICITUR, QUAE ET AD USUM POTIOR ERAT ET ORDINE NATURAE CERTE PRIOR, TOTAM RELIQUERUNT.  NOS AUTEM, QUONIAM IN UTRAQUE SUMMA UTILITAS EST ET UTRAMQUE, SI ERIT OTIUM, PERSEQUI COGITAMUS, AB EA QUAE PRIOR EST ORDIEMUR. Cum philosophia maximis in rebus operam suam studiumque consumat, cumque et in naturalibus inspectionem, speculationemque adhibeat, et in moralibus actionem, et sic formare gestiat mores ut uera uitae ratio persuaserit, euenire nec esse est, ut secundum id quod ratio tenendum, omittendumue, faciendum quid, aut non faciendum esse decreuerit, uel iudicium constituatur, ascensus uel exercendae uitae dirigatur intentio. Erit igitur necessarium, uel in naturali speculatione, uel in moralium actionum cogitatione, ut certa ratio, uel quod in rebus speculandum est, inueniat, uel quod in actum uiuendi duci oporteat, ante perpendat. Haec autem ratio nisi uia quadam processerit, saepe in multos nec esse est labatur errores. Quod ne passim fieret, atque ut certis egulis tractatus insisteret, uisum est antiquae philosophiae ducibus, ut ipsarum ratiocinationum, quibus aliquid inquirendum esset, naturam penitus ante discuterent, ut his purgatis atque compositis, uel in speculatione ueritatis, uel in exercendis uirtutibus uteremur.  Haec est igitur disciplina, quasi disserendi quaedam magistra, quam *logicen* Peripatetici ueteres appellauerunt, hanc Cicero definiens, disserendi diligentem rationem uocauit. Haec uario modo a plerisque tractata est, uarioque etiam uocabulo nuncupata. Ut enim dictum est, a Peripateticis haec ratio diligens disserendi logice uocatur, continens in se inueniendi iudicandique peritiam. Stoici uero hanc eamdem rationem disserendi paulo angustius tractauere, nihil enim de inuentione laborantes, in sola tantum iudicatione consistunt, deque ea praecepta multipliciter dantes, dialecticam nuncupauerunt. Plato etiam dialecticam uocat facultatem quae id quod unum est possit in plura partiri, ueluti solet genus per proprias differentias usque ad ultimas species separari, atque ea quae multa sunt, in unum generum ratione colligere. Hanc igitur Plato dialecticam dicit; Aristoteles uero logicam uocat, quam (ut dictum est) Cicero definiuit diligentem disserendi rationem.  Et huius uno quidem modo trina partitio est: omnis namque uis logicae disciplinae aut definit aliquid, aut partitur, aut colligit. Colligendi autem facultas triplici diuersitate tractatur: aut enim ueris ac necessariis argumentationibus disputatio decurrit, et disciplina uel demonstratio nuncupatur; aut tantum probabilibus, et dialectica dicitur; aut apertissime falsis, et sophistica, id est, cauillatoria perhibetur. Logica igitur, quae est peritia disserendi, uel de definitione, uel de partitione, uel de collectione, id est, uel de ueris ac necessariis, uel de probabilibus, id est uerisimilibus, uel de sophisticis, id est, cauillatoriis argumentationibus tractat, has enim collectionis partes esse praediximus. Atque haec est una logicae partitio, in qua dialecticam Aristoteles uocat facultatem per probabilia colligendi.  Rursus eiusdem logicae altera diuisio est, per quam diducitur tota diligens ratio disserendi in duas partes, unam inueniendi, et alteram iudicandi. Id autem uidetur etiam ipsa logices definitio monstrare, nam quia logica ratio disserendi est, non potest ab inuentione esse separata. Cum enim nemo praeter inuentionem disserere possiti disserendi ratio inuentionis est ratio. Rursus quoniam logice diligens est ratio disserendi, ab ea iudicium non potest ab esse, ipsa enim diligentia rationis in disserendo posita iudicium est. Neque enim potest quisquam diligenter disserere, nisi quale sit iudicauerit id quod in disputationem sumitur. Quod si ad disserendi ordinem diligentia rationis adhibetur, non est dubium quin hoc iudicium ad inuentionum uarietatem sit accommodatum.  His igitur ita expeditis, uidendum est, hae diuisiones, quanam se cognatione contingant. Inuentio quippe caeteris omnibus, ueluti materiae loco, supponitur, hoc modo. Nisi enim inuentio fuerit, non potest esse uel definitio, uel partitio, quoniam unumquodque generum uel differentiarum inuentione, uel specierum collectione, aut diuidimus, aut etiam definimus. Iam uero si absit inuentio, nequit esse collectio. Non erit igitur necessaria, nec uerisimilis, nec sophistica argumentatio: haec enim tria inuentioni superueniunt, ut uel necessarium, uel probabile, uel cauillatorium sit argumentum. Necessitas enim uero, et probabilitas, et cauillatio formae quaedam sunt, quaedum inuentionibus assistunt, necessaria uel probabilia uel cauillatoria faciunt argumenta. Eadem quoque ratio partitiones definitionesque complectitur. Indiscreta namque inuentionis potestas, cum definitiua, tum diuisibilis appellari potest, cum definiendis partiendisue rebus adhibetur. Quae hoc modo ex inuentionis materia et differentiarum supra positarum forma composita rursus iudicationi materiae fiunt nam prior illa partitio, logice tribus partibus segregata, ita partes explicat, ut habeat inuentionem materiam singularum, ipsa uero iudicationi materiam praestat. Et enim cum definit aliquis, uel rei propositae diuisionem facit, inuenit quidem diuisioni definitionique differentias accommodatas sed an recte uel definiat, uel diuidat, iudicatione perpendit. Ita priores logicae partes secundae diuisionis membra coniungunt, ut materiam quidem sui habeant inuentionem, iudicationi uero fiant ipsae materia.  Quod in reliqua etiam colligendi parte contingit, nam et ea quae de probabilibus tractat, habet et inueniendi suppositam materiam, quae uerisimilia reperit argumenta, et de huiusmodi argumenta iudicatio perpendit. Est enim iudicium hoc ipsum internoscendi, quod non necessaria inuentio est sed uerisimilitudinem tenet. Illa quoque pars quae de necessariis argumentationibus aptatur, habet subiectam materiam necessariae inuentionis, eiusque est iudicium, ut cum necessaria sunt quae inuenit, necessaria quoque esse perpendat. Nec non cauillandi pars utraque in se continet, quandoquidem et inueniri falsa possunt, et falsa esse iudicatione discerni.  Quo fit ut prior logices diuisio secundum etiam continere uideatur: nam definitio, partitio atque collectio inuentionem continent et iudicium, quia neque existere praeter inuentionem, neque agnosci praeter iudicium possunt. Sed cum omnis inuentio iudicationi subiecta sit, cumque prioris diuisionis partes sine utroque esse non possint, euenit ut prima partitio inuentionem iudiciumque coniungat. Secunda uero haec diuisio, qua Cicero etiam partitur logicam, segregat huiusmodi facultates, et inueniendi materiam a iudicationis parte secernit.  Iudicium uero, in colligendi ratione proprias partes habet, nam omnis argumentatio, omnisque syllogismus propositionibus struitur, omnemque compositum duo in se quaedam retinet, quae speculanda esse uideantur. Et quidem continet unum quae illa sint, ex quibus id quod compositum est intelligatur esse connexum, aliud uero quanam sit suarum partium coniunctione compositum: ut in pariete siquidem lapides ipsos quibus paries structus est inspicias, quasi materiam species: si uero ordinem compositionemque iuncturae consideres, tanquam de formae ratione perpendas. Ita in argumentationibus quas propositionibus compaginari atque coniungi supra retulimus, gemina erit speculationis et iudicandi uia. Una quae propositionum ipsarum naturam discernit ac iudicat utrum uerae ac necessariae sint, an uerisimiles, an sophisticis applicentur, et haec quasi materiae speculatio est. Altera uero iudicii pars est quae inter se propositionum iuncturas compositionesque perpendit; haec quasi formam iudicat argumentorum.  Quae cum ita sint, hoc modo fit in continuum ducta partitio, ut ratio diligens disserendi, unam habeat inueniendi partem, alteram uero iudicandi.  Tum de ipsa inuentione, tum de inuentionis collocatione, quae forma est argumentationis. Atque ea quidem pars quae de inuentione docet, quaedam inuentionibus instrumenta suppeditat, et uocatur topice: cur autem hoc nomine nuncupata sit posterius dicam. Illa uero pars quae in indicando posita est, quasdam discernendi regulas subministrat, et uocatur analytice; et si de propositionum iunctura consideret, analytice prior; sin uero de ipsis inuentionibus tractet, ea quidem pars ubi de discernendis necessariis argumentis dicitur, analytice posterior nuncupatur; ea uero quae de falsis atque cauillatoriis, id est de sophisticis, elenchi. De uerisimilium uero argumentationum iudicio nihil uidetur esse tractatum, idcirco quoniam plana est atque expedita ratio iudicandi de medietate, cum quis extrema cognouerit. Si enim quis diiudicare necessaria sciat, idemque falsorum argumentorum possit habere iudicium, uerisimilia, quae in medio collocata sunt, discernere non laborat.  Expeditum igitur est, ut arbitror, quid sit quod ait Cicero, rationem diligentem disserendi duas habere partes, inueniendi unam, alteram iudicandi. Illud etiam diligentius expositum est, quae sit ratio quam Stoici dialecticen uocant. Ea est enim quae iudicandi peritiam tenet, et quam eodem nomine Plato partiendi per differentias, atque ad genus reuocandi facultatem uocat. Quamque eodem nomine Aristoteles, non totam disserendi artem, ut Stoici sed eam tantum nuncupet quae de proposita quaestione uerisimilibus colligat argumentis, atque ideo perfectius Aristoteles de logica tractauit, quoniam de duobus, ultra quae nihil est, tertium disseruit, de inueniendo scilicet et iudicando, cum Stoici, inuentione neglecta, iudicationis tantum instrumenta tradiderint.  Atque ideo iure eos increpat Tullius, quoniam id maxime relinquere quod et natura prios et usu potius erat: natura quidem, quia fieri non potest ut de inuentione iudicetur, nisi ipsa inuentio prius exstiterit. Ad usum uero, quia longe utilius est nuda, et praeter artem prolata naturali inuentione susceptum saepe negotium tueri, quam inueniente alio mutum ipsum inermemque et tacitum uersare iudicium. Dat uero Tullius de utroque sententiam, etait summam pariter utilitatem in utroque consistere, et se de utraque, si otium fuerit, uelle disserere. Ab ea autem quae prior est, id est inuentione, quam *topicen* appellari diximus, ordiendum putat.  UT IGITUR EARUM RERUM QUAE ABSCONDITAE SUNT DEMONSTRATO ET NOTATO LOCO FACILIS INUENTIO EST, SIC, CUM PERUESTIGARE ARGUMENTUM ALIQUOD VOLUMUS, LOCOS NOSSE DEBEMUS; SIC ENIM APPELLATAE AB ARISTOTELE SUNT EAE QUASI SEDES, E QUIBUS ARGUMENTA PROMUNTUR. ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM, QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM. Post diuisionem logicae disciplinae, quam diligentem disserendi rationem esse definiuit, de topice, quae inueniendi ars esse praedicta est, expedire contendit. Ac primum quid sint loci, termino definitionis includit, eiusque artis quae topice dicitur exempli quadam claritate designat intentionem. Est enim topices intentio, argumentorum facilis inuentio. Non igitur inuenire docet topice quod est naturalis ingenii sed facilius inuenire: omnis quippe ars imitatur naturam, atque ab hac materia suscepta, rationes ipsa uiamque conformat, ut cum facilius id quod ars quaeque promittit, tum elegantius fiat, uelut parietem struere naturalis ingenii est sed arte fit melius.  Argumentum autem ratio est quae rei dubiae faciat fidem. Multa enim sunt quae faciant idem sed quia rationes non sunt, ne argumenta quidem esse possunt, ut uisus facit fidem his quae uidentur sed quia ratio non est uisus, ne argumentum quidem esse potest. Differentiam uero unam sumpsit, eam quae faciat fidem, omne enim argumentum facit fidem. Si igitur iunxerimus genus ac differentiam, et id esse argumentum dicamus, quod rationem quae faciat fidem, num tota argumenti natura monstrata sit? Minime. Quid si eius rei, de qua nemo dubitat, aliqua ratione facere quis fidem uelit, num idcirco illa, quod fidem faciat, uocabitur argumentum?  Nullo modo: argumentum namque est quod rem arguit, id est probat, nihil uero probari, nisi dubium, potest. Nisi ergo sit res ambigua, et ad eam ratio fidem faciens afferatur, argumentum esse non poterit. Addita igitur alia differentia quae est rei dubiae, facta est integra definitio argumenti, ex genere et duabus differentiis constans, genere quidem, ratione: una uero differentia, quod faciat fidem; altera uero, quod rei dubiae est, ut sit tota definitio, id esse argumentum quod sit ratio, rei dublae faciens fidem.  Quae cum ita sint, nec esse est ut ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio. Quod si argumentum praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem potest. Quaestio uero est dubitabilis propositio. Propositio uero est ratio uerum falsumue designans. Omnis igitur propositio siue constanter atque pronuntiatiue proferatur, ut si quis dicat: Omnis homo animal est; siue ad interrogationem dirigatur, ut si quis interroget: Putasne omnis homo animal est? retinet proprium nomen, et propositio nuncupatur. At si eadem, uelut dubitabilis proferatur, fit quaestio, ut si quisque erat an omnis homo animal sit. Quot autem modis quaestio diuidatur, nunc explicandi locus non uidetur accommodus sed in iis libris dicemus quos de topicis differentiis formare molimur. Ad quaestionem igitur, id est ad dubitabilem propositionem, omnis intentio dirigitur argumenti, non uero ut totam comprobet quaestionem sed ut partem eius ratione confirmet; neque enim tota quaestio defenditur sed una eius quaelibet pars argumentatione firmatur: nemo enim defendit caelum rotundum esse et non esse; si enim ita quis defenderet, totam quaestionem uideretur probare. Sed cum ita consideratur: Utrum rotundum sit caelum an non sit  in una tantum consistit quaestionis parte defensio, siue quae affirmat siue quae negat. Omnis enim quaestio contradictionibus constat. Nam si qua res ab altero affirmetur, negetar ab altero, totum hoc contradictio nuncupatur, ut si quis dicat: Caelum rotundum est  alter neget dicens: Caelum rotundum non est.  Caelum rotundum esse et non esse contradictio prohibetur. Dubitabilis uero propositio, quam quaestionem esse praediximus, et affirmationem in se continet et negationem, hoc enim ipso quo dubitabilis est, contradictionem uidetur includere. Cum enim dubitat quis utrumque caelum rotundum sit, siue adiungat an non sit, siue reticeat, ipsa dubitatio partem secum alteram trahit. Si enim unam partem propositio tueatur, dubitabilis non est, atque idcirco nec quaestio.  Cum igitur omnis quaestio duas habeat partes, affirmationis unam, alteram negationis, nec esse est ut sit semper ex alterutra parte defensio, ut unus quidem affirmationis partem, negationis alter defendat, et hic quidem ad astruendam affirmationem, ille uero ad destruendam, quae potuerit argumenta perquirat. Nihil uero interest utrum quis affirmationem ponat, an destruat negationem, aut negationem defendat, an oppugnet affirmationem. Age enim, sit quaestio, utrum caelum rotundum sit. Si quis eam sibi quaestionis partem assumpserit, quam esse defendit, ad eam constituendam cuncta nec esse est sibi comparet argumenta, atque in hoc affirmationem quidem ponit sed destruit negationem. Si quis uero neget id, ac dicat non esse caelum rotundum, suscipit sibi partem alteram quaestionis quae fuerat reliqua, id est negationem, in eaque consistit, et ad hanc approbandam, perquisitis nititur argumentis; itaque qui negationem ponit, labefactat affirmationem.  Quae cum ita sint, demonstratum arbitror, non totam quaestionem sed eius aliquam partem ad defensionem uenire. Sed quod quisque defendet, ad hoc quoque argumenta perquirit. Ad partem igitur quaestionis astruendam destruendamue argumenta sumuntur, atque haec quidem si quis minus intelligit, ne a nobis obscure dicta esse causetur. Si enim quae in dialectica, uel a nobis dicta Latina oratione, uel a Graecis scripta sunt, ignorabit, mirum est si quam partem eorum quae dicimus aduertere ualeat, ne dum stupeamus quod non omnia comprehendat.  Sed quoniam dubitabilem propositionem quaestionem esse praediximus, euenit ut quas partes habeat propositio, easdem etiam quaestio retinere uideatur. Omnis autem simplex propositio duas habet partes in terminis constitutas. Simplex uero propositio est huiusmodi: Omnis homo animal est  Terminos uero uoco simplices orationis partes quae continent propositionem, ut animal et homo. Hi uero sunt praedicatus atque subiectus. Praedicatus est in propositione maior terminus collocatus; subiectus uero minor. Maior uero terminus de subiecto dicitur, minor autem de maiore nullo modo praedicatur, ut animal quoniam maius est quam homo, de homine praedicatur: dicitur enim: Omnis homo animal est  Homo uero de animali non dicitur, nemo enim uere dicit: Omne animal homo est  Hac igitur ratione internoscere possumus qui terminus in propositione maior, qui uero sit minor. Omnis autem quaestio, ut dictum est, quoniam dubitabiles partes habet, et ad easdem comprobandas argumenta sumuntur, necesse est ut quidquid in quaestionibus comprobatur, id argumentorum ratione firmetur. Argumentum uero nisi sit oratione prolatum, et propositionum contexione dispositum, fidem facere dubitationi non poterit. Ergo illa per propositiones prolatio ac dispositio argumenti, argumentatio nuncupatur, quae dicitur enthymema uel syllogismus, cuius definitionem in Topicis differentiis apertius explanabimus. Omnis uero syllogismus uel enthymema propositionibus constat; omne igitur argumentum syllogismo uel enthymemate profertur. Enthymema uero est imperfectus syllogismus, cuius aliquae partes, uel propter breuitatem, uel propter notitiam, praetermissae sunt. Itaque haec quoque argumentatio a syllogismi genere non recedit.  Quoniam igitur syllogismus omnis propositionibus constat, propositiones uero terminis, terminique inter se differunt, eo quod unus maior est, alter minor, fieri non potest ut ex propositionibus conclusio nascatur, nisi per terminos progressae propositiones extremos terminos alicuius tertii medietate coniunxerint: id facillimo demonstratur exemplo. Sit enim quaestio: Utrum homo substantia sit an minime. Sumo mihi quaestionis partem alteram comprobandam, ea est, hominem esse substantiam; in hac igitur duo sunt termini, substantia atque homo, quorum maior substantia, minor homo, quod ex eo quoque poterit ostendi, quoniam posterius substantia in prolatione profertur, uel ut in hoc ipso quod dicimus homo substantia est, prius hominem, posterius substantiam nominamus. Ut igitur substantiam atque hominem iungam, nec esse est medium terminum reperiri, qui utrosque copulet terminos, hic sit animal, fiatque una propositio: Omnis homo animal est  in hac igitur propositione animal praedicatur, homo subiicitur. Rursus adiungo: Omne autem animal substantia est  in hac rursus animal supponitur, substantia praedicatur. Itaque concludo, omnis igitur homo substantia est; ac per hoc homo quidem semper subiectus est. Animal uero ad hominem quidem praedicatum est, ad substantiam uero subiectum. Substantia uero ipsa semper praedicata persistit, unde fit ut minor quidem sit homo, maior uero homine substantia, medius autem terminus animal. Quoniam igitur extremi termini medii interpositione copulantur, eoque modo quaestionis inter se membra conueniunt, adhibitaque probatione soluitur dubitatio, nihil est aliad argumentum quam medietatis inuentio, haec enim uel coniungere, si affirmatio defendatur, uel disiungere, si negatio uindicetur, poterit extremos.  Quae cum ita sint, duarum propositionum et tertiae conclusionis, maior quidem propositio dicitur ea quae maiorem terminum continet, id est in qua maior quidem praedicatur; medius uero supponitur, ut "Omne animal substantia est"; minor uero propositio est quae medium quidem terminum praedicat, subiicit autem minorem, ut "Omnis homo animal est". Sed quoniam a maioribus nec esse est minora descendere, eius conclusionis, quae ex duabus propositionibus nascitur, illa quasi effectrix et propria propositio uidetur esse, quae prima est; haec [autem est, "Omnis homo substantia est". Quod qui priores posterioresque nostros Analyticos, quos ab Aristotele transtulimus, legit, minime dubitat. Sed etsi quis quae illic scripta sunt nesciens, ad haec legenda proruperit, etiamsi rationem rerum quas non intelligit minime comprehendit, ita tamen ut dictum est esse confidat, seque in Aristotelis Analyticis uberius inuenturum esse, si legerit, arbitretur.  Natura igitur rerum fert ut ubi quid maius ac minus est, ibi maximum quoque aliquid inesse necesse sit. Quo fit ut sint quaedam maximae propositiones, quoniam minores maioresque esse monstrauimus, quarum natura ex simplicium propositionum partitione sumenda est. Omnis enim simplex propositio uel affirmatiua est, uel negatiua. Earumque aliae sunt uniuersales, ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est  aliae particulares, ut:  Quidam homo iustus est  aliae indefinitae, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est  aliae singulares aliquid atque indiuiduum continentes, ut:  Cato iustus est Cato iustus non est  Harumque omnium aliae sunt dubitabiles, aliae indubitatae. Supremas igitur ac maximas propositiones uocamus, quae et uniuersales sunt, et ita notae atque manifestae, ut probatione non egeant, eaque potius quae in dubitatione sunt probent. Nam quae indubitata sunt, ambiguorum demonstrationi solent esse principia, qualis est, omnem numerum uel parem esse uel imparem, et aequalia relinqui, si aequalibus aequalia detrahuntur; caeteraeque de quarum nota ueritate non quaeritur.  Maximas igitur, id est uniuersales ac notissimas propositiones, ex quibus syllogismorum conclusio descendit, in Topicis ab Aristotele conscriptis locos appellatos esse perspeximus; quod enim maximae sunt, id est uniuersales propositiones, reliquas in se uelut loci corpora complectuntur, quod uero notissimae atque manifestae sunt, fidem quaestionibus praestant, eoque modo ambiguarum rerum continent probationes.  Has autem aliquoties quidem in ipsis syllogismis atque argumentationibus inhaerere conspicimus, aliae uero in ipsis quidem argumentationibus minime continentur, uim tamen argumentationibus subministrant:ut si uelimus ostendere regnum melius esse quam consulatum, dicemus: Regnum cum sit bonum, diuturnius est quam consulutus; omne uero quod est diuturnius bonum, melius est eo quod parui est temporis: regnum igitur melius est consulatu.  Hic igitur maxima propositio atque uniuersalis et per se cognita, neque indigens probatione, argumentationi inserta est. Ea uero est: Omnia quae diuturniora sunt bona, meliora esse his quae sunt temporis breuitate constricta. At si uelimus ostendere non esse inuidum qui sapiens sit, dicamus: Inuidus est qui moeret aliena felicitate; non autem sapiens est quem felicitas aliena contristat: non est igitur inuidus sapiens.  Hic maxima propositio argumentationi non uidetur inclusa sed extrinsecus posita, syllogismo tamen uires ministrat. Haec uero est: Quorum diuersae sunt definitiones, diuersas esse substantias necesse est. Quisquis igitur uel Aristotelis Graeca uel nostra ab Aristotele translata prospexerit, has illic propositiones locos inueniet nuncupari, quae sunt maximae atque uniuersales et uel per se necessariae, uel per se probabiles ac notae. Sed quoniam has propositiones plures ac pene innumerabiles esse nec esse est, restat adhuc quo amplius ratio speculationis ascendat. Possumus enim, diligenti tractatu considerationis adhibito, omnium maximarum atque uniuersalium propositionum differentias perpendere, atque innumerabilem maximarum propositionum ac per se notarum multitudinem in paucasatque uniuersales colligere differentias, ut et alias dicamus in definitione consistere, alias in genere, atque alias alio modo quod paulo post apertius demonstrabo. Omnes igitur maximae propositiones, quaecumque sub definitionis uerbi gratia rationem cadunt, uno definitionis nomine continebuntur. Et sicut illae reliquarum propositionum loci esse dicebantur, quod eas intra suum ambitum continerent, ita ipsarum maximarum atque uniuersalium propositionum, quas minorum propositionum locos esse praediximus, illa differentiae, et si non uere, tamen quadam ueluti imagine loci esse uidebuntur, in quas fuerint conuenienti ratione reductae.  Sed istae locorum, id est propositionum maximarum, differentiae, quas etiam ipsos locos nominamus, possunt subiectarum propositionum etiam genera nuncupari. Nam differentiae continentes etiam genera communiter possunt uideri, ut irrationale cum a rationali uelut diuisibili differentia dissideat; tamen equi uel canis, differentia specifica est, et ad eos locum generis tenet. Namque animal irrationabile equi genus est. Ita etiam in maximis propositionibus. Nam quod aliae sunt ex toto, aliae ex partibus, hae inter se comparatae differentiae diuisibiles sunt, ad ipsas uero maximas propositiones differentiarum continentiae uelut generis loco sunt. Nam propositionis ex tolo uenientis genus est idipsum quod uocatur ex toto. Item propositiones a partibus ductae, quamuis notae sint atque manifestae genus est, quod a partibus, et caeterae differentiae earum propositionum quae cum sint maximae, tamen eisdem uidentur includi, uelut quaedam genera sint. Quae uero sint hae differentiae paulo posterius disseram.  De his igitur nunc locis tractare Tullius instituit qui maximas propositiones quas superius diximus, id est per se notas atque uniuersales, continent atque includunt. Hae uero sunt maximarum differentiae propositionum. De uniuersalium igitur enuntiationum per seque notarum differentiis disserit, ut fit integer locus argumenti sedes. Nam si argumentum omne per propositiones ad conclusionem usque perducitur, omnes uero reliquae propositiones in prima maximaque propositione continentur, ipsaque prima ac maxima propositio, tum pars est argumentationis, id est syllogismi, tum extraposita argumentationi uires ministrat, ut utroque modo quoniam perficit argumentum, pars argumentationis quaedam esse uideatur, non est dubium quin hae differentiae, quae propositiones maximas continent, eaedem omnes etiam contineant argumentationes, ut maximarum propositionum differentiae iure loci argumentorum et quasi quaedam ultimae sedes esse uideantur.  Nam ex his quatuor significationibus appellationum duarum, argumentationis scilicet atque argumenti, unam quamlibet esse nec esse est. Aut enim elocutio et contextio ipsa propositionem cum maximis propositionibus, uel extra syllogismum positis, uel in eodem inclusis, argumentatio uocatur.  Argumentum uero mens et sententia syllogismi, aut elocutio ratiocinationis cum maximis propositionibus et sententia syllogismi argumentum esse dicetur, ut idem sit argumentum quod argumentatio. Aut argumentatio quidem uocabitur tota contextio syllogismi cum sententia sed argumentum maxime propositio, aut integer ratiocinationis ordo praeter maximas propositiones argumentatio, sententia uero argumentationis argumentum. Reliqua uero maxima propositio, locus.  Sed cum haec ita sint, siue quis ipsarum propositionum contextionem, et usque ad conclusionem continuum ductum cum maxima propositione, uel extra posita, uel propositionibus ratiocinationis inclusa, argumentationem uocare uelit, argumentum uero sententiam mentemque ratiocinationis, nihilominus locos intelligimus maximarum propositionum differentias; siue quis ratiocinationis totius uim atque sententiam totam cum maxima propositione, uel intra, uel extra posita, argumentum uocet, non est dubium quin totius ratiocinationis locus ille sit qui est maximae propositionis differentia, continet enim maximam propositionem, in qua propositiones caeterae continentur: siue argumentationem quidem totam ratiocinationis contextionem uocari placeat, argumentum uero maximam propositionem, recte rursus locus putabitur maxime propositionis differentia, quae argumentum claudit et continet. Quod si argumentum quidem sensus ipse totius ratiocinationis intelligatur, argumentatio uero integra ratiocinationis prolatio, extra uero et ab utrisque diuersum ualens, uelut locus quidam maxima propositio consideretur, sic quoque maximarum differentiae propositionum loci esse uidebuntur. Nam cum differentia ipsa maximam propositionem contineat, eiusque sit locus, maxima uero propositio argumentationi uel argumento uires ministret, non est dubium quin ea toti argumento locus esse uideatur, quod totum intra maximae propositionis ambitum claudit.  Demonstratum igitur est quae sint argumentorum sedes, id est, ubi argumenta clauduntur (hae sunt autem maximarum propositionum differentiae), quae uocantur loci, quid etiam argumentum, quoniam est rei dubiae faciens fidem, quae sit uero res dubia, id est pars altera quaestionis, quid sit quaestio, id est dubitabilis propositio, quid sit simplex propositio, id est enuntiatio, quae praedicato et subiecto termino contineatur, uerum falsumue designans, quae omnia meminisse oportet. Maximarum enim propositionum differentiae quas locos esse praediximus, ab his dicuntur terminis qui prius in propositione sunt, posterius in quaestione considerantur, praedicato scilicet atque subiecto.  Ex his etiam quae superius dicta sunt quid distent Topica Ciceronis atque Aristotelis apparuit. Aristoteles namque de maximis propositionibus disserit, has enim locos argumentorum esse posuit, ut nos quoque supra retulimus. Tullius uero locos non maximas propositiones, sed earum continentes differentias uocat, ac de his dicere contendit. SED EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALII IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERENT, ALII ASSUMUNTUR EXTRINSECUS. IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX EIS REBUS QUAE QUODAMMODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT LONGEQUE DISIUNCTA SUNT.  Post definitionem loci atque argumenti facit plenissimam diuisionem locorum. Ac primum quoniam omnis diuisio cuncta debet amplecti, neque superfluum quidquam interponere, nec omittere quid sit necessarium, id M. Tullius proposita diuisione patefacit dicens: EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALIOS IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERERE, ALIOS EXTRINSECUS ASSUMI. Nihil enim huic diuisioni posse uidetur addi uel minui, quandoquidem breuiter cuncta complectitur. Argumentorum enim loci quicumque sumuntur, aut in ipso de quo agitur haerent, aut minime. Id autem minime extrinsecus positos esse designat, quod si inter id quod dicimus in ipso de quo agitur haerere argumentorum locos, et non haerere nihil est medium. Inter affirmationem enim atque negationem nulla est medietas. Cumque in ipso de quo agitur non inhaerere locum argumenti, id sit extrinsecus assumi, dubium non est quin nihil intersit medium inter ea argumenta quorum in hoc ipso haerent loci de quo agitur, et ea quorum extrinsecus assumuntur, EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT LONGEQUE DISIUNCTA SUNT.  Sed quid ipsum sit de quo agitur facilior explanatio est, si eorum quae prius dicta sunt meminerimus. Nam cum de quaestione loqueremur, eamdem diximus esse quaestionem quae esset dubitabilis propositio. Sed quoniam propositio subiecto praedicatoque constaret, quaestionem quoque diximus subiecta praedicatoque coniungi. Praedicatum igitur uel subiectum est hoc ipsum de quo agitur. Nam cum de alterutra quaestionis parte dubitetur, in hac ambiguitate quaeritur utrum praedicatus terminus inesse subiecto uideatur, an minime.  Nam cum omnis quaestio in affirmationem negationemque diuidatur, si praedicatus subiecto inest, fit ex eo uera affirmatio; si non inest, fit uera negatio. Sed in quaestionibus disceptandis, alter affirmationem, alter negationem tuetur, id est, alter praedicatum inesse subiecto, alter non inesse defendit. Quod uero ex alterutra parte defenditur, hoc est ipsum de quo agitur. Ipsum igitur est praedicatus terminus uel subiectus, de quibus agitur.  Atque ut id exemplo clarius fiat, sit quaestio, an Verres furtum fecerit. Hic Verres subiectum est, furtum facere praedicatum; quod si furtum Verri coniungitur, idque argumentationibus comprobatur, quaestionis affirmatio demonstrata est. Si furtum a Verre seiungitur, quaestionis rursus negatio comprobatur. Ipsum itaque de quo agitur nihil est, nisi uterlibet eorum terminus qui in quaestione proponitur, siue praedicatus, siue etiam subiectus.  Qui quidem termini per se argumenta esse non possunt, neque uero per se argumenta praestare. Si enim ipsi simplices ut sunt argumenta esse possunt, uel argumentorum praestare materiam, nullam in quaestione relinquerent dubitationem; sed quoniam de ipsis adhuc in quaestione dubitatur an eorum possit esse rata coniunctio, ipsi quidem neque per se argumenta esse, neque per se argumenta praestare poterunt, ea uero quae in ipsis insunt, uel extrinsecus posita sunt, argumentorum copiam subministrant.  Nam quod Victorinus quaerit, et explicat latius, ne commemoratione quidem mihi dignum uidetur. Quaerit enim quaestio ipsa de quo agitur an habeat locum, quod minime oportuit, ut dictum est. Locus de quo nunc agimus non cuiuslibet rei locus est sed argumenti, argumentum uero rei dubire faciens fidem, res uero dubia pars quaestionis. Quod si argumentum quaestio uel pars quaestionis esse non potest, locus uero de quo agimus argumenti est locus, non est dubium quin locus quaestionis esse non possit.  Amplius, omnis quaestio dubitabilis est, argumentum uero omne quaestionis purgat ambiguum. Non est igitur idem argumentum quod quaestio sed loci, argumentorum sunt loci, non sunt igitur quaestionis. Hoc igitur praemisso intelligamus ipsum de quo agitur quemlibet terminum in quaestione propositum, siue praedicatum, siue subiectum, qui cum per se res sint, ipsi quidem argumentum esse non possunt, habere autem in se quaedam possunt, in quibus argumenta sint collocata, et quae sedes argumentorum esse intelligantur. Quae quidem cum terminis his de quibus agitur inhaerere uideantur, nondum tamen sunt argumenta sed quasi iam argumenta complectentes loci, et uelut naturali sede condentes. Idem de his locis qui extrinsecus assumuntur dicendum est, ipsi namque positi sunt exterius et quodammodo a propositionum terminis ablegati, et res quaedam sunt sed intra se argumentorum copiam claudunt.  Atque, ut breui sententia colligam, ipsum de quo agitur nihil est aliud nisi quilibet in quaestione terminus collocatus. Hi argumenta esse non possunt, neque ab his trahi aliquod argumentum. Quo fit ut termini ipsi qui in quaestione sunt positi, nec argumenta, nec loci sint sed tantum res. Rursus ea quae in his haerent de quibus agitur, ipsa quidem res esse manifestum est sed claudunt in se argumentorum copiam, ut cum ex his sumi aliquod oporteat argumentum, locorum uice fungantur. Itaque si quis per se ea speculetur, res sunt; si quis ab his aliquod argumentum quaerat educere, loci fiunt. Et haec communiter quidem de principalibus ac maximis locis dicta sint. Hi uero sunt qui in ipsis de quibus agitur haerent, uel qui assumuntur extrinsecus.  Ut igitur faciat plenam locorum diuisionem, quos simpliciter ac maximos posuit locos, eosdem uelut in quasdam species resecat, dicens: IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX HIS REBUS QUAE QUODAMMODO AFFECTA SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. Et locorum quin in ipso sunt de quae agitur constituti quatuor partium facta diuisiones. Hi quippe qui in ipso de quo agitur haerent, uel ex toto eo de quo agitur termino, uel ex partium eius enumeratione, uel ex nota, uel ex affectis intelliguntur existere. Id ita esse breui ratione firmabitur. Nec esse est enim quemlibet eorum terminorum qui in quaestione sunt collocati, et definitiones habere proprias, et partes, et nomina, et ad res alias quadam relatione coniungi ac referri. Ergo locus qui dicitur ex toto, id est, quoties argumentum ex alicuius definitione termini qui est in quaestione tractatur, siue subiecti, siue praedicati. Ex partium enumeratione, quoties ab eius termini partibus, qui in quaestione positus est, ducitur argumentum. A nota, quoties ab eiusdem termini uocabulo nascitur argumentum. Ab affectis uero, quoties ab his quae ad propositum terminum relatione aliqua reducuntur argumentatio proficiscitur Quorum similitudines omnium posterius explicabo, quando ea quae snper his rebus declarandis Cicero posuit exempla tractauero.  Nunc illud est considerandum, ait enim Tullius ex his locis, in quibus argumenta inclusa sunt, alios in eo ipso de quo agitur haerere, alios extrinsecus assumi, quod ita dictum uidetur, tanquam diuersi sint loci qui in his de quibus agitur haerent, et ipsum illud de quo agitur. Nihil enim in se ipso haerere potest, ac per hoc quod in aliquo haeret ab eo in quo haeret diuersum est. Quod si loci sunt aliqui qui in his haereant de quibus agitur, non est dubium quis hi loci ab his de quibus agitur sint diuersi. Rursus cum dicit IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, tanquam non de diuersis loquatur, ita ait, in ipso locos esse tum ex toto, tum ex partibus, tum ex nota, quasi uero aliud sit ipsum quam totum, aut aliud ipsum quam omnes undique eius partes. Unaquaeque enim res idem est quod totum. Idem namque est Roma quod tota ciuitas. Rursus idem est unaquaeque res quod eius singulae parles in unum reductae; uelut idem est homo quod caput, thorax, uenter, ac pedes, caeteraeque in unum partes coniunctae atque copulatae. Quomodo igitur tanquam de diuersis primum locutus est, cum locos haerere in his terminis de quibus agitur dixit, post autem uelut de eisdem loquitur, cum in ipso locos, tum ex toto, tum ex partibus esse proponat? Nihil enim differt dicere IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS quam si ita dixisset "in ipso tum ex ipso". Nam si idem est ipsum quod totum ac partes, idem est dicere in ipso haerere locum, ex toto, aut ex partibus, quod in ipso haerere locum, qui est ex ipso, quod ne intelligi quidem pctegt, quemadmodum in ipso haerere possit, quod ipsum est, cum nihil sibi haereat, ut superius expediui.  Sed, quemadmodum paulo ante exposui, unaquaeque res cum et definitionem habeat et partes, si pernoscamus quae sit definitionis uis et quae partium, cunctus ambiguitatis nodus absoluitur. Est enim definitio coactae in se atque complicatae rei explicatio, uelut cum dicimus hominem esse animal rationale, mortale. Nam id quod breuiter nomen, atque anguste designabat, id explicauit ac prolulit, et per substantiales quodammodo partes definitio patefecit. Alium igitur nec esse est esse intellectum rei, quae complicata est, in eo quod sibimet coacta atque in unum redacta est, alium eiusdem rei explicatae atque dissertae, in eo quod expedita atque diffusa est: nam et si idem rei definitio quod nomen significat, illud tamen ipsum quod nomen anguste confuseque designat, apertius definitio disserit ac patefacit. Recte igitur aliud quiddam est ipsum, aliud eius definitio, etiam si unum idemque est utrisque subiectum. Ut enim dictum est, ipsum singulum est, definitio ipsius singuli per partes distributio atque enumeratio. (Partes autem nunc substantiales dico, non quae magnitudinem iungunt sed quae proprietatem rationemque substantiae.)  Sed quod in definitione dictum est secundum eas partes quae substantiam iungunt, id in partibus intelligendum est quae magnitudinem copulant, uelut domus quae fundamento, parietibus tectoque coniungitur. Nam eum ea nihil sit aliud nisi quod partibus copulatur, ipsa tamen una quaedam est, atque coniuncta, partitio uero eius per quaedam membra distributio est, atque ideo licet unum sit, quod ipsum est totum, et quot sunt partes undique confluentes, non tamen eumdem nec esse est habere intellectum, cum ipsum integrum consideratur, ut cum in partes ipsas quibus iunctum est distribuitur.  Ex nota uero locus apertissime ab eo termino diuersus est, qui in quaestione constitutus est. Quis enim dicat id esse cuiuslibet rei uocabulum quod ipsa res est, quam designat?  Ea uero quae ad id de quo agitur affecta sunt, et si extra posita uidentur, terminum tamen in quaestione propositum uelut e regione respiciunt, quae in multas secari nec esse est partes. Omnis enim res, id quod est, unum est, multa uero sibimet retinet adiuncta, quae hoc ab his quae omnino extrinsecus sunt differre intelliguntur, quod ea quae affecta sunt, in relatione sunt posita, ut post et ipsarum propositio, et exemplorum ratio monstrabit. Ea uero quae sunt extrinsecus, in nulla relatione sunt constituta, atque ideo hac extrinsecus solum. Illa uero affecta sunt nuncupata, habet enim aliquam quodammodo cognationem ad id ad quod reducitur, id quod refertur ad aliquid.  Sed omnes fere bos locos quos nunc simplices atque indiuisos ponit, posteriore tractatu diuidit, ut nunc quoque eos locos qui in ipso sunt, distribuit, cum alios ex toto fieri proponit, alios ex partibus, alios ex nota, alios ex affectis, affectaque ipsa suis partibus secat. Extrinsecus uero locum in testimonio positum esse confirmat, testimonii uero uim in auctoritate constituit, auctoritatem uero deducit in proprias partes sed hoc posteriore tractatu liquebit. Nunc uero eos simplices atque indiuisos locos proponit, et ueluti simplicibus subdit exempla.  Restat autem nunc unum quod uidetur esse quaerendum, an hi loci qui in locos alios diuiduntur, eorum quos intra se continent locorum loci esse possint, ut eorum qui sunt ex toto, ex partibus, ex nota, ex affectis, is unus quidam quasi locus sit, qui est in ipso. Nihil quidem prorsus officeret locorum locos putare, fieri enim potest ut locus amplior intra semet angustiores contineat locos, uelut id prouincia ciuitates, sed nunc haec similitudo non conuenit. Locus enim est ex quo ducitur id in quo argumentum est positum. Quod si loci locus esse posset, et is qui est in ipso de quo agitur, eos qui sunt ex toto, uel ex partibus, uel ex nota, uel ex affectis, uelut quidam locus includeret, non essent, ex toto, ex partibus, ex nota, uel ex affectis loci sed argumenta quoniam in eo haererent loco, qui in eo ipso de quo agitur termino esse praedictus est; non igitur locus esse poterit loci sed uel ut genera in species.  Ita nunc sit diuisio locorum, nec hoc superius dictis uideatur esse contrarium, cum et maximas propositiones, et earum differentias continentes communi nomine appelauimus locos. Nam maxime propositiones, licet eo ipso quo maximae sint includant caeteras et uocentur loci, tamen quia sunt notissimae possunt rebus dubiis argumenta. Iure igitur earum differentiae loci nominantur, quod in locorum speciebus, aliter sese habet, quae prorsus argumenta esse non possunt: nam in ipso locus uelut in species quasdam diuiditur in eos qui sunt ex toto, ex partibus, ex nota, ex affectis. Unusquisque [enim horum locorum primi loci integrum uidetur ferre uocabulum, nam ut hominem animal dicimus, itemque equum atque bouuem animalia nuncupamus, sic is locus qui ex toto est in ipso esse dicitur, itemque qui ex partibus ac nota, atque ex affectis in ipso sunt. Sed ex his locis argumenta quidem duci possibile est, ipsa uero argumenta ut sint, fieri nequit. SED AD ID TOTUM DE QUO DISSERITUR TUM DEFINITIO ADHIBETUR, QUAE QUASI INVOLUTUM EVOLVIT ID DE QUO QUAERITUR; EIUS ARGUMENTI TALIS EST FORMULA: IUS CIVILE EST AEQUITAS CONSTITUTA EIS QUI EIUSDEM CIVITATIS SUNT AD RES SUAS OBTINENDAS; EIUS AUTEM AEQUITATIS UTILIS COGNITIO EST; UTILIS ERGO EST IURIS CIVILIS SCIENTIA.  Post locorum bifariam diuisionem, in ipso scilicet de quo agitur, et extrinsecus positorum, partitus est eum locum qui est in ipso in quatuor membra, id est a toto, a partium enumeratione, a nota, ab affectis. Nunc igitur anteaquam diuidat eum locum quem ab affectis esse proposuit, superiorum trium quos in primo interim tractatu minime diuisurus est sed indiuiduos relicturus, exempla supponit. Hi uero sunt a toto a partibus, a nota.  Ac de eo quidem loco qui est a toto ita disseruit ac disputauit. Tum inquit, dicimus a toto locum argumenti quando totum illud quod in quaestione positum est definitione complectimur, quae definitio rei dubiae de qua agitur facit fidem. Sed definitio omnis, ut superius quoque dictum est, id quod nomine inuolute designatur euoluit et explicat, atque ideo non terminus qui in definitione ponitur sed quae in ipso sunt, possunt argumentis praestare materiam. Sunt autem in unoquoque propriae definitiones. Definitio enim est oratio substantiam uniuscuiusque significans; quod si ab unaquaque re propria substantiam non recedit, ne definitio quidem recedit, est ergo definitio in ipso termino de quo agitur, quae definitio totum terminum nec esse est comprehendat, neque enim partem substantiae sed totius termini substantiam monstrat. Sed quoniam ex ea definitione fides fit rei dubiae, trahitur ex definitione argumentum, quae definitio in ipso termino est de quo agitur, et eius termini totum est. Itaque argumentum quod a definitione ducitur, ab eo ducitur loco qui in ipso termino est, qui in quaestione est collocatus. Sed quoniam multi loci sunt in ipso, hic totus a toto est. Definitio enim totum terminum comprehendit, atque id quod inuolute nomine significabitur, euoluit atque aperit.  Eius argumenti talis est formula. Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt ad res suas obtinendas, eius autem aequitatis utilis est cognitio, utilis est ergo iuris ciuilis scientia. Est enim quaestio, an iuris ciuilis scientia sit utilis, hic igitur ius ciuile supponitur, utilis scientia praedicatur.  Quaeritur ergo an id quod praedicatur, uere possit adhaerere subiecto.  Ipsum igitur ius ciuile non potero ad argumentum uocare, de eo enim quaestio constituta est; respicio igitur quid ei sit insitum, uideo quoniam omnis definitio ab eo non seiungitur, cuius est diifinitio, ne a iure ciuili quidem propriam definitionem posse abiungi. Definitio igitur ius ciuile, ac dico: "Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt, ad res suas obtinendas"; post hoc considero num haec definitio reliquo termino, utili scientiae, possit esse coniuncta, id est an aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt, ad res suas obtinendas, utilis scientia sit, uideo esse utilem scientiam dictae superius aequitatis. Concludo itaque, iuris igitur ciuilis scientia utilis est.  Hoc igitur argumentum est ex eo loco qui est in ipso, hoc est in iure ciuili, qui terminus in quaestione est constitutus, hic uocatur a definitione, quae definitio quaestionum totum est, argumentum est a toto. Omnis autem locus a toto in ipso est. Nec nos ulla dubitatio perturbet, quod ius ciuile et rursus scientia utilis quaedam sunt orationes quas inter terminos collocamus. Non enim omnis termiuus simplici orationis parte profertur sed aliquoties orationes integrae in terminis constituuntur. In hac igitur argumentatione maxima ac per se nota propositio est ea per quam intelligimus omnia quae definitioni alicuius coniunguntur, ipsa quoque illis quorum definitio est, necessitate copulari. Sequitur enim cum definitio iuris ciuilis utili scientiae possit adiungi, iuri quoque ciuili utilem scientiam posse copulari; est igitur hoc argumentum tractum ab eo loco qui est in ipso. Omnis enim definitio in eo termino est quem definit, eodem autem loco qui in ipso est, et a toto. Omnis enim definitio totum monstrat atque aperit. Maxima propositio haec. Quibus aliquorum definitio iungitur, eisdem necessario ea quae definiuntur aptantur. TUM PARTIUM ENUMERATIO, QUAE TRACTATUR HOC MODO: SI NEQUE CENSU NEC  VINDICTA NEC TESTAMENTO LIBER FACTUS EST, NON EST LIBER; NEQUE ULLA EST  EARUM RERUM; NON EST IGITUR LIBER. Sit quaestio utrum aliquis quem seruum esse constiterit, sit liber. Quoniam faciendi liberi tres sunt partes. Una quidem ut censu liber fiat, censebantur enim antiquitus soli ciues Romani. Si quis ergo consentiente uel iubente domino, nomen detulisset in censum, ciuis Romanus fiebat et seruitutis uinculo soluebatur, atque hoc erat censu fieri liberum, per consensum domini nomen in censum deferre, et effici ciuem Romanum. Erat etiam pars altera adipiscendae libertatis, quae uindicta uocabatur: uindicta uero est uirgula quaedam quam lictor manumittendi serui capiti imponens, eumdem seruam in libertatem uindicabat, dicens quaedam uerba solemnia, utque ideo illa uirgula uindicta uocabatur. Illa etiam pars faciendi liberi est, si quis suprema uoluntate in testamenti serie seruum suum liberum scripserit.  Quae quoniam partes sunt liberi faciendi, siquis aliquem, quem seruum fuisse constiterit, monstrare uelit non esse liberum factum, dicet, si neque censu, neque uindicta, noque testamento, liber factus est, non est liber. At nulla earum parte liber factus est, non est igitur liber. Si enim omnes partes a qualibet illa re abiunxeris, totum necessario separasti. Nam cum totum in suis partibus constet, si quid nulla cuiuslibet parte coniungatur, a toto etiam segregatur.  Partes autem duobus dicimus modis, uel species, uel membra. Species est quae nomen totius integrum capit, uelut homo atque equus animalis, utraque enim per se integro nomine animalia nuncupantur. Est enim homo animal, et rursus equus animal. Item membra sunt quae cum totum efficiant, coniuncta totius capiunt nomen, singula uero nullo modo, ut cum fundamentum, parietes et tecta domus membra sint, simul omnia domus dicuntur, fundamenta uero sola domus uocabulo minime nuncupantur, neque parietes, neque tecta.  In his igitur quae species sunt, quoniam nomen totius integrum capiunt, uisi sigillatim omnes partes ab eo de quo dubitatur abiunxeris, non possis totum ab esse monstrare. Dictum est enim unamquamque partem totius uocabulum integrum capere. Ut quoniam faciendi liberi tres sunt species, census, uindicta, testamentum, si quaslibet duas remoueris, una tamen permanserit, liberum necessario confitebere. Siue enim censu tantum, siue uindicta, siue testamento sit liber factus, liberum esse constat. Ergo in his nisi omnes species remoueris, non potes destruere quod in quaestione propositum est. At si affirmare uelis atque astruere, sufficit tantum unam quamlibet speciem demonstrare, ut si uelis ostendere liberum, sat est, ut monstres, aut uindicta, aut censu, testamentoue liberum factum; quod si destruere uelis, non sufficit ostendere, aut censu, aut uindicta, aut testamento liberum non esse factum sed nullo eorum modo ad libertatem uenisse. Itaque his partibus quae species sunt, si destruere uelis, cunctis utendum est; si astruere, una sufficiet.  At uero hae partes quae sunt membra, contrario modo sunt: si destruere uelis, sat erit unam seiungas; si astruere, cuncta ad esse necessario comprobabis. Nam si uelis ostendere non esse domum, sufficit ut aut fundamenta non esse dicas, aut parietes, aut tecta; nam si quid horum defuerit, domus non potest appellari. At si uelis ostendere domum esse, nisi cuncta in unum coniunxeris, id quod proponis astruere non ualebis.  Omnes hi loci a partium enumeratione ducuntur, quia in his partibus quae species sunt, cunctae partes enumerantur, ut destruas; in his uero quae membra sunt cunctae partes enumerantur, ut astruas.  Quaestio est igitur in proposito Ciceronis exemplo argumentia partium enumeratione deducti: An is quem seruum fuisse constitit, liber sit; is quem seruum fuisse, subiectus est terminus, liber uero praedicatus; neutrum igitur eorum terminum ad argumentum ducere poterimus. De quibus enim dubitatur, ipsi fidem dubitationi facere non possunt. Video igitur qui in altero eorum sit. Quoniam uero partes omnes in eo sunt cuius partes sunt, quoniamque libertas data, habet proprias partes, sumo eas atque dinumero, et requiro an ulla earum partium uideatur inesse subiecto sed nulla inest. Concludam igitur non esse liberum.  Unde manifestius demonstratur, non solum ab eo termino qui subiectus est, argumenta sumi posse, uerum etiam ab eo qui est praedicatus. Nam prius exemplum quo demonstrabat iuris ciuilis scientiam esse utilem, ius ciuile quod subiectum erat definiuit, ductumque inde argumentum rei dubiae fecit fidem. Hic uero libertatis partes enumerantur, qui est terminus praedicatus.  Est igitur, ut dictum est, quaestio an quem seruum esse constiterit, liber sit. Terminus is quidem quem seruum esse constiterit, subiectus est, praedicatus uero liber, in ipso, id est in praedicato, partes sunt, quae enumerantur, a qua enumeratione dum trahitur argumentum, fit argumentum in ipso, ex partium, enumeratione. Maxima propositio, cuius partium nihil rei propositae copulatum est, ei ne totum quidem esse potest coniunctum.  Hic uidetur esse dubitandum num locus a toto atque a partibus idem sit, cum  omnes partes totum faciant, si coniungantur.  Sed respondebitur, cum sit argumentum ab enumeratione partium, totum diuiditur, non coniungitur, diuidendo enim argumentatio procedit. Nam quisquis partem cuiuslibet sumpserit, eo ipso, quo partem sumpserit, rem uidetur esse partitus. Qui uero rem diuidit, dissipat potius quam conficit totum sed restare adhuc ambiguitas potest, nam definitio quoque inuolutam nominis significationem explicat, per quamdam substantialium partium enumerationem. Enumeratio uero partium quaedam ipsarum a se partium dissipatio est.  Sed aliud est eiusdem rei partes enumerare, aliud definitionis. Nam rei partes ea re cuius partes sunt semper minores sunt, ut caput, uel thorax, uel caetera membra toto homine; partes uero definitionis tota re qua definitur, si substantiales sunt, probantur esse maiores, ut animal homine maius est. Itemque rationale, mortale, eumdem hominem, uelut maiora continent, et sunt singulae partes definitionis eiusdem quae est animal, rationale, mortale. Partitio igitur sumit partes rei quam partitur minores semper. Quae uero sumit definitio, uniuersalia sunt per se totaque et continentia definiri, quamuis posita in definitione partes fiant, ut in his quae superius exempla proposui facile intelligi potest. Unde manifestum est locum a toto, qui definitionis est, et locum a partium enumeratione, esse diuersos.  TUM NOTATIO, CUM EX VERBI VI ARGUMENTUM ALIQUOD ELICITUR HOC MODO: CUM LEX ASSIDUO VINDICEM ASSIDUUM ESSE IUBEAT, LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI; IS EST ENIM ASSIDUUS, UT AIT L. AELIUS, APPELLATUS AB AERE DANDO.  Tertius eorum qui in ipso sunt locus a notatione est constitutus. Notatio uero est quaedam nominis interpretatio. Nomen uero semper in ipso est. Ut enim definitio id quod in nomine inuolutum est declarat, expedit atque diffundit, ita etiam nomen id quod a definitione dicitur euolute, inuolute confuseque designat. Quad si definitio in ipso est, nomen quoque in ipso esse de quo agitur, non potest dubitari. Ex notatione autem locus uocatus est, quia nomen omnem rem notat atque significat.  Vindex est igitur qui alterius causam suscipit uindicandam, ueluti quos nunc procuratores uocamus. LEX igitur Aeliasanctia ASSIDUO, VINDICEM ASSIDUUM ESSE iubet. Quaeritur utrum cum LEX Aeliasanctia VINDICEM uelit ESSE ASSIDUO ASSIDUUM, LOCUPLETEM uelit LOCUPLETI. Hic igitur subiectus quidem terminus est, lex Aeliasanctia uindicem uolens assiduo assiduum, praedicatus uero locupletem locupleti, ipsos igitur terminos non potero ad fidem quaestionis adducere. De ipsis enim de quibus ambigitur, nulla effici fides potest. Quaero igitur quid in ipsorum altero sit, ac uideo unum eorum terminum esse, legem Aeliamsanctiam, quae assiduum assiduo uindicem esse decernat, id est subiectum, huius orationis interpretor partem, quae est assiduus. Quid enim est assiduus aliud nisi assem dans? assem uero dare nisi locuples non potest, assiduus igitur locuples est. Cum igitur lex Aeliasanctia assiduo uindicem assiduum esse constituat, locupletem iubet locupleti, assiduus quippe est locuples, a dando aere nominatus.  Argumentum igitur hoc tractum est ex eo loco qui est in ipso, id est a nominis interpretatione, nomen enim in ipso illo est cuius nomen est, cuius interpretatio notatio nuncupatur. Sed ab huius interpretatione factum est argumentum. Igitur hoc argumentum ex eo loco est, qui est in ipso, id est a nomine, et eorum qui in ipso sunt, a notatione, id est a nominis interpretatione. Maxima propositio est, interpretationem nomina idem ualere quod nomen.  Sed paulo confusius a Cicerone dicta argumentatio maximum praestat errorem. Ita enim dici oportuit, assiduus est qui assemdat, qui uero assem dat, locuples est, assiduus igitur locuples est. Lex autem Aeliasanctia assiduum assiduo esse uindicem iubet, locupletem igitur locupleti uindicem esse praescripsit. Quod si ita dictum esset, apertior argumentatio fuisset. Nunc uero ita dixit: CUM LEX Aeliasanctia ASSIDUO VINDICEM ASSIDUUM ESSE IUBEAT, LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI et caetera. Subiunxit, ut ostenderetur locuples esse assiduum; hoc autem tantumdem ualet, quod ait, legem Aeliamsanctiam assiduo assiduum uindicem cum iuberet esse, locupletem locupleti esse praecepisse, tanquam si diceret, qui assiduus est, locuples est. Nisi enim is qui assiduus est locuples sit, non consequitur ut cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo uindicem esse iusserit, locupletem iusserit locupleti, et argumenti conclusionem priorem posuit subiecit uero probationem. Conclusio namque est, cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo uindicem uelit esse, locupletem iubet locupleti, atque hanc praemisit; probatio uero est rationis assiduum esse locupletem ab aere dando nominatum, et hanc intulit conclusionem.  Restat is locus eorum qui in ipso sunt, qui ducitur ab affectis. Cuius expositionem, quoniam uaria est multiplex quod diuisio, differamus, ac primi uoluminis terminum, hucusque sistamus. In tam difficillimi operis cursu non sum nescius, mi Patrici, quin labor hic noster quem te adhortante suscepimus, dum iudicio multitudinis imperitae aut eleuatur, aut premitur, facile uariis reprehensionibus mordeatur. Nam et illi quibus hoc totum disserendi displicet genus, uelut superuacaneum studium, familiari prauis mentibus cauillatione despiciunt, et qui maximum huius scientiae fructum putant, sua caeteros segnitie mentientes, tanto nos operam pares esse non existimant, quorum quidem priores si non inuidia laboris alieni aestimationem premunt, sed reprehensioni iudicioque consentiunt, nullo modo ferendos esse puto. Multo quoque in me libentius detorserim prauae opinionis inuidiam, ac nostris eos diffidere uiribus facillime patiar, potius quam tantae disciplinae calcare rationem. Sed proh diuinam atque humanam fidem, quae est haec hominum prauitas, quae tantae est imprudentia caecitatis, ut pene sua sese ipsi confessione condemnent! Nullus est enim qui sese uideri nolit peritissimum disserendi, quin etiam obiectare ipsi aliquid, et resoluere obiecta conantur, etsi facile id factu esset, cuncti ad scientiam logicae disciplinae uelut ad communia quaedam sapientiae lucra concurrerent. Iam uero quid absurdius fingi potest, quam quod probabilibus, ut ipsi existimant, argumentis inutile studium dialecticae nituntur astruere? Quid enim conuenit disserendi artem disserendo peruertere, ut cuius opinionem affectes, eiusdem despicias ueritatem? Sed ut cantor ille discipulum sibi ac Musis canere iubebat, ita et ego quoque mihi ac tibi, non Musae sed tanquam Musarum praesidi cecinerim, atque id quod multo labore studioque collegi, non rhetorica tantum facultate, uerum etiam dialectica subtilitate deponam.  Quae uero sequuntur huiusmodi sunt: DUCUNTUR ETIAM ARGUMENTA EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. SED HOC GENUS IN PLURIS PARTIS DISTRIBUTUM EST. NAM ALIA CONIUGATA APPELLAMUS, ALIA EX GENERE, ALIA EX FORMA, ALIA EX SIMILITUDINE, ALIA EX DIFFERENTIA, ALIA EX CONTRARIO, ALIA EX ADIUNCTIS, ALIA EX ANTECEDENTIBUS, ALIA EX CONSEQUENTIBUS, ALIA EX REPUGNANTIBUS, ALIA EX CAUSIS, ALIA EX EFFECTIS, ALIA EX COMPARATIONE MAIORUM AUT PARIUM AUT MINORUM.  Postquam locos eos exquibus argumenta ducuntur gemina partitione distribuit, alios in ipso de quo agitur haerere dicendo, alios extrinsecus assumi, cumque locum qui in ipso de quo agitur haeret in quatuor species secuit, id est a toto, a partibus, a nota, ab affectis, superioribus quidem tribus exempla subiecit, quae nos primo uolumine quantum diligenter fieri potuit explicauimus. Restat is locus quem posuit quartum, id est ab affectis, huius cum multae sunt species, integri atque indiuisi proponere non potuit exemplum. Nam quorum facienda partitio est, melius per singula membra dispositis aperiuntur exemplis. Hunc igitur locum diuidit hoc modo: Locus qui ex affectis est, partim ex coniugatis, partim ex genere, partim ex forma descendit, ex similitudine etiam, uel ex difterentia, uel ex contrario, necnon etiam ex coniunctis, ex antecedentibus, et consequentibus, et repugnantibus, ex causis etiam atque ex effectis causarum, et comparatione maiorum, aut parium, uel minorum, quae omnia Tullius paulo post conuenientibus rerum similitudinibus illustrat.  Nunc illud nobis dicendum est quae sit affectorum natura, et quid habeant proprietatis. Sunt enim affecta quae quodammodo aliquid referri possunt, ad id ad quod referuntur. Omnia uero quae se aliqua relatione respiciunt, aut amica inter se, aut dissidentia conferuntur. Si amica, uel substantialiter, ut genus, forma, antecedentia, consequentia, causa, effectus; uel in qualitate, ut coniugatum, simile, coniunctum; uel in quantitate, ut paria.  Quae uero sibi dissidentia conferuntur, partim a se differentia sunt tantum, partim aduersa; sed aduersa, partim in qualitate, ut contraria uel repugnantia, partim in quantitate, ut maius ac minus. Quae cum ita sint, manifestum est, et amica sibi cognationis relatione coniungi, et dissidentia hoc ipso quo sibi aduersa sint, ad se inuicem comparari. Nam quae amica sunt, amicis amica sunt, et dissidentia a dissidentibus dissident. Ita igitur et genus formae genus est, et forma generis forma, et antecedentia consequentium, et consequentia, antecedentium, et causa effectuum causa, et effectus causarum effectus, et coniugata coniugatis coniugata sunt, et simile simili simile, et coniunctum coniuncto coniunctum, et paria paribus paria, et differentia differentibus differentia, et maiora minoribus maiora, et minora maioribus minora sunt, et contraria contrariis contraria, et repugnantia repugnantibus repugnuntia sunt. Affecta igitur sunt quae cum a se inuicem diuersa sint, ad se inuicem tamen referuntur.  Sed quo ordine Tullius superius descripsit locos, nos definitiones omnibus apponemus.  Eorum igitur quae ad se inuicem affecta dicuntur, in M. Tullii disputatione prima sunt coniugata: coniugata uoco quaecumque ab uno nomine uaria prolatione flectuntur, ut a iustitia iustus, iustum, iuste. Haec inter se cum ipsa iustitia, unde eorum uocabulum fluxit, coniugata dicuntur. Genus uero est quod de multis specie differentibus in eo quod quid est praedicatur, uelut animal dicitur de homine atque equo, quae specie differunt, et in eo quod quid sit praedicatur. Interrogantibus enim nobis quid sit homo uel equus, respondetur animal. Quod genus licet nec esse sit ab eo esse diuersum cuius genus est, cognatum tamen est ei, quia ad id substantiae relatione coniungitur.  Species etiam est, de qua genus superius praedicatur, quam Cicero formam uocauit, uelut homo animalis.  Similitudo est unitas qualitatis. Nam duo quae sibi similia sunt, eamdem nec esse est habere qualitatem, et quoniam ipsum sibi simile esse non potest, aliud nec esse est simile consideretur. Sed aliud esse non poterit, nisi fuerit in aliqua parte diuersum. Ergo similia, a se in alia quidem re diuersa sunt, in alia uero congruunt. In ea uero re quae secundum qualitatem congruunt, in ea esse similia intelliguntur, quae ad se similitudinis illius copulatione referuntur.  Differentia est quae unumquodque differt ab alio, ut homo ab equo rationabililatis differentia discrepat. Haec igitur praedicatione quidem propriae naturae ad ea refertur quorum est differentia, ut rationabilitas ad hominem; dissimilitudinis uero ratione ad ea a quibus discrepat id cuius est differentia, ut rationabilitas ad bouem.  Contraria uero sunt quae in eodem posita genere longissime a se discrepant, ut album atque nigrum, quae licet in uno qualitatis genere ponantur, a se tamen quam longissime recedunt, ea quoque ad se referri nullus ignorat. Aliud est enim quod sunt, aliud quod contraria sunt. Quod enim nigrum est, quale est. Quod uero contrarium est, ab albo plurimum discrepans est.  Coniuncta uero sunt quae unicuique rei finitimam naturam tenent, uelut timori pallor adiunctus est. Haec talia sunt ut saepius quidem adiunctis sibi cohaerescant, neque tamen ex necessitate his quibus uicina sunt, ad esse cogantur. Nam saepe timori pallor assistit, non tamen semper, ueluti cum dissimulatione premitur metus, atque ideo ueri similia ex adiunctis argumenta nascuntur. Nam quaecumque coniuncta sunt ex his quibus adhaerent, indicio esse solent. Sed de his in posteriore disputatione diligentius disseram.  Antecedentia uero sunt quibus positis aliud nec esse est consequatur, ut quia bellum est, esse inimicitias necesse est. Haec ordinis necessitatem tenent. Consequentia enim ab antecedentibus separari nequeunt, consequens uero est quidquid id quod antecedit insequitur, ut inimicitiae bellum consequuntur. Nam si bellum est, inimicitias esse nec esse est, habetque locus hic illud notabile et spectandum, quod saepe quae naturaliter priora sunt, tamen ipsa sunt consequentia. Saepe quae naturaliter antecedunt, et in propositione priora sunt; namque inimicitiae prius existere quam bella solent. Sed non possumus proponere inimicitias, ut bellum sequatur. Non enim possumus uere dicere, si inimicitiae sunt, bellum est sed praeponimus bellum, et inimicitiae quae natura priores sunt, subsequuntur, ita, si bellum est, inimicitiae sunt. Nunc igitur inimicitiae quae naturaliter bellum praecedunt, hae eadem bella in propositione comitantur; at si dicam: Si superbus est, odiosus est  superbia et naturaliter et in propositione odium praecedit; prius enim superbia consueuit existere, post uero atque ex eadem superbia ueniens odium sequi. Nec interest utrum naturaliter quaelibet antecedat res aliquando, an uero consequetur, dum id in propositione adnotemus, eam esse rem antecedentem, quae siue naturaliter prior sit, siue posterior, alteram tamen rem secum necessario trahat.  Repugnantia uero intelliguntur quoties id quod alicui contrariorum naturaliter iunctum est, reliquo contrario comparatur, ut quoniam amicitia ealque inimicitiae contraria sunt. Inimicitias uero consequitur nocendi uoluntas, amicitia et nocendi uolentas, repugnantia sunt, haec quoque ad se contrarietatis similitudine referuntur.  Causa est qua praecedente aliquid efficitur, ut causa diei est solis ortus.  Effectum est quod praecedens causa perficit, ut dies quem solis ortus emittit.  Maiorum uero comparatio est quoties ei quod minus est, id quod maius est comparatur, ut si nemo innocens pelli in exsilium debet, multo magis ne Tullius quidem, qui non innocens solum, uerum etiam patriae fait liberator; plus est enim patriae esse liberatorem quam innocentem. Parium uero quoties inter se paria comparantur, ut si hic ciuis innocens pelli in exsilium non debet, quia innocens est, nec ille quidem qui est innocens carere patria iuste potest. Minorum uero quoties minora maioribus conferuntur, ut si Ciceronem liberatorem patriae praemio nemo dignum putauit, nemo eum pPomba praemio dignum qui cum tantum innocens fuerit, nulla in rempublicam contulit merita.  Haec itaque omnia cognata sibi esse, et ad se referri inuicem, et se uelut e regione conspicere nullus ignorat. Nam ut de coniugatis primum loquamur, et iustitia ad id quod iustum est, uel id quod iuste fieri potest, spectat, et cum qui iustus est perficit. Caetera quoque habent ad se non modo uocabuli cognationem, uerum etiam cuiusdam naturae congruentiam, ita tamen ut a se diuersa sint. Neque idem est iustitia, quod iustus. Omne enim quidquid ab aliquo inflectitur, ab eo a quo inflectitur est diuersum, eidemque cognatum, a quo etiam probatur inflexum. Genus etiam cognatum esse rei cuius genus est, id est speciei, quam Cicero formam uocauit, dubium non est. Genus enim speciei genus est, et species generis species: itaque ad se inuicem referuntur, licet idem genus ac species non sint. Illud sane uidendum est, quoniam quas nos species nuncupamus, eas Cicero formas uocat. Cui quidem, dum quod dicit intelligam, conMilani libenter quibus uoluerit uti nominibus, mihi uero non idem concedi potest. Nam qui explanationis lucem professus est, in his uerbis debet quae sunt in usu posita uersari. Id autem quod supponitur generi ut species, quam forma potius nuncupetur, usus obtinuit. Iam uero simile nisi simili simile esse non potest, et quod differt nisi a dissimili differre non potest. Contraria etiam contrariis intelliguntur esse contraria, coniuncta etiam coniunctis adhaerescunt. Et quae sunt antecedentia, aliquid quod potest consequi antecedunt. Id etiam quod est consequens illud quod antecessit insequitur. Omne etiam repugnans repugnanti sibimet intelligitur inimicum. Causa etiam effectus sui causa est. Quod enim quaeuis causa efficit, eius rei quam efficit causa est; effectus quoque causae alicuius effectus est. Comparatio uero maiorum minora respicit, minorum uero maiora, parium paria.  Atque in omnibus ea natura esse deprehenditur, ut cum per se res quaedam sint diuersae ab his adquae referuntur, affecta tamen esse dum comparantur, appareant; diuersa uero esse ab his quae referantur, illa res approbat, quoniam nihil ad se ipsum referri potest. Quae cum ita sint, iure affecta sunt nuncupata.  Quae omnia eius loci qui ex affectis ducitur, species uel formae sunt, ipso etiam testante Cicerone, qui ait: SED HOC GENUS IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM EST. Cum enim genus dixit, quas scindit a genere species esse signauit. Praeterea omnia haec et nomen generis suscipiunt et definitionem. Affecta enim sunt ad aliquid, quae ad id ad quod affecta sunt, referri queunt; coniugata uero et genus, et forma, et caetera, ad ea semper ad quae sunt affecta, referuntur. Sed, ut in superioribus locis dictum est, qui in ipso de quo agitur haerebant, id est ex toto, ex partibus, ex nota, ut ex toto eo intelligatur termino qui fuisset in quaestione propositus, itemque ex eius partibus atque ex eius nota. Eodem modo etiam in iis qua affecta sunt dicemus ad eum terminum affecta considerari, qui subiecti uel praedicati loco positus continet quaestionem.  Superest nunc illud dicere, cur quae affecta sunt in ipso, de quo agitur esse dicantur. Etenim in ipso de quo agitur termino, quatuor locos esse significauit Cicero, id est ex toto, ex partibus, ex nota, ex affectis. Quorum tria quidem superiora manifestum est in eo haerere de quo agitur termino. Definitio enim cuiuslibet rei quod totum est, in illo ipso est quod definit. Parte, etiam in ipso illo sunt, quod collectione coniungunt. Nota etiam in illo est quod appellatione significat; affecta uero extrinsecus posita uidentur, quippe quae referuntur ad id ad quod affecta sunt, ad id de quo agitur quae non referuntur, nisi extrinsecus posita intelligerentur. Cur igitur ea etiam quae affecta sunt, ad id de quo agitur, inter nos numerauit locos, qui ipsi de quo quaeritur termino cohaerent, dicendum est. Quoniam id quod adhaerere dicitur, non idem est ei cui adhaerere praedicatur.  Quae cum diuersa sint, cognatione tamen quaedam intelliguntur esse coniuncta, ueluti non idem est definitio quod ipsa res qum definitione describitur. Si enim definitio clarius efficit id quod definit, nihil uero ipsum e esse clarius quam est efficere potest, manifestum est id quod definitur a definitione esse diuersum. Sed idcirco haerere definitionem in eo quod definitur dicimus, quia est ei cognata atque coniuncta, quippe quae dum eius proprietatem significet, ab eius substantia non recedit. Partes etiam ac notae diuersa sunt ab eo quod uel copulant, uel designant. Sed quia illae propositum terminum iungunt, illae significant, habentes aliquam cum proposito termino cognationem, in ipso de quo agitur haerere perhibentur. Ita etiam in affectis, licet extrinsecus sint, neque enim idem sunt quod ea sunt ad quae intelliguntur affecta, necessario tamen, quia aliquam cognationem cum his habere considerantur, in ipsis haerere dicuntur ad quae ad effecta sunt.  Qui uero eorum naturalis ordo sit, uel quae differentia, uel sit alia, locorum partitio, licet in Topicis Differentiis opportunius expediendum sit, tamen cum exempla Ciceronis quae in his explicandis attulit exposuero, subiungam. CONIUGATA DICUNTUR QUAE SUNT EX VERBIS GENERIS EIUSDEM. EIUSDEM AUTEM GENERIS VERBA SUNT QUAE ORTA AB UNO VARIE COMMUTANTUR, UT SAPIENS SAPIENTER SAPIENTIA. HAEC VERBORUM CONIUGATIO *SYZUGIA* DICITUR, EX QUA HUIUSMODI EST ARGUMENTUM: SI COMPASCUUS AGER EST, IUS EST COMPASCERE.  Definitio coniugutorum a Cicerone prolata talis est. Coniugata dicuntur quae sunt ex uerbis generis eiusdem, id est quae ab uno uerbo uariis inflectuntur modis. Ex eodem quippe genere uerba sunt, iustitia, iustus, iuste, iustum, et quaecumque alia in diuersas possunt uocabulorum species inflecti. Quaecumque enim ab uno quolibet orta uarie commutantur, haec a Graecis quidem *syzygia* dicuntur, apud Latinos uero coniugata: nam quod Graeci *syzygia* dicunt, nos coniugationem appellamus. Haec autem sunt, ut sapiens, sapienter, sapientia, et quaecumque in uarias partes orationis, uariasque inflexiones, ab uno quodam ducta cernuntur.  Ex coniugatis igitur argumenti nascentis hoc exemplum est: sit enim dubitabile an in aliquo agro mihi atque uicino simul pascere liceat pecus, id est an ius sit compascere: subiectum igitur est ager, compascere uero praedicatum. Faciemus itaque argumentum hoc modo: Hic de quo quaeritur ager compascuus est, in compascuo autem licet compascere, in hoc igitur agro licet compascere. Hic igitur compascendi iuris argumentum ex compascuo sumptum est, ex coniugato uidelicet. Compascere enim et compascuum coniugata sunt. Sumptum uero est argumentum, ius esse compascere, quoniam sit ager compascuus sed coniugatum est compascuum ei quod compascere. A coniugatis igitur sumptum est argumentum, quod coniugatum in ipso est de quo agitur, id est in compascendo; omnia enim ex eodem fluunt, et sui sunt continentia atque se respicientia. Factum est igitur argumentum ex eo quod est in ipso, ab affectis, id est a coniugatis. Maxima uero propositio est: Coniugatorum in eo quod coniugata sunt, unam atque eamdem essu  naturam  uel sic: Cui conuenit aliquid, huic etiam coniugatum eius posse sociari. A GENERE SIC DUCITUR: QUONIAM ARGENTUM OMNE MULIERI LEGATUM EST, NON POTEST EA PECUNIA QUAE NUMERATA DOMI RELICTA EST NON ESSE LEGATA; FORMA ENIM A GENERE, QUOAD SUUM NOMEN RETINET, NUMQUAM SEIUNGITUR, NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR VIDETUR. Genus est quod de qualibet specie in eo quod quid est praedicatur. In eo quod quid est praedicari dicitur, quod de qualibet specie interrogantibus quid sit, rcsponderi conuenit, et eius de qua respondetur speciei substantiam monstrat. Semper uero genus propria specie maius est, eamque intra ambitum suae praedicationis includit. Quo fit ut, quamuis in alia quoque dispartiri genus possit, speciem tamen suam nullo modo derelinquat, uelut animal quidem praedicatur de homine, et hominis substantiam monstrat; interrogantibus enim modis quid est homo, animal respondetur. Idem tamen deduci in alia potest, uelut in equum atque bouem, quae animalia nuncupantur. Sed ita deducitur in diuersa, ut unamquamque earum specierum quas continet, non relinquat. Ubicumque enim fuerit homo, necesse est ut sit animal, homo enim animal est. Idemque de boue ac de caeteris. Ergo liquido demonstratum est nomen generis a specie nullo modo separari. Quod si aliquando generis uocabulum uniuersaliter enuntietur, nec esse est omnes species designari, ut si quis dicat omne animal, et hominem designabit et houem, et caeteras omnes species sub animalis nomine collocatas.  Quae cum ita sint, quidam testamento mulieri argentum omne legauerat. Quaeritur an ei etiam numerata pecunia sit legata: numerata igitur pecunia in hac quaestione subiectum est, legata uero praedicatum. Considero igitur in alterutro eorum quidnam insit, ut ex eo quod in ipso est aliquod argumentum requiram. Video subiectum terminum, qui est numerata pecunia, habere argentum genus, quod affectum est, scilicet ad speciem suam ad quam refertur. Quae enim ad se inuicem referuntur, affecta sunt; ergo quoniam argentum omne legatum est, et genus speciem propriam non relinquit, nec esse est ut numerata quoque pecunia sit legata. Nam cum omne nomen generis legatum sit, nihil de speciebus uidetur exceptum, uelut si quis dicat, omne animal uiuere, non ut arbitror tantum hominem uel bouem, uel equum, uel sigillatim caetera, uel unum, uel plura uiuere dicit, ut tamen aliqua cum sint animalia, uitae munere carere contendat sed omne prorsus quidquid fuerit animal, uiuere proponit. Cum igitur omne genus, id est omne argentum legatum sit, nulla species excipitar. At numerata pecunia argentum est, fit igitur ut numerata quoque pecunia legati uocabulo possit includi.  Est igitur quaestio quidem, ut dictum est, an numerata pecunia legata sit; argumentum ab eo quod in ipso est, id est a genere quod inest propriae speciei, id est ab affectis, quod est ita ut ad id referatur; hoc autem est argentum, ab affectis, id est a genere. Praedicatur enim ut genus argentum de numerata pecunia. Interrogantibus enim nobis quid sit numerata pecunia iure respondemus, argentum. Maxima propositio est:  Cui conuenit omne genus, eidem unamquamque speciem conuenire.  Quam Marcus quoque Tullius diuersis quidem uerbis sed eadem significatione proposuit dicens: FORMA ENIM A GENERE QUOAD SUUM [1070C] NOMEN RETINET, NUNQUAM SEIUNGITUR. NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR VIDETUR.  A FORMA GENERIS, QUAM INTERDUM, QUO PLANIUS ACCIPIATUR, PARTEM LICET NOMINARE HOC MODO: SI ITA FABIAE PECUNIA LEGATA EST A VIRO, SI EI VIRO MATERFAMILIAS ESSET; SI EA IN MANUM NON CONVENERAT, NIHIL DEBETUR. GENUS ENIM EST UXOR; EIUS DUAE FORMAE: UNA MATRUMFAMILIAS, EAE SUNT, QUAE IN MANUM CONUENERUNT; ALTERA EARUM, QUAE TANTUM MODO UXORES HABENTUR. QUA IN PARTE CUM FUERIT FABIA, LEGATUM EI NON VIDETUR.  Species est, quae propriis differentiis intormata sub praedicatione generis collocatur. Differentiae uero propriae a caeteris eam speciebus separant atque seiungunt, uelut homo cum sit animalis species, differentiis informatur rationabililatis atque mortalitatis, et seiungitur ab his animalibus quae aeterna sunt, uelut sol a Platonicis creditur, et ab iis animalibus quae sunt rationis expertia. Cum igitur omnes species inter se propriis differentiis distent, nec esse est quod de altera specie dicitur, id in alium non posse transferri, uelut quod de homine dicitur specialiter, idem de equo alque boue non possit intelligi. Ducitur autem a specie quoties genus ipsum ueluti in quamdam contrahitur portionem. Velut si quis dicat illud animal sibi adduci debere, quod sit rationale et mortale, non utique de equo, uel boue, aut de caeteris, nisi tantum de homine dictum esse intelligitur. Ut igitur generaliter dictum genus omnes species claudit, cum quis dicit omne animal, sic quodlibet animal designatum speciem facit.  Quae cum ita sint, a forma generis, id est a specie generis tale fit, argumentum, quam formam generis Cicero partem saepe nominat, quo id quod dicitur planius fiat. Notius enim nomen partis est quam formae; quo autem distet forma a partibus, et nos strictim superius diximus, et paulo post a Ciceroue ipso latius explicabitur. Nunc de proposito uideamus exemplo. Uxoris species sunt duae, una matrumfamilias, altera usu; sed communi generis nomine uxores uocantur.  Fit uero id saepe, ut species iisdem nominibus nuncupentur, quibus et genera; mater uero familias esse non poterat, nisi quae conuenisset in manum; haec autem certa erat species nuptiarum. Tribus enim modis uxor habebatur, usu, farreatione, coemptione; sed confarreatio solis pontificibus conueniebat. Quae autem in manum per coemptionem conuenerant, hae matresfamilias uocabantur. Quae uero usu uel farreatione, minime. Coemptio uero certis solemnitatibus peragebatur, et sese in coemendo inuicem interrogabant, uir ita, an mulier sibi materfamilias esse uellet. Illa respondebat uelle. Item mulier interrogabat an uir sibi paterfamilias esse uellet, ille respondebat uelle. Itaque mulier, uiri conueniebat in manum, et uocabantur hae nuptiae per coemptionem, et erat mulier materfamilias uiro, loco filiae. Quam solemnitatem in suis Institutis Ulpianus exponit.  Quidam igitur extremo iudicio omne Fabiae uxori legauit argentum, si quidem Fabia ei non tantum uxor, uerum etiam certa species uxoris, id est materfamilias esset, quaeritur an uxori Fabiae legatum sit argentum. Uxor Fabia, subiectum est; legatum argentum, praedicatum. Quaero igitur quodnam ex his argumentum sumere possim, quae in quaestione sunt posita, ac uideo uxori duas inesse formas, quarum una tantum uxor est, altera materfamilias, quae in manum conuentione perficitur. Quod si Fabia in manum non conuenit, nec materfamilias fuit, id est, non fuit ea species uxoris, cui argentum omne legatum est. Quocirca quoniam id quod de alia specie dicitur, in aliam dici non conuenit, cumque Fabia praeter eam speciem sit, quae in manum conuenerit, id est quae materfamilias sit, et uir matrifamilias legauerit argentum, non uidetur Fabiae esse legatum.  Quaestio igitur, ut dictum est, an uxori Fabiae omne argumentum legatum sit: subiectum, uxor Fabia; praedicatum uero, legatum argentum. Argumentum ab eo quod est in ipso de quo quaeritur, id est ab eo quod est in uxore de qua quaeritur. Est autem in uxore de qua quaeritur species uxoris, ea scilicet quae in manum non conuenit quae ad eam affecta est. Omnis enim species ad suum genus refertur, id est forma; factum est igitur argumentum ab eo quod est in ipso, ab affectis, a forma generis. Maxima propositio est: Quod de una specie dicitur, id in alteram non conuenire. A SIMILITUDINE HOC MODO: SI AEDES EAE CORRUERUNT VITIUMUE FACIUNT QUARUM USUS FRUCTUS LEGATUS EST, HAERES RESTITUERE NON DEBET NEC REFICERE, NON MAGIS QUAM SERVUM RESTITUERE, SI IS CUIUS USUS FRUCTUS LEGATUS ESSET DEPERISSET. Similia dicuntur, quae eiusdem sunt qualitatis ex quibus hoc modo sumitur argumentum: Quidam testamento aedium usumfructum legauit, id est concessit aedes, ut his alius dum uiueret uteretur; hae coeperunt uel uitium facere, id est ruinam minari, uel etiam corruerunt. Petit igitur ab haerede is cui aedium ususfructus legatus est, ut earum sibi aedium quae a testatore legata sunt damna compenset, et aedes quae uitium fecerunt uel corruerunt restituat. Quaeritur an earum aedium quarum ususfructus legatus sit, uitium uel ruinam haeres restituere cogatur. Hic igitur subiecta quidem oratio est, ueluti quidam terminus, aedium quarum ususfructus legatus sit, ruinam uel uitium. Praedicata uero oratio, loco termini constituta, ab haerede restitutio.  Sumo igitur a simili argumentum, hoc modo: Quoniam si quis serui usumfructum legauerit, isque seruus aliquo modo deperierit, non cogitur restituere haeres seruum, ne nunc quidem cogetur haeres restituere aedes, quae in usumfructum legatae, ruinam uitiumue iecerunt. Similes est enim serui ususfructus legatio aedium ususfructus legationi. Simile est etiam seruum in usumfructum legatum si deperierit, ab haerede non restitui, et aedium in usumfructum legatarum uitium ruinamue ab haerede non refici.  Est igitur quaestio quidem an aedium in usum fructum legatarum uitium uel ruinam haeres restituere cogatur. Terminus uero subiectus quidem, aedium in usumfructum legatarum. uitium uel ruinam, praedicatus autem ab haerede restitutio. Argumentum uero ab eo quod in ipso est, id est ab eo quod inest, uel ruinae, uel uitio aedium in usumfructum legatarum. Id autem est affectum, id est similitudo. Omnis enim similitudo ei inesse perpenditur quod est simile, simililudo uero est serui ususfructus legati pereuntis, quem restituere haeres non cogitur. Maxima uero propositio: Similibus rebus eadem conuenire. A DIFFERENTIA: NON, SI UXORI VIR LEGAVIT ARGENTUM OMNE QUOD SUUM ESSET, IDCIRCO QUAE IN NOMINIBUS FUERUNT LEGATA SUNT. MULTUM ENIM DIFFERT IN ARCANE POSITUM SIT ARGENTUM AN IN TABULIS DEBEATUR. In rebus plurimum differentibus quod de altera earum dicitur non uidetur in alteram conuenire.  Id cum ita sit, quidam argentum suum omne legauit uxori. Illa pecuniam quoque quae in nominibus debebatur, suam esse dicebat, quod omnis pecunia nomine uocaretur argenti. Quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debebatur, legatum sit. Hic igitur subiectus est terminus, argentum quod in nominibus debebatur, legatum uero praedicatur. A differentia igitur faciemus argumentationem hoc modo: Idem de plurimum differentibus rebus intelligi non potest.  Plurimum uero differt argentum in arca ne sit positum, an in nominibus debeatur. Nam quae posita in arca pecunia est iuris est nostri, in nominibus uero debita non est nostra; nam quod mutuum datur, ex meo fit accipientis, atque ideo non cogitur eamdem ipsam pecuniam debitor restituere creditori sed aliam tantam. In arca uero posita pecunia, et in nominibus debita, non sunt argenti uel pecuniae species sed differentiae; nam argenti species signatum acnon signatum esse dictae sunt. Qualitas uero pecuniae in possessione positae uel non positae sed non modis omnibus alienae, in his differentlis constat, ut alia sit in arca posita, reliqua in nominibus debeatur; atque hoc idcirco dictum est ne quis non a differentiis sed a specie argumentationem ductam putaret. Qualitas enim substantialis non speciebus sed differentiis annumeratur. Cum igitur suum omne quod fuerit argentum uir uxori legauerit, cumque manifestum sit id ad eam pertinere quod fuerit suum legantis, id est quod in arca fuerit conditum, non potest idem intelligi de eo quod in nominibus debebatur, quoniam, sicut dictum est, id quod in nominibus debetur ab eo quod in arca positum est plurimum differet. Facta est igitur argumentatio ab eo quod inerat, de quo quaerebatur. Quaerebatur uero de argento in nominibus debito. In hoc uero inerat propria differentia, qua ab alio differebat argento, eo scilicet quod in arca positum fuerit. Id uero est affectum, id est differentia. Maxima uero propositio, de rebus plurimum differentibus, idem intelligi non posse. EX CONTRARIO AUTEM SIC: NON DEBET EA MULIER CUI VIR BONORUM SUORUM USUM FRUCTUM LEGAVIT CELLIS VINARIIS ET OLEARIIS PLENIS RELICTIS, PUTARE ID AD SE PERTINERE. USUS ENIM, NON ABUSUS, LEGATUS EST. EA SUNT INTER SE CONTRARIA. Quod de aliqua re dicitur, id in eius contrarium non potest conuenire. Idem enim de duobus contrariis intelligi nullo modo potest. Quidam igitur supremae uoluntatis arbitrio uxori bonorum suorum usumfructum legauit, mulier cellas uinarias oleasque plenas ad usumfructum proprium deuocabat. Quaeritur an penus quoque ususfructus legatus sit; penus igitur ususfructus est subiectum, legatus praedicatum. A contrario igitur sumitur argumentum hoc modo: Utimur his quae nobis utentibus permanent, his uero abutimur quae nobis utentibus pereunt; ergo, cum permanere ac perire contraria sint, usus quoque et abusus contraria nec esse est iudicentur. Quod si caetera quidem utendo permanent, cellae autem uinariae atque oleariae utendo consumuntur, aliarum quidem rerum ususfructus esse potest; penus uero non potest usus esse sed potius abusus. Ergo cum uir uxori usumfructum bonorum suorum legauerit, non potuit legare contrarium, quod est abusus; est uero abusus uini atque olei, uinum igitur atque oleum ad usumfructum mulieris non potest pertinere.  Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est ab ususfructus legatione, atque ab affecto, id est contrario; contraria uero in contrariis non ita sant, tanquam definitio in eo quo definitur sed tanquam relatio. Omnis enim relatio in relatiuis, omniaque contraria non id quod sunt, id est qualitates sed hoc ipsum quod contraria sunt, in contrariis esse dicuntur, quia non secundum qualitatem propriam sed secundum distantiam plurimam sibi inuicem conferuntur. Maxima propositio est, quod alicui conuenit, id eius contrario non conuenire.  [4.18] AB ADIUNCTIS: SI EA MULIER TESTAMENTUM FECIT QUAE SE CAPITE NUMQUAM DEMINUIT, NON VIDETUR EX EDICTO PRAETORIS SECUNDUM EAS TABULAS POSSESSIO DARI. ADIUNGITUR ENIM, UT SECUNDUM SERVORUM, SECUNDUM EXSULUM, SECUNDUM PUERORUM TABULAS POSSESSIO VIDEATUR EX EDICTO DARI.  Adiuncta sunt, quae proximum ac finitimum locum tenent, ut si unum eorum quolibet exstiterit modo, [1074B] alterum quoque uel exstitisse, uel exstare, uel exstaturum esse uideatur: haec enim sibi quasi uicina sunt. Quae uero in existendo sibi sunt proxima, haec uel antecedere rem uolunt, ut amor saepe concubitum, uel simul esse, ut pallor et timor, uel euenire posterius, ut post iracundiam caedes. Eaque est adiunctorum natura, ut separari quidem possint, tamen sese inuicem monstrent. Nam neque qui amauit, necessario potitus est, et saepe qui potitus est, non amauit. Nec qui pallet, necessario timet, et saepe non timens pallet. Nec ex necessitate iratus occidit, et occidit saepe aliquis non iratus. Sed tamen si de singulis inquiratur, eum concubuisse qui amauit, et pallere qui timet, et occidisse qui fuerit iratus, uerisimile est, non quod ita neo esse sit sed quia ex uicinis uicina colligimus.  Nam quod ad exemplum attinet huius argumenti, haec similitudo est.  Capitis diminutio est prioris status permutatio. Id multis fieri modis solet, uel maxima, uel media, uel minima. Maxima est, cum et libertas et ciuitas amittitur, ut deportatio. Media uero, in quo ciuitas amittitur, retinetur libertas, ut in Latinas colonias transmigratio. Minima, cum nec ciuitas nec libertas amittitur sed status prioris qualitatis imminuitur, uel adoptatio, aut quibuslibet aliis modis prior status, relenta ciuitate, potuerit immutari.  Mulieres uero antiquo iure tutela perpetua continebat. Recedebant uero a tutoris potest ate quae in manum uiri conuenissent, itaque febateis prioris, status permutatio, et erat capite diminuta, quae uiri conuenisset in manum. Quaedam igitur quae se nunquam capite diminuisset, id est quae in manum uiri minime conuenisset, sine tutoris auctoritate testamentum fecit. Quaeritur an secundum eius tabulas ex edicto praetoris debeat dari possessio. Hic subiectus quidem terminus, mulieris nunquam capite diminutae tabulae, praedicatus uero possessionis concessio.  Sumitur ergo ab adiunctis argumentum, hoc modo. Nam si secundum mulieris; tabulas nunquam capite diminutae possessio detur, nihil causae est cur non secundum puerulorum quoque et seruorum tabulas ex edicto praetoris possessio permittatur. Quid enim officere potest, ne secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio deferatur? Id scilicet quod ea quae testamentum confecerat, sui non fuit iuris, quod idem et de pueris et de seruis dici potest. Illorum enim aetas, illorum conditio, in alterius sita est potestate.  Adiungitur ergo: Si secundum mulieris, quae in suo iure non esset, tabulas, possessio detur, secundum puerulorum quoque et seruorum tabulas possessionem dari, qui sui iuris minime sint, quoniam quidem illi sub tutoris, illi sunt sub domini potestate. Proxima namque est rei de qua quaeritur, quod eius est consequens, et postea existens, ut secundum seruorum puerorumque tabulas honorum possessio detur, si illud quod est in quaestione conceditur. Quaeritur enim an secundum mulieris tabulas nunquam capite diminutae possessio detur. Quam rem consequitur ut, si id fiat, secundum seruorum quoque puerorumque tabulas deferatur, quod quia fieri non oportet, ne rei quidem praecedentis existere debebit exemplum.  Nec tamen necessaria est consecutio sed uicina. Nam fieri potest ut id recipiatur solum secundum mulieris tabulas possessionem dari, non uero id ut secundum tabulas seruorum uel puerorum possessio concedatur. Sed proximum est ut qui nunc hoc recepit, posterius illud admittat. Est igitur argumentum ab adiunctis, id est ab eo quod in ipso haeret de quo quaeritur. Est autem quaestio de mulieris nunquam diminutae tabulis, ab affectis scilicet ab abiunctis. Maxima propositio: Ex adiunctis adiuncta perpendi. AB ANTECEDENTIBUS AUTEM ET CONSEQUENTIBUS ET REPUGNANTIBUS HOC MODO; AB ANTECEDENTIBUS: SI VIRI CULPA FACTUM EST DIVORTIUM, ETSI MULIER NUNTIUM REMISIT, TAMEN PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.  Antecedentia sunt, quibus positis, aliud necessario consequatur, licet illud quod antecedit, minus sit atque posterius. Minus quidem, ut si homo est, animal est; homo enim minus est animali, et tamen posito homine, consequitur ut animal sit. Posterius uero, ut si peperit, cum uiro concubuit; posterius enim est peperisse quam cum uiro concubuisse. Aliquoties uero et quod aequale, et quod simul, et quod prius est ponitur ul antecedens. Aequale quidem, ut: Si homo est, risibilis est.  Simul uero,  ut:  Si terra obiecta est, luna deficit.  Et haec sibi conuertuntur, ut consequentia fiant antecedentia, ut si risibilis est, homo est, et si iura defecerit, terrae adsit obiectio. Antecedens uero prius est, ut si arrogans est, odiosus est. Prius enim est arrogans, posterius odiosus. Illud tamen in omnibus manet, positis antecedentibus necessario consequentia trahi.  Exempli uero talis est explanatio: Ciuitatis Romanae, iure, liberi retinentur in patrum arbitrio, usque dum tertia emancipatione soluantur; ergo si quando diuortium intercessisset culpa mulieris, parte quadam dotis pro liberorum numero multabatur. De qua re Paulus, Institutionum libri secundi titulo de Dotibus, ita disseruit: Si diuortium est matrimonii, et hoc sine culpa mulieris factum est, dos integra repetetur; quod si culpa mulieris factum est diuortium, in singulos liberos sexta pars dotis a marito retinetur, usque ad mediam partem dumtaxat dotis. Quare quoniam quod ex dote conquiritur liberorum est, qui liberi in patris potestate sunt, id apud uirum nec esse est permanere.  Facto igitur diuortio, contenditur an dotis pars pro liberis apud uirum debeat permanere. Hic subiectum quidem est, factum diuortium a muliere nuntiatum; praedicatum uero, apud uirum sextae partis dotis post diuortium permansio. Quaestio an post diuortium factum, muliere nuntium remittente, sextam dotis partem apud uirum manere oporteat. Quaero igitur, si ab antecedentibus argumentum faciendum est, quid antecedat, quid consequatur. At si uiri culpa factum est diuortium, uideo, mulierem dotis parte non posse multari, etiam si prima repudii nuntium misit. Quod enim antecessit, ut uiri culpa fieret diuortium, id non permittit ut dotis pars mulieri pereat, quamuis prima repudii nuntium mittat. Non enim quia prius libellum repudii nuntiauit dotis parte multanda est sed absoluendi potius damno, quod non sua factum est, sed uiri culpa diuortium. Igitur antecedens est uiri culpa factum diuortium, consequeus uero dotis partem non retineri. Nam si hoc est, illud est.  Argumentationem uero faciam hoc modo: Si uiri culpa factum est diuortium, etiamsi mulier repudii nuntium misit, nullo modo tamen dotis parte multabitur. Sed uiri culpa diuortium factum est. Non igitur iure mulier dotis parte multabitur.  Quod si non multabitur dotis parte, nihil in uiri domo liberorum causa, dotis nomine relinquetur sed non multabitur dotis parte; nihil igitur apud uirum dotis relinquetur pro liberis. Utriusque uero conclusio syllogismi haec est: Si igitur uiri culpa factum est diuortium, pro liberis manere nihil oportet. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur: uersatur quippe intentio de dotis parte, eiusque apud uirum, post diuortium quod prima nuntiauerit, retentione; hoc uero antecessit, uiri culpa, quod quia praecedens est, affectum est, omne enim quid praecedit, ad id quod sequitur uec esse est ut referatur. Maxima propositio est: Ubi est antecedens, ibi erit et consequens  at in hac quaestione est antecedens, id est uiri culpa factum diuortium; ibi igitur consequeus erit, sextas non retineri. Cur autem ita superius argumeutum conclusionibus intexuerim, cum de his M. Tullio latius exsequente, tractauero, euidentius apparebit. A CONSEQUENTIBUS: SI MULIER, CUM FUISSET NUPTA CUM EO QUICUM CONUBIUM NON ESSET, NUNTIUM REMISIT; QUONIAM QUI NATI SUNT PATREM NON SEQUUNTUR, PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.  Consequentia sunt quae cum fuerint antecedentia posita, consequuntur,  ueluti si dicamus: Si homo est, animal est  animal est consequens. Sed in proposito exemplo non satis apparet a consequentibus argumentum sed ab antecedentibus potius, quod paulo post liquebit.  Filii non iure suscepti in patrum non erant potestate sed matres potius sequebantur. Non autem omnibus erat connubium cum Romanis, nec erant nuptiae iure contractas, quas aut non inter ciuem romanum ciuem que romanam inibantur, aut cui princeps populusue ciuitatem uel connubium non permisisset, eo scilicet modo ut in potest atem parentum liberi redigereutur. Illud quoque uidendum, quod ex impari matrimonio suscepti, non patrem sed matrem sequuntur.  Ergo quasdam Romana uel cum Latino, uel cum peregrino, uel cum seruo, cum quo connubii ius non erat, nuptias fecit, dotem contulit, factoque inter eos diuortio, contenditur an nuptae mulieris cum eo cum quo connubii ius non erat, apud uirum dotis pars post diuortium debeat permanere. Hic subiectum quidem est, nupta mulier cum quo connubium non erat, praedicatum uero dotis partis apud uirum post diuortium retentionis iure permansio. Sumitur ergo a consequentibus argumentum hoc modo. Nam quia nuptias fecit cum eo cum quo connubii ius nullum est, id consequitur ut liberi patrem non sequantur. Si autem liberi patrem non sequuntur, ne in patris quidem sunt potestate, at si in patris potestate non sunt, matrique applicantur, apud uirum dotis pars non poterit permanere. Hic igitur antecedens est, cum quo connubii ius non erat, nuptiae; consequens uero, nihil pro liberis dotis nomine manere oportere. Concludatur argumentatio: Quoniam, non permisso connubio, liberi qui procreantur patrem non sequuntur, ne dotis quidem pars apud patrem pro liberis manere debet, quandoquidem non patrem filii sed matrem sequuntur.  Probatum est igitur pro liberis manere nihil oportere, ex hoc quod cum eo mulier nuptias fecit cum quo connubii ius non erat; hoc uero erat antecedens. Non ergo a consequenti sed ab antecedenti potius factum deprehenditur argumentum. Quod si per quod nihil dotis nomine manere oporteret, probaretur eam nuptias cum eo fecisse qui cum connubii ius non esset, recte a consequentibus argumentum factum esse diceretur. Fieret uero a consequentibus argumentum, si ita poneretur: si quid ex dote pro liberis manere oporteret, probatur, quia patrem liberis equuntur, cum eo nupta esse mulier, cum quo connuhii ius erat. Assumo quod est consequens: Sed mulier cum eo nupta non est cum quo connubii ius erat. Concludo antecedens: Nihil igitur dotis pro liberis manere oportebit quia patrem liberi non sequuntur. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo quaeritur. Quaeritur enim de his nuptiis, quarum nullum fuerit iure connubium. Ex affectis: omne enim consequens ad id quod praecedit refertur. Maxima propositio est: Ubi consequens non est, ibi ne antecedens quidem esse potest.  Ac de his erit alius uberius disserendi locus. A REPUGNANTIBUS: SI PATERFAMILIAS UXORI ANCILLARUM USUM FRUCTUM LEGAVIT A FILIO NEQUE A SECUNDO HAEREDE LEGAVIT, MORTUO FILIO MULIER USUM FRUCTUM NON AMITTET. QUOD ENIM SEMEL TESTAMENTO ALICUI DATUM EST, ID AB EO INUITO CUI DATUM EST AUFERRI NON POTEST. REPUGNAT ENIM RECTE ACCIPERE ET INVITUM REDDERE.  Secundus haeres dicitur qui haeredi instituto substituitar, ueluti si quis filium instituat haeredem, scribatque, si is filius intra pubertatem decesserit, nepotem uel quemlibet alium haeredem esse oportere; nepos igitur uel quilibet alius, secundus haeres dicitur.  Repugnantia sunt quae (ut dictum est) contraria sequuntur, si ipsis contrariis comparentur.  Quidam igitur haeredem testamento scripsit filium, ei quo secundum substituit haeredem, uxorique suae ancillarum usum fructum legauit a filio, dixitque ut uxori filius eius usumfructum ancillarum permitteret, neque illud adiecit, ut etiam secundus haeres eumdem usumfructum mulieri concederet. Successit filius, ac mulieri ancillarum contulit usumfructum. Illo mortuo intra pubertatem, agit secundus haeres, et usumfructum ancillarum mulieri extorquere conatur, dicens usumfructum ei a filio legatum, a seuero minime. Quaeritur utrum ea mulier legatum quod testamento acceperat inuita possit amittere. Hic igitur subiectum est legatum quod testamenti iure recte accepit. Praedicatum uero, inuitam posse amittere. Sumo igitur argumentum a repugnantibus. Repugnans uero est, si id quod contrario cousequens est alteri contrario comparetur, uelut in hoc ipso quod tractamus exemplo, recte accipere, et non recte accipere, contraria sunt sed non recte accipere comitatur inuitum reddere. Iure enim inuitus reddit, quod non recte accepit. Repugnat igitur inuitum reddere ei quod est reate accipere. Faciemus igitur argumentum sic: Qui testamento accepit, recte accepit; quod autem recte accipitur, inuito eo qui semel recte accepit, auferri non potest; at mulier testamento usumfructum ancillarum accepit; id igitur ei inuitae non poterit auferri. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est de eo quod rectae acceptum est. In ipso uero est uelut affectum contrarietatis modo, ut superius dictum est. Est autem argumentum a repugnanti. Maxima propositio: Repugnantia conuenire non posse. AB EFFICIENTIBUS REBUS HOC MODO: OMNIBUS EST IUS PARIETEM DIRECTUM AD PARIETEM COMMUNEM ADIUNGERE VEL SOLIDUM VEL FORNICATUM. SED QUI IN PARIETE COMMUNI DEMOLIENDO DAMNI INFECTI PROMISERIT, NON DEBEBIT PRAESTARE, QUOD FORNIX VITI FECERIT. NON ENIM EIUS VITIO QUI DEMOLITUS EST DAMNUM FACTUM EST, SED EIUS OPERIS VITIO QUOD ITA AEDIFICATUM EST, UT SUSPENDI NON POSSET. Causarum quidem multa sunt genera qua Cicero paulo posterius diuidit. Sed nunc de efficientium causarum disserit argumento. Efficiens uero causa est qua praecedente aliquod effectum est, non tempore sed proprietate naturae, uelut in hoc quod nunc declaramus exemplo.  Damni infecti promissio est quoties quis promittit, si quod damnum eius opera contigerit, sua restitutione esse pensandum.  Ius autem est parieti communi parietem alium uel fornicatum, id est arcum habentem, uel directum continuumque coniungere. Quidam igitur ad parietem communem alium extrinsecus parietem iunxit, deditque satis damni infecti. Communis autem paries fornicatus fuit, id est, arcum habens uel signinam fabricam sustinens; adiungente igitur eo qui satis dederat, et ut adiungeret de moliente partem parietis, quo iunctura cohaeresceret, uitium communis paries fecit; quaeritur an damni infecti promissio cogat eum qui promiserit damnum restituere. Subiectus terminus damni infecti, promissio; praedicatus uero uitii, restitutio.  Sumimus igitur argumentum a causis hoc modo. Si enim is qui damni promisitinfecti restitutionem eius uitii causa fuit, restituere debet uitium quod eius accidit culpa; quod si ea natura parietis fuit ut suspendi sustinerique non posset (fornicati enim parietis non ea natura est ut suspendi queat), parietis potius forma quam demolientis culpa uitium fecisse uidebitur, atque ita non cogitur restaurare uitium qui se damni infecti promissione obstrinxerit. Fiet igitur argumentatio hoc modo: Si penes parietis formam constituit ut eo adungente [1079B] parietem qui damni infecti promiserat, uitium fieret, id uitium, qui promisit, praestare non cogitur. Fuit autem causa paries ut uitium fieret, qui ea fuit natura ut suspendi sustinerique non posset. Non igitur quod fornix uitium fecerit, praestare debet quidamni promisit infecti. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est in uitii restitutione, ex effecto, id est ex causa. Causa enim uitii form. a est parietis, non culpa coniungentis parietem. Itaque factum est ut fornix uitium faceret, quae causa uitii, cum absit ab eo qui parietem iunxit, abest etiam eiusdem uitii restitutio. Maxima propositio: Unamquamque rem ex causis spectari oportere. AB EFFECTIS REBUS HOC MODO: CUM MULIER VIRO IN MANUM CONVENIT,  OMNIA QUAE MULIERIS FUERUNT VIRI FIUNT DOTIS NOMINE. Effecta sunt quae aliquibus efficiuntur causis, non tempore praecedentibus sed natura, uelut si quaerat, uxore defuncta quae in manum uiri conuenit, an eius bona ad uirum pertineant. In qua quaestione, bona uxoris defunctae quae in manum uiri conuenerit, subiectum est, ad uirum autem pertinere, praedicatum. Quaero igitur argumentum ab effecto, dispicioque quid perfecerit ipsa in manum conuentio, atque ex eo argumentum trabo; id autem est, omnis uiri dotis nomine fieri, quaecumque mulieris fuere. Ipsa igitur in manus uiri conuentio, omnia quae mulieris fuere, uiri fecit dotis nomine, non praecedens tempore sed statim propria ui naturae. Nam ut in manum quaecumque conuenerit, mox eius bona dotis nominee uirum sequuntur.  Facio igitur argumentum sic: Si mulier quae defuncta est in manum conuenit, in manum uero conuenientis mulieris bona uiri fiunt dotis nomine, haec quoque bona de quibus agitur, uiri sunt.  Argumentum ex eo quod in ipso est, de quo agitur, continetur. Agitur enim de bonis eius quae in manum conuenerit, scilicet ab effectis, id est a causae effectis. Effectum namque est, in manum conuentione omniaquae mulieris sunt uiri fieri sed a causa quanquam hic quoque non ab effectis dotis nomine, tactum argumentum esse monstretur.  Ostensum est enim fieri uiri dotis nomine, quidquid mulieris fuerit, ex eo quod mulier in manum conuenerit. Sed haec causa est ut quae mulieris erant, uiri fiant dotis nomine. Sed dicat quis, ex eo quod ea quae mulieris fuerant, uiri fiunt dotis nomine, id est approbare quod defunctae bona ad uirum debeant pertinere. Sed quae mulieris sunt, ea uiri fieri dotis nomine, et bona ad uirum pertinere, uel idem est, uel neutrum alteri causa est; uel si quis dicat eam esse causam, ut bona mulieris uiro debeant cedere, quod per in manus conuentionem uiri facta sunt, dotis nomine, a causa rursus, ac non ab effectis factum esse argumentum putabit, id est a dote; ab effectis uero non oportet aliud nisi causam probari.  Esset uero ex effectis argumentum, ut ex eo causa probaretur hoc modo: Si quaestio esset an mulier in manum uiri conuenisset, et indubitatum haberetur, omnia quae fuissent mulieris, uiri facta dotis nomine, diceretur [1080B] ita: Si omnia quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier in manum uiri conuenit; sed omnia quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier igitur in manum uiri conuenit. Maxima propositio: Causas ab effectis suis non separari.  EX COMPARATIONE AUTEM OMNIA VALENT QUAE SUNT HUIUSMODI: QUOD IN  RE MAIORE VALET VALEAT IN RE MINORE, UT SI IN URBE FINES NON REGUNTUR,  NEC AQUA IN URBE ARCEATUR. ITEM CONTRA: QUOD IN MINORE VALET, VALEAT IN  MAIORE. LICET IDEM EXEMPLUM CONUERTERE. ITEM: QUOD IN RE PARI VALET, VALEAT  IN HAC QUAE PAR EST; UT: QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI BIENNIUM EST, SIT  ETIAM AEDIUM. AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR ET SUNT CAETERARUM RERUM  OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. VALEAT AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS  PARIA IURA DESIDERAT. A comparatione locus qui dicitur, tripartito scinditur; aut enim a comparatione maiorum, aut a comparatione minorum, aut a comparatione parium nascitur. A comparatione igitur maiorum est, quoties maiore minoribus comparantur, hoc modo, ut quod in re maiore ualet, ualeat in minore.  Sit enim quaestio an in urbe aquam liceat arceri. In hac igitur subiectus est terminus, in urbe aqua, praedicatus uero, ius arcendi. Regi fines dicuntur quoties unusquisque ager propriis finibus terminatur. Arcet uero aquam qui eam per sua spatia meare non patitur. Faciamus igitur argumentum sic. Quoniam plus est regi fines, minus uero arceri aquam, si in ciuitate fines non reguntur, quod maius est, ne id quidem quod minus est, fiet, ut aqua in ciuitate arceatur. Hic igitur sumptum est argumentum ab eo quod in ipso haeret de quo quaeritur. Quaeritur uero de arcendae aquae iure, ab atlecto scilicet, id est a maiori, quod refertur ad id quod minus est. Notandum uero quod Tullius maximam propositionem argumentationi inclusit hoc modo: Quod in re maiori ualet, ualeat in minori  et deinceps ea nixus, argumentationem expediuit, ut mani testius appareat id quod in primo uolumine commemoratum est, has maximas propositiones; aliquoties quidem argumentationibus includi, ut in praesenti monstratur exemplo, alias uero uires argumentationibus dare, ut in superioribus exemplis locorum.  Quod si idem conuertamus exemplum, dicemus: Quod in re minori ualet, ualeat etiam in maiori. At in  urbe aqua arcetur, regantur igitur fines.  Hic tamen quaestio permutatur hoc modo: Quaeritur enim an in urbe fines oporteat regi. Sed a minore sumitur argumentum, id est ab arcenda aqua, ut sit hic quoque argumentum ab eo quod in ipso est, id est ab eo quod est in regendis finibus, ab affecto scilicet, id est a minori. Id enim quod minus est affectum est, illud namque respicit ad id quod comparatur. Hic quoque maxima propositio a Tullio posita est, eaque est: Quod enim in re minori ualet, ualet etiam in maiori.  A paribus uero fit similiter comparatio. Nec esse est enim ut ualeat aequitas, quae paribus in rebus paria iura desiderat.  Plurimarum igitur rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, eas firma iuris auctoritate possideat, uelut rem mobilem. Fundi uero usucapio, biennii temporis spatio continetur, de aedibus in lege nihil ascriptum est. Quaeritur ergo, usus aedium unone anno, an biennio capiatur. Faciemus a paribus argumentationem, et quoniam immobilium aequa possessio est, aedes uero immobiles sunt, ut biennio fundus usucapiatur, ita etiam oportet aedes usucapere biennio possidentem. Aequitas enim paribus in rebus paria iura desiderat.  Quae etiam maxima propositio a Tullio clarissime posita est sed exemplum restrictius positum est, nec promptissime ad intelligendum. Ita namque ait: UT QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI PER BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio fieri sentit sed adiungit: AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR, ET SUNT CAETERARUM OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. Hic rursus aedes in his uidetur ponere quae annuo usucapiuntur, et concludit nihil definiens, nisi VALEAT AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT.  Sed uidetur ita dictum, quoniam immobiles sunt aedes ut fundus, biennio uero fundus usucapitur, aedes quoque biennio usucapiantur, et sibi ipse rursus opponit sed in lege duodecim tabularum, de aedibus nihil ascriptum est, et inter eas relictae sunt res, taciturnitate legis, quarum est usus annuus. Nam cum de fundo praescriberet lex biennii usucapionem, tacuit aedes, et iis potius hac taciturnitate eas iunxit quarum annuus est usus. Sed soluit obiectionem ita: sed AEQUITAS PARIBUS IN rebus PARIA IURA DESIDERAT. Itaque quoniam aeque fundus atque aedes immobiles sunt, aeque biennio usucapientur.  Factum est igitur hic quoque argumentum ab eo quod in ipso est de quo quaeritur, id est ab affecto, id est pari. Nam cum agatur de aedium possessione, argumentum sumptum est ab usucapione fundorum.  Expeditis igitur his locis qui in ipso de quo agitur inhaerebant, nunc iam loci eius quem dixit esse extrinsecus, ponit exemplum. Hic uero est qui sumitur ab auctoritate iudicii locus ualde probabilis, etiamsi non maximae necessitatis. Quae enim necessaria sunt, haec ex propria considerautur natura. Quae uero probabilia sunt, plurimorum iudicium exspectant. Ea namque sunt probabilia, quae uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel maxime famosis atque praecipuis, uel secundum unamquamque artem scientiamque eruditis, ut quod medico in medicina, geometrae in geometria, caeterisque in propria studiorum facultate ueritatis. De quo extrinsecus loco sic loquitur:  QUAE AUTEM ASSUMUNTUR EXTRINSECUS, EA MAXIME EX AUCTORITATE DUCUNTUR. ITAQUE GRAECI TALIS ARGUMENTATIONES *ATECHNOUS* UOCANT, ID EST ARTIS EXPERTIS. Alia quippe argumenta sunt, quae ipse elicit orator, atque ipse quodam modo ex designatis locis sibi comparat, et propria facultate conquirit. Alia qua extrinsecus posita non ipse inuenit sed praesentibus utitur et paratis, ueluti testimonia, tabulae, fama, caeteraque de quibus M. Tullius latius tractaturus est. Non enim sibi ipse testimonia parat orator sed paratis utitur, nec ipse, iudicium facit sed iam posito ac spontaneo rumore ueniente utitur ad causam.  Atque idcirco hos locos Graeci *atechnous* uocant, id est inartificiales, atque, ut Tullius dixit, artis expertes. Quae enim non proprio oratoris artificio comparantur sed se extrinsecus uenientia subministrant, haec iure artis expertia sunt appellata. Huius exemplum est: UT SI ITA RESPONDEAS: QUONIAM P. SCAEVOLA ID SOLUM ESSE AMBITUS AEDIUM DIXERIT, QUOD PARIETIS COMMUNIS TEGENDI CAUSA TECTUM PROICERETUR, EX QUO TECTO IN EIUS AEDIS QUI PROTEXISSET AQUA DEFLUERET, ID TIBI IUS VIDERI.  Solum ambitus aedium est, quantum soli AEDIUM AMBITUS claudii. SCAEVOLA igitur dixit id esse AMBITUS AEDIUM SOLUM, quod tecti diffusione tegeretur. Manifestum est enim tecta latius fundi, nec parietibus adaequari, ut stillicidium longus cadat.  Quae cum ita sint, quidam parietem communem tegere nitebatur, quaeritur an sit aliquod ius tegendi. Respondeas tu, inquit, Trebati, id ius esse angendi parietis communis, ut in eius qui tegit non aliud quodlibet tectum stillicidii aqua fundatur, alias non esse iuris ut tegat quis parietem, stillicidio in uicini tecta defluente. Haec enim stillicidii seruitus noua, nisi consentiente uicino, nihil iuris habet.  Sed si huic responso opponatur, ne sic quidem ut tegat esse iuris, quandoquidem aedium solum tantum est, quantum cuiusque parietes claudunt, qui uero legit, tectum longius mittit, tu inquit, responsum tuum Scaeuolae auctoritate firmabis, dicens Scaeuolam respondisse hoc ESSE SOLUM AMBITUS AEDIUM, quantum tectum proiiceretur, non quantum parietes ambirent. Ius est igitur proiicere tectum, qui intra ambitum adhuc suarum aedium tegit sed ita ut in suum tectum aqua defluat, nec uicino noua noceat seruitute.  In qua quaestione neque a subiectoneque a praedicato termino ductum est argumentum, quod in his locis considerari moris est, qui in ipsis haerent de quibus agitur terminis, ut in omnibus exemplis est diligentissime declaratum. Sed quia sumitur argumentum extrinsecus, dubitationi iudicium cuiuslibet opponitur, ut nunc Scaeuolae, cuius auctoritate responsum est, atque ideo ex loco qui uocatur extrinsecus sumptum dicitur argumentum.  HIS IGITUR LOCIS QUI SUNT EXPOSITI AD OMNE ARGUMENTUM REPERIENDUM TAMQUAM ELEMENTIS QUIBUSDAM SIGNIFICATIO ET DEMONSTRATIO [AD REPERIENDUM] DATUR. UTRUM IGITUR HACTENUS SATIS EST? TIBI QUIDEM TAM ACUTO ET TAM OCCUPATO PUTO.  SED QUONIAM AVIDUM HOMINEM AD HAS DISCENDI EPULAS RECEPI, SIC ACCIPIAM, UT RELIQUIARUM SIT POTIUS ALIQUID QUAM TE HINC PATIAR NON SATIATUM DISCEDERE.  Omne elementum principium est eius rei cuius elementum esse perpenditur.  Nam eius quod ex elementis fit, ipsa elementa nec esse est loco esse principii; ergo quoniam hi loci superius designati argumentorum quasi quaedam principia sunt (ipsi enim sunt qui continent argumenta; omne autem quod continet, eius quod continetur principium est), idcirco ait Cicero ueluti quaedam elementa argumentorum uideri locos hos quos superius posuit Cautissimeque adiecit, quasi quaedam elementa; non enim integre elementa sed quasi in similitudine elementorum sunt hi loci qui in argumentis eificiendis sumuntur. Idcirco quoniam argumentorum quaedam uidentur esse principia, alioqui elementum omne, minima pars eius est cuius elementum est, et id quod ex elementis efficitur, partes inuicem coniungit, ut litterae orationem. At uero locus, non pars argumenti sed totum est. Est enim significatio quaedam, et demonstratio ad reperiendum argumentum data, ut si locum respexeris, noueris ubi conditur, unde duci debeat argumentum.  Sed reliqua ad Trebatium expeditissime dicta sunt, blanditurque ei etiam breuia posse sufficere acuminis praerogatiua, praesertim cum sit iuris occupatione districtus, et tempus legendi plura non habeat. Sed quoniam, ut inquit, auidissimum studii AD HAS doctrinarum EPULAS recepit, non uult degustatum sed satiatum relinquere, ut non desit aliquid sed de pleno etiam relinquatur, factaque esta conuiuando translatio iucundissima.  Declaratis igitur locis omnibus, eorumque exemplis diligenter expositis, pauca quaedam de locorum ui atque ordine disputabo, quibus plenissima disputatione expeditis, ad ea quae restant explananda transgrediar. Sed id tertio iam uolumine faciendum est, quoniam secundus liber habet proprium modum. Antequam latiorem M. Tullii diuisionem de enumeratis superius locis aggrediar, pauca, ut sum pollicitus, de ui atque ordine locorum mihi uidentur esse tractanda, ut eorum natura diligentius cognita, facilior se argumentorum copia subministret. Primum igitur quoniam loci omnes diuisi sunt in eos qui in ipso haerent de quo quaeritur, et in eos qui extrinsecus assumerentur, uidendum est qui nam sint hi loci qui in ipso haerent de quo quaeritur, et quid ab ipsis rebus differunt in quibus haerere dicuntur, atque illud quidem planissime expeditum est, ipsos dici terminos illos qui in quaestione uersantur, horum esse alterum praedicatum, alterum uero subiectum, superior expeditio patefecit.  Ab eo igitur termino de quo agitur, quid differt locus a toto? Quandoquidem idem est ipsum esse quod totum, neque enim est aliud esse quemlibet terminum in quaestione propositum, quam totum esse terminum eumdem qui in quaestione est constitutus; de paribus quoque idem dicimus. Nam si omnes partes efficiunt id cuius partes sunt, terminumque in quaestione propositum suae partes efficiunt, non est dubium quin partes quoque omnes conuenientes idem esse quod ipsum est, in quaestione propositum rectissime intelligantur. Notatio uero, eodem modo illud ipsum est quod in quaestione proponitur. Rem enim unamquamque omne uocabulum designat in quaestione ac denotat. Fit igitur ut totum, partes ac nota, idem quod est ipsum de quo quaeritur esse uideantur. In tanta igitur similitudine rerum danda est differentia. Neque enim, ut dictum est, si locus haeret in eo ipso de quo quaeritur, atque ab ipso de quo quaeritur capi non potest, argumentum fieri potest, tu locus idem esse possit quod ipsum est de quo quaeritur.  Sed haec differentia ipsum est quod confuse ac singulariter intelligitur, ut homo, in eo inest totum suum, quod est definitio ipsius; igitur totum, ab eo quod ipsum est, intelligentia separatur, quod illud quidem singulariter intelligitur, hoc uero sub generis ac differentiarum enumeratione monstratur. Diuidit enim definitio atque dispertit, totumque patefacit quod in re ipsa singulariter intelligebatur; de partibus quoque eadem ratio est. Si enim ad membrorum multitudinem, uel specierum omnium enumerationem, singularis termini referas intellectum, statim ipsius ac partium differentias comprehendas. Nota etiam ab eo cuius nota est facile distat, quia illud uox et significatio est, illud res significationi supposita, eorum uero quae affecta sunt non sunt dubiae differentiae ab his quorum affecta esse monstrantur. Quis enim idem dicat esse coniugatum, quod est id cui coniugatum est? Quis idem dicat esse iuste, quod iustitia? Quis genus idem quod forma? quis contraria? quis similia? Quandoquidem neque contrarium, sibi ipsi contrarium esse potest, nec simile, sibi ipsi simile; nec genus, sibimetipsi genus; et de cateris eadem ratio est.  Nunc illud dicendum est, propter quod ista praemisimus; quandocumque enim ab illis tribus locis qui primi propositi sunt, argumenta sumuntur, id est a toto, a paribus, a nota, fit ut ipse quidem terminus ad cuius fidem quaeritur argumentum, intra quamlibet earum rerum contineatur, quae cum ad argumentum ductae fuerint, loci esse monstrantur. Velut cum fit argumentum a toto, ipse quidem terminus cui fides affertur, intra totum comprehenditur; totum uero ipsum quod est definitio, res est siquidem orationem, rem uocari placet. At si ex ea sumitur argumentum, fit locus itaque ipsum quidem de quo agitur, intra totum clauditur, a quo toto cum fit argumentum, fit ipsum totum, locus; quod totum, quoniam claudit terminum qui in quaestione uersatur eidem termino uidetur inhaerere. Quo fit, ut locus quoque qui a toto est, eidem inhaereat termino, de quo in quaestione dubitatur. Partium quoque enumeratio eumdem terminum claudit, quem partium collectione coniungit. Ipsaque partium enumeratio res quaedam est, ei oratio rebus annumeranda est. Sed si ab ea ducitur argumentum, fit locus. Sed quoniam partium multitudo in eodem termino est, quem conuentus partium iungit, nec esse est eum quoque locum qui est a coniunctione partium ipsi illi termino de quo quaeritur inhaerere. Nota etiam rem designat, et significatione aliquo modo comprehendit, a qua si ducitur argumentum, fit locus, et quoniam nomen omne si uidetur ad esse, cuius intelligentiam signat, locus quoque qui est a notatione, in ipso haeret de quo uersatur intentio.  At in affectis quae in tredecim partes diuisa sunt, non idem est. Nam quoniam respicientia quodammodo terminum sunt, et quasi extrinsecus constituta, non uidentur eodem modo coniuncta esse cum termino quo coniuncti sunt hi loci, qui a toto, a partium enumeratione, a nota esse praedicti sunt; sed tamen id quod affectum est, ad aliquid dicitur. Id uero aliquid iunctum est illi semper quod ad eius ducitur relationem, ac sine eo esse nunquam potest, quia cum ipso nascitur, et quodammodo altero dicto intelligitur alterum. Nam si id de quo quaeritur, eiusque affecta perpendas, ea quae perhibentur affecta, extra id de quo ambigitur, posita esse consideres, nihil enim eorum quae sunt ad aliquid, ex se ipso esse potest sed est semper ex altero: ut enim in praedicamentis ostenditur, omnia quae ad aliquid dicuntur, opposita sunt, non tamen ita disiuncta sunt ut omnino sint distributa sed quoniam relatiua praedicatione iunguntur, nec esse est aliquo modo in ipso sint ad quod uidentur affecta. Omne quippe affectum, ex eo ad quod affectum est suscipit formam, et sine eo esse non potest, et dicto altero, alterius se statim subiicit intellectus, ut cum dixero dimidium, duplum intelligitur, et cum patrem nominauero, filius ad intelligentiam uenit. Et omnia quaecumque ad aliquid sunt, ex sese pendent, nec a se inuicem deseruntur. Igitur omne affectum, et ad ipsum respicit ad quod refertur, et in ipso est. Ad ipsum quidem respicit, quoniam ad affectum suum uelut ad aliquid relatiue more praedicationis refertur; in ipso uero est, quod ea est affectorum natura ut alterum existat ab altero, seque ipsa possideant, quandoquidem et id quod uffectum uocatur, eius est termini ad quem consideratur affectum, et terminus in quaestione propositus affe. cto suo intelligitur esse connexus.  Quae cum ita sint, cum argumentum sumitur a coniugatis, quoniam id quod coniugatum est, affectum est ad id quod ei ex altera parte est coniugatum, id quidem de qua quaeritur in altrinsecus posito coniugato haeret. Is uero locus unde argumentum trahitur, ab altero ducitur coniugato, ueluti si compascuus ager est, ius est compascere. Igitur compascere atque compascuum coniugata sunt; sed quaerebatur an ius esset compascere, tractum uero est argumentum a compascuo; itaque terminus quidem de quo fuit quaestio, in altero coniugato positus deprehenditur, id est in compascendo; locus uero unde argumentum tractum est, in altero est, id est in compascuo.  Item quoties a genere ducitur argumentum, id de quo quaeritur in forma, haerere nec esse est, ut cum ostenditur legata esse numerata pecunia, quoniam fuerit argentum omne legatum. Quaeritur enim de numerata pecunia, quae est species argenti, et argumentum tractum est ab argento, id est a genere. Itaque ipsum de quo quaerebatur, in forma fuit, id est in specie. Argumentum uero tractum est ab affecto, id est a genere. Quod si a forma generis argumentum fiat, conuerso modo est, id quidem quod quaeritur in genere esse monstratur, ipsum uero unde sumptum est argumentum, in forma esse perpenditur. Nam cum quaeratur an legatum sit uxori argentum, ostenditur non esse legatum, quia non fuerit uxori tantum: legatum sed matrifamilias uxori. Uxor uero genus est matrifamilias uxoris. Quaeritur igitur de uxore, id est de genere. Argumentum factum est a matrefamilias, in est a forma.  Quoties uero a similitudine trahitur argumentum, quoniam id quod simile est, non sibi sed alteri simile esse perpenditur, res siquidem de quo quaeritur, in uno eorum quae sunt similia, posita est; at uero locus, in altero est, uelut cum quaeritur an haeres restituere uitium ruinamue cogatur aedium in usumfructam relictarum. In hoc igitur quaestio est, locus uero a simililudine, quia non oportet haeredem aedes restituere, sicut nec mancipium, si id aliqua ratione depereat. Cum igitur similis sit aedium ususfructus atque mancipii, quod quaeritur, in aedium usufructu positum est, locus uero, in usufructu mancipii.  In differentia quoque idem est: eorum namque quae differunt in altero positum est id quod quaeritur, in altero uero illud a quo id quod est ambiguum comprobatur, ut cum quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debeatur legatum sit. Hic igitur illud est quod dubitatur. In eo uero quod ab hoc differt, locus est a quo ostenditur minime legatum esse argentum quod in nominibus debeatur, quia multum differt in arca ne sit positum, an in nominibus scriptam.  A contrario quoque idem est, ut in eo quod quaeritur an ususfructus penus legatus sit. In usufructu igitur quaestio est sed probatur minime esse legatus, quia non potest esse usus earum rerum quae utendo pereunt sed potius abusus; in abusu igitur locus est, scilicet in altero contrariorum, cum fuerit in usu quaestio.  Ab adiunctis etiam locus in eodem modo ab eo quod quaeritur segregatus est, ut in uno adiuncto quaestio, in altero uero sit locus. Nam cum quaeratur an secundum mulieris tabulas nunquam capite diminutae possessio detur, in hoc quaestio est an detur, at in eius adiuncto, locus. Ostenditur enim minime dari debere possessionem, quia sit proximum ut secundum puerorum quoque atque seruorum tabulas bonorum possessio concedatur.  Ab antecedentibus uero ita est locus, ut quaestio sit in consequentibus. Nam cum quaeritur an aliquid dotis nomine pro liberis manere oporteat sumitur argumentum nullomodo manere oportere ex antecedentibus, quod uiri culpa factum est diuortium; locus itaque in antecedenti, quaestio uero in consequenti. Consecutum est uiri culpa factum esse diuortium, nihil apud patrem pro liberis permanere, cum uiri culpa praecesserit.  A consequentibus uero si sit argumentum, res quae dubia est in antecedentibus esse deprehenditur, uelut cum quaeritur an diuortio tacto, cum eo nupta esset mulier qui cum connubii ius non esset, dotis nomine aliquid pro liberis manere oporteat. Fit argumentum sic: Si quid ex dote pro liberis manere oporteret, quia patrem liberi sequerentur, cum eo nupta esset mulier, qui cum connubii ius esset, hic antecedens est, si quid de dote pro liberis manere oporteret, et in eo quaestio an aliquid manere oporteat. Consequens uero, cum eo mulier nupta, qui cum connubii ius esset, a quo sumitur argumentum, id est a consequenti. Nam cum manifestum sit, non cum eo nupta esse cum quo connubii ius erat, ostenditur quod miuime patrem liberi sequantur, atque idcirco nihil pro liberis manere oportere. Hic igitur res quidem quae dubitatur in antecedenti est, in eo scilicet an ex dote pro liberis manere aliquid oporteat, argumentum uero in eo loco qui est in consequentibus, id est in muliere quae nupta est cum eo cum quo nulla erant iura connubii.  A repugnantibus etiam quoties argumenta sumuntur, res quidem dubia in altero repugnanti, in aduerso uero locus est argumenti, ut cum quaeritur an possit inuita mulier reddere legatum, quod recte testamento semel accepit. Locus a repugnanti, minime posse inuitam reddere quod recte accepit. Quaestio igitur est in eo quod intelligitur inuitam reddere, argumentum uero in altero repugnanti, id est in eo quod intelligitur recte accipere. Pugnat enim inuitam reddere et recte accipere, sed quaestio in uno eorum est, locus in altero.  Quoties uero a causis efficientibus ducitur argumentum, quaestionem in effectis esse nec esse est, ut exemplo quo quaeritur an qui satis dederit damni infecti, uitium parietis praestare cogatur. In hoc igitur, id est uitio parietis, quaestio est sed de causa trahitur argumentum. Dicitur enim non oportere praestare, quoniam natura parietis causa fuerit uitii, non is qui de praestando uitio satis dedisset. Effectum ergo causae, uitium parietis fuit. Itaque quaestio quidem in effecto, locus uero esse consideratur ex causa. At si ab effectis aliquid approbetur, locus in effecto, quaestio in causa est constituta, ueluti cum quaeritur an mulier quaedam cuius bona uiri facta sint, dotis nomine in uiri manum conuenerit. Quoniam ergo in manum ex conuentione perficitur, ut bona mulieris post eius mortem uir adipiscatur, argumentum ducitur ab effectis. Efficitur enim per in manum conuentionem, ut quaecumque sunt mulieris, uiri fiant dotis nomine; ergo cum ea quae mulieris fuere, uir nomine dotis adipiscatur, mulierem in manum uiri nec esse est conuenire. Quaestio itaque est de muliere, an in manum uiri conuenerit. Argumentum uero ab effectu causae, id est in manum conuentionis. Hoc uero est quod ea quae fuere mulieris, uir nomine dotis acquirit, quo fit ut quod quaeritur, in causa, locus uero sit in effectis.  A comparatione uero maiorum si fuerit argumentum, quaestio erit in minoribus, ut si quaeratur an in urbe aqua debeat arceri, defendaturque minime debere, neque enim fines reguntur; ita in aqua arcenda, quod minus est, quaestio est, locus uero in finibus regendis, quod maius est. Contrariae uero, si a minore argumentum ducatur, erit id quod dubilatur in re maiori, ut si dubitetur an fines in ciuitate regantur, respondeamus minime, quoniam ne aqua quidem arcetur. Ita id quod dubitatur, in re maiore consistit, illud uero unde argumentum sumitur, in minori. Et in comparatione parium similis ratio est: in uno enim eorum quae sunt paria, quaestio consistit, in altero locus intelligitur argumenti, ueluti cum quaeritur an aedium usus biennio capiatur, id approbamus, quoniam fundorunm quoque. Cum ergo paria sint fundus atque aedes, quaestio quidem de aedibus est, argumentum uero ducitura fundo.  Ac de ui quidem locorum, quoque a se non quaestiones et loci argumentorum separentur, haec dicta sint. Nunc eorum ordinem breuissime commemorabo. Ex hoc itaque oritur omne iudicium, qui locus prior, qui sit posterior, existimandus, si eos terminos consideremus qui proposita quaestione uersantur. Quaecumque enim his terminis propinquiora sunt, haec rectissime priora numerantur. Posteriora uero quantum a propositis longissime quaeque rec esserint. Id autem tali ratione clarescet.  Primum namque, locorum est diuisa pluralitas in eos qui in ipso sunt de quo agitur, et in eos qui assumuntur extrinsecus, in quo praepositos esse intelligimus eos locos qui in ipso sunt, his locis qui trahuntur extrinsecus. Hic uero locus qui in ipso est, in primas quatuor distribuitur partes, quarum prima est definitio, qui locus a toto est nuncupatus. Idcirco autem primus a toto locus ponitur, quoniam nihil est alicui tam proximum, quam propria definitio. Consequitur enumeratio partium, quia post definitionem proximum locum partes tenere debent, quae totum id cuius partes dicuntur esse, coniungunt. His apponitur nota, quae quasi conuerso modo definitio est. Nam sicut definition explicat quod implicite nota designat, ita nota inuoluit et confuse indicat quod patefacit atque expedit definitio. Nota uero tertia ideo est, quia definitio substantiam tenet; partium enumeratio ea dinumerat quae totum compositum iungunt, nota uero nihil efficit sed tantum designat.  Post haec quae in ipsis terminis principaliter haerent, illa quae sunt affecta numerantur, quae iam non ipsis insunt terminis sed eosdem uelut exterius posita consequuntur, atque idcirco solum in ipsis esse dicuntur, quoniam sine his esse non possunt.  Quorum prima sunt coniugata. Nihil enim inter affecta sic proximum est, quam id quod et re et nomine participat, nisi quod parua nominis inflexione seiungitur. Nam id quod iustum est, et iustitia participat, et inflexo iustitiae nomine nuncupatur, et in caeteris quidem coniugatis idem est.  Post haec annumeratum est genus. Genus uero est quod cuiuslibet uniuersaliter substantiam monstrat, et quod multorum specie diuersorum, substantialis est similitudo. Quod a propositis terminis longius quam coniugata seiungitur, quia tametsi substantiam monstrat, tamen ne inflexo quidem uocabulo cum termini nomine copulatur sed longe lateque diuerso. Huic adiuncta est species (quam formam Tullius appellauit), quia nihil est tam proximum generi quam species. Species uero est substantialis indiuiduorum similitudo, et quod sub genere ponitur.  Post hanc, similitudo est constituta. Etenim post illud idem quod in substantiis intelligitur illud idem recte ponitur quod in qualitate esse perpenditur. Paulatim uero res incipit a similitudine recedere, nec statim ad contrarium uenit sed prius a differentia locum statuit. Nam remota similitudine nihil aliud occurrit prius, nisi differentia.  Post hanc, a contrario locum ducit, id est a maxima differentia.  Rursus ad amica sibi affecta conuertitur. Sed non eo modo amica quo sunt similia, adiuncta enim proponit, quae non sunt integrae similitudinis sed inter se iudicii, et ueluti cuius iam rerum sibi cohaerentium propinquitatis. Post adiuncta uero antecedentia Tullius posuit. Post id enim quod aliquo modo iunctum est, aliquid nec esse est aut antecedens aut consequens intelligatur. Prius itaque antecedens, post consequens collocatum est.  Post haec repugantia dixit, ut quodammodo duplex ordo contrarietatum ac similitudinum nasceretur. Prius enim proposuit a simili, a differentia, a contrario, atque hic uniuersus ordo est similium et contrariorum. Rursus ab adiunctis, ab antecedentibus, a consequentibus, a repugnantibus. Hic rursus secundus ordo similium et contrariorum esse deprehenditur. Sed primus ualde euidentior quam secundus; plus est enim simile esse quam adiunctum, plus est differre quam antecedere uel consequi, plus etiam est contrarium quam repugnans. Et in suo quaeque ordine plenam retinent formam, uelut quia similitudo propinquitatem quamdam tenere debet: propinquius est enim id quod est simile ei cui simile esse consideratur, quam id quod ad.  iunctum est ei cui naturali uicinitate coniungitur. Rursus quoniam differentia similitudinis auctor est, dissimilius est id quod ab aliquo differt, quam id quod consequitur uel antecedit. Rursus quoniam contrarium longissime ab eo qui contrarium est oportet abscedere, longius abscedit contrarium quam repugnans.  Post haec quid aliud restare poterat quam effectorum causas quaerere? aut post effectorum causas quid aliud quam ipsarum causarum perquirere effectus? Praeterea a comparatione loci, postremum ordinem tenent, quia siue similitudinem, siue dissimilitudinem in sola obtinent quantitate. Ac de locorum ordine satis dictum est.  Illud praeterea considerandum puto, num hi quoque argumentorum loci qui in ipso haerent de quo quaeritur, inter affecta iure numerentur. Quandoquidem quae affecta sunt, idcirco esse dicuntur affecta, quia sunt ad aliquid, et propositi termini relatione nectuntur. Nam et definitio alicuius est definitio, et totum partium totum est, et nota significati nota est. Sed inspicienda natura est singulorum, et uidendum num similiter haec ad aliquid referantur ut caetera. Nam definitio rem quam definit quodammodo explicat atque conformat. Item partes rem cuius partes sunt propria coniunctione perticiunt. Nota uero, eius intellectum conmmuniter tenet, et cum haec caetera quae uocantur affecta non faciant, iure haec non inter affecta ponuntur sed in eo ipso quod ueluti conficiunt atque conformant, inesse dicuntur. Sed quoniam de ui atque ordine locorum sufficienter dictum est, nunc ad sequentia transeamus.  Praeter omnia enim quae superius dicta sunt, [1090B] illud animaduertendum maxime est, quia non si quid in argumentis fuerit sumptum, illud eurum argumentorum locus dicendus est, nisi non solum insit argumentis, uerum etiam ab eo argumenta nascantur. Id quod dico, planiore liquebit exemplo. Si quod enim fuerit argumentum in quo sumatur genus uel species, non statim illud argumentum ex genere uel specie tractum esse dicitur, nisi ei argumento uires generis uel speciei qualitas subministret. Age enim, sit quaestio an idem sit animali esse quod uiuere, et fiat argumentatio sic: non idem est animali esse quod uiuere, quia ne inanimato quidem idem est esse quod mori, piurima quippe sunt inanimata, neque moriuntur. Nam quae nunquam uixere, ne mori quidem posse manifestum est. Hoc igitur inanimatum genus est lapidum, ac fusilium metallorum, et sumptum est in argumentum sed non ex genere factum est argumentum, licet in eodem genus uideatur inclusum sed potius a contrario. Nam contrarium est uitae quidem mors, animalium inanimatum; sed mori non sequitur inanimatum, igitur ne animal quidem uiuere. Non ergo ex genere locus iste ducendus est sed potius ex contrario, quamuis genus huiusmodi contineat argumcntum; tunc enim locus esset a genere, si ab animalis uel a uiuendi genere argumenti ratio traheretur, uelut si ita fieret argumentum: animali esse, substantiae est esse; ipsum uero uiuere substantia non est sed in substantiam uenit. Non est igitur idem uiuere quod animali esse. A substantia igitur tractum est argumentum, a genere uidelicet animalis. Hoc igitur argumentum, et genus continet, et ex genere ductum est; in priore uero, etsi genus continet, a contrario tamen ductum esse perpenditur. Illud enim semper speculandum est, non quid in argumento sit sed ex quo ducitur argumentum.  Et in caeteris quidem eadem ratio tenenda est, neque est enim in singulis immorandum. Siquis enim diligentiam decursae superius expositionis exercuit, facile in reliquis colliget, quod uno declaratur exemplo: QUANDO ERGO UNUSQUISQUE EORUM LOCORUM QUOS EXPOSUI SUA QUAEDAM HABET MEMBRA, EA QUAM SUBTILISSIME PERSEQUAMUR, ET PRIMUM DE IPSA DEFINITIONE DICATUR. DEFINITIO EST ORATIO, QUAE ID QUOD DEFINITUR EXPLICAT QUID SIT. Propositis igitur breuiter argumentorum locis eosdem subtilius atque enodatius statuit per suas partes et conuenientia membra partiri.  Ita enim locorum omnium diligentius natura considerabitur, si non confuse solum, uerum etiam distributim, et in suarum partium proprietate noscantur. Dat uero hoc multam inueniendorum copiam argumentorum: ut enim de definitione dicamus, si cunctas aliquis definitionum partes agnouerit, ex omnibus sibi poterit argumenta conquirere, eritque in inueniendis copiosior argumentis eo qui quot sint definitionis species ignorat. Ex tot enim definitionum partibus argumenta producet, quantas quis definitionum partes esse cognouerit. Is uero habebit plurimam talium locorum facultatem, quem definitionum diuersitas non latebit. Ob hoc igitur M. Tullius, quos confuse atque indigeste posuit locos, nunc eosdem diligentiore ratione partitur.  Ac primum illud propensiore consideratione tractandum est, quod, ut dictum est, etiam loci ipsi res quaedam sunt sed tunc esse intelliguntur loci, cum ab his trahitur argumentum. Ergo nunc Cicero non principaliter locos sed res ipsas diuidit, quae ad argumentum ductae, speciem sumunt locorum. Definitio namque, et pars, et nota, res quaedam sunt sed cum ab his argumentum ducitur, loci fiunt. Cum igitur M. Tullius res ipsas ita ut sunt naturaliter partiatur, simul cum rebus diuidit locos. Si enim res una est a qua duci poterit argumentum, unus est etiam locus; at si illa diuiditur, quot partes eius rei fuerint, tot erunt etiam loci generis eiusdem de quo argumenta nascuntur.  Quae cum ita sint, cumque prius omnium locus a toto sit, id est a definitione; prius quid sit definitio definitione declarat, ut patefacta rei natura, species eius uel membra conuenienti ordine partiatur. Detinitio, inquit, est oratio quae id quod definitur explicat quid sit, sicut definitio est hominis, animal rationale mortale. Dictum uero cautissime explicat. Nam quod nomen confuse denuntiat, id definitio per quaedam substantialia membra diffundit. Quod enim confuse nomine hominis declaratur, id aperit atque explicat definitio, dicens hominem esse animal rationale et mortale. Nam nisi ita dixisset, potuerat esse oommunis definitio generi quoque, uelut hoc modo: definitio est quae designat quid est id quod definit. Sed genus quoque designat quid est id de quo praedicatur sed non explicat quid sit. Sola enim definitio explicat quid sit quod oratione perficitur; genus uero et caetera quae singulis plerumque nominibus proferuntur, minime.  Explicat autem definitio id quod definitur, non quoquo modo, id est non in eo quod quale uel quantum est, non in quolibet aliorum praedicamenlorum sed quid sit, id est eius quod definit, substantiam monstrat. Ea uero definitio substantiam digerit, qua ex genere differentiisque consistit; haec namque uniuscuiuslibet substantiam significant, sicut in his dictum est, ubi de genere, specie, differentia, proprio, accidentique tractatum est. Ergo omnis definitio explicat quid sit id quod definitur. Aristoteles uero eodem pene modo definitionem determinat, dicens: Definitio est oratio quidem esse significans.  Hanc M. Tullius partitur hoc modo: DEFINITIONUM AUTEM DUO GENERA PRIMA: UNUM EARUM RERUM QUAE SUNT, ALTERUM EARUM QUAE INTELLEGUNTUR. ESSE EA DICO QUAE CERNI TANGIQUE POSSUNT, UT FUNDUM AEDES, PARIETEM STILLICIDIUM, MANCIPIUM PECUDEM, SUPELLECTILEM PENUS ET CAETERA; QUO EX GENERE QUAEDAM INTERDUM VOBIS DEFINIENDA SUNT. NON ESSE RURSUS EA DICO QUAE TANGI DEMONSTRATIVE NON POSSUNT, CERNI TAMEN ANIMO ATQUE INTELLEGI POSSUNT, UT SI USUS CAPIONEM, SI TUTELAM, SI GENTEM, SI AGNATIONEM DEFINIAS, QUARUM RERUM NULLUM SUBEST [QUASI] CORPUS, EST TAMEN QUAEDAM CONFORMATIO INSIGNITA ET IMPRESSA INTELLEGENTIA, QUAM NOTIONEM VOCO.  EA SAEPE IN ARGUMENTANDO DEFINITIONE EXPLICANDA EST. Omnem definitionem manifestum est ad aliquid dici, ulicuius est enim semper definitio. Quae uero ad aliquid dicuntur, quamdam proprietatem ex his sumant nec esse est, ad quae referuntur. Quo fit ut ex his rebus quas determinat definitio, in ipsas definitiones quaedam proprietas transferatur; sed quia quod ad aliquid refertur, id non potest esse idem ei ad quod dicitur, propriam quoque ipsum quod refertur ad aliud formam nec esse est possidere. Eoque fit, ut in definitionibus, et sua insit forma, et ea quam ab his accipiunt, quae definiunt consideretur. Quod M. Tullius uidens, primum diuidit definitiones secundum ea quae definiuntur.  Quarum genera duo esse proponit, unum earum rerum quae sunt, alterum earum quae intelliguntur. Has igitur definitionum differentias ex his uidetur sumpsisse quae in definitione monstrantur. Omnia enim qua definiuntur aut corporalia sunt, aut incorporalia. Res enim omnes in haec primitus diuiduntur. Ea uero quae corporalia sunt, esse dicit; ea quae sunt incorporalia, non esse, non quod omnino ea quae incorporalia sunt non sint, alioqui nec definitionem susciperent. Nam si definitio est qua explicatur id quod definitur quid sit, eius rei, qua omnino non est, nec quid sit, explicatio ulla esse potest. Sed quia humanum genus sensibus degit, id maxime esse arbitratur, quod sensuum conprehensioni subiicitur. Quis enim sibi non magis lapidem scire uideatur, aut hominem quam iustitiam, uel haereditatem, uel quidquid aliud non sensibus [sed intelligentia comprehendit? Unde fit ut propter euidentiam cognitionis ea magis esse uideantur quae subiecta sunt sensibus, ea minime quae intelligentiae ratione capiuntur.  Sed id sciendum est, M. Tullium ad hominum protulisse opinionem, non ad ueritatem. Nam ut inter optime philosophantes constitit, illa maxime sunt quae longe a sensibus segregata sunt, illa minus, quae opiniones sensibus subministrant. Unde etiam idem Cicero in Timeo Platonis ait: Quid est quod semper sit, nec ullum habeat ortum, et quod gignatur, nec unquam sit? Quorum alterum, intelligentiae ratione comprehenditur, alterum affert opinionem sensui rationis expers. Hic igitur id quod semper sit, rationi adiecit, id uero quod nunquam sit, sensibus coniunxit.  Sed, ut dictum est, corporea esse, et incorporea non esse, non ad ueritatem sed a communem quorumlibet hominum opinionem locutio est. Ponit igitur exempla earum quidem rerum quae sunt, formas quasdam corporalium rerum, ut fundum, aedes, parietes, stillicidium, atque id genus, quae corporalia esse hac ratione ostendit, quoniam cerni tangique possunt; earum uero rerum qua non sunt, exempla posuit, usucapionem, tutelam, gentem, caeteraque quae sunt incorporea; quae ex hoc incorporea esse monstrauit, quod ait, EA TANGI DEMONSTRATIVE non posse sed intelligentia atque ANIMO comprehendi. Cur uero ea non esse dixerit, supposuit rationem dicens, nullum quasi corpus earum rerum esse, nec molem aliquam quae feriat sensum. Quod enim corpus esse potest usucapionis? Nam ipsa quae usucapiuntur, corporea sunt, ipsa uero usucapio corporea non est.  Ipsa enim per utendi consuetudinem possidendi firmitudo, quodnam corpus habere potest? Item, quod quis tutela regit, corporale est, homo namque est. Ipsa uero cura tutela, atque ipsum ius alium tuendi, nihil omnino corporis habere potest. Homines quoque qui in eadem gentilitate sunt, corporei sunt. Ipsa uero gentilitas, id est communis nominis liberorum societas, ut Scipionum, Valeriorum et Brutorum, certe incorporea est; sed quaedam eorum rerum incorporalis animi conceptio est, atque intelligentia, quam notionem uocauit. Ipsa enim imaginatio usucapionis uel tutelae atque intellectus incorporalis rei notio dicitur, quam Graeci *ennoia* uocant.  Diuisit igitur definitionem in has duas partes, scilicet secundum subiecti diilerentias, ut alias quidem esse diceret definitiones earum rerum quae sunt, id est corporalium, alias ueroearum quae non sunt, id est incorporalium.  Hinc quaeri potest, quod etiam superius breuiter commemoraui, quonam modo definito non inter affecta numeretur, cuni ornnis definitio ad aliquid esse uideatur? Idcirco enim affecta esse dicta sunt similitudo, contrarium, et caetera, quoniam semper ad aliquid referuntur. Quod si etiam definitio refertur ad aliquid, nec est absolutae ac propriae considerationis, ea quoque inter affecta ponenda est.  Sed occurritur, quoniam ea quae affecta sunt tanquam umbrae quaedam corpus, ita extra posita non possunt id relinquere ad quod probantur affecta, et aut omnino substantiam eorum ad quae affecta sunt, non significant ut contrarium, simile et caetera. Aut si quando designant, una quaedam pars intelligitur esse substantiae, uelut genus, species, differentia. Non enim genus tota substantia est speciei, quando, quidem non solum genus speciem format sed differentiae quoque; nec differentiae totam substantiae continent formam, quandoquidem non sola differentia speciem perficit sed etiam genus. Ipsa uero species quaedam generis pars est, at uero definitio, etsi ad aliquid est, tamen totam substantiam monstrat, atque exsequatur ei rei quam definit, et substantiam perficit, ut neque extraposita sit, sicut similitudo et contraria, neque pars eius substantiae sit quam definitione determinat sed potius ipsa substantia. Ac de hac quidem re satis dictum est.  Idem uero de partibus dici potest. Nam coniunctae partes totum id efficiunt cuius partes sunt. Nota quoque tutum significat id quod designat, utque omnia coaequantur, et definitum definitioni, et partes toti, et nota rei quam significatione declarat si non sit aequiuoca, uel si res quae designatur non sit multiuoca.  Sane illud dubitari recte potest, cur cum dixisset duo genera esse definitionum, non ipsas definitiones partitus est sed quae definiuntur, id est corporale atque incorporale. Quod idcirco dictum uidetur, quia definitio cum sit ad aliquid, ut dictum est, quamdam capit ex his, quorum; substantiam determinat, qualitatem. ATQUE ETIAM DEFINITIONES ALIAE SUNT PARTITIONUM ALIAE DIUISIONUM; PARTITIONUM, CUM RES EA QUAE PROPOSITA EST QUASI IN MEMBRA DISCERPITUR, UT SI QUIS IUS CIVILE DICAT ID ESSE QUOD IN LEGIBUS, SENATUS CONSULTIS, REBUS IUDICATIS, IURIS PERITORUM AUCTORITATE, EDICTIS MAGISTRATUUM, MORE, AEQUITATE CONSISTAT. DIVISIONUM AUTEM DEFINITIO FORMAS OMNIS COMPLECTITUR QUAE SUB EO GENERE SUNT QUOD DEFINITUR HOC MODO: AB ALIENATIO EST EIUS REI QUAE MANCIPI EST AUT TRADITIO ALTERI NEXU AUT IN IURE CESSIO INTER QUOS EA IURE CIVILI FIERI POSSUNT.  Quoniam definitio ita exsubiecta re quam definit, proprietatem capit, ut tamen formam propriam non relinquat, idcirco post eas differentias definitionum, quae ab his rebus tractae sunt quae definiebantur, nunc a propria forma definitionum differentias tradit. Propria uero forma uniuscuiusque compositi in suis partibus constat itaque ex partibus definitionum tales differentias docet, quod aliae definitiones per diuisionem, aliae per partitionem fiunt. Definitur enim res quamlibet dum aut eius species omnes enumerantur aut partes. Partes uero a specie quo differant, paulo posterius dicam.  Hinc exponenda arbitror Ciceronis exempla; dat enim partitionis exemplum hoc: Sit enim propositum definire quid sit ius ciuile, dicemus ita: ius ciuile est quod in legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edictis magistratuum, more, aequitate consistit. Lex igitur est quam populus centuriatis comitiis ciuerit. Senatus consulta sunt quae fuerint senatus auctoritate decreta. Res iudicatae sunt quae inter eos qui super aliqua re ambigunt, sententia iudicum fuerint constitutae, quarum exemplo caeterae quoque iudicantur. Iurisperitorum auctoritas est eorum qui ex duodecim tabulis, uel ex edictis magistratuum, ius ciuile interpretati sunt, probatae ciuium iudiciis, creditaeque sententiae. Edicta nmagistratuum sunt quae praetores urbani uel peregrini, uel aediles curules iura dixere. Mos est quod in ciuitatem solium est fieri. Aequitas est quod naturalis ratio persuasit. Haec igitur omnia unam formam iuris efficiunt, tanquam partes, uelut hominem, caput, brachia, thorax, uenter, crura atque pedes. Partitio est enim ut ipse ait, quae unamquamque rem propositam, quasi in membra discerpit.  Alteram uero partem definitionis, quae per diuisionem sit specierum, tali monstrat exemplo. Definit enim quid sit abalienatio eius rei quae mancipi est, dicens: ABALIENATIO EST EIUS REI QUAE MANCIPI EST, AUT TRADITIO ALTERA NEXU, AUT CESSIO IN IURE, INTER QUOS EA IURE CIVILI FIERI POSSUNT. Nam iure ciuili fieri aliquid non inter alios, nisi inter ciues Romanos fieri potest, quorum est etiam ius ciuile, quod duodecim tabulis continetur. Omnes uero res quae abalienari possunt, id est quae a nostro ad alterius transire dominium possunt, aut mancipi sunt, aut non mancipi. Mancipi res ueteres appellabant, quae ita abalienabantur, ut ea ab alienatio per quamdam nexus fieret solemnitatem. Nexus uero est quadam iuris solemnitas, quae fiebat eo modo quo in Institutionibus Caius exponit. Eiusdem autem Caii libro primo institutionem de nexu faciendo, haec uerba sunt: Est autem mancipatio, ut supra quoque indicauimus, imaginaria quaedam uenditio, quod ipsum ius proprium Romanorum est ciuium, eaque res ita agitur, adhibitis non minus quam quinque testibus Romanis ciuibus puberibus, et praeterea alio eiusdem conditionis qui libram aeneam teneat, qui appellatur  libripens. Is qui mancipium accipit, aes tenens, ita dicit: Hunc ergo hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra. Deinde aere percutit libram, indeque aes dat ei a quo mancipium accipit, quasi pretii loco.  Quaecumque igitur res, lege duodecim tabularum, aliter nisi per hanc solemnitatem abalienari non poterat. Sui iuris autem caeterae res nec mancipi uocabantur, eaedem uero etiam in iure cedebantur. Cessio uero tali fiebat modo ut secundo commentario idem Caius exposuit. In iure autem cessio fit hoc modo: apud magistratum populi Romani, uel apud praetorem, uel apud praesidem prouinciae, is cui  res in iure ceditur rem tenens ita uindicat: Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio. Deinde postquam hic uindicauerit, praetor interrogat eum qui cedit an contrauindicet; quo negante, aut tacente, tunc ei qui uindicauerit, eam rem addicit, idque legis actio uocabatur.  Res igitur quae mancipi sunt, aut nexu, ut dictum est, abalienabantur, aut in iure cessione.  Has autem solemnitates quasdam esse iuris, ex superioribus Caii uerbis ostenditur. At si res ea quae mancipi est nulla solemnitate interposita tradatur, abalienari non poterit, nisi ab eo cui traditur, usucapiatur. Quae cum ita sint, recte definita est secundum diuisionem abalienatio rei mancipi, scilicet quae aut nexus traditione, aut in iure cessione perficitur. Nam pura traditione, abalienatio rei mancipi non explicatur. Species uero has esse, non partes, hinc intelligitur, quia si quis nexu abalienet rem mancipi, id quod suum fuit, in alterius potestatem pleno iure transtulit. Quid si etiam in iure cedat, plenum abalienationis ius erat. Ubi autem plenum nomen eius, quod diuidunt, partes suscipiunt, illud genus, et has species esse paululum quoquo dialectica cognitione imbutus intelligit.  Quae cum ita sint, diuisit Cicero definitionem in duas partes, unam quae partium enumeratione fieret, alteram quae per partium diuisionem, utraque uero definitio partes enumerat. Sed hoc interest, quia haec quidem species, illa uero membra partitur. Hic suboritur quaestio ualde difficilis. Nam si definitio est etiam partitio, mirum uideri potest quemadmodum alter sit a definitione locus, alter a partium enumeratione. Quae res maximam confusionem praestat. Nam cum superius in locorum enumeratione alter a definitione locus, alter sit a partium enumeratione propositus, cumque nunc enumerationem partium, uel diuisionem, definitionis species esse confirmet, non est dubium quin cum idem sit partium enumeratio quod definitio (idem namque est species quod genus), idem sit locus a  definitione, qui est a partium enumeratione.  Cuius quaestionis ualde difficilis, facilior absolutio est, si definitionum ipsarum formas ac distantias colligamus. Multis namque modis fieri definitio potest. Inter quos unus est uerus atque integer definitionis modus qui etiam substantialis dicitur; reliqui per abusionem definitiones uocantur. De quibus omnibus paulo posterius integram faciam diuisionem. Nunc in commune sic disseram: nam quia omnis definitio explicat quid sit id quod definitur. Explicatio autem fit duobus modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius aliquid affertur; alio uero cum fit quaedam partium enumeratio. Ac de priore quidem modo, posterius. Nunc uero de enumeratione partium ita dicendum est, quod omnis definitio, quae per partium enumerationem fit, quasi quaedam partitio recte intelligitur. Dictum est, id quod in nomine confuse significaretur, in definitione quae fit enumeratione paritum, aperiri atque explicari. Quod fieri non potest nisi per quarumdam partium nuncupationem; nihil enim dum explicatur oratione, totum simul dici potest. Quae cum ita sint, cumque omnis huiusmodi definitio quaedam sit partium distributio, quatuor his modis fieri potest. Aut enim substantiales partes explicantur, aut proprietatis partes dicuntur, aut quasi totius membra enumerantur, aut tanquam species diuiduntur.  Substantiales partes explicantur, cum ex genere ac differentiis definitio constituitur. Genus enim quod singulariter praedicatur, speciei totum est. Id genus sumptum in definitione, pars quaedam fit. Non enim solum speciem complet, nisi adiiciantur etiam differentiae, in quibus eadem ratio quae in genere est. Nam cum ipsae singulariter dictae totam speciem claudant, in definitione sumptae, partes speciei sunt, quia non solum speciem quidem esse designant sed etiam genus. Huius exemplum est: Homo est animal rationale mortale.  Cum ergo tota definitio homini coaequetur, totiusque definitionis partes sint, tum anima, tum rationale, tum mortale, ipsius hominis partes esse uidentur singula, quae eiusdem definitionis partes sunt. Haec igitur proprio nomine definitio nuncupatur.  Item est illa definitio, quando in unum accidentia colliguntur, atque unum aliquid ex his efficitur, et est ueluti quaedam partium enumeratio, non in substantia sed in quadam accidentium collectione posita; huius exemplum: Animal est quod moueri propria uoluntate possit.  Animali namque et motus est accidens, et uoluntas, et possibilitas sed haec iuncta perficiunt animal, non substantialiter constituentia sed per quaedam accidentia designantia quod animalis quasi quaedam partes sunt, et haec descriptio nuncupatur.  At si non accidentia rei sed quasi membra quaedam dicamus, ex quibus componitur atque coniungitur, atque inde definitionem facere tentemus, hoc modo dicimus:  Domus est quae fundamento parietibus tectoque consistit  hic membra quaedam sumpta sunt ad definitionem, quibus res tota coniungitur, et haec uocatur per enumerationem partium definitio.  At si quis ita definiat ut non in definitione ponat membra sed species, a diuisione specierum definitio nuncupatur: uelut si quis hoc modo pronuntiet: Animal est substantia quae uel sensu tantum uel sensu et ratione nitatur.  Haec igitur quatuor a se differre manifestum est. In ea namque definitione quae per substantiales partes efficitur, singulae partes maiores esse uidentur, et substantialiter uniuersaliores ab ea requam definiunt, ut animal maius est ab homine. Mortale etiam atque rationale, singula hominis transgrediuntur naturam, quae in unum conuenientia, eidem quo sigillalatim maiora sunt coaequantur. Accidentia uero quae in definitione ponuntur, omnino a substantia ratione disiuncta sunt. In ea uero definitione quae ex partium enumeratione perficitur, talia sunt quae enumerantur, ut singula totius deflniti nomen capere non possint, atque idcirco eodem minora sunt, ut fundamenta non possint domus uocabulo nuncupari: fundamenta enim domo minora sunt, itemque caeterae partes. At uero in ea definitione quae per diuisionem fit, singulae quidem partes tota ea re quae definitur minores sunt, totum tamen definitae rei nomen suscipiunt. Ut rationale nomen capit animalis, eodem modo irrationale.  Quibus ita discretis, quotiescumque ab ea definitione quae per substantiales partes efficitur, uel ab ea quae per accidentium enumerationem colligitur, argumentatio fit, a definitione, id est a toto tractum dicitur argumentum. Quoties uero ab ea definitione quae uel per membrorum enumerationem, uel per specierum diuisionem perficitur, argumentatio fit, ab enumeratione partium argumentum ductum esse perhibetur. Sed Tullius quia iam partitionem definitionis ingressus est, etiam hanc interposuit, quae non ad definitionem sed ad enumerationis partium locum pertinebat. Huius uero rei argumentum est, quia cum post, de eisdem locis latius tractans, de enumeratione partium loqueretur, nullam aliam enumerationem partium posuit, nisi eam quam nunc definitionis speciem dixit.  Nec tamen est arbitrandum omnem partitionem definitionis locum posse obtinere, ut si quis sic dicat, fundamenta, parietes et tectum domus est, id non est nec esse. Potest namque esse porticus publicis usibus destinata, potest item aliud quodlibet, ut theatrum quod propter ampliores sonitus exhibendos tegi solet. Sed id nunc intelligere nos oportet, posse per partitionem aliquid saepe definiri, cum partium illa collectio unam rem tantum possit efficere, ut si nihil esset aliud quod fundamenta, parietes atque tectum posset habere, nisi domus, iure definitio facta esse uideretur, domum esse quam fun damenta, parietes tectumque perficiunt. SUNT ETIAM ALIA GENERA DEFINITIONUM, SED AD HUIUS LIBRI INSTITUTUM ILLA NIHIL PERTINENT; TANTUM EST DICENDUM QUI SIT DEFINITIONIS MODUS.  Hunc locum Victorinus unius uoluminis serie aggressus exponere et omnes definitionum differentias enumerare, multas interserit, quae definitiones esse pene ab omnibus reclamantur. Inter definitiones enim penitet nomina, quod specialiter Aristoteli in omni doctrinarum genere peritissimo non uidetur; pernegatque in Topicis nomine fieri definitionem, ueluti si quis dicat: Quid est conticescere?  et respondeatur: Tacere!  hae nullo modo definitiones habendae sunt. Quod etiam ex ipsius M. Tullii definitione approbari potest, per quam definitio quid esset ostendit; dixit enim esse definitionem orationem quae id quod definitur explicat quid sit. Sed cum nomen non sit oratio, manifestum est nomine definitionem non posse constitui, cum praesertim ne omnia quidem qua oratione promuntur atque aliquid ostendunt, proprio definitionis nomine designentur, ueluti descriptiones, omnisque alia oratio quae non ex substantialibus partibus sed ex quolibet alio modo coniunctis efficitur.  Quod ne ipse quidem Victorinus ignorat. Sed uidetur id definitionis loco ipse sibi Victorinus ad disserendi sumpsisse propositum, quod quoquo modo rem subiectam posset ostendere. Idcirco enim nomen quoque in definitionum numerum recepit, quoniam saepe notiore uocabulo fit clarius quod ignotiore antea prolatum latebat. Idcirco etiam nos superius diximus explicationem fieri duobus modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius aliquid afferatur; alio uero cum fit per quamdam partium enumerationem: ut ea quidem explicatio in qua notius aliquid affertur, nominis sit; ea uero quae fit per partium enumerationem orationis, quanquam etiam in ipsis orationibus semper planius aliquid atleratur quo notius fiat illud de quo disseritur.  Ut igitur nihil expositio nostra praetermittat, et definitionis proprietas appareat, itaque omnia in notitiam deducantur, ut nec uera definitio nesciatur, et quae non sit proprie uere quo definitio sub scientiam cadat, talis definitionum differentia facienda est. Definitionum enim aliae proprie definitiones sunt, aliae abusiuo nuncupantur modo. Ac propriae quidem definitiones sunt quae ex genere differentiisque consistunt, uelut haec: Homo est animal rationale mortale  hic enim animal genus est; rationale uero et mortale differentiae. Earum uero definitionum quae non proprie sed abutendo definitiones uocantur, aliae sunt quae singulis nominibus denotantur, aliae uero quas explicat ac depromit oratio.  Atque illarum quidem definitionum quae tantum nomine designantur, aliae sunt quae *kata lexin*, id est ad uerbum fiunt, cum pro nomine redditur nomen, uelut si dicat aliquis: Quid est conticere?  et respondeatur: Tacere!  uel: Quid est haurit? Percutit!  Aliae uero, quae exempli gratia ponuntur, ut cum uolumus designare quid est substantia, exempli gratia dicimus: Ut homo  haec uocatur Graece *typos* quae idcirco, ut dictum est, inter definitiones ponitur, quoniam id quolibet modo aliquid designat eius quod designatur, et si non proprie, tamen aliquo modo uidetur esse definitio.  Earum uero definitionum quae in oratione consistunt, neque tamen sunt propriae, multae sunt diuersitates. Quarum est omnium nomen communis descriptio. Harum aliae fiunt partitione, aliae diuisione, de quibus superius, ut dictum est. Aliae uero substantiales quidem differentias sumunt sed genus non adiiciunt, atque haec quidem a Victorino *ennoematike* dicitur, quasi quamdam communem continens notionem, ueluti si quis dicat:  Homo est quod rationali conceptione uiget mortalitatique subiectum est.  Hic igitur genus positum non est sed differentiae substantiales.  Aliae uero sunt quae pluribus quidem qualitatibus designantur accidentibus tamen ita ut singulae qualitates, etiamsi non coniungantur, possint tamen quod demonstratur efficere, ut: Homo est ubi pietas est, ubi aequitas, et rursus ubi malitia et  uersutia esse possunt  nam et si caetera nullus adiungat,  sufficit ad ostendendum hominem dicere: ubi pietas inesse potest, uel ubi iustitia, uel caetera  haec uocatur *poiotes*. Aliae uero sunt quae pluribus in unum accidentibus coniunctis efficiuntur, ut siquis luxuriosum definire uelit, dicens: Luxuriosus est qui pluribus et non necessariis sumptibus in delicias affluit, et in libidinem fertur effusior  omnia enim coniuncta luxuriosum uidentur efficere, singula uero minime: haec uocatur *hypographike*. Aliae quoque fiunt eo modo, ut ad signandam, differentiam proponantur in his rebus quae in discreto fine coniunctae sunt, ut si dubitet quis, Nero imperatorne an tyrannus fuerit, dicit eum tyrannum fuisse, quoniam crudelis fueritatque intemperans. Haec enim adiuncta differentia tyrannum ab imperatore seiungit. Aut etiam si de eodem tyranno atque rege dubitetur quid uterque sit, iuncta differentia utrosque designat, ut si temperantia quidem regi uel pietas, tyranno uero et intemperantia et crudelitas conuenire dicatur: haec uocatur *kata diaphoran*.  Alia quae per translationem dicitur, ut: Adolescentia est flos aetatis.  Illa quoque definitio esse diciturquae fit ex priuatione contrarii, ut:  Bonum est quod malum non est.  Illa quoque Victorinus definitionem ponit, quae tantum propriis nominibus aptari potest, quae etiam *hypotyposis* appellatur, ut: Aenas est Veneris et Anchisae filius.  Praeter has etiam illa est quae fit per indigentiam pleni, ut quadrans est cui dodrans deest ut sit as.  Ponit etiam Victorinus inter differentias definitionum illam quoque quae per quamdam laudem fieri potest, ut: Lex est mens, et animus, et consilium, et sententia ciuitatis.  Quod maxime ratione caret.  Non enim laudis modus illi faciet differentiam. Illa enim consideranda sunt quae in definitione ponuntur, non quo animo constituta sunt. Quod si recipienda fuit laudandi uoluntas inter differentias definitionum, cur non uituperandi quoque uoluntas aliam differentiam definitionis efficiat? Sed hoc apertissime inconueniens et ueritati uidetur esse contrarium.  Fiunt etiam definitiones per proportionum, ut si quis dicat:  Homo est minor mundus.  Sicut etiam mundus ratione regitur, ita quoque quoniam homo multis partibus iunctus, habet tamen in omnibus rationem ducem, minor mundus dici potest. Fiunt etiam definitiones a relationibus, cum dicitur: Quid est pater?  respondetur: Cui est filius.  Causa quoque solet efficere definitionem, ut cum dicimus: Quid est dies?  respondetur:  Sol super terram  causam enim, id est solem, pro re ipsa cuius causa est interposuimus, atqueita diem definitionem monstrauimus.  Hae sunt definitionum differentiae quas in eo libro quem de definitionibus Victorinus edidit, annumerauit, quas M. Tullius praetermittit eo nomine, quod eas minime necessarias existimauerit. Nos uero ne quid perfectio deesset operi, etiam quae sunt a Cicerone praetermissa subiecimus. SIC IGITUR VETERES PRAECIPIUNT: CUM SUMPSERIS EA QUAE SINT EI REI QUAM DEFINIRE VELIS CUM ALIIS COMMUNIA, USQUE EO PERSEQUI, DUM PROPRIUM EFFICIATUR, QUOD NULLAM IN ALIAM REM TRANSFERRI POSSIT. UT HAEC: HEREDITAS EST PECUNIA. COMMUNE ADHUC; MULTA ENIM GENERA PECUNIAE. ADDE QUOD SEQUITUR: QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. NONDUM EST DEFINITIO; MULTIS ENIM MODIS SINE HEREDITATE TENERI PECUNIAE MORTUORUM POSSUNT. UNUM ADDE VERBUM: IURE; IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDEBITUR, UT SIT EXPLICATA DEFINITIO SIC: HEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERUENIT IURE. NONDUM EST SATIS; ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE RETENTA; CONFECTUM EST. ITEMQUE [UT ILLUD]: GENTILES SUNT INTER SE QUI EODEM NOMINE SUNT. NON EST SATIS: QUI AB INGENUIS ORIUNDI SUNT, NE ID QUIDEM SATIS EST, QUORUM MAIORUM NEMO SERVITUTEM SERVIVIT. ABEST ETIAM NUNC: QUI CAPITE NON SUNT DEMINUTI. HOC FORTASSE SATIS EST. NIHIL [1100D] ENIM VIDEO SCAEVOLAM PONTIFICEM AD HANC DEFINITIONEM ADDIDISSE. ATQUE HAEC RATIO VALET IN UTROQUE GENERE DEFINITIONUM, SIVE ID QUOD EST, SIVE ID QUOD INTELLEGITUR DEFINIENDUM EST.  Definitionis ratione proposita diuisaque per singulas partes tum materiae, tum etiam formae; materiae quidem, cum definitionum esse dixit, uel earum rerum quae corporeae essent, uel earum quae incorporeae; formae uero cum aut partitionibus aut diuisionibus definitiones fieri docuit; praetermissisque caeteris quaecumque ad propositum opus minime pertinerent, nunc quod utilissimum est, maximeque totam definitionem intelligentiam significare potest, exsequitur.  Id autem est: Qui sit in omnibus, quaecumque quomodolibet fiunt, definitionis modus. Est autem una atque omnibus communis definiendi ratio, ut ex communitatibus inter semet iunctis atque compositis in unam proprietatem rei definitio colligatur. Omnia enim quae communia atque uniuersalia sunt, si quid eis fuerit adiectum, determinatione minuuntur, et ad particularitatem redeunt, atque eo ambitu quo concludebant cuncta, cohibentur, ueluti cum generi adiicitur differentia, et fit species. Nam cum genus per se proprio ambitu multas species contineat, ei si propriam adiicias differentiam, minuitur, et in quamdam quodammodo particularitatem redit, ueluti cum dicimus animal, hoc nomen multa concludit. At si ei rationale adiiciae, faciasque animal rationale, minus erit a simplici. Minus namque est animal rationale a simpliciter animali.Ita additio differentiae quod maius fuit in particularitatem quamdam redegit atque cohibuit.  Quoties igitur aliqua res definienda est, sumitur id quod ei cum pluribus aliis commune est, huic adiiciuntur differentiae, statimque nec esse est minuatur id quod pluribus fuerat antecommune, et si hac differentiae additione in tantum modum decreuerit, ut rei quae definitur fiat aequalis, aiias differentiaa colligere atque aptare non nec esse erit sed id ipsum quod ita decreuit, ut aequale sit ei quod definitur, definitionem esse nec esse est. At si adhuc amplius sit ab ea re quae definitur, quaeramus nec esse est aliam differentiam, qua adiuncta numerus quidem crescat, uis autem communitatum differentiarum additione decrescat, atque id hactenus faciendum, quatenus, ut dictum est, ea quae ad definitionem sumuntur ei quod definiendum est adaequentur.  Ut igitur id non ratione solum, uerum conuenienti quoque clarius fiat exemplo, sumatur res notissima ad definitionem, id sit homo.  Huius igitur ita quaerimus definitionem: sumimus quod ei cum pluribus aliis commune est, id est animal. Dicimus igitur hominem esse animal, nondum est definitio, primum quia, ut dictum est, solo nomine definitio reddi non potest; dehinc quia animal maius est homine. Ut igitur minuatur animal et homini coaequetur, addimus differentiam, qua adiuncta, rerum quidem numerus crescit, uis autem rei atque amplitudo minuitur. Addo igitur rationale, efficioque animal rationale. Minus est igitur animal rationale quam proprie animal. Dico autem hominem esse animal rationale. Sed id nondum coaequatur ad hominem, possunt enim esse animalia rationabilia, sicut Platoni quoque de astris placet, quae homines non sunt. Addo igitur rursus alium differentiam, si quoquo modo iterum definitio contrahatur, ut fiat homini quod definitur aequale; adiungo igitur mortale, ac dico hominem esse animal rationale mortale, id aequatur ad hominem. Nam et qui homo est, animal rationale mortale est. Dico igitur hominis hanc esse definitionem quae ex pluribus communibus iunctis unum tamen quiddam homini proprium atque aequale conficit. Atque in caeteris definitionibus eadem ratio est.  Ut definitiones fiant collectis communitatibus, in unumque copulatis, cum necesse sit illa copulatione quae communia sunt contrahi atque in minorem cohiberi modum, eique quod definitur ex communitatibus iunctis aliquid proprium atque aequale componitur. Hoc est igitur quod ait Cicero, hunc esse definitionis modum, cum sumpseris ea quae sint ei rei quam definire uelis cum aliis communia, usque eo persequi, ut proprium efficiatur, quod in nullam aliam rem transferri possit, ut his uerbis et hac sententia breuiter significare uideatur hanc esse definitionem quae, ex substantialibus communitatibus iuncta atque in minorem modum redacta, fit ei rei quae definitur aequalis.  Exempla uero quae ponit huiusmodi suut, unum definiendae haereditatis, alterum gentilitatis. Haereditatis quidem hoc modo: HAEREDITAS EST PECUNIA. Commune hoc et multis aliis conueniens quae haereditates non sunt, ut donationibus, ut furtis, uel quibuslibet aliis pecuniariis rebus quae minime sunt haereditates. Huic igitur pecuniae addendum aliquid fuit, id est: QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. Haereditas enim pecunia est ad quempiam alicuius morte perueniens. Sed ne id quidem plenum haereditatis explicat intellectum. Commune namque est. Et pecuniae mortuorum pluribus teneri modis possunt, uelut si bello quis uictus est ac spoliatus. Addendum igitur est aliquid: IURE, ut sit, HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM IURE PERVENIT. Haereditates enim iure capiuntur. Videatur forsitan hoc loco definitionem posse consistere sed minime; quid enim? si legata pecunia est, haereditas quidem dici non potest, capta tamen morte alicuius iure pecunia est. Nam si testamenta iure fiunt, pecunia etiam iure legatur, adiiciendum est aliquid, id scilicet quo ab haereditatibus legata separentur, ut dicamus, haereditatem esse pecuniam morte alicuius ad quempiam peruenientem iure, quae legata non sit. Num satis est definitioni? Minime. Quid enim si meum quidem dominium sit fundi, uel alicuius pecuniariae rei, alterius uero ususfructus. Nam morte eius cui ususfructus competit, ad me res illa reuertitur, quae in meo dominio proprietatis possessione iure tenebatur? neque tamen haereditas esse potest, adiiciendum igitur est, minime possessione esse relentam, id est, ut proprietatis possessione id quod ex morte alicuius iure non legatam peruenit non retineatur. Hoc autem modo possessione retineri potest, si sit nostra proprietas, et eius qui decesserit ususfructus.  Coniuncta igitur omnia in unum facient haereditatis definitionem hoc modo: Haereditas est pecunia quae morte alicuius ad quempiam peruenit iure, non legata, neque possessione retenta.  Haec definitio est aequalis haereditati. Nam ut haereditas pecunia est morte alicuius ad quempiam perueniens iure, neque legata, neque possessione retenta, ita quaecumque pecunia alicuius morte ad aliquem iure peruenerit, neque legata sit, neque retenta, hanc haereditatem esse nec esse est.  Sed cum M. Tullius ad eum usque locum definiendo uenisset, ut diceret haereditatem esse pecuniam quae morte alicuius ad quempiam peruenisset, iure ait: iam a communitate res disiuncta uidebitur, ut sit explicata definitio sic: Haereditas est pecunia quae morte alicuius ad quempiam iure peruenit. Idque ita dictum est, quasi iam plena facta sit definitio. Quid enim est aliud explicatam esse definitionem, et a communitate disiunctam, nisi perfectam, et cui desit nihil? Sed rursus quasi non sit explicata definitio, nec a communitate disiunctam, adiicit: NONDUM EST SATIS: ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE RETENTA. Cuius adiectionis haec ratio est, fecit enim definitionem aliis adiunctis, aliis separatis. Itaque id quod definiebat, uel his quae adiunxit, uel his quae separauit, a caeterorum omnium communitate segregauit. Haereditatem enim dixit esse pecuniam, huic addidit, morte alicuius ad aliquem peruenientem. Separauitque eam ab iis pecuniis, quae non morte alicuius ad aliquem sed contractu uiuentium peruenirent, addidit IURE, ut ab his pecuniis separaret quae per uim morte alterius ad quempiam peruenirent. His igitur duobus, MORTE atque IURE, ea pecunia effecta est, quae a caeteris ita separetur, ut tamen per legitimum acquireadi modum, non inter utrosque uiuos sed inter unum uiuum atque alterum mortuum fieret. Haec igitur una separatio ac caeteris facta est, atque ideo ait explicatam esse definitionem et a communitate disiunctam.  Sed quoniam in ea ipsa pecunia quae morte et iure ad aliquem peruenit inerant quaedam quae haeredites non essent, harum separatione plena effecta est haereditatis definitio. Nam cum diceret haereditatem pecuniam esse, itemque quae morte alicuius ad aliquem peruenisset, itemque et quae iure, haec omnia efficientia substantiam haereditatis apposita sunt. Sed quoniam erant in hac collectione quaedam ad quae huius collectionis intellectus transferri posset, nec tamen essent haereditates, ueluti legatum aut possessionis retentio, his substractis reliqua fuit haereditas, de qua intelligi possit pecunia alicuius morte ad quempiam iure perueniens.  Non igitur legatum, aut possessionis retentio substantiam haereditatis efficiunt, quippe quae impedirent ad eius substantiam demonstrandam, nisi remouerentur. At uero nec negatio quidem cuiusquam substantiam perficit sed tantum quid non sit ostendit. Quod si legatum et possessionis retentio haereditatis substantiam non modo non complent, uerum etiam impediunt atque corrumpunt, nisi fuerint disiuncta atque seposita; cumque harum negatio nihil ex haereditatis substantia monstret sed tantum quid non sit ostendat; relinquitur pars superior, id est pecunia morte alicuius ad quempiam iure perueniens, quae substantiam haereditaiis ostendat, ea quae sit explicata definitio a caeterisque disiuncta. Sed quoniam rursus, ut dictum est, quaedam sunt ad quae deriuari huius definitionis intelligentia possit, idcirco ad discretionem integram designandam reliqua pars additur. Itaque quoniam ista demonstrant haereditatem, efficiuntque substantiam iure dictum est, IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDETUR, UT SIT EXPLICATA DEFINITIO: HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT IURE. Sed quoniam rursus hic intellectus ad plura intra se posita poterat conuenire, non immerito additum est: NON EST SATIS et caetera, quae legatum et possessionis retentionem ab haereditatis definitione seiungunt: ac de priore quidem haereditatis exemplo haec dicta sint.  Ad huius uero similitudinem etiam secundum tractat exemplum, quod de definitione gentilitatis est positum. Gentiles enim sunt qui eodem nomine inter se sunt, ut Scipiones, Bruti et caeteri. Quid si serui sunt? num ulla gentilitas serorum esse potest? Minime. Adiiciendum igitur: Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quid si libertinorum nepotes ciuium, Romanorum eodem nomine nuncupentur? num gentilitas ulla est? Ne id quidem, quoniam ab antiquitate ingenuorum gentilitas ducitur; addatur igitur: Quorum maiorum nemo seruitutem seruiuit. Quid si per adoptionem in alterius familiam transeat? tunc etiamsi eius gentis ad quam migrauit nomine nuncupetur, licet ab ingenuis et ab iis ortus parentibus sit qui nunquam seruitutem seruierint, tamen quoniam in familia gentis suae non manet, ne in gentilitate quidem manere potest; addendum igitur est: Neque capite sunt diminuti. Hoc fortasse, inquit, satis est secundum Scaeuola, pontificis definitionem, nihil enim ulterius adiecit, ut sit definitio gentilium haec: Gentiles sunt, qui inter se eadem sunt nomine, ab ingenuis oriundi, quorum maiorum nemo seruitutem seruiuit, et ubi gentilitatem nulla capitis diminutio destruxit. Haec quoque definitio facta est ex pluribus communitatibus in unum confluentibus atque unam proprietatem eius rei quae definiebatur, id est gentilitatis, facientibus.  Hic igitur definitionis modus in utroque genere rerum ualet, siue quae sunt, siue quae non sunt, id est siue corporalium, siue incorporalium; nam, ut superius ostensum est, id esse Cicero dicit quod corporale sit, id non esse quod est incorporale. Ac postremo omnium definitionum modus hic est, ut ex pluribus communitatibus aliqua proprietas fiat. Sed distant a se definitiones, quod hae que proprie definitiones uocantur ex his communitalibus coniunguntur quae substantiales sunt. Hae uero quae non uerae sed abutendo definitions dicuntur, ex accidentibus communitatibus congregantur.  PARTITIONUM [AUTEM] ET DIVISIONUM GENUS QUALE ESSET OSTENDIMUS, SED QUID INTER SE DIFFERANT PLANIUS DICENDUM EST. IN PARTITIONE QUASI MEMBRA SUNT, UT CORPORIS CAPUT UMERI MANUS LATERA CRURA PEDES ET CAETERA. IN DIVISIONE FORMAE, QUAS GRAECI *EIDE* VOCANT, NOSTRI, SI QUI HAEC FORTE TRACTANT, SPECIES APPELLANT, NON PESSIME ID QUIDEM SED INUTILITER AD MUTANDOS CASUS IN DICENDO. NOLIM ENIM, NE SI LATINE QUIDEM DICI POSSIT, SPECIERUM ET SPECIEBUS DICERE; ET SAEPE HIS CASIBUS UTENDUM EST; AT FORMIS ET FORMARUM VELIM. CUM AUTEM UTROQUE VERBO IDEM SIGNIFICETUR, COMMODITATEM IN DICENDO NON ARBITROR NEGLEGENDAM.  GENUS ET FORMAM DEFINIUNT HOC MODO: GENUS EST NOTIO AD PLURIS DIFFERENTIAS PERTINENS; FORMA EST NOTIO CUIUS DIFFERENTIA AD CAPUT GENERIS ET QUASI FONTEM REFERRI POTEST. NOTIONEM APPELLO QUOD GRAECI TUM *ENNOION* TUM *PROLEPSIN*. EA EST INSITA ET ANIMO PRAECEPTA CUIUSQUE COGNITIO ENODATIONIS INDIGENS. FORMAE SUNT IGITU] EAE IN QUAS GENUS SINE ULLIUS PRAETERMISSIONE DIUIDITUR; UT SI QUIS IUS IN LEGEM MOREM AEQUITATEM DIVIDAT. FORMAS QUI PUTAT IDEM ESSE QUOD PARTIS, CONFUNDIT ARTEM ET SIMILITUDINE QUADAM CONTURBATUS NON SATIS ACUTE QUAE SUNT SECERNENDA DISTINGUIT.  SAEPE ETIAM DEFINIUNT ET ORATORES ET POETAE PER TRANSLATIONEM VERBI EX SIMILITUDINE CUM ALIQUA SUAUITATE. SED EGO A VESTRIS EXEMPLIS NISI NECESSARIO NON REMILANI. SOLEBAT IGITUR AQUILIUS COLLEGA ET FAMILIARIS MEUS, CUM DE LITORIBUS AGERETUR, QUAE OMNIA PUBLICA ESSE VULTIS, QUAERENTIBUS EIS QUOS AD ID PERTINEBAT, QUID ESSET LITUS, ITA DEFINIRE, QUA FLUCTUS ELUDERET; HOC EST, QUASI QUI ADULESCENTIAM FLOREM AETATIS, SENECTUTEM OCCASUM VITAE VELDT DEFINIRE; TRANSLATIONE ENIM UTENS DISCEDEBAT A UERBIS PROPRIIS RERUM AC SUIS. QUOD AD DEFINITIONES ATTINET, HACTENUS; RELIQUA VIDEAMUS. Quoniam definitionum formas in partitiouem diuisionemque, distribuit nequaquam rerum auditor similitudine turbaretur, diuisionis ao partitionis differentias prodit, ac primum aliud partes, aliud species esse demonstrat. Species enim saepe partes, partes uero nunquam species appellantur. Differant uero haec a se, quoniam partes totius membra coniungunt, species uero genus diuidit atque dispertit. Nam, ut superius quoque dictum est, partes eius quod copulant non suscipiunt nomen totius. Neque enim fundamenta uel tectum domus esse dici possunt, nam nisi omnia quae quid efficiunt iuncta sint, totius uocabulum singula non habebunt; at uero species etiam singulae generis suscipiunt nomen, ut homo animalis. Quo fit, ut in his illa quoque differentia possit agnosci, quod partes quidem, totius partes, species uero non totius, scilicet uniuersalis rei, id est generis, species esse dicuntur. Differt uero totum a genere, quod genus quidem uniuersale est totum uero minime, quod probatur hoc modo. Si enim id quod totum dicitur, ut domus, uniuersale esset, partes quoque eius totius susciperent nomen; at non suscipiunt, ut saepe monstratum est; quod igitur totum est, uniuersale non est. Genus uero uniuersale esse manifestum est, quoniam eius nomen deductae ab eo formae suscipiunt.  Item alia differentia. Genus semper speciebus suis prius est, totum uero suis partibus posterius inuenitur. Nisi enim partes fuerint, totum non potest coniungi. Quo fit ut si genus pereat, species quoque perimantur; si species intereat, maneat genus quod in partibus totoque contrarium est. Nam si pars quaelibet una pereat, totum nec esse est interire; si uero totum, quod partes iunxerant, dissipetur, partes maneant distributae: ueluti si domus tecta et parietes, et fundamenta a semetipsis extrinsecus posita intelligantur, domus quidem non erit quia coniunctio destructa est, partes tamen manebunt.  Propriis igitur nominibus M. Tullius partes quidem ueluti totius membra appellat, species uero formas. Idcirco, quoniam non satis ei apta uidetur inflexio casum ab eo nomine quod est species. Et licet plures, inquit, usurpauerint hoc nomen, tamen quoniam dura est huius nominis per casus inflexio, cum dicitur speciei, specierum, speciebus, idcirco commoditatem in dicendo, ut ipse ait, non arbitratus est negligendum, ut formas uocaret in cuius nominis casibus nulla sentitur asperitas.  Et quoniam forma praeter genus esse non potest (nihil enim praeter suum potest esse principium), utrorumque apposuit definitiones, dicens genus esse notioncm ad plures differentias pertinentem. Notio uero intellectus est quidam et simplex mentis conceptio, quae ad res plures pertineat a se inuicem differentes. Id uero genus esse manifestum est, quod apertissimo liquet exemplo. Animalis quippe intellectus ad plures differentias pertinet, ad rationale scilicet atque irrationale, ad mortale etiam atque immortale, ad ambulabile, reptibile, uolatile, natabile, et est eorum omnium quae sub his differentiis sita sunt, genus. Idem uero significat haec definitio quod etiam uetus, haec est huiusmodi: Genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid est praedicatur, uelut animal, genus ad plures res specie differentes, id est ad hominem atque equum, in eo quod quid est praedicatur. Nam interrogantibus quid est homo uel equus, animal dicitur.  Item formae definitionem talem dedit. Forma est notio cuius differentia ad caput generis, quasi fontem, referri potest, et recte. Nam si formae a genere deducuntur, species necesse est referantur ad genus. Si igitur principium quoddam et fons formae genus est, nec esse est ut intellectus formae ad primordium suum, id est notionem generis, reuertatur. Intellectus enim hominis refertur ad animal, itemque equi et caeterorum.  Notionem uero appellat quod Graeci *ennoian* dicunt, huius haec est definitio: Notio est insita et ante percepta cuiusque formae cognitio enodationis indigens. Haec uero definitio hinc tracta est quod Plato ideas quasdam esse ponebat, id est species incorporeas substantiasque constantes, et per se ab aliis naturae ratione separatas, ut hoc ipsum homo quibus participantes caeterae res homines uel animalia fierent. At uero Aristoteles nullas putat extra esse substantias sed intellectam similitudinen. plurimorum inter se differentium substantialem genus putat esse, uel speciem. Nam cum homo atque equus differant rationabilitate atque irrationabilitate, horum intellecta similitudo efficit genus. Nam similitudo equi et hominis substantialis in ea est, quod uterque substant; a est, uterque animatus, uterque sensibilis, quae iuncta efficiunt animal, est animal namque substantia animata sensibilis. Igitur hominis atque equi similitudo est animal, quod est genus. Rursus cum Plato atque Cicero numero accidentibusque distarent, horum similitudo, quae est humanitas intellecta atque animo formata, species est. Ergo communitas quaedam et plurimorum inter se differentium similitudo notio est, cuius notionis aliud genus est, aliud forma.  Sed quoniam similium intelligentia est omnis notio, in rebus uero similibus necessaria est differentiarum discretio, idcirco indiget adhuc notio quadam enodatione ac diuisione, uelut ipse intellectus animalis sibi ipse non sufficit. Nam mox animus ad aliquod animal, id est uel hominem uel equum, deducitur inquirendum, et hominis notio uel ad Tullium, uel ad Platonem, uel ad quemlibet singularium personarum refertur. Quae cum ita sint, quoties genus diuiditur in formas, nullam praetermitti oportebit. Est enim uitium uel maximum, si qua diuidentem forma praeterrat, ueluti si quis ius diuidere uelit, in legem, morem atque aequitatem nec esse est partiatur. Nam et lex, et mos, et aequitas, et singula, et in commune, iuris uocabulo subiecta sunt. Culpat uero illorum inscitiam qui idem species uel formas putant esse quod partes, conturbarique eos inscitia dicit, quod res a se plurimum differentes imperite atque improuide distinguere ac segregare non curant.  Sed quoniam de definitione loquebatur, addit aliam speciem definitionis, quam nos superius enumerauimus, quae per translationem non proprietatis ueritatisque sed splendoris atque ornatus ratione perficitur, quod poetarum atque oratorum esse autumat, quibus luculenta oratio curae est. Huius definitionis exemplum a iure ciuili Tullius petit, atque se non aliter ab exemplis notioribus Trebatio recessurum quam si necessitae cogat. Per translationem uero definitio est, ueluti cum Aquilius, littus definire uolens, dicebat littus esse quo fluctus eluderet. Hoc eludere ab iis translatum est qui agitatione aliqua, causa lusus, mouentur. Itemque adolescentia est flos aetatis, id ab arboribus ductum est, quarum fructus flores praecedunt. Et senectus, uitae occasus, id a die ductum est, qui desinit esse cum sol occiderit: quae translationes a proprietate discedunt, et quadum similitudine subiecta signant. Est enim translatio quoties habentis rei nomen, propter alterius rei similitudinem, a re simili nomen imponitur, ut motus habet proprium nomen, item lusus suo uocabulo nuncupatur. Sed qui dicit, qua fluctus eluderet, a similitudine agitationis ad fluctuum motum uocabulum transfert.  Ac de definitionibus quidem disputationem terminans, ad partitiones transitum facit. Sed nunc tertio uolumini satis est reliqua in posterum differamus.  Explicare non possum, mi Patrici, quantas saepe in difficillimi operis cursu uires afferat amicitiae contemplatio, cum et iis studiosius componamus, quos reposito penitus amore diligimus, et placare cupientibus multa sese rerum copia subministret. Huc accedit quod ut quaeque in mentem uenerint iniudicata atque etiam incastigata promuntur, quandoquidem apud cari pectoris secretum nihil est periculi proferre quod sentias. Est igitur mihi, cum tuam beneuolentiam specto, pronum omne atque, ut ita dicam, uoluptarium, quod in tuae praescriptum iucunditatis impenditur. Sed cum memet ipse perpendo, uereor ne imparato muneri par esse non possim, et deficientis culpa in adhortantis cedat iniuriam. Quo fit ut tibi etiam atque etiam prouidendum sit, ne, tuis ipse moribus emendatus, nostri alicuius erroris sarcinam feras. Nosti oblatrantis morsus inuidiae, nosti quam facillime in difficillimis causis liuor iudicium ferat. Quaeso igitur extremam nostro operi manum communis negotii studiosus imponas, abundantia reseces, hiantia suppleas, errata reprehendas, sis postremo nostri laboris tuaeque adhortationis assertor, cum praesertim me securum peractum reddat officium, te amici pudor dignus possit conuenire, si displicet. Sed haec alias, nunc operis suscepti tramitem persequamur.  Quoniam locorum in ipsis de quibus quaeritur terminis inhaerentium, alii sunt a toto, alii a partibus, alii a nota, alii ex affectis, de eo quidem loco qui a toto est, et in definitione est constitutus, sufficienter disseruit superiore tractatu. Nunc uero de partium enumeratione dicere instituit, rectam ordinis uiam scilicet insistens, ut non solum exemplo qualis esset partium enumeratio perdoceret, uerum ratione quoque ostenderet quomodo partium enumeratione in argumentationibus esset utendum. PARTITIONE TUM SIC UTENDUM EST, NULLAM UT PARTEM RELINQUAS; UT, SI PARTIRI VELIS TUTELAS, INSCIENTER FACIAS, SI ULLAM PRAETERMITTAS. AT SI STIPULATIONUM AUT IUDICIORUM FORMULAS PARTIARE, NON EST VITIOSUM IN RE INFINITA PRAETERMITTERE ALIQUID. QUOD IDEM IN DIUISIONE VITIOSUM EST. FORMARUM ENIM CERTUS EST NUMERUS QUAE CUIQUE GENERI SUBICIANTUR; PARTIUM DISTRIBUTIO SAEPE EST INFINITIOR, TAMQUAM RIUORUM A FONTE DIDUCTIO.  [8.34] ITAQUE IN ORATORIIS ARTIBUS QUAESTIONIS GENERE PROPOSITO, [1108D] QUOT EIUS FORMAE SINT, SUBIUNGITUR ABSOLUTE. AT CUM DE ORNAMENTIS UERBORUM SENTENTIARUMUE PRAECIPITUR, QUAE VOCANT *SCHEMATA*, NON FIT IDEM. RES EST ENIM INFINITIOR; UT EX HOC QUOQUE INTELLEGATUR QUID VELIMUS INTER PARTITIONEM ET DIUISIONEM INTERESSE. QUAMQUAM ENIM UOCABULA PROPE IDEM VALERE VIDEBANTUR, TAMEN QUIA RES DIFFEREBANT, NOMINA RERUM DISTARE VOLUERUNT.  Sensus huiusmodi est. Rerum quae partibus coniunguntur, aliae quidem paucas sed facile intelligibiles comprehensibilesque partes habent, aliae uero plures intellectuque difficiles. In his igitur partibus quae sunt paucae ac facile sub intelligentiam cadunt, uel maximum uitium est, si partiendo aliquid relinquatur. In his uero quarum, ut ipse ait, infinitior numerus est et confusior perspectio, minus uitio sum est, si qua diuidentem pars in enumeratione praetereat.  Fit autem hoc non solum per eas res quae aliquibus partibus constant, uerum etiam saepe per partes ipsas quas in distributione partimur, ut si hominis corpus uelimus intellectu ac ratione per propria membra disiungere, faciemus ita, caput, humeros, manus, thoracem, uentrem, suras atque pedes. Et quoniam maiores partes sumpsimus ad diuidendum, idcirco nihil pretermissum esse uidetur; at si minutissimas particulas persequamur, tum oculi quoque, et labia, et nares, atque aures, earumque partes persequendae sunt, idque in toto corpore faciendum est, eodemque modo difficilior erit partitio, cum sit partium numerus infinitior. Saepe etiam, ut dictum est, res ipsae his partibus iunctae sunt, quarum non sit facilis inspectio, ut si quis stipulationem et iudiciorum formulas partiatur, uel etiam si figuras loquendi, quae *schemata* Graeci uocant, diuidi nec esse sit. Hic igitur si quid praetermissum sit, non erit uitium partientis, quia partium natura multiplex sa pius obtendit errorem.  At si quis genus diuidat, perniciosum est aliquam praeterire formam, quoniam formarum finita quantitas est. Nam quia semper in contrarium diuiduntur, aut duae sunt semper species generis, aut tres, et tunc tres, cum ea tertia, quae sumitur, ex contrariorum permistione perficitur, utsi colorem diuidamus, dicendum est ita. Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud medium. Idque medium ex albi coloris ac nigri commistione coniunctum est, quamuis in quamlibet aliam coloris speciem transferatur, seu purpurei, seu rubri, seu uiridis. Itaque si tale est quod diuidis, talesque sunt partes quas ad diuisionem sumis, quas non difficulter intelligentia comprehendas, uitium erit, si quid omiseris, uelut si tutelas partiaris. Tutela quippe quatuor fere modis est, aut enim per consanguinitatis gradum est, aut patronatus iure defertur, aut testamento patris tutor eligitur, aut urbani praetoris iurisdictione formatur, et sunt forsitan plures sed nunc istae sufficiunt. Hic igitur et paucae partes, et facile comprehensibiles. At si stipulationum formulas et iudiciorum comprehendere uelis, quoniam multae in his partes sunt, non erit uitiosum si quid omiseris.  In promptu uero est exemplum partium, quod de tutelis est dictum, magis enim ut genus in formas, quam ut totum in partes, tutela diuisa est. Nam siue per consanguinitatem sittutor, siue patronatus iure, siue caeteris modis, integrum tutelae ius habet, quod in singulis partibus non solet euenire, ut totius integrum capiant nomen. Sed ut conueniens uideatur exemplum, requirendae sunt tales tutelarum partes quae iunctae tutelas efficere possint, non quae singulae tutelae nomine designentur, quod nescio an quisquam iurisperitiae professor tales tutelae partes ediderit. Merobaudes uero rhetor ita intelligendum putauit, ut id quod ait, PARTITIONE SIC UTENDUM EST, ut nullam partem praetermittas, de diuisione dixerit, id est de una parte propositae partitionis. Nam et diuisio et per membra distributio, partitio nuncupatur; in diuisione enim uitiosum est aliquid praetermittere, in partitione membrorum minime. Ita exemplum de tutelis, ei partitioni accommodatum dedit, quae est diuisionis.  At si diuisionem facias, id est formarum a genere partitionem, summum est uitium aliquid praetermittere, quoniam cum sit finitus formarum numerus, si quid omissum sit, inscitia praeteritur: ut si oratorias quaestiones in formas diuidere uelimus, dicemus omnem rhetoricam quaestionem, aut de facto esse, aut de qualitate facti, aut de nomine. At si locutionum figuras sententiarumque distribuam, non erit, ut dictum est, uitium, transire aliquid, quandoquidem sententiarum inter se atque locutionum figuree et multiplices, et uaria ratione diuersa. Hic quoque figurarum partes non ita uidentur accipi posse, quemadmodum totius sed ut species generis; unaquaeque enim figurarum quae infinitae sunt, uelut figura, generalis species est, quod possumus intelligere ex his uerbis rhetorum, ubi de elocutione tractatur. Nullae namque sunt figurarum partes quae figuras iungant, ita ut singulae figurae nomen uniuersalis figurae non possint admittere.  Sed obiici nobis potest: Et quomodo infinite sunt figurae, si species sunt?  Sed respondebo leuiter: Elocutione mutata, figuram quoque mutari, atque idcirco in potestate esse dicentis figuras facere, quas is qui tractat difficile, antequam fiant, potest agnoscere; hae uero non substantialibus quibusdam differentiis constituuntur sed potius accidentibus explicantur. Unde fit ut tum communis nominis in significationes partitio fieri uideatur, cum figura diuiditur, potius quam generis in species; omnia uero significata cuiusque nominis diuisione includere, difficile est, quia noua plerumque finguntur sed ne id quidem rerum ratio permittit. Nam unaquaeque figura generalis figurae nomine et definitione comprehenditur. Quocumque enim modo figura definitur, eadem erit definitio etiam uniuscuiusque figurae. Quae res unamquamque figuram uniuersalis figure speciem esse declarat. Uniuoca enim sunt species et genus.  Sed est illud uerius, partitionem figurarum ad elocutionem ipsam Tullium retulisse, cuius pars quaedam est figura, non species. Variis enim multiplicibusque figuris elocutio luculenta contexitur. Si quis igitur elocutionem partiri uelit in figuras, non genus in species sed totum secabit in partes. Quae cum ita sint, ex hoc quoque apparet quid intersit inter diuisionem partitionemque, cum partitio interdum talis sit, ut si quid in ea praetermissum sit, nihil afferat uitii. Diuisio uero formarum talis est, ut in ea non queat aliquid sine culpa praeteriri. Quod factum est, ut quia res differebant, diuersa etiam uocabula rebus inter se distantibus uiderentur.  MULTA ETIAM EX NOTATIONE SUMUNTUR. EA EST AUTEM CUM EX VI NOMINIS ARGUMENTUM ELICITUR; QUAM GRAECI *ETYMOLOGIAN* APPELLANT, ID EST VERBUM EX VERBO VERILOQUIUM; NOS AUTEM NOVITATEM VERBI NON SATIS APTI FUGIENTES GENUS HOC NOTATIONEM APPELLAMUS, QUIA SUNT VERBA RERUM NOTAE. ITAQUE HOC QUIDEM ARISTOTELES *OUMBOLON* APPELLAT, QUOD LATINE EST NOTA. SED CUM INTELLEGITUR QUID SIGNIFICETUR, MINUS LABORANDUM EST DE NOMINE.  [8.36] MULTA IGITUR IN DISPUTANDO: NOTATIONE ELICIUNTUR EX VERBO, UT CUM QUAERITUR POSTLIMINIUM QUID SIT -- NON DICO QUAE SINT POSTLIMINI; NAM ID CADERET IN DIVISIONEM, QUAE TALIS EST: POSTLIMINIO REDEUNT HAEC: HOMO NAVIS MULUS CLITELLARIUS EQUUS EQUA QUAE FRENOS RECIPERE SOLET -- SED CUM IPSIUS POSTLIMINI QUAERITUR ET VERBUM IPSUM NOTATUR; IN QUO SERVIUS NOSTER, UT OPINOR, NIHIL PUTAT ESSE NOTANDUM NISI POST, ET LIMINIUM ILLUD PRODUCTIONEM ESSE VERBI VULT, UT IN FINITIMO LEGITIMO AEDITIMO NON PLUS INESSE TIMUM QUAM IN MEDITULLIO TULLIUM.  SCAEVOLA AUTEM P. F. IUNCTUM PUTAT ESSE [1111B] VERBUM, UT SIT IN EO ET POST ET LIMEN; UT, QUAE A NOBIS ALIENATE, CUM AD HOSTEM PERVENERINT, EX SUO TAMQUAM LIMINE EXIERINT, HINC EA CUM REDIERINT POST AD IDEM LIMEN, POSTLIMINIO REDISSE VIDEANTUR. QUO GENERE ETIAM MANCINI CAUSA DEFENDI POTEST, POSTLIMINIO REDISSE; DEDITUM NON ESSE, QUONIAM NON SIT RECEPTUS; NAM NEQUE DEDITIONEM NEQUE DONATIONEM SINE ACCEPTIONE INTELLEGI POSSE.  Post enumerationem partium recto ordinede notatione perpendit. Notatio igitur est quoties ex nota aliqua rei, quae dubia est, capitur argumentum. Nota uero est quae rem quamque designat. Quo fit ut omne nomen nota sit, idcirco quod notam facit rem de qua praedicatur, id Aristoteles *symbolon* nominauit. Ex notatione autem sumitur argumentum quoties aliquid ex notatione, id est nominis interpretatione, colligitur. Interpretatio uero nominis *etymologia* Graece. Latine ueriloquium nuncupatur; *etymon* enim uerum significat, *logos* orationem. Sed quia id ueriloquium minus in uso Latini sermonis habebatur, interpretatione nominis notationem Tullius appellat.  Ea est huiusmodi, ut si quaeras quid est postliminium. In qua quaestione non illud uidetur inquiri quae res postliminio reuertantur, hoc enim in diuisionem caderet, id est earum omnium rerum enumerationem quae postliminio redeunt postularet. Velut si ita dicamus: Post liminio redeunt homo, nauis, mulus clitellarius, equus, equa quae frenos recipere solet, id est domita, nunc enumeratae sunt res quae postliminio reuertantur.  At cum quod sit ipsum postliminii ius quaeritur, potest ex ipsius nominis interpretatione cognosci. Postliminio enim redit quisquis captus ab hostibus ad patriam remeauerit; namque dum captiuitatem hostium putitur, ius ciuis amittit; ornnia uero iura recipit, si postliminio reuertatur. Ergo ex notatione nominis ita ius postliminii clarescere potest, ut quia semper post id significatur quod retro relinquitur, postliminii uocabulo quaedam reuersio significatur, ut Seruius probat, qui ex aduerbio post uim nominis interpretatur, reliquem uocabuli partem protractionem esse confirmans; nam in eo quod est postliminium, ex eo quod post dictum est interpretationem nominis sumit, liminium uero superuacuo putat esse productum. Ad horum nominum formam, meditullium; prima enim pars medium significat, Tullium uero nihil. Et legitimum et aeditimum similiter. In utrisque enim, lex ibi, aedes ibi, aliquid, timum uero nihil omnino designat. Id uero nomen quod est postliminium, Scaeuola P. filius ex aduerbio post et limine putat esse compositum, nam quia ad idem limen quod prius reliquit reuertitur is qui postliminio redit, idcirco ex utrisque significationibus arbitratur nomen esse compositum. Quaecumque enim a nobis abalienata ad hostem perueniunt, cum a nostro limine exierint, si post ad id em limen reuertantur, postliminio redeunt.  Quomodo etiam Mancini causa defendi potest, quem cum populus Romanus ob foedus male dictum dedisset, hostes eum suscipere noluere?  qui cum reuersus esset, postliminio rediisse uidebatur. Idcirco quia si cum hostes recepissent deditum a ciuibus, etiamsi quo modo ab hostibus effugisset, non uideretur postliminio regressus qui iudicio ciuium omni libertatis iure fuisset exutus; sed quoniam neo deditio, neo datio, neo donatio, praeter acceptionem uidetur posse consistere, idcirco qui non sit susceptus, ne deditus quidem intelligi possit. Recte ergo Mancinus qui non deditus in hostium, si ea uti uellent, peruenerat potestatem, is cum in patriam remeauit, iure postliminio rediisse defensus est.  SEQUITUR IS LOCUS, QUI CONSTAT EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO AMBIGITUR; QUEM MODO DIXI IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM. CUIUS EST PRIMUS [1112C] LOCUS EX CONIUGATIONE, QUAM [GRAECI] *SYZYGIAN* UOCANT, FINITIMUS NOTATIONI, DE QUA MODO DICTUM EST; UT, SI AQUAM PLUVIAM EAM MODO INTELLEGEREMUS QUAM IMBRI COLLECTAM VIDEREMUS, VENIRET MUCIUS, QUI, QUIA CONIUGATA VERBA ESSENT PLUVIA ET PLUENDO, DICERET OMNEM AQUAM OPORTERE ARCERI QUAE PLUENDO CREVISSET.  Cum locum qui ipsis de quibus quaeritur inhaereret in quatuor differentius supra distribuit, a toto, ab enumeratione partium, a nota, ab affectis, quoniam diligenter de superioribus tribus paulo ante tractauit, nunc quartum locum, id est affecta, persequitur. Et quoniam locus ab affectis in plurimas differentias soluebatur, quarum prima a coniugatis proposita est, primum loquitur de coniugatis.  Quae multum a notatione non differunt. Nam qui notatio ex ui nominis trahitur, itemque coniugatio similitudine uocabuli continetur, aliquod inter se ueluti confinium tenent. Sed hoc interest, quia notatio expositione nominis, coniugatio similitudine uocabuli ac deriuatione perficitur.  Et quoniam facilis et intellectu et tractatu locus est, tantum ponere sufficit exemplum, quod est huiusmodi: Aqua pluuia est quae pluendo colligitur et crescit. Pluendo uero atque pluuia coniugata sunt. In uno enim eodemque uocabulo diuersus nominum terminus differentiam facit. Item: ius est aquam pluuiam arceri, id est, ut si in alicuius agro pluuia aqua colligatur, et in alterius agrum defluat, eaque uicini frugibus nocitura concrescat, arceat eam suis finibus ille qulid sua putat inter esse ne defluat. Si fluuius igitur pluuia creuerit, quaeritur an debeat arceri, respondet, inquit, Mutius, quoniam aqua pluuia a pluendodicta sit, fluuium quoque, qui pluendo creuerit, aquam esse pluuiam, atque arceri deberi.  CUM AUTEM A GENERE DUCETUR ARGUMENTUM, NON ERIT NECESSE ID USQUE A CAPITE ARCESSERE. SAEPE ETIAM CITRA LICET, DUM MODO SUPRA SIT QUOD SUMITUR, QUAM ID AD QUOD SUMITUR; UT AQUA PLUVIA ULTIMO GENERE EA EST QUAE DE CAELO VENIENS CRESCIT IMBRI, SED PROPIORE, IN QUO QUASI IUS ARCENDI CONTINETUR, GENUS EST AQUA PLUVIA NOCENS: EIUS GENERIS FORMAE LOCI VITIO ET MANU NOCENS, QUARUM ALTERA IUBETUR AB ARBITRO COERCERI ALTERA NON IUBETUR.  Talis generum specierumque intelligitur esse natura, ut cum colliguntur uel etiam diuiduntur, ab indiuiduis per species et genera usque ad maxima generapossitascendi, itemque a maximis generibus per infra posita genera usque ad indiuidua ualeat esse descensus. Id uero uno clarum fiet exemplo. Cicero quippe indiuiduum est, huius species homo, huius genus animal, huius superius genus est corpus animatum, et si longius ascendas, corpus alterius genus inuenies, si prolixius egrediare, substantia ultimi loco generis occurrit.  Cum igitur multa sint genera, si cuiuslibet speciei genus assignandum sit, non nec esse erit, inquit, maxima et principalia genera semper exquirere, uerum eorum quoque aliquid quae in medio locata sunt oportebit adhibere, illa tamen ratione seruata, ut semper genus superius sit eo ad quod praedicatur ut genus. Extrema quippe inscitia est, si dum genus semper natura speciebus propriis superponatur, loco generis id quod est inferius collocetur. Quocirca uitiosum est, si quis corporis genus dicat esse corpus animatum. Quo fit ut si ad speciem aptandum est genus, eorum quae superiora sunt aliquid aptemus, et non erit nec esse ultimum semper genus adhibere, ut si homini genus proprium praeponere uolimus, non necesse est ut substantiam praeponamus sed uel corpus, uel corpus animatum, uel quod maxime fieri oportet animal. Illa enim semper genera sumenda sunt, quaecumque proxima formis adhaerent, eaque in definitione maxime requiruntur.  Sed in argumentationibus nihil differt utrum proximum eligas, an superius genus. Nam quoniam ex continenti fit argumentatio, plus continet id quod est superius genus. Quocirca si de homine aliquid ambigitur, et a genere argumentanrii sumitur locus, quidquid de animali dicetur, id etiam de homine praedicabitur. Quo fit ut si quid etiam de animato corpore praedicetur, idem etiam de homine dici possit. Ut igitur argumentationes ex proximis generibus fiunt, ita etiam ex alterius constitutis.  Sed in his omnibus illud est quod maxime considerandum uidetur, ne id quod est inferius superiori praeponatur ut genus. Et sententia quidem talis est. Quod uero ad exemplum attinet, declarabitur hoc modo: Sit aqua pluuia ea quae deiecta de caelo imbri colligitur, huius species duplex est; alia enim aqua plouia nocens est, alia non nocens. Nocentis quoque duplex species est, alia manu, alia uitio. Sed aqua pluuia manu nocens est, quae ita loco aliquo excipitur, inde profluens uicino noceat, si locus is non sit naturaliter talis sed manu hominis excipiendae aquae fuerit apparatus; uitio uero, quoties naturaliter ita sese locus habet, ut excipere aquam possit et nocere uicino. Si igitur eius aquae quam quis arceri uelit, ne sibi noceat, a uicino genus uelit exquirere, non nec esse est ab ultimo usque genere deducere, ut nicat aquae eius quam quis uelit arceri genus esse aquam pluuiam sed potest id quod inquirit genus paulo inferius inuenire, ut huius aquae quam arceri desiderat id genus esse dicat, quod est aqua pluuia nocens. Quod si genus proximum quaerat, illud poterit adhibere quod est aqua pluuia manu nocens, hoc enim arceri quis cogitur quod manu fit noxium. Quod uero loci forma uel uitio incommoditatis aliquid apportat, arcere non cogitur.  Quod autem diximus, eius aquae quam arceri oporteat genus esse quam pluuiam manu nocentem, ita intelligendum est, si aqua quae arceri debet plurima sub se habet indiuidua et similia, tunc enim demum eius aquae quae arceri debet, aqua pluuia manu nocens genus esse poterit. Quod si aqua quae arceri dehet in nulla indiuidua diducatur, ipsa est indiuidua, nec est eius genus aqua pluuia nocens manu sed species. Quod si cui paululum uidetur obscurius hic si eos commentarios quos de genere, specie, differentia, proprio, atque accidenti, composuimus, libris quinque digestos inspexerit, nihil horum poterit incurrere quo caliget. COMMODE ETIAM TRACTATUR HAEC ARGUMENTATIO QUAE EX GENERE SUMITUR, CUM EX TOTO PARTIS PERSEQUARE HOC MODO: SI DOLUS MALUS EST, CUM ALIUD AGITUR ALIUD SIMULATUR, ENUMERARE LICET QUIBUS ID MODIS FIAT, DEINDE IN EORUM ALIQUEM ID QUOD ARGUAS DOLO MALO FACTUM INCLUDERE; QUOD GENUS ARGUMENTI IN PRIMIS FIRMUM VIDERI SOLET.  Dictum est quemadmodum genus ad speciem debeat aptari, atque in eo praescriptum est ut nisi id quod est superius adhiberi non debeat. Nunc illud adiungitur, quemadmodum eius loci, qui a genere ducitur, in argumentatione commodior usus esse possit. Quotiescumque enim de re aliqua dubitatur, si, facta generis alicuius diuisione, sub aliqua eius generis parte id de quo ambigitur potuerimus includere, tunc a genere tractum esse argumentum uidetur hoc modo: Sit dolus malus, quando aliud agitur, aliud simulatur. Huius ergo si species diuidantur, et id quod factum esse arguimus alicui earum specierum quae a dolo malo deductae sunt potuerimus adiungere, quidquid de dolo malo existimabitur, idem etiam de ea re quani arguimus nec esse est iudicari, et factum est argumentum a genere. Nam de quo quaeritur species est, et id a quo sumitur argumentum genus est, scilicet ut si ita contingit dolus malus.  Locus uero hic ab eo qui est a partium enumeratione diuersus est. Nec si enumeramus partes, id est formas aut species, idcirco non a genere sed ab enumeratione partium ducitur argumentum. Quoties enim ipsa partium enumeratione utimur ad argumentationem, tunc ab eadem partitione argumentum tractum esse dicimus, ut hoc modo: Si fundamenta, et parietes, et tectum habet, et habitationi est destinatus locus, domus est. Ipsa igitur partitione utentes, domum esse probauimus. Quoties uero sub genere aliquid collocandum est, diuisisque partibus alicui eorum quae a genere deducuntur id de quo quaeritur aggregamus, ut hoc modo: Si Ciceronem animal esse monstremus, dicemus ita: Omne animal aut rationale est, aut irrationale; sed Cicero rationalis est, animal igitur est: non partitione utimur principaliter ad argumentum constituendum sed idcirco genus diuisimus, ut in unaqualibet diuisione id quod nitebamur ostendere posset includi, id est ut id de quo dubitatur in assumpti continentia generis redigeretur, itaque de eo per generis naturam fides fieret. Sic ergo a genere facta argumentatio iure dicetur.  Amplius ita partium enumeratio totius efficere substantiam solet, siue illud uniuersale sit ut genus, siue partium coniunctione completur ut totum. At uero haec diuisio generis in cuius partes quaelibet illa res de qua contenditur includenda est, non id efficit, ut totius substantia constituatur sed ut illud quod approbare quaerimus intra genus collocetur. Quem argumentationis modum imprimis M.  Tullius ualidum esse confirmat. Illa enim regula satis uera est atque necessaria: Quae de genere praedicantur, eadem de specie  modis omnibus praedicari.  Illud uero quaeri perutile est, cum aliquid de particularibus rebus probetur ex superposita proxima specie, ut si Socratem rationalem esse approbemus, quoniam sit homo, cum sit homo rationalis, utrum ex genere an ex forma argumentum ductum esse arbitremur. Nam si dicamus ex genere, ultima species genus esee non potest; si ex specie, superpositum genus semper species probare desiderat. Socrates uero cui fidem praestat homo, quoniam rationalis est, genus hominis non est sed dicendum est quoniam uelut a genere tractum uidebitur argumentum. Nam exgenere quasi ex continenti atque ampliori, et de substantia fides praedicati ducitur: quam sortem ad sua indiuidua speciem nemo dubitat obtinere, nam et continet ea, et de eorum substantia praedicatur. SIMILITUDO SEQUITUR, QUAE LATE PATET, SED ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS MAGIS QUAM VOBIS. ETSI ENIM OMNES LOCI SUNT OMNIUM DISPUTATIONUM AD ARGUMENTA SUPPEDITANDA, TAMEN ALIIS DISPUTATIONIBUS ABUNDANTIUS OCCURRUNT ALIIS ANGUSTIUS. ITAQUE GENERA TIBI NOTA SINT; UBI AUTEM EIS UTARE, QUAESTIONES IPSAE TE ADMONEBUNT. SUNT ENIM SIMILITUDINES QUAE EX PLURIBUS COLLATIONIBUS PERVENIUNT QUO VOLUNT HOC MODO: SI TUTOR FIDEM PRAESTARE DEBET, SI SOCIUS, SI CUI MANDARIS, SI QUI FIDUCIAM ACCEPERIT, DEBET ETIAM PROCURATOR. HAEC EX PLURIBUS PERUENIENS QUO UULT APPELLATUR INDUCTIO, QUAE GRAECE *EPAGOGE* NOMINATUR, QUA PLURIMUM EST USUS IN SERMONIBUS SOCRATES.  [10.43] ALTERUM SIMILITUDINIS GENUS COLLATIONE SUMITUR, CUM UNA RES UNI, PAR PARI COMPARATUR HOC MODO: QUEM AD MODUM, SI IN URBE DE FINIBUS CONTROVERSIA EST, QUIA FINES MAGIS AGRORUM VIDENTUR ESSE QUAM URBIS, FINIBUS REGENDIS ADIGERE ARBITRUM NON POSSIS, SIC, SI AQUA PLUVIA IN URBE NOCET, QUONIAM RES TOTA MAGIS AGRORUM EST, AQUAE PLUVIAE ARCENDAE ADIGERE ARBITRUM NON POSSIS.  EX EODEM SIMILITUDINIS LOCO ETIAM EXEMPLA SUMUNTUR, UT CRASSUS IN CAUSA CURIANA EXEMPLIS PLURIMIS USUS EST, QUI TESTAMENTO SIC HEREDES INSTITUISSET, UT SI FILIUS NATUS ESSET IN DECEM MENSIBUS ISQUE MORTUUS PRIUS QUAM IN SUAM TUTELAM VENISSET, HEREDITATEM OBTINUISSENT. QUAE COMMEMORATIO EXEMPLORUM VALUIT, EAQUE VOS IN RESPONDENDO UTI MULTUM SOLETIS.  FICTA ENIM EXEMPLA SIMILITUDINIS HABENT VIM; SED EA ORATORIA MAGIS SUNT QUAM VESTRA; QUAMQUAM UTI ETIAM UOS SOLETIS, SED HOC MODO: FINGE MANCIPIO ALIQUEM DEDISSE ID QUOD MANCIPIO DARI NON POTEST. NUM IDCIRCO ID EIUS FACTUM EST QUI ACCEPIT? AUT NUM IS QUI MANCIPIO DEDIT OB EAM REM SE ULLA RE OBLIGAVIT? IN HOC GENERE ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS CONCESSUM EST, UT MUTA ETIAM LOQUANTUR, UT MORTUI AB INFERIS EXCITENTUR, UT ALIQUID QUOD FIERI NULLO MODO POSSIT AUGENDAE REI GRATIA DICATUR AUT MINUENDAE, QUAE *HYPERBOLE* DICITUR, MULTA ALIA MIRABILIA. SED LATIOR EST CAMPUS ILLORUM.  EISDEM TAMEN EX LOCIS, UT ANTE DIXI, ET [IN] MAXIMIS ET MINIMIS QUAESTIONIBUS ARGUMENTA DUCUNTUR.  De similitudinis loco plene aeque expedite disseruit, omnemque aperuit intellectum, similitudinum diuidens formas, praescripsitque apertissime quibus magis ex similitudine argumenta contingerent, id est philosophis atque oratoribus; et enim similitudo persuasionibus uidetur aptissima. Nam quod in unam uel plures extra eam de qua quaeritur causam cadere solet, facile credi potest in eam quoque de qua ambigitur conuenire. Idcirco ex similitudine tractae argumentationes magnum oratoribus usum praestant, philosophis quoque, quoniam non in omnibus quaestionibus demonstratione utuntur sed aliquoties uerisimilia colligunt, quo id facilius persuadeant quod nituntur ostendere, similitudo rerum saepe est inquirenda atque idcirco locus a similitudine oratoribus maxime philosophisque conducit, non tamen solis. Omnes enim loci communes sunt cuiusque materiae sed in aliis uberius incidunt, in aliis angustius inueniuntur. Quocirca cognitis atque ante perceptis locis quaestiones ipsae quae tractabuntur quibus locis uti debeat solertem animum poterunt admonere.  Omnis uero similitudo duplex est: aut enim ex pluribus similitudo colligitur, et inductio nuncupatur, quod Graeci *epagoge* nominant, aut singulae res per similitudinem comparantur.  Ac prior quidem huiusmodi est: Si tutor fidem praestare debet, si socius, si cui mandaueris, si qui fiduciam acceperit, debet etiam procarator. Nam cum in pluribus rebus fides praestari debeat, unaque similitudo sit in fide praestanda tam in tutore quam socio, atque eo cui mandatum sit, eoque qui fiduciam acceperit, debet eadem similitudo procuratori etiam conuenire. Fiduciam uero accepit cuicumque res aliqua mancipatur, ut eam mancipanti remancipet, uelut si quis tempus dubium timens amico potentiori fundum mancipet, ut ei cum tempus quod suspectum est praeterierit reddat; haec mancipatio fiduciaria nominatur, idcirco quod restituendi fides interponitur. Hac similitudinis collectione plurimum Socrates esse usus dicitur, ut in Platonis aliorumque eius sectatorum uoluminibus inuenitur.  Quoties uero una res uni rei per similitudinem comparatur, hoc modo colligitur argumentum. Regendorum finium arbitri esse dicuntur, qui finalia litigia discernunt, ut si fuerit de finibus orta contentio, eorum dirimatur arbitrio. Sed fines in agrorum tantum limitibus esse dicuntur, arbitri autem finiam regendorum in ciuitate esse non poseunt. Item arceri aquam in agris tantum dici solet, ubi si ex aliquo loco aqua pluuia colligatur, et defluens in campos uicini pascua frugesue corrumpat, arbitri arcendae aquae a magistratibus statuebantur. Quaeritur ergo an in urbe arcendae quae arbitrium possimus adigere. Et argumentum capitur ex similitudine. Si regendorum finium, quia solius agri sunt, in urbe arbitrum adigere non possis, ne aquae quidem arcendae, quia solorum esse uidetur agrorum, in urbe arbitrum possis adigere. Hic igitur una res uni rei similitudine coniuncta est.  Ex eodem etiam similitudinis loco illa sumi Cicero proponit quae uocantur exempla, ueluti Crassus in causa Curiana, quae fuit huiusmodi: Quidam praegunutem uxorem relinquens scripsit haeredem posthumum, eique alium substituit secundum, qui Curius uocabatur, ea conditione, ut si posthumus, qui intra menses decem proximos nasceretur, ante moreretur quam in suam tutelam peruenisset, idem ante obiret diem, quam testamentum iure facere posset, secundus haeres succederet; quod si ad id tempus peruenisset quo, iam firmo iudicio in suam tutelam receptus, iure ciuili instituto posset haerede defungi, secundus haeres, id est Curius, non succederet quae uocatur substituto pupillaris: quaesitum est an ualeret ita instituta ratio. Crassus, igitur multa protulit exempla, quibus ita institutis haeres obtinuisse haereditatem, quae exemplorum commemoratio iudices mouit.  Dicit etiam ipsos quoque iurisconsultos uti saepius exemplis, ueluti cum fingitur, id est imaginatur, propositio, ut casus de quo agitur per similitudinem intelligatur, hoc modo: Si quis enim iurisperitus adiiciat id quod non iure contractum est nullius esse momenti, adhibeatque exemplum tale, uelut si quis rem non mancipi mancipauerit, num idcirco aut rem alienauit, aut se reo facto potuit obligasse? minime, quod enim non iure contractum est nil retinet firmitatis. Et alia huiusmodi apud iurisperitos inueniuntur, in quibus oratores maxime ualent, quibus etiam in tantum fingere licet, ut eorum ratione etiam mortui saepe ab inferis excitentur, quod Tullius in ea facit oratione qua Caelium defendit. Sed latior, inquit, est illorum campus, id est oratorum, quibuss patiari ac deuagari licet: nec idcirco minus caeteris quoque facultatibus similitudines prosunt, quoniam eadem argumenta maximis minimisque causis conueniunt; quo fit ut loci quoque argumentorum diuersarum artium quaestionibus accomodentur. SEQUITUR SIMILITUDINEM DIFFERENTIA REI MAXIME CONTRARIA SUPERIORI;  SED EST EIUSDEM DISSIMILE ET SIMILE INVENIRE. EIUS GENERIS HAEC SUNT: NON,  QUEMADMODUM QUOD MULIERI DEBEAS, RECTE IPSI MULIERI SINE TUTORE AUCTORE  SOLVAS, ITEM, QUOD PUPILLO AUT PUPILLAE DEBEAS, RECTE POSSIS EODEM MODO  SOLVERE.  Eiusdem facultatis est similitudines differentiasque cognoscere; qui enim scit quid sit idem, nosse poterit quid sit diuersum. Omnis uero similitudoidem aliquid esse constituit, quod enim idem est secundum qualitatem, id simile esse necesse est. Omnis quippe res aut substantia eaedem sunt, aut qualitate, aut caeteris praedicamentis. Quod si ita est, et animus intelligere hoc idem in pluribus praedicamentis potest. Sed eam hoc ipsum idem in praedicamentis notat, eodem modo in eisdem praedicamentis quod diuersum est intuetur; sed simile idem est, differentia uero diuersum. Idem igitur animus eademque intelligentia similitudinem differentiamque cognoscit.  Differentiarum uero multae sunt species, aliae quippe sunt substantiales, ut homini rationale, aliae non substantiales sed inseparabiles, ut nigrum Aethiopi atque coruo; aliae uero mobiles neque constantes, ut sedere, stare, et huiuscemodi caeterae quibus et ab aliis hominibus et a nobis ipsis saepe distamus. Item differentiae aliae aliquo modo sunt generum diuisibiles, aliae aliquo modo specierum constitutiuae; sed si a constitutiuis argumentum ducatur, uelut a genere ducitur. Nam sicut genus continet speciem, ita differentiae continent species. Sane si differentiae constitutiuae ut genera intelligentur, fides ab his ad ea aptabitur quae constituunt. Haec enim talium differentiarum ueluti formae quaedam sunt. Sin uero sint diuisibilis, siquidem ad ea probanda, id est genera, quae diuidunt, earum ducitur fides, a forma argumentum fieri uidetur, nam tales differentiae eorum quae diuiduntur formae quaedam sunt.  Quod ei ad ea probanda referuntur quae in contrariam partem genus diuidunt, tunc proprie a differentia fieri argumentum uidetur, quia contrariae ueluti differentiae comparantur.  Quod uero ad exemplum attinet Tullii huiusmodi est: Mulieres antiquitus perpetua tutela tenebantur, pupilli item sub tutoribus agunt; sed mulieribus si quid debitum fuisset, sine tutoris auctoritate poterat solui, pupillis uero minime. Ergo si quaeratur an id quod debeatur pupillo cuilibet, renuente tutore, possit exsolui, a differentia sumitur argumentum, sic: Non sicut mulieri sine tutoris auctoritate debitum possis exsoluere, eodem modo, nisi auctoritas tutoris accesserit, pupillo soluere quod debeas possis; illas enim perpetua tutela, etiam prouecta iam aetate, continentur, illorum tutelae certus annorum numerus terminum facit; atque idcirco solui pupillo sine auctoritate non poterit. Differt enim persona mulierum a persona pupillorum, uel in eo quod pupilli non perpetua reguntur tutela, mulieres uero perpetua; uel quod pupillus nullum suae rei administrandae utilitatis iudicium habere potest cum sit aliquis mulieribus etsi non firmus, in explicanda familiaris rei utilitate delectus.  DEINCEPS LOCUS EST QUI E CONTRARIO DICITUR. CONTRARIORUM AUTEM GENERA PLURA; UNUM EORUM QUAE IN EODEM GENERE PLURIMUM DIFFERUNT, UT SAPIENTIA STULTITIA. EODEM AUTEM GENERE DICUNTUR QUIBUS PROPOSITIS OCCURRUNT TAMQUAM E REGIONE QUAEDAM CONTRARIA, UT CELERITATI TARDITAS, NON DEBILITAS. EX QUIBUS CONTRARIIS ARGUMENTA TALIA EXISTUNT: SI STULTITIAM FUGIMUS, SAPIENTIAM SEQUAMUR ET BONITATEM SI MALITIAM. HAEC QUAE EX EODEM GENERE CONTRARIA SUNT APPELLANTUR ADVERSA. SUNT ENIM ALIA CONTRARIA, QUAE PRIVANTIA LICET APPELLEMUS LATINE, GRAECI APPELLANT *STERETIKA*. PRAEPOSITO ENIM 'IN' PRIVATUR VERBUM EA VI, QUAM HABERET SI 'IN' PRAEPOSITUM NON FUISSET, DIGNITAS INDIGNITAS, HUMANITAS INHUMANITAS, ET CAETERA GENERIS EIUSDEM, QUORUM TRACTACTIO EST EADEM QUAE SUPERIORUM QUAE ADVERSA DIXI.  NAM ALIA QUOQUE SUNT CONTRARIORUM GENERA, VELUT EA QUAE CUM ALIQUO CONFERUNTUR, UT DUPLUM SIMPLUM, MULTA PAUCA, LONGUM BREVE, MAIUS MINUS.  SUNT ETIAM ILLA VALDE CONTRARIA QUAE APPELLANTUR NEGANTIA; EA *APOPHATIKA*; GRAECE, CONTRARIA AIENTIBUS: SI HOC EST, ILLUD NON EST. QUID ENIM OPUS EXEMPLO EST? TANTUM INTELLEGATUR, IN ARGUMENTO QUAERENDO CONTRARIIS OMNIBUS CONTRARIA NON CONVENIRE.  Diuisio, differentiae loco, nunc de contrariis tractat. Quare uti rerum ordo clarius colliquescat, pauca mihi ex Aristotele sumenda sunt quae ille uir omnium longe doctissimus de hac diuisione tractauit, quanquam M.  Tullius re quidem Aristoteli fere consentit sed ab eo nominum interpretatione diuersus est. Nam quae Aristoteles opposita, id est *antikeimena* uocat, ea Tullius contraria nominat; sed haec paulo posterius.  Nunc Aristotelis diuisio consideretur. Oppositorum igitur secundum Aristotelem alia sunt contraria, alia priuatio et habitus, alia relatiua, alia contradictoria. Contraria quidem, ut album atque nigrum; habitus uero et priuatio, ut uisus et caecitas, dignitas et indignitas; relatiua uero, ut pater, filius, dominus, seruus; contradictioria, ut est dies, non est dies: horum omnium tales inter se differentiae considerantur.  Nam quae contraria sunt, partim mediata sunt, partim uero medio carent. Mediata sunt, ut album, nigrum, est enim horum medius quilibet alius color, ut rubeas uel pallidus, et horum contrariorum non nec esse est alterum semper inesse corporibus. Neque enim omne corpus aut album aut nigrum est; sed aliquoties in horum medietate est constitutum, ut sit rubrum uel pallidum. Immediata uero contraria sunt quorum nihil medium poterit inueniri, ut grauitas et leuitas: horum enim nihil est medium. Nam quae leuia sunt, sursum feruntur, quae grauia, deorsum. Quod autem sit corpus quod neque sursum neque deorsum feratur, nihil poterit inueniri. Sed immediata contraria talia sunt, ut allerum eorum accidere semper inhaereat, ut in propositio superius exemplo.  Necesse est enim omne corpus uel leue esse uel graue, quia leuitas et grauitas medium non habent, quod praeterea inesse corporibus possit.  At ea quae in priuatione et habitu sunt, ut caecitas et uisus, distant quidem ab his contrariis quae claudunt aliquam medietatem, quod ipsa medietatem non habent; ab his uero contrariis differunt quae sunt immediata, quoniam horum contrariorum alterum semper subiecto inesse est, ut corpori grauitatem uel leuitatem; priuationem uero et habitum non semper, ut cum sit habitus quidem uisus, priuatio autem caecitas, non omne quod uideri potest, aut uidet, aut caecum est: infans quippe nondum editus neque uidet, quia nondum processit in luce, neque caecus est, quia nondum habuit uisum, quem potuisset amittere. Idem de catulis dici potest, qui statim nati nequeunt intueri, nam tunc eos nec caecos dicere possumus, nec uidentes. Et postremo contraria semper in suis qualitatibus considerantur; priuationes autem, non quod ipsae sint aliquid sed ex habitus absentia colliguntur neque enim caecitas est aliquid sed a uisus intelligitur abscessu.  Tam uero priuatio quam contrarietas differt a relationis oppositione, eo quod neque contraria, neque priuatoria simul esse possunt; idem enim in uno eodemque tempore, uno eodemque in loco album et nigrum, uidens et caecum esse non poterit; sed relatiua a se nequeunt separari, neque enim potest esse filius sine patre, nec seruus, si dominus non sit. Amplius, contraria ad se et priuatoria non referuntur. Nemo enim dicit album nigri, uel nigrum albi, uel caecitatem uisus, uel uisum caecitatis. Quae uero in relatione sunt posita in ipsa relationis praedicatione consistunt, ut duplum dimidii, dominus serui, et caetera ad hunc modum.  Tam uero contraria quam etiam relationes differunt a contradictionibus, quoniam contradictiones quidem semper in oratione consistunt, et in altera earum parte ueritas, in altera falsitas inuenitur, contraria uero priuatoria et relationes in simplicibus partibus orationis inuenitur et in his neque ueritas neque falsitas inest.  Nam cum dico album, nigrum, caecitas, uisus, dominus, seruus, simplices orationis partes sunt, neque uerum, neque mendacium continentes; in simplicibus enim partibus orationis ueritas uel falsitas nulla est: cum autem dico dies est, dies non est, utraeque propositiones, una in affirmatione, altera in negatione posita, orationes sunt.  Sed M. Tullius non tam propriis nominibus quam notioribus utitur; ait enim contrariorum alia esse quae aduersa uocantur, alia quae priuantia, alia quae in comparatione sunt, alia quae aientia et negantia nuncupantur. Sed quae contraria nominat, opposita uerius dicerentur; quae aduersa dicit, contrariorum melius susciperent nomen; quae in collatione nominat, ea relatiua uel ad aliquid certius uocarentur: sed utatur nominibus ut uolet, dum res ipeae certa proprietatis suae ratione signentur; nos uero in caeteris quos edidimus libris eo nuncupauimus modo, quo superius in Aristotelis dictum est diuisione. Secundum M. Tullium igitur contrariorum alia sunt aduersa, ut sapientia, stultitia; alia priuantia, ut dignitas et indignitas; alia quae cum aliquo conferuntur, ut duplum, simplum; alia quae appellantur negantia, e contrario aientibus constituta, ut si hoc est, illud non est.  Aduersa igitur sunt quae, sub uno genere posita, plurimum differunt, ut album, nigrum, quae a se plurimum distant sub uno genere posito, id est sub colore. Item celeritati tarditas aduersa est, positis utrisque sub motu, neque enim celeritati debilitus opponenda est, quia debilitati firma ualetudo contraria est, quod in diuisione omisit Cicero sed docuit exemplo; illa quoque dicuntur aduersa, quae, in diuersis generibus sita, plurimum a se discrepare intelliguntur, ut sapientiae stultitia. Illa enim sub genere boni est, haec uero sub mali, quamquam huiusmodi exemplum priuationem potius spectare uideatur; nam stultitia priuatio est sapientiae, nec quidquam est aliud stultitia nisi sapientiae et rationis absentia; sed quae sint quae priuantia Cicero appellat, posterius demonstrabo. Ex his aduersis hoc modo sumitur argumentum. Si stultitiam fugimus, sapientiam sequamur; si bonitatem appetimus, malitiam fugiamus, quanquam malitia quoque, secundum eumdem modum qui superius dictus est, priuationibus possit adiungi.  Priuantia uero secundum Ciceronem sunt, quae Graece *steretika* appellantur, quae habent eam partem orationis praepositam, quae cum fuerit adiecta, semper fere aliquid demit ut ea in praepositio; haec enim syllaba cui fuerit apposita, demit fere aliquid ex ea ui quam esset res quaelibet habitura, si in syllabam praepositam non haberet, ut humanitati inhumanitas: in namque praeposita id de quo dicitur humanitate priuauit, ut dignitas, indignitas; et Tullius quidem ea tantum priuantia esse confirmat, in quibuscumque syllaba ista praeponitur: priuantium quippe natura secundum Tullium huius syllabae commemoratione finitur; a Peripateticis uero accepimus priuationes cum simplicibus nominibus, tum priuatoriis syllabis efferri, cum simplicibus norninibus, ut caecitas, cum priuantibus uero syllabis, ut indignitas, inhumanitas. Quocirca, secundum M. Tullium, caecitas non erit priuatio uisus sed ei aduersum, atque idcirco forsitan stultitiam inter aduersa numerauit, quoniam non habet in syllabam ex qua priuationes arbitrantur existere.  Ex quibus eodem modo, ut in superius positis aduersis, argumenta ducuntur: Inhumanitalem auersemur, si humanitas consectanda est.  Illa uero contraria, ut ait Tullius, quae cum aliquo conferuntur, talia sunt, ut duplum simpli. Id tantumdem est tanquam si diceret duplum dimidii simplum enim dupli dimidium est, et pater filii; eaque sunt semper reciprocantia, aliquoties quidem septimo casu, aliquoties uero genitiuo, nam filius patris est filius et pater filii, haec secundum genitiuum conuersio est, et duplum simplo duplum est, haec secundum septimum casum; sunt etiam quae accusatiuo, ut pauca ad multa, et magnum ad paruum.  Item negantia sunt quae in affirmationibus et negationibus posita sunt, ut si hoc est, illud non est, ueluti si dies est, nox non est, atque hanc oppositionem Cicero ualde dicit esse contrariam.  Ex quibus omnibus secundum superius dictum modum argumentorum facultas est, nam ex relatiuis contrariis ita sumimus argumentum si pater est, fieri non potest quin ei filius sit. Ex negantibus autem quae *apophatika* (ut ait) Graeci uocant, ita: Si sol supra terram fuit, nox esse non potuit  haec enim affirmatio illam perimit negationem; cur uero haec negantia esse constituerit mirandum est. Nam quae negantia sunt aientibus opponuntur, et simul esse non possunt, ut diem esse ac diem non esse, hoc uero consequens est cum ita dicatur, si hoc est, illud non est, ut si dies est, nox non est. Atque affirmationem negationemque Tullius ualde dicit esse contrariam sed in hac consequentia nequeunt csse contraria: nam quod est consequens, contrarium non est.  AB ADIUNCTIS AUTEM POSUI EQUIDEM EXEMPLUM PAULO ANTE, MULTA ADIUNGI, QUAE SUSCIPIENDA ESSENT SI STATUISSEMUS EX EDICTO SECUNDUM EAS TABULAS POSSESSIONEM DARI, QUAS IS INSTITUISSET CUI TESTAMENTI FACTIO NULLA ESSET. SED LOCUS HIC MAGIS AD CONIECTURALES CAUSAS, QUAE VERSANTUR IN IUDICIIS, VALET, CUM QUAERITUR QUID AUT SIT AUT EUENERIT AUT FUTURUM SIT AUT QUID OMNINO FIERI POSSIT.  AC LOCI QUIDEM IPSIUS FORMA TALIS EST. ADMONET AUTEM HIC LOCUS, UT QUAERATUR QUID ANTE REM, QUID CUM RE, QUID POST REM EVENERIT. "NIHIL HOC AD IUS; AD CICERONEM" INQUIEBAT GALLUS NOSTER, SI QUIS AD EUM QUID TALE [1122C] RETTULERAT, UT DE FACTO QUAERERETUR. TU TAMEN PATIERE NULLUM A ME ARTIS INSTITUTAE LOCUM PRAETERIRI; NE, SI NIHIL NISI QUOD AD TE PERTINEAT SCRIBENDUM PUTABIS, NIMIUM TE AMARE VIDEARE. EST IGITUR MAGNA EX PARTE LOCUS HIC ORATORIUS NON MODO NON IURIS CONSULTORUM, SED NE PHILOSOPHORUM QUIDEM.  [12.52] ANTE REM ENIM QUAERUNTUR QUAE TALIA SUNT: APPARATUS COLLOQUIA LOCUS CONSTITUTUM CONVIVIUM; CUM RE AUTEM: PEDUM CREPITUS, STREPITUS HOMINUM, CORPORUM UMBRAE ET SI QUID EIUS MODI; AT POST REM: PALLOR RUBOR TITUBATIO, SI QUA ALIA SIGNA CONTURBATIONIS ET CONSCIENTIAE, PRAETEREA RESTINCTUS IGNIS, GLADIUS CRUENTUS CAETERAQUE QUAE SUSPICIONEM FACTI POSSUNT MOVERE.   Qui sit ab adiunctis locus breui superius monstrauit exemplo, eo scilicet quo dixit: Si secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio bonorum daretur, consequens esss ut secundum quoque puerorum et seruorum tabulas possessio permitteretur. Sed nunc formam ipsam et quasi subiectum loci monstrare proponit, quae est huiusmodi: Ab adiunctis enim locus est, cum ex eo quod proponitur aliquid aliud uel esse, uel fuisse, uel futurum esse argumentatione colligitur, ut in eo ipse quod dudum posuit exemplo. Approbatur enim non debere secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas bonorum possessionem dari, quia si id fuerit positum, id futurum est, ut secundum puerorum quoque ac seruorum tabulas honorum possessio permittatur. Talia uero sunt quae dicuntur adiuncta, ut circa rem fere quae quaeritur inueniantur, neque tamen nec esse sit ei semper adhaerere; et forma quidem huius loci talis est, ut hanc quoque definitionem possit admittere. Ab ad iunctis locus est cum ex aliquibus, quae sunt proxima eis de quibus quaeritur rebus, id quod quaeritur uel inesse, uel esse, uel futurum esse monstratur.  Qui locus est coniecturalibus causae, maxima necessarius. Cum enim de facto quaeritur, tum si id factum est quod dubitatur, qui uel fuerit, uel sit, uel futurum sit, considerari solet: multa enim sunt quae unicuique adiuncta rei uariorum euentu temporum colliguntur. Idcirco enim quid ante rem, quid cum re, quid post rem euenerit, in coniecturalibus causis inquiritur, quae ab oratoribus tractantur solis, neque iurisconsultis in huiusmodi negotiis cum rhetorica facultate ulla communio est, iuris enim peritus de facti qualitate, non etiam de ipsius facti ueritate respondet. Idcirco quoties ad Gallum peritum iuris facti quaestio deferebatur, NIHIL AD NOS inquiebat, et ad Ciceronem potius consulentes, id est ad rhetorem remittebat. In quo Tullius facere ad Trebatium locum miscuit dicens: Quanquam locus hic ab adiunctis coniecturalibus causis maxime utilis, nihil consultorum iuris prudentiam iuuet, patiere me tamen, inquit, nullam suscepti operis partem praeterire, ne si in hoc libro nihil praeter tuae artis exempla conscripsero, tuae tantum gratiae uideatur addictus.  Ab adiunctis uero locus qui non modo iurisconsultis sed ne philosophis quidem praeter oratores non patet, trium saepe temporum ratione tractandus est. Nam de facto si quaeritur, quid uel ante id, uel cum eo, uel post id fuerit nec esse est uestigari. Ante rem quidem hoc modo, apparatus; uerisimile est enim effecisse aliquem quod ante efficiendum parauit, colloquia fieri enim potuit ut amauerit, qui saepe fuerit collocutus.  LOCUS, uelut cum ad aliquid faciendum opportunus locus eligitur.  CONSTITUTUM CONVIVIUM, uelut si quis constituto ante conuiuio in eo fecisse aliquid arguatur capiaturque coniectura facti, ex eo ipse quod sit conuiuium constitutum, atque horum omnium ante rem de qua quaeritur exempla sunt. Cum re uero hoc modo: Pedum crapitus, uelut si isse in quempiam locum aliquis accusetur, pedum crepitu deprehensus esse probabitur; uel si fuisse adulter in cubiculo ex umbra corporis designetur, haec cum ipsis de quibus quaeritur inspecta, eisdem tamen intelliguntur adiuncta. Post rem uero, si quas conscientiae maculas pallor, rubor, titubatioque prodiderit: restinctus ignis, uelut si clam factum aliquid exstincto igni uelimus ostendere, ut tutius notitiam submouentibus tenebris committeretur. Item gladius cruentus peractum facinus monstrat. Haec omnia post rem facto intelliguntur adiuncta.  Et semper ante rem cum re, et post rem, secundum rationem temporum intelligendum est, neque ita ut in antecedentibus et consequentibus. Illic enim naturae ratio consideratur. Omnia quippe simul sunt: nam quod antecedit, si positum sit, statim est id quod consequitur, ut si ponas hominem statim animal esse nec esse est, nec ante secundum tempus homo dici potest, post uero subsequi animal, ut ante aliquis apparatus est secundum tempus, posterior effectus. Itaque illic antecedentia et consequentia nominantur, hic ante rem, cum re, et post rem. Idcirco quod illud quidem, non secundum tempus, sed secundum principalitatem naturae secum simul aliquid trahentis antecedens dicitur, consequens id quod antecedens comitatur. Ea uero quae secundum temporis priorem posterioremue rationem considerantur, adiuncta, idcirco ante rem, cum re et post rem coepere uocabulum.  DEINCEPS EST LOCUS DIALECTICORUM PROPRIUS EX CONSEQUENTIBUS ET ANTECEDENTIBUS ET REPUGNANTIBUS. NAM CONIUNCTA, DE QUIBUS PAULO ANTE DICTUM EST, NON SEMPER EVENIUNT; CONSEQUENTIA AUTEM SEMPER. EA ENIM DICO CONSEQUENTIA QUAE REM NECESSARIO CONSEQUUNTUR; ITEMQUE ET ANTECEDENTIA ET REPUGNANTIA. QUIDQUID ENIM SEQUITUR QUAMQUE REM, ID COHAERET CUM RE NECESSARIO; ET QUIDQUID REPUGNAT, ID EIUS MODI EST UT COHAERERE NUMQUAM POSSIT.  Expedito adiunctorum loco, nunc de antecedentibus et consequentibus et repugnantibus disserit. Qui locus sit unus in tria uelut membra diuisus est. M. quidem Tullius loci huius uocabulum tacuit, mihi autem totus conditionalis appellandus uidetur. Cuius cum promptissime natura claruerit, nomen quoque ei, quod nos posuimus, recte inditum manifestius apparebit.  Primum igitur singularum partium definitio prodenda est. Itaque antecedens est, quo posito aliud nec esse est consequatur: itemque consequens alicuius est, quod esse nec esse est, si illud cuius est consequens praecessisse constiterit. Repugnans est quod simul cum eo cui repugnare dicitur esse non possit.  Antecedentium igitur, atque consequentium, et repugnantium, unum esse locum praediximus, qui quomodo sit unus, paucis ostendam. Primum igitur dum quaereretur quonam modo unus esset locus a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, dicebatur quoniam eiusdem mentis esset atque intelligentiae tam consentanea sibimet quam dissidentia praeuidere, idcirco hunc quoque locum unum uideri. Consentaneorum namque duae sunt partes, antecedens una, altera consequens. Nam cum altero praecedente comitatur alterum, illa sibi in ipsa naturae consequentia consentire necesse est. Repugnantium uero tametsi duae partes sint, unum tamen est utriusque uocabulum, utraque enim repugnantia nominantur. Duae uero esse, quae sibimet repugnent, atque a se dissentiant nullus ignorat; sed eo distant, quod antecedentium et consequentium duo sunt nomina, licet unus sit utriusque consensus; repugnantibus uero unum nomen est, cum sit unus in utrisque dissensus, ergo eadem mens, eademque intelligentiae ratio id quod praecedit et id quod comitatur, intelligit.  Neque enim fieri potest ut antecedens aliquid intelligatur, nisi in eodem quid sit consequens consideretur: eodem quoque modo nec consequens, nisi appareat quid praecedat; item repugnans aliquod intelligere nemo potest, nisi intelligat cui repugnet: sed quoniam eadem ratio potest similia dissimiliaque perspicere, antecedentium uero et consequentium consensus quidam et per naturae similitudinem concordia est, dissensus uero in repugnantibus dissimilitudo, nec esse est ut una atque eadem ratio antecedentium consequentiumque naturam et repugnantium spectet; quo fit ut unus quoque locus sit eorum quae una intelligentia comprehendit.  Sed huic opponebatur: Cur igitur alium ex similitudine, alium ex contrario locum Marcus Tullius superius enumerauit? Nam secundum propositam rationem, quoniam similitudinem et contrarietatem intelligentia una perpendit, unus locus similium contrariorumque esse debuisset. Sed respondebatur quoniam non eodem modo sibi antecedentia et consequentia consentire dicuntur, sicut ea qum similia nuncupantur. In his namque una tantum qualitas inuenitur, et secundum eamdem qualitatem similia esse dicuntur; at in antecedentibus et consequentibus non qualitatis similitudo sed quidam naturae consensus est. Et quae similia sunt sine se esse possunt, antecedentia uero et consequentia sine se esse non possunt, atque idcirco non uidetur esse consequentium et antecedentium cum similitudine ulla communio naturae. Quae ratio non ualde uidentur idonea, nec explicat quod demonstrare conabatur.  Illud certe firmissimum esse constat, quod huius loci tractatus conditionalibus semper propositionibus accomonodaretur. Conditionalis uero propositio est quae cum conditione pronuntiat esse aliquid, si aliud fuerit, ueluti cum dicimus: Si dies est, lucet.  Haec igitur rerum consequentia facile in repugnantiam uertitur. Nam si rebus consequentibus negatio interponatur, ex consequentibus repugnantia redduntur, hoc modo: Si dies est, lux est.  Repugantia sunt ita: Si dies est, lux non est  repugnant enim diem esse et lucem non esse. Quae repugnantia in conditione consistit. Dicimus enim: Si dies est, lux non est  nam diei contrarium est nox. Consequens uero noctis, lucem non esse, quare esse diem et non esse lucem repugnat.  Argumentum uero est, hanc repugnantiam in conditione consistere, quia si conditio deficiat, nulla est repugnantia, hoc modo: Dies est Lux non est  utraeque enim disiunctae propositiones suas sententias gerunt, nec quidquam intelliguntur habere commune, atque ideo diuersis acceptae temporibus uerae sunt, nec repugnant. Nam sicut in his propositionibus, dies est, lux est, nulla est consequentia, quoniam conditio deest, quae propositionem facit connexam sed utraeque a se disiunctae suam sententiam claudunt, ita in his quibus proponitur, dies est, lux non est nulla est repugnantia, quoniam seruat suam utraque separata sententiam. At si his conditio interueniat superiorum quidem, ita sententia copulatur, ut consequentes fiant, posteriorum uero ita ut repugnantes, hoc modo: Si dies est, lux est.  Haec consequens propositio ex duabus per conditionem mediam effecta est una. At si sit ita, si dies est, lux non est, repugnat. Negatum enim quod sequitur repugnare necesse est.  Amplius, argumentum quod ex antecedentibus et consequentibus fit ex unius propositionis connexae partibus nascitur, nam conditionalis propositionis connexae una pars est antecedens, alia consequens. Quod si a repugnantibus argumentum fiat, rursus ab unius propositionis membris tale argumentum nasci oportebit. Igitur ex his propositionibus, dies est, lux est, una esse non potest nisi a conditione copulentur, ut unum sit antecedens, aliud consequens, et ideo in his ex antecedenti et consequenti argumentum esse non potest, quoniam duae sunt ex illis quoque propositionibus quae sunt, dies est, lux non est: una esse non poterit, nisi conditionis adiunctione in unius quodammodo propositionis sententiam reducantur cuius propositionis partes sunt repugnantes. Nam, ut in connexa propositione una pars antecedens, alia est consequens, ita in repugnanti utraque pars propositionis a semet inuicem repugnat ac dissidet.  Amplius: repugnans propositio connexae partem contrariarm tenet, nam ut in illa quod antecedit secum id quod sequitur trahit, ita in hac propositione partes simul esse non possunt. Contrariae uero differentiae sub eodem genere poni solent. Si igitur connexa propositio in conditione est constituta, repugnans quoque in conditione subsistit; quod si et consequentiam propositionum et repugnantiam conditio facit, non est dubium quin locus hic iure conditionalis uocetur, ac sit unus positus in conditione diuisis partibus, id est in antecedentem consequentemque et repugnantem. Connexaeque namque propositionis una pars antecedens est, alia consequens. Repugnantis uero propositionis utraque repugnatae dissidet. Itaque connexae propositionis partes antecedens et consequens sunt, repugnantis uero repugnantes. Nec illud intelligentiam turbet quod dies est et lux est quadam sibi ratione consentiunt. Item dies est et lux non est, quasi a se dissentiunt atque discordant, nam connexa est propositio si cum aliud antecesserit, aliud consequatur. Item repugnans, si uno posito aliud inferatur, quod esse non potest nisi id ius conditionis efficiat. Quocirca aperte demonstratum esse arbitror conditionalem hunc locum uocari et recte unum esse a M. Tullio constitutum. Quomodo uero fiat ab antecedentibus et consequentibus et repugnantibus argumentum, posterius dicam.  Sed quoniam nullius facultatis alterius est, quid uel quamque rem consequitur, uel quid cuique repugnet inspicere, nisi dialecticae tantam, quae huius quam maxime rei perititiam profitetur, idcirco ait hunc esse locum totum dialecticorum.  Qui etiam ab adiunctis longe lateque diuersus est. Primum quod adiuncta prodere sese atque ostendere inuicem poesunt, non uero perficere atque adimplere naturam, ueluti ambulationem pedum strepitus significare quidem ac denuntiare potest, efficere uero non potest. Neque etiam ambulationem efficit pedum strepitus, nec uero ex neccssitate ambulatio ut sit pedum strepitus auctor est sed saepe ita ambulatur, ut nullus pedum strepitus exaudiatur; saepe non mulato loco moueri pedes ac strepere praeter ambulationem queunt; idcirco non semper inueniunt ad iuncta: propositoque termino quem probare contendimus, saepe ex adiunctis argumenta deficiant, quia ipsa quoque aliquoties deficere uidentur adiuncta. Praecedentia uero et consequentia et repugnantia numquam desunt omne enim quidquid in rebus est, habet quod se aut sequatur naturaliter, aut praecedat. Est etiam a quo per naturae diuersitatem dissideat, uelut animal sequitur quidem hominem, praecedit uero substantiam; dicimus enim: Si homo est, animal est  substantiam uero praecedit, cum proponimus, si animal est, substantia est.  Repugnat uero mortuo cum enuntiamus, si animal est, mortuum non est.  Praeterea quae sunt adiuncta temporibus distributae sunt, ut ante rem, cum re, post rem. Quae uero sunt antecedentia, consequentia, et repugnantia, quomodolibet modo in temporibus sint, nihil refert. Nam priora saepe temporibus comitantur, et temporibus posteriora praecedunt, et quae simul temporibus sunt, alias praecedunt, alias uero consequuntur, ut superius quoque saepe diximus.  Amplius, quae antecedentia sunt et consequentia relinquere sese non possunt, nec sibi repugnantia cobaerere, et sunt repugnantia necessario sibimet inconnexa; quae uero sunt adiuncta nihil obtinent necessitatis, quia et iungi sibimet, et a se separari queunt.  Quae cum ita sint, quaestio difficilis uehementer oboritur, uidetur enim minus intuentibus nihil hic locus differre his locis qui dicti sunt uel a genere, uel a specie, uel a contrariis. Nam genus semper speciem sequitur, speciem genus praecedit, contraria simul esse non possunt.  Quae soluenda est hoc modo: Primum quia non omne consequens genus est, nec omnis species antecedens. Repugnantia uero ipsa contraria sed contrariorum sunt consequentia, ut in locorum qui a M. Tullio propositi sunt expositione monstrauimus. De hinc quia cum a genere fit argumentum, ipsum genus assumitur, eodem quoque modo et species, cum ab ea aliquid uolumus approbare, cum uero ab antecedentibus aliquid monstrare contendimus, eo quod in conditionali propositione praecessit utimur in assumptione, etiamsi non fuerit genus. Item si a consequenti argumentum fiat, etiamsi species non sil, a consequenti parte conditionalis propositionis ducitur argumentum, ueluti cum ita dicimus: Si ignis est, leuis est, ignis anteoedit, leuitas sequitur; sed neutrum neutri est genus aut species, assumitur itaque, atqui ignis est. Nunc igitur id quod antecedebat assumpsi, ex quo monstratur conclusio, leuis igitur est. At si ita assumamus sed non est leuis, id quod consequebatur assumpsi. Concluditur ergo atque monstratur, non est igitur ignis.  Vides igitur ut de his praecedentibus etconsequentibus nunc biquamur quae in conditionali propositione posita, uel praecedere uel consequi intelliguntur. Cum uero fit ex genere argumentum, species quidem est de qua aliquid probare contendimus; genus uero assumimus non quasi praecedens sed quasi continens, ut quidquid esse consideratur in genere, id formae quoquo debeat aptari. Genus enim quoad permanet, a sua specie non recedit: cum uero de specie sumimus argumentum, genus quidem est de quo aliud quaeritur; sed id laboramus, ut quod de genere conamur ostendere, id ex specie possit facilius agnosci. Ut cum uxori Fabiae relictum fuisset legatum, si materfanilias esset, quoniam non conuenit in manum, scilicet, ab in manus conuentione, quae est species uxoris, uxorem quod est matris familiae genus a legati iure seiungimus, et legatum ad speciem, id est matremfamilias deriuamus.  Sed illud interius dispiciendum uidetur, num locus ab antecedentibus et consequentibus totus superuacaneus esse uideatur, cum quolibet modo fuerint ex eo argumenta composita, a caeteris locis quos superius deseripsimus non recedant. Nam quodcumque ab antecedentibus et consequentibus ducitur argumentum, id uel a toto, uel a partibus, uel a coniugatis, uel ab aliquo reliquorum tractum esse perpenditur hoc modo: Si utilis est acquitas constituta ad res suas obtinendas, utile est ius ciuile, ad id quod praecedit, quod sequitur igitur, hoc est a definitione argumentum, scilicet ab assumptione praecedentis. At si ita dicam: Sed non est utile ius ciuile, non est igitur utilis aequitas constituta ad res suas obtinendas, hic per consequentis assumptionem a definitionis loco sumptum est argumentum. Item a partium enumeratione, si neque censu, neque caeteris non est liber, at censu uel caeteris, est igitur liber: at non est liber; neque censu igitur, neque caeteris manumissus est.  Sed notandum est quae sit uis uniuscuiusque argumenti, et quonam modo proferatur. Sunt enim argumenta quae predicatiuis apta sint syllogismis ut a definitione fiat sic: ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem sunt ciuitatis ad res suas obtinendas. Id uero utile est, utile est igitur ius ciuile. Item a partibus: Qui neque censu neque uindicta, neque testamento est manumissus, hic ex seruitute liber factus non est; Stichus uero neque testamento, neque censu, neque uindicta manumissus est; Stichus igitur liber non est: et in caeteris, eodem modo.  Omnia uero quaecumque per categoricum syllogismum proferri possunt, eadem per conditionalem syllogismum dici queunt. Omnis namque praedicatiua propositio in conditionalem uerti potest, hoc modo: omnis homo animal est, praedicatiua est; haec facile uertitur in conditionalem ita, si homo est, animal est. Non uero omnis conditionalis in praedicatiuam uerti potest, uelut haec: si peperit, cum uiro concubuit. Nemo enim dicere potest ipsum peperisse, id esse quod cum uiro concumbere, quo modo dicimus hominem, id esse quod animal sit.  Alia enim ratio est in his propositionibus quae ita dicuntur, quae peperit, cum uiro concubuit. Haec enim similis est ei quae dicit, si peperit, cum uiro concubuit sed praedicatiua propositio id esse subiectum dicit, quod fuerit praedicatum. Conditionalis uero id ponit, ut si id quod antecedens fuerit necessario comitetur quod subsequitur. Cum uero praedicatiua est propositio, si ea uertetur in conditionalem, alia nimirum redditur propositio. Nam cum dicitur, omnis homo animal est, ipse homo animal esse proponitur; cum uero, si homo est, aninial est, non id sentitur, ut ille qui homo est, animal sit sed proposito esse hominem, consequi ut sil animal.  Ergo conditionalis syllogismus in antecessione et consecutione positus, licet per definitionem, et per partium enumerationem, et per coniugationem, et quolibet alio fiat modo, tamen in propria forma se continet, et est conditionalis, id est utens propria potestate, ut quodammodo caetera argumenta suae ueluti naturae uideatur habere subiecta. Ut cum sit a definitione argumentum, si quidem per praedicatiuam formam factus fuerit syllogismus, a definitione ductum esse dicatur. Sin uero per hypothesin facta fuerit argumentatio, conditionalis fit syllogismus, quem discernat assumptio, utrum ab antecedentis, an a consequentis parte promatur. Quo fit ut etiamsi per caeteros locos conditionale argumentum proferatur, tamen suam quamdam habeat formam, quandoquidem in antecessione et consecutione est constitutus. Tunc enim definitio, partes, coniugatio, et caetera ueluti res ipsa, fiunt ac non locus, cum uenerint in conditionem; at si conditio cesset, ex ipsis profectum uidebitur argumentum. Quod si propositionem conditio copulauerit, ipsa quidem ea sunt quae in propositionibus continentur ueluti quaedam argumenti partes, locus uero in conditione est constitutus.  Atque haec ita dicta sunt, quasi aliter conditionalis hic locus tractari non ualeat, nisi eorum aliquem quos praediximus includat: nam potest praeter eos etiam saepe reperiri, ut cum dicimus: si homo est, risibilis est; si coruus est, niger est. Hic enim nec definitionem, nec partes, nec ullum alium locum superius enumeratum continet argumentum. Amplius, facile est in singulis eorum differentias praeuidere: locus quippe a toto a substantia trahitur, a partibus uero a rei compositione. Nam in simplicibus terminis tale argumentum non potest inueniri, a nota, ab interpretatione; a coniugatis; ab eo quod ex eodem utrumque deducitur; a genere; a continenti; a forma, ab eo quod continetur; a differentia, ab eo quod discrepat; a similibus, ab eadem qualitate; a contrariis, ab eo quod a se longe diuersa sunt; a causis, ab his qui efficiendi uim habent; ab effectis, ab his quae uim alterius efficientiae susceperunt; ab adiunctis, a uicinitate naturae; a comparatione maiorum, parium uel minorum; a relatione, ad aequalem uel inaequalem quantitatem. Ab antecedentibus uero longe alius modus est: constat enim in eo quod si propositum quid fuerit, aliud quiddam modis omnibus existet, quod consequens appellatur; huius uero intelligentia consistit in eo quod praecedente quolibet, aliud subsecutum; repugnantium uero intelligentia consistit, non modo quod neque sequi, neque antecedere possunt, uerum etiam quod simul esse non possunt, quae in conditione consistere dubium non est.  His igitur ita expeditis, quoniam M. Tullius proprietatem loci succincte, ut in transcursu potuit, euidenter expressit, nunc quibus modis eodem loco uti conueniat, adiungit. Quae Topicorum pars, quoniam diligentius explananda est, finem quarto uolumini faciam, quinto caetera redditurus. De omnibus quidem hypotheticis syllogismis, Patrici rhetorum peritissime, plene abundanterque digessimus his libris, quos de eorum principaliter institutione conscripsimus, a quibus integram perfectamque doctrinam, cui resoluendi illa uacuum tempus esi, lector accipiet. Sed quia nunc Ciceronis Topica sumpsimus exponenda, atque in his aliquorum M. Tullius modorum meminit, dicendum mihi breuiter existimo de his septem conditionalibus syllogismis, que eorum natura sit, propositionumque contextio, ut cum haec ad scientiam rite praelibata peruenerint, Tulliana facilius noscantur exempla.  Omne igitur quod in quaestione dubitatur, aut uerisimilibus aut necessariis probabitur argumentis. Argumentum uero omne aut in syllogismi ordinem cadit, aut ex syllogismo uires accipit. Syllogismus uero omnis propositionibus constat.  Propositiones autem uel simplices sunt, uel compositae. Simplices sunt quae simplicibus orationis partibus coniunguntur. Copulant autem incompositam propositionem simplices orationis partes, nomen et uerbum, ueluti cum dicimus, dies est, uel dies uernus est, uel dies serenus est; hic enim omnem uim propositionis nomen connectit et uerbum.  Omnis autem simplex propositio ex subiecto praedicatoque consistit. Subiectum est de quo dicitur id quod praedicatur. Praedicatum est quod de eo dicitur quod subiectum est. Verbum autem aliquoties praedicato nomini adiungitur, aliquoties ipsum praedicatur. Praedicato nomini adiungitur, ut in hac propositione quae dicit, dies serenus est: dies enim subiectus est, serenus praedicatus; est uero uerbum sereno adiunctum est, quod diximus esse praedicatum. At si talis sit propositio, quae solo nomine constet et uerbo, ueluti cum dicimus, dies est, tunc dies subiicitur, est uerbum sine dubio praedicatur; sine uerbo autem nulla est propositio: omnis enim propositio uel uera uel falsa est; nisi autem uerbum sit quodlibet adiunctum, quo esse aliquid aut non esse dicatur, nulla ueritas aut falsitas in propositionibus deprehenditur.  Saepe autem propositiones etiam ex totis orationibus constant; ut si dicamus: Transire in Africam utile est Romanis; hic enim subiectum quidem est transire in Africam, utile autem Romanis praedicatum, est uero praedicato coniungitur.  Huiusmodi igitur omnes propositiones praedicatiuae dicuntur. Praedicatiuae uero appellantur, quia aliud de alio praedicant. Omnesque qui ex his propositionibus fiunt syllogismi, secundum enuntiationum suarum formas praedicatiui appellantur.  Ex his autem praedicatiuis propositionibus existunt compositae propositiones, quarum alia quidem copulatiua coniunctione nectuntur, ut et dies est, et lux est; alia uero per conditionem fiunt, quae etiam conditionales enuntiationes uocantur. Hae uero sunt quae coniunctione quadam partibus interposita ad consequentiam conditionemque ducuntur. Age enim sint duae propositiones praedicatiuae: una quidem, quae dicit, animal est; alia uero quae proponit, homo est. His si coniunctis interueniat, faciet, si homo est, animal est. Vides igitur ut duas praedicatiuas propositiones in unam conditionem coniunctio copulauerit. Quae cum ita sint, omnes hae propositiones hypotheticae, id est conditionales, uocantur, atque ex his syllogismi tales existunt, quibus hypotheticis uel conditionalibus nomen est.  Omnis autem hypothetica propositio, uel per connexionem fit, uel per disiunctionem. Per connexionem hoc modo, si dies est, lux est. Per disiunctionem ita, aut dies est, aut nox est. Earum uero quae per connexionem fiunt, aliae ex duabus affirmatiuis copulatae sunt, ut si dies est, lux est, namque dies est, et lux est, utraeque aliquid affirmant; aliae ex duabus negatiuis, ut si lux non est, dies non est, nam lucem non esse, et diem non esse, utraque negatio est; aliae uero ex affirmatiua negatiuaque coniunctae sunt, ut si dies est, nox non est; aliae uero ex negatiua affirmatiuaque copulantur, ut si dies non est, nox est: omnes tamen in connexione positae sunt. Aut enim affirmatio affirmationem sequitur, aut negatio negationem, eique connexa est, aut affirmationem negatio, aut negationem affirmatio.  Sed ex connexis repugnantes manifestum esi nasci, namque ubi affirmatio sequitur affirmationem, his si media negatio interposita sit, repugnantiam facit hoc modo:si dies est, lax est. Hic affirmatio sequitur affirmationem; at cum dico, si dies est, lux non est, repugnant inter se partes propostionis connexae, interposita negatione. Item quoties negatio sequitur negationem, si posteriori propositionis parti negatiuum dematur aduerbium, repugnantes fiunt hoc modo, si animal non est, homo non est; haec connexio est ex duabus proposita negatiuis. At si posteriori parti, id est homo non est, negatiuum detrahatur aduerbium, fiet, si animal non est, homo est, quod repugnat; at si affirmatio negationem sequatur, siue posteriori parti negatio iungatur, siue priori auferatur, repugnantes fiunt, hoc modo, si dies non est, nox est. Hic igitur affirmatio sequitur negationem. Siue igitur posteriori parti, id est, nox est, negatio copuletur, ut sit ita, si dies non est, nox non est, siue priori auferatur, ut sit ita, si dies est, nox non est, repugnantem fieri propositionem nec esse est. Quod si negatio affirmationem sequatur, et posteriori parti negatiuum aduerbium subtrahatur, propositionis connexae partes in repugnuntiam cadunt, hoc modo, si uigilat, non stertit. Hic affirmationem sequitur negatio sed si posteriori parti, id est, non stertit, negatio dematur, fiet, si uigilat stertit, et erit repugnans.  Sed in connexis atque disiunctis propositionibus illud intelligendum est, quod in earum partibus et uis quaestionis includitur et argumenti. Age enim dubitetur an lux sit, idque approbandum sit ex eo quod dies est. Si igitur ita fiat propositio, si dies est, lux est, ea quidem pars totius propositionis quae sequitur, id est, lux est, quaestionis est. De ea namque quaeritur an lux sit. Ea uero quae prior est, id est, dies est, uim continet argumenti. Ex eo enim quod dies est, lux esse probabitur, et in caeteris quidem uel connexis, uel disiunctis eadem ratio est.  In omnibus uero his quoniam syllogismus atque argumentatio ad demonstrandam partem alteram quaestionis accommodatur, quaestio uero omnis dubitabilis est, oportet syllogismos qui acommodantur ambiguae quaestioni indubitabiles esse atque perspicuos, qui ut tales sint, ex claris atque apertis et in ueritate patentibus propositionibus necesse est constent; propositiones uero partim per se notae sunt, partim aliquibus probationibus indigebunt. Omnis uero syllogismus enuntiatione proposita habet alicuius partis assumptionem ut quod est in quaestione concludat, hoc modo: Si dies est, lux est. Ut igitur lucem esse demonstrem, assumam unam partem propositionis superius constitutae, dicamque sed dies est, ac tunc demum id quod est in quaestione concludam, lux est igitur, Ergo cum ad syllogismi conclusionem, et tota enuntiatione in proponendo, et in assumendo parte enuntiationis utamur, nec esse est ut ea quibus utimur nil habeant dubitabile, siquidem ex his ea quae sunt ambigua capient fidem.  Quod si propositio aliquoties quidem per se nota est atque perspicua, uliquoties uero probationis indigens inuenitur, assumptio quoque aliquoties per se uera esse notabitur aliquoties approbationis indiget adiumentis. Quo fit ut si et propositio et assumptio demonstrandae sint, quinquepartitus (ut Cicero etiam in Rhetoricis auctor est) syllogismus fiat, constans ex propositione eiusque probatione, assumptione, eiusdemque probatione, et conclusione. Quod si neutra sit approbanda. tripartitus sit, ex propositione scilicet, assumptione et conclusione. Quod si altera earum demonstranda sit, fit quadripartitus, ex propositione scilicet, et assumptione, atque unius earum approbatione et conclusione. Conclusionis uero ipsius probatio praecedente propositione atque assumptione perfcitur.  Quae cum ita sint, cumque omnis propositio hypotheticam connexionem disiunctionemque diuidatur, in connexis propositionibus aliud dicimus praecedens, aliud consequens. Idem autem consequens et connexum uocamus, uelut in hac propositione, si dies est, lux est. Dies est praecedit, annectitur lux est. In disiunctis autem non est eadem ratio, quia cum ea quae proponuntur simul esse non possint, nullo modo dicuntur esse connexa. Praecedens autem et subsequens inde iudicatur, quia quod primum ponitur, iure antecedens uocatur, quod posterius, iure subsequens dicitur.  Ex his igitur propositionibus, quae connexae sunt, fit primus et secundus hypotheticorum syllogismorum modus. Addita uero negatione propositioni connexae et ex duabus affirmationibus copulatae, atque insuper denegata, tertius accedit modus. Ex disiunctis autem propositionibus diuerso modo assumptionibus tactis, quartus et quintus. Utrisque uero per negationem compositis, sextus et septimus. Atque hae septem sunt hypotheticae conclusiones, quarum M. Tullius in Topicis meminit, quarum omnium deinceps ordo atque exempla subdenda sunt.  Primus igitur modus est, cum in connexa propositione assumpto eo quod praecedit, uolumus monstrare quod sequitur, itaque esse oportere, ut est in connexione prolatum. In quo si id quod connexum est ac sequitur, assumpserimus, nullus omnino fit syllogismus. Huius exemplum tale est: Si dies est, lucet;  si igitur lucere monstremus, assumamus, nec esse est diem esse, hoc modo, atqui dies est; consequitur ergo ex necessitate, lucere. Quod si lucere assumamus, itaque dicamus, atqui lucet, non nec esse est diem esse, atque ideo nulla necessitas euenit conclusionis; ubi uero nulla necessitas est, ne syllogismus quidem intelligi potest. Est igitur primus modus in hanc formam: Si dies est lucet; Dies autem est, Lucet igitur.  Inueniuntur tamen in quibus aequo modo ualet assumptio, siue praecedens, siue subsequens assumatur, ut in homine atque risibili. Si enim homo est, risibile est; Atqui homo est, Risibile igitur est. Atqui risibile est, Homo igitur est.  Sed in his haec causa est, quia homo atque risibile aequi sunt termini, atque idcirco uno posito alterum comitari nec esse est. Sed quia hoc in omnibus non est, idcirco dicimus non esse uniuersale, ut assumpto posteriore, quod praecedebat probetur.  Secundus uero modus est quoties assumpto posteriore atque consequenti quod antecesserat aufertur, hoc modo, si dies est, lucet; hic si assumamus non lucere, contrario modo atque in propositione prolatum est; assumamus dicentes, atqui non lucet, in eo igitur sequitur non esse diem; quod si diem negemus, id est quod antecedit in assumptione contrario modo atque positum est in propositione proferamus, non tollitur quod est connexum, ut si dicamus, atqui non est dies, non mox sequitur, non lucere, potest enim non esse dies; et tamen lucere. Est igitur secundi modi forma huiusmodi: Si dies est, lucet; Atqui non lucet, Non est igitur dies.  Primus igitur modus assumit quod praecessit, ut approbet quod connexam est; non potest uero assumere quod connexum est, ut approbet quod praecessit. Secundus autem assumit econtrario quod sequitur, ut quod praecessite uertat; non potest autem econtrario assumere quod praecessit, ut id quod connexum est auferatur.  Tertius modus est, cum inter partes connexae atque ex duabus affirmationibus copulatae propositionis negatio interponitur, eaque ipsa negatio denegatur, quae propositio*hyperapophatike* Graeco sermone appellatur, ut in hac ipsa quam superius proposuimus, si dies est, lux est; si inter huius propositionis partes negatio interueniat, fiet hoc modo, si dies est, lux non est; hanc si ulterius denegemus, erit ita, non si dies est, lux non est: cuius propositionis ista sententia est, quia si dies est, fieri non potest ut lux non sit. Quae propositio superabnegatiua appellatur, talesque sunt omnes in quibus negatio proponitur negationi, ut non est dies, et rursus, Necuon Ausonit Troia gens missa coloni.  In hac igitur si priorem partem, id est diem esse, in assumptione ponamus, consequitur etiam lucem esse hoc modo: Non si dies est, lux non est; Atqui dies est, Lux igitur est.  Qui modus a superioribus plurimum distat, quod in eo modo qui sit ab antecedentibus, ponitur antecedens, ut id quod sequitur astruatur. In modo uero qui sit a consequentibus, perimitur consequens, ut id quod praecesserat, auferatur. In hoc uero neutrum est, nam neque antecedens ponitur, ut quod sequitur, confirmetur, nec interimitur subsequens, ut id quod praecesserat, euertatur; sed ponitur antecedens, ut id quod sequitur, interimatur.  Hic autem propositionis modus partes inter se suas continet repugnantes, aduersum quippe est ac repugnat, si dies est, non esse lucem. Sed idcirco rata positio est, quia consequentium repugnantia facta per mediam negationem alia negatione destruitur, et ad uim affirmationis omnino reuocatur. Nam quia consequens esse intelligitur, ac uerum, si dies est esse lucem, repugnat ac falsum est, si dies est, non esse lucem, quae denegata rursus uera est ita, non si dies est, lux non est, et si consimilis affirmationi, si dies est, lux est, quia facit affirmationem geminata negatio.  Similiter uero fiunt ex repugnantibus propositionis partibus argumenta, uel si duabus negationibus, uel si negatione et affirmatione, uel si affirmatione et negatione iungatur. Quomodo uero fiant ex talibus connexis repugnantes, superius dictum est. Fit uero ex ea propositione quae duabus iungitur negatiuis ex repugnantibus argumentum hoc modo: sit propositio, si non est lux, dies non est; fiat repugnans ita, si non est lux, est dies; huic iungamus negationem ut fiat uera ita:  Non si lux non est, dies est; Atqui lux non est,  Dies igitur non est.  Item fit ex negatione atque affirmatione propositio haec: si dies non est, nox est; huic additur ex posteriore parte negatio, et fit ita: si dies non est, nox non est; fit repugnans, haec nihilominus abnuatur ut sit uera, non si dies non est, nox non est, assumimusque, atqui dies non est concludimus, nox igitur est.  Item ex eadem propositione, quae ex negatiua affirmatiuaque coniungitur et dicit: si dies non est, nox est, si a priori parte negatio subtrahatur, fiet repugnans, hoc modo: si dies est, nox est; huic apponatur negatio, ut uera esse possit, hoc modo: non si dies est, nox est, assumamque, atqui dies est, concluditur, nox igitur non est.  At si sit ex affirmatione et negatione propositio coniuncta, uelut haec: si uigilat non stertit, demitur posteriori parti negatio, ut fiat ita: si uiglat stertit; sed haec repugnat. Tota rursus propositio denegatur, ut fiat uera hoc modo: non si uigilat stertit; assumimus, at qui uigilat; concludamus necesse est, non stertit igitur.  Sed hae quatuor ex repugnantibus conclusiones in tertio modo consistere intelliguntur, quarum quidem Tullius tres commemorauit, unamque praecepto docuit, eam quam propositio talis efficit, quae duabus iungitur affirmatiuis; duas uero exemplo, scilicet eam quae ex tali propositione nascitur, quae duae copulant negationes, et eam quae ex propositione tali connexa procreatur, quae ex affirmatione negationeque consistit. Reliquam uero praeteriit, quod illarum similitudine etiam haec in tertium conclusionis modum uidebatur incidere.  Quartus modus in disiunctione consistit, hoc modo: Aut dies est, aut nox est;  Sed dies est, Nox igitur non est.  Huius haec ratio est, quia disiunctiua enuntiatione proposita, prior pars eius assumitur affirmando, ut subsequens auferatur; ex ea enim propositione quae dicit, aut dies est, aut nox est, assumimus, atqui dies est, scilicet affirmantes esse diem, quam assumptionis affirmationem consequitur non esse noctem.  Quintus modus est, cum in eadem disiunctiua propositione, id quod primum est, negando assumitur, ut id quod est posterius inferatur, hoc modo aut dies est, aut nox est, atqui dies non est, per negationem scilicet facta est assumptio, consequitur esse noctem.  Sextus uero modus ac septimus ex quarti et quinti modi disiunctiua propositione deducuntur, una negatione uidelicet adiuncta, et disiunctiua propositione detracta, additaque coniunctiua his propositionibus quae superius in disiunctione sunt positae, hoc modo: non et dies est et nox est. Dudum igitur in disiunctiua ita fuit, ut aut dies est, aut nox est. Ex hac igitur propositione sublata, aut coniunctione, quae erat disiunctiua adlecimus, et quae copulatiua est, praeposuimusque negationem. Itaque fecimus ex partibus disiunctiuae propositionis copulatis, addita negatione, propositionem sexti atque septimi modi, quae est, non et dies est et nox est, in qua is assumatur esse diem, noctem non esse consequitur ita, atqui dies est, non est igitur nox. Septimus uero modus est, cum prima pars prorositionis negando assumitur, ut posterior subsequatur, hoc modo: Non et dies est et nox est; Atqui dies non est,  Nox igitur est.  Atque hic modus propositionum in solis his inueniri potest, quorum alterum esse nec esse est, ut diem uel noctem, aegritudinem uel salutem, et quidquid medium non habet.  Quo autem modo omnium syllogismorum conditionalium ueritas sese habeat, his diligentissime expliculmus libris quos de hypotheticis conscripsimus syllogismis. Nunc uero, non quod de his perfectior consideratio inueniri potest apposuimus sed id quod ad explanandum M. Tullii sententiam poterat accommodari. Ut igitur cuncta quae diximus breuiter colligantur, primus modus est quoties in connexa propositione primum ut in propositione locatur, assumitur, ut consequatur secundum, hoc modo: Si dies est, lux est, Atqui dies est, Lux igitur est.  Secundus modus est quoties in connexa propositione secundum econtrario assumitur quam in propositione collocatum est, ut id quod primum est auferatur, hoc modo: Si dies est, lux est;  Atqui non est lux,  Non est igitur dies.  Tertius modus estcum connexa propositionis partes ex affirmationibus iunctae, negatione diuiduntur, totique propositioni negatio rursus adiungitur, assumiturque, quod prius est, sicut in propositione est enuntiatum, ut econtrario concludatur secundum quod in propositione prolatum est, hoc modo: Non si dies est, lux non est; Atqui dies est,  Lux igitur est.  Hic ergo posito quod praecedebat, id est esse diem, euersum est quod sequebatur, id est, non esse lucem; negatione quippe affirmatio omnis euertit, uel cum connexae propositionis ex negationibus iunctae, secundae parti negatio detrahitur, totaque propositio denegatur, positaque priore propositionis parte, interimitur quod subsequebatur, hoc modo: non si lux non est, dies est, atqui lux non est, dies igitur non est; uel si connexae propositionis ex negatione atque affirmatione compositae, secundae parti negatio iungatur, eaque insuper denegetur, ponaturque quod prius est, ut id quod sequitur auferatur, hoc modo: non si dies non est, nox non est atqui dies non est, nox igitur est; uel si in eadem propositione, quae ex negatione atque affirmatione copulata est, priori parti negatio subtrabatur, eaque insuper denegetur, ponaturque quod primum est, ut id quod sequitur auferatur, hoc modo: non si dies est, nox est, atqui dies est, nox igitur non est; uel si connexae propositionis ex affirmatione et negatione copulatae, posteriori parti denegatio dematur, totaque insuper denegetur, positoque priore, id quod sequitur interimatur, hoc modo: non si uigilat sterlit, atqui uigilat, non stertit igitur.  Atque haec omnia in tertio modo esse intelliguntur, atque ex repugnantibus fiunt, et semper id quod antecedit, ponitur, ut id quod sequitur, auferatur. Nam non sicut non propositione conditionali quia negata repugnantia partium fit uera, prior pars ponitur, siue affirmatiue, siue negatiue, ita eam reddit assumptio. Sed ut prior pars fuerit assumpta, reliqua contraria enuntiatione concluditur. Nam si assumptio fuerit affi rinatiua, erit negatiua conclusio. Si assumptio negatiua, erit conclusio affirmatiua.  Quartus modus est cum in disiunctiua propositione primum ponitur, ut auferatur secundum hoc modo:  Aut dies est, aut nox est; Atqui dies est, Nox igitur non est.  Quintus modus est quoties in disiunctiua propositione auferatur quod prius est, ut ponatur secundum, hoc modo:  Aut dies est, aut nox est; Non est autem dies, Nox igitur est.  Sextus modus cum his rebus quae in disiunctionem uenire possunt, id est contrariis uel repugnantibus medictate carentibus, negatio praeponitur, et copulatiuae coniunctiones adiunguntur, poniturque quod primum est, ut id quod est subsequens auferatur, hoc modo: Non et dies est et nox est;   Dies autem est,  Nox igitur non est.  Septimus modus est cum in eadem propositione aufertur id quod praecedit, ut ponatur id quod consequitur, hoc modo:  Non et dies est et nox est;  Atqui dies non est, Nox igitur est.  His igitur ita praedictis ad Ciceronis uerba ueniamus.  CUM TRIPERTITO IGITUR DISTRIBUATUR LOCUS HIC, IN CONSECUTIONEM ANTECESSIONEM REPUGNANTIAM, REPERIENDI ARGUMENTI LOCUS SIMPLEX EST, TRACTANDI TRIPLEX. NAM QUID INTEREST, CUM HOC SUMPSERIS, PECUNIAM NUMERATAM MULIERI DEBERI CUI SIT ARGENTUM OMNE LEGATUM, UTRUM HOC MODO CONCLUDAS ARGUMENTUM: SI PECUNIA SIGNATA ARGENTUM EST, LEGATA EST MULIERI. EST AUTEM PECUNIA SIGNATA ARGENTUM. LEGATA IGITUR EST; AN ILLO MODO: SI NUMERATA PECUNIA NON EST LEGATA, NON EST NUMERATA PECUNIA ARGENTUM. EST AUTEM NUMERATA PECUNIA ARGENTUM; LEGATA IGITUR EST. AN ILLO MODO: NON ET LEGATUM ARGENTUM EST ET NON EST LEGATA NUMERATA PECUNIA. LEGATUM AUTEM ARGENTUM EST; LEGATA IGITUR NUMERATA PECUNIA EST?  Eum locum qui ex antecedentibus, consequentibus et repugnantibus esset, unum recte uideri, eumque in conditione esse positum, sed trina partiione distribui, superius explicatum est; idque M. Tullius euidentius notat dicens, intellectum quidem eius considerationemque in conditione positam unam esse sed per argumentationis tractationem tripartito diuidi. Cuius rei per primum ac secundum et tertium hypotheticorum syllogismorum modum, sicut paulo superius diximus, exempla subiecit. Quae quoniam implicatiora uidentur quam ut primo statim auditu comprehendantur, uisum paulisper est apertioribus exemplis animum lectoris imbuere, ut in facilioribus primum exercitata intelligentia, sine magno negotio, qua sunt difficiliora perpendat.  Ab antecedentibus igitur argumentatio fit, quoties enuntiata propositionis conditione sumitur id quod antecedit, ut id quod sequitur inferatur, hoc modo: sit enim dubium an Tullius animal sit, concedaturque eumdem Ciceronem esse hominem, et sit rata propositio haec: Tullius si homo est, animal est; homo antecedit, animal sequitur; si igitur ex antecedenti uelim facere argumentationem, assumam id quod praecedit, hoc modo: sed homo est Cicero, consequitur animal esse Ciceronem; et est hic primus quem supra diximus modus.  Rursus a consequenti argumentatio fit quoties in conditione proposita id quod consequitur tollit assumptio, ut id quod praecesserat interimatur, hoc modo: si homo est Cicero, animal est. Antecedit homo, sequitur animal. Si igitur ex consequenli facere argumentum uelim, dicam, atqui non est animal, sequitur ne esse hominem quidem, sed id perspicue falsum est, esse enim hominem constat falsum est igitur animal non esse. Tullius igitur animal est; et hic dictorum superius secundus est modus.  Quod si a repugnantibus fiat, in tertio scilicet modo digestarum superius conclusionum, faciemus ita: non si homo est Tullius, animal non est, repugnat enim esse hominem et animal non esse; hic si assumamus esse hominem, animal quoque esse, recta ratione concludimus, hoc modo: atqui homo est, animal igitur est, atque hic quidem modus ex ea propositione connexa conuersus est, quae ex duabus coniuncta est affirmatiuis.  His igitur tribus modis Tullius qui homo esset, animal quoque monstratus est esse: nunc quidem dum id quod antecedit assumimus, id est esse hominem; nunc uero dum id quod consequitur, in assumptione denegamus, id est non esse animal; nunc autem repugnantiam denegantes eorum quae sibi sunt consequentia, posito quod praecedebat, id quod sequebatur intulimus.  Quibus ita precognitis, nunc M. Tullii tractemus exempla. Cum enim dixisset loci in consecutione, antecessione et repuguantia positi, reperiendi quidem argumenti simplicem esse intellectum, tractandi autem triplicem, adiecit: Nam quid interest, cum tibi sumpseris ad demortstrandum, pecuniam numeratam mulieri deberi, cui sit argentum omne legatum, utrum id ab antecedentibus, an a consequentibus, an a repugnantibus probes? Namque eadem sententia in conclusione colligitur, et argumentationum diuersitas non in re sed in antecedenium et consequentium et repugnantium tractatu est constituta.  Primum igitur ponatur quod testamento aliquis omne suum argentum mulieri legauerit, quaeraturque an numerata quoque pecunia mulieri legata sit, concedaturque numeratam etiam pecuniam argentum appellari, argumentum igitur in primo modo ex antecedentibus tali ratione contexitur: proponimus enim sic, si pecunia signata numerataque argentum est, eadem pecunia signata numerataque legata mulieri est; hic igitur praecedit numeratam atque signatam pecuniam argentum esse, sequitur legatam esse mulieri; id igitur quod praecessit assumimus dicentes: at est signata ac numerata pecunia argentum; concludimus numeratam signatamque pecuniam mulieri esse legatam, eritque totius argumentationis hic textus: Si pecunia signata numerataque argentum est, legata mulieri est; At est pecunia signata numerataque argentum, Igitur legata est mulieri.  In quo si ad saepius praemissa plurimisque exemplis superius enodata lectoris animus reuertatur, hanc argumentationem in primo modo ab antecedentibus esse compositam non ignorabit.  A consequentibus uero hoc modo: Si numerata pecunia non est egata mulieri cui sit argentum omne legatum, numerata peculia non est argentum. Hic igitur praecedit numeratam pecuniam non esse legatam, cum sit argentum omne legatum; sequitur numeratam pecuniam argentum non esse. Si igitur id quod est posterius auferamus, id est numeratam pecuniam non esse argentum, dicemus: Atqui est numerata pecunia argentum, affirmatio namque tollit negationem. Sequitur igitur ut pars praecedens auferatur, ea quae erat non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, cum argentum ei fuisset omne legatum. Sed cum sit, omnis negatio affirmatione consumitur, dicimusque in conclusione: Est igitur numerata pecunia mulieri legata, cum ei sit argentum omne legatum; eritque huiusmodi argumentatio: Si non est mulieri legata pecunia numerata, cum ei sit argentum omne legatum, non est argentum numerata pecunia; Atqui est argentum numerata pecunia, Legata est igitur mulieri numerata pecunia, cum ei fuerit argentum  omne legatum.  Sed quod Tullius breuitatis causa praeteriit, id est, illam partem propositionis quae ait: Cum sit mulieri argentum omne legatum, nos apertioris intelligentiae causa subiunximus.  Nec perturbare lectorem debet, quod cum in superioribus exemplis in secundo modo per negationem facta fuerit semper assumptio, et per negationem rursus illata conclusio, nunc per affirmationem et assumptio et conclusio facta est. Cuius rei euidentissima ratio est. Nam cum in superioribus exemplis prima propositio ex affirmationibus fuerit constituta, atque in secundo modo assumptio id quod sequebatur auferret, atque interimeret id quod praecedebat, necessarium erat duplicem affrmationem geminata negatione consumi, hoc modo: Si dies est, lux est, utraeque ex affirmatione sunt constitutae. Ut igitur posterior pars, id est lux est, quae affirmatio est, interimatur, deneganda est. Dicam igitur: Atqui non est lux, quo fit ut praecedentem quoque partem, id est, dies est, quam affirmationem esse manifestum est, negatione tollamus, concludentes, dies igitur non est. At in hoc Ciceronis exemplo utraque pars primae atque hypotheticae propositionis negationibus enuntiata est, quae in assumptione uel confusione non ab allis nisi ab affirmationibus auferuntur, hoc modo. Est enim tale Ciceronis exemplum: si legata non est mulieri numerata pecunia, non est numerata pecunia argentum, uides ut sit utraque negatio? Nam et non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, et non esse numeratam pecuniam argentum, utraeque in negatione sunt positae; quod si auferenda est per assumptionem propositionis consequens pars, quoniam negatio est, non esse numeratam pecuniam argentum, dicendum est argentum esse pecuniam numeratam; quod si in conclusione auferenda est pars praecedens, ea quae negatio est, id est, non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, dicendum est: Legata igitur mulieri numerata pecunia est. Et secundus quidem modus rite a consequentibus factus huiusmodi est.  Illud tamen est diligentius adnotandum. quod superius M. Tullius, cum locorum omnium breuiter exempla disponeret, loci huius, qui a consequentibus ducitur, inconueniens secundo conditionalium syllogismorum modo subiecit exemplum, potiusque primo conuenit modo quia non a consequentibus conclusionem sed ab antecedentibus facit. Ita quippe posuit a consequentibus, si mulier cum fuisset nupta cum eo quicum connubii ius concessum non esset, nuntium remisit, quoniam qui nati sunt patrem non sequuntur, pro liberis manere nihil oportet. Hic igitur cum quaeratur an dotis pars apud uirum debeat permanere, id quod praecedit assumitur, ut fiat rata conclusio hoc modo: Sed mulier cum eo nupta est qui cum connubii ius non fuit, concluditur: Quoniam igitur qui nati sunt patrem non sequuntur, pro liberis manere nihil oportet, et ita non est a consequentibus argumentum, quia non id quod consequebatur assumptum est sed id quod praecedebat. Erat quippe antecedens, nupta mulier praeter connubii ius; sequebatur, cum filii patrem non sequebantur, pro eis nihil ex dote retineri. Sic igitur Tullius pro eo quod est a consequentibus argumentum, ab antecedentibus potius dedit exemplum.  Potest uero ita fieri a consequentibus argumentum, si id de quo quaeritur prius ponatur, et id quod assumendum; est posterius, hoc modo: Si quid ex dote pro liberis manere oportebit, quia patrem liberi sequuntur, cum eo nupta est mulier qui cum connubii ius esset. Sumo igitur id quod consequitur per negationem, ita: Sed non est nupta mulier cum eo quicum connubii ius erat, atque ideo qui nati sunt, patrem non sequuntur. Perimitur ergo in conclusione id quod in propositione praecesserat. Ita pro liberis igitur manere nihil oportet.  Sed de secundo modo ista sufficiant, nihil namque, ut arbitror, praetermissum est.  Tertius modus a repugnantibus longe perspicuus hoc modo est: Non et legatum omne argentum est, et non est legata mulieri pecunia enumerata. Hic namque consequens erat: Si argentum esset omne legatum, pecuniam quoque numeratam fuisse legatam; ut igitur fieret repugnans, huic consequentiae interposita negatio est, dictumque est, si argentum omne legatum esset, numeratam pecuniam non esse legatam; quod quia pugnat et falsum est, ad ueritatem alia negatione sic reducitur: Non si legatum argentum est, non est legata numerata pecunia, ut scilicet ei affirmationi conueniat, quae dicit, si legatum argentum est, legatam esse pecuniam numeratam. Assumimus igitur huic propositioni argentum omne esse legatum, et consequitur omne in numeratam pecuniam mulieri esse legatam, ut sit forma argumentationis huiusmodi:  Non si legatum argentum est, non est legata numerata pecunia;  Atqui legatum argentum est, Legata est igitur numerata pecunia.  M. uero Tullius propositionem ita formauit: Non et legatum argentum est, et non est legata numerata pecunia. Sed nos idcirco casualem coniunctionem apposuimus eam quae est "si", ut ex quo esset genere talis propositio monstraremus. Namque id ex consequenti connexo negatione addita fit repugnans. Connexum uero nulla aeque ut sit coniunctio posset ostendere, quanquam idem efficiat et copulatiua coniunctio. Nam quae connexa sunt, etiam coniuncta esse intelliguntur, ex hoc quod paulo ante diximus, quod argumentum ex ea propositione profectum est, quae duabus affirmationibus copulabatur, et iuncta negatione insuper denegata est.  In omnibus igitur illud est approbatum, pecuniam numeratam mulieri deberi, cum sit argentum omne legatum. Sed nunc quidem ex supradictis propositionibus, id quod antecedebat, assumpsimus; nunc uero, id quod consequebatur; nunc autem, id quod repugnabat. Ac de explanandis Ciceronis exemplis, ut arbitror, satis est. Illud autem dubitationem mouere potest: nam si quis minus callidus ad Ciceronis exempla respiciat, eumdem locum arbitrabitur esse a genere, quem ab antecedentibus, et consequentibus, et repugnantibus esse diximus; illo falsus errore, quod in utrisque locis eodem Cicero utitur exemplo, argenti uidelicet et numeratae pecuniae. Sed diligentius intuenti, in eisdem rebus diuersus argumentationum uidebitar esse tractatus. Aliud quippe est dicere, cum argenti species sit numerata; pecunia, si genus legatum sit, et speciem esse legatam, quoniam nunquam species a genere separatur, aliud est in conditione enumerationem proponere, et eisdem partibus assumptis argumentationem uaria ratiocinatione formare, ut superius demonstratum est, cum praesertim huiusmodi ex consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, argumentationes etiam praeter genera ac species fieri possint, uelut nos superuns indicauimus in die atque luce. Nam neque dies lucis, neque lux dici species, aut genus est. Sed id tantum in his considerari debet, quia posito altero, alterum necessaria ratione subsequitur. Differunt igitur loci a genere uel a specie ab eo loco qui in conditione est constitutus, quoniam illi ex uniuersalitatis speciei ac partis ratione ducuntur, hic autem in consequentiae ac repugnantiae ordine tractatur.  Post haec igitur Tullius hypotheticorum syllogismorum modos conclusionesque dinumerat hoc modo:  [APPELLANT AUTEM DIALECTICI EAM CONCLUSIONEM ARGUMENTI, [1141C] IN QUA, CUM PRIMUM ASSUMPSERIS, CONSEQUITUR ID QUOD ANNEXUM EST PRIMUM CONCLUSIONIS MODUM; CUM ID QUOD ANNEXUM EST NEGARIS, UT ID QUOQUE CUI FUERIT ANNEXUM NEGANDUM SIT, SECUNDUS IS APPELLATUR CONCLUDENDI MODUS; CUM AUTEM ALIQUA CONIUNCTA NEGARIS ET EX EIS UNUM AUT PLURA SUMPSERIS, UT QUOD RELINQUITUR TOLLENDUM SIT, IS TERTIUS APPELLATUR CONCLUSIONIS MODUS.  EX HOC ILLA RHETORUM EX CONTRARIIS CONCLUSA, QUAE IPSI *ENTHYMEMATA* APPELLANT; NON QUOD OMNIS SENTENTIA PROPRIO NOMINE *ENTHYMEMA* NON DICATUR, SED, UT HOMERUS PROPTER EXCELLENTIAM COMMUNE POETARUM NOMEN EFFICIT APUD GRAECOS SUUM, SIC, CUM OMNIS SENTENTIA *ENTHYMEMA* DICATUR, QUIA VIDETUR EA QUAE EX CONTRARIIS CONFICITUR ACUTISSIMA, SOLA PROPRIE NOMEN COMMUNE POSSEDIT. EIUS GENERIS [1141D] HAEC SUNT:HOC METUERE, ALTERUM IN METU NON PONERE! EAM QUAM NIHIL ACCUSAS DAMNAS, BENE QUAM MERITAM ESSE AUTUMAS MALE MERERE? ID QUOD SCIS PRODEST NIHIL; ID QUOD NESCIS OBEST?  HOC DISSERENDI GENUS ATTINGIT OMNINO VESTRAS QUOQUE IN RESPONDENDO DISPUTATIONES, SED PHILOSOPHORUM MAGIS, QUIBUS EST CUM ORATORIBUS ILLA EX REPUGNANTIBUS SENTENTIIS; COMMUNIS CONCLUSIO QUAE A DIALECTICIS TERTIUS MODUS, A RHETORIBUS *ENTHYMEMA* DICITUR. RELIQUI DIALECTICORUM MODI PLURES SUNT, QUI EX DISIUNCTIONIBUS CONSTANT: AUT HOC AUT ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD. ITEMQUE: AUT HOC AUT ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. QUAE CONCLUSIONES IDCIRCO RATAE SUNT QUOD IN DISIUNCTIONE PLUS UNO VERUM ESSE NON POTEST.  ATQUE EX EIS CONCLUSIONIBUS [1142A] QUAS SUPRA SCRIPSI PRIOR QUARTUS POSTERIOR QUINTUS A DIALECTICIS MODUS APPELLATUR. DEINDE ADDUNT CONIUNCTIONUM NEGANTIAM SIC: NON ET HOC ET ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD. HIC MODUS EST SEXTUS. SEPTIMUS AUTEM: NON ET HOC ET ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. EX EIS MODIS CONCLUSIONES INNUMERABILES NASCUNTUR, IN QUO EST TOTA FERE *DIALEKTIKE*. SED NE HAE QUIDEM QUAS EXPOSUI AD HANC INSTITUTIONEM NECESSARIAE.  Etsi multipliciter superius cuncta digessimus, nec expositionis indiget repetita toties disputatio, erit tamen operae pretium, si quam breuissime potero M. Tullii uerbis mediocris lucem commentationis interseram. Septem igitur modos hypotheticos enumerans ait, cum in connexis propositionibus id quod est primum assumitur, ut ostendatur secundum, primum a dialecticis modum uocari, hoc modo: Si hoc est, illud est; quod dicit hoc, primum est, quod uero ait illud, secundum. Assumatur ergo quod primum est, atqui hoc est; concluditur igitur id quod secundum est, illud igitur est, uelut in his rursus exemplis: si homo est, animal est, assumitur, atqui homo est, concluditur, animal igitur est.  Secundum uero modum ait esse Tullius connexis propositionibus textum, in quo si secundum negatur, sequitur ut id etiam quod primum est abnuatur hoc modo;  Si hoc est, illud est; Illud autem non est, Igitur ne hoc quidem est.  In exemplis ita: si homo est, animal est; animal autem non est, homo igitur non est. Sed Tullius ita dixit, cum id quod annexum est negaris, ut id quoque cui fuerit annexum negandum sit, secundum esse modum, quasi connexa propositione affirmatiuis partibus iuncta; uniuersaliter autem rectius diceretur, cum id quod annexum est, id est secundum, perimitur, perimi iliud quoque cui annexum est, id est primum, ut si affirmatiuum est id quod annexum est, negatione perimatur; sin uero negatiuum affirmatione; et de eo quoque cui annexum est, id est primum, idem est ut si in connexa propositione affirmetur, in conclusione denegetur, secundum nunc propositum Ciceronis exemplum; si uero negatiua sit propositionis prior pars, in conclusione contraria affirmatione tollatur.  Tertium uero modum ait esse Cicero cum ea quae coniuncta sunt,  denegantur, et his alia negatio rursus ad iungitur, ut quia animal homini coniunctum est, ita dicamus: Non et homo et non animal est, atque ex his unum ponitur, ut quod relinquitur auferatur, hoc modo: Ponimus hominem esse, dicentes: Atqui homo est; quod ergo relinquitur, non est animal, aufertur, atque concluditur, animal igitur est. Fit argumentatio hoc modo: Non et homo est et non animal; Atqui homo est, Animal igitur est.  Ex his nasci dicit enthymemata ex contrariis conclusa, quibus plurimum rhetores uti solent; atque haec enthymemata nuncupantur, non quod eodem nomine omnis inuentio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis conceptio, quod potest omnibus inuentionibus conuenire) sed quia haec inuenta, quae breuiter ex contrariis colliguntur, maxime acuta sunt, propter excellentiam speciemque inuentionis commune enthymematis nomen proprium factum est, ut haec a rhetoribus quasi proprio nomine enthymemata uocentur. Sicut apud Graecos quoque poeta Homerus tantum dicitur, et quisquis ex Homero aliquid profert, ita dicere consueuit: Hunc uersum poeta locutus est, et tunc non alius intelligitur praeter Homerum, non quod caeteri non sint poetae sed quod excellentia huius commune nomen uertit in proprium. Fiunt uero haec enthymemata hoc modo, ex contrariis uidelicet texta: Hunc metuere, alterum in metu non ponere  (uelut si de Lentulo et Cethego, caeterisque diceretur)  Paucos ciues interficere metuis, ne respublica intereat nihil laboras.  Connexum quippe est ut quicumque noluit interire paucos ciues, rempublicam multo magis nolit exstingui.  Quibus cum interponitur negatio, fit ex repugnantibus argumentum. Sed hoc breuiter Tullius enuntiauit, nos uero argumentum in syllogismum redigamus, a repugnantibus scilicet, ex quo enthymemata nasci solent, hoc modo: Sit connexum, si quis metuit ciues paucos interfici, is metuit interire rempublicam, hic interponitur negatio sic: Si quis metuit ciues paucos interfici, is non metuit interire rempublicam, iungitur alia negatio: Non si quis metuit paucos ciues interfici, non metuit interire rempublicam. Quae duae negationes uni affirmationi partes sunt, quae dicit: Si quis metuit hoc, metuit et illud, cuius quidem assumptio est, at metuit hoc, conclusio sequitur, metuit igitur et illud, quae tantumdem ualet, si negando interrogetur ita, hoc metuis, illud non metuis. Sed quia non totus (ut supra posuimus) in his argumentationibus ponitur syllogismus sed propositio, cuius assumptio et conclusio notae sunt, idcirco enthymema dicitur, quasi breuis animi conceptio. Et in caeteris exemplis idem modus est.  Sed haec quidem Ciceronis similitudo non tam ex repuguantibus quam ex contrariis argumentum intelligitur continere. Metuere quippe et non metuere contraria sunt, nisi hoc ipsa uerborum prolatio a contrariis argumentum ad repugnantiam retrahat. Nam quod dicit hunc metuere, alterum in metu non ponere, tale est ut repugnantia uideantur. Etenim metuere et non metuere contraria sunt. In metu autem non ponere, et metuere, prolatione ipsa tam contraria quam repugnantia intelliguntur, licet eadem probetur esse sententia.  His adiecit alia rursus in exempla.  "Eam quam nihil accusas, damnas." Huius enthymematis talis est integer syllogismus: Non si nihil accusas damnas; Sed nihil accusas, Non damnas igitur.  Venit ergo hoc argumentum ex ea propositione connexa, quae ex duabus componitur negatiuis, ita: si nihil accusas, non damnas; posteriori uero parti detracta negatio est, et insuper tota est propositio denegata hoc modo, non si nihil accusas, damnas, et ex ea factum est argumentum, quod positum in interrogatione efficit enthymema, hoc modo: quam nihil accusas, damnas, bene quam meritam esse autumas, male mereri.  Huius quoque enthymematis talis est ratio </collectio>:  Non et bene meritam esse autumas, et male mereri; Atqui bene meritam esse autumas, Non male igitur mereri.  Quod enthymema ex ea propositione connexa perticitur, quae constat ex affirmatione et negatione, ita: si bene meritam esse autumas, non male mereri. Cuius ex posteriore parte dempta negatione, totaque propositione denegata, fiet propositio: non si bene meritam esse autumas, male mereri; quod in interrogationem deductum tacit enthymema: bene quam meritam esse autumas, male mereri.  Item: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis, obest?" Hoc quoque enthymema tali nectitur syllogismo:  Non id quod scis prodest, et id quod nescis non obest; At id quod scis prodest, Obest igitur id quod nescis.  Hoc argumentum ex ea propositione compositum est, quae duabus affirmationibus iuncta acceperit mediam negationem et insuper denegata est. Quod interrogatum fit enthymema hoc modo: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis obest?"  Omnium uero superius exemplorum ista sententia est. Nam quam quisquam nihil accusat, eam damnare recte non potest; et eam quam bene meritam esse autumat, male mereri de ea turpe est; et si id quod scit quisque in causa proderit, oberit, si est contrarium id quod nescit. Hunc uero locum communem esse oratoribus ac philosophis dicit sed apud illos tertium modum, apud rhetores uero enthymema nuncupari.  Reliqui, inquit, modi plures sunt, nam cum tres superius enumerasset modo adiungens quatuor, plures dixit. Hi sunt in disiunctionibus constituti hoc modo:  Aut hoc aut illud; Hoc autem, Non igitur illud  qui est quartus modus a nobis quoque suprapositus ita: Aut dies est aut nox est; Dies autem est, Non igitur nox est  et semper quod ait Cicero 'hoc' ad praecedens spectat; quod uero ait 'illud' ad consequens, siue inconnexis propositionibus siue disiunctis.  Item: Aut hoc aut illud  Non autem hoc, Illud igitur.  Hic quoque quintus modus est, uelut in his exemplis:  Aut dies est aut nox est;  Non autem dies, Nox igitur est.  Quarum conclusionum, necessitatem ex eo dicit euenire, quia quae in disiunctione posita, medium non uidentur admittere, ut esse aliud praeter eorum alterum possit, atque ideo uno sublato alterum esse, unoque posito alterum non esse concluditur. Quod si sit medium, quod preter alterutrum esse possit, nec uera propositio, nec rata est conclusio, uelut in his, aut album est, aut nigrum, id falsum est. Esse enim praeter ea rubrum potest. Sed si ponamus esse album uel auferamus, non nec esse erit non esse uel esse nigrum, quia quod rubrum est, medium esse potest.  Deinde, inquit Tullius, addunt coniunctionum negantiam, in disiunctiuis scilicet propositionibus, hoc modo: Non et hoc et illud; Hoc autem, Non igitur illud.  Idem est: Non et nox et dies est;  Nox autem est,  Non igitur dies est.  Hic igitur sextus modus esse praedictus est.  Septimus autem est ex eadem ueniens propositione, hoc modo: Non et hoc et illud; Non autem hoc, Illud igitur  uelut si ita dicamus: Non et nox et dies est; Nox non autem est, Dies igitur est.  Quae propositiones nisi in disiunctis medioque carentibus rebus ratam conclusionem habere non poterunt. Age enim ita dicamas, non et album, et nigrum, ponamusque non esse album, non consequitur ut sit nigrum, potest enim esse quod medium est. Huiusmodi igitur per negationem coniunctionum (ut Tullius ait) propositio si ratas factura est conclusiones in disiunctis rebus, medioque carentibus accommodetur, alias non erit rata conclusio.  Distat uero propositio tertii modi a propositione sexti et septimi, quod tertii modi propositio ex coniunctis nascitur. Haec uero sexti et septimi ex disiunctis terminis existit, ut in superioribus patet exemplis.  Ex his igitur, inquit, modis conclusiones innumerabiles nascuntur, unus enim quilibet eorum modus infinitis conclusionibus aptari potest, ueluti primus ac secundus in omnibus quae sibi connexa sunt, quorum nullus est numerus, si quis per. sequi uelit; itemque repugnantium infinitaest multitudo, in quibus tertius modus est utilis; item plura disiuncta sunt in quibus quartus, et quintus, et sextus, et septimus pluriumum ualent. Atque in his, inquit, omnis fere est dialectica sed ad topicos locos tres primi modi sunt necessarii, qui antecessionem, consecutionem et repugnantiam tenent. Reliqui uero complendae disputationis magis gratia quam quod ad hanc institutionem necessarii fuerint uidentur adiecti. PROXIMUS EST LOCUS RERUM EFFICIENTIUM; QUAE CAUSAE APPELLANTUR; DEINDE RERUM EFFECTARUM AB EFFICIENTIBUS CAUSIS. HARUM EXEMPLA, UT RELIQUORUM LOCORUM, PAULO ANTE POSUI EQUIDEM EX IURE CIVILI; SED HAEC PATENT LATIUS.  CAUSARUM [ENIM] GENERA DUO SUNT; UNUM, QUOD VI SUA ID QUOD SUB EAM VIM SUBIECTUM EST CERTE EFFICIT, UT IGNIS ACCENDIT; ALTERUM, QUOD NATURAM EFFICIENDI NON HABET SED SINE QUO EFFICI NON POSSIT, UT SI QUIS AES STATUAE CAUSAM VELIT DICERE, QUOD SINE EO NON POSSIT EFFICI.  [15.59] HUIUS GENERIS CAUSARUM, SINE QUO NON EFFICITUR, ALIA SUNT QUIETA, NIHIL AGENTIA, STOLIDA QUODAM MODO, UT LOCUS TEMPUS MATERIA FERRAMENTA ET CAETERA GENERIS EIUSDEM; ALIA AUTEM PRAECURSIONEM QUANDAM ADHIBENT AD EFFICIENDUM ET QUAEDAM AFFERUNT PER SE ADIUVANTIA, ETSI NON NECESSARIA, UT: AMORI CONGRESSIO CAUSAM ATTULERAT, AMOR FLAGITIO. EX HOC GENERE CAUSARUM EX AETERNITATE PENDENTIUM FATUM A STOICIS NECTITUR. ATQUE UT EARUM CAUSARUM SINE QUIBUS EFFICI NON POTEST GENERA DIVISI, SIC ETIAM EFFICIENTIUM DIVIDI POSSUNT. SUNT ENIM ALIAE CAUSAE QUAE PLANE EFFICIANT NULLA RE ADIUVANTE, ALIAE QUAE ADIUUARI VELINT, UT: SAPIENTIA EFFICIT SAPIENTIS SOLA PER SE; BEATOS EFFICIAT NECNE SOLA PER SESE QUAESTIO EST.  Post eum locum qui in conditione est constitutus, consequens erat is qui considerabatur ex causis; post hunc is enumeratus locus est qui, in effectis causarum positus, argumenta praestabat. Quorum quidem superius M. Tullius exempla proposuit, nunc rationem latius tractat.  Cum igitur Aristoteles quatuor posuerit causas, quibus unumquodque conficitur: primam, quae mouendi principium est; secundam, ex qua fit aliquid, quam materiam uocat; tertiam rationem ac speciem, qua unumquodque formatur; quartam, finem propter quem quodlibet efficitur, at uero M. Tullius principalem causarum diuisionem facit in ea quae efficiant aliquid et in ea sine quibus effici nequeant, ut id quod efficit, ad eam causam referatur in qua motus principium constitutum est, id uero sine quo non fit aliquid, tum ad intellectum materiae transferatur, uel eorum quae coniuncta materiae efficientis adiuuant facultatem, tum ad reliquas causas ducatur, ut paulo posterius apparebit.  Eius igitur causae, quae ui sua id quod subiectum est efficit, tale proponit exemplum, ut ignis accendit: nam accensionis ipsius causa ignis est, et id efficere potest, atque illud quod accenditur, mouet atque permutat. Eam uero causam, sine qua id quod faciendum est fieri nequit, ab una eius parte designat, ueluti cum dicit aes causam esse statuae, quod sine eo status noc possit existere: hoc enim, ut per faciendam diuisionem clarescet, non ea ipsa est causa sine qua non efficitur sed pars eius esse monstrabitur.  Eam uero causam sine qua id quod faciendum est, effici non potest, diuidit hoc modo: alia enim sunt quieta, nihil agentia sed stolida quodammodo, ac per se, nisi agendi extra motus accesserit, immobilia: horum exempla, ut locus, tempus, materia, instrumentum. Omne enim quod fit, locum nec esse est habere subiectum, in quo nisi aliquid fiat, locus ipse immobilis est, ad aliquid explicandum. Itemque materia et instrumenta, nisi manu moueantur artificis, ipsa naturaliter nihil egerint. Tempus quoquo operationi subiectum est, quae si desit, nihil ipsum propriae naturae ratione perfecerit. Atque haec quidem sunt quae nihil agentia, tamen causae sunt, si his efficiens operatio superueniet.  Alia uero quae in motu posita praecursionem quamdam ad efficientiam ac praeparationem uidentur afferre, uelut amoris causa est congressio, quae praecessit, et amor flagitii. Ex his, inquit, causis Stoica disputatio fatum connectit. Fatum enim dicunt esse praecedentium causarum subsequentiumque perplexionem quamdam et catenae more continentiam, hoc modo: Ideo profectus est peregre, quoniam parentum iracundiam ferre non puterat; idcirco parentum iracundiam successione non ferebat, quia amicae amore detinebatur, idcirco amabat, quod saepe fuerat ante congressus; ideo congressus est, quia aliquid ut congrederetur praecessit. Itaque ordine praecedentium consequentiumque rerum fatum (ut dicit) a Stoicis nectitur.  Item diuidit eam causam quae ui sua efficit aliquid in eam quae ad etficiendum sibi sufficit, eamque qua extrinsecus adminiculationis indigeat. Sufficit igitur sibi ad efficiendum causa, ut sapientia efficere sapientes per se nullo penitus adiuta solet. Sed haec an sola beatos efficere possit, quaeritur an ei sint extrinsecus addenda quae iuuent, uel fortunae bona, uel corporis, itaque ea causa quae ui sua efficit aliquid, aut talis est, ut ei nulla sint extrinsecus adiuncta quaerenda, ueluti artifici instrumenta quaedam, quibus id quod efficiendum est explicet atque conformet.  Earum uero omnium quae Tullius statuit in alterutra diuisione causarum, illa quidem quae ui sua explicant ea quorum causae sunt, omnia tam per se ad efficiendum ualentia, quam quaesiti extrinsecus iuuaminis indigentia, in ea Aristotelicae diuisionis causa locabuntur, quae est principium motus. Quanquam de sapientia tali causae non conuenit exemplum sed potius ad rationem formamque contendit Namque sapientia ratione quadam atque forma efficit sapientes. Eius uero causae quam Tullius refert, sine qua non fit aliquid, materia quidem, tempus et locus, id est, ex quo fit, uel in quo fit, quae sunt efficienti substantia naturae: ut uno intellectu comprehendantur, uel materia sunt, uel materiae uice supposita; instrumenta uero ei causae sunt quae ad finem spectant sed non ipsa finis, quia non finis instrumenta respicit sed haec tinem.  Instrumenta namque propter aliquem finem parantur.  Sed mirum uideri potest cur congressionem amoris causam non interea enumerauit, quae habent efficiendi uim sed inter eas posuerit causas, sine quibus effici non potest, cum tamen agat aliquid atque moueat. Nam ipsa congressio aliquid uidetur efficere, similisque est ei caasae quae ipsa quidem habet efficiendi uim sed sine adminiculo non potest, ueluti cum quaeritur de sapientia an sola beatum possit efficere. Sed Merobaudes rhetor ita disseruit, earum causarum, quae efficiendi uim haberent, eam esse facultatem, ut etiamsi adiumentis extrinsecus indigeant, effectus tamen earum ad id spectet quod efficiendum est. At in his causis quae sunt praecursoriae, etiamsi eis antecedentibus aliquid existit, non tamen id quod existere intelligitur praecursio principaliter operatur. Sed ista quidem ueluti sub quadam occasione praecurrit, illa uero res quae existeret dicitur, aliis operantibus nascitur, uelut in congressione solum est fieri. Fortasse enim non propter amorem quisque congreditur sed praecedente congressione amor existit, quem non congressio principaliter appetebat. Itaque quoniam praeter congressionem amor existere non potuit, recte intereas causas congressio locata uidetur sine quibus non efficitur; quoniam uero non efficit ui sua, quandoquidem nec principaliter ut efficiat, spectat sed tantum ea ante aliquid existit, recte inter praecursorias, ac non inter efficientes causas est collocata.  QUA RE CUM IN DISPUTATIONEM INCIDERIT CAUSA EFFICIENS ALIQUID NECESSARIO, SINE DUBITATIONE LICEBIT QUOD EFFICITUR AB EA CAUSA CONCLUDERE.  CUM AUTEM ERIT TALIS CAUSA, UT IN EA NON SIT EFFICIENDI NECESSITAS, NECESSARIA CONCLUSIO NON SEQUITUR. ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM SINE QUO NON EFFICITUR SAEPE CONTURBAT. NON ENIM, SI SINE PARENTIBUS FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA IN PARENTIBUS CAUSA FUIT GIGNENDI NECESSARIA.  HOC IGITUR SINE QUO NON FIT, AB EO IN QUO CERTE FIT DILIGENTER EST SEPARANDUM. ILLUD ENIM EST TAMQUAM:    UTINAM NE IN NEMORE PELIO --  NISI ENIM 'ACCIDISSENT ABIEGNAE AD TERRAM TRABES,' ARGO ILLA FACTA NON ESSET, NEC TAMEN FUIT IN HIS TRABIBUS EFFICIENDI VIS NECESSARIA. AT CUM IN AIACIS NAVEM CRISPISULCANS IGNEUM FULMEN INIECTUM EST, INFLAMMATUR NAVIS NECESSARIO.  Prima quidem causarum diuisio, secundum Tullium, fuit in ea quae efficerent aliquid, et ea sine quibus effici non posset, atque illud quidem quod efficeret, in gemina item partitus est, scilicet in id quod ad efficiendum aliquid necessariam uim possideret, neque ullius indigeret extrinsecus adiumenti, etinid quod nisi illis adiuuantibus operari atque efficere non posset. Ac primum de ea loquitur causa quae efficiendi uim tenet, eius enim ea pars cui efficiendi necessitas adest, statim secum conclusionem comitem trahit; dicta enim causa, quae necessario ac quid efficit, effectus etiam nec esse est consequatur, ueluti si solem adfuisse quis dixerit, lucem quoque adfuisse monstrabit, aut cum alicui ad esse sapientiam dixerimus, sapientem nec esse est fateamur.  At in his causis efficientibus quae extrapositis indigent adiumentis, non eadem ratio est; neque enim ut quaeque huiusmodi causa dicitur, ita nec esse est affectum sequi. Non enim huiusmodi causa necessario efficit quod uult, nisi extrapositis auxiliis adiuuetur; idem est etiam in ea causa quae ipsa quidem efficiendi uim non habet sed sine ea non prouenit effectus. Nam, ut Tullius quoque commemorat, nullam in efficiendis rebus adhibet necessitatem, atque ideo dicta causa non statim sequitur effectus. Neque enim si congressus est, mox amauit, nec si fuit aes, statuam quoque fuisse nec esse est.  Ex quo aliarum causarum partitio nascitur. Aliae namque causae sunt necessariae, aliae minime. Non necessariarum aliae sunt efficientes, aliae sine quibus non efficitur. Necessariarum uero causarum conclusio non solet conturbare: ut enim haec causa fuerit dicta, statim in conclusione sequustur effectus. Non necessariarum uero, quae sunt partim efficientes, quod nunc tacuit sed paulo ante praedixit, non habent subsequentem effectae rei conclusionem. Neque enim si liberi sine parentibus non sunt, idcirco in parentibus efficiendi causa necessaria fuit, cum uideamus in hominum esse potest ate ne gignant. Ea uero causa quae ipsa quidem non efficit sed sine ipsa effici non potest, huiusmodi est quemadmodum Enniano uersu declaratur: NISI ENIM CECIDISSENT ABIEGNAE TRABES AD TERRAM, ARGO ILLA FACTA NON ESSET. Ex trabibus namque Argo facta est sed nulla inerat trabibus necessitas, ut ex eis fieret nauis; at uero ea causa quae est efficiens, et quae in se suam continet necessitatem, talis est. Quale CUM IN AIACIS NAVEM IGNEUM CRISPISULCANS FULMEN INIECTUM EST, statim enim accendi nec esse est nauim, quia ignis accendend necessaria causa est.  Et sensus quidem est huiusmodi, ordo autem paulo confusior est, ait enim hoc modo: ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM, QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM SINE QUO NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Quod cum dixisset, cumque uel utriusque uel alterius exemplum ponere debuisset, neutro conueniens exemplum similitudine dedit. Namque cum uel necessariam causam efficientem, uel eam sine qua non efficitur, proposuisset, eius causae posuit exemplum, quae efficiat quidem aliquid sed non sine extrapositis adiumentis, hoc modo: NON ENIM SI SINE PARENTIBUS FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA CAUSA FUIT IN PARENTIBUS GIGNENDI NECESSARIA. Parentes enim et maxime masculini sexus efficiens causa est sed non sine femina, id est non sine materia quadam, et ea causa sine qua fieri non possit, cum ipsa uim efficiendi non habeat.  Itaque nec causa necessariae et efficientis posuit exemplum, nec eius sine qua fieri nihil possit sed efficientis quidem, non tamen necessariae sed uidetur tacuisse in propositione id cuius posuit exemplum; ita enim apertius dici potuisset: ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM, QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM quod non habet efficiendi uim necessariam; uel HOC SINE QUO NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Itaque sic intelligendum est quasi ita sit dictum; nam de necessaria causa nullum posuit exemplum. Quod uero subiecit, utrisque causis conuenit posterius enumeratis, tam efficienti non necessariae, quam eius sine qua nihil efficitur. Parentes namque tam masculini sexus quam feminini esse dicuntur, quorum quidem masculini sexus ea causa est quae efficiat sed non necessaria. Feminini uero ea quae non efficiat sed sine qua effici [non possit.  Quae cum ita sint, discernendae sunt causae et peruidenda necessitas, nec omnis causa praemittenda ut subsequatur effectus sed ea tantum in qua est efficiendi necessitas, etiamsi extrinsecus adiumenta defuerint. ATQUE ETIAM EST CAUSARUM DISSIMILITUDO, QUOD ALIAE SUNT, UT SINE ULLA APPETITIONE ANIMI, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE SUUM QUASI OPUS EFFICIANT, VEL UT OMNE INTEREAT QUOD ORTUM SIT; ALIAE AUTEM AUT VOLUNTATE EFFICIUNT AUT PERTURBATIONE ANIMI AUT HABITU AUT NATURA AUT ARTE AUT CASU: VOLUNTATE, UT TU, CUM HUNC LIBELLUM LEGIS; PERTURBATIONE, UT SI QUIS EVENTUM HORUM TEMPORUM TIMEAT; HABITU, UT QUI FACILE ET CITO IRASCITUR; NATURA, UT VITIUM IN DIES CRESCAT; ARTE, UT BENE PINGAT; CASU, UT PROSPERE NAVIGET. NIHIL HORUM SINE CAUSA NEC QUIDQUAM OMNINO; SED HUIUSMODI CAUSAE NON NECESSARIAE. Facit aliam rursus causarum diuisionem ita: CAUSARUM enim ALIAE SUNT quae sua quadam ui, SINE APPETITIONE, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE unum atque eumdem in efficiendis rebus ordinem tenent, ut est interire omnia quae orta sunt. Nam quia ortum est, idcirco etiam nec esse interire, nec tamen ipse ortus, ut caetera intereant, uel appetitu aliquo, uel uolutate uel opinione efficit; sed ita est ab aeterno rerum statu, ut quidquid ortum est, quia accepit esse, aliquando etiam esse desistat. Item ALIAE sunt causae quae AUT in VOLUNTATE AUT in PERTURBATIONE ANIMI AUT in HABITU AUT in NATURA AUT in ARTE CASU ue consistunt. VOLUNTATE, ut si quaerat aliquis cur Trebatius librum legat, respondebitur, quia legendi uoluntas est. PERTURBATIONE animi, ut si quis timore pallescat, aut urbem fugiat, bellis ciuilibus conturbatas. HABITU, UT si idcirco Trebatius FACILE. de iuris ratione responderit, quoniam multo usu constantem ciuilis scientiae habitum tenet, uel si quis idcirco irascatur facile, quia eius animus per iracundiae habitum efferatus est. NATURA, ut si quis idcirco dicatur irasci, quia naturaliter iracundus est, id quod in dies uitium crescat. ARTE, ut si idcirco bene quisque pingat, quia eius artis peritus esse proponatur. CASU, ut quae in nostra potestate nullo modo sunt, fiunt tamen, uelut in certo praesertim tempore, prosperitas nauigandi. Atque horum omnium nihil a causa uacuum est, nec quidquam est in rebus quod non aliqua causa perficiat. Omnia enim quae fiunt habent aliquam rationem cur facta sint, quam si quis reddere possit, causam quoque reddiderit. Id est enim causa propter quam unumquodque fit.  Omnes uero causae quae uel ex uoluntate, uel perturbatione animi intelliguntur, ad eam causam pertinent quae est mouendi principium, ut in Aristotelica diximus diuisione. Haec enim ut aliquid efficiatur, mouendi principium sunt, at in arte, uel habitu, uel natura, illa causa est, quae in ratione consistit. Species enim ac ratio uniuscuiusque efficiendae rei in arte et habituet natura posita est. Casus uero exterior causa, nec inter principales annumeratur secundum Aristotelem. Secundum uero M. Tullium casus est latens effectae rei causa; quod quale sit paulo posterius designabitur. OMNIUM AUTEM CAUSARUM IN ALIIS INEST CONSTANTIA, IN ALIIS NON INEST. IN NATURA ET [IN] ARTE CONSTANTIA EST, IN CAETERIS NULLA. SED TAMEN EARUM CAUSARUM QUAE NON SUNT CONSTANTES ALIAE SUNT PERSPICUAE, ALIAE LATENT. PERSPICUAE SUNT QUAE APPETITIONEM ANIMI IUDICIUMQUE TANGUNT; LATENT QUAE SUBIECTAE SUNT FORTUNAE. CUM ENIM NIHIL SINE CAUSA FIAT, HOC IPSUM EST FORTUNAE EVENTUS; OBSCURA CAUSA ET LATENTER EFFICITUR. ETIAM EA QUAE FIUNT PARTIM SUNT IGNORATA PARTIM VOLUNTARIA; IGNORATA, QUAE NECESSITATE EFFECTA SUNT; VOLUNTARIA, QUAE CONSILIO.  QUAE AUTEM FORTUNA, VEL IGNORATA VEL VOLUNTARIA.] NAM IACERE TELUM VOLUNTATIS EST, FERIRE QUEM NOLUERIS FORTUNAE. EX QUO ARIES SUBICITUR ILLE IN VESTRIS ACTIONIBUS: SI TELUM MANU FUGIT MAGIS QUAM IECIT. CADUNT ETIAM IN IGNORATIONEM ATQUE IMPRUDENTIAM PERTURBATIONES ANIMI; QUAE QUAMQUAM SUNT VOLUNTARIAE -- OBIURGATIONE ENIM ET ADMONITIONE DEICIUNTUR -- TAMEN HABENT TANTUS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT AUT NECESSARIA INTERDUM AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR.  Rursus causarum diuisionem aliam claram ac perspicuam prodit. Causarum namque aliae sunt constantes, alia uero inconstantes. Constantes sunt, quarum non fereuariatur effectus; inconstantes uero, quae huc atque illuc facilioribus mutationibus transferuntur.  Omnia igitur quae ex natura atque arte descendunt, constantia sunt. Natura quippe atque ars suum semper opus efficiunt, nisi subiectae materiae obstet incertum. Nam quod unus idemque artifex ex eadem saepe materia non admodum similes statuas format, non est haec in arte uarietas sed tum in artificis manu, quae integritatem artis assequi non potest, tum in ipsa materia, quae efficientiae atque formae non aequaliter cedit. Idem est in natura, seruat namque constantiam suam, cum hominem format ex homine. Itaque similia in caeteris ex similibus gignit: at cum monstrosum aliquid effertur, non naturae uitio sed materiae potius applicatur, ex qua id quod efficere contendebat, non ita potuit natura explicare.  Sed inter constantes causas habitus quoque debuit adiungi; nam quod habitu cuiusque lit, id constans, nec mutabile esse solet; quandoquidem idcirco habitus dicitur, quia diuturnitate habendi in naturae similitudinem uertitur. Sed forsan Tullius uidit quod natura atque ars, non tam in effectibus constantes quam in propria ratione esse intelliguntur, in tantum ut quod ars ac natura delinquit, materiae saepius impPombaur, habitus uero ipse consuetudine quadam collectus est, qui non ratione aliquid et propria constantia sed usu facit, atque idcirco forsitan habitum, qui inter caetera praeter artem et naturam uidebatur esse constantior, a causis constantibus segregauit.  Ea uero quae non sunt constantia, in ea diuidit quae sunt perspicua, et in ea quae latent. Perspicua sunt quae ab animi quolibet motu uel appetitione, uel iudicii ratione profecta sunt; latent uero quae fortunae subiacent. Nam quia non ignorat animus in quam partem declinet, qui tametsi boni aliquanio habet iudicium, nunquam tamen eius rei quam efficit notionem relinquit, praetereos qui funditus mente capiuntur, et in quibus iam nulla uoluntas est, nec esse est nota esse, quae ex uoluntate uel animi iudicio fiunt. Fortuna uero atque casus semper ignotus est. Cuius quidem natura aeque incerta est, atque ea quae casibus ipsis fiunt.  Sed M. Tullius definit esse casum, euentum causis latentibus effectum; quae non uidetur integra definitio: quid enim, si adhuc lateret quibus causis solis defectus lunaeue contingeret, num idcirco casu atque fortuna fierent, quae constantibus caeli motibus administratur?  An casus quidem putaretur ab his qui defectus rationem reperire non possent, per se autem consideratus, nullo quidsm modo esset casus. Sed M. Tullius non quod uideretur esse casus, his qui eius naturam minime perspexissent sed qui omnino fortunae euentus esset definitionis rationem monstrabat. Euentum uero latentibus causis Cicero casum esse ita concludit: Cum omnia certis de causis fiant, quorum ratio cognoscitur, eorum euentus casu fieri non posse monstrantur sed putantur aliqua fieri casu eorum quorum causa nulla ratione cognoscitur. Ex quo euenit ut fortunae sit euentus, qui latentibus causis efficitur. Hic igitur in rebus quidem ipsis constantiam ponit, casum uero non re sed opinione metitur. Quo fit ut si aliter effectae remouerit causam, id quod accidit fortunae non sit euentus, idem tamen sit alteri fortunae euentus, si rationem alter ignoret. Quod uero omnium rerum causas esse dicit, non determinat quales, atque ideo nec de fortuna ipsa, quorum euentum causa sit, monstrat.  Nec me saeuae hominum mentes arrogantiae notent, quod uelut affectata auctoritate Tullianis sententiis pugnem, cum aduersus eas si quid uidebitur non nostra sed ab antiquissimis tractata compensem. Quod si nostra quoquo diceremus, oporteret tamen eos non personarum uetustatem sed eorum quae opponuntur considerare rationem, nec odisse potius quae aduersus magni nominis uiros dicuntur, quam contraria, si possent, argumentatione reuincere. Nam si eis M. Tullius in definitione rerum nimium placet, quaenam est inuidia nos quoque Aristotelicam rationem probare?  Quod si intemperanter molestissimi esse pergunt, audiant M. Tullium secundo Tusculanarum disputationum libro adhortantem potius, atque ad certamen uocantem, hoc modo: Sed tamen tantum abest ut scribi contra nos nolimus, ut id etiam maxime optemus. Ipsa enim Graeciae philosophia nunquam in honore tantum fuisset, nisi doctissimorum contentionibus,  dissensionibusque creuisset; quamobrem hortor omnes, qui facere id possunt, ut eius quoque generis laudem iam languenti Graeciae eripiant, et transferant in hanc urbem, sicut reliquas omnes, quae quidem erant expetendae studio atque industria sua maiores nostri transtulere.  Et rursus, nos qui sequimur probabilia nec, ullraquam quod uerisimile occurrit, progredi possumus, et refelli sine pertinacia et refellere sine iracundia parati sumus. Quocirca quae malum ratio est ipsius M. Tullii uoluntatem iudiciumque conuellere, cum eiusdem contra nos sententiis atque auctoritate nitantur?  Sed si cui commentarios nostros inspicere uacuum fuerit, sciat haec nos ex Aristotelis secundo Physicorum uolumine aduertisse, quae tametsi altioris philosophiae disputationes tangunt, non est tamen studiis inuidendum, si rhetoricis quoque ac dialecticis disputationibus admisceamus, qua sunt profundiora naturae, neque pigrescere ac dilassari animos dignum est, quos intentiores ac uegetos ipsa rerum ambiguitas et uariarum cognitio speculationum deberet efficere, eum praesertim ea librorum natura sit, ut ad legendum studiosos teneat, nullum cogat ignauum. Dicamus igitur quid euentus sit fortunae, uel quarum sors causa esse dicatur.  Omnia igitur sunt uel immutabiliter ac semper, ut quod sol oritur; uel saepius, ut quod equus quadrupes nascitur; uel raro, ut si equus cum quinque uel tribus pedibus procreetur; uel aeque, ut in quibus faciendarum rerum nihil interest, quo potius uoluntatem uergamus. Atque illud quidem quod semper fit, nihil habet oppositum, quod ullo modo aliter fiat; id uero quod saepe contingit habet; aduersum, id quod rarius euenit, neque enim saepius fieret, ac non semper, nisi diuersum raro quidem sed aliquando contingeret. Quod igitur ex fortuna tit, in sempiternis non est; quis enim casu solem dicat oriri? Ne in his quidem quae frequentius fiunt; nullus enim casu equum dixerit esse quadrupedem. Nee uero in his quae fieri aequaliter solent; nam quae uoluntaria sunt non uidentur esse fortuita.  Restat igitur ut in his fortunae euentus sit, quae rarius fiunt. Eorum uero quae fiunt, partim finem aliquem spectant, partim minime.  Quis enim finis esse potest, si manum extendam, si genua complicem, atque aliquid iacens humi tollam, quod nullis usibus applicem? At uero ea quae aliquem finem spectant partim uoluntatis sunt, partim naturae. Voluntatis, ut siquis idcirco domo egrediatur, ut uideat amicum. Naturae, ut quod est in animalibus. Omnia quae ab ea fiunt certam animalis respiciunt utilitatem, atque ad eius salutem conseruationemque omnium membrorum momenta sunt constituta. Casum igitur ac fortuitos euentus in his esse ponimus, quae cum rarius fiant, in his tamen per accidens eueniunt, quae propter aliquid fiunt.  Veluti si quis egressus domo ut amicum uideret, praeteriens cadente.  desuper lapide ictus est: id igitur quod euenit, in rariore causa ponendum est, accessit uero ei uoluntati, quae certum respiciebat finem. Ea uero fuit domo egrediendi causa, ut amicum uideret. Rursus, quoniam lapsis naturaliter grauis est, grauitas uero terram petit, casus quidem lapidis propter aliquid naturaliter factus est; ad id enim lapidis natura tendebat, ut in suum locum pondus ueniens conquiesceret. Sed huic naturali intentioni accidit id quod rarius euenit scilicet ut percuteret caput; quo fit ut sit secundum Aristotelem fortuna uel casus, causa per accidens rarius eueuientum in his rebus quae propter aliquid fiunt. Quae cum ita sint, cumque definitio Aristotelica a Tulliana plurimum discrepet, illud tamen in utrisque constat, id quod fortunae subiectum est, incertis casibus semper esse suppositum. Nam licet in his rebus saepe fortuna suos experiatur actus, quae uoluntate sunt, et ad aliquem finem referuntur, extra tamen accidit quod fortunae est, nec ab eo tine uenit, quem sibi animus ante perspexerat.  Sed cum Cicero diuisisset causas in eas quae perspicuae sunt, et in eas quae laterent, cumque eas quae perspicuae sint diceret esse quae appetitionem animi iudiciumque tangerent, manifestum est eum uel artem, uel uoluntatem, uel perturbationem, uel habitum in his causis ponere quae perspicu ac sunt; uoluntas quippe atque animi perturbatioin appetitione ponitur, saepe enim ex perturbatione aliquid appetimus, artem uero uel habitum in iudicio; arte namque iudicamus, habitus uero ad utrumque pertinet: nam et uoluntates consuetudo ministrat, et multo usu peritiaque fit quaedan constantia iudicandi. Casum in non perspicuis posuit.  De natura incertum est utrum inter perspicuas an inter latentes ipsam coliocet: nam si inter latentes causas, ipsam naturam casum uideretur putare: cuius opinionis nulla ratio est Quod si inter perspicuas, quaenam appetitio animi uel iudicium in natura est? Neque enim appetendo aliquid uel iudicando facit natura, nisi forte quoniam ex ipsa saepe habilitas quaedam mentis et corpori existit, quae habi lit as ad unamquamque rem adiuuat uoluntatem; id enim maxime uolumus ad quod habiles sumus. Sed natura inter perspicuas causas ponitur, quae iudicio quoque coniuncta est, ut si naturaliter sano quisque iudicio compositus est: appetitioni etiam, ut si naturaliter aliquid animus petat.  His adiungit aliam causarum diuisionem; ait enim alias causas esse uoluntarias, alias ignoratas: uoluntarias, eas quaecumque ex iudicio ueniunt animi; ignoratas in quibus necessitas domina est, id est in quibus aut omnino non uolumus, aut ne si uelimus quidem aliter facere possumus, ut in natura atque casu. Necessitate enim quadam naturae grauia deorsum feruntur, necessitate item factum dicimus, ut aliquis ignorans iacto trans parietem lapide praetereuntem hominem peremerit. Eaque necessitas talis est, non quod aliter fieri non potuisset, nisi ut lapide iacto percuteret sed quia uoluntas defuit, et non idcirco, quia uoluit, fecit. Prior uero necessitas iam talis est, in qua nulla uoluntas est, uel ea quae est, ne id quod cupit efficiat, ualidiore necessitate constringitur. Nam cum lapsis deorsum propria grauitate deponitur, nulla uoluntas est sed tantum naturae necessitas; at si homo deorsum cadat, est quidem non cadendi uoluntas sed ferri quo non uult, ualidior naturae causa compellit.  Voluntatem uero a fortuitis euentihus uno eodemque aptissimo secreuit exemplo, ueluti si telum manu iaciat, nolensque feriat praetereuntem. Nam iecisse ex uoluntatis principio nascitur. Idcirco enim iecit, quia uoluit. Ignorauit uero quod perculeret; neque enim iecisset, si se percussurum praeuidere potuisset. Neque iecit, quia uoluit percutere. Si autem non ignorasset, non percutere potuisset. Unde etiam machinamentum quoddam atque defensio in iuris peritoram responsionibus inuenitur, hoc modo: Si telum manu fugit magis quam iecit; nam si quis caedis accusetur, optima solet esse defensio, si alia non suppetit, fugisse manu telum, magis quam uoluerit iecisse, ut non uoluntati, quae condemnatur in culpis sed ignorantiae factum tribuatur.  De perturbationibus autem animorum paulo confusius iudicium est. Dubitari enim potest utrum ex uoluntate, an necessitate, an ex ignoratione uenerit, quod perturbatione peccatur: uidentur enim uoluntaria esse peccata, quoniam qui perturbatus est appetit aliquid, aut fugit. Sed in hoc perturbatio eius apparet, quod non fugienda uitat, et non appetenda nimis exoptat. Porro autem quoniam in perturbationibus sunt confusa iudicia (neque enim aliter id quod fugiendum est saepe appetunt perturbati, nisi obcaecato obscuratoque iudicio), quod uero fit animi confusione, saepe tale est ut nollet admisisse qui fecit, et euenit ut non inter uoluntarias sed inter ignoratas uel necessarias causas animorum perturbatio sit; in tantum uero qui perturbatus est, a uera discretione discedit, ut in eam possit recta bene consulentium admonitione reduci. Quo fit ut animorum perturbatio iure a causis uoluntariis segregetur, et aut in ignoratione, aut in necessitate ponatur.  Nam quod ait: TAMEN HABENT TANTOS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT, AUT NECESSARIA INTERDUM, AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR, ita intelligendum est: quoniam omnis animi passio iudicium conturbat, confundit uero rectam discretionem, si acrior fuerit quam ut rationis retinaculis temperetur, et fit quaedam ex perturbationibus ueluti uiolenta necessitas, ut dubium sit utrum is qui aliquid perturbatus animo facit, ignorans faciat; ueluti cum casu ignorans delinquit, cum futurum non prouidet casum, an sciens faciat, uel necessitate ducatur. Quod igitur dixit: Aut necessaria esse, aut ignorata, et diuisit a neeessariis ignorata, non pugnat contra id quod superius dixit, ea quae ignorata sunt esse necessaria. Nam id quod est ignoratum ita quodammodo diuidit: ignoratorum alia quadam necessitate fiunt, dum aut nulla uoluntas est, aut ea quae est, necessitati nequit obsistere; alia casu, cum in his faciendis, quae ignorantur, nulla uoluntas est.  Quod igitur dixit, perturbationes animi, aut in necessariis causis poni, aut in ignoratis, id sine dubio sensisse intelligitur, perturbationes animi, aut in his esse ignoratis in quibus ea necessitas est, ut uoluntas obsistere non possit, aut in his in quibus nalla uoluntas est sed sit delictum caecitate iudicii, uelut in his qui immoderatius amoris cupiditati deseruiunt: aut enim confuso iudicio ab honestate discedunt, et dum quasi bonum appetunt, in malum decidunt ignorantes, atque ita in casu quodam atque errore ponitur amor immodicus; aut nouit quidem quod appetit esse uitandum sed maioris actu cupiditatis impellitur, atque ita inter ea necessaria ponitur, quae aut non habent uolunt. Item, aut eam ita infirmam ac debilem, ut nullo modo ualidioribus passionibus obnitatur.   Fore quosdam, Patrici rhetorum peritissime, non dubitauerim, qui hunc in Topicis altiorem ex philosophia tractatum uaria obtrectatione reprehendant, quia inter logicam disputationem physicam interposuit. Hi uero sunt, uel quibus hoc totum philosophari displiceat, uel qui in argumentorum locis naturales admisceri causas oportuisse non existiment. Sed contra priores quidem, et a M. Tullio, et ab ipsa quodammodo humana ratione, quae in motu posita aliquid semper inquirit, atque amore scientiae neque decipi patitur, neque ullo modo a ueritatis ratione traduci, saepe multumque responsum est.  His uero qui sequestrandas ab oratorio facultate philosophiae disciplinas putant, respondendum breuiter existimo. Ratione quidem reperiri quiddam potest sed melius atque facilius artifex faciet, si in opere construendo artis facultatem atque elegantiam comparet.  In argumentis quoque idem esse manifestum esti ui namque naturalis ingenii argumenta promuntur. Sed ars facultatem imitata naturae uiam quamdam rationemque reperit, qua id effici facilius ac melius possit.  In qua re illorum nec esse est reprehendatur error, qui rhetoricam facultatem naturalem esse dixerunt, quoniam quilibet totius artis alienus et intendere in alterum crimen, et sese purgare solet, et argumento aliquid prohare contendit. Reprehendendi etiam sunt qui eamdem facultatem in sola arte positam esse dixerunt: oportuit enim eos animaduertere, omnem quidem artem sui materiam effectus ex natura suscipere sed in ea tamen ratione propriam facultatem elegantiamque experiri. Haec itaque quae artium ratio perficit, ab imperitis etiam fieri, utcumque contigerit, possunt. Bene autem ac facile nemo efficit nisi artis ratione fuerit instructus. Cum igitur totius operis haec sit intentio, ut argumenta quae confusa et ueluti clausa natura suppeditat, artificialiter uestigentur, quid sit per quod efficere id quod promittit ars ualeat, sub exempli notatione demonstrat: ut enim facilius argumenta reperiantur, illa res efficiet, si demonstrentur loci in quibus argumenta sunt collocata. Et enim ut si quis aliquid quaerat, facilius id inuestigare possit atque inuenire, si locus ei monstretur ubi sit positum id quod inquirit; ita etiam cum quis argumentum inuenire conatur, si ei locus ubi argumentum sit positum, declaretur, facilius argumentum quod quaerit ualebit inuenire. Ita enim Aristoteles, et ita Tullius appellat eas sedes in quibus argumenta sunt collocata, id est locos, qui ab Aristotele topica uocati sunt.  Sed quoniam de sedibus argumentorum loquimur, hi cuiusmodi sint paulo altius expediamus; locos enim non uno modo intelligitur. Ac relinquamus quidem eos locos quos Victorinus frustra atque inconuenienter interserit, uelut cos qui corpora concludunt, ac simpliciter intelligamus eos locos argumentorum esse qui intra se continent argumenta in quibus exponendis posterius quid sit quod dicimus clarius apparebit. Nunc communiter de tota locorum ratione, deque argumentatione, ac de quaestionibus et propositionibus earumque terminis uidetur esse tractandum.  Ac primum quoniam locus qui tractatur in Topicis, non cuiuslibet rei sed tantum locus est argumenti, exposito prius argumenti intellectu, deinceps de loci ratione tractabimus. Definit igitur Tullius argumentum hoc modo: Argumentum est ratio quae rei dubiae faciat fidem. Sumpsit igitur rationem ut genus. Omnes enim iniuriosi sunt qui orationis uirtutem a sapientiae ratione seiungunt, aliamque esse dicendi artem uelint, aliam intelligendi. Nam si nihil orationes aliud agimus, nisi interius cogitata uulgamus, quae malum ratio est, orationis elegantiam a sententiarum grauitate se ponere? Quae porro sententiarum grauitas esse potest, sine earum rerum de quibus dicendum est comprehensione? Quae uero alia disciplina naturam proprietatemque rerum omnium docet, uel quae omnino eorum quae intelligi possunt, scientiam profitetur, nisi haec tantum ex qua nos pauca praesumpsimus philosophia? quae longe aliter de his ipsis in proprio sapientium tractatu disputare solet. Neque ita cursim ut nos, quae sint in illorum libris solet, prolixius disserenda sumpsissem, quis ferret insolentium hominum temeritatem prouectus suos culpare uolentium quibus prouectibus proficerent, si studiosi potius quam queruli esse mallent? Sed his contentionibus neque antiqua caruit aetas, nec nos ita delicati sumus, ut quibus patientia doctissimorum hominum saepius obstitit, fere nolimus, dum et pluribus prod esse possumus, et sapientium iudicia consequamur. Ad quem finem hic noster labor et totius operis summa contendit. Sed haec hactenus.  Nunc susceptae expositionis ordinem persequamur.  TOTO IGITUR LOCO CAUSARUM EXPLICATO, EX EARUM DIFFERENTIA IN MAGNIS QUIDEM CAUSIS VEL ORATORUM VEL PHILOSOPHORUM MAGNA ARGUMENTORUM SUPPETIT COPIA; IN VESTRIS AUTEM SI NON UBERIOR, AT FORTASSE SUBTILIOR. PRIVATA ENIM IUDICIA MAXIMARUM QUIDEM RERUM IN IURIS CONSULTORUM MIHI VIDENTUR ESSE PRUDENTIA. NAM ET ADSUNT MULTUM ET ADHIBENTUR IN CONSILIA ET PATRONIS DILIGENTIBUS AD EORUM PRUDENTIAM CONFUGIENTIBUS HASTAS MINISTRANT.  IN OMNIBUS IGITUR EIS IUDICIIS, IN QUIBUS EX FIDE BONA EST ADDITUM, UBI VERO ETIAM UT INTER BONOS BENE AGIER OPORTET IN PRIMISQUE IN ARBITRIO REI UXORIAE, IN QUO EST QUOD EIUS AEQUIUS MELIUS, PARATI EIS ESSE DEBENT. ILLI DOLUM MALUM, ILLI FIDEM BONAM, ILLI AEQUUM BONUM, ILLI QUID SOCIUM SOCIO, QUID EUM QUI NEGOTIA ALIENA CURASSET EI CUIUS EA NEGOTIA FUISSENT, QUID EUM QUI MANDASSET, EUMVE CUI MANDATUM ESSET, ALTERUM ALTERI PRAESTARE OPORTERET, QUID VIRUM UXORI, QUID UXOREM VIRO TRADIDERUNT. LICEBIT IGITUR DILIGENTER ARGUMENTORUM COGNITIS LOCIS NON MODO ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS, SED IURIS ETIAM PERITIS COPIOSE DE CONSULTATIONIBUS SUIS DISPUTARE.  Diuiso causarum loco atque ordine suis partibus distributo, de locis eiusdem facultate, quibusque uberius, quibusque angustius accomodetur, uti saepe Ciceroni mos est, disserit. Primum enim inquit, oratoribus ac philosophis, quorum in disputationibus larga materia est, multa ex causarum loco argumentorum suppetit copia. Communis quippe oratoribus ac philosophis hic locus esse prospicitur qui est a causis, his naturas rerum quod est philosophiae proprium, illis quod oratoriae facultatis est, facta probantibus. Nam et cum res quaelibet quaeritur, [eius causae a philosophis uestigari solent. Quibus praemissis, ut superius dictum est, comitatur statim quod concludendum est, et oratores ad suspicionem mouendam detergendamue factorum causas requirunt. Hoc quippe stabile in hominum mentibus manet, quod neque factum, neque res ulla praeter illam omnium principem naturam, sine propriis causis possit existere. Quo fit ut uberrimus causarum usus sit in rhetorum orationibus, philosophorumque tractatu.  Sed ut hunc libellum M. Tullius scribens, pleraque omnia Trebatio dedisse uideatur, hunc locum iuris quoque consultis attributum esse demonstrat, dicens: Etsi non tam uberes opportunitates habeat hic locus in iurisperitorum responsionibus subtilius certe atque acutius pro ipsius artis natura tractari potest, scilicet ubertatem quae deerat, subtilitate quae poterat inesse compensans. Habent enim etiam ipsi proprium campum in quo eorum uirtus possit enitere. Est enim iurisconsultorum prudentiae priuatarum quaestio causarum, maximeque in illis negotiis; hic causarum locus examinabitur, in quibus bonae fidei iudicia nectuntur. In his enim qui fuerit animus contrahentium quaeri solet, qui deprehendi uix poterit, nisi praecedentibus causis intelligatur. In his igitur iudiciis in quibus additur ut ex bona fide iudicent, id est ubi ita iudices dantur, ut non strictas inter litigantes stipulationes sed bonam fidem quaerant, pluribus causarum usus est: additur ut inter bonos bene agi oportet, considerantur mores, inquiruntur consilia; statuitur quibus, quidque de causis, administratum sit. In primisque in iudicio uxoriae rei uberrimus causarum tractatus est.  Est autem iudicium uxoriae rei, quoties post diuortium de dote contentio est. Dos enim licet matrimonio constante in bonis uiri sit, est tamen in uxoris iure, ut post diuortium uelut res uxoria poti potest. Quae quidem dos interdum his conditionibus dari solebat, ut si inter uirum uxoremque diuortium contigisset, quod melius a quius esset, apud uirum remaneret, reliquum dotis restitueretur uxori, id est ut quod ex dote iudicatum fuisset melius aequius esse ut apud uirum maneret, id uir sibi retineret; quod uero non esset melius aequius apud uirum manere, id uxor post diuortium reciperet. In quo iudicio non tantum boni natura spectari solet, uerum etiam comparatio bonorum fit, ut non tam quod aequum sed melius aequiusque est id sequendum sit. Quae omnia ex precedentibus causis inuestigari solent. Nam si uiri culpa diuortium factum est, aequiusmelius est nihil apud uirum manere. Si mulieris est culpa, aequius melius est sextans retineri.  In hisque omnibus peritissimi iurisconsulti esse debent; quo fit ut Trebatium quoque hortetur ad studium. Multa enim esse dicit, quae eorum operam exspectant. Illi enim, inquit, dolum malum, illi bonam fidem, illi aequum et bonum, illi etiam quid socius socio praestare debeat, quid is qui alienum in se gerendum sponte negotium suscepisset, ei cuius id negotium fuerat, quid is qui mandauerit ei cui mandauerit suorum negotiorum actiones, quid uir uxori, quid uxor uiro tradiderit; quae omnia ad posteriora causae sunt, aique exinde iudicia sumuntur idcirco enim, uerbi gratia, quodlibet illud iudex pronuntiare debet in uxoris ac uiri causa, quia uirum hoc praestare oportet uxori; idcirco etiam mandato rei cui mandauerit, obligatus esse iudicandus est, quia inter mandatorem susceptoremque negotii illud est obseruandum, omnia quoque quae quisque alteri prmslare debet, ea in tractandis iudicandisque negotiis causae sunt. Quocirca recte conclusit, diligenter cognitis argumentorum locis, et oratoribus, et philosophis, et iurisconsultis argumentorum copiam non defuturam.  CONIUNCTUS HUIC CAUSARUM LOCO ILLE LOCUS EST QUI EFFICITUR EX CAUSIS. UT ENIM CAUSA QUID SIT EFFECTUM INDICAT, SIC QUOD EFFECTUM EST QUAE FUERIT CAUSA DEMONSTRAT. HIC LOCUS SUPPEDITARE SOLET ORATORIBUS ET POETIS, SAEPE ETIAM PHILOSOPHIS, SED EIS QUI ORNATE ET COPIOSE LOQUI POSSUNT, MIRABILEM COPIAM DICENDI, CUM DENUNTIANT QUID EX QUAQUE RE SIT FUTURUM. CAUSARUM ENIM COGNITIO COGNITIONEM EVENTORUM FACIT.  Omnia quae ad se referuntur recte dicuntur esse cnniuncta; ipsa enim relatio rerum efficit coniunctionem; quod si causa alicuius causa est, non alterius, nisi sui effectus est causa, itemque si est aliquis effectus, ex causarum principiis uenit; iure igitur ab effectis locus, causarum loco debet esse coniunctus. Quoniam uero semper quae ad se referuntur aequantur, nec esse est, quae ubertas sit causarum, eadem quoque sit effectorum. Quoniam enim causa praeter effectum esse non potest, cum sit causa super effectum, nec esse est ut ex euentibus quoque atque effectibus, plurima suppetant argumenta, siquidem ex causis etiam plurima contrahuntur. Nam sicut cuiuslibet effectus potest causa tractari, si ex qualibet causa potest, qui sit euentus ostendi, recteque, ait, causarum cognitio euentuum cognitionem facit; ut enim in praedicamentis ostenditur, sciri relatiuum aliquod non potest, praeter reliqui scientiam relatiui.  RELIQUUS EST COMPARATIONIS LOCUS, CUIUS GENUS ET EXEMPLUM SUPRA POSITUM EST UT CAETERORUM; NUNC EXPLICANDA TRACTATIO EST. COMPARANTUR IGITUR EA QUAE AUT MAIORA AUT MINORA AUT PARIA DICUNTUR; IN QUIBUS SPECTANTUR HAEC: NUMERUS SPECIES VIS, QUAEDAM ETIAM AD RES ALIQUAS AFFECTIO.  NUMERO SIC COMPARABUNTUR, PLURA BONA UT PAUCIORIBUS BONIS ANTEPONANTUR, PAUCIORA MALA MALIS PLURIBUS, DIUTURNIORA BONA BREVIORIBUS, LONGE ET LATE PERVAGATA ANGUSTIS, EX QUIBUS PLURA BONA PROPAGENTUR QUAEQUE PLURES IMITENTUR ET FACIANT. SPECIE AUTEM COMPARANTUR, UT ANTEPONANTUR QUAE PROPTER SE EXPETENDA SUNT EIS QUAE PROPTER ALIUD ET UT INNATA ATQUE INSITA ASSUMPTIS ATQUE ADVENTICIIS, INTEGRA CONTAMINATIS, IUCUNDA MINUS IUCUNDIS, HONESTA IPSIS ETIAM UTILIBUS, PROCLIVIA LABORIOSIS, NECESSARIA NON NECESSARIIS, SUA ALIENIS, RARA VULGARIBUS, DESIDERABILIA EIS QUIBUS FACILE CARERE POSSIS, PERFECTA INCOHATIS, TOTA PARTIBUS, RATIONE UTENTIA RATIONIS EXPERTIBUS, VOLUNTARIA NECESSARIIS, ANIMATA INANIMIS, NATURALIA NON NATURALIBUS, ARTIFICIOSA NON ARTIFICIOSIS.  [18.70] VIS AUTEM IN COMPARATIONE SIC CERNITUR: EFFICIENS CAUSA GRAVIOR QUAM NON EFFICIENS; QUAE SE IPSIS CONTENTA SUNT MELIORA QUAM QUAE EGENT ALIIS; QUAE IN NOSTRA QUAM QUAE IN ALIORUM POTESTATE SUNT; STABILIA INCERTIS; QUAE ERIPI NON POSSUNT EIS QUAE POSSUNT. AFFECTIO AUTEM AD RES ALIQUAS EST HUIUS MODI: PRINCIPUM COMMODA MAIORA QUAM RELIQUORUM; ITEMQUE QUAE IUCUNDIORA, QUAE PLURIBUS PROBATA, QUAE AB OPTIMO QUOQUE LAUDATA. ATQUE UT HAEC IN COMPARATIONE MELIORA, SIC DETERIORA QUAE EIS SUNT CONTRARIA.  PARIUM AUTEM COMPARATIO NEC ELATIONEM HABET NEC SUMMISSIONEM; EST ENIM AEQUALIS. MULTA AUTEM SUNT QUAE AEQUALITATE IPSA COMPARANTUR; QUAE ITA FERE CONCLUDUNTUR: SI CONSILIO IUVARE CIVES ET AUXILIO AEQUA IN LAUDE PONENDUM EST, PARI GLORIA DEBENT ESSE EI QUI CONSULUNT ET EI QUI DEFENDUNT; AT QUOD PRIMUM, EST; QUOD SEQUITUR IGITUR...  Omnis comparatio duplex est: aut enim aequalia sibimet comparantur, aut inaequalia; sed in his quae sunt aequalia, semper eadem esse notatur aequalitas. Inaequalia autem ingemina ueluti membra diuiduntur, minoris scilicet atque maioris. Nam quod minus est, non per se minus est sed com paratione maioris. Itemque quod maius est, minoris comparatione dicitur maius. Quae cum ita sint, diuidit atque ante oculos ponit omnium comparationem modos, et quod raro in superioribus locis fecit, ipsas maximas propositiones ponit in comparationibus constitutas, ut si quando loco sit nobis comparationis utendum, habeamus quoddam, uelut inuentionis exemplar, ad quod quaerentem animum possimus aduertere.  Omnis igitur comparatio, aut in numero constat, aut in specie aut in ui aut aliqua locata extrinsecus affectione. Nam quodcumque conferre contendimus, aut numero comparamus, et secundum id aliud maius, aliud minus esse decernimus; aut speciem ipsam intuentes, eamque alii comparantes de excellentia iudicium damus; aut aliud consideramus, quid res quaeque possit efficere, et in quantum eius progredi possit natura, aut ex aliorum quodammodo continentia, et ex circumstantium affectione rem quam alii conferimus intuemur.  Numero igitur quae comparantur, si ex eodem sint genere, plura paucioribus ante ponuntur, uelut ei bona omnia sit aequalia, iure quis quamplura bona paucioribus anteponit. Et est haec maxima propositio: Plura bona paucioribus anteponuntur  et in caeteris quoque eadem ratio perspicitur maximarum propositionum. At si omnia in contrario sint genere, pluralitati paucitas praeferenda est, ut pauca mala pluribus malis, mala uero ipsa bonis nullo modo conferuntur. Quae enim ullo modo compensantur, in eodem esse genere debent, non in contrario. Nam cum aduersum se contraria e regione locata sunt, conferri compararique non possunt, quod sibi intelligitur esse inimica. Est etiam secundum numerum comparatio in temporis quoque ratione. Nam cum tempuscertis quibusdam spatiis, diuidatur, uelut horae, diei, mensis atque anni, ex aequalibus bonis ea magis eligenda sunt, quae diuturnius perseuerant, quod in numero positum esse nullus ignorat. Ipsa enim diuturnitas plurimos esse uel dies, uel menses, uel annos fatetur, quibus duret id quod eligitur. Longe etiam peruagala bona, angustis et in unum minimum locum coarctatis numeri comparatione praecedunt. Nam quae longe lateque peruagata sunt, ea in plurimas gentes regionesque diffusa sunt; pluralitas uero cuiuslibet rei numerum spectat. Iam uero ex quo plura propagantur bona, qui non iudicet esse meliora his quorum est inops bonorum contractiorque fecunditas? Quis etiam bonum quod plures imitentur ut faciant, caeteris quae ita non sint, excellere non arbitretur, quae in numero constare quis nesciat, quando in numero pluralibus constat?  Specie uero comparantur, quae per seipsa considerata suae quodammodo pulchritudinis merito caeteris anteferuntur. Meliora enim sunt quae propter se, quam quae propter aliud expetuntur, ueluti salus quae propter se excetitur, medicina propter salutem; quocirca melior est salus quam medicina: atque haec non ad aliquem numerum, nec postremo ad aliquam quantitatem sed ad ipsam speciem salutis ac medicinae considerationem referentes, iudicium promimus. Illa quoque quae innata atque insita sunt, assumptis et aduentitiis meliora iudicantur, unde innata moribus grauitas longe amplius excellit eam quae per imitationem affectatur. Integra etiam potius quam contaminata melioris rei iudicium ferunt. Nam quae integra sunt, suam speciem seruant, quae contanimata sunt atque ex aliqua parte uitiata, si qua etiam inerat, speciei pulchritudinem perdiderunt. iocunda minus iocundis meliora, communis omnium animalium natura diiudicat. Honesta utilibus sapientes anteponunt; procliuia laboriosis anteferri illa res monstrat, quod nemo ad eumdem finem per laboriosam atque asperam uiam tendere cupiat, ad quem possit procliui facilique itinere peruenire. Labor quippe omnis iniocundus est, iocunda est facilitas. Necessaria etiam non necessariis partim praeferri, partim etiam postponi debent, quod M. Tullius tacuit: necessaria quippe praeferuntur his non necessariis, quae non boni ratione sed uoluptatis appetitione sunt constituta, ueluti luxu regio parata conuiuia nullus sapiens iudicet esse meliora his quae naturae expleant indigentiam. Quaedam uero sunt quae ipsa specie boni, cum non necessaria sint, meliora sunt necessariis. Nam uiuere necessarium est, et sine eo subsistere animal nequit. Philosophari uero non est necessarium, melius tamen longeque excellentius est philosophum uiuere quam tantum uiuere: illud enim raro paucisque etiam utentibus ratione concessum; illud pecudibus commune nobiscum. Sua quoque alienis iure meliora esse dicuntur, ueluti hominibus ratio potius quam uoluptatis appetitio: illud enim proprium est hominis, illud alienum; rara quoque uulgaribus meliora sunt. (Atque hic locus approbat id quod superius dictum est, philosophantem uitam ipsa uita esse meliorem: nam quae rara sunt, facile id quod uulgare est antecedunt.)  Desiderabilia etiam his quibus facile carere possis, illa res approbat esse meliora, quod maxime desiderantur, et sine his anxia uita est, ueluti ei quis capillis uisum conierat. Aegrius enim toleramus carere uisu quam capillis; ita ex hoc meliorem esse uisum capillis iudicamus, quod his facile, illo aequo animo carere non possumus. Perfecta etiam imperfectis naturaliter excellunt, illa enim suam formam adepta sunt, illa minime. Tota etiam partibus eodem modo excellentiora esse arbitramur: nam quod totum est, habet naturae propriam formam. Quod uero pars est et ad totius nititur perfectionem, nondum suae pulchritudinis speciem cepit, nisi ad totius integritatem referatur. Iam uero ratione utentia rationis expertibus nullus dubitat esse meliora. Voluntaria quoque necessariis iure anteponuntur, namque uoluntaria libera sunt, quae necessaria quodam nos ueluti dominio necessitatis astringunt, atque ideo meliora esse uoluntaria necessariis existimamus; quanquam in hoc etiam illud intelligi possit, quod a nobis superius dictum est, non necessaria saepe necessariis anteponi, quandoquidem ea quae uoluntaria sunt non fuerint necessaria; uoluntaria uero meliora sunt necessariis. Non necessaria igitur saepe necessariis excellunt; animata quoque inanimatis. ipsius animae negatione considerata, anteponenda esse ratio persuadet. Naturalia etiam non naturalibus, et artificiosa inartificiosis. Optimusque hic gradus est, ut naturam arti, artem praeferas inertiae, ars quippe imitatur naturam. Quo fit ut id quod in se retinet pulchri, ex natura ueniat, cuius inmitari speciem cupit. Longe uero postrema sunt quae cum artificio carent, non a specie solum naturae, uerum etiam ab imitatione discedunt, atque haec quidem de specie in comparationibus considerantur. Vis autem in eo consistit in quo consideratur quid unaquaeque res possit efficere, nam quod quaeque res potest, ea uis eius rectissime dicitur. Efficiens igitur causa grauiorem uim habet quam ea quae nihil efficit: uelut artifex melior quam materia, illa quippe stolida est atque immota. Nec aliquid efficiens, nisi formam ab artifice, id est ab efficiente causa, susceperit. Item quae se ipsis contenta sunt, meliora esse his uidentur quae egent aliis: ueluti omnium Deus optimus est, quia nullo indiget, et ipso cuncta sunt indiga. Item quae in nostra sunt potestate magis eligenda sunt quam qua in aliena manu posita facile labuntur. Quo fit ut sit uirtus meliorquam diuitiae; nam uirtus est in nostra potestate, diuitiarum fortuna domina est. Iam uero stabilia incertis, quae eripi non possunt, his quae possunt, si tamen bona sunt, quis non intelligat esse meliora?  Quorum tamen locorum pars contraria contrarium teneet: inspectis quippe his quae meliora sunt, si horum aduersa uideamus, deteriora sunt.  Restat in affectione posita comparatio quae ita tractatur, ut non per semetipsam res quae alii confertur sed ex alterius cuiuslibet consideratione pensetur, uelut in tribus quibusdam rebus si duae ad seinuicem comparentur, eo quod ad tertiam plus minueue iungantur. Sint enim duo quaedam humanis rebus accommodata, quarum una principibus atque etiam ipsi reipublicae accommodatior: hic igitur iudicabimus eam rem esse meliorem quae melioribus prodest, id est ut reipublicae uel principibus non considerantes ut sese res habeat sed quantum reipublicae uel principibus adiuncta sit. Haec igitur res ex affectione est comparata, meliusque iudicatur id quod principibus commodum est, quam id quod aliquibus priuatis, quoniam principes reliquorum etiam continent statum. Eodem modo sunt quae sequuntur, ut quae iucundiora sunt pluribus, quae clariora inter multos, quae pluribus comprobata sunt, meliora ducantur. Nam etiamsi minus ipsa huius naturae sint, affectione tamen, ut dictum est, eorum quibus uel iucundiora, uel inter quos clariora sunt, aut a quibus probantur, meliora existimanda sunt. Sed quanquam id quod a pluribus bonum ducitur, superius in ea comparationis parte posuerit in qua fiebat secundum numerum comparatio, nihil tamen impedit eumdem locum secundum aliam atque aliam considerationem diuersis generibus subdi: uelut ala auis cum substantia sit, eadem tamen ad aliquid esse intelligitur, si ad alatum consideretur. Illa quoque ex affectione uidentur esse meliora quae ab eo laudata sunt, contra quem dialectica oratione uel rhetorica facultate disseritur. Nam ut reuincere ad uersarium possis, sat est si eum tibi consensisse monstraueris, atque id aliquando uelut optimum praedicasse, quod tu melius re proposita monstrare contendas.  Dictis igitur omnibus meliorum locis, his oppositi quae deteriora sunt continebunt.  Parium uero nulla discretio est. Neque enim quod par est, aut intentionem sumere, aut remissionem potest. Quibus autem modis inter se maiora minoraque penduntur, iisdem inter se paria conferuntur. Nam quae uel numero, uel specie, uel ui, uel affectione fuerint, aeque paria esse dicuntur. Commune autem cunctorum exemplum est, quod Cicero in qualitate constituit, quae qualitas in cunctis paribus aequa est sed uel numero, uel specie, uel ui, uel affectione paria sunt. Nam in eorum comparatione quae maiora uel minora sunt, una quaedam qualitas est sed horum accessione uariantur. Nam quibus in eadem qualitate maior numerus, pulchrior species, efficacior uis, ad pretiosiora coniunctior affectio, ea meliora esse existimabuntur. Quae si aequa fuerint, in eadem qualitate paria sunt.  Exemplum uero quod proposuit, ad blandiendum Trebatii animum ualet, cum propriam, id est oratoriam, facultatem cum iurisperitorum laude coniungit hoc modo: Si consilio iuuare ciues, quod iurisperitorum, est, et auxilio, quod oratorum est, aequa in laude ponendum est, pari gloria debent esse que consulunt, id est periti iuris, et hi qui defendunt, id est oratores. Atqui primum est, id est consilio iuuare ciues, et auxilio, aequa in laude ponendum est. Quod sequitur igitur, id est -- supple: pari gloria debent, esse qui consulunt, id est periti iuris, et hi qui defendunt, id est oratores -- infertur. Ea uero conclusio est per quam dicimus: hi igitur qui consulunt, et hi qui defendunt, pari gloria esse debent. Hoc autem breuiter dialecticorum more protulit, qui sit enuntiaut: si dies est, lucet. At quod primum est, id autem tantumdem est ac si dicatur, atqui dies est. In propositione enim quae est, si dies est, lux est, prior est propositio, dies est. Concludunt quod sequitur, igitur, id est, esse lucem. Id enim in prima parte propositionis, quae erat, si dies est, sequebatur. Igitur hic quoque Cicero sic protulit: Atqui primum est, id est, consilio et auxilio iuuare ciues aequa in laude esse ponendum, id enim erat primum in ea propositione quae dicebat si consilio et auxilio ciues iuuare aequa in laude poneretur, pari gloria esse oratores iurisque consultos. Quod sequitur igitur, id est, pari gloria debent esse qui consulunt ac defendunt; id enim erat consequens in ea propositione quae statuebat: Si consilio et auxilio ciues iuuare par esset, pares esse qui consulunt ac deltendunt.  PERFECTA EST OMNIS ARGUMENTORUM INUENIENDORUM PRAECEPTIO, UT, CUM PROFECTUS SIS A DEFINITIONE, A PARTITIONE, A NOTATIONE, A CONIUGATIS, A GENERE, A FORMIS, A SIMILITUDINE, A DIFFERENTIA, A CONTRARIIS, AB ADIUNCTIS, A CONSEQUENTIBUS, AB ANTECEDENTIBUS, A REPUGNANTIBUS, A CAUSIS, AB EFFECTIS, A COMPARATIONE MAIORUM MINORUM PARIUM, NULLA PRAETEREA SEDES ARGUMENTI QUAERENDA SIT. Tametsi ex his quae dicta sunt intelligatur nullum argumenti locum esse praeteritum, breuiter tamen Ciceronis conclusionem, qua se nihil omisisse commemorat, ad ampliorem doctrinae fidem approbandam reor, in his enim nihil omnino praetermittitur quae certa ratione tractantur. Nulla uero certior ratio diuisione; quod enim quisque partitur a communibus in particularia deducens, cum rectum iter insistat, labi atque in errorem duci noo potest. Locorum igitur omnium prima diuisio fuit in ea quae in ipsis haererent, et ea quae assumerentur extrinsecus. Cuius diuisionis nihil medium reperiri potest: aut enim in ipso est aliquid de quo quaeritur, aut extrinsecus nec esse est assumatur. Videamus igitur nunc quemadmodum disputatio per nihil omittentem diuisionem feratur.  Eorum igitur locorum, qui in ipsis sunt de quibus agitur, nunc ex toto, nunc ex partibus, nunc ex uocabulo, nunc ex adectis sumitur argumentum. In his igitur quoniam nihil relictum sit perspicue apparet; in eo enim quod coniunctum est, duplex discretio est: una ex eo ipso quod formatum est atque compositum, quod totum est, in quo etiam definitiones adhibentur: alia in eius partibus inspiciendis, ex quibus compositi forma coniuncta est. Sed quoniam natura hominum id quod intelligit, uoce saepius prodit, nec esse est ut nomen quoque quod ad intellectus declarationem adhibetur, ostendat aliquam rei quam significat proprietatem, intellectus quippe, qualitatem rei quam intelligit, significat. Quocirca nomen quoque intellectus qualitatem designat. Iure igitur dictum est proprietatem quamdam rei uocabulo significari, atque ita ex eo trahi argumentum potest, quod uocatur a nota. (Horum uero locorum alias partitiones dedit, quas paulo post breuius colligemus.)  Affecta uero, quae, ut superius dictum est, in relatione consistunt, ipsa etiam rite diuisa sunt. Nam quae referuntur ad aliquid, aut substantialia sunt, aut accidentia. Substantialia, ut coniugata, nam iusto, in eo quod iustus est, iustitia substantiam facit. Nec id dico, quod homini esse ex iustitia conslituatur sed iusto, qui iustitia discedente corrumpitur. Similis et de eo quod est iuste aduerbio, ratio est. Est etiam substantiale, genus, species, differentia, causa, effectus. Accidentia, ut contrarium, simile, adiunctum, paria, maiora, minora. Consequentia uero atque repugnantia, quoniam, ut superius dictum est, in conditione posita sunt, nunc substantialia reperiuntur, nunc uero in accidentibus considerantur. Substantialia, ut cum genus antecedit speciem; accidentia, ut cum nigredo praecedentem sequitur coruum, quanquam etiam in causis aliquae accidentes esse possint. De quarum omnium proprietatibus Tullius supra disseruit.  Atque ut breuissima descriptione tota locorum diuisio colligatur, erit hoc modo: Omne argumentum aut ex his locis ducitur qui in ipso de quo quaeritur inhaerent, aut ex his quae extrinsecus assumuntur. Is uero locus qui in ipsis de quibus ambigitus positus est, diuiditur in eum locum qui est ex toto, et in eum qui est ex partibus, et in eum qui est ex nota, et in eum qui est ab affectis. Is autem qui a toto est, a definitione locus uocatur. Definitionum uero aliae sunt propriae, aliae non propriae. Non propriarum uero aliae sunt quae singulis nominibus denotantur, aliae quae oratione panduntur. Earum uero quae singulis nominibus fiunt, aliae sunt in quibus pro nomine redditur nomen, quae dicununtur *kat' antilexin*, aliae quae exempli gratia nomen subiiciunt, quae dicuntur *hos typos*. Earum uero quae oratione declarantur, aliae fiunt a partitione, aliae a diuisione, aliae a differentiis praeter genus, quae *ennoematike* dicitur; aliae quae ex pluribus qualitatibus fiunt, etiam singulis totum id significantibus, quod omnis qualitatum collectio declarat, quae uocantur *poiotes*; aliae quae ex accidentibus, non singulis sed cunctis unum aliquid efficientibus constant; aliae quae ad differentiani dantur; aliae per translationem, aliae quae ex priuatione contrarii, aliae quae propriis nominibus aptantur quae etiam *hypotyposeis* dicuntur; aliae per indigentiam pleni, aliae per proportionem, aliae per relationem, aliae per causam. Item alia definitionis diuisio secundum Tullium principalis, quod aliae corporalium rerum sint, aliae incorporalium, et definitionis quidem locus ita diuisus est.  A partibus autem locus diuiditur in partitionem et diuisionem. A nota uero locus simplex est. Ab affectis autem, alii sunt a coniugatis, aliia genere, alii a forma, alii a simili, alii a differentia, alii a contrariis, alii ab adiunctis, alii a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, alii a causa, alii ab effectis, alii a comparatione parium, maiorum uel minorum.  Genus uero diuiditur in suprema genera, et in ea quae etiam species esse possunt. Species quoque diuiditur in ultimas species et in ea quae etiam genera esse possunt. Similium quoque alia in singulis considerantur, et uocantur exempla, alia in pluribus, et appellatur inductio; alia in coniunctis, et uocatur proportio. Item differentiarum aliae sunt substantiales, aliae, etsi non substantiales, inseparabiles tamen, aliae neque substantiales neque inseparabiles. Contrariorum alia dicuntur aduersa, alia priuantia, alia negantia, alia relatiua. Adiunctorum uero alia sunt quae ante rem existunt, alia quae cum re, alia  uero post rem. Locus uero conditionalis diuiditur in antecedens, consequens et repugnans.  Causarum quoque multiplex locus est: aliae namque sunt quae ui sua efficiunt, aliae sine quibus effici non potest. Earum uero quae ui sua efficiunt, aliae sunt necessariae nihilo indigentes ut efficiant, aliae uero indigentes ut efficiant, alis? uero indigentes et non necessariae.  Earum uero sine quibus non efficitur, aliae sunt mobiles, aliae immobiles. Item causarum aliae sunt non spontaneae, aliae ex uoluntate, alia, ex perturbatione, aliae ex habitu, alia ex natura, aliae ex arte, aliae ex casu. Rursus causarum aliae sunt constantes, aliae inconstantes. Amplius, causarum aliae sunt uoluntariae, aliae ignoratae. Ignoratarum pars in casu, pars in necessitate est constituta. Necessariarum pars in ui, pars in scientia posita est.  Effecta uero in tantum diuidi possunt, in quantum ad superius dictas causas referuntur.  Locus uero a comparatione minorum, parium atque maiorum, diuiditur innumerum, speciem, uim, ad res alias affectionem.  Quae cum ita sint, cumque nihil sit in diuisione praetermissum, recte M.  Tullius partitione in conclusit, dicens nullam argumenti sedem esse praeteritam. Restat igitur locus qui extrinsecus sumitur, quem, quoniam nihil iurisconsultis est utilis, non Trebatii causa sed ne quid perfecto operi deesse uideatur, adiungit.  SED QUONIAM ITA A PRINCIPIO DIVISIMUS, UT ALIOS LOCOS DICEREMUS IN EO IPSO DE QUO AMBIGITUR HAERERE, DE QUIBUS SATIS EST DICTUM, ALIOS ASSUMI EXTRINSECUS, DE EIS PAUCA DICAMUS, ETSI EA NIHIL OMNINO AD VESTRAS DISPUTATIONES PERTINENT; SED TAMEN TOTAM REM EFFICIAMUS, QUANDOQUIDEM COEPIMUS. NEQUE ENIM TU IS ES QUEM NIHIL NISI IUS CIVILE DELECTET, ET QUONIAM HAEC ITA AD TE SCRIBUNTUR, UT ETIAM IN ALIORUM MANUS SINT VENTURA, DETUR OPERA, UT QUAM PLURIMUM EIS QUOS RECTA STUDIA DELECTANT PRODESSE POSSIMUS.  Ne locus nihil iuris perito profuturus negligentiam sui faceret, Trebatium ut in prooemio magnus orator reddit attentum; ait enim ita sese diuisisse in principio, ut; alios locos in ipsis haerere diceret, de quibus ageretur, alios extrinsecus assumi, et eum de superioribus locis idonee disputatum sit, intractatam reliquam partem non oportere praeteriri. Neque enim hunc esse Trebatium, qui sua arte contentus, caeterorum studia negligat, uerum diligentia atque ingenio plurimum ualens, cuncta ad se pertinere ducat, quae liberalibus studiis annumerentur: simul dandam esse operam dicit, queniam beneuolo animo Ciceronis opus Trebatius esset editurus, ut cum in multorum manus uenisset, prodesse iis integrum posset, qui rectis studiis tenerentur, hoc quoque Trebatio beneficii nomine concedens, quod ad eum scripta, et per eum edita plurimis profutura conscriberet. HAEC ERGO ARGUMENTATIO, QUAE DICITUR ARTIS EXPERS, IN TESTIMONIO POSITA EST. TESTIMONIUM AUTEM NUNC DICIMUS OMNE QUOD AB ALIQUA RE EXTERNA SUMITUR AD FACIENDAM FIDEM...  Extrinsecus positum argumenti locum, quem M. Tullius uocat artis expertem, in testimonio positum esse pronuntiat.  Dubitari autem potest quid hic locus a superioribus differat, quos in affectis locauit. Nam uti affecta semper in relatione sunt constituta, ita etiam testimonia ad ea quorum sunt testimonia referuntur. Omne enim testimonium testatae rei testimonium est. Quocirca, cur aut ea quae affecta dudum uocata sunt, non extrinsecus collocentur, aut ea quae nunc uocantur extrinsecus non inter affecta ponantur, quaeri potest, cum praesertim ea quae adiuncta esse negotio superius diximus, ueluti quoddam testimonium saepe rebus afferant, cum ex eorum quae praecesserunt, uel consecuta sunt signis, quod gestum si considerari solet.  Quorum omnium communis illa solutio est, quod ex affectis argumenta quae fiunt, ab oratore inueniuntur, eiusque opera atque industria nascuntur. Ea uero quae extrinsecus posita sunt, rei tantum testimonium prrebent, non enim inueniantur ab oratore sed his orator utitur positis atque ante constitutis. Namque a genere, uel a specie, uel a caeteris affectis argumenta sunt, ab ipso quodammodo oratore reperiuntur. Testimonia uero sibi ipse non efficit sed ad causam utitur ante praeparatis. Quo fit ut argumenta ex affectis in eausa statim atque ex tempore nascantur; ea uero quae in testimoniis posita sunt, ante rem praecurrentia confirmando usum negotio posterius praestent, et in adiunctis ab oratore coniectura colligitur, et auditorum mentibus intimatur. Testimonia uero non in coniecturio, aut in suspicionibus sed in rei gestae narratione consistunt.  Ostendit autem uehementius quid esset testimonium, cum dicit, id a se testimonium uocari quod ab aliqua externa re sumitur. Omnia quippe affecta, ab eis ad quae affecta sunt, non uidentur externa. Testis uero cum re testificata nulla cognatione coniungitur, nisi sola notitia, quae nihil ad rem quae gesta est attinet, cum si gestum negotium nullus agnosceret, nihilominus tamen gesta res esset; sed id poterit etiam ad similitudinem duci, quid enim minus esset aliquid, si ei simile nihil reperiretur? Sed quod simile est, ei cui simile est eadem qualitate coniungitur, quae qualitas utrumque conformat. Scientia uero quamuis efficiat testem, nulla tamen qualitate coniungitur cum re cuius illa notitia est. Neque enim scientis notitia, rei gestae qualitas dici potest, cum si notitia, qualitas rei posset intelligi, pereuntibus his qui rem norunt, res uel interiret, uel mutaretur, quod neutrum euenire rec esse est, quandoquidem, absumptis scientibus, res ignorata poterit permanere.  PERSONA AUTEM NON QUALISCUMQUE EST TESTIMONI PONDUS HABET; AD FIDEM ENIM FACIENDAM AUCTORITAS QUAERITUR; SED AUCTORITATEM AUT NATURA AUT TEMPUS AFFERT. NATURAE AUCTORITAS IN VIRTUTE INEST MAXIMA; IN TEMPORE AUTEM MULTA SUNT QUAE AFFERANT AUCTORITATEM: INGENIUM OPES AETAS [FORTUNA] ARS USUS NECESSITAS, CONCURSIO ETIAM NON NUMQUAM RERUM FORTUITARUM. NAM ET INGENIOSOS ET OPULENTOS ET AETATIS SPATIO PROBATOS DIGNOS QUIBUS CREDATUR PUTANT; NON RECTE FORTASSE, SED VULGI [1168A] OPINIO MUTARI VIX POTEST AD EAMQUE OMNIA DIRIGUNT ET QUI IUDICANT ET QUI EXISTIMANT. QUI ENIM REBUS HIS QUAS DIXI EXCELLUNT, IPSA VIRTUTE VIDENTUR EXCELLERE.  SED RELIQUIS QUOQUE REBUS QUAS MODO ENUMERAVI QUAMQUAM IN HIS NULLA SPECIES VIRTUTIS EST, TAMEN INTERDUM CONFIRMATUR FIDES, SI AUT ARS QUAEDAM ADHIBETUR -- MAGNA EST ENIM VIS AD PERSUADENDUM SCIENTIAE -- AUT USUS; PLERUMQUE ENIM CREDITUR EIS QUI EXPERTI SUNT.  FACIT ETIAM NECESSITAS FIDEM, QUAE TUM A CORPORIBUS TUM AB ANIMIS NASCITUR. NAM ET VERBERIBUS TORMENTIS IGNI FATIGATI QUAE DICUNT EA VIDETUR VERITAS IPSA DICERE, ET QUAE PERTURBATIONIBUS ANIMI, DOLORE CUPIDITATE IRACUNDIA METU, QUIA NECESSITATIS VIM HABENT, AFFERUNT AUCTORITATEM ET FIDEM.  CUIUS GENERIS ETIAM ILLA SUNT EX QUIBUS VERUM NON NUMQUAM INVENITUR, PUERITIA SOMNUS IMPRUDENTIA VINOLENTIA INSANIA. NAM ET PARVI SAEPE INDICAVERUNT ALIQUID, QUO ID PERTINERET IGNARI, ET PER SOMNUM VINUM INSANIAM MULTA SAEPE PATEFACTA SUNT. MULTI ETIAM IN RES ODIOSAS IMPRUDENTER INCIDERUNT, UT STAIENO NUPER ACCIDIT, QUI EA LOCUTUS EST BONIS UIRIS SUBAUSCULTANTIBUS PARIETE INTERPOSITO, QUIBUS PATEFACTIS IN IUDICIUMQUE PROLATIS ILLE REI CAPITALIS IURE DAMNATUS EST. [HUIC SIMILE QUIDDAM DE LACEDAEMONIO PAUSANIA ACCEPIMUS.]  [20.76] CONCURSIO AUTEM FORTUITORUM TALIS EST, UT SI INTERVENTUM EST CASU, CUM AUT AGERETUR ALIQUID QUOD PROFERENDUM NON ESSET, AUT DICERETUR. IN HOC GENERE ETIAM ILLA EST IN PALAMEDEM CONIECTA SUSPICIPNUM PRODITIONIS MULTITUDO; QUOD GENUS REFUTARE INTERDUM VERITAS VIX POTEST. Quoniam locum artis expertem in testimonio positum esse dixit, in testimoniis uero personarum fidem suam interponentium auctoritas quaeritur, necessarium fuit, quibus rebus fieri soleat auctoritas, expedire. Ac caetera quidem clarissime atque apertissime dicta sunt. Sed quonium auctoritatem in naturam tempusque diuisit, cumque in tempore, ingenium, opes, aetatem, fortunam, artem, usum, necessitatem, concursionem etiam nonnunquam rerum fortuitarum locauit, quaeri potest: Quid enim attinet ad tempus ingenium? quid ars? quid usus? Nam aetus atque opes, fortuna et fortuitarum rerum concursio subiecta sunt tempori, quoniam unumquodque eorum uariis temporum uicibus permutatur. Ingenium uero naturae potius oportuit attribui artem atque usum tertium quiddam, quoniam neque tempori neque naturae subiiciuntur. Quanquam uirtus quoque ipsa, quam M. Tullius in naturae ratione constituit quibusdam non naturalis sed tum doctrina, tum recta exercitatione uiuendi uideatur ascita.  Sed haec ita intelligenda diuisio est, quod omnis auctoritas aut ex magnis atque excellentibus rebus et per naturam optimis uenit, aut ab his quae inferiore loco sunt constituta, fidem non ex naturae qualitate sed ex uulgo insitis opinionibus capit. Et maximas quidem excellentesque res in natura constituit, quae semper, ut ipse Tullius multis in locis defendit, boni est appetens. At uero quae posteriora sunt, in tempore posuit, idcirco quod omnia tempori subiecta, principalis boni non retinent statim. Virtus quidem in deterius flecti non potest. Ingenium uero atque opes, fortuna et ars atque usus saepe non recta exercitatione deprauantur. Nam quidquid horum fuerit a uirtute seiunctum, dignitatem uerae laudis anmittit.  Et de uirtute quidem distulit dicere. Posteriorem uero partem, id est in tempore positae auctoritatis diuisit et euidentissimis patefecit exemplis. Nam et ingeniis fides adest, atque ex ea praesto est auctoritas plurima. Eos quippe sapientius loqui homines credunt, quorum ingenium ad expedienda quts proposuerint, sufficit. Opibus quoque praepollentes, dignos fide iudicant, fortuna quoque et dignitate praeclaris, maiestatem auctoritatis impertiunt, non recte fortasse; sed et iudicium in negotiis, et existimatio uitae, opinione hominum maxime continetur, quae quia mutari uix potest, ad eam cuncta diriget, eaque sibi tractanda regendaque proponet orator. Ars etiam atque usus plurimum ualent. In utrisque enim fidem notitia facit.  Necessitas quoque, quasi id quod latebat, extorquens, auctoritate subnixa est, quae tum ab animo, tum a corporibus uenit: a corporibus, cum igni, ferro ac uerberibus uerum quod latet aperitur; ab animo, cum mens quadam perturbationis uel ignoranti; e necessitate confunditur. Tunc enim quid dici, quid taceri debeat, minime distinguens, uerum quod occultum erat, prodit atque effundit in lucem. Nam iracundia saepe, et quaelibet animi perturbatio, quod occultandum foret, haud continet, quae idcirco habet auctoritatem ad fidem, quia simpliciter prodita sunt, nec ulla calliditatis arte prolata. Quin etiam ignorantia puerorum, uinolentia, somnus quaedam saepe produxit in medium, in quibus si iudicium fuisset ullum, prolata non essent. Saepe etiam homines praeter ullam animi perturbationem imprudentes propria confessione obligati sunt, dum cuncta simpliciter effundunt, quae sibi nocitura non existimant, ut Staterio euenisse proposuit, qui interposito pariete testibus audientibus ea confessus est, ignorane se ab insidiantibus audiri, quibus uulgatis in iudiciumque prolatis, capitali sententia condemnatus est. Atque haec quidem ignorantia in necessitate constituta est; nam qui nescit id quod ignorat, ne si uelit quidem poterit euitare; quae autem necessitas extorquet, ipso quodammodo uidetur ueritas dicere, atque ideo eis ueluti auctoritate subuixis fides adhibetur.  Concursio etiam rerum fortuitarum facit fidem, quae cum aliquoties falsa designet, tamen ita est uehemens, ut se ab ea ueritas explicare uix possit. Quale est quod de Palamede narratur. Phryx exstinctus, qui quasi a Priamo missus uideretur, repertae Priami litterae Phrygia manus imitata, quae concurrentia fidem lucerent proditionis. Hinc dicit Cicero: TALIS ETIAM FORTUITARUM RERUM CONCURSIO EST. CAETERA DESUNT. Primum dicendum circa quid et de quo est intentio, quoniam circa demonstrationem et de disciplina demonstrativa est. Deinde determinandum quid propositio, et quid terminus, quid syllogismus, quis perfectus, et quis imperfectus. Postea vero quid est in toto esse, vel non esse hoc in illo, et quid dicimus de omni, aut de nullo praedicari. Propositio ergo est oratio affirmativa, vel negativa alicuius de aliquo. Haec autem aut universalis, aut particularis, aut indefinita. Dico autem universalem quidem, cum aliquid omni, aut nulli inesse; particularem vero, cum alicui, aut non alicui, aut non omni inesse. Indefinitam autem, cum quid inesse, vel non inesse significat, sive universali, vel particulari, ut contrariorum eamdem esse disciplinam, aut voluptatem non esse bonum. Differt autem demonstrativa propositio A dialectica, quoniam demonstrativa quidem sumptio alterius partis contradictionis est. Non enim interrogat, sed sumit, qui demonstrat. Dialectica vero interrogatio contradictionis est. Nihil autem refert ut fiat ex utraque syllogismus; nam et qui demonstrat, et qui interrogat, syllogizat, sumens aliquid de aliquo esse, vel non esse. Quare erit syllogistica quidem propositio, simpliciter affirmatio vel negatio alicuius de aliquo secundum dictum modum. Demonstrativa vero si vera sit, et per primas propositiones sumpta. Dialectica autem percontanti quidem interrogatio contradictionis est, syllogizanti vero sumptio apparentis et probabilis, quemadmodum in Topicis dictum est. Quid est ergo propositio, et quid differt syllogistica A demonstrativa et dialectica, diligentius quidem in sequentibus dicetur. Ad praesentem vero utilitatem, sufficienter nobis determinata sint, quae nunc dicta sunt. Terminum autem voco, in quem resolvitur propositio, ut praedicatum, et de quo praedicatur, vel apposito, vel separato esse, vel non esse. Syllogismus est oratio in qua, quibusdam positis, aliud quiddam ab his quae posita sunt ex necessitate accidit, eo quod haec sunt. Dico autem eo quod haec sunt, propter haec accidere. Propter haec vero accidere, est nullius extrinsecus termini indigere, ut fiat necessarium. Perfectum vero voco syllogismum, qui nullius alius indiget, praeter ea quae sumpta sunt, ut appareat necessarium. Imperfectum vero, qui indiget aut unius aut plurium, quae sunt quidem necessaria per subiectos terminos, non autem sumpta sunt per propositiones. In toto autem esse alterum in altero, et de omni praedicari alterum de altero idem est. Dicimus autem de omni praedicari, quando nihil est sumere subiecti, de quo non dicatur alterum, et de nullo similiter. Quoniam autem omnis propositio est, aut de inesse, aut ex necessitate inesse, aut contingere inesse; harum autem, hae quidem affirmativae, illae autem negativae secundum unamquamque appellationem; rursus autem affirmativarum et negativarum, aliae sunt universales, aliae particulares, aliae indefinitae: universalem quidem privativam de eo quod est inesse, necesse est in terminis converti. Ut si nulla voluptas est bonum, neque bonum nullum, erit voluptas. Praedicativam autem converti quidem necessarium est, non tamen universaliter, sed in parte, ut, si omnis voluptas est bonum, et bonum aliquod voluptas. Particularem autem affirmativam quidem converti necesse est particulariter. Nam si voluptas aliqua, bonum, et bonum aliquod erit voluptas. Privativam vero non est necessarium. Non enim si homo non inest alicui animali, et animal non inest alicui homini. Primum ergo sit privativa universalis A B propositio, si ergo nulli B inest A, neque A nulli inerit B. Nam si alicui inest ut C, non verum erit nullum B esse A. Nam C eorum quae sunt B aliquod est. Si vero omni B inest A, et B alicui A inest, nam si nulli, neque A nulli B inerit, sed positum erat omni inesse. Similiter autem et si particularis est propositio, nam si inest A alicui B, et B alicui eorum quae sunt A necesse est inesse; si enim nulli, nec A nulli inerit B. Si autem A alicui eorum quae sunt B non inest, non necesse est et B alicui A non inesse, ut si B quidem sit animal, A vero homo, homo enim non omni animali, animal vero omni homini inest. Eodem autem modo se habebit in necessariis propositionibus, nam universalis quidem privativa universaliter convertitur. Affirmativarum autem utraque particulariter. Nam si necesse est A nulli B inesse, necesse est et B nulli A inesse; si enim alicui contingit, et A alicui B continget. Si autem ex necessitate A omni vel alicui B inest, et B alicui A necesse est inesse, nam si non ex necessitate inest, neque A alicui B ex necessitate inerit. Particularis vero privativa non convertitur, propter eamdem causam, propter quam et supra diximus. In contingentibus vero, quoniam multipliciter dicitur contingere, nam et necessarium, et non necessarium, et possibile contingere dicimus; in affirmativis quidem, similiter se habebit secundum conversionem in omnibus. Nam si A omni aut alicui B contingit, et B alicui A contingit, si enim nulli, nec A nulli B, ostensum est enim hoc prius. In negativis vero non similiter, sed quaecunque quidem contingere dicuntur, ex eo quod ex necessitate non insunt, vel in eo quod non ex necessitate insunt similiter. Ut si quis dicat hominem contingere non esse equum, aut album nulli tunicae inesse. Horum enim hoc quidem ex necessitate inest, illud vero non ex necessitate inest, et similiter convertitur propositio. Nam si contingit nulli homini equum inesse, et hominem contingit nulli equo inesse, et si album contingit nulli tunicae, et tunica contingit nulli albo, si enim alicui necessario, et album tunicae alicui inerit ex necessitate, hoc enim ostensum est prius. Similiter autem et in particulari negativa. Quaecunque vero ut in pluribus, et in eo quod nata sunt dicuntur contingere secundum quem modum determinamus contingens, non similiter se habebit in privativis conversionibus. Sed et universalis quidem privativa propositio non convertitur, particularis vero convertitur. Hoc autem erit manifestum quando de contingenti dicemus. Nunc autem nobis tantum sit cum iis quae dicta sunt, manifestum, quoniam contingere nulli aut alicui non inesse affirmativam habet figuram, nam et contingit ipsi est similiter ordinatur. Est autem, quibuscunque adiacens praedicatur, affirmationem semper facit, et omnino, ut: est non bonum, vel est non album, vel simpliciter, est non hoc. Ostendetur autem et hoc per sequentia, secundum conversiones autem similiter se habebunt in aliis. His vero determinatis dicemus iam per quae et quando et quomodo fit omnis syllogismus, postea vero dicendum de demonstratione. Prius enim de syllogismo dicendum quam de demonstratione, eo quod universalior est syllogismus, nam demonstratio quidem syllogismus quidam est; syllogismus vero non omnis demonstratio. Quando igitur tres termini sic se habent ad invicem, ut et postremus sit in toto medio, et medius in toto primo vel sit, vel non sit, necesse est extremitatum perfectum esse syllogismum. Voco autem medium quod et ipsum in alio, et aliud in ipso est, quod et positione medium est; extrema vero quod et ipsum in alio, et in quo aliud est. Si enim A de omni B, et B de omni C, necesse est A de omni C praedicari. Prius enim dictum est quomodo de omni dicimus. Similiter autem et si A de nullo B, B autem de omni C, quoniam A nulli C inerit. Si autem primum quidem omni medio consequens est, medium vero nulli postremo, non erit syllogismus extremitatum. Nihil enim necessarium accidit, eo quod haec sunt, nam et omni et nulli contingit primum postremo inesse, quare neque particulare, neque universale fit necessarium. Cum autem nihil est necessarium, per haec non erit syllogismus. Termini vero eius quod est omni inesse, animal, homo, equus; eius vero quod est nulli, animal, homo, lapis. Quando vero nec primum medio, nec medium postremo ulli inest, nec sic erit syllogismus. Termini vero ut inesse, scientia, linea, medicina; ut non inesse, scientia, linea, unitas. Universalibus igitur existentibus terminis, manifestum est in hac figura quando erit, et quando non erit syllogismus, et quoniam cum est syllogismus, necessarium est terminos sic se habere, ut diximus, et sic se habens manifestum quoniam erit syllogismus. Si autem hic quidem terminorum universaliter, alius vero particulariter ad alium, quando universale quidem ponitur ad maiorem extremitatem vel praedicativum, vel privativum, particulare vero ad minorem praedicativum, necesse est syllogismum esse perfectum. Quando vero ad minorem vel quolibet modo aliter se habeant termini, impossibile est. Dico autem maiorem extremitatem quidem in qua medium est, minorem vero, quae sub medio est.  Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo si est de omni praedicari, quod in principio dictum est, necesse est A alicui C inesse. Et si A quidem nulli B inest, B vero alicui C, necesse est A alicui C non inesse, determinatum est enim et de nullo, quomodo dicimus, quare erit syllogismus perfectus. Similiter autem et si indefinitum sit B C praedicativum, nam idem erit syllogismus indefinito et particulari sumpto. Si autem ad minorem extremitatem universale ponatur vel praedicativum, vel privativum, non erit syllogismus neque cum affirmativa, neque negativa, neque indefinita, neque particularis sit, ut si A quidem alicui B inest, vel non inest, B autem omni C inest. Termini ut inesse, bonum, habitus, prudentia; ubi non inesse, bonum, habitus, indisciplina. Rursum si B quidem nulli C, A vero alicui B inest, vel non inest, vel non omni inest, nec sic erit syllogismus. Termini omni inesse, album, equus, cygnus; nulli inesse, album, equus, corvus. Idem autem et si A B indefinitum sit. Nec quando ad maiorem extremitatem quidem universale ponatur vel praedicativum, vel privativum, ad minorem vero particulare privativum, non erit syllogismus vel indefinito, vel particulari sumpto. Velut si A quidem omni B inest, B autem alicui C non inest, vel non omni inest. Cui enim alicui non inest medium, hoc omne et nullum sequatur primum.Ponantur enim termini, animal, homo, album, deinde et de quibus albis non praedicatur homo, sumantur cygnus et nix; ergo animal de uno quidem omni praedicatur, de altero vero nullo, quare non erit syllogismus. Rursum A quidem nulli B insit, B autem alicui C non insit, et sint termini, inanimatum, homo, album, deinde sumantur alba, de quibus non praedicatur homo, cygnus et nix; nam inanimatum de hoc quidem omni praedicatur, de illo vero nullo. Amplius: quoniam indefinitum est alicui eorum quae sunt C non inesse B, verum est autem et nulli inest, et si non omni, quoniam alicui non inest, sumptis autem his terminis velut nulli inesse, non fit syllogismus (hoc enim dictum est prius) manifestum; ergo est quoniam in eo quod sic se habent termini non erit syllogismus, esset enim et in his. Similiter autem ostendetur, et si universale ponatur privativum. Neque enim si ambo intervalla particularia praedicative, vel privative dicantur, aut hoc quidem praedicativum, illud vero privativum, vel hoc quidem indefinitum, illud vero definitum, vel ambo indefinita, non erit syllogismus nullo modo. Termini vero communes omnium, animal, album, equus, animal, album, lapis. Manifestum est igitur ex iis quae dicta sunt quoniam si sit syllogismus in hac figura particularis, quoniam necesse est terminos sic se habere, ut diximus. Aliter enim se habentibus, nullo [modo] fit. Palam autem quoniam omnes qui in hac sunt syllogismi perfecti sunt, omnes enim perficiuntur per ea quae ex principio sumuntur, et quoniam omnia problemata ostenduntur per hanc figuram: etenim omni et nulli, alicui et non alicui inesse. Voco autem huiusmodi figuram, primam. Quando vero idem huic omni quidem, illi vero nulli inest, vel utique omni, vel nulli, figuram quidem huiusmodi voco secundam. Medium autem in hac dico quod de utraque praedicatur; extremitates vero de quibus dicitur hoc, maiorem quidem extremitatem, quae iuxta medium posita est, minorem vero, quae longius sita est A medio. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, primum vero positione. Perfectus igitur non erit syllogismus nullo modo in hac figura, possibile vero erit et universalibus, et non universalibus existentibus terminis. Universalibus igitur terminis erit syllogismus, quando medium huic quidem omni, illi vero nulli inerit, etsi ad utrumvis sit privativum, aliter vero nullo modo. Praedicetur enim M de N quidem nullo, de O vero omni, quoniam igitur convertitur privativa, nulli M inerit N, at M omni O supponebatur, quare N nulli O inerit: hoc enim ostensum est prius. Rursum si M N quidem omni inest, O vero nulli, neque N O nulli inerit. Nam si M nulli O, neque O nulli N inerit, at vero M omni N inerat, quare O nulli inerit. Facta est enim rursum prima figura. Quoniam autem convertitur privativum, neque N nulli O inerit, quare erit idem syllogismus, est autem ostendere haec et ad impossibile ducentes. Quoniam ergo fit syllogismus sic se habentibus terminis manifestum, sed non perfectus, non enim solum ex iis quae ab initio sumpta sunt, sed ex aliis perficitur necessarium. Si autem M de omni N et O praedicetur, non erit syllogismus. Termini inesse, substantia, animal, ratio; non inesse, substantia, animal, lapis, medium, substantia.Nec quando de N nec de O nullo praedicatur M. Termini inesse, linea, animal, homo; non inesse, linea, animal, lapis. Manifestum ergo quoniam si fit syllogismus ex universalibus terminis, necesse est terminos sic se habere, ut in principio diximus. Aliter enim se habentibus terminis non fit conclusio necessaria.Si autem ad alterum sit universaliter medium, quando ad maius quidem fuerit universaliter vel praedicative, vel privative, ad minus autem et particulariter, et oppositae universali (dico autem oppositae, si universale quidem privativum particulare praedicativum, vel si universale praedicativum, particulare privativum), necesse est syllogismum fieri privativum particulariter. Nam si M nulli quidem N, O autem alicui inest, necesse est N alicui O non inesse. Quoniam enim convertitur privativum, nulli M inerit, N M vero supponebatur alicui O inesse, quare N alicui eorum quae sunt O non inerit. Fit enim syllogismus per primam figuram. Rursus si N quidem omni M, O vero alicui non inest, necesse est N alicui O non inesse. Nam si O omni inest N, praedicatur autem et M de omni N, necesse est M omni O inesse, supponebatur autem alicui non inesse. Et si M N omni quidem inest, O autem non omni, erit syllogismus, quoniam non omni O inest N. Demonstratio autem eadem. Si autem de O quidem omni, de N vero non omni praedicatur M, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, substantia, corvus. Non inesse, animal, album, corvus. Nec quando de O quidem nullo, de N vero aliquo. Termini inesse, animal, substantia, lapis. Non inesse, animal, substantia, scientia. Quando igitur oppositum est universale particulari, dictum est quando erit, et quando non erit syllogismus. Quando autem similis figurae fuerint propositiones, ut ambae privativae vel affirmativae, nullo modo erit syllogismus. Sint enim primum privativae, et universale ponatur ad maiorem extremitatem, ut M N quidem nulli, O autem alicui non insit: contingit ergo et omni, et nulli O inesse N. Termini quidem nulli inesse, nigrum, nix, animal. Omni vero inesse, non est sumere, si M alicui quidem O inest, alicui autem non. Nam si omni O inest N, et M nulli, N etiam M nulli O inerit; sed positum erat alicui inesse, non igitur sic sumere contingit terminos. Ex indefinito autem ostendendum est. Quoniam enim verum est M non inesse alicui O, et si nulli inest, nulli vero cum insit non erit syllogismus, manifestum quoniam neque nunc erit. Rursum si praedicativae, et universale ponatur similiter, ut M omni quidem N, O autem alicui insit, contingit ergo et omni, et nulli O inesse. Termini nulli inesse, album, cygnus, lapis. Omni vero non erit sumere terminos, propter eamdem causam quam et prius, sed ex indefinito monstrandum est. Si autem universale ad minorem extremitatem est, et M O quidem nulli, N vero alicui non inest, contingit N, et omni et nulli O inesse. Termini inesse, album, animal, corvus; non inesse, album, lapis, corvus. Similiter autem et si praedicativae fuerint propositiones. Termini non inesse, album, animal, nix; inesse, album, animal, cygnus. Manifestum est igitur quoniam si similis figurae sint propositiones, et haec quidem universalis, illa vero particularis, quoniam nullo modo fit syllogismus. Sed nec si alicui, utrique inest, vel non inest, vel huic quidem inest, illi vero non, vel neutri omni, vel indefinitae. Termini autem communes omnium, album, animal, homo, album, animal, inanimatum. Manifestum est igitur ex praedictis quoniam si sic se habent termini ad invicem, ut dictum est, fit syllogismus ex necessitate, et si fit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Palam autem et quoniam omnes imperfecti sunt, qui in hac figura sunt syllogismi; omnes enim perficiuntur assumptis quibusdam, quae vel insunt terminis ex necessitate, vel ponuntur velut hypotheses, ut quando per impossibile ostendimus. Et quoniam non fit affirmativus syllogismus per hanc figuram, sed omnes privativi, et universales, et particulares. Si autem eidem hoc quidem omni, illud vero nulli inest, vel ambo omni vel nulli, figuram quidem huiusmodi voco tertiam. Medium autem in hac dico, quo ambo praedicamus; extremitates vero, quae praedicantur; maiorem autem extremitatem, quae longius est medio; minorem vero, quae propius. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, ultimum vero positione est. Perfectus igitur non fit syllogismus, nec in hac figura, possibilis vero erit et universaliter, et non universaliter terminis existentibus ad medium. Universaliter quidem quando et p et r inerunt omni s, quoniam alicui r inerit p ex necessitate, nam quoniam convertitur praedicativa, inerit s alicui r. Quare quoniam p inest omni s, et s alicui r, necesse est p alicui r inesse. Fit enim syllogismus per primam figuram. Est autem et per impossibile, et expositione facere demonstrationem: si enim ambo omni s insunt, si sumatur aliquod eorum quae sunt s, ut N huic et p et r inerunt ex necessitate, quare alicui r inerit p. Et si r omni quidem s, p autem nulli s inest, erit syllogismus, quoniam p alicui r non inerit ex necessitate. Nam idem modus erit demonstrationis, conversa r s propositione. Ostendetur autem et per impossibile, quemadmodum in prioribus. Si autem insit r, s quidem nulli, p vero omni s, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, equus, homo; non inesse, animal, inanimatum, homo, neque quando ambo de nullo s dicuntur, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, equus, inanimatum; non inesse, homo, equus inanimatum, medium, inanimatum. Manifestum est igitur et in hac figura et quando erit, et quando non erit syllogismus ex universalibus terminis. Quando enim ambo termini sunt praedicativi, erit syllogismus, quoniam inest alicui extremitas extremitati; quando vero privativi, non erit syllogismus; quando autem hic quidem privativus, ille vero affirmativus; si maior quidem fuerit privativus, alter vero affirmativus, erit syllogismus, quoniam alicui non inest extremitas extremitati. Si autem e converso, non erit. Si autem hic quidem sit universaliter ad medium, alter vero particulariter, si uterque sit praedicativus, necesse est fieri syllogismum, et si alteruter sit universalis terminorum; nam si r omni s insit, p vero alicui s, necesse est et p alicui r inesse, nam quoniam convertitur affirmativa, inerit s alicui p, quare quoniam r omni s inest, s autem alicui p, et r alicui p inerit, quare et p alicui r. Rursum si r alicui s, p vero omni s insit, necesse est et p alicui r inesse, nam idem modus demonstrationis. Est autem demonstrare et per impossibile, et expositione, quemadmodum in prioribus. Si autem unus quidem sit praedicativus, alius vero privativus, universaliter autem praedicativus, quando minor quidem fuerit praedicativus, erit syllogismus; nam si r omni s, p vero alicui s non inest, necesse est p alicui r non inesse, si enim p omni r, et r omni s, et p omni s inerit, sed non inerat. Monstratur autem et sine deductione, si sumatur aliquid eorum quae sunt s, cui p non inest. Quando vero maior fuerit praedicativus, non erit syllogismus, ut si p insit omni s, r autem alicui s non insit. Termini vero omni inesse, animatum, homo, animal. Nulli vero, non est sumere terminos si r inest alicui quidem s, alicui autem non. Si enim omni s inest p, r autem alicui s, et p inerit alicui r, sed positum erat nulli r inesse. Sed quemadmodum in prioribus dicendum est; nam cum indefinitum est alicui non inesse, et quod nulli inest, verum est dicere alicui non inesse, nulli vero cum inesset, non erat syllogismus; manifestum ergo est, quoniam non erit syllogismus. Si autem privativus sit universalis terminus, quando maior quidem privativus fuerit, minor autem praedicativus, erit syllogismus. Si enim p nulli s, r autem alicui inest s, et p alicui r non inerit. Rursum enim prima erit figura, r s propositione conversa. Quando autem minor fuerit privativus, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, homo, ferum. Non inesse, animal, scientia, ferum, medium in utrisque ferum. Nec quando ambo privativi ponuntur, est autem unus quidem universalis, alter vero particularis. Termini inesse, quando minor est universalis ad medium, animal, homo, ferum, non inesse, animal, scientia, ferum. Quando autem maior, non inesse quidem, corvus, nix, album; inesse vero non est sumere si r alicui quidem inest s, alicui autem non inest. Si enim p omni r insit, r autem alicui s, et p inerit alicui s. Positum est autem nulli, sed ex indefinito monstrandum est. Neque si uterque alicui medio inest, vel non inest, vel unus quidem inest, alter vero non inest, vel hic quidem alicui, ille vero non omni, vel indefinite, nullo modo erit syllogismus. Termini autem communes omnium, animal, homo, album, animal, inani matum, album. Manifestum est igitur, et in hac figura, quando erit, et quando non erit syllogismus, et quoniam habentibus se terminis, ut dictum est, fit syllogismus ex necessitate, et si sit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Manifestum est etiam, quia omnes imperfecti sunt in hac figura syllogismi, omnes enim perficiuntur quibusdam assumptis. Et quoniam syllogizare universale per hanc figuram non erit, neque privativum, neque affirmativum. Palam autem et quoniam in omnibus figuris, aliquando non fit syllogismus. Cum praedicativi quidem, vel privativi sunt utrique termini, et particulares, nihil omnino fit necessarium. Cum autem praedicativus, et privativus, et universaliter sumptus privativus, semper fit syllogismus minoris extremitatis ad maiorem, ut si A quidem omni B vel alicui, B autem nulli C; conversis enim propositionibus, necesse est C alicui A non inesse. Similiter autem et in aliis figuris, semper enim fit per conversionem syllogismus. Palam etiam quoniam indefinitum pro praedicativo particulari positum, eumdem faciet syllogismum in omnibus figuris. Manifestum autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi perficiuntur per primam figuram. Aut enim ostensive, aut per impossibile clauduntur omnes. Utrinque autem fit prima figura. Et ostensive quidem perfectis, quoniam per conversionem claudebantur omnes, conversio autem primam faciebat figuram, per impossibile vero demonstratis, quoniam posito falso syllogismus fit per primam figuram. Ut in postrema figura, si A et B omni C insunt, quoniam A alicui B inest, nam si nulli et B omni C, nulli C inerit A, sed inerat omni. Similiter autem in aliis. Est etiam reducere omnes syllogismos ad universales syllogismos primae figurae. Nam qui sunt in secunda figura, manifestum quoniam per illos perficiuntur, verum non similiter omnes, sed universales quidem privativa conversa; particularium autem utraque per ad impossibile reductionem. Qui vero in prima sunt particulares, perficiuntur quidem per se. Est autem et per secundam figuram ostendere ad impossibile ducentes, ut si A omni B, et B alicui C, quoniam A alicui C inerit. Si enim nulli, B autem omni, nulli C inerit B. Hoc enim scimus per secundam figuram. Similiter autem et in privativo erit demonstratio; si enim A nulli B, et B alicui C inest, A alicui C non erit, nam si A omni C, B autem nulli inest, nulli C inerit B. Haec autem fuit media figura; quare quoniam qui in media sunt syllogismi, omnes reducuntur in primae figurae universales syllogismos, qui vero particulares sunt in prima, ad eos qui sunt in media, manifestum est quoniam et particulares reducentur ad eos qui in prima figura sunt universales syllogismos; qui vero sunt in tertia, cum universales sint quidem termini, statim perficiuntur per illos syllogismos. Si autem particulares, sumuntur per particulares syllogismos primae figurae, sed hi reducti sunt ad illos, quare et tertiae figurae particulares. Manifestum ergo quoniam omnes reducentur in primae figurae universales syllogismos. Igitur syllogismi inesse vel non inesse ostendentes, dictum est quomodo se habent, et ad eos qui ex eadem sunt figura, et ad invicem, et ad eos qui ex aliis sunt figuris. Quoniam autem diversum est inesse, et ex necessitate inesse, et contingere inesse (nam multa insunt quidem, non tamen ex necessitate, alia vero neque ex necessitate, neque insunt omnino, contingit autem inesse), manifestum quoniam et syllogismus in unoquoque horum diversus est, et non similiter habentibus se terminis, sed hic quidem ex necessariis, ille vero ex iis quae simpliciter insunt, ille autem ex contingentibus. Ergo in necessariis quidem fere similiter se habet, et in iis qui insunt. Similiter enim positis terminis, et in iis quae insunt, et in iis quae ex necessitate insunt vel non insunt, et erit, et non erit syllogismus. Verum distabit in eo quod adiacet terminis ex necessitate inesse, vel non inesse, nam et privativum similiter convertitur, et in toto esse, et de omni similiter assignabimus. Ergo in aliis quidem eodem modo ostendetur per conversionem, quoniam conclusio necessaria, quomodo in eo quod est inesse. In media autem figura quando fuerit universalis affirmativa, particularis vero privativa, et rursum in tertia quando universalis quidem praedicativa, particularis vero privativa, non similiter erit demonstratio, sed necesse est exponentes, cui alicui utrumque non inest, de hoc facere syllogismum. Erit enim necessarius in hoc. Si autem de exposito est necessarius, erit et de illo aliquo. (0648C) Nam hoc quod est expositum, ipsum quidem illud aliquid est. Fit autem uterque syllogismus in propria figura. Accidit autem quandoque et altera propositione necessaria, necessarium fieri syllogismum, verum non utralibet, sed quae ad maiorem extremitatem est, ut si A quidem, B ex necessitate sumptum est inesse, vel non inesse, B autem C inesse tantum; sic enim sumptis propositionibus ex necessitate A inerit C, vel non erit. Nam quoniam omni B ex necessitate inest, vel non inest A, C autem aliquid eorum quae sunt B, est manifestum quoniam et C ex necessitate erit alterum horum. Si autem A B quidem non necessaria, B C autem necessaria, non erit conclusio necessaria. Nam si est, accidit A alicui B inesse ex necessitate, per primam et tertiam figuram, hoc autem falsum, contingit enim tale esse B cui possibile est A nulli inesse. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam non erit conclusio necessaria; ut si A quidem sit motus, B autem sit animal, in que autem C homo, namque homo animal est ex necessitate, movetur autem animal non ex necessitate, quare nec homo. Similiter autem et si privativa sit A B; nam eadem demonstratio. In particularibus autem syllogismis, si universalis quidem est necessaria, et conclusio erit necessaria; si autem particularis, non necessaria, sive privativa, sive praedicativa fuerit universalis propositio. Sit autem primo universalis necessaria, et A quidem omni B insit ex necessitate, B autem alicui C insit solum, necesse est ergo A alicui C inesse ex necessitate, nam C sub B est, B autem omni A inerat ex necessitate. Similiter autem et si privativus syllogismus sit, nam eadem erit demonstratio. Si autem particularis est necessaria, non erit conclusio necessaria, nihil enim impossibile evenit, quemadmodum nec in universalibus syllogismis, similiter autem et in privativis. Termini, motus, animal, album. In secunda autem figura si privativa quidem propositio universalis sit et necessaria, conclusio erit necessaria. Si autem praedicativa, non necessaria. Sit enim primum privativa necessaria, et A B quidem nulli contingat, C autem insit tantum; quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A contingit, A autem omni C inest, quare nulli C contingit B, nam C sub A est. Similiter autem et si ad C ponatur privativum, nam si A C nulli contingit, et C nulli A poterit inesse, A autem omni B inest. Quare nulli eorum quae sunt B contingit C, fit enim prima figura. Rursum non ergo neque B ipsi C, convertitur enim similiter. Si autem praedicativa propositio est necessaria, non erit conclusio necessaria, insit enim A omni B ex necessitate, C autem nulli insit tantum, conversa ergo privativa, fit prima figura. Ostensum est autem in prima quoniam cum non est necessaria quae ad maiorem est privativa, nec conclusio erit necessaria, quare nec in his erit ex necessitate. Amplius autem si conclusio est necessaria, accidit C alicui A non inesse ex necessitate, si enim B nulli C inest ex necessitate, neque C nulli B inerit ex necessitate, B autem alicui A necesse est inesse, siquidem et A omni B ex necessitate inerat, quare C necesse est alicui A non inesse, sed nihil prohibet A huiusmodi accipere, cui omni C contingat inesse. Amplius et si terminos ponentes sit ostendere, quoniam conclusio non est necessaria simpliciter. Et his existentibus, necessarium ut sit A animal, B vero homo, C autem album, et similiter propositiones sumptae sint, contingit enim animal nulli albo inesse, non inerit ergo nec homo nulli albo, sed non ex necessitate. Contingit enim hominem fieri album, non tamen donec animal nulli albo insit, quare cum haec sint, necessaria erit conclusio, simpliciter autem non necessaria. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis, quando privativa quidem propositio, et universalis fuerit, et necessaria, et conclusio erit necessaria. Quando autem praedicativa universalis fuerit necessaria, privativa vero particularis non necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim primum privativa, et universalis necessaria, et A B quidem nulli contingat inesse, C autem alicui insit, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A continget inesse, A autem alicui C inest, quare ex necessitate alicui eorum quae sunt, C non inerit B. Rursum sit praedicativa, et universalis, et necessaria, et ponatur ad B quidem praedicativum, si ergo A omni B ex necessitate inest, C autem alicui non inest, quoniam non inerit B alicui C manifestum, sed non ex necessitate. Nam iidem termini erunt ad demonstrationem, qui in universalibus syllogismis: sed nec si privativa necessaria est particulariter sumpta, erit conclusio necessaria. Nam per eosdem terminos demonstratio. In postrema autem figura terminis quidem universalibus ad medium, et praedicativis utrisque propositionibus, si utralibet sit necessaria, et conclusio erit necessaria. Si autem haec quidem sit privativa, illa vero praedicativa, quando privativa quidem fuerit necessaria, et conclusio erit necessaria, quando autem praedicativa, non erit necessaria. Sint enim primum utraeque praedicativae propositiones, et A et B omni C insint, necessaria autem sit A C, quoniam ergo B omni C inest, et C alicui B inerit, eo quod convertitur universalis particulariter. Quare si A inest omni C ex necessitate, et C alicui B, et A alicui B necessarium inesse, nam B sub C est. Fit igitur prima figura. Similiter autem ostendetur, et si B C est necessaria, convertitur enim C alicui A, quare si omni C inest B ex necessitate, et A alicui B inerit ex necessitate. Rursum sit A C quidem privativa, B C vero affirmativa, necessaria autem privativa, quoniam ergo convertitur affirmativa, erit C alicui B, A autem nulli C ex necessitate, neque A alicui B inerit ex necessitate, nam B sub C est. Si autem praedicativa sit necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C praedicativa et necessaria, A C autem privativa et non necessaria, quoniam ergo convertitur affirmativa, inerit et C alicui B ex necessitate. Quare si A quidem nulli eorum quae sunt C inest, C autem alicui eorum quae sunt B et A alicui eorum quae sunt B non inerit, sed non ex necessitate. Ostensum est enim in prima figura quoniam privativa propositione necessaria, nec conclusio erit necessaria. Amplius autem et per terminos sit manifestum, sit enim A quidem bonum in quo B animal, C autem equus, ergo bonum quidem contingit nulli equo inesse, animal vero necesse est omni equo inesse, sed non necesse est aliquod animal non esse bonum, siquidem contingit omne esse bonum. Aut si non hoc possibile, sed vigilare, vel dormire terminum ponendum. Omne enim animal susceptibile est horum. Si igitur termini universaliter ad medium sint, dictum est quando erit conclusio necessaria. Si autem hic quidem universalis, ille vero particularis, praedicativus uterque, quando universalis fuerit necessarius, et conclusio erit necessaria. Demonstratio autem eadem quae prius, convertitur enim et particularis affirmativa. Si ergo necesse est B omni C inesse, A autem sub C est, necesse est B alicui A inesse. Si autem B alicui A, et A alicui B inesse necessarium, convertitur enim. Similiter autem et si A C sit necessaria universalis, nam B sub C est. Si autem particularis est necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C particularis et necessaria, A autem insit omni C, non tamen ex necessitate, conversa ergo B C prima fit figura, et universalis quidem propositio non necessaria, particularis autem necessaria, quando autem sic se habebant propositiones, non erat conclusio necessaria, quare nec in his. Amplius autem et ex terminis manifestum. Sit enim A quidem vigilatio, B autem bipes, in quo autem C animal, ergo B alicui C necesse est inesse, A autem omni C contingit, et A non necessario B, non enim necesse est aliquem bipedem dormire vel vigilare. Similiter autem per eosdem terminos ostendetur etiam si A C sit particularis et necessaria. Si autem hic quidem terminorum sit praedicativus, ille privativus et necessarius, quando universalis fuerit privativus et necessarius, et conclusio erit necessaria. Si enim A nulli C ex necessitate contingit, B autem alicui C inest, necesse est A alicui B non inesse, quando autem affirmativa necessaria ponetur vel universalis, vel particularis, vel privativa particularis, non erit conclusio necessaria. Nam alia quidem eadem quae et in prioribus dicemus. Termini autem cum universalis quidem affirmativa est necessaria, vigilatio, animal, homo, medium homo: cum autem particularis praedicativa necessaria, vigilatio, animal, album. Animal enim necesse est alicui albo inesse, vigilatio autem contingit nulli, et non necesse est alicui animali non inesse vigilationem. Quando autem privativa particularis est necessaria, bipes, motus, animal, medium animal. Manifestum igitur quoniam inesse quidem non est syllogismus, si utraeque propositiones non sunt in eo quod est inesse, necessaria vero est, et altera solum existente necessaria. In utrisque autem affirmativis et privativis existentibus syllogismis necesse est alteram propositionem similem esse conclusioni. Dico autem similem, si inesse quidem, inexistentem, si autem necessaria, necessariam. Quare et hoc palam, quoniam non erit conclusio neque necessaria, neque inesse, non sumpta vel necessaria, vel quae inesse significet propositione. Igitur de necessario quomodo fit, et quam differentiam habeat ad inesse, sufficienter pene dictum est. De contingente autem post haec dicemus, quando, et quomodo, et per quae erit syllogismus. Dico autem contingere, et contingens, quo non existente necessario, posito autem inesse, nihil erit propter hoc impossibile. Nam necessarium aequivoce contingere dicitur. Quoniam autem hoc est contingens, manifestum ex affirmationibus et negationibus oppositis. Nam non contingit esse, non possibile esse, et impossibile esse, et necesse est non esse, vel eadem sunt, vel sequuntur se invicem, quare et opposito his contingit esse, et non impossibile esse, et non necesse non esse, eadem erunt, vel sequentia se invicem. De omni enim affirmatio, vel negatio vera. Erit ergo contingens necessarium, et non necessarium contingens. Accidit autem omnes quae secundum contingere sunt propositiones converti sibi invicem, dico autem non affirmativas negativis sed quaecunque affirmativam habent figuram secundum oppositionem, ut ea quae est contingit esse ei quae est contingit non esse, et ea quae est contingit omni ei quae est contingit nulli, vel non omni, et quae alicui, et quae non alicui, eodem autem modo et in aliis. Quoniam enim quod est contingens non est necessarium, et quod non est necessarium possibile est non esse, manifestum quoniam si contingit A inesse B, contingit et non inesse, et si omni contingit inesse, et omni contingit non inesse. Similiter autem et in particularibus affirmationibus, nam eadem demonstratio. Sunt autem huiusmodi propositiones praedicativae, nam contingere ei quod est esse similiter ponitur, quemadmodum dictum est prius. Determinatis autem his, rursum dicimus quoniam contingere duobus modis dicitur: uno quidem, quod plerumque fit et deficit, necessarium, ut canescere hominem, vel augeri, vel minui, vel omnino quod natum est esse. Hoc enim non continuum habet necessarium, eo quod non semper est homo, cum tamen homo est, aut ex necessitate, aut ut in pluribus est. Alio autem modo infinitum, quod et sic, et non sic possibile, ut animal ambulare, vel ambulante fieri motum terrae, vel omnino quod casu fit, nihil enim magis sic natum est, vel econtrario. Convertitur ergo et secundum oppositas propositiones utrumque contingens, non tamen eodem modo, sed quod natum quidem est esse ei quod non ex necessitate esse. Sic enim contingit non canescere hominem. Infinitum autem ei quod nihil magis sic, vel illo modo. Disciplina autem, et syllogismus demonstrativus, ex infinitis quidem non est, eo quod inordinatum est medium, ex iis vero quae nata sunt esse, pene orationes et considerationes fiunt de sic contingentibus, ex illis autem possibile quidem est fieri syllogismum, non tamen solet quaeri. Haec ergo definientur magis in sequentibus, nunc autem dicemus quando et quomodo, et quis erit syllogismus ex contingentibus propositionibus. Quoniam autem contingere hoc huic inesse dupliciter est accipere, aut enim cui inest hoc, aut cui contingit ipsum inesse, nam de quo B, A contingere, horum alterum significat, aut de quo dicitur B, aut de quo contingit dici, de quo autem B, A contingere, aut omni B possibile inesse A, nihil differt. Manifestum igitur quoniam dupliciter dicetur A omni B inesse contingere. Primum ergo dicemus si de quo C contingit B, et de quo B contingit A, quis erit, et qualis syllogismus, sic enim utraeque propositiones sumuntur secundum contingere, quando autem de quo B est contingit A, haec quidem inesse, illa vero contingens, quare A similibus figuris incipiendum, quemadmodum et in aliis.Quando ergo A contingit omni B, et B omni C, syllogismus erit perfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Hoc autem manifestum est ex definitione, nam contingere omni inesse sic dicebamus. Similiter autem et si A quidem contingit nulli B, B autem omni C, quoniam A contingit nulli C. Nam de quo B contingit, A non contingere, hoc erat nullum dimittere sub B contingentium. Quando autem A contingit omni B, B autem nulli C, per sumptas quidem propositiones nullus fit syllogismus, conversa autem B C secundum contingere, fit idem quemadmodum et prius, quoniam enim contingit B nulli C inesse, contingit et omni inesse. Hoc autem dictum prius. Quare si B quidem omni C, A autem omni B, rursum idem fit syllogismus. Similiter autem etsi ad utrasque propositiones negatio ponatur cum contingere (dico autem ut si A contingit nulli B, et B nulli C ), igitur per sumptas quidem propositiones nullus fit syllogismus, conversis autem rursus idem erit qui et prius. Manifestum est igitur quoniam negatione posita ad minorem extremitatem, vel ad utrasque propositiones, aut non fit syllogismus, aut fit quidem, sed non perfectus, ex conversione enim fit necessarium. Si autem haec quidem propositionum universalis, illa vero particularis sumatur, ad maiorem quidem extremitatem posita universali, syllogismus erit perfectus. Nam si A omni B contingit, B autem alicui C, A alicui C contingit, hoc autem manifestum ex definitione contingentis. Rursum si A contingit nulli B, B autem contingit alicui C inesse, necesse est A contingere alicui C non inesse. Demonstratio autem eadem quae in his. Si autem privativa sumatur particularis propositio, universalis autem affirmativa, positione autem similiter se habeant (ut A quidem omni B contingat, B autem alicui C contingat non inesse), per sumptas quidem propositiones non fit manifestus syllogismus, conversa autem particulari, et posito B alicui C contingere inesse, eadem erit conclusio quae et prius, quemadmodum in iis quae ex principio. Si autem quae ad maiorem extremitatem particularis sumatur, quae ad minorem universalis, sive utraeque sumantur affirmativae, sive privativae, sive non similis figurae, sive utraeque indefinitae, vel particulares, nullo modo erit syllogismus. Nihil enim prohibet B transcendere A, et non praedicari de aequis, in quo enim B transcendit A sumat C, huic neque omni, neque nulli, neque alicui, neque non alicui contingit A inesse, siquidem convertuntur secundum contingere propositiones, et B pluribus contingit quam A inesse. Amplius autem ex terminis manifestum est, nam sic se habentibus propositionibus primum postremo et nulli contingit, et omni ex necessitate inesse. Termini autem communes omnium, inesse quidem ex necessitate, animal, album, homo, non contingere vero, animal, album, vestis. Manifestum igitur quoniam hoc modo habentibus se terminis, nullus fit syllogismus, nam omnis syllogismus vel eius quod est inesse est, vel ex necessitate vel contingere, non est autem eius quod est inesse, neque necessarii, manifestum quoniam non est, nam affirmativus interimitur privativo, et privativus affirmativo, relinquitur ergo eius quod contingere esse, hoc autem impossibile. Ostensum est enim quoniam sic se habentibus terminis, et omni postremo primum necesse inesse, et nulli contingere inesse, quare non erit eius quod est contingere syllogismus, nam necessarium uno [sic] erat contingens. Manifestum autem et quoniam cum universales sunt termini in contingentibus propositionibus, semper fit syllogismus in prima figura, sive sunt praedicativi, sive privativi. Verum ex praedicativis quidem perfectus, ex privativis autem imperfectus. Oportet autem contingere sumere non in necessariis, sed secundum dictam definitionem, aliquoties autem latet huiusmodi. Si autem haec quidem inesse, illa vero contingere sumatur propositionum, quando quae ad maiorem quidem extremitatem contingere significaverit perfecti erunt omnes syllogismi, et contingentis secundum dictam determinationem, quando autem quae ad minorem, et imperfecti omnes, et privativi syllogismi, non contingentis secundum dictam determinationem, sed eius quod est nulli, aut non omni ex necessitate inesse. Si enim nulli, aut non omni ex necessitate contingere dicimus, et nulli, et non omni inesse. Contingat enim A omni B, B autem omni C ponatur inesse, quoniam igitur sub B est C, A autem contingit omni B, manifestum quoniam et C omni contingit A, fit ergo perfectus syllogismus. Similiter autem et cum privativa est A B propositio, B C autem affirmativa, et haec quidem contingere, illa vero inesse sumetur, perfectus erit syllogismus, quoniam A contingit nulli C inesse. Quoniam ergo inesse posito ad minorem extremitatem, perfecti syllogismi fiunt, manifestum. Quod autem contrariae se habentes erunt syllogismi, per impossibile monstrandum est, simul autem erit manifestum et quoniam imperfecti, nam ostensio non ex sumptis propositionibus.Primum autem dicendum quoniam si cum est A, necesse est esse B, et cum possibile est esse A, possibile erit B ex necessitate. Sit enim sic se habentibus rebus ut in quo quidem A possibile, in quo autem B impossibile, si ergo aliud possibile quidem est, cum possibile esse, ipsum fiet, hoc vero impossibile, quoniam impossibile, non utique fiet, simul autem si A possibile, et B impossibile, continget fieri praeter B, si autem fieri et esse. Nam quod fit, quando factum est, est. Oportet autem accipere non solum in generatione possibile et impossibile, sed et in verum esse, et in quod actu est, et quocunque modo simpliciter aliter dicitur possibile, in omnibus enim similiter se habebit. Amplius cum est A, B esse, non tanquam uno aliquo existente A, erit B, oportet opinari, nihil enim est ex necessitate uno aliquo existente, sed duobus ad minus, ut quando propositiones sic se habent (ut dictum est) secundum syllogismum, nam sic dicitur de D, D autem de E, et C de E ex necessitate, et si utrumque possibile, et conclusio erit possibilis. Quemadmodum ergo si quis ponat A quidem propositiones, B autem conclusionem, accidet non solum A existente necessario, et B simul esse necessarium, sed etiam possibili possibile. Hoc autem ostenso manifestum est quoniam falso posito, et non impossibili, et quod accidit propter positionem falsum erit, et non impossibile, ut si A falsum quidem est, non tamen impossibile, cum autem sit A et B, et B erit falsum quidem, non tamen impossibile. Nam ostensum est quoniam cum est A, est B, et cum possibile est A, possibile est B. Positum autem est A possibile esse, et B erit possibile, si enim impossibile est B, simul idem erit possibile et impossibile. Determinatis autem iis, insit A omni B, B autem contingit omni C, necesse est A igitur contingere omni C inesse. Non enim contingat, B autem omni C ponatur inesse, hoc autem falsum quidem, non tamen impossibile, si ergo A quidem non contingit omni C, B autem omni C insit, A non omni B contingit. Fit enim syllogismus per tertiam figuram. Sed positum erat omni C contingere inesse, necesse est ergo A omni C contingere. Falso enim posito, et non impossibili, quod accidit est impossibile. Possibile est autem et primam figuram facere impossibile ponentes B inesse C, nam si B omni C inest, A autem omni B contingit, et omni C continget A, sed positum erat non omni possibile inesse.Oportet autem accipere omni inesse non secundum tempus determinantes, ut nunc, aut in hoc tempore, sed simpliciter (per huiusmodi enim propositiones et syllogismos facimus), quoniam secundum nunc sumpta propositione, non erit syllogismus. Nihil enim fortasse prohibet quandoque et omni moventi hominem inesse, ut si nihil aliud moveatur, movens autem contingit omni equo, sed homo nulli equo contingit. Amplius: sit primum quidem animal, medium vero movens, postremum vero homo, ergo propositiones quidem similiter se habebunt, conclusio vero erit necessaria, non contingens. Ex necessitate enim homo est animal, manifestum igitur quoniam universale sumendum simpliciter, et non tempore determinantes. Rursum: sit privativa propositio universalis A B, et sumatur A quidem nulli B inesse, B autem contingat omni C inesse. His igitur positis necesse est A contingere nulli C inesse, non enim contingat, B autem ponatur inesse C sicut prius, necesse est igitur A alicui B inesse, fit enim syllogismus per tertiam figuram. Hoc autem impossibile, quare contingit A, nulli C. Posito enim falso, et non impossibili, impossibile est quod accidit. Hic ergo syllogismus non est contingentis secundum definitionem, sed nulli inesse ex necessitate. Haec est contradictio factae hypothesis. Positum est enim ex necessitate A alicui C inesse, syllogismus autem per impossibile, oppositae est contradictionis. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam non erit conclusio contingens, sit enim A quidem corvus, in quo autem B intelligens, in quo autem C homo, nulli ergo B inest A, nam nullum intelligens, corvus, B autem contingit omni C, omni enim homini inest intelligere, sed A ex necessitate nulli C, non igitur conclusio contingens. Sed nec necessaria semper: sit enim A quidem movens, B autem scientia, in quo autem C homo, ergo A quidem nulli B inerit, B autem omni C contingit, et non erit conclusio necessaria, non enim necesse est nullum hominem moveri, sed necesse est aliquem. Manifestum igitur quoniam est conclusio eius quod est nulli ex necessitate inesse. Sumendum autem melius terminos. Si autem privativum ponatur ad maiorem extremitatem contingere significans, ex ipsis quidem sumptis propositionibus, nullus erit syllogismus, conversa autem secundum contingens propositione, erit quemadmodum in prioribus. Insit enim A omni B, B autem contingat nulli C, sic ergo habentibus se terminis, nihil erit necessarium. Si autem convertatur B C, et sumatur B contingere omni C, fiet syllogismus quemadmodum prius, similiter enim habent se termini positione. Eodem autem modo et cum privativa sunt utraque intervalla, si A B quidem non inesse, B C autem nulli, contingere significat, nam per ea quidem quae sumpta sunt nullo modo fit necessarium, conversa autem secundum contingens propositione erit syllogismus, sumatur enim A quidem, nulli B inesse, B autem contingere nulli C, per haec quidem nihil necessarium. Si autem sumatur B omni C contingere, quod verum est, A B autem propositio similiter se habeat, rursus erit idem syllogismus. Si autem non inesse ponatur B omni C, et non contingere non inesse, non erit syllogismus nullo modo, sive privativa sit, sive affirmativa A B propositio. Termini autem communes ex necessitate quidem inesse, album, animal, nix. Non contingere autem, album, animal, pix. Manifestum est igitur quoniam cum universales sunt termini, et haec quidem propositionum inesse, illa vero sumitur contingens, quando quae ad minorem est extremitatem contingere sumitur propositio, semper fit syllogismus, verumtamen quandoquidem ex ipsis, quando autem propositione conversa, quando vero utrumque horum, et ob quam causam, diximus. Si autem hoc quidem universale, illud vero particulare sumitur intervallorum, quando ad maiorem quidem extremitatem universale ponitur, et contingens sive negativum, sive affirmativum, particulare autem affirmativum et inesse, erit syllogismus perfectus, quemadmodum et cum universales sunt termini, demonstratio autem eadem quae et prius. Quando autem universale quidem fuerit, ad maiorem extremitatem inesse, et non contingens, alterum vero particulare, et contingens, sive affirmative, sive negative ponantur utraeque, sive haec quidem negativa, illa vero affirmativa, omnino erit syllogismus imperfectus. Verum hi quidem per impossibile ostenduntur, illi vero per conversionem contingentis, quemadmodum in prioribus. Erit autem syllogismus per conversionem, et quando universalis quidem ad maiorem extremitatem posita significaverit inesse, vel non inesse, particularis vero cum sit privativa, sumatur contingens, ut si A quidem omni B inest, vel non inest, B autem alicui contingit non inesse, conversa enim B C, secundum contingere fit syllogismus. Quando autem non inesse sumetur particulariter posita propositio, non erit syllogismus Termini inesse, album, animal, nix; non inesse autem, album, animal, pix, per indefinitum enim est sumenda demonstratio. Si autem universale quidem ponatur ad minorem extremitatem, particulare autem ad maiorem sive privativum, sive affirmativum, sive contingens, sive inesse utrumvis, nullo modo erit syllogismus. Nec cum particulares, vel indefinitae ponentur propositiones, sive contingere sumptae, sive inesse, seu permutatim, nec sic erit syllogismus, demonstratio autem eadem quae in prioribus. Termini autem communes inesse quidem, ex necessitate, animal, album, homo; non contingere vero, animal, album, tunica. Manifestum est igitur quoniam universali posito ad maiorem extremitatem semper erit syllogismus, ad minorem autem nunquam. Quando autem haec quidem propositionum ex necessitate inesse, vel non inesse, illa vero contingere significat, syllogismus quidem erit hoc modo habentibus se terminis. Et perfectus, quando ad minorem extremitatem ponetur necessaria. Conclusio autem, si praedicativi sunt quidem termini, contingentis, et non inesse erit, sive universaliter, sive non universaliter ponantur, si autem sint hoc quidem affirmativum, illud vero privativum, quando affirmativum quidem fuerit necessarium, et contingentis erit conclusio, et non eius quod est non inesse. Quando autem privativum necessarium, et contingentis non esse, et non inesse, sive universales, sive non universales sint termini. Contingere autem in conclusione eodem modo accipiendum est quo in prioribus. Eius autem quod est ex necessitate non inesse, non erit syllogismus, aliud enim est non ex necessitate inesse, et ex necessitate non inesse. Quoniam igitur universalibus affirmativis existentibus terminis non fit conclusio necessaria, manifestum: insit enim A omni B ex necessitate, B autem contingat omni C, erit igitur syllogismus imperfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Quoniam autem imperfectus, ex demonstratione palam, eodem enim modo ostendetur quo et in prioribus. Rursum A quidem contingat omni B inesse, B autem omni C insit ex necessitate, erit itaque syllogismus, quoniam A contingat omni C inesse, sed non quoniam inest, et perfectus quidem, sed non imperfectus, statim enim perficitur ex principio propositionis. Si autem non similis figurae sint propositiones, sit primum privativa necessaria, et A quidem nulli contingat B ex necessitate, B autem contingat omni C, necesse est igitur A nulli C inesse. Ponatur enim A inesse aut omni, aut alicui, positum autem est A nulli contingere B, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A contingit, A autem positum est inesse C aut omni, aut alicui, quare nulli, aut non omni C continget B inesse, sed supponebatur omni ex principio. Manifestum autem quoniam et eius quod est contingere non inesse fit syllogismus, siquidem non inesse. Rursum sit affirmativa quidem propositio necessaria, et A quidem contingat nulli B inesse, B autem insit omni C ex necessitate. Ergo fit syllogismus quidem perfectus, sed non eius quod est non inesse, sed eius quod est contingere non inesse. Nam et propositio sic sumpta est, quae ad maiorem est extremitatem, et ad impossibile non est ducere: nam si ponatur A inesse ulli C, positum est autem et A B contingere nulli inesse, nihil accidit per haec impossibile. Si autem ad minorem extremitatem ponatur privativum quando contingere quidem significaverit, syllogismus erit per conversionem, quemadmodum in prioribus. Quando autem non contingere, non erit ex necessitate, nec quando utraque quidem propositio privativa, non est autem contingens quod ad minorem est. Termini autem inesse quidem, album, animal, nix; non inesse quidem, album, animal, pix. Eodem autem modo se habebit, et in particularibus syllogismis. Quando enim fuerit privativa necessaria, et conclusio erit eius quod est non inesse, ut si A quidem nulli B contingit inesse ex necessitate, B autem alicui C contingat inesse, necesse est A alicui eorum quae sunt C non inesse. Si enim A omni C inest, nulli autem contingit B, et B nulli A contingit inesse: quare si omni C inest A, nulli C contingit B, sed positum erat alicui contingere. Quando autem particularis affirmativa necessaria fuerit, quae in privativo est syllogismo, ut B C, aut universalis in affirmativo, ut A B, non erit inesse syllogismus. Demonstratio autem eadem quae in prioribus. Si autem universale quidem ponatur ad minorem extremitatem vel affirmativum vel privativum contingens, particulare autem necessarium, non erit syllogismus.Termini autem inesse quidem ex necessitate, animal, album, homo; non contingere autem, animal, album, tunica. Quando similiter universale quidem est necessarium, particulare autem contingens, cum privativum quidem est universale, inesse quidem termini, animal, album, corvus; non inesse, animal, album, pix. Cum autem affirmativum, inesse quidem, animal, album, cygnus; non contingere autem, animal, album, nix. Nec quando indefinitae sumuntur propositiones, aut utraeque particulares, non sic erit syllogismus. Termini autem communes, inesse quidem, animal, album, homo; non inesse autem, animal, album, inanimatum. Nam et animal alicui albo, et album inanimato alicui est necessarium inesse, et non contingit inesse, et in contingenti similiter, quare ad omnia utiles sunt termini. Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt, quoniam similiter habentibus se terminis, et in eo quod est inesse, et in necessariis, et fit, et non fit syllogismus, verumtamen secundum inesse quidem posita privativa propositione, eius quod est contingere erat syllogismus, secundum necessarium autem privativa, et contingere, et non inesse. Palam autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi, et quomodo perficiuntur per praedictas figuras.In secunda autem figura quando contingentes quidem sumuntur utraeque propositiones, nullus erit syllogismus, sive sint affirmativae, sive privativae, sive universales, sive particulares. Quando autem haec quidem inesse, illa vero contingere significat, affirmativa quidem inesse significante, nunquam erit syllogismus, privativa universali existente, semper. Eodem modo et quando haec quidem ex necessitate, illa vero contingere assumatur, oportet autem et in his accipere quod in conclusionibus est contingens quemadmodum in prioribus. Primum igitur ostendendum quoniam non convertitur in contingenti, privativa, ut si A contingit nulli B, non necesse est et B contingere nulli A. Ponatur enim hoc et contingat B nulli A inesse, ergo quoniam convertuntur quae sunt in eo quod est contingere affirmationes negationibus, et contrariae, et contraiacentes, B autem contingit nulli A inesse, manifestum est quoniam et omni A contingit B inesse. Hoc autem falsum est. Non enim si hoc huic omni contingit, et hoc huic contingat necessarium, quare non convertitur privativa. Amplius autem nihil prohibet A quidem contingere nulli B, B autem alicui A ex necessitate non inesse, ut album quidem contingit omni homini non inesse, nam et inesse hominem autem non verum est dicere, quoniam contingit nulli albo, pluribus enim ex necessitate non inest, necessarium autem non inerat contingens. Sed nec ex impossibili ostendet convertens, ut si quis pPomba quoniam falsum est B contingere nulli A inesse, verum non contingere nulli A, affirmatio enim et negatio, si autem hoc verum, ex necessitate alicui A inesse B, quare et A alicui B inesse, hoc autem impossibile. Non enim si A non contingit nulli B, necesse est A alicui B inesse. Nam non contingere nulli dicitur dupliciter, hoc quidem si ex necessitate alicui inest, illud vero si ex necessitate alicui non inest. Nam quod ex necessitate alicui eorum quae sunt A non inest, non est verum dicere quoniam omni contingit non inesse, quemadmodum nec alicui inest ex necessitate, quoniam omni contingit inesse. Si ergo aliquis pPomba quoniam contingit C omni D inesse, ex necessitate alicui non inesse ipsum, falsum sumet, omni enim inest, si contingat, sed quoniam quibusdam ex necessitate inest, propter hoc dicimus non omni contingere. Quare ei quod est contingere omni inesse, et ea quae est ex necessitate alicui inesse, opponitur, et ea quae est ex necessitate alicui non inesse, similiter autem et ei quae est contingere nulli. Palam ergo quoniam ad sic contingens, et non contingens, ut in principio definivimus, non solum ex necessitate alicui inesse, sed et ex necessitate alicui non inesse sumendum. Hoc autem sumpto, nihil accidit impossibile, quare non fit syllogismus. Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt quoniam non convertitur privativa. Hoc autem ostenso ponatur A, B quidem contingere nulli, C vero omni, per conversionem ergo non erit syllogismus. Dictum est enim quoniam non convertitur huiusmodi propositio. Sed nec per impossibile, nam posito B omni C contingere inesse, nihil accidit falsum, continget enim A et omni et nulli C inesse. Omnino autem si est syllogismus, palam quoniam contingens erit, eo quod neutra propositionum sumpta est in eo quod est inesse, et hic vel affirmativus, vel privativus: neutro autem modo possibile est, affirmativo enim posito, ostendetur per terminos quoniam non contingit inesse; privativo autem, quoniam conclusio non est contingens, sed necessaria. Sit enim A quidem album, B autem homo, in quo autem C equus, ergo album A contingit huic quidem omni, illi vero nulli inesse, sed B neque inesse contingit C, neque non inesse. Quoniam igitur inesse non possibile, est manifestum, nullus enim equus homo, sed neque contingere non inesse, necesse est enim nullum equum hominem esse, necessarium autem non erat contingens, non igitur fit syllogismus Similiter autem ostendetur, et si e converso ponatur privativa, et si utraeque affirmative ponantur, vel privative, nam per eosdem terminos erit demonstratio. Et quando haec quidem universalis, illa vero particularis, vel utraeque particulares, vel indefinitae, aut quolibet modo aliter contingit permutari propositiones, semper enim erit per eosdem terminos demonstratio. Manifestum ergo quoniam utrisque propositionibus secundum contingere positis, nullus fit syllogismus. Si autem altera quidem inesse, altera vero contingere significat, praedicativa quidem inesse posita, privativa vero contingere, nunquam erit syllogismus, sive universaliter, sive particulariter sumantur termini, demonstratio autem eadem, et per eosdem terminos. Quando autem affirmativa quidem contingere, privativa inesse, erit syllogismus. Sumatur enim A B quidem nulli inesse, C vero omnia contingere, conversa ergo privativa, B inest nulli A, A autem omni C contingebat, fit ergo syllogismus, quoniam B contingit nulli C, per primam figuram. Similiter autem et si ad C ponatur privativa. Si autem utraeque sint privativae, significet autem haec quidem non inesse, illa vero contingere non inesse, per ea quidem quae sumpta sunt nihil accidit necessarium, conversa autem secundum contingere propositione fit syllogismus, quoniam B contingit nulli C inesse, quemadmodum in prioribus, erit enim rursum prima figura. Si autem utraeque ponantur praedicativae, non erit syllogismus. Termini quidem inesse sanitas, equus, homo. Eodem autem modo se habebit et in particularibus syllogismis. Quando autem erit affirmativa inesse, sive universaliter, sive particulariter sumpta, nullus erit syllogismus; hoc autem similiter, et per eosdem terminos demonstratur, quibus et prius. Quando autem et privativa, erit per conversionem, quemadmodum in prioribus. Rursum si ambo quidem intervalla privativa sumantur, universaliter autem quod non inesse, ex ipsis quidem propositionibus non erit necessarium, conversa autem contingenti sicut in prioribus, erit syllogismus. Si autem inesse quidem sit privativa, particulariter quidem sumpta, non erit syllogismus, neque praedicativa, neque privativa existente altera propositione. Nec quando utraeque ponuntur indefinitae, vel affirmativae, vel negativae, aut particulares; demonstratio autem eadem et per eosdem terminos. Si autem haec quidem propositionum ex necessitate, illa vero contingere significat, privativa quidem necessaria, erit syllogismus, non solum quoniam contingit non inesse, sed et quoniam non inest, affirmativa autem non erit. Ponatur autem A B quidem nulli inesse ex necessitate, C autem omni contingere, conversa ergo privativa, et B nulli A inerit, A autem omni E contingebat. Fit igitur rursum per primam figuram syllogismus, quoniam B contingit nulli C inesse. Simul autem manifestum quoniam neque inest B nulli C, ponatur enim inesse, ergo si A nulli B contingit, B autem inest alicui C, A alicui C non contingit, sed omni ponebatur contingere. Eodem autem modo ostendetur, et si ad C ponatur privativum. Rursum. Sit praedicativa quidem necessaria, altera autem privativa, et contingens, et A B contingat nulli, C autem omni insit ex necessitate, sic ergo habentibus se terminis, nullus erit syllogismus, accidit enim B ex necessitate non inesse. Sit enim A quidem album, in quo autem B, homo, in quo vero C, cygnus, ergo album cygno quidem ex necessitate inest, homini autem contingit nulli, et homo nulli cygno ex necessitate. Quoniam igitur eius quod est contingere non est syllogismus, manifestum est, nam ex necessitate non erat contingens. Sed tamen non necessarii, nam necessarium aut ex utrisque necessariis, aut ex privativa necessaria contingebat. Amplius et possibile est iis positis B inesse C. Nihil enim prohibet C quidem sub B esse, A autem B quidem omni contingere, C vero ex necessitate inesse, ut sit quidem C vigilia, B autem animal, in quo autem A motus. Nam vigilanti quidem ex necessitate inest motus, animali autem nulli contingit, et omne vigilans animal. Manifestum ergo quoniam non eius quod est non inesse, siquidem sic se habentibus terminis, necesse est inesse, neque autem oppositarum affirmationum, quare nullus erit syllogismus. Similiter autem ostendetur, et e converso posita affirmativa. Si autem similis figurae sint propositiones, cum privativae sint, semper fit syllogismus, conversa secundum contingere propositione, quemadmodum in prioribus. Si sumatur enim A B quidem ex necessitate non inesse, C autem contingere non inesse, conversis autem propositionibus, B quidem nulli inesse A, A autem omni C contingit, fit igitur prima figura, et si ad C ponatur privativum similiter. Si autem praedicativae ponantur, non erit syllogismus, nam eius quod est non inesse, aut eius quod est ex necessitate non inesse, manifestum quoniam non erit, eo quod non sumpta sit privativa propositio, neque in eo quod est inesse, neque in eo quod est ex necessitate inesse, sed neque eius quod est contingere non inesse, ex necessitate enim sic se habentibus, B non inerit C, ut si A quidem ponatur album, in quo autem B cygnus, in quo autem C homo, neque oppositarum affirmationum, quoniam ostensum est B ex necessitate non inesse C, non ergo fit syllogismus omnino. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis. Quando autem fuerit privativa, et universalis, et necessaria, semper erit syllogismus, et eius quod est contingere non inesse, et eius quod est non inesse, demonstratio autem per conversionem. Quando autem affirmativa, nunquam, eodem autem modo ostendetur quo et in universalibus, et per eosdem terminos. Nec quando utraeque sumuntur affirmative, nam et huius eadem demonstratio, quae et prius. Quando utraeque quidem privativae, universalis autem et necessaria, quae non inesse significat, per ea quidem quae sumpta sunt, non erit necessarium, conversa autem secundum contingere propositione, erit syllogismus, quemadmodum in prioribus. Si autem utraeque indefinitae, vel particulares sumantur, non erit syllogismus, demonstratio autem eadem, et per eosdem terminos. Manifestum igitur ex praedictis quoniam privativa quidem universalis posita necessaria, semper fit syllogismus, non solum eius, quod est contingere non inesse, sed et non inesse, affirmativa autem nunquam. Et quoniam eodem modo se habentibus, et in necessariis, et in iis quae insunt, fit et non fit syllogismus Palam et quoniam imperfecti omnes sunt syllogismi, et quoniam omnes perficiuntur per praedictas figuras. In postrema autem figura, et utrisque contingentibus, et altera, erit syllogismus. Quando ergo contingere significant propositiones, et conclusio erit contingens. Et quando haec quidem contingere, illa vero inesse, similiter erit syllogismus. Quando autem altera ponitur necessaria, si affirmativa quidem non erit conclusio, neque necessaria, neque inesse. Si autem privativa, eius quod est non inesse erit syllogismus, quemadmodum in prioribus. Sumendum autem et in his similiter, quod est in conclusionibus contingens. Sint ergo primum contingentes, et A et B contingant omni C inesse, quoniam ergo convertitur affirmativa particulariter, B autem omni C contingit, et C alicui B contingit, quare si A quidem omni C contingit, C autem alicui B, et A alicui B contingit, fit enim prima figura. Et si A quidem contingit nulli C inesse, B autem omni C contingat, necesse est A alicui cui B contingere non inesse, erit enim rursum prima figura per conversionem. Si autem utraeque privativae ponantur, ex his quidem quae sumpta sunt non erit necessarium, conversis autem propositionibus erit syllogismus, quemadmodum in prioribus. Si enim A et B contingunt C non inesse, si transmutatur contingere non inesse, rursum erit prima figura per conversionem. Si autem hic quidem terminorum est universalis, ille vero particularis, eodem modo se habentibus terminis quo inesse, et erit, et non erit syllogismus. Contingat enim A quidem omni C, B autem alicui C inesse, erit ergo rursum prima figura particulari propositione conversa, nam si A omni C, C autem alicui B, et A alicui B contingit. Et si ad B C ponatur universale, similiter. Similiter autem et si A C quidem privativa sit, B C autem affirmativa, erit unum rursum prima figura per conversionem, si autem utraeque privativae ponantur, haec quidem universaliter, illa vero particulariter, per ea quidem quae sumpta sunt non erit syllogismus, conversis autem propositionibus erit quemadmodum in prioribus. Quando autem utraeque indefinitae vel particulares sumuntur, non erit syllogismus, etenim necesse est A omni B, et nulli inesse. Termini inesse, animal, homo, album: non inesse, equus, homo, medium album. Si autem haec quidem propositionum inesse, illa autem contingere significet, conclusio quidem erit quoniam contingit, et non quoniam inest, syllogismus autem erit eodem modo se habentibus terminis, quo et in prioribus. Sint enim primum praedicativae, et A quidem omni C insit, B autem omni C contingat, conversa ergo B C erit prima figura, et conclusio quoniam contingit A alicui B inesse, cum enim altera propositionum in prima figura significabit contingere, et conclusio erit contingens. Similiter autem et si B C quidem inesse, A C autem contingit inesse. Et si A C quidem privativa, B C autem praedicativa, insit autem alterutra utrinque, contingens erit conclusio, fit enim rursum prima figura. Ostensum est autem quoniam si altera propositio significet contingere in prima figura, et conclusio erit contingens. Si autem contingens privativa ponatur ad minorem extremitatem, vel si utraque ponatur privativa, per ea quidem quae posita sunt non erit syllogismus, conversis autem erit, quemadmodum et in prioribus. Si autem haec quidem propositionum sit universalis, illa vero particularis, utrisque quidem praedicativis, aut universali quidem privativa, particulari autem affirmativa, idem modus erit syllogismorum, omnes enim clauduntur per primam figuram. Quare manifestum quoniam eius quod est contingere, et non eius quod est inesse, erit syllogismus. Si autem affirmativa quidem universalis, privativa autem particularis, per impossibile erit demonstratio. Insit enim B quidem omni C, A autem contingat alicui C non inesse, necesse est ergo A alicui B contingere non inesse, nam si omni B inest A ex necessitate, B autem omni C positum est inesse, A omni C ex necessitate inerit. Hoc autem ostensum est prius, sed positum est alicui contingere non inesse. Quando autem indefinitae, vel particulares sumuntur utraeque, non erit syllogismus, demonstratio autem eadem quae et in universis et per eosdem terminus. Si autem est haec quidem propositionum necessaria, illa vero contingens, si praedicativi quidem sunt termini, semper eius quod est contingere erit syllogismus. Quando autem fuerit hic quidem praedicativus, ille autem privativus, si sit affirmativus quidem necessarius, eius erit quod est contingere non inesse, si autem privativus, et eius quod est contingere non inesse, et eius quod est non inesse; eius autem quod est ex necessitate non inesse non erit syllogismus, quemadmodum et in aliis figuris. Sint ergo praedicativi termini primum, et A C quidem omni insit ex necessitate, B autem omni C contingat inesse, quoniam ergo A omni C necessario inest, C autem alicui B contingit, et A alicui B contingens erit, et non inerit, sic enim accidit in prima figura. Similiter autem ostendetur, et si B C quidem ponatur necessaria, A C autem contingens. Rursum sit hoc quidem praedicativum, illud vero privativum, necessarium autem praedicativum, et A quidem contingat nulli C inesse, B autem omni insit ex necessitate C, erit ergo rursum prima figura, et conclusio contingens, sed non inesse. Nam privativa propositio contingere significat. Manifestum est igitur quoniam conclusio erit contingens; cum enim sic se habebant propositiones in prima figura, et conclusio erat contingens. Si autem privativa sit propositio necessaria, et conclusio erit, quoniam contingit alicui non inesse, et quoniam non inesse Ponatur enim A non inesse C, ex necessitate, B autem omni C contingere, conversa ergo B C affirmativa, prima erit figura, et necessaria privativa propositio. Cum autem sic se habebant propositiones, accidebat A et contingere alicui C non inesse, et non inesse, quare et A necesse est alicui B non inesse. Quando autem privativum ponitur ad minorem extremitatem, si contingens quidem, erit syllogismus transsumpta propositione, quemadmodum! et in prioribus. Si autem necessarium, non erit. Etenim necesse est omni et nulli contingat inesse. Termini omni inesse, somnus, equus, dormiens homo. Nulli inesse, somnus, equus, vigilans homo. Similiter autem se habebit, et si hic quidem terminorum sit universalis, ille autem particularis ad medium, nam si utrique sint praedicativi, eius quod est contingere, et non eius quod est inesse erit syllogismus. Et quando hoc quidem privativum sumetur, illud vero affirmativum, necessarium autem affirmativum, huius quod est contingere. Quando autem privativum necessarium, et conclusio erit quod est non inesse, nam idem modus erit demonstrationis, et cum universales et non universales sunt termini. Necesse est enim per primam figuram perfici syllogismos, quare ut in illis, et in his necessarium accidere. Quando autem privativum universaliter sumptum ponitur ad minorem extremitatem, si contingens quidem, erit syllogismus per conversionem, si autem necessarium sit, non erit, ostendetur autem eodem modo quo et in universalibus, et per eosdem terminos. Manifestum ergo et in hac figura quando et quomodo erit syllogismus, et quando eius quod est contingere, et quando eius quod est inesse. Palam autem et quoniam omnes imperfecti, et quoniam perficiuntur per primam figuram. Quoniam igitur qui in his figuris sunt syllogismi perficiuntur per eos qui in prima figura sunt universales syllogismos, et in hos reducuntur, palam ex dictis. Quoniam autem simpliciter omnis syllogismus sic se habebit, nunc erit manifestum, cum ostensus fuerit omnis qui fit, per aliquam harum figurarum fieri. Necesse est ergo omnem demonstrationem et omnem syllogismum aut inesse quid, aut non inesse monstrare. Et hoc aut universaliter, aut particulariter, amplius aut ostensive, aut ex hypothesi. Eius autem quod est ex hypothesi, pars est per impossibile. Primum ergo dicemus de ostensivis, his enim ostensis, manifestum erit et de iis qui ad impossibile, et omnino de iis qui ex hypothesi. Si ergo oporteat A de B syllogizare, vel inesse, vel non inesse, necesse est sumere aliquid de aliquo. Si ergo A sumatur de B, quod ex principio erit sumptum, si autem A de C, C autem de nullo alio, nec aliud de illo C, neque de A alterum, neque de altero A, nullus erit syllogismus, nam in eo quod unum de uno sumitur, nihil accidit ex necessitate, quare assumenda est altera propositio. Si igitur sumatur A de alio, aut aliud de A, aut de C alterum, esse quidem syllogismum nihil prohibet, ad B autem non erit per ea quae sumpta sunt, nec quando C inest alteri, et illud alii, et hoc alteri, non copuletur autem ad B, nec sic erit ad B syllogismus ipsius A. Omnino enim dicimus quoniam nullus nunquam erit syllogismus alius de alio, non sumpto aliquo medio, quod ad utrumque se habet quoquo modo praedicationibus. Nam syllogismus quidem simpliciter ex propositionibus est, ad hoc autem syllogismus ex propositionibus, quae ad hoc, qui autem est huius ad hoc, per propositiones huius ad hoc, impossibile est autem ad B sumere propositionem, nihil neque praedicantes de eo, neque negantes, aut rursum eius quod est A ad B, nihil commune sumentes, sed utriusque propria quaedam praedicantes, aut negantes, quare sumendum, utriusque quod copulet praedicationes, si erit huius ad hoc syllogismus. Ergo si necesse est aliquod sumere ad utrumque commune, hoc autem contingit tripliciter, aut enim A de C et de B praedicantes, aut C de utrisque, aut utraque de C, hae autem sunt tres dictae figurae. Manifestum quoniam omnem syllogismum necesse est fieri per aliquam harum figurarum. Nam eadem ratio est, etsi per plura copuletur ad B, eadem enim erit figura et in pluribus. Quoniam igitur ostensivi terminantur per praedictas figuras, manifestum est. Quoniam autem et qui ad impossibile, palam erit per haec, omnes enim qui per impossibile concludunt, falsum quidem syllogizant. Quod autem ex principio erat, ex hypothesi demonstrant, quando aliquid accidit impossibile posita contradictione, ut quoniam diameter est asymeter, eo quod fiunt abundantia aequalia perfectis, posito symetro. Ergo aequalia quidem fieri abundantia perfectis syllogizant, asymetrum autem esse diametrum, ex hypothesi monstrant, quoniam falsum accidit propter contradictionem.Hoc enim fuit per impossibile syllogizare, ostendere aliquid impossibile propter priorem hypothesin. Quare quoniam falsus fit syllogismus ostensivus in his quae ad impossibile deducuntur, quod autem est ex principio, ex hypothesi monstratur, ostensivos autem diximus prius, quoniam per has terminantur figuras, manifestum quoniam et per impossibile syllogismi per has erunt figuras Similiter autem et alii omnes qui sunt ex hypothesi, in omnibus his enim syllogismus quidem fit ad transsumptum, quod autem est ex principio, terminatur per confessionem aut per aliquam aliam hypothesin. Si autem hoc verum, necesse est omnem demonstrationem et omnem syllogismum fieri per tres praedictas figuras. (0666C) Hoc autem ostenso, palam quoniam omnis syllogismus perficitur per primam figuram, et reducitur in huius universales syllogismos. Amplius autem in omnibus oportet aliquem terminorum praedicativum esse et universalem, sine universali enim non erit syllogismus, aut non ad hoc quod positum est, aut quod ex principio est petet. Ponatur enim musicam voluptatem esse studiosam, si ergo poposcerit voluptatem esse studiosam, non addens omnem, non erit syllogismus, si autem aliquam voluptatem esse studiosam, si aliam quidem, nihil ad hoc quod positum est, si autem eamdem, quod ex principio erat, sumit. Magis autem fit manifestum in figuris, ut quoniam aequicruris aequales sunt anguli, qui sunt ad basim: sint enim in centrum ductae A B, si ergo aequalem sumpserit A C angulum ei qui est B D, non omnino petens aequales eos qui sunt semicirculorum, et rursum C ei qui est D, non omnem assumens eum qui est incisionis. Amplius, ab aequalibus existentibus totis angulis, aequalibus demptis, aequales esse reliquos, scilicet E F, quod ex principio est petet, nisi sumat ab omnibus aequalibus, aequis demptis, aequalia relinqui. Manifestum igitur quoniam in omni syllogismo oportet universale esse. Et quoniam universale quidem ex omnibus terminis universalibus monstratur, particulare autem et sic, et aliter. Quare si conclusio sit universalis, et terminos necesse est universales esse, si autem universales sint termini, contingit conclusionem non universalem esse. Palam etiam quoniam in omni syllogismo aut utramque, aut alteram propositionem similem necesse est fieri conclusioni, dico autem non solum in eo quod affirmativa sit, vel negativa, sed in eo quod necessaria aut inesse, aut contingens: considerare autem oportet et alia praedicamenta. Manifestum autem et simpliciter quando erit, et quando non erit syllogismus, et quando perfectus, et quoniam si est syllogismus, necessarium est habere terminos secundum aliquem dictorum modorum. Palam autem et quoniam omnis demonstratio erit per tres terminos, et non per plures, nisi per alia et alia eadem conclusio fiat, ut E per A B, et per C D, aut per A B, et A C, et B C, plura enim media eorumdem nihil esse prohibet, haec autem cum sint, non unus, sed plures sunt syllogismi. Aut rursum, quando utrumque A B sumitur per syllogismum, ut A per D E, et rursum B per F G, aut hoc quidem inductione, illud autem syllogismo, sed et si plures erunt syllogismi, plures enim conclusiones sunt, ut A B et C. Si igitur non plures, sed unus (sic autem contingit fieri per plura media eamdem conclusionem, ut E quidem per A B C D ), impossibile. Sit enim E conclusio ex A B C D, ergo necesse est aliquid eorum, aliud ad aliud sumptum esse, hoc quidem ut totum, illud vero ut pars, hoc enim ostensum est prius, quoniam si est syllogismus, necesse est sic aliquos se habere terminorum. Habeat se ergo A sic ad B, est itaque aliqua ex eis conclusio, aut ergo E, aut alterum eorum quae sunt C D, aut alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, ex A B tantum, erit syllogismus, C D autem quidem se habeant sic ut sit hoc quidem ut notum, illud vero ut pars, erit aliquid ex illis aut E, aut aliquid eorum quae sunt A B, aut alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, aut eorum quae sunt A B alterum, aut plures erunt syllogismi, aut (ut contingebat) idem per plures terminos concludi accidit, si autem aliud quidem praeter haec, plures erunt et inconiuncti syllogismi ad invicem, si autem non sic se habeat C ad D ut faciat syllogismum, vane erunt sumpta, nisi inductionis, aut celationis, aut alicuius alius talium gratia. Si autem ex A B non E, sed alia quaedam fiat conclusio, ex C D autem aut horum alterum, aut aliud praeter haec, et plures fiunt syllogismi, et non eius quod positum est. Ponebatur enim eius quod est E esse syllogismum. Si autem non fiat ex C D nulla conclusio, et vane sumpta esse ea accidit, et non eius quod est ex principio esse syllogismum. Quare manifestum quoniam omnis demonstratio et omnis syllogismus erit per tres terminos solos.Hoc autem manifesto, palam quoniam et ex duabus propositionibus, et non pluribus, nam tres termini, duae sunt propositiones, nisi assumatur aliquid (quemadmodum in prioribus dictum est) ad perfectionem syllogismorum. Manifestum igitur quando, ut in oratione syllogistica, non pares sunt propositiones per quas fit conclusio principalis (quasdam enim superiorum conclusionum necessarium est esse propositiones), haec oratio aut non syllogistica est, aut plura necessariis interrogavit ad positionem. Secundum igitur principales propositiones sumptis syllogismis, omnis syllogismus erit ex propositionibus quidem perfectis, ex terminis autem abundantibus, uno enim plures termini propositionibus, erunt autem et conclusiones dimidietas propositionum. Quando autem per prosyllogismos concluditur, aut per plura media non continua, ut A B per C D, multitudo quidem terminorum similiter uno superabit propositiones, aut enim extrinsecus, aut medium ponetur intercidens terminus, utrinque autem accidit uno minus esse intervalla quam terminos, propositiones autem aequales sunt intervallis. Non tamen hae quidem semper perfectae erunt, illi vero abundantes, sed permutatim, quia cum propositiones quidem sunt perfectae, abundantes erunt termini, cum vero termini perfecti, abundantes erunt propositiones, simul enim termino addito, una additur propositio, undecunque addatur terminus. Quare quoniam hae propositiones quidem perfectae, illi vero abundantes erant, necesse est transmutare eadem, additione facta.Conclusiones autem non etiam eum habebunt ordinem neque ad terminos, neque ad propositiones, uno enim termino addito, conclusiones adiungentur uno, pauciores praeexistentibus terminis, ad solum enim ultimum non facit conclusionem, ad alios autem omnes. Ut si eis quae sunt A B C, adiacet D, statim et conclusiones duae adiacent, quae ad A, et ad B, similiter autem et in aliis. Si autem ad medium intercidat, eodem modo, ad unum enim solum non faciet syllogismum, quare multo plures conclusiones erunt et terminis et propositionibus. Quoniam autem habemus ex quibus syllogismi, et quale in unaquaque figura, et quot modis monstratur, manifestum nobis est, et quae propositio facile, et quae difficile argumentabilis est. Nam quae in pluribus figuris et per plures casus concluditur, facilis; quae autem in paucis et per pauciores, difficilius argumentabilis. Ergo affirmativa quidem universalis per primam tantum figuram monstratur, et per hanc simpliciter. Privativa vero et per primam, et per mediam. Per primam quidem simpliciter, per mediam autem dupliciter. Particularis autem affirmativa per primam et per postremam, simpliciter quidem per primam, tripliciter autem per postremam. Privativa vero particularis in omnibus figuris monstratur, verum in prima quidem semel, in media autem et postrema, in illa quidem dupliciter, in hac vero tripliciter. Manifestum ergo quoniam universalem affirmativam construere quidem difficillimum, destruere autem facillimum, omnino autem est interimenti quidem, universalia quam particularia facilius. Etenim si nulli, et si alicui non insit interemptum est, horum autem alicui quidem non in omnibus figuris monstratur, nulli autem in duabus. Eodem autem modo et in privativis, etenim si omni, et si alicui, interemptum est quod ex principio. Hoc autem fuit in duabus figuris. In particularibus autem simpliciter, aut omni, aut nulli ostendentem inesse. Construenti autem, facilius est particularia, nam in pluribus figuris, et per plures modos. Omnino autem non oportet latere quoniam destruere quidem per se invicem est, et universalia per particularia, et haec per universalia; construere autem non est per particularia universalia, per illa vero haec est. Nam si omni, et alicui. Simul autem manifestum quoniam destruere quam construere facilius. Quomodo ergo fit omnis syllogismus, et per quot terminos et propositiones, et quomodo habentes se ad invicem, amplius autem quae propositio in unaquaque figura, et quae in pluribus, et quae in paucioribus monstratur, palam ex his quae dicta sunt. Quomodo autem idonei erimus semper syllogizare ad propositum, et per quam viam sumemus circa unumquodque principia, nunc dicendum. Non enim solum fortasse oportet generationem considerare syllogismorum, sed et potestatem habere faciendi. Omnium igitur quae sunt, haec quidem sunt talia, ut de nullo alio praedicentur vere universaliter, ut Cleon, et Callias, et quod singulare, et sensibile, de his autem alia, nam et homo, et animal uterque horum est. Illa vero et ipsa quidem de aliis praedicantur, de illis autem alia prius non praedicantur, alia autem et ipsa de aliis, et de his alia, ut homo de Callia, et de homine animal. Quoniam ergo quaedam eorum quae sunt de nullo nata sunt dici, palam: nam sensibilium pene unumquodque est huiusmodi, ut de nullo praedicetur, nisi, ut secundum accidens, dicimus enim quandoque album illud Socratem esse, et hoc veniens Calliam. Quoniam autem in sursum pergentibus statur quandoque, rursum dicemus. Nunc autem sit hoc positum, de iis ergo praedicatum aliquod non est demonstrare nisi secundum opinionem, sed haec de aliis, neque singularia de aliis, sed alia de ipsis. Quae autem in medio sunt, manifestum quoniam utrumque contingit, nam et haec de aliis, et alia de his dicuntur, et pene rationes et considerationes sunt maxime de his. Oportet ergo propositiones circa unumquodque horum sic sumere supponentem, ipsum primum et definitiones, et quaecunque propria sunt rei, deinde post hoc quaecunque sequuntur rem. Et rursum quae res sequitur, et quaecunque non contingit ipsi inesse, quibus autem ipsa non contingit, non sumendum, eo quod convertitur privativa. Dividendum autem est, et eorum quae sequuntur, quaecunque in eo quod quid est, et quaecunque ut propria, et quaecunque ut accidentia praedicantur, et horum quae secundum opinionem, et quae secundum veritatem. Quanto enim plurium talium abundaverit quis, citius inveniet conclusionem, quanto autem veriorum, magis demonstrabit. Oportet autem eligere non quae sequuntur aliquam, sed quaecunque totam rem sequuntur, ut non quod aliquem hominem, sed quod omnem hominem sequitur, per universales enim propositiones fit syllogismus. Cum autem est indefinitum, incertum si universalis est propositio, cum vero definitum, manifestum. Similiter autem eligendum et quae ipsum sequitur tota, propter dictam causam. Ipsum autem quod sequitur, non est sumendum totum sequi, dico ut hominem omne animal, aut musicam, omnem disciplinam, sed simpliciter solum sequi quemadmodum et praetendimus, etenim inutile alterum et impossibile, ut omnem hominem esse omne animal, vel iustitiam omne bonum, sed cui consequens est, in illo omni esse dicitur. Quando autem ab aliquo continetur subiectum, cuius consequentia oportet sumere, quae universale quidem sequuntur, vel non sequuntur, non eligendum in his, sumpta enim sunt in illis quaecunque animal et hominem sequuntur, et quaecunque non animali insunt, similiter. Quae autem in unoquoque sunt propria, sumendum: sunt enim quaedam speciei propria praeter genus, necesse est enim diversis speciebus propria quaedam inesse. Neque autem universale eligendum iis quae sequitur quod continetur, ut animal iis quae sequitur homo, necesse est enim si hominem sequitur animal, et haec omnia sequi, convenientiora autem haec hominis electioni. Sumendum autem et quae plerumque sequuntur ea quae consequuntur, nam et problematibus quae plerumque, et syllogismus ex propositionibus, quae plerumque aut in omnibus, aut aliquibus, similis enim est uniuscuiusque conclusio principiis. Amplius quae omnibus sequentia sunt, non eligendum, non enim erit syllogismus ex ipsis, ob quam autem causam, in sequentibus erit manifestum. Construere ergo volentibus aliquid de aliquo toto, eius quidem quod construitur, inspiciendum ad subiecta de quibus ipsum dicitur, de quo autem oportet praedicari quaecunque hoc sequuntur. Si enim aliquod horum sit idem, alterum alteri necesse est inesse. Si autem non quoniam omni, sed quoniam alicui, quae sequitur utrumque, si enim aliquod horum idem fuerit, necesse est alicui inesse Quando autem nulli oporteat inesse, cui quidem oportet non inesse, ad sequentia subiecti, quod autem oportet non inesse, inspiciendum ad ea quae non contingunt illi adesse. Aut conversim cui quidem oportet non inesse, ad ea quae non contingunt eidem adesse, quod vero non inesse, inspiciendum ad sequentia. Nam si haec sint eadem utrorumque, nulli contingi alteri alterum inesse, fit enim quandoque quidem in prima figura syllogismus, quandoque autem in media. Si autem alicui non inesse, cui quidem oportet non inesse, quae consequitur: quod vero non inesse, quae non possibile est illi inesse. Si enim aliquid horum sit idem, necesse est alicui non inesse. Magis autem fortasse erit sic, unumquodque eorum quae dicta sunt manifestum. Sint enim sequentia quidem A, in quibus B, quae autem ipsum sequitur, in quibus C, quae autem non contingunt ei inesse, in quibus D, rursum autem ipsi E quae quidem insunt, in quibus F, quae autem ipsum sequitur, in quibus G, quae autem non contingunt eidem inesse, in quibus H. Si ergo eidem aliquid eorum quae sunt C, alicui eorum quae sunt F, necesse est A omni E inesse, nam F quidem omni E, C autem omni A, quare omni E inest. Si autem C et G idem, necesse est alicui E inesse A, nam id quod est E A, id vero quod est G E, omne ei sequitur. Si autem F et D sint idem, nulli E inerit ex proprio syllogismo, quoniam enim convertitur privativa, et F ei quod est D idem, nulli F inerit A, F autem omni E. Rursus si B et H idem, nulli E inerit A, nam B A quidem omni, ei autem in quo E nulli inerit. Idem enim erat ei quod est H, B; H autem nulli E inerat. Si autem G et D idem, A alicui E non inerit, nam ei quod est G non inerit A, quoniam neque D, G autem sub E est, quare alicui E non inerit. Si autem G et B idem, conversus erit syllogismus, nam G inerit omni A, nam B ei quod est A, E autem ei quod est B, idem enim erat ei quod est G, A autem ei quod est E, omni quidem non necessarium est inesse, alicui autem necessarium, eo quod convertatur universale praedicativum in particulare. Manifestum ergo quoniam ad praedicta perspiciendum utrinque in unaquaque quaestione, per haec enim omnes syllogismi. Oportet autem et sequentium, et quibus sequitur singulum, ad prima et universalia maxime inspicere, ut E quidem magis ad k F quam ad F solum, A autem ad k C magis quam ad C solum. Si enim ei quod est k F inest A, et ei quod est F inest et ipsi E, si vero hoc non sequitur A, possibile est id quod est F sequi. Similiter autem et in quibus idem sequitur, considerandum, nam si primis, et iis quae sub ipsis sunt, sequitur; si autem non his, et iis quae sub ipsis sunt, possibile. Palam autem quoniam per tres terminos et duas propositiones consideratio, et per praedictas figuras syllogismi omnes, monstratur enim omni quidem E inesse A, quando eorum quae sunt C F idem, quiddam sumitur, hoc autem erit medium, extremitates autem A et E, fit enim prima figura. Alicui autem quando C et G sumitur idem, hoc autem postrema figura, medium enim fit G. Nulli vero quando D et F idem; sic autem et prima figura, et media: prima quidem, quoniam nulli F inest A, siquidem convertitur privativa, F autem omni E. Media autem quoniam D A quidem nulli, E autem omni inest. Alicui autem non inesse, quando D et G idem fuerit, haec autem postrema figura, nam A quidem nulli G inerit, E vero omni G; manifestum igitur est quoniam per praedictas figuras omnes syllogismi. Et quoniam non eligendum quaecunque omnibus sequuntur, eo quod nullus fiat syllogismus ex ipsis, nam construere quidem non omnino erat ex sequentibus, privare autem non contingit per ea quae omnibus sequuntur, oportet huic quidem inesse, illi vero non inesse. Manifestum autem quoniam et aliae considerationes quae secundum electiones, inutiles ad faciendum syllogismum. Ut si sequentia utrumque eadem sint, aut quae sequitur A, et quae non contingit E inesse, aut rursum quaecunque non possibile est utrique inesse, non enim fit syllogismus per haec. Nam si sequentia sunt eadem, ut B et F, media fit figura praedicativas habens utrasque propositiones. Si autem ea quae sequitur A, et quae non contingit E, ut C, et H, prima erit figura privativam habens propositionem ad minorem extremitatem. Si autem quaecunque non contingunt utrique, ut D et H, privativae utraeque propositiones erunt vel in prima figura, vel in media, sic autem nullo modo erit syllogismus. Palam autem et quae eadem, sumendum secundum considerationem, et non quae diversa vel contraria, primum quidem quoniam medii gratia, inspectio, medium autem non diversum, sed idem oportet sumere. Deinde et in quibus accidit fieri syllogismum quod sumantur contraria, aut non contigentia eidem inesse, in praedictos omnia reducuntur modos. Ut si B et F sint contraria, aut non contingant eidem inesse, erit enim his sumptis syllogismus, quoniam nulli E inest A, sed non ex ipsis, sed ex praedicto modo, nam B A quidem omni, E autem nulli inerit, quare necesse est B idem esse alicui eorum quae sunt H. Rursum si B et G non possint eidem adesse, erit quoniam alicui E non inerit A, nam et sic media erit figura, nam B A quidem omni, G vero nulli inerit, quare necesse est G idem esse alicui eorum quae sunt D, nam non contingere G et B eidem inesse nihil differt, aut G alicui D idem esse, omnia enim sumpta sunt in D, quae non contingunt A inesse. Manifestum ergo quoniam ex istis quidem inspectionibus nullus fit syllogismus, et si B et F sint contraria, idem esse B alicui H, et syllogismum semper fieri per haec. Accidit ergo sic inspicientibus considerare viam aliam necessariam, eo quod quandoque latet identitas horum quae sunt B et H. Eodem autem modo se habent et qui ad impossibile deducunt syllogismi, ostensivis, nam et ipsi fiunt per ea quae sequuntur, et quibus sequitur utrumque. Et eadem consideratio in utrisque, nam quod monstratur ostensive, et per impossibile est syllogizare, et per eosdem terminos, et quod per impossibile et ostensive. Ut quoniam A nulli E inest, ponatur enim alicui inesse, ergo quoniam B omni A, A autem alicui E, et B alicui E inerit, sed nulli inerat. Rursum quoniam alicui E inest A, si enim nulli E inest A, E autem omni G, nulli G inerit A, sed omni inerat. Similiter autem est in aliis propositis, semper enim erit in omnibus per impossibile ostensio, ex sequentibus, et quibus sequitur utrumque. Et in uno quoque proposito, eadem consideratio et ostensive volenti syllogizare, et ad impossibile ducere, nam ex eisdem terminis utraeque demonstrationes. Ut si ostensum est nulli E inesse A, quoniam accidit et B alicui E inesse, quod est impossibile. Si sumptum sit E quidem nulli B, A autem omni B inesse, manifestum est enim quoniam nulli E inerit A. Rursum si ostensive syllogizatum sit A inesse nulli E, suppositis inesse per impossibile monstrabitur nulli inesse, similiter autem et in aliis. In omnibus enim necesse est iis qui per impossibile communem aliquem sumere terminum alium A subiectis, ad quem erit mendacii syllogismus, quare conversa ea propositione, altera autem similiter se habente, ostensivus erit syllogismus per eosdem terminos. Differt autem ostensivus ab eo qui ad impossibile, quoniam in ostensivo secundum veritatem ambae propositiones ponuntur, in eo autem qui ad impossibile, falsa una. Haec vero erunt magis manifesta per sequentia quando de impossibili dicemus; nunc autem tantum nobis sit manifestus, quoniam ad haec perspiciendum, et ostensive volentibus syllogizare, et ad impossibile deducere. (0673C)In aliis autem syllogismis quicunque sunt ex hypothesi, ut quicunque secundum transsumptionem, aut secundum qualitatem in subiectis, non in prioribus, sed in transsumptis erit consideratio, modus autem inspectionis idem: considerare autem oportet, et dividere quot modis sunt ex hypothesi, monstratur ergo unumquodque propositorum sic. Est autem et alio modo quaedam syllogizare horum, ut universalia per particularem inspectionem ex hypothesi. Si enim C et G eadem sint, solum G autem sumatur E inesse, omni E inerit A, et rursum si G et D eadem, solum autem de G praedicetur E, quoniam nulli E inerit A, manifestum ergo quoniam sic inspiciendum. Eodem autem modo et in necessariis, et in contingentibus, nam eadem consideratio, et per eosdem terminos erit, eodemque ordine et contingentis, et inesse syllogismus. Sumendum autem et in contingentibus et quae non insunt, possibilia autem inesse. Ostensum est enim quoniam et per haec fit contingentis syllogismus, similiter autem se habebit et in aliis praedicationibus. Manifestum ergo ex praedictis quoniam non solum possibile est per hanc viam fieri omnes syllogismos, sed etiam quoniam per aliam impossibile. Omnis enim syllogismus ostensus est quoniam per aliquam praedictarum figurarum fit, has autem non contingit per alia constitui quam per sequentia et quae sequitur unumquodque, ex his enim propositiones, et medii sumptio, quare nec syllogismum possibile est fieri per alia. Ergo methodus quidem de omnibus eadem est, et circa philosophiam, et circa autem quamlibet disciplinam. Oportet enim quae insunt, et quibus insunt circa unumquodque colligere, et his quamplurimis abundare, et hoc per tres terminos considerare, destruentem quidem sic, construentem vero sic, et secundum veritatem quidem, ex iis quae secundum veritatem scripta sunt inesse, ad dialecticos autem syllogismos, ex propositionibus quae sunt secundum opinionem. Principia autem syllogismorum universaliter quidem dicta sunt, et quomodo se habeant, et quomodo oportet inquirere ea, quatenus non aspiciamus ad omnia quae dicuntur, neque eadem construentes et destruentes, neque construentes de omni aut de aliquo, destruentes ab omnibus aut ab aliquibus, sed ad pauciora et determinata. Secundum singulum autem eorum quae sunt eligere, ut de bono aut disciplina. Propria autem in unaquaque sunt plurima, quare principia quidem quae sunt circa unumquodque, experimento est crescere, dico autem ut astrologicam quidem experientiam astrologicae disciplinae, sumptis enim sufficienter apparentibus, sic inventae sunt astrologicae demonstrationes. Similiter autem et circa quamlibet aliam se habet et artem et disciplinam. Quare si sumantur quae insunt circa unumquodque, nostrum erit iam demonstrationes prompte declarare: si enim nihil secundum historiam omittatur eorum quae subtiliter et vere insunt rebus, habebimus de omni (cuius quidem non est demonstratio) hanc invenire et demonstrare, cuius autem non nata est demonstratio, hoc facere manifestum. Universaliter ergo quo oportet modo propositiones eligere pene dictum est, per diligentiam autem pertransivimus in eo negotio quod circa dialecticam est.Quoniam autem divisio per genera parva quaedam particula est dictae methodi facile videre: est enim divisio velut infirmus syllogismus, nam quod oporteat quidem ostendere petitur, syllogizatur vero semper aliquid superiorum. Primum autem idem hoc latuit omnes utentes ea, et suadere conati sunt quoniam esset possibile de substantia demonstrationem fieri, et de eo quod est quid; quare neque quoniam contingebat syllogizare eos qui dividunt, intellexerunt, neque quoniam contingebat sic quemadmodum diximus. Ergo in demonstrationibus quidem cum oporteat quid syllogizare, oportet medium per quod fit syllogismus minus semper esse, et non universaliter de prima extremitate. Divisio autem contrarium vult, nam universalius sumit medium. Sit enim animal quidem in quo A, mortale autem in quo B, et immortale in quo C, homo vero cuius terminum oportet sumere in quo D, omne ergo animal accipit aut mortale, aut immortale: hoc autem est quidquid erat, omne esse aut B, aut C. Rursus hominem semper qui dividit, ponit animal esse, quare de D sumit A esse, ergo syllogismus quidem est, quoniam D, aut B, aut C omne erit, quare hominem aut mortalem, aut immortalem oportet sumere, nam mortale quidem, aut immortale esse necessarium est animal, mortale autem non necessarium est, sed petitur. Hoc autem erat quod oportebat syllogizare. Et rursus qui ponit A quidem animal mortale in quo autem B pedes habens, in quo autem C, non habens pedes, hominem vero D, similiter sumit A quidem, aut in B, aut in C esse. Omne enim animal mortale aut pedes habens, aut pedes non habens est, de D autem A, nam hominem animal mortale sumpsit esse, quare habens pedes, vel non habens pedes esse animal, necesse est hominem, pedes autem habens non necesse est, sed sumit, hoc autem erat quod oportebat rursum ostendere. Et ad hunc modum semper dividentibus, universale quidem accidit eis medium sumere, de quo oporteat ostendere et differentias et extremitates. In fine autem quoniam hoc est homo, aut quidquid erat quod quaeritur, nihil dicunt manifestum, quare necessarium est esse, etenim aliam viam faciunt omnem, non quidem contingentes idoneitates, opinantes esse. Manifestum est autem quoniam neque destruere hac via est, neque de accidente aliquid, aut de proprio syllogizare, neque de genere, neque de quibus ignoretur utrum hoc modo aut illo se habet, ut putasne diameter est symeter, vel asymeter? si enim sumat quoniam omnis longitudo est symetros vel asymetros, diameter autem longitudo, syllogizatum est quoniam symeter vel asymeter est diameter. Si autem sumetur incommensurabile, quod oportebat syllogizare sumetur, non ergo est ostendere, nam via quidem haec, per hanc autem non est ostendere symetrum vel asymetrum, in quo A longitudo, B autem symeter aut asymeter, diameter C. Manifestum est igitur quoniam neque ad omnem considerationem congruit inquisitionis modus, neque in quibus maxime videtur convenire, in his est utilis. Ex quibus ergo demonstrationes fiunt, et quomodo, et ad quae perspiciendum secundum unumquodque propositum manifestum ex dictis. Quomodo autem reducemus syllogismos in praedictas figuras, dicendum erit post haec, restat enim consideratio haec, si enim et generationem syllogismorum inspiciamus, et inveniendi habeamus potestatem, amplius autem factos reducamus praedictas figuras, finem habebit quod ex principio propositum est, accidet etiam simul quae praedicta sunt confirmari et manifestiora esse, quoniam sic se habent per ea quae nunc dicenda sunt. Oportet enim omne quod verum est, ipsum sibi ipsi manifestum esse omnino. Primum ergo oportet tentare duas propositiones accipere syllogismi, facilius enim in maiora dividere quam in minora: maiora autem compositiora sunt quam ea ex quibus componuntur. Deinde considerare utra in toto, et utra in parte. Et si non ambae sumptae sint, eum qui ponit alteram. Aliquoties enim universalem protendentes, eam quae in hac est non sumunt, neque scribentes, neque interrogantes, aut has quidem protendunt, per quas autem hae concluduntur, omittunt, alia vero vane interrogant. Considerandum autem si quid superfluum sumptum sit, et si quid necessariorum omissum, et hoc quidem ponendum, illud vero auferendum, donec veniat quis ad duas propositiones, sine his enim non est reducere sic interrogatas orationes. In aliquibus ergo facile est videre quod minus est, aliqui vero latent, et videntur quidem syllogizare, eo quod necessarium quid accidit ex iis quae posita sunt. Ut si sumatur, non substantia interempta substantiam non interimi, ex quibus autem est, interemptis, et quod ex eis est corrumpi. His enim positis, necessarium est substantiae partem esse substantiam, non tamen syllogizatum est quod ea quae sumpta sunt, sed desunt, propositiones. Rursum si cum est homo, necesse est esse animal, et cum est animal, substantiam, et cum est homo, necesse est esse substantiam, sed nondum syllogizatum est, non enim se habent propositiones ut diximus. Fallimur autem in talibus eo quod necessarium quiddam accidat ex his quae posita sunt, quam et syllogismus, necessarium est, in plus autem est necessarium quam syllogismus, nam omnis syllogismus, necessarium, necessarium autem non omne syllogismus. Quare non (si quid accidat positis quibusdam) statim tentandum est reducere, sed primum secundum est duas propositiones. Deinde sic dividendum in terminos. Medium autem ponendum terminorum, qui utrisque propositionibus dicitur, necesse est enim medium in utrisque esse in omnibus figuris. Si ergo subiiciatur et praedicetur medium, aut ipsum quidem praedicetur, aliud vero illo abnegetur, prima erit figura. Si autem et praedicetur, et negetur ab aliquo, media erit figura: si vero alia de illo praedicentur, aut hoc quidem praedicetur, illud vero ab illo negetur, postrema, sic enim se habuit in postrema figura medium, similiter autem etsi non universales sint propositiones, nam est eadem determinatio medii. Manifestum igitur quoniam in qua oratione non dicitur idem frequenter, non fit syllogismus, non enim sumptum est medium. Quoniam autem habemus quod propositorum in unaquaque figura clauditur, et in qua universale, et in qua particulare, manifestum est quoniam non ad omnes figuras perspiciendum, sed in unoquoque proposito ad propriam. Quaecunque vero in pluribus concluduntur, medii positione cognoscimus figuram. Frequenter ergo falli accidit circa syllogismos propter necessarium, quemadmodum dictum est prius: aliquoties autem propter similitudinem positionis terminorum, quod non oportet latere nos. Ut si A de B dicitur, et B de C, videbitur enim sic se habentibus terminis esse syllogismus, non fit autem neque necessarium quidquam, neque syllogismus. Sit enim in quo A semper esse, in quo autem B intelligibilis Aristomenes, in quo autem C Aristomenes, verum est autem A inesse B, semper enim est intelligibilis Aristomenes, sed et B de C, nam Aristomenes est intelligibilis Aristomenes, A autem non inest C, corruptibilis est enim Aristomenes; non igitur fiebat syllogismus sic se habentibus terminis, sed oportebat universaliter A B sumi propositionem: hoc vero falsum quod putabat omnem intelligibilem Aristomenem semper esse, cum Aristomenes sit corruptibilis. Rursum sit in quo quidem C Micalus, in quo autem B musicus Micalus, in quo autem A corrumpi cras. Verum est ergo B de C praedicari, nam Micalus est musicus Micalus, sed et A de B, corrumpetur enim cras musicus Micalus, A autem de C falsum: hoc autem idem est priori, non enim verum est universaliter, Micalus musicus quoniam corrumpetur cras. Hoc autem non sumpto non erat syllogismus. Haec ergo fallacia fit in eo quod pene, ut enim nihil differens dicere hoc huic inesse, aut hoc huic omni inesse, concedimus. Frequenter autem mentiri evenit, eo quod non bene exponuntur secundum propositionem termini, ut si A quidem sit sanitas, B autem aegritudo, C vero homo, verum est enim dicere quoniam A nulli B contingit inesse, nulli enim aegritudini sapitas inest; et rursum quoniam B inest omni C, omnis enim homo susceptibilis est aegritudinis, videbitur ergo accidere nulli homini contingere sanitatem inesse. Huius autem causa est quod non bene exponuntur termini secundum locutionem, quoniam transsumptis quae iis sunt secundum habitudines, non erit syllogismus. Ut si pro sanitate quidem ponatur sanum, pro aegritudine autem aegrum, non enim verum est dicere quoniam non contingit aegrotanti inesse sanum esse, hoc autem non sumpto, non fit syllogismus, nisi contingentis. Hoc autem non impossibile, contingit enim nulli homini inesse sanitatem. Rursum in media figura similiter erit falsum. Nam sanitatem aegritudini quidem nulli, homini vero omni contingit inesse, quare nulli homini aegritudo. In tertia autem figura secundum contingere accidit falsum, etenim sanitatem, et aegritudinem, et disciplinam, et ignorantiam, et omnino contraria omni eidem contingit inesse, sibi vero invicem impossibile, hoc autem confessum in praedictis. Cum enim eidem plura contingere inesse, contingebant et sibi invicem. Manifestum igitur quoniam in omnibus his fallacia fit propter terminorum expositionem, transsumptis enim his quae sunt secundum habitudines, nihil fit falsum. Palam ergo quoniam secundum huiusmodi propositiones semper quod est secundum habitum, pro habitu sumendum et ponendum terminum. Non oportet autem terminos semper quaerere nomine exponi, saepe enim erunt orationes quibus non ponuntur nomina, quare et difficile erit reducere huiusmodi syllogismos, aliquot es autem et falli accidet propter huiusmodi inquisitionem, ut quoniam immediatorum erit syllogismus; sit enim A duo recti, B autem triangulus, C vero aequicrurus; ergo ei quod est C inest A propter B; ei vero quod est B, non iterum propter aliud, per se enim triangulus habet duos rectos, quare non erit medium eius quod est A B, cum sit demonstrativum. Manifestum enim quoniam medium non sic semper est sumendum ut hoc aliquid, sed aliquando orationem, quod accidit et in praedicto. Inesse autem primum medio, et hoc postremo non oportet sumere, ut praedicentur semper ad se invicem similiter, et primum de medio, et hoc de postremo, et in non inesse similiter, sed quoties dicitur esse et verum dicere, hoc toties arbitrari oportet significare et inesse. Ut quoniam contrariorum una est disciplina: sit enim A unam esse disciplinam, B autem contraria sibi invicem, A ergo inest B, non quoniam contraria unam esse eorum disciplinam, sed quoniam verum est dicere de ipsis unam esse eorum disciplinam. Accidit autem quandoque primum de medio dici, medium autem de tertio non dici, ut si sophia est disciplina, boni autem est sophia: conclusio, quoniam boni est disciplina, et non bonum quidem est disciplina, sophia autem est disciplina. Quandoque autem medium quidem de tertio dicitur, primum autem de medio non dicitur, ut si qualis omnis est disciplina, aut contrarii. Bonum autem est, et contrarium, et quale: conclusio quidem, quoniam boni est disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque quale, neque contrarium, sed omnium disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque conclusio secundum rectum, neque quale, neque contrarium, sed bonum haec. Est autem quandoque neque primum de medio, neque hoc de tertio, primo de tertio quandoque quidem dicto, quandoque autem non dicto. Ut si cuius est disciplina, huius est genus, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam boni est genus. Praedicatur autem nullum de nullo, si autem cuius est disciplina, genus est hoc, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam bonum est genus: ergo de extremo quidem praedicatur primum, de se autem invicem non dicuntur. Eodem autem modo et non inesse sumendum, non enim semper significat non inesse hoc huic, non esse hoc, hoc; sed aliquando non esse hoc huius, aut hoc huic: ut quoniam non est motionis motus, aut generationis generatio, voluptatis autem est, non ergo voluptas generatio. Aut rursus quoniam risus est signum, signi autem non est signum, quare non est signum risus; similiter autem et in aliis, in quibus interimitur propositum, eo quod dicitur aliquo modo ad id genus. Rursus quoniam occasio non est tempus opportunum, Deo enim occasio quidem est, tempus autem opportunum non est, eo quod nihil sit Deo conferens. Terminos enim ponendum est occasionem, et tempus opportunum, et Deum. Propositio autem sumenda secundum nominis casum, simpliciter enim hoc dicimus de omnibus, quoniam terminos quidem semper ponendum secundum declinationes nominum, ut homo, aut bonum, aut contraria, aut hominis, aut boni, aut contrariorum. Propositiones autem sumendum secundum cuiusque casus, aut enim quoniam huic ut aequale, aut quoniam huius ut duplum, aut quoniam hoc ut feriens, vel videns, aut quoniam hic ut homo, animal, aut si quolibet modo aliter cadit nomen secundum propositionem, inesse autem hoc huic, et verum esse hoc de hoc, toties sumendum, quoties praedicamenta divisa sunt, et haec aut aliquo modo, aut simpliciter, amplius aut simplicia, aut complexa. Similiter autem et non inesse. Considerandum haec autem, et determinandum optimum. Reduplicatum autem in propositionibus ad primam extremitatem ponendum, non ad medium, dico autem ut si fiat syllogismus, quoniam iustitiae est disciplina quoniam bonum, ad primam extremitatem ponendum. Sit enim A disciplina quoniam bonum, in quo autem B bonum, in quo autem C iustitia, ergo verum est A de B praedicari. Nam boni est disciplina quoniam bonum. Sed et B de C, nam iustitia quiddam bonum est; sic ergo fit resolutio. Si autem ad B ponatur, quoniam bonum, non erit, nam A quidem de B verum erit, B autem de C non erit verum, nam bonum quoniam bonum praedicari de iustitia falsum est, et non intelligibile. Similiter autem et si salubre ostendatur, quoniam disciplinatum est in eo quod bonum, aut hircocervus, opinabilis in eo quod existens, aut homo corruptibilis in eo quod sensibile, in omnibus enim praedicatis ad extremum reduplicationem ponendum. Non est autem eadem positio terminorum, quando simpliciter quidem syllogizatum fuerit, et quando hoc aliquid, aut quo, aut quomodo. Dico autem ut quando bonum disciplinatum ostensum erit, et quando disciplinatum quoniam bonum. Sed simpliciter quidem disciplinatum ostensum est medium ponendum ens, si autem quoniam bonum, quid ens. Sit enim A disciplina quoniam quid ens, in quo autem B ens quid, in quo autem C bonum, verum est ergo A de B praedicari, erat enim disciplina alicuius entis, quoniam quid ens, sed et B de C, nam in quo C ens quid, quare et A de C, erit ergo disciplina boni quoniam bonum, erat enim quid ens, proprie substantiae signum. Si autem ens medium positum sit, et ad extremum ens simpliciter, et non quid ens dictum sit, non erit syllogismus, quoniam est disciplina boni quoniam bonum, sed quoniam ens, ut si sit in quo A disciplina quoniam ens, in quo B ens, in quo C bonum. Manifestum igitur quoniam in particularibus syllogismis sic sumendum terminos. Oportet autem accipere quae idem possunt nomina pro nominibus, et orationes pro orationibus, et nomen et orationem et semper pro oratione nomen suscipere, facilior est enim terminorum expositio, ut si nil differt dicere suspicabile opinabilis non esse genus, aut non esse idem quiddam suspicabile, quod opinabile, nam si idem est quod significatur, pro oratione dicta, suspicabile et opinabile terminos ponendum. Quoniam vero non est idem voluptatem esse bonum, et esse voluptatem quod bonum, non similiter ponendum terminos; sed si est syllogismus quoniam voluptas quod bonum, terminum ponendum quod bonum; si autem quoniam bonum, bonum, similiter autem et in aliis. Non est autem idem neque esse, neque dicere quoniam cui B inest, huic quoque omni A inest, et dicere, cui omni B inest, et A inest omni, nihil enim prohibet B inesse C, non autem omni. Ut sit B pulchrum quid, C autem album, si igitur alicui albo inest pulchrum quid, verum est dicere quoniam albo inest pulchrum, sed non omni fortasse. Si ergo A inest B, non omni autem de quo B (neque si omni C, inest B, neque si solum alicui), non necesse est ei quod est C inesse A, non quia non omni, sed nec inesse ei quod est C. Si autem de quocunque B dicatur vere, huic omni inest A, accidet A de quo omni B dicitur, de eo omni dici. Si autem A dicitur de omni de quo B dicatur, nihil prohibet ei quod est C inesse B, non omni autem A, aut non inesse omnino. In tribus igitur terminis manifestum est quoniam de quo B quidem omni, et A dicitur, hoc est de quibuscunque B dicitur, de omnibus dicitur et A, et si B quidem de omni, et A similiter, si autem non de omni, non necesse est A inesse omni. Non oportet autem arbitrari propter expositionem accidere aliquod inconveniens, non enim laboramus in eo quod aliquid sit hoc, sed quemadmodum geometer pedalem, et rectam hanc esse et sine latitudine dicit quae non est, sed non sic utitur, ut eis syllogizans. Omnino enim quod non est ut totum ad partem, et aliud ad hoc ut pars ad totum, ex nullo talium ostendit demonstrator, neque enim fit syllogismus, expositione autem sic utimur, ut et sentiat qui discit dicentes, non enim sic ut sine his non possibile sit demonstrare, quemadmodum ex quibus est syllogismus. Non lateat autem nos, quoniam in eodem syllogismo, non omnes conclusiones per unam eamdem figuram sunt, sed haec quidem per hanc, illa vero per aliam. Palam ergo quoniam et resolutiones sic faciendum. Quoniam autem non omne propositum in omni figura, sed in unaquaque disposita sunt, manifestum est ex conclusione in qua figura sit quaerendum. Et ad definitiones orationum quaecunque ad unum quiddam sunt argumentatae in eorum quae insunt termino, ad quod argumentatum est ponendum terminum, et non totam orationem, minus enim contingit perturbari propter longitudinem, ut si quis aquam ostendit quoniam est humidus potus, potum et aquam terminos ponendum. Amplius autem ex hypothesi syllogismos non est tentandum reducere, nam non est ex iis quae posita sunt reducere; non enim per syllogismum ostensi sunt, sed ad placitum concessi sunt omnes. Ut si quis ponat, si una quaedam potestas non sit contrariorum, neque disciplinam esse unam; deinde dispPomba quoniam non est una potestas contrariorum, ut sanativi et aegrotativi, simul enim idem erit sanativum et aegrotativum. Quoniam autem non est omnium contrariorum una potestas, ostensum est, sed quoniam disciplina non una, non est ostensum; quamvis confiteri sit necesse, at non ex syllogismo, verum ex hypothesi; hoc igitur non est reducere, quoniam non una potestas est: hic enim fortassee erat syllogismus, illud autem hypothesis. Similiter autem in his qui per impossibile concluduntur, nam neque hoc est resolvere, sed ad impossibile quidem reductio est; syllogismo enim monstratur; alterum autem non est, nam ex hypothesi concluditur. Differunt autem A praedictis quoniam in illis quidem oportet prius confiteri, si debet concedere, ut si ostendatur una potestas contrariorum, et disciplinam es E eamdem; hic autem et non prius confessi concedunt, eo quod manifestum sit falsum, ut posita dian etro symetro, eo quod imparia esse aequalia paribus. Plures autem et diversi terminantur ex conditione, quos prospicere oportet, et notare apte. Quae ergo horum differentiae, et quoties fiunt, qui sunt ex hypothesi, postea dicemus. Nunc autem tantum sit nobis manifestum quoniam non est resolvere in figuras huiusmodi syllogismos, et ob quam causam diximus. Quaecunque autem in pluribus figuris monstrantur proposita, si in altera syllogizetur, est reducere syllogismum in alteram, ut eum qui in prima est privativum in secundam figuram, et eum qui in media est in primam. Non omnes autem, sed quosdam, erit autem in sequentibus manifestum. Si enim A nulli B, B autem omni C, A nulli C, sic ergo prima figura; si autem convertatur privativa, media erit. Nam B A quidem nulli, C autem omni inerit. Similiter autem et si non universalis, sed particularis fit syllogismus, ut si A quidem nulli B, B autem alicui C, conversa enim privativa media erit figura. Eorum autem syllogismorum, qui sunt in secunda figura, universales quidem reducentur in primam figuram, particularium autem alter solum. Insit enim A B quidem nulli, C vero omni, conversa privativa prima erit figura, nam B quidem nulli A, A autem omni C inerit. Si autem praedicativum quidem sit ad B, privativum autem ad C, primus terminus ponendus est C, hoc enim nulli A, A autem omni B, quare nulli B inerit C, ergo et B nulli C, convertitur enim privativa.Si autem particularis sit syllogismus, quando privativum quidem erit ad maiorem extremitatem, resolvetur in primam figuram, ut si A nulli B, B autem alicui C, conversa enim privativa prima erit figura, nam B quidem nulli A, A autem alicui C. Quando vero praedicativum, non resolvetur, ut si A quidem omni B, C vero non omni, non enim suscipit conversionem A B, neque cum fit, erit syllogismus. Rursus qui in tertia quidem sunt figura, non resolvuntur omnes in primam, qui autem sunt in prima, omnes in tertiam. Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo quia convertitur particularis praedicativa, inerit et C alicui B, A vero omni B inerat, quare fit tertia figura. Et si privativus sit syllogismus, similiter: convertitur enim particularis affirmativa, quare A quidem nulli B, C autem alicui inerit. Eorum autem sylogismorum qui sunt in postrema figura unus tantum non resolvitur in primam, quando non universalis ponitur privativa, alii autem omnes resolvuntur. Praedicentur enim de omni C, et A et B, ergo convertetur C ad utrumque particulariter; inerit ergo A alicui B, quare erit prima figura, siquidem A omni C, C vero alicui B; et si A quidem omni C, B autem alicui C, cadem ratio, convertitur enim ad B C. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, primus ponendus B, nam B omni C, C autem alicui A, quare B alicui A, quoniam autem convertitur particularis, et A alicui B inerit. Et si privativus sit syllogismus universalibus terminis, similiter sumendum. Insit enim B omni C, A autem nulli C, ergo alicui B inerit C, A autem nulli C, quare erit medium C. Similiter autem et si privativa quidem si universalis, praedicativa autem particularis, nam A quidem nulli C, C autem alicui B inerit. Si autem particularis sumatur privativa, non erit resolutio, ut si B quidem omni C, A autem alicui C non inest, conversa enim B C, utraeque propositiones erunt particulares.Manifestum autem quoniam ad resolvendum ad se invicem figuras, quae ad minorem extremitatem est propositio, convertenda in utrisque figuris, hac conversa, transitio fit; eorum autem qui in media sunt figura, alter quidem resolvitur, alter vero non resolvitur in tertiam, nam cum sit universalis privativa, resolvitur. Si enim A nulli quidem B, alicui autem C, utraque similiter convertitur ad A, quare B quidem nulli A, C vero alicui, medium ergo A. Quando autem A omni B, C autem alicui non insit, non fit resolutio, neutra enim propositionum ex conversione universalis. Qui autem ex tertia sunt figura, resolventur in mediam, quando fuerit universalis privativa, ut si A nulli C, B autem alicui, aut omni C, nam C, A quidem nulli, B autem alicui inerit. Si autem particularis sit privativa, non resolvetur, non enim suscipit conversionem particularis negativa. Manifestum ergo quoniam iidem syllogismi non resolvuntur in his figuris, qui nec in primam resolvebantur, et quoniam in primam figuram reductis syllogismis, isti soli syllogismi per impossibile clauduntur. Quomodo ergo oportet syllogismos reducere, et quoniam resolvuntur figurae in se invicem, manifestum ex dictis. Differt autem in construendo vel destruendo opinari, aut idem, aut diversum significare, non esse hoc, et esse non hoc, ut non esse album, ei quod est esse non album; non enim idem significant, nec est negatio eius quae est esse album ea quae est esse non album, sed non esse album.  Ratio autem huius haec est; similiter enim se habet possibile est ambulare ad possibile non ambulare, id quae est esse album ad esse non album, et scit bonum ad scit non bonum: nam scit bonum vel sciens bonum nihil differt, neque potest ambulare vel est potens ambulare; quare et opposita, non potest ambulare et non est potens ambulare. Si igitur non est potens ambulare idem significat et est potens non ambulare, ipsa simul inerunt eidem, nam idem potest ambulare et non ambulare, et idem sciens bonum et non bonum est. Affirmatio autem et negatio non sunt oppositae simul in eodem. Quemadmodum ergo non idem est, non scire bonum et scire non bonum, nec esse non bonum et non esse bonum idem, nam proportionalium, si alterum sit, et alterum, nec esse non aequale et non esse aequale idem, huic enim quod est non aequale subiacet aliquid, et hoc est inaequale, illi vero nihil, eo quod aequale quidem vel inaequale non omne est, aequale autem vel non aequale omne; amplius, est non album lignum et non est album lignum non simul sunt, si enim est lignum non album, erit lignum, quod autem non est album lignum, non necesse est esse lignum: quare manifestum est quoniam non est eius quod est bonum, est non bonum, negatio; si ergo de omni uno vel affirmatio, vel negatio vera, si non est negatio, palam quoniam affirmatio aliquo modo erit; affirmationis autem omnis, negatio est, et huius ergo, ea quae est non est, non bonum. Habent autem ordinem hunc ad invicem, sit esse quidem bonum in quo A, non esse autem bonum in quo B, esse autem non bonum in quo C sub B, non esse autem non bonum in quo D sub A, omni ergo inerit aut A, aut B, et nulli eidem, et omni aut C, aut D, et nulli eidem, et cui C inest, necesse est B omni inesse. Si enim verum est dicere quoniam est non album, et quoniam non est album, verum; impossibile est enim simul esse album et esse non album, aut esse lignum album et esse lignum non album: quare si non affirmatio, et negatio inerit. Ei autem quod est B, non semper C, quod enim omnino non est lignum, neque lignum erit album, nec non album. E converso autem cui inest A, et D omni inest, aut enim C, aut D: quoniam autem non possunt simul esse non album et esse album, D inerit, nam de eo quod est album verum est dicere quoniam non est non album. De D autem non omnino A erit, nam de eo quod omnino non est lignum, non verum est dicere A quoniam est lignum album; quare D verum est, et A non verum, quoniam est lignum album. Palam autem quoniam et A et C nulli eidem insunt sed B et D contingit eidem alicui inesse. Similiter autem tem se habent et privationes ad praedicationes eadem positione: sit enim aequale in quo A, non aequale in quo B, inaequale in quo C, non inaequale in quo D. In pluribus autem quorum his quidem inest, illis vero non inest idem, negatio quidem similiter vera fit, ut quoniam non sunt alba omnia, aut quoniam non est album unumquodque, aut quoniam est non album unumquodque, aut quoniam omnia sunt non alba, falsum est. Similiter autem et eius quae est omne animal album, non haec (est non album omne animal) negatio, ambae enim falsae, sed es, non omne animal album. Quoniam autem palam quod aliud significat est non album, et non est album, et illa quidem affirmatio, haec vero negatio, manifestum quoniam non est idem modus monstrandi utrumque, ut quoniam quidquid est animal, non est album, aut contingit non esse album, et quoniam verum dicere non album, hoc enim est esse non album. Sed verum quidem dicere, est album, sive non album, idem modus. Constructive enim ambae per primam ostenduntur figuram, nam verum ei quod est similiter ordinatur, eius enim quae est, verum dicere album, non haec, verum dicere non album, negatio, sed haec, non est verum dicere album. Si enim verum est dicere quidquid est homo musicum esse, aut non musicum esse, quidquid est animal sumendum musicum esse, aut non musicum esse, et ostensum est. Non esse autem musicum quidquid est homo, destructive monstratur secundum dictos tres modos. Simpliciter autem quando sic se habent A et B, ut simul quidem eidem non contingant, omni autem de necessitate alterum, et rursum C et D similiter. Sequitur autem id quod est C, A, et non convertitur, et id quod est B sequetur D, et non convertitur, et A quidem et D contingunt eidem, B autem et C non contingunt. Primum ergo quoniam id quod est B sequitur D, hinc manifestum quoniam eorum quae sunt C D alterum ex necessitate omni inest, cui autem B non contingit C, eo quod simul infert A, A autem et B non contingunt eidem, manifestum quoniam D sequetur B. Rursum quoniam ei quod est A non convertitur C, omni autem vel C, vel D, contingit A, et D eidem inesse; B autem et C non contingit, eo quod consequitur A id quod est C, accidit enim quiddam impossibile. Manifestum est ergo quoniam nec B ei quod est D convertitur, eo quod contingit simul A, D inesse. Accidit autem aliquoties in huiusmodi terminorum ordine falli, eo quod opposita non sumantur recte, quorum necesse est omni alterum inesse: ut si A et B non contingunt simul eidem, necesse est autem inesse cui non alterum, alterum, et rursus C et D similiter, cui autem C omni sequitur A, accidet enim cui D, B inesse ex necessitate, quod falsum est; si sumatur enim negatio eorum quae sunt A B, ea quae est in quibus F, et rursus eorum quae sunt C D, ea quae est in quibus G. Necesse est igitur omni inesse vel A, vel F, aut enim affirmationem aut negationem, et rursum, aut C, aut G; affirmatio enim et negatio, et cui C omni A subiacet, quare cui F omni hoc quod est G. Rursum quoniam eorum quae sunt F B omni alterum, et eorum quae sunt G D similiter. Sequitur autem G id quod est F, et id quod est D sequitur B, hoc enim scimus. Si ergo A id quod est C, et id quod est D sequetur B, hoc autem falsum; E contrario enim erat in his (quae sic se habent) consequentia. Non enim fortasse necessarium omni inesse, aut A aut F, nec F aut B: non enim est negatio eius quod est A hoc quod est F, nam boni non bonum negatio; non autem est idem hoc quod est non bonum ei quod est neque bonum neque non bonum; similiter autem et in C D, nam negationes quae sumptae sunt, duae sunt. In quot ergo figuris, et per quales, et quot propositiones, et quando, et quomodo fit syllogismus, amplius autem ad quae perspiciendum construenti et destruenti, et quomodo oporteat quaerere de proposito secundum unamquamque artem, amplius autem per quam viam sumemus, quae in singulis sunt principia iam pertransivimus.  Quoniam autem alii quidem syllogismorum sunt universales, alii vero particulares: universales quidem omnes semper plura syllogizant, particularium autem praedicativi quidem plura, negativi vero conclusionem solam. Nam aliae quidem propositiones convertuntur, privativa vero non convertitur. Conclusio vero aliquid de aliquo est, quare alii quidem syllogismi plura syllogizant: ut si A ostensum sit omni aut alicui B inesse, et B alicui A necessarium est inesse, et si nulli B inesse A, et B nulli A, hoc autem aliud est A priore. Si autem A alicui B non insit, non necesse est et B alicui A non inesse; contingit enim omni A inesse. Haec ergo communis omnium causa universalium et particularium. Est autem de universalibus, et aliter dicere, quaecunque enim aut sub medio aut sub conclusione sunt, omnium erit idem syllogismus, si illa quidem in medio, haec vero in conclusione ponantur, ut si A B conclusio per C, quaecunque sub B aut sub C sunt, necesse est de omnibus dici A, nam D si in toto B, et B in A, et D erit in A. Rursum si E in toto C, et C in toto A, et E in toto A erit. Similiter autem et si privativus sit syllogismus. In secunda autem figura quod sub conclusione erit, solum erit syllogizare, ut si A insit nulli B, et omni C, conclusio quoniam nulli C inest B; si autem D sub C est, manifestum quoniam non inest ei B, iis autem quae sunt sub A, quoniam B non inest, non palam est per syllogismum, et si non inest B ei quod est E, si est E sub A, sed inesse quidem B nulli C per syllogismum ostensum est, non inesse vero A hoc quod est B, indemonstratum sumptum est, quare nec per syllogismum accidit B non inesse E. In particularibus autem, eorum quidem quae sub conclusione sunt, non erit necessarium. Non enim fit syllogismus, quando ea sumpta fuerit particularis, eorum autem quae sunt sub medio, erit omnium, verumtamen non per syllogismum, ut si A omni B, et B alicui C: nam eius quod sub C est positum, non erit syllogismus, eius vero quod sub B erit, sed non propter eum qui prius factus est syllogismum. Similiter autem et in aliis figuris, nam eius quidem quod sub conclusione est non erit, alterius vero erit, verum non per syllogismum, eo quod et in universalibus ex indemonstrata propositione quae sunt sub medio ostendebantur; quare neque hic erit, vel et in illis. Est ergo sic se habere, ut verae sint propositiones per quas fit syllogismus; est autem ut falsae, est vero ut haec quidem vera, illa autem falsa, conclusio autem aut vera, aut falsa ex necessitate. Ex veris ergo non est falsum syllogizare, ex falsis autem verum, tamen non propter quid, sed quia, nam eius qui est propter quid non est ex falsis syllogismus, ob quam autem causam in sequentibus dicetur. Primum ergo quoniam ex veris non possibile falsum syllogizare, hinc manifestum. Si enim cum est A, necesse est esse B, si non est B, necesse est A non esse; si ergo verum est A, necesse est et B verum esse, aut accidet idem simul et esse et non esse, hoc autem impossibile. Non autem quoniam ponitur A unus terminus, accipiatur, contingere uno aliquo existente, ex necessitate aliquid accidere, non enim potest. Nam quod accidit ex necessitate conclusio est, per quae autem fit ad minimum tres sunt termini, duo autem intervalla et propositiones. Si ergo verum est cui omni inest B et A, cui autem C et B, cui C, necesse est A inesse, et non potest hoc falsum esse, simul enim erit idem et non inerit; ergo A ut unum, positum est duas propositiones colligere. Similiter autem se habet et in privativis, non enim est ex veris ostendere falsum. Ex falsis autem est verum syllogizare, utrisque propositionibus falsis, et una; hac autem non utralibet contingit, sed secunda, si quidem totam sumamus falsam, non tota autem sumpta est utralibet. Insit enim A omni C, ei autem quod est B nulli, nec B insit C; contingit autem hoc, ut nulli lapidi animal, et lapis nulli homini; si igitur sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit, quare ex utrisque falsis vera est conclusio, omnis enim homo animal. Similiter autem et privativum: insit enim C nulli, nec A, nec B, A autem B omni, ut si eisdem terminis sumptis medium ponatur homo, lapidi enim nec animal, nec homo nulli inest, homini autem omni animal; quare si cui quidem omni inest, sumamus nulli inesse, cui vero non inest, omni inesse, ex falsis utrisque vera erit conclusio. Similiter autem ostendetur et si in aliquo utraque falsa sumatur. Si autem altera ponatur falsa, prima quidem tota falsa existente, ut A B, non erit conclusio vera, B C autem erit. Dico autem totam falsam quod contrariam verae, ut si quod nulli inest, omni sumptum est; aut si quod omni, nulli inesse. Insit enim A B nulli, B autem omni C; si ergo B C quidem propositionem sumamus veram, A B autem falsam totam, et omni B inesse A, impossibile est A C conclusionem veram esse, nulli enim inerat A earum quae sunt C, siquidem cui B nulli, B autem omni C. Similiter autem nec si A omni B inest, et B omni C, sumpta sit autem B C quidem vera propositio, A B autem falsa tota, et nulli, cui B inest A, conclusio falsa erit, omni enim C inest A, siquidem cui B omni C et A, B autem omni C. Manifestum ergo quoniam prima tota sumpta falsa, sive affirmativa, sive privativa, altera autem vera, non fit vera conclusio. Non tota autem sumpta falsa, erit: nam si A C quidem omni inest, B autem alicui, B autem omni C, ut animal, cygno quidem omni, albo autem alicui, album autem omni cygno, si sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit vere, omnis enim cygnus animal. Similiter autem et si privativa sit A B; possibile est enim A B quidem alicui inesse, C vero nulli, B autem omni C, ut animal alicui albo, nivi vero nulli, album vero omni nivi; si ergo sumatur A quidem nulli B, B autem omni C, A nulli C inerit. Si autem A B quidem propositio tota sumatur vera, B C autem tota falsa, erit syllogismus verus, nihil enim prohibet A, et B et C omni inesse, B autem nulli C, ut quaecunque eiusdem generis sunt species non subalternae, nam animal et homini et equo inest, equus autem nulli homini inest; si ergo sumatur A omni B, et B omni C, conclusio vera erit, tota falsa B C propositione. Similiter autem cum universalis privativa est A B propositio, contingit enim A neque B, neque C nulli inesse, et B nulli C, ut ex alio genere speciebus diversum genus, nam animal nec musicae, nec medicinae inest, neque musica medicinae. Sumpta ergo A quidem nulli B, B autem omni C, vera erit conclusio. Et si non tota falsa sit B C, sed in aliquo, etiam sic erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B et C toti inesse, B autem alicui C, ut genus speciei et differentiae, nam animal homini omni et omni gressibili, homo autem alicui gressibili, et non omni; si ergo A omni B, et B omni C sumatur, A omni C inerit, quod quidem erat verum. Similiter autem cum privativa est A, B propositio, contingit enim A nec B, nec C nulli inesse, B vero alicui C, at genus ex alio genere speciei et differentiae, nam animal nec sapientiae nulli inest, nec contemplationi, sapientia vero alicui contemplationi; si ergo sumatur A nulli B, B autem omni C, nulli C inerit A, hoc autem erat verum. In particularibus autem syllogismis contingit, prima propositione tota falsa existente, altera autem vera, veram esse conclusionem, et A B in aliquo falsa existente, B C autem vera, et A B quidem vera, particulari autem falsa, et utrisque existentibus falsis. Nihil enim prohibet A B quidem nulli inesse, C autem alicui, et B alicui C inesse, ut animal nulli nivi, albo autem alicui inest, et nix albo alicui. Si ergo ponatur medium nix, primum autem animal, et sumatur A quidem toti B inesse, B autem alicui C, A B tota falsa, B C autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum privativa est A B propositio, possibile est enim A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, B vero alicui C inesse, ut animal homini quidem omni inest, album autem aliquod non sequitur, homo vero alicui albo inest; quare si medio posito homine sumatur A nulli B inesse, et B alicui C, vera fit conclusio, cum sit tota falsa A B propositio. Et si in aliquo sit falsa A B propositio, B C vera existente, erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B, et C, alicui inesse, B autem alicui C, ut animal alicui pulchro, et alicui magno, et pulchrum alicui magno inest; si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, et A B, quidem propositio in aliquo falsa erit, B C autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum privativa est A B propositio, nam iidem erunt termini, et similiter positi ad demonstrationem. Rursum si A B quidem vera, B C autem falsa, vera erit conclusio. Nihil enim prohibet A quidem toti inesse B, C autem alicui, et B nulli C inesse: ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui, cygnus vero nulli nigro; quare si sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit conclusio, cum sit falsa B C. Similiter autem et privativa sumpta A B propositione, possibile enim A B quidem nulli, C autem alicui non inesse, et B nulli C, ut genus ex alio genere speciei et accidenti eius speciebus, nam animal quidem numero nulli inest, albo vero non alicui, numerus autem nulli albo; si ergo medium ponatur numerus, et sumatur A quidem nulli B, B autem alicui C, A alicui C non inerit, quod fuit verum, cum A B quidem sit propositio vera, B C autem falsa. Et si in aliquo sit falsa A B, falsa autem et B C, erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A alicui B et alicui C inesse utrique, B autem nulli C, ut si B sit contrarium ipsi C, et ambo accidentia eidem generi, nam animal alicui albo et alicui nigro inest, album autem nulli nigro inest; si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit conclusio. Et privativa quidem sumpta A B, similiter. Nam iidem termini, et similiter ponentur ad demonstrationem. Et ex utrisque falsis erit conclusio vera. Possibile est enim A B quidem nulli, C autem alicui inesse, B vero nulli C. Ut genus ex alio genere speciei, et accidenti speciebus eius, animal enim numero quidem nulli, albo vero alicui inest, et numerus nulli albo. Si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, conclusio quidem vera, propositiones vero ambae falsae. Similiter autem et cum privativa est A B. Nihil enim prohibet A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, et neque B nulli C, ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui non inest, cygnus vero nulli nigro: quare si sumatur A nulli B, B autem alicui C A non inerit; ergo conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. In media autem figura omnino contingit per falsa verum syllogizare, et utrisque propositionibus totis falsis sumptis, et hac quidem vera, illa tota falsa, utralibet falsa posita, et si utraeque in aliquo falsae, et si haec quidem simpliciter vera, illa autem in aliquo falsa, et in universalibus, et in particularibus syllogismis. Si enim A B quidem nulli inest, C autem omni, ut lapidi animal quidem nulli, homini autem omni, si contrariae ponantur propositiones, et si sumatur A B quidem omni, C vero nulli, ex falsis totis propositionibus erit vera conclusio. Similiter autem et si A inest B quidem omni, C vero nulli, nam idem erit syllogismus. Rursum si altera quidem tota falsa, altera autem tota vera. Nihil enim prohibet A et B et C omni inesse, B autem nulli C, ut genus non subalternis speciebus. Nam animal equo omni, et homini inest, et nullus homo equus; si ergo sumatur animal huic quidem omni, illi vero nulli inesse, haec quidem erit falsa, illa vero tota vera, et conclusio vera, ad quodlibet posito privativo. Et si altera in aliquo falsa, altera autem tota vera, possibile est enim A B quidem alicui inesse, C autem omni, et B nulli C, ut animal albo quidem alicui, corvo autem omni, album vero nulli corvo. Si ergo sumatur A B quidem nulli, C autem toti inesse, A B quidem propositio in aliquo falsa est, A C autem tota vera, et conclusio vera, et transposita quidem privativa, similiter. Nam per eosdem terminos demonstratio. Et si affirmativa quidem propositio in aliquo falsa, privativa autem tota vera, nihil enim prohibet A B quidem alicui inesse, C autem toti non inesse, et B nulli C, ut animal albo quidem alicui, pici autem nulli, album vero nulli pici: quare si sumatur A to i B inesse, C autem nulli, A B quidem in aliquo falsa, A C autem tota vera, et conclusio vera. Et si utraeque propositiones in aliquo falsae, erit conclusio vera, possibile est enim A, et B, et C alicui inesse, B autem nulli C, ut animal, et albo alicui, et nigro alicui, album vero nulli nigro. Si ergo sumator A B quidem omni, C autem nulli, ambae quidem propositiones in aliquo falsae, conclusio autem vera; similiter autem transposita privativa per terminos. Manifestum autem et in particularibus syllogismis, nihil enim prohibet A B quidem omni, C autem alicui inesse, et B alicui C non inesse, ut animal omni homini, albo autem alicui, homo vero alicui albo non inerit. Si ergo ponatur A B quidem nulli inesse, C autem alicui inesse, universalis quidem propositio tota falsa, particularis autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et affirmativa sumpta A B, possibile est enim A B quidem nulli, C autem alicui non inesse, et B alicui C non inesse, ut animal nulli inanimato, albo autem alicui, et inanimatum non inerit alicui albo Si ergo ponatur A B quidem omni, C vero alicui non inesse, A B quidem propositio universalis tota falsa, A C autem vera, et conclusio vera. Et universali quidem vera posita, minori autem particulari falsa, nihil enim prohibet A nec B nec C nullum sequi, et B alicui C non inesse, ut animal nulli numero nec inanimato, et numerus aliquod inanimatum non sequitur. Si ergo ponatur A B quidem nulli, C autem alicui, et conclusio vera, et universalis propositio vera, particularis autem falsa. Affirmativa autem universali similiter posita, possibile est enim A et B et C toti inesse, B autem aliquod C non sequi, ut genus speciem et differentiam. Nam animal omnem hominem et totum gressibile sequitur, homo vero non omne gressibile: quare si sumatur A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, universalis quidem propositio vera, particularis falsa, conclusio autem vera. Manifestum autem quoniam et utrisque falsis erit conclusio vera, siquidem contingit A et B et C huic quidem omni, illi vero nulli inesse, B vero aliquod C non sequi, nam sumpto A B quidem nulli, C autem alicui inesse, propositiones quidem ambae falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum praedicativa fuerit universalis propositio, particularis autem privativa, possibile est enim A B quidem nullum, C autem omne sequi, et B alicui C non inesse, ut animal disciplinam quidem nullam, hominem autem omnem sequitur, disciplina vero non omnem hominem. Si ergo sumatur A B quidem toti inesse, C autem aliquod non sequi, propositiones quidem falsae, conclusio autem vera. Erit autem et in postrema figura per falsas totas, et in aliquo utraque, et altera quidem vera, altera autem falsa, et haec quidem in aliquo falsa, illa autem tota vera, et e converso, et quotquot modis aliter possibile est transumere propositiones. Nihil enim prohibet nec A nec B nulli C inesse, A autem alicui B inesse, ut nec homo, nec gressibile, nullum inanimatum sequitur, homo autem alicui gressibili inest; si ergo sumatur A et B omni C inesse, propositiones quidem totae falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum haec quidem est privativa, illa vero affirmativa. Possibile est enim B quidem nulli C inesse, A autem omni, et A alicui B non inesse, ut nigrum nulli cygno, animal autem omni, et animal non omni nigro: quare si sumatur B quidem omni C, A vero nulli, A alicui B non inerit, et conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. Et si in aliquo fuerit utraque falsa, erit conclusio vera, nihil enim prohibet et A et B alicui C inesse, et A alicui B, ut album et pulchrum alicui animali inest, et album alicui pulchro; si ergo ponatur A et B omni C inesse, propositiones quidem in aliquo falsae, conclusio autem vera. Et privativa A C posita, similiter: nihil enim prohibet A quidem alicui C non inesse, B vero alicui inesse, et A non omni B inesse, ut album alicui animali non inesse. Pulchrum autem alicui inest, et album non omni pulchro: quare si sumatur A quidem nulli, C B autem omni, utraeque propositiones quidem in aliquo falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et haec quidem tota falsa, illa vero tota vera sumpta. Possibile est enim A et B omne C sequi, et A alicui B non inesse, ut animal et album omne cygnum sequitur, et animal non omni inest albo; positis igitur his terminis, si sumatur B quidem toti C inesse, A vero toti non inesse, B C quidem tota erit vera, A C autem tota falsa, et conclusio vera. Similiter autem et si B C quidem falsa, A C autem vera, nam hi quidem termini ad demonstrationem, nigrum, inanimatum, cygnus. Sed et si utraeque assumantur affirmative, nihil enim prohibet B quidem omne C sequi, A autem toti C non inesse, et A alicui B inesse, ut omni cygno animal, nigrum vero nulli cygno, et nigrum inest alicui animali: quare si sumatur A et B omni C inesse, B C quidem tota vera, A C autem tota falsa, et conclusio vera. Similiter autem et A C sumpta vera, nam per eosdem terminos demonstratio.  Rursum hac quidem tota vera existente, illa vero in aliquo falsa, possibile est enim B quidem omni C inesse, A autem alicui C et alicui B, ut bipes quidem omni homini, pulchrum non omni, et pulchrum alicui bipedi inest. Si ergo sumatur A et B toti C inesse, B C quidem tota vera, A C autem in aliquo falsa, conclusio autem vera. Similiter autem et A C quidem vera, B C autem falsa in aliquo sumpta, transpositis enim eisdem terminis erit demonstratio. Et cum haec quidem est privativa, illa vero affirmativa, quoniam possibile est B quidem toti C inesse, A autem alicui C, et quando sic se habeant, non omni B inesse A. Si ergo assumatur B quidem toti C inesse, A autem nulli, privativa quidem in aliquo falsa, altera autem tota vera, et conclusio erit vera. Rursum quoniam ostensum est quod cum A quidem nulli C inest, et B alicui, evenit A alicui B non inesse, manifestum igitur quoniam et cum A C tota est vera, B C autem in aliquo falsa, contingit conclusionem esse veram; si enim sumatur A quidem nulli C, B autem omni, A C quidem tota vera, B C autem in aliquo falsa. Manifestum autem et in particularibus syllogismis quoniam omnino per falsa erit verum, nam iidem termini sumendi, et quando universales fuerint propositiones, in praedicativis quidem praedicativi, in privativis autem privativi; nihil enim differt, cum nulli inerat, universaliter sumere inesse, et si alicui inerat, universaliter sumere ad terminorum positionem; similiter autem et in privativis. Manifestum igitur quod quando sit conclusio falsa, necesse est ea ex quibus est oratio falsa esse, aut omnia, aut aliqua; quando autem vera, non necesse est verum esse nec aliquod quidem, nec omne. Sed est cum nullum sit verum eorum quae sunt in syllogismis, et conclusionem similiter esse veram, non tamen ex necessitate. Causa autem quoniam cum duo sic se habent ad invicem, ut cum alterum sit, ex necessitate esse alterum, hoc cum non sit quidem, nec alterum erit; cum autem sit, non necesse est esse alterum; idem autem cum sit, et non sit, impossibile ex necessitate esse idem. Dico autem, cum sit A album, B esse magnum ex necessitate, et cum non sit A album, B esse magnum ex necessitate; quando enim cum hoc sit (ut A ) album, illud necesse est (ut B ) esse magnum, cum autem sit B magnum, C non esse album, necesse est, si A sit album, C non esse album. Et quando duobus existentibus, cum alterum sit, necesse est alterum esse, hoc autem cum non sit, necesse est A non esse, cum ergo B non sit magnum, A non potest album esse, cum vero A non sit album, necesse est B magnum esse, accidit ex necessitate cum B magnum non sit, idem B esse magnum: hoc autem impossibile, nam si B non est magnum, A non erit album ex necessitate; si ergo cum non sit A album, B erit magnum, accidit, si B non est magnum, B esse magnum, ut per tria. Circulo autem, et ex se invicem ostendere est per conclusionem, et e converso praedicationem alteram sumentem propositionem concludere reliquam, quam sumpserat in altero syllogismo, ut si oportuit ostendere quoniam A inest omni C, ostendat autem per C, rursus si monstret quoniam A inest B, sumens A quidem inesse C, C autem B, et A inerit B, prius autem e converso sumpsit B inesse C, aut si quoniam B inest C, oporteat ostendere si sumat A de C, quae fuit conclusio, B autem de A esse, prius autem sumptum est e converso A de B. Aliter vero non est ex se invicem ostendere, sive enim aliud medium sumetur, non circulo, nil enim sumitur eorumdem, sive horum quiddam, necesse est alterum solum, nam si ambo, eadem erit conclusio, at oportet diversam esse. In iis igitur quae non convertuntur ex indemonstrata altera propositione fit syllogismus, non enim est demonstrare per hos terminos, quoniam medio inest tertium, aut primo medium. In iis autem quae convertuntur, erit omnia monstrare per se invicem, ut si A, et B, et C convertuntur sibi invicem: ostendatur enim A C per medium B, et rursum A B per conclusionem, et per B C propositionem conversam; similiter autem et B C, et per conclusionem, et per A B propositionem conversam; oportet autem et C B, et B A propositionem demonstrare, nam his demonstratis usi sumus solis. Si ergo sumatur B omni C inesse, et C omni A, syllogismus erit eius quod est B ad A. Rursus si sumatur C omni A inesse, et A omni B, necesse est C inesse omni B. In utrisque ergo syllogismis C A propositio sumpta est indemonstrata, nam aliae probatae erant: quare si hanc ostenderimus, omnes erunt approbatae per se invicem; si ergo sumatur C omni B, et B omni A inesse, utraeque propositiones demonstratae sumuntur, et C necesse est inesse A. Manifestum est ergo quoniam in solis iis quae convertuntur, circulo et per se invicem contingit fieri demonstrationes, in aliis vero quemadmodum prius diximus. Accidit autem et in iis eodem quod monstratur uti ad demonstrationem, nam C de B, et B de A monstratur sumpto C de A dici, C autem de A per has ostenditur propositiones: quare conclusione utimur ad demonstrationem. In privativis autem syllogismis hoc modo monstratur ex se invicem: sit B quidem omni C inesse, A autem nulli B, conclusio autem quoniam A nulli C. Si ergo rursum oporteat concludere quoniam A nulli B, quod prius sumptum erat, erit A quidem nulli C, C autem omni B, sic enim e converso propositio. Si autem quoniam B inest C, oporteat concludere, non iam similiter convertendum A B, nam eadem propositio est B nulli A, et A nulli B inesse, sed sumendum, cui A nulli inest, huic B omni inesse. Sit enim A nulli C inesse, quod quidem fuit conclusio, cui autem A nulli B, si sumatur omni inesse, necesse est ergo B omni C inesse: quare cum sint tria, unumquodque conclusio est facta, et circulo demonstrare, hoc est conclusionem sumentem et e converso alteram propositionem, reliquam syllogizare. In particularibus autem syllogismis universalem quidem propositionem non est demonstrare per alias, particularem autem est; quoniam autem non est demonstrare universalem, manifestum, nam universale monstratur per universalia, conclusio autem non est universalis, oportet autem ostendere ex conclusione et altera propositione. Amplius, omnino non fit syllogismus conversa propositione, nam particulares fiunt utraeque propositiones. Particulare autem est, ostendatur enim A de aliquo C per B, si ergo sumatur B omni A, et conclusio maneat, B alicui C inerit, fit enim prima figura, et est A medium. (0693C) Si autem fit privativus syllogismus, universalem quidem propositionem non est ostendere, propter hoc quod prius dictum est, particularem (si simpliciter convertatur A B quemadmodum et in universalibus) non est, per assumptionem autem est, ut cui A alicui non insit, B alicui inesse; nam aliter se habentibus non fit syllogismus, eo quod negativa est particularis propositio. In secunda autem figura affirmativam quidem non est ostendere per hunc modum, privativam autem est; ergo praedicativa quidem non ostenditur, eo quod non sunt utraeque propositiones affirmativae, nam conclusio privativa, praedicativa autem ex utrisque ostendebatur affirmativis. Privativa autem sic ostenditur: insit enim A omni B, C autem nulli, conclusio quoniam B nulli C; si ergo sumatur B omni A inesse, et nulli C, necesse est A nulli C inesse, fit enim secunda figura, medium B. Si autem A B privativa sumpta sit, altera vero praedicativa, prima erit figura, nam C quidem omni A, B autem nulli C, quare B nulli A, ergo nec A B, medium C; ergo per conclusionem quidem et unam propositionem non fit syllogismus, assumpta autem altera erit. Si autem non universalis sit syllogismus, quae in toto quidem est propositio non ostenditur, propter eamdem causam quam quidem diximus et prius, quae autem in parte, ostenditur quando universalis sit praedicativa. Insit enim A omni B, C autem non omni, conclusio B C; si ergo sumatur B omni A, C autem non omni, conclusio A alicui C non inerit medium B. Si autem est universalis privativa, non ostenditur A propositio, conversa A B, accidit enim utrasque aut alteram propositionem fieri negativam: quare non erit syllogismus; sed similiter ostendetur quemadmodum et in universalibus, si sumatur, cui B alicui non inest, A alicui inesse. In tertia autem figura, quando utraeque propositiones universaliter sumentur, non contingit ostendere per se invicem propositionem. Nam universalis quidem ostenditur per universalia, in hac autem conclusio semper est particularis: quare manifestum quoniam omnino non contingit ostendere per hanc figuram universalem propositionem. Si autem haec quidem universalis sit, illa vero particularis, quandoque quidem erit, quandoque vero non inerit; quando ergo utraeque praedicativae sumantur, et universalis sit ad minorem extremitatem, erit; quando vero ad alteram, non erit. Insit enim A omni C, B autem alicui C, conclusio A B. Si ergo sumatur C omni A inesse conversa universali, et A inesse B, quod erat conclusio, C quidem ostensum est alicui B inesse, B autem alicui C, non est ostensum, quamvis necesse est si C alicui B, et B alicui C inesse; sed non idem est hoc illi, et illud huic inesse, sed assumendum est, si hoc alicui illi, et alterum alicui huic, hoc autem sumpto iam non sit ex conclusione et altera propositione syllogismus. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, erit ostendere A C, quando sumatur C quidem omni B inesse, A autem alicui; nam si C omni B inest, A autem alicui B, necesse est A alicui C inesse, medium B. Et cum fuerit haec praedicativa quidem, illa vero privativa, universalis autem praedicativa, ostendetur altera. Insit enim B omni C, A autem alicui non insit, conclusio quoniam A alicui B non inest. Si ergo assumatur C B omni inesse, inerat autem et A non omni B, necesse est A alicui C non inesse medium B. Cum autem privativa universalis sit, non ostenditur altera nisi sicut in prioribus, si sumatur cui hoc alicui non inest, alterum alicui inesse, ut si A nulli C, B autem alicui, conclusio quoniam A alicui B non inest. Si ergo sumatur cui A alicui non inest, eidem C alicui inesse, necesse est C alicui B inesse, aliter autem non est convertentem universalem propositionem ostendere alteram, nullo enim modo erit syllogismus. Manifestum igitur quoniam in prima quidem figura per se invicem est ostensio, et per primam, et per tertiam figuram fit: nam cum praedicativa quidem est conclusio, per primam, cum autem privativa, per postremam; sumitur enim cui hoc nulli, alterum omni inesse. In media autem, cum universalis est quidem syllogismus et per ipsam, et per primam figuram, et per postremam; cum autem particularis, et per ipsam, et per postremam. In tertia vero per ipsam, omnes. Manifestum etiam quoniam in media et in tertia qui non per ipsas fiunt syllogismi, aut non sunt secundum eam quae circulo est ostensionem, aut imperfecti sunt. Convertere autem est transponentem conclusionem facere syllogismum, quoniam vel extremum medio non inerit, vel hoc postremo; necesse est enim conclusione conversa, et altera remanente propositione, interimi reliquam; nam si erit, et conclusio erit: differt autem opposite aut contrarie convertere conclusionem, non enim fit idem syllogismus utrolibet conversa; palam autem hoc erit per sequentia. Dico autem opponi quidem omni inesse non omni, et alicui nulli, contrarie autem omni nulli, et alicui non alicui inesse. Sit enim ostensum A de C per medium B; si igitur sumatur A nulli C inesse, omni autem B, nulli C inerit B, et si A quidem nulli C, B autem omni C, A non omni B, et non omnino nulli, non enim ostendebatur universale per tertiam figuram. Omnino autem eam quae est ad maiorem extremitatem propositionem non est destruere universaliter per conversionem, semper enim interimitur per tertiam figuram, necesse enim ad postremam extremitatem utrasque sumere propositiones. Et si privativus sit syllogismus, similiter: ostendatur, enim A nulli C inesse per B, ergo si sumatur A omni C inesse, nulli autem B, nulli C inerit B. Et si A et B omni C, A alicui B, sed nulli inerat. Si autem opposite convertatur conclusio, et alii syllogismi oppositi, et non universales erunt, fit enim altera propositio particularis, quare conclusio erit particularis. Sit enim praedicativus syllogismus, et convertatur sic, ergo si A non omni C, B autem omni B, non omni C. Et si A quidem non omni C, B autem omni A, non omni B. Similiter autem et si privativus sit syllogismus, nam si A alicui C inest, B autem nulli, B alicui C non inerit, et non simpliciter nulli, et si A quidem alicui C, B autem omni, quemadmodum in principio sumptum est, A alicui B inerit. In particularibus autem syllogismis quando opposite convertitur conclusio, interimuntur utraeque propositiones, quando vero contrariae, neutra; non enim iam accidit quemadmodum in universalibus interimere deficiente conclusione secundum conversionem, sed nec omnino interimere. Ostendatur enim A de aliquo C per B; ergo si sumatur A nulli C inesse, B autem alicui C, A alicui B non inerit, et si A nulli C, B autem omni, nulli C inerit B; quare interimentur utraeque. Si autem contrarie convertantur, neutra; nam si A alicui C non inest, B autem omni, B alicui C non inerit, sed nondum interimitur quod ex principio, contingit, enim alicui inesse, et alicui non inesse: universali autem sublato A B, omnino non fit syllogismus. Si enim A quidem alicui C non inest, B autem alicui inest, neutra propositionum universalis est. Similiter autem et si privativus sit syllogismus, si enim sumatur A omni C inesse, interimuntur utraeque; si autem alicui, neutra; demonstratio autem eadem. In secunda autem figura, eam quidem quae est ad maiorem extremitatem propositionem, non est interimere contrarie, quolibet modo conversione facta, semper erit conclusio in tertia figura, universalis autem non fuit in hac syllogismus, alteram autem in hac interimemus, similiter conversione. Dico autem similiter: si contrarie quidem convertitur, contrarie; si opposite, opposite. Insit enim A omni B, C autem nulli, conclusio B C. Si ergo sumatur B omni C inesse, et A B maneat, A omni C inerit, fit enim prima figura. Si autem B omni C, A autem nulli C, A non omni B, figura postrema.Si autem opposite convertatur B C, A B quidem similiter ostendetur, A C autem opposite: nam si B alicui C, A autem nulli C, A alicui B non inerit; rursum si B alicui C, A autem omni B, A alicui C, quare oppositus fit syllogismus. Similiter autem ostendetur et si e converso se habeant propositiones. Si autem particularis est syllogismus, contrarie quidem conversa conclusione neutra propositionum interimitur, quemadmodum nec in prima figura, opposite autem, utraeque. Ponatur enim A B quidem nulli inesse, C autem alicui, conclusio B C. Si igitur ponatur B alicui C inesse, et A B maneat, conclusio erit quoniam A alicui C non inest, sed non interimitur quod ex principio, contingit enim alicui inesse et non inesse. Rursum si B alicui C, et A alicui C, non erit syllogismus, neutrum enim universale eorum quae sumpta sunt, quare non interimitur A B. Si autem opposite convertatur, interimuntur utraeque, non si B omni C, A autem nulli B, nulli C, A erit autem alicui. Rursum si B omni C, A autem alicui C, alicui B, A. Eadem autem demonstratio et si universalis sit praedicativa. In tertia vero figura quando contrarie quidem convertitur conclusio, neutra propositionum interimitur secundum nullum syllogismorum; quando autem opposite, utraeque in omnibus. Si enim ostensum A alicui B inesse, medium autem sumptum C, et sint universales propositiones, si ergo sumatur A alicui B non inesse, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A de C. Neque si A B alicui non inest, C autem omni, non erit eius quod est B C syllogismus. Similiter autem ostendetur et si non universales sint propositiones, aut enim utrasque necesse est particulares esse per conversionem, aut universalem ad minorem extremitatem fieri, sic autem non fiet syllogismus, nec in prima figura, nec in media. Si autem opposite convertantur propositiones, interimuntur utraeque, nam si A nulli B, B autem omni C, A nulli C. Rursum si A B quidem nulli, C autem omni, B nulli C. Et si altera non sit universalis, similiter; si enim A nulli B, B autem alicui C, A alicui C non inerit. Si autem A quidem nulli, C autem omni, nulli C, B. Similiter et si privativus sit syllogismus; ostendatur enim A alicui B non inesse; si autem praedicativa quidem B C, A C autem negativa, sic enim fiebat syllogismus. Quando igitur contrarium sumitur conclusioni, non erit syllogismus, nam si A alicui B, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A et C. Neque si A alicui B, nulli autem C, non fuit eius quod est A B et C syllogismus, quare non interimuntur propositiones. Quando vero oppositum, interimuntur; nam si A omni B, et B omni C, A omni C, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C, B nulli C, sed omni inerat. Similiter autem monstratur, et si non universales sint propositiones: sit enim A C universalis et privativa, altera autem particularis et praedicativa, ergo si A quidem omni B, B autem alicui C, A alicui C accidit, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C, et B nulli C. Si autem A alicui B, et B alicui C, non fit syllogismus. Neque si A alicui B, et nulli C, nec sic. Quare illo quidem modo interimuntur, sic autem non interimuntur propositiones. Manifestum est ergo ex iis quae dicta sunt quomodo conversa conclusione in unaquaque figura fit syllogismus, et quando contrarie propositioni, et quando opposite; et quoniam in prima quidem figura per mediam et postremam fiunt syllogismi, et quae quidem ad minorem extremitatem semper per mediam interimitur, quae vero ad maiorem per postremam; in secunda autem, per primam et postremam, quae quidem ad minorem extremitatem semper per primam figuram, quae vero ad maiorem, per postremam; in tertia vero, per primam et per mediam, et quae quidem ad maiorem per primam semper, quae vero ad minorem per mediam semper. Quid ergo est convertere, et quomodo in unaquaque figura, et quis fit syllogismus, manifestum. Per impossibile autem syllogismus ostenditur quidem, quando contradictio ponitur conclusionis, et assumitur altera propositio. Fit autem in omnibus figuris, simile enim est conversioni. Verumtamen differt in tantum quoniam convertitur quidem facto syllogismo, et sumptis utrisque propositionibus. Deducitur autem ad impossibile non confesso opposito prius, sed manifesto quoniam est verum. Termini vero similiter se habent in utrisque, et eadem sumptio utrorumque, ut si A inest omni B, medium autem C, si supponitur A non omni vel nulli B inesse, C vero omni, quod fuit verum, necesse est C B aut nulli aut non omni inesse, hoc autem impossibile, quare falsum est quod suppositum est. Verum ergo oppositum; similiter autem in aliis figuris, quaecunque enim conversionem suscipiunt, et per impossibile syllogismum. Ergo alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile in omnibus figuris, universale autem praedicativum in media et in tertia monstratur, in prima autem non monstratur: supponatur enim A non omni B aut nulli inesse, et assumatur alia propositio, utrolibet modo, sive A omni inest C, sive B omni D (sic enim erat prima figura); si ergo supponatur A non omni B inesse, non fiet syllogismus quomodolibet sumpta propositione. Si autem nulli B, D quidem assumatur, syllogismus quidem erit falsi, non ostenditur autem propositum; nam si A nulli B, B autem omni D, A nulli D, hoc autem sit impossibile, falsum igitur est nulli B inesse A, sed non si nulli falsum, omni verum. Si autem C A assumatur, non fit syllogismus, nec quando supponitur non omni B inesse A; quare manifestum quoniam omni inesse non ostenditur in prima figura per impossibile. Alicui autem, et nulli, et non omni ostenditur. Supponatur enim A nulli B inesse, B autem sumptum sit omni aut alicui C, ergo necesse est A nulli aut non omni C inesse, hoc autem impossibile. Sit enim verum et manifestum quoniam omni C inest A, quare si hoc falsum, necesse est A alicui B inesse. Si autem ad A sumatur altera propositio, non erit syllogismus, neque quando subcontrarium conclusioni supponitur ut alicui non inesse; manifestum ergo quoniam oppositum sumendum est. Rursum supponatur A alicui B inesse, sumptum autem sit C omni A, necesse est igitur C alicui B inesse, hoc autem sit impossibile, quare falsum quidem suppositum est; si autem sic, verum est nulli inesse. Similiter autem et si privativa sumpta sit C A. Si autem ad B sumpta sit propositio, non erit syllogismus. Si autem contrarium supponatur, syllogismus erit et impossibile, non tamen ostenditur quod est propositum: supponatur enim A omni B, et C sumptum sit omni A, ergo necesse est C omni B inesse: hoc autem impossibile, quare falsum est omni B inesse A, sed nondum erit necessarium, si non omni, nulli inesse. Similiter autem et si A D B sumatur altera propositio: nam syllogismus quidem erit et impossibile, non interimitur autem hypothesis, quare oppositum supponendum. Ad ostendendum autem non omni B inesse A, supponendum omni inesse, nam si A omni B, et C omni A, omni B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum quod suppositum est; similiter autem et si ad B sumpta sit altera propositio. Et si privativa sit C A, similiter, nam et sic fit syllogismus. Si autem ad B sumpta sit privativa, nihil ostenditur. Si autem non omni, sed alicui inesse supponatur, non ostenditur quoniam non omni, sed quoniam nulli: si enim A alicui B, C autem omni A, alicui B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum est alicui B inesse A, quare verum nulli; hoc autem ostenso, interimitur verum, nam A alicui quidem B inerat, alicui vero non inerat. Amplius autem non tam propter hypothesin accidit impossibile, falsa enim erit, siquidem ex veris non est falsum syllogizare: nunc autem est vera, inest enim A alicui B, quare non supponendum alicui inesse, sed omni. Similiter autem et si alicui B non inest A, ostenderemus; si enim idem est alicui non inesse, et non omni inesse, eadem in utrisque demonstratio. Manifestum ergo quoniam non contrarium, sed oppositum supponendum in omnibus syllogismis, sic enim necessarium erit et axioma probabile; nam si de omni vel affirmatio vel negatio, ostenso quoniam non negatio, necesse est affirmationem veram esse; rursum si non ponant veram esse affirmationem, constat veram esse negationem; contrariam vero neutro modo contingit ratum facere. enim necessarium, si nulli falsum, omni verum, neque probabile ut sit alterum falsum, quoniam alterum verum. Manifestum ergo quoniam in prima figura alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile, universale autem affirmativum non ostenditur. In media autem figura et postrema et hoc ostenditur. Ponatur enim A non omni B inesse, sumptum sit autem omni C inesse A; ergo si B quidem non omni inest A, C autem omni, non omni B inest C, hoc autem impossibile. Sit enim manifestum quoniam omni B inest C, quare falsum quod suppositum est, verum est ergo omni inesse. Si autem contrarium supponatur, syllogismus quidem erit ad impossibile, non tamen ostenditur quod propositum est. Si enim A nulli B, omni autem C, nulli B, C, hoc autem impossibile, quare falsum est, nulli inesse, sed non si hoc falsum, verum omni. Quando autem alicui B inest A, supponatur A nulli B inesse, C autem omni insit, necesse est ergo C nulli B inesse, quare si hoc impossibile, necesse est A alicui B inesse. Si autem supponatur alicui non esse, eadem erunt quae in prima figura. Rursum supponatur A alicui B inesse, C autem nulli insit, necesse est igitur C alicui B non inesse; sed omni inerat, quare falsum quod suppositum est, nulli ergo B inerat A. Quando autem non omni B inest A, supponatur omni inesse: C autem nulli, necesse est ergo C nulli B inesse, hoc autem impossibile, quare verum est non omni inesse. Manifestum ergo quoniam omnes syllogismi fiunt per mediam figuram. Similiter autem et per ultimam. Ponatur enim A alicui B non inesse, C autem omni B, ergo A alicui C non inerit; si ergo hoc impossibile, falsum alicui non inesse, quare verum est omni. Si vero supponatur nulli inesse, syllogismus quidem erit, et impossibile, non ostendit autem quod propositum est; si enim contrarium supponatur, eadem erunt quae in prioribus. Sed ad ostendendum alicui inesse, eadem sumenda est hypothesis, nam si A nulli B, C autem alicui B, A non omni C; si ergo hoc falsum, verum est A alicui B inesse. Quando autem nulli B inest A, supponatur alicui inesse, sumptum sit autem et C omni B inesse, ergo necesse est A alicui C inesse; sed nulli inerat, quare falsum est alicui B inesse A. Si autem supponatur omni B inesse A, non ostenditur propositum: sed ad ostendendum non omni inesse, eadem sumenda hypothesis, nam si A omni B, et C alicui B, A inest alicui C; hoc autem non fuit, quare falsum est omni inesse, si autem sic, verum non omni. Si autem supponatur alicui inesse, eadem erunt quae et in iis quae prius dicta sunt. Manifestum ergo quoniam in omnibus per impossibile syllogismis oppositum supponendum. Palam autem et quoniam in media figura ostenditur quodammodo affirmativum, et in postrema universale. Differt autem quae ad impossibile demonstratio ab ea quae est ostensiva, eo quod ponat quod vult interimere, deducens ad confessum falsum, ostensiva autem incipit A confessis positionibus veris. Sumunt ergo utraeque duas propositiones confessas, sed haec quidem ex quibus est syllogismus, illa vero unam quidem harum, alteram vero contradictionem conclusionis. Et hinc quidem non necesse est notam esse conclusionem, neque prius opinari quoniam est, aut non est; illinc vero necesse est, quoniam non est. Differt autem nihil affirmativam, vel negativam esse conclusionem, sed similiter se habet in utrisque. Omnis enim quae ostensive concluditur, et per impossibile monstrabitur, et quae per impossibile ostensive, et per eosdem terminos, non autem in eisdem figuris. Nam quando per impossibile syllogismus fit in prima figura, quod verum est in media erit, aut in postrema, privativum quidem in media, praedicativum autem in postrema. Quando autem syllogismus in media fit, quod verum est erit in prima figura in omnibus propositionibus, quando autem in postrema syllogismus, quod verum est erit in prima et in media, affirmativa quidem in prima, privativa autem in media. Sit enim ostensum A nulli aut non omni B per primam figuram, ergo hypothesis quidem erat alicui B inesse A, C autem sumebatur A quidem omni inesse, B autem nulli, sic enim fiebat syllogismus ad impossibile. Hoc autem media figura, si C A quidem omni, B autem nulli inest, et manifestum ex his quoniam B nulli inest A. Similiter autem et si non omni ostensum sit inesse, nam hypothesis quidem est omni B A inesse, C autem sumebatur A quidem omni, B autem non omni, et si privativa sit sumpta C A, similiter etenim sic fit in media figura. Rursum sit ostensum alicui B inesse A, ergo hypothesis quidem est nulli inesse, B autem sumebatur omni C inesse, et A vel omni vel alicui C, sic enim erit impossibile. Hoc autem postrema figura, si A et B omni C, et manifestum ex his quia necesse est A alicui B inesse, similiter autem et si alicui C sumatur inesse B vel A. Rursum in media figura ostensum sit A omni B inesse, ergo hypothesis quidem fuit, non omni B inesse A, sumptum est autem A omni C, et C omni B, sic enim erit impossibile; hoc autem prima figura, si A omni C, et C omni B. Similiter autem et si ostensum sit alicui inesse, nam hypothesis quidem fuit, nulli B inesse A, sumptum est autem A omni C, et C alicui B. Si autem privativus fit syllogismus, hypothesis quidem A alicui B inesse, sumptum est autem A nulli C, et C omni B, quare fit prima figura. Et si non universalis sit syllogismus, sed A alicui B ostensum sit non inesse, similiter: nam hypothesis quidem omni B inesse A, sumptum est autem A nulli C, et C alicui B, sic enim prima figura. Rursum in tertia figura ostensum sit A inesse omni B, ergo hypothesis quidem fuit non omni B inesse A, sumptum est autem C omni B, et A omni C, sic enim erit impossibile, hoc autem prima figura. Similiter autem et si in aliquo sit demonstratio, non hypothesis quidem erit nulli B inesse A, sumptum est autem C alicui B, et A omni C. Si autem privativus sit syllogismus, hypothesis quidem A alicui B inesse, sumptum est autem C A quidem nulli, B autem omni, hoc autem media figura. Similiter autem et si non universalis sit demonstratio, nam hypothesis quidem erit omni B inesse A, sumptum est autem C A quidem nulli, B autem alicui, hoc autem media figura. Manifestum ergo quoniam per eosdem terminos et ostensive est demonstrare unumquodque propositum, et per impossibile. Similiter autem erit, et cum sint ostensivi syllogismi, ad impossibile deducere in terminis sumptis, quando opposita propositio conclusioni sumpta fuerit, nam fiunt iidem syllogismi iis qui sunt per conversionem, quare statim habemus et figuras per quas unumquodque erit. Palam ergo quoniam omne propositum ostenditur per utrosque modos et per impossibile et ostensive, et non contingit separari alterum ab altero. In qua autem figura est ex oppositis propositionibus syllogizare, et in qua non est, sic erit manifestum. Dico autem oppositas esse propositiones, secundum locutionem quidem quatuor, ut omni et nulli, et omni et non omni, et alicui et nulli, et alicui et non alicui inesse; secundum veritatem autem tres, nam alicui et non alicui secundum locutionem opponuntur solum; harum autem contrarias quidem universales, omni nulli inesse, ut omnem disciplinam esse studiosam, nullam esse studiosam, alias vero oppositas. In prima igitur figura non est ex oppositis propositionibus syllogismus, neque affirmativus, neque negativus; affirmativus quidem, quoniam oportet utrasque affirmativas esse propositiones, oppositae autem affirmatio et negatio; privativus autem, quoniam oppositae quidem idem de eodem praedicant et negant, in prima autem medium non dicitur de utrisque, sed de illo quidem aliud negatur, idem autem de alio praedicatur, hae vero non opponuntur. In media autem figura, et ex oppositis, et ex contrariis contingit fieri syllogismum. Sit enim bonum quidem in quo A, disciplina autem in quo B et C; si ergo omnem disciplinam studiosam sumpsit, et nullam, A inest omni B, et nulli C, quare B nulli C, nulla ergo disciplina disciplina est. Similiter autem et si omnem sumens studiosam disciplinam, medicinam vero non studiosam sumpsit, nam A B quidem omni, C autem nulli, quare aliqua disciplina non erit disciplina. Et si A C quidem omni, B autem nulli, est autem B quidem disciplina, C autem medicina, A vero opinio, nullam enim disciplinam opinionem sumens, sumpsit aliquam disciplinam esse opinionem. Differt autem A priore in terminis converti, nam prius quidem ad B, nunc autem ad C affirmativum. Et si sit non universalis altera propositio, similiter; semper enim medium est, quod ab altero quidem negative dicitur, de altero vero affirmative. Quare contingit opposita quidem perfici, non autem semper, neque omnino, sed sic se habeant, quae sunt sub medio, ut vel eadem sint, vel totum ad partem; aliter autem impossibile, non enim erunt propositiones ullo modo, neque contrariae, neque oppositae. In tertia vero figura affirmativus quidem syllogismus nunquam erit ex oppositis propositionibus propter causam dictam, et in prima figura. Negativus autem erit syllogismus, et universalibus, et non universalibus terminis. Sit enim disciplina in quo B et C, medicina autem in quo A; si ergo sumat omnem medicinam disciplinam, et nullam medicinam disciplinam, B omni A sumpsit, et C nulli A, quare erit aliqua disciplina non disciplina. Similiter autem et si non universaliter sumpta sit A B propositio, nam si est aliqua medicina disciplina, et rursum nulla medicina disciplina, accidit disciplinam aliquam non esse disciplinam. Sunt autem universaliter quidem sumptis terminis contrariae propositiones, si autem particularis altera sit, oppositae. Oportet autem scire quoniam contingit opposita sic sumere quemadmodum diximus, omnem disciplinam studiosam esse, et rursum nullam aut aliquam non esse studiosam, quod non solet latere; erit autem per alias interrogationes syllogizare alteram, et quemadmodum in Topicis dictum est, sumere. Quoniam autem affirmationum oppositiones sunt tres, sexies accidit opposita sumere, aut omni et nulli, aut omni et non omni, aut alicui et nulli; et hoc converti in terminis, ut A omni B et nulli C, aut omni C et nulli B, aut huic quidem omni, illi vero non omni, et rursum hoc converti secundum terminos; similiter autem et in tertia figura. Quare manifestum est et quoties et in quibus figuris contingit per oppositas propositiones fieri syllogismum. Manifestum est quoniam ex falsis est verum syllogizare, quemadmodum dictum est prius; ex oppositis autem non est, semper enim contrarius syllogismus fit rei (ut si est bonum non esse bonum, aut si animal non animal) eo quod ex contradictione est syllogismus, et subiecti termini aut iidem sunt, aut hic quidem totum, ille autem pars. Palam autem quoniam in paralogismis nihil prohibet fieri hypotheseos contradictionem, ut si est impar non esse impar, nam ex oppositis propositionibus contrarius erit syllogismus; si ergo sumpserit hoc modo, hypotheseos erit contradictio. Oportet autem considerare quoniam sic quidem non est contraria concludere ex uno syllogismo (ut sit conclusio quoniam non est bonum, bonum aut aliud quiddam tale), nisi statim huiusmodi propositio sumatur, ut omne animal esse album et non album, hominem autem animal, sed vel assumere oportet contradictionem, ut quoniam omnis disciplina opinio et non opinio, deinde sumere quoniam medicina disciplina quidem est., nulla autem opinio, quemadmodum redargutiones fiunt, vel ex duobus syllogismis. Quare esse quidem contraria secundum veritatem quae sumpta sunt, non est alio modo quam hoc quemadmodum dictum est prius. In principio autem petere et accipere est quidem, ut in genere, sumere in eo quod non est demonstrare propositum. Hoc autem accidit multipliciter, nam et si omnino non syllogizatur, et si per ignotiora aut similiter ignota, et si per posteriora quod prius est, demonstratio enim ex prioribus et notioribus est. Horum ergo nullum est petere quod ex principio est, sed quia haec quidem nata sunt per se cognosci, illa vero per alia (nam principia quidem per se, quae autem sub principiis, per alia), quando quod non per se notum est, per se aliquis conatur ostendere, tunc petit quod ex principio est. Hoc autem est sic facere quidem ut statim postulet id quod propositum est: contingit autem et transgredientes et ad alia eorum quae nata sunt per illa ostendi per haec monstrare quod ex principio est, ut si A ostendatur per B, et B per C, C autem natum sit ostendi per A, accidit enim idem A per se demonstrare eos qui sic syllogizant, quod faciunt qui parallelas arbitrantur scribere, latent enim ipsi seipsos talia sumentes quae non valent demonstrare, cum non sint parallelae. Quare accidit sic syllogizantibus unumquodque esse dicere si est unumquodque, sic autem omne erit per se notum, quod est impossibile. Si ergo aliquis dubitat assumpto dubio quoniam A inest C, similiter et quoniam B, petat autem i inesse B, nondum manifestum si quod in principio est petat, sed quoniam non demonstravit manifestum, non enim est principium demonstrationis, quod similiter est incertum. Si autem B ad C sic se habet ut idem sit, aut manifestum quod convertuntur, aut inest alterum alteri, quod in principio est petit, nam et quoniam A inest B, per illa monstrabit si convertantur, nunc autem hoc prohibet, sed non modus. Si autem hoc faciat, quod dictum est faciet, et convertet per tria, similiter autem et si B sumat inesse C, quod similiter incertum sit, ut et si A inest C, nondum quod ex principio petit, sed neque demonstrat. Si autem idem sit A et B, aut eo quod convertuntur, aut eo quod A sequitur ei quod est B, quod ex principio est petit propter eamdem causam, nam ex principio quod valet, prius dictum est A nobis, quoniam per se monstrabitur quod non est per se manifestum. Si ergo est in principio petere per se monstrare quod non per se est manifestum, hoc autem est non ostendere quando similiter dubitantur quod monstratur et per quod monstratur, vel eo quod eadem eidem, vel eo quod idem eisdem inesse sumitur, in media quidem figura et tertia utrorumque continget similiter quod est in principio petere, in praedicativo quidem syllogismo et in tertia figura, et in prima, negative autem quando eadem ab eodem, et non similiter utraeque propositiones, similiter autem et in media, eo quod non convertuntur termini secundum negativos syllogismos. Est autem in principio petere in demonstrationibus quidem quae secundum veritatem sic se habent, in dialecticis autem, quae secundum opinionem. Non propter hoc autem accidere falsum (quod saepe in disputationibus solemus dicere) primum quidem est in iis qui ad impossibile syllogismis, quando ad contradictionem est huius quod monstratum est ea quae ad impossibile. Nam neque qui non contradicit dicit non propter hoc, sed quoniam falsum est aliquid positum priorum, neque in ostensiva, non enim ponit quod contradicit. Amplius autem quando interimitur aliquid ostensive per A B C, non est dicere quoniam non propter quod positum est factus est syllogismus, nam non propter hoc fieri tunc dicimus, quando interempto hoc nihilominus perficitur syllogismus, quod non est in ostensivis, interempta enim propositione, nec qui ad hanc est erit syllogismus. Manifestum igitur quoniam in iis qui ad impossibile sunt dicitur non propter hoc, et quando sic se habet ad impossibile quae ex principio est hypothesis, ut cum sit, vel cum non sit haec, nihilominus accidit impossibile. Ergo manifestissimus quidem modus est non propter suppositionem esse falsum, quando ab hypothesi inconiunctus est A mediis syllogismus ad impossibile, quod dictum est in Topicis; quod enim non est causa, ut causam ponere hoc est; ut si volens ostendere quoniam asymeter est diameter, conetur Zenonis ratione quoniam non est moveri, et ad hoc inducat impossibile, nullo enim modo continuum est falsum locutioni quae est ex principio. Alius autem modus, si continuum quidem sit impossibile hypothesi, non tamen propter illam accidat, hoc autem possibile est fieri, et in hoc quod superius, et in hoc quod inferius sumenti continuum, ut si A ponatur inesse B, B autem C, C vero D, hoc autem sit falsum B inesse D, nam (si ablato A, nihilominus B inest C, et C D ) non erit falsum propter eam quae ex principio est hypothesin. Aut rursum si quis in superiori sumat continuum, ut si A quidem B, E autem A, F vero E, falsum autem sit F inesse A, nam et sic nihilominus erit impossibile, interempta quae est ex principio hypothesi. Sed oportet ad eos qui ex principio terminos copulare impossibile, sic enim erit propter hypothesin, ut in inferiori quidem sumenti continuum ad praedicatum terminum; nam si impossibile est A inesse D, interempto A, non amplius erit falsum. In superiori autem de quo praedicatur; nam si F non possibile est inesse B, interempto B non amplius erit impossibile; similiter autem et cum privativi sint syllogismi. Manifestum ergo quoniam cum impossibile non ad priores terminos, non propter positionem accidit falsum; an nec sic semper propter hypothes in erit falsum? nam si non ei quod est B, sed ei quod est k positum est inesse A, k autem C, et hoc D, et sic manet impossibile; similiter autem et in sursum sumenti terminos, quare (quoniam cum est, et cum non est, hoc accidit impossibile) non erit propter positionem, aut cum non est hoc, nihilominus fieri falsum. Nec sic sumendum ut alio posito accidat impossibile, sed quando ablato hoc idem per reliquas propositiones concluditur impossibile, eo quod idem falsum accidere per plures hypotheses nihil fortasse inconveniens est, ut parallelas, contingere, et si maior est qui interius est, eo qui exterius, et si triangulus habet plures rectos duobus.Falsa autem oratio fit propter primum falsum; aut enim ex duabus propositionibus aut ex pluribus omnis est syllogismus; ergo si ex duabus quidem, harum necesse est alteram, aut etiam utrasque esse falsas, nam ex veris non erat falsus syllogismus; si vero ex pluribus (ut sic quidem per A B, hoc autem per D F G ), horum erit aliquid superiorum falsum, et propter hoc oratio, nam A et B per illa concluduntur, quare propter illorum aliquid, accidit conclusio et falsum. Ut autem non catasyllogizetur, observandum, quando sine conclusionibus interrogat orationem, ut non detur bis idem in propositionibus, eo quod scimus quoniam sine medio syllogismus non fit, medium autem est quod plerumque dicitur. Quomodo autem oportet ad unamquamque conclusionem observare medium manifestum est, eo quod scitur quale in unaquaque figura ostenditur, hoc autem nos non latebit, eo quod videmus quomodo submittimus orationem. Oportet autem quod custodire praecipimus respondentes, ipsos argumentantes tentare latere, hoc autem erit primum quidem si conclusiones non prius syllogizent, sed sumptis necessariis non manifestae sint. Amplius autem si non propinqua interrogant, sed quam maxime longe media, ut si sit opportunum concludere A D E F, media B E D E, oportet ergo inquirere si A B, et rursum non si B E, sed si D E, deinde si B C, et sic reliqua, et si per unum medium sit syllogismus, A medio incipere, maxime enim sic latebit respondentem. Quoniam ergo habemus quando et quomodo se habentibus terminis fit syllogismus, manifestum et quando erit, et quando non erit elenchus, nam omnibus affirmativis, vel permutatim positis responsionibus (ut hac quidem affirmativa, illa vero negativa), contingit fieri elenchum: erit enim syllogismus, et sic in illo modo se habentibus terminis; quare si id quod positum est contrarium sit conclusioni, necesse est fieri elenchum, nam elenchus syllogismus contradictionis est. Si vero nihil affirmetur, impossibile est fieri elenchum, non enim erat syllogismus, cum omnes termini erant privativi, quare nec elenchus: nam si elenchus, necesse est syllogismus esse; cum autem est syllogismus, non necesse est elenchum esse. (0706A) Similiter autem si nihil positum sit secundum responsionem universaliter; nam eadem erit definitio syllogismi et elenchi. Accidit autem quandoque (quemadmodum in positione terminorum fallebamur) et secundum opinionem fieri fallaciam, ut si contingat idem pluribus principaliter inesse, et hoc quidem latere aliquem, et putare nulli inesse, illud autem scire, ut insit A B et C per se, et haec omni D similiter. Si igitur B quidem pPomba omni A inesse, et hoc D, C autem nulli A, et hoc omni D, eiusdem secundum idem habebit disciplinam et ignorantiam. Rursum si quis fallatur circa ea quae sunt ex eadem coniugatione, ut si A inest B, hoc autem C, et C D, opinetur autem A inesse omni B, et rursum nulli C. Simul enim sciet, et non opinabitur inesse; ergo nihil aliud existimat ex iis quam scit, hoc non opinari, scit enim aliquo modo quoniam A inest C per B, velut in universali hoc quod est particulare; quare quod aliquo modo scit, hoc omnino existimat non opinari, quod est impossibile. In eo autem quod prius dictum est, si non ex eadem coniugatione sit medium; secundum utrumque quidem mediorum ambas propositiones non possibile est opinari, ut A B quidem omni, C autem nulli, haec autem utraque omni D; accidit autem aut simpliciter aut in aliquo contrariam sumere primam propositionem. Si enim cui B inest omni A opinatur inesse, B autem D novit, et quoniam A D novit, quare si rursum cui C nulli, putat A inesse, cui B alicui inest, huic non putat A inesse, quod autem omni putat cui B, rursum alicui non putare cui B, aut simpliciter, aut in aliquo contrarium et; sic ergo non contingit opinari. Secundum utrumque autem unam, aut secundum alterum utrasque, nihil prohibet A omni B, et B D, et rursum A nulli C. Nam similis huiusmodi fallacia, veluti fallimur circa particularia, ut si A omni B inest, B autem omni C, A omni C inerit; si ergo aliquis novit quoniam A cui B inest omni, novit et quoniam ei quod est C; sed nihil prohibet ignorare C quoniam est, ut si A quidem duo recti, in quo autem B triangulus, in quo vero C sensibilis triangulus; opinabitur enim aliquis non esse C, sciens quoniam omnis triangulus habet duos rectos: quare simul sciet et ignorabit idem, nam scire omnem triangulum quoniam duobus rectis, non simplex est, sed hoc quidem universalem habet disciplinam, illud vero singularem. Sic ergo in universali novit C, quoniam duobus rectis, in singulari autem non novit, quare non habebit contrarias. Similiter autem est quae in Menone est oratio, quoniam disciplina est reminiscentia; nunquam enim accidit praescire quod singulare est, sed simul inductione sumere particularium disciplinam, velut recognoscentes. Nam quaedam scientes, statim scimus, ut quoniam duobus rectis, si scimus quoniam triangulus, similiter autem et in aliis. Ergo universali quidem speculamur particularia, propria autem non scimus; quare contingit et falli circa ea, verum non contrarie, sed habere quidem universale, decipi autem particulari. Similiter autem in praedictis, non enim contraria quae est secundum medium ei quae est secundum syllogismum disciplinae, nec quae est secundum utrumque mediorum opinatio, nihil enim prohibet scientem, et quoniam A toti B inest, et rursum hoc toti C, putare non inesse, ut quoniam omnis mula sterilis, et haec mula, putare hanc habere in utero; non enim scit quoniam A, C qui non conspicit, quod est secundum utrumque. Quare manifestum quoniam et si hoc quidem novit, illud vero non novit, falletur, quod habent universales ad particulares disciplinas; nullum enim sensibilium cum extra sensum fit scimus, nec si sentientes fuerimus scimus, nisi ut in universali, et in eo quod habet propriam disciplinam, sed non in eo quod est in actum. Nam scire tripliciter dicitur, aut ut universali, aut ut propria, aut ut in actu, quare et decipi totidem modis, nihil ergo prohibet et scire, et deceptum esse circa idem, verumtamen non contrarie. Quod accidit et ei qui secundum utramque scit propositionum, et non pertractavit prius, nam opinans in utero habere mulam, non habet secundum ac um disciplinam, neque propter opinionem fallaciam contrariam disciplinae, syllogismus enim est contraria fallacis in universali. Qui autem opinatur quod bonum esse est malum esse, idem opinabitur bonum esse et malum. Sit enim bonum esse in quo A, malum autem esse in quo B, rursum bonum esse in quo C; quoniam igitur idem opinatur et B et C, et esse C B opinabitur, et rursum B esse A similiter, quare et C A, nam quemadmodum si erat verum de quo C B, et de quo B A, et de quo C A verum erat, sic et in opinatione. Similiter autem et in eo quod est esse. Nam cum idem sit C et B, et rursum B et A, C A idem erit, quare et opinatione similiter; ergo hoc quidem necessarium si quis det primum. Sed fortasse illud falsum opinari aliquem quod malum esse est bonum esse, nisi secundum accidens; multipliciter enim possibile est hoc opinari, perspiciendum autem hoc melius. Quando vero convertuntur extremitates, necesse est et medium converti ad utramque; si enim A de C per B est, si convertitur et inest cui A omni, C et B A convertitur, et inest cui A omni, B per medium C, et C B convertitur per medium A. Et in non esse itidem, ut si B inest C, A vero non inest B, neque A inerit C. Si ergo B convertatur ad A, et C ad A convertetur: sit enim B nulli A inexistens, ergo neque C, omni enim C inerat B, et si B convertitur ad C, et A convertetur ad C; nam de quocunque omnino B, et C. Et si C ad A convertitur, et B convertetur ad A: cui enim B inest, et C; cui autem C, A non inest; et solum hoc A conclusione incipit, alia autem non similiter, ut in praedicativo syllogismo. Rursum si A et B convertuntur, et C et D similiter, omni autem necesse est A aut C inesse, et B et D sic se habebunt, ut omni alterum insit; quoniam enim cui A B, E cui C D, omni autem A aut C, et non simul, manifestum quoniam et B aut D omni, et non simul, ut si ingenitum, incorruptibile, et incorruptibile ingenitum, necesse est quod factum est corruptibile et corruptibile factum esse, duo enim syllogismi constituti sunt. Rursum si omni quidem, A vel B, et C vel D, simul autem non insunt, si convertitur A et C, et B et D convertetur. Nam si alicui non inest B, cui D, palam quoniam A inest; si autem A, et C, convertuntur enim; quare simul C et D, hoc autem impossibile. Quando autem A toti B et C inest, et de nullo alio praedicatur, inest autem et B omni C, necesse est A et B converti, quoniam enim de solis B C dicitur A, praedicatur autem B et idem dese et de C, manifestum quoniam de quibus A, et B dicetur omnibus, verum et de A. Rursum quando A et B, toti C insunt convertitur autem C B, necesse est A omni B inesse, quoniam enim omni C A, C autem B, eo quod convertuntur, et A omni B inerit. Quando autem duo fuerint opposita, ut A magis eligendum sit quam B, cum sint opposita, et D quam C similiter, si magis eligenda sunt A C quam B D, A magis eligendum quam D. Similiter enim sequendum A, et fugiendum B, opposita enim, et C ei quod est D, nam et haec opponuntur; si ergo A ei quod est D similiter eligendum, et B ei quod est C fugiendum, utrumque enim utrique similiter fugiendum eligendo; quare et haec ambo A C iis quae sunt B D, quoniam autem magis, non possibile similiter, nam et B D similiter erunt. Si autem D magis eligendum quam A, et B quam C minus fugiendum; nam quod minus est minori opponitur; magis autem eligendum est maius bonum et minus malum quam minus bonum et maius malum. Universum igitur B D magis eligendum quam A C, nunc autem non est, ergo magis A eligendum quam D, et C ergo minus fugiendum quam B. Si ergo eligat omnis amans secundum amorem A sic se habere, ut concedere, et non concedere in quo C, aut concedere in quo D, et non tale esse ut concedere in quo B, manifestum quoniam A huiusmodi esse, magis eligendum est quam concedere; ergo diligi quam conventio magis eligendum secundum amorem; magis ergo amor est in amicitia quam convenire. Si autem maxime huius, et finis haec, ergo convenire aut non est omnino, aut diligendi gratia, nam et aliae concupiscentiae et artes sic fiunt. Quomodo ergo se habent termini secundum conversiones, et in eo quod magis fugiendum vel magis eligendum sit, manifestum est. Quoniam autem non solum dialectici et demonstrativi syllogismi per praedictas fiunt figuras, sed et rhetorici, sed et simpliciter quaecunque fides est, et secundum unamquamque artem, nunc erit dicendum. Omnia enim credimus per syllogismum aut ex inductione; ergo si inductio quidem est, et ex inductione syllogismus per alteram extremitatem medio syllogizare. Ut si eorum quae sunt A C medium sit B, per C ostendere A inesse B, sic enim facimus inductiones. Ut sit A longaevum, in quo autem B choleram non habere, in quo vero C singulare longaevum, ut homo, equus, et mulus. Ergo toti B inest A, omne enim quod sibi cholera est, longaevum, sed et B non habere choleram, omni inest C; si ergo convertatur C ei quod est B, et non transcendat medium, necesse est C inesse B. Ostensum enim est prius quoniam, si duo aliqua eidem insunt, et ad alteram eorum convertatur extremum, converso et alterum inerit praedicatorum. Oportet autem intelligere C ex singularibus omnibus compositum, nam inductio per omnia. Syllogismus autem huiusmodi est primae et immediatae propositionis: quarum enim est medium, per medium est syllogismus; quorum vero non est, per inductionem. Et quodam modo opponitur inductio syllogismo, nam hic quidem per medium extremum de tertio ostendit, illa autem per tertium extremum de medio. Ergo natura quidem prior et notior per medium syllogismus, nobis autem manifestior qui est per inductionem. Exemplum autem est, quando medio extremum inesse ostenditur per id quod est simile tertio. Oportet autem et medium tertio, et primum simili notius esse, inesse. Ut sit A malum, B autem contra confines inferre bellum, in quo autem C Athenienses contra Thebanos, in quo autem D Thebanos contra Phocenses. Si ergo volumus ostendere quoniam Thebanis pugnare malum est, sumendum quoniam contra confines pugnare est malum, huius autem fides ex similibus, ut quoniam Thebanis contra Phocenses. Quoniam ergo contra confines malum, contra Thebanos autem contra confines est, manifestum quoniam contra Thebanos pugnare malum. Quoniam ergo B C et D inest, manifestum, utrumque enim est contra confines inferre bellum, et quoniam A D, Thebanis enim non fuit utile contra Phocenses bellum. Quoniam autem A inest B, per D ostendetur, eodem autem modo et si per plura similia fides fiat medii ad extremum. Manifestum ergo quoniam exemplum est neque ut totum ad partem, neque ut pars ad totum, sed ut pars ad partem, quando ambo quidem insunt sub eodem, notum autem alterum. Et differt ab inductione, quoniam haec quidem ex omnibus individuis ostendebat inesse extremum medio, et ad extremum non copulabat syllogismum, hoc autem et copulat, et non ex omnibus ostendit. Deductio autem quando medio quidem primum palam est inesse, postremo autem medium dubium quidem, similiter autem credibile aut magis conclusione. Amplius, si pauciora sunt media postremo et medio, omnino enim propinquius esse accidit scientiae. Ut sit A docibile, in quo B disciplina, C iustitia, ergo disciplina quoniam docibilis, manifestum; iustitia autem si disciplina, dubium. Si igitur similiter aut magis credibile sit B C quam A C, deductio est, propinquius enim scientiae, per quod assumpserint A C, disciplinam prius non habentes. Aut rursum si pauciora media sint B C, nam et sic propinquius est scientiae. Ut si D sit quadrangulare, in quo autem E rectilineum, in quo F circulus, si ergo eius quod est E F unum solum sit medium, per lunares figuras aequalem fieri rectilineo circulum propinquius erit scientiae. Quando autem neque credibilius est B C quam A C, neque pauca media, non dico deductionem, neque quando immediata est B C, disciplina enim quod eiusmodi est. Instantia autem est propositio propositioni contraria. Differt autem A propositione, quoniam contingit quidem instantiam esse in parte, propositionem vero aut omnino non contingit, aut non in universalibus syllogismus. Fertur autem instantia duobus modis et per duas figuras: duobus modis quidem, quoniam aut universalis aut particularis omnis instantia; per duas autem figuras, quoniam oppositae feruntur propositioni, opposita autem in prima et tertia figura perficiuntur solis. Nam quando postulatur omni inesse, instamus quoniam nulli, aut quoniam alicui non inest. Horum autem nulli quidem ex prima figura, alicui autem non ex postrema. Ut sit A unam esse disciplinam, in quo B contraria; proponit ergo unam esse contrariorum disciplinam, aut quoniam omnino non est eadem oppositorum instant. Contraria autem opposita, quare fit prima figura; aut quoniam noti et ignoti non una, haec autem tertia. Nam secundum tertiam notum et ignotum contraria quidem esse verum, unam autem esse eorum disciplinam, falsum. Rursum in privativa propositione similiter: cum postulat enim non esse contrariorum unam disciplinam, aut quoniam omnium oppositorum, aut quoniam contrariorum aliquorum est eadem disciplina, dicimus, ut sani et aegri, ergo omnium quidem ex prima, aliquorum vero ex tertia figura. Simpliciter autem in omnibus universaliter quidem instantibus, necesse est ad id quod universale est proposito contradictionem dicere (ut si non unam existimet contrariorum omnium, dicere oppositorum unam; sic autem necesse est primam esse figuram, medium enim fit universale ad hoc quod ex principio); quod autem ad hoc in parte est universale, dicitur propositio, ut noti et ignoti non eamdem, nam contraria universale ad haec, et fit tertia figura, medium enim in parte sumptum, ut notum et ignotum. Nam ex quibus est syllogizare contrarium, ex iis et instantias conamur dicere, quare et ex his solis figuris ferimus, nam in his solis oppositi syllogismi, per mediam enim figuram non fuit affirmare. Amplius autem et si sit, oratione indiget plurima, quae est per mediam figuram, ut si non concedant A inesse B, eo quod non sequitur hoc C, hoc enim per alias propositiones manifestum; non oportet autem instantiam converti ad alia, sed statim manifestam habere alteram propositionem. Quapropter et signum ex sola hac figura non est. Perspiciendum autem et de aliis instantiis, ut de iis quae sunt ex contrario, et simili, et secundum opinionem, et si particularem ex prima, vel privativam ex media possibile est sumere. Eicos autem et signum non idem est, sed eicos quidem est propositio probabilis. Quod enim ut in pluribus sciunt sic factum; vel non factum, aut esse vel non esse, hoc est eicos, ut odire invidentes, vel diligere amantes. Signum autem vult esse propositio demonstrativa, vel necessaria, vel probabilis; nam quo existente est, vel quo facto prius vel posterius res, signum est vel fuisse vel esse. Enthymema ergo est syllogismus imperfectus ex eicotibus et signis. Accipitur autem signum tripliciter, quoties et medium in figuris, aut enim ut in prima, aut ut in media, aut ut in tertia: ut ostendere quidem parientem esse, eo quod lac habeat, ex prima figura, medium enim lac habere, in quo A parere B, lac habere mulier in quo C. Quoniam autem sapientes, studiosi, nam Pittacus est studiosus, per postremam, in quo A studiosum, in quo B sapientes, in quo C Pittacus. Verum igitur A et B de C praedicari; sed hoc quidem non dicunt quia notum sit, illud vero sumunt. Peperisse autem quoniam pallida, per mediam figuram vult esse; quoniam enim sequitur parientes pallor, sequitur autem et hanc, ostensum esse arbitrantur quoniam peperit. Pallor in quo A, parere in quo B, mulier in quo C. Ergo si una quidem dicatur propositio, signum fit solum, si autem et altera sumitur, syllogismus. Ut Pittacus liberalis, nam ambitiosi liberales, Pittacus autem ambitiosus. Aut rursus, quoniam sapientes boni, Pittacus autem bonus, sed et sapiens, sic ergo fiunt syllogismi. Verum quidem per primam figuram insolubilis, si verus sit, universalis enim est. Qui autem per postremam, est solubilis, et si vera sit conclusio, eo quod non universalis, est in tertia, nec ad rem syllogismus, non enim si Pittacus est studiosus, propter hoc et alios necesse est esse sapientes. Qui vero per mediam figuram est, semper et omnino solubilis, nunquam enim syllogismus fit, sic se habentibus terminis. Non enim si quae peperit pallida, pallida autem et haec, necesse est parere hanc; ergo verum est quidem in omnibus figuris, differentias autem habent iam dictas. An igitur sic dividendum signum? horum autem medium indicium sumendum, nam indicium dicunt esse quod scire facit, tale autem maxime medium, an vero quae quidem ab extremitatibus signa dicenda, quae autem ex medio indicium? probabilissimum enim et maxime veram est quod est per primam figuram. Naturas autem cognoscere possibile est, si quis concedat simul transmutare corpus et animam, quaecunque sunt naturales passiones; discens enim aliquis fortasse musicam, transmutavit secundum quid animam, sed non earum quae natura nobis insunt, haec est passio, sed ut irae et concupiscentiae, et naturalium motionum. Si igitur et hoc det, et unum unius signum esse, et possumus sumere proprium uniuscuiusque generis passionem et signum, poterimus naturas cognoscere. Si enim est proprie alicui generi individuo existens passio, ut si leonibus fortitudo, necesse est et signum esse aliquod, compati enim sibi invicem positum est, et sit hoc magnas summitates habere, quod et aliis generibus, non totis contingit. Nam signum sic proprium est, quoniam totius generis propria passio est, et non solius proprium, sicut solemus dicere. Erit ergo et in alio genere hoc, et erit fortis homo, et aliquod aliud animal; habebit ergo signum, unum enim unius erat. Si ergo haec sunt, poterimus talia signa colligere in iis animalibus quae solum unam passionem habent aliquam propriam, unaquaeque autem habet signum, et quoniam unum habere necesse est, poterimus naturas cognoscere.Si vero duo habet propria totum genus, ut leo, forte et communicativum, quomodo cognoscemus utrum utrius sit signum, eorum signorum quae proprie sequuntur? An si et alii alicui non toti ambo, et in quibus non totis utrumque, quando hoc quidem habet, illud autem non? nam si fortis quidem, liberalis autem non, habet autem duorum hoc, palam quoniam et in leone hoc signum fortitudinis. Est vero naturas cognoscere in prima quidem figura, eo quod medium priori extremitati convertitur, tertiam autem transcendit, et non convertitur, ut sit fortitudo A, summitates magnas habere in quo B, C autem leo; ergo cui C, B omni, sed et aliis, cui autem B, A omni, et non pluribus, sed; convertitur si autem non, non erit unum unius signum. Boethius. Boezio. Keywords “Boethian International Society”, Boethianism. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boezio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bolano – colloquenza romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “I was born at Harborne, but there’s no volcano there- Bolano was born in Catania, and he is especially revered THERE, rather than at Oxford, because he was able to see some monuments – notably the Naumachia and the Hippodrome – before it was covered by ‘lava’ –“ –“Oddly, when he philosophised on rhetoric – he used that as a blurb – many philosophers traveled to Catania to be tutored by him – vide Salonia --. So he used the blurb of his expertise on Catania  to promote -- or rather his editor did, since he is a gentleman, and a gentleman does not promote – his work on rhetoric --.” “There are very few copies of this!” – “And Evola tired in vain – ‘in vano’ – to find one!” Assai scarse sono le notizie sulla sua vita. Quel poco che sappiamo viene riassunto nell'opera del Mongitore. Insegna filosofia a Catania. Uno dei più eminenti esponenti dell'ateneo catanese: chiamato “philosophiae peritissimus”, acquisce grande fama. Insegna a Palermo come lettore con il "favoloso stipendio di ottocento onze annue"; Seguace della tradizione aristotelica. Tipico esempio dell’umanista, unendo l'interessi per la natura e la filosofia romana antica.  Stampa a Messina un “Opus logicum”, compendio di filosofia aristotelica e frutto del suo insegnamento logico. Stampa anche di retorica e fisica ed abbiamo notizie di un saggio naturalistica sull'Etna, il Discorso di Mongibello. Ma l'opera cui maggiormente è legato è un “Chronicon urbis Catinae”, in cui ci lascia preziose notizie e descrizioni su Catania e le sue vestigia storiche prima di una catastrofica eruzione dell'Etna che profondamente ne cambiò paesaggio, fisionomia ed urbanistica.  Il Chronicon rappresenta un raro esempio di indagine archeologica diretta su Catania e rimase uno dei pochi lavori utili e seri sulle antichità della città etnea. Riguarda, tra l'altro, la fondazione di Catania, l'anfi-teatro romano, l'acquedotto romano, gli archi, il tempio di Cerere, la naumachia, l'ippodromo. Per questi ultimi due edifici è la prima ed unica fonte a noi rimasta. Carrera e Grossi attinsero direttamente dal manoscritto, traendone spunto per le loro opere e pubblicando i pochi frammenti a noi rimasti.  Eppure Bolano sube una grave umiliazione. Nell'anno in cui si perdono le sue tracce, presentatosi a chiedere l'incarico di filosofia nell'Università dove con onore insegnava da oltre quattri decenni, i filosofi ecclesiastici lo contrastarono preferendo Riccioli. Il venerando filosofo riottenne l'insegnamento solo per grazia del viceré Pietro Giron de Osuna, una nomina, sottolinea Matteo Gaudioso, peggiore di una sconfitta, forse la prima e ultima umiliazione del Bolano, scomparso successivamente dalla scena. Fu il suo ultimo anno di insegnamento e forse di vita.  Antonino Mongitore, Bibliotheca sicula, sive de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt. Storia della filosofia in Sicilia da'tempi antichi al sec. XIX, libri quattro. Archivio storico per la Sicilia. Catanense Decachordon..., Catanae. La Sicilia del Cinquecento: il nazionalismo isolano, Roma, Mursia, Storia della filosofia in Sicilia da' tempi antichi al sec. XIX, libri quattro. Rivista internazionale di filosofia del diritto, Giorgio Del Vecchio, Società anonima poligrafica italiana, Bibliotheca sicula, sive de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt  Osservazioni sopra la storia di Catania cavate dalla storia generale di Sicilia,Vincenzo Cordaro Clarenza Riggio, Sopra uno rudere scoperto in Catania cenni critici dell'arch. Mario Musumeci, pag. XXX, Mario Musumeci, dalla tipografia della regia Università, L’indagine archeologica a Catania nel secolo XVI e lBolano, in Archivio Storico per la Sicilia. Edilizia pubblica e privata nelle città romane, Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, L'ERMA di BRETSCHNEIDER, Carrera, Delle Memorie historiche della città di Catania, I, Catania, Catanense Decachordon, Archivio di Stato di Palermo, Tribunale del R. Patrimonio, Memoriali. Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia. Napoli, Guida. L'Catania nel secolo XVII, in  Storia della Catania dalle origini ai nostri giorni, Catania, Zuccarello e Izzi. Delle Memorie historiche della città di Catania, I, Catania. Catanense Decachordon..., Catinae, Antonino Mongitore, Bibliotheca sicula, sive de scriptoribus siculis, qui tum vetera, tum recentiora saecula illustrarunt, D. Bua, Sopra uno rudere scoperto in Catania cenni critici dell'arch. Mario Musumeci, dalla tipografia della regia Università. Storia della filosofia in Sicilia da'tempi antichi al sec. XIX, libri quattro, Lauriel, Guido Libertini, L'indagine archeologica a Catania nel secolo XVI e Bolano in Archivio Storico per la Sicilia Orientale. Dizionario biografico degli italiani. 0 habmio L'imperatore Carlo V abdicando iltrono (a) lasciava nel re Filippo II suo figlio un principe intento ad ingrandireil suo impero ed estendere isuoi domini:I vicerèdisseminati La mente del vescovo Nicolò Caracciolo era rivolta a liberare la cattedrale di Catania non   ASTE Dorp (a) Vel 1556. per BIOGRAFIA SICILIANA Catania N.5- LORENZO Bolano. Je secolo xvi scorreva per Catania,, e forse per 1 Europa tutta, se la Sicilia di coltura, non in iscevro di lustro o mancante tieramente purgatoperò ancora da'tristieffetti del vandalica e della gotica barbarie, ed la ignoranza discipline mostravansi a dito. icultoridelle buone le provin cie, e per mezzo de' quali lostato de'sudditi pre come per 2 ' do stabile o sicuro di quanto operavasi da loro gli animi di tutti erano irresoluți ed incerti, e Catania,vedevain alloraisuoi cittadinioccupati soltanto del presente,interessarsi piùdicontese ed intestíni partiti, che delle scienze e delle lettere. dalla diversi negli umori e nelle in clinazioni, dgiotvernavanoipopoli con principi se non senza de'Cassinesi, ed a riporvi in vece i canonici secolari. Il vicerè Lacerda fa diroccare la casa del la Università degli studi'ed altre abitazioni per in grandirelapiazzadelduomo.Marcantonio Colon na, successor suo, interpone la sua autorità a con 20 pre   ciliare le dispute del vescovo Vincenzo Coltello colsenato(a).La cortediRomaè costrettaa chiamare ad ubbidienza il vescovo che acremente contrastava col vicario apostolico Matteo Samiati (b).Controversielunghe ed ostinaleinsorgono fra'i Catanesi e i Palermitani ecclesiastici Se in tale condizione ditempi l'Università di Catania fioriva,ciò debbesi alla sovrana protezione, che riguardar vuolsi per le lettere come il raggio del sole che vivifica gli esseri e dà movimenti o p portuni al loro sviluppo. Dietro le favorevoli rap presentanze di Marcantonio Colonna, il re Filippo volge benigno lo sguardo al liceo catanese,ed il vicerèinterpetre della sovrana volontà,in com penso del devastamento ordinatodalsuo predeces sore Lacerda da lui sì discorde, fa costruire un nobile edifizio per la Università, corrispodente al la magnificenza di Catania (d),e forma i regola menti per gli studi (e). Filippo provvede di più, per mezzo del vicerè conte di Alba (f ), che i soli laureati in Catania aspirar potessero alle magistra (a) Ut perpetua jurgiorum semina inter episcopum patresque conscripti collerentur.Amico, Cat.illustr.,lib. VIII, c. 2. (Detti Constitutiones Marci Antonii Columnde, 1576.  per patria di s.Agata. I nostri magnati erano tutti intesi a stabilire la loro sacra congregazione dei Bianchi, a loro esempio (c) gli altri ceti aumen tano le rispettive confraternite. (b)Denuo Romam ille interpellator eorumquaeges serat rationem redditurus. Amico, loc. cit. $ la 42 (c) Nel 1570. (a)Ul urbismajestatiresponderet.Amico,loc.cit. (f,Nel1591.   ture: autorizza le ingenti speseche ilvescovo Pro spero Reibiba, non lascindo sfuggire le favorevoli disposizioni del governo, impiegava nel portare a compimento l'edifizio, e non permette che alzasse Messina un'altra Università (a). Accrescevasi in tal modo il numero dei discenti in Catania; e l ' o nore di ammaestrare nella sola Università del re gno,ed isignificanti stipendidallasovranamuni ficenza aumentati, incoraggiavano i dotti a lasciar le brighe volgari, a rivolgersi alla coltura delle lettere,edasegnalarsi nel pubblico insegnamento. (f Dopo averdettato questo articolo ho saputo che nellabiblioteca de'PP.Benedettinidi questa città avvi un esemplare dell'Opus logicum, Messanae 1597.  43 (b) Mongitore, Bibl, sic. c) Grossis, Dec. ix, 151. Fra gli uomini scienziati che onoravano illi ceo catanese nel finedel xvi secolo distinguevasi Lorenzo Bolano nato in Catania circa l'anno 1550. Per più di anni 20 vi fu professore di medicina (b ), di cui avea dato lezioni anche presso l'estero (c ), ere soave acelebreilsuonomeperlesuecono scenze matematiche ed anatomiche, e pel gusto nella latina poesia (d ). Seguendo le aristoteliche dottrine, volle pnbblicare per le stampe di Brea in Messina un libro di istituzioni filosofiche sotto il titolo di Opus logicum, ed un altro di rettorica (e) libri divenuti oramai così rari da non petersi trovarechineavessenotizie(f).Ma ciavanzanope rò i frammenti di opere più solide che tanto ap prezzar seppe l'accurato Carrera. (a) Nel settembre del 1595. Amico,  P Amico,Cat.il.,lib.xu,c.v. e )Mongitore,Bibl.sic.   Un Discorso sopraMongibello conteneva la descrizione fisica di questo vulcano, e la storia di molte sue eruzioni. Carrera fa rilevare nel capi tolo della sua opera (a)in cui tratta del mont Et na, aver ricavato da quel discorso quanto riguarda la misura dell'altezza del vulcano,le sue regioni, la fertilità del suolo, la storia delle sue eruzioni; e queste doveano dal Balano rapportarsi con som m a esattezza, imperciocchèegli giungeva a notare anche il tempo in cui l'Etna non eruttava,co me avvenne per anni trenta dopo la grande eru zione del 1536, durante la quale, come dice lo stesso Bolano, formossi quel cratere oggi detto Monte negro. Selesueideecircala origine degli incendî vulcanici non sono da riferirsi,è colpadei tempi, in cui limitatissime erano le conoscenze de'feno meni naturali, e basta il dire chei scriveva nel 1588. Ma l' Quel pregevole manoscritto conservavasi sino al1637 in mani del di lui figliuolo Girolamo Bo Carrera, Notizie istor.'di Catan.,lib.'11, c. 2. (b) Così dice il Grossis, ilMongitore eco.,ma l'ab. Amico chiama quelmanoscritto Opusculum de rebus Catanae.Tom.3,lib.14,42.  44 1 opera che principalmente gli fa meri tare il rispetto e la riconoscenza de'suoiconcittadini fu quellascritta in latino nel 1592 per illustrare la storia di Catania, e che portava il titolo di Chronicon urbis Catanae (b); ed abbenchè non fosse stata mai pubblicata per intero,fu quella però da cui tanto giovaron si l'Arcangelo, il Carrera, il Grossis e molti altri che delle notịzie sto riché di Cataniasi sono occupati.  Vetusta Catanae monumenta e lenebris eruens primus vulgavit. Amico. mare il piano del duomo(d),edaltempiodi Castore e Polluce quelli presso il nuovo vico, die tro,ilForo lunare.Stimava essere statodiMar cello un busto marmoreo di squisito lavoro,che conservossi per lunga serie di anni nella chie as di s. Agata, finchè Ferdinando de Vega non lo regalasseal chitaristaPietro Murabito da Mes sina (e). La sua descrizione poi dell'anfiteatro èdistintaed eloqnente,(f)efa conoscere che il luogo ove erasi fabbricato appellavasi Cam po stesicoreo Restavano sino ai suoi tempi tali avanzi de'corridori e delle mura circolari, quanto potè misurarsi più dicento piedi: calcolò cheil diametro dell'arena ascendeva a 290 piedi, ma colle fabbrichede'corridoja490,coni470piedi di 45 for lano, da cui l'ebbeprestato il Carrera,come egli stesso confessa (a): e quali cognizioni ne ab bia ricavato questo storicolaborioso,può ben ve dersi in tutto il corso della sua opera, e princi palmente ove trattasidegli antichi monumenti. Il Bolano che fu il primo (b ) a descrivere le antichità catanesi, riconobbe ivestigi del tem piodi Cerere,fuoril'antica Porta reale pressole müra della città,sulla collinetta appellataTorre del vescovo,oggi covertadal Bastione deglinfetti (c). Credè doversi riferire al tempio diBacco li ruderi a fianchi delle terme,oggi demoliti per (a) Carrera. Bolano presso Carrera circonferenza. Le porte della esterna facciata era no larghe 18 piedi,e doveano essere60 in nu mero,a 7 piedi distanti una dall'altra. Con eguale esattezza rapporta le misure del l'odeo, detto da lui piccolo teatro, ed el gran teatro (a),da cui furono svelte molte colonne di marmo, oltre ai materiali tolti per le fabbriche moderne. Situa la naumachia presso l'antica por ta della decima, e descrive non solole mura ed i ruderi che esistevano allora,ma dell'uso della naumachia da archelogo ragiona(b),come fa per ilcontiguo ippodromo (c). Tutti descrive i resti delle terme che scopri vansi a'suoi tempi in Catania (d),riforisce lemi sure della fabbrica dell'arco diMarcello,ed ammi ra la solidità del cemento(e) e l'architettura. Ma sopratutto elegantissima è la descrizione degli acquedotti che portando le acque soprala collina oveoggièilquartieredelCorso,le distribuiva no perlacittà; e dal Corso delle acque quell sito trasse il nonne che fin oggi conserva. Zelantissimo il Bolano del vero decoro della sua patria mal soffiriva il poco conto in che tene vansi que resti del di lei antico splendore. I cit tadini catanesi, pochissimi eccettuati, in quel t e m po, come abbiamo osservato, poco o nulla calco (e) Moles sane calcis ubertate et aelneorum lapidum concinnitate tamcelebris,utmiraripotiusquam obser vare debeamus. Quingentoscirciterannosab Ansgerioepisco po catanensi dirutum est, ut divae Agathae, comitis Rogerii sumptibus,struerentur aedes:cujus et gratia theatra ruinam experta sunt. Loc. cit. (e) Columnarum plurimae et concinnati lapides ab Ansgerio translati sunt omnes,ut decorticatum jure pos sit appellari theatrum istud. Loc. cit.  47 lar potevanoil valore di sì veneranda antichità: e l'arco di Marcello dopo il tremuoto soffriva la ultima sua rovina per la fabbrica della chiesa di s. Caterina, poi confraternita de' Bian chi.Le pietre intagliatedell'anfiteatroedelteatro servirono al vescovo Angerio per la costruzione del duomo (a), ed il resto impiegossi in appres so alla fabbrica delle cortine delle muraglie (b).Il duomo stesso alzavasiin gran parte sopra antiche terme: sull'anfiteatro ergeansi chiese ed abitazioni di privati, come ugualmente sopra la scena ed i corridori del teatro. I Assisoeglisu'ruderidiqueigloriosimonu menti, simileal franco viaggiatorea vistadelle rovine di Palmira, meditava a quale insultante di menticanza condannavali il tempo, (c), come egli contentasididire,pernon urtardifronte,iocre do, la ignoranza e la barbarie: e da pertutto nel lasuaopera, fatralucere ilsuorammarico,quan do parladelteatro(d)e dell'anfiteatro(e). (a)Nel 1094 (b) Nel 1553. Scorgesi nel dilui manoscritto la grande ac curatezzache egliusava nelleosservazioni,ela diligenza nelle misure. Animirando la maestà di quegli avanzi scriveva quasi entusiastato, par che (c) Quae sola temporis diuturnitate sunt perpeluae oblivioni tradita. la lingua prestavasi allora, al suo genio, e lo stile del suo Chronico  fa in certo modo ammirarsi (a). LIR. Nè ilsuo zelo per la patria limitato erasól tanto a mettere in luce ladi leianticagloria; Bolano lo estendeva a tutta possa alla di lei effet tiva prosperità nell'. vistadeipositivi dannicherecavanoallasalutepub blica le acque dell'Amenano, raccoltenell'antica Piazza dell'erbe,perusodialcunimuliniiyisesi stenti,caldeistanzeavanzòalsenato onde:toglie re quel fomite d'infette esalazioni, e seppe tanto insistere colla sua medica autorità,cheriuscita diroccareimuliniedar,liberocorso alleacqueper appositi canali sino al mare (b ). Charts ! Tutto misein opera in fineonde ricostruisse Catania il suo molo. U n ragionato discorso scris sealsenato,incuifeconoscerecomeperlamu mficenza del re Alfonso il magnanimo la fabbrica del molo erasi cominciata ip.Catanianel, che si era dell'opera desistito alla morte di quel  48 i fundiores ductus concinnatis lapidibus confectosaqua maredelata,atqueomniperniciosa humiditatesublata. intero (a) Non sarà fuor diluogo ilrapportare'per quel passo ove il Bolano parla della magnificenza di Gatan j a 'nell'aver trasportato da Licodia le acque in città: <e.Hinc mirari non desino priscam illam urbis rosirae majestatem pene incredibilem, quae tot pariter quot h o die insignita fontibus ac putealibus aquis BE op A,refertissima, effatudignissimissumptibus aquamhanc eLicodia, milliaribus sexdecim distantem, qua Naumachiąm et Thermescompleret,domos pariteretdetergeretet or, naret est emerita, ut qui et situ ei climale pro studiorum domicilio purissimusaer est defecatus,insuper in cię vium columitatem vel arte eficeretur: cit. ad   Se la memoria degl'illustritrapassati servir debbedi modello alla condotta de'viventi,Loren zo Bolanoèuno diqueipochi alcertocheimitar dovrebbonsi da'veri cittadini:imperciocchè einon giovossi delle scienze per sola coliura del súd spi rito, ma curò dirivolgerle ad utilepubblico,e efece onore alla patriamettendo in luce imonu menti del di lei antico splendore: diè opera onde cessassero i fomiti che il puro aere ne infettavano, e procurò, per quanto valevano le sue forze, che ampie ricchezze ritraese Cataniadalcommerciom a GEMMELLARO. b) 41, at titis (a) Quippequipro statuendamolenihil'non'ani madvertit utile et commodum publicis civitatum et'op pidorum adjacentium sumptibus pro publiciaeris copia struendumregiapotestatepraecepit.Mortepraeventus suo tempore exorsus non perfecie.Posteri vero pelfucata negotiidificultateperterriti, velreimomentum"tam ada mirabilenon agnoscentesaversiprimordiorumruinam nonrepararunt.Op.cit.lib.1.c.38.!.:!! > ípoinel16obecc.)!. Opus logicum Laurentii Bolani Siculi Catanensis philosophiae, ac medicinae professoris candidissimi, nec non in almo studio vrbis Catinæ lectoris celeberrimi. In quo scientias cum callentibus, tum adepturis necessaria duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte recepta breuiter, ac peripatetice traduntur OPVS LOGICVM LAVRENTII BOLANI   SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI   NEC NON IN ALMO STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI   IN QVO SCIENTIAS   CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT   EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA   PERIPATETICE TRADVNTVR OPVS LOGICVM LAVRENTII BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVR Bolani Laur., cat. Opus logicum. Mess. Metaphysica, Naluralis Philosophia, Praedicamenta, nec non Theologia Naturalis.Ven.in fol. OPVS LOGICVM LAVRENTII BOLANI SICVLI CATANENSIS PHILOSOPHII CANDIDISSIMI NEC NON IN ALMO STVDIO VRBIS CATINÆ CELEBERRIMI IN QVO SCIENTIAS CVM CALLENTIBVS TVM ADEPTVRIS NECESSARIA DVNTAXAT EX ARISTOTELIS VBERRIMO FONTE RECEPTA PERIPATETICE TRADVNTVROpus logicum Laurentii Bolani Siculi Catanensis philosophiae, ac medicinae professoris candidissimi, nec non in almo studio vrbis Catinæ lectoris celeberrimi. In quo scientias cum callentibus, tum adepturis necessaria duntaxat, ex Aristotelis vberrimo fonte recepta breuiter, ac peripatetice traduntur Lorenzo Bolano. Keywords: dialettica, colloquenza romana, i romani a Sicilia – sicilia regione dell’impero romano, filosofia romana antica – filosofia romana nella monarchia; filosofia romana nella repubblica, filosofia romana nell’impero. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bolano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bonatelli – la patognomia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Iseo). Filosofo italiano. Grice: “Bonatelli is undoubtedly a Griceian – like me, he merges psychologia – ‘psychologia rationalis or metaphysica’ as he puts it – with logic -. He makes fun of ‘inglese,’ which by lacking inflections, disallows complex thought – He distinguishes, in ways the Oxonian really cannot – unless he is into ‘Italian studies’! – between ‘linguaggio,’ and THEN ‘’lingua.’” Grice: “Within the lingua he distinguishes a primary stage which he genially calls ‘patognomico,’ or pathognomic, as Strawson would prefer, i. e. to ‘know the emotion’ of your co-conversationalist – Italians never take ‘conoscere’ as sacred as we at Oxford take ‘know’ – He considers the copula in something like “Fido is shaggy,” there is the ‘nome’ – and within it the ‘nome aggetivo’ – this he says, and rightly so, is the stuff of ‘il filosofo delle lingue’ – and the copola which is the ‘is.’ He grants that he’ll only be concerned with lingua of ‘cepo indeuropeo,’ literally ‘indo-germanic vintage’!” – Grice: “Bonatelli is a Griceian because he is into ‘significato’ – how an utterance becomes a vehicle by which an utterer can SIGNIFY – il segno patognomico, as it were --.” Grice: “Like me, he allows for ‘utter’ to be used broadly – ‘sordomuti’ have a ‘linguaggio di gesti e moti’ as ‘signo patognomico.’” Figlio di Filippo (n. 1789m. 1844), -- un commissario distrettuale al servizio del governo austriaco -- e da Elisabetta Bocchi.  Si trasferì a Chiari per compiere gli studi ginnasiali presso uno zio materno: il canonico Annibale Bocchi.  In questo periodo studiò con Carlo Varisco, che, in seguito, diverrà suo cognato. Il Varisco, infatti, sposò Giulia, sorella del Bobatelli e, dopo la morte di questa, convolò a seconde nozze con un'altra sorella del Bonatelli: Laura.  Dall'unione fra Carlo e Giulia nacque Bernardino Varisco, insigne filosofo anch'egli, e senatore del Regno d'Italia.  Terminato il ginnasio, proseguì gli studi a Brescia, frequentando il locale liceo, ed iniziando precocemente l'attività didattica presso il Liceo Classico Arnaldo.  Nel frattempo si rese protagonista del grande fermento politico della sua epoca.  Troviamo conferma del suo fervente patriottismo in ciò che ne scrisse Michele Rosi nel “Dizionario del Risorgimento nazionale” del 1937:  «Venuti i tempi nuovi, ebbe incarico di istruire gli ufficiali della guardia nazionale; continuando nello stesso tempo nel proprio insegnamento, cercò di suscitare nell'animo dei giovani i più fervidi sentimenti patriottici. Per questo cadde in sospetto della polizia austriaca, alla quale sfuggì (…) in Svizzera».  Rientrato in patria, nel 1849, ottenne l'abilitazione all'insegnamento della filosofia, della matematica e della fisica, che alternò tra Milano, presso l'istituto ginnasiale “Sorre”, e Chiari.  La sua prima pubblicazione, di interesse psicologico, risale al 1852, ed ha titolo “Sulla sensazione”.  Nel 1853 si unì in matrimonio con Laura Formenti.  Nel medesimo anno, venne privato del posto di lavoro per motivi politici. Per riottenere l'ammissione all'insegnamento, dovette avvalersi dell'intercessione della nobildonna e benefattrice clarense, Ottavia Bettolini, col maresciallo Josef Radetzky-  In cambio di questa concessione, avvenuta soltanto nel 1855, il governo austriaco gli impose di seguire un corso di studi superiori a Vienna, che abbandonò forzatamente soltanto qualche mese dopo, essendosi ammalato di tifo.  Fu durante questa breve esperienza che il Bonatelli venne in contatto coi maggiori esponenti della filosofia tedesca, da cui rimase profondamente influenzato.  Resta incerto se, nella capitale austriaca, conseguì o meno la laurea, come ipotizzato da alcuni autori (Giulio Alliney, “BONATELLI”, Brescia, La Scuola, 1947).  Nel 1858 insegnò presso il liceo di Mantova, dove rimase fino al Giugno '59, dopo lo scoppio della Seconda Guerra d'Indipendenza, quando quella città fu messa in stato d'assedio.  Le imprese guerresche del sovrano sabaudo, supportato da francesi e volontari garibaldini, vennero celebrate dal B. con la composizione di un carme: “Il servaggio e la liberazione”, scritto a Chiari il 13 agosto 1859, con dedica a Vittorio Emanuele II.  Successivamente, l'attività didattica del B. proseguì al liceo di Brescia (1859-60) ed al Carmine di Torino sino al 1861, anno in cui si trasferì a Bologna per insegnare filosofia teoretica, nonostante avesse appena vinto un concorso presso l'Genova che gli avrebbe permesso di ricoprire la stessa cattedra.  Nell'ateneo felsineo, il B. ebbe modo di conoscere Giosuè Carducci, che vi era professore di Letteratura Italiana.  Lo stretto legame fra i due cattedratici è testimoniato da una ventina di lettere, scritte fra il 1862 ed il 1881, conservate nell'archivio della Casa Carducci di Bologna.  Gli anni trascorsi a Bologna furono particolarmente proficui per l'elaborazione del pensiero filosofico del Bonatelli: nacque allora una delle sue opere principali, “Pensiero e conoscenza”, pubblicata nel 1864.  Nel dicembre 1867, il B. passò alla cattedra di filosofia teoretica dell'Padova; impiego che manterrà fino alla morte.  Nell'ateneo lombardo ebbe diversi incarichi, fra cui quello di insegnare filosofia della storia (dal 1878 al 1910) e di tenere per qualche anno i corsi di antropologia, pedagogia e storia della filosofia. Divenne anche preside della facoltà di lettere e filosofia.  A Padova scrisse la sua opera maggiore: “La coscienza e il meccanesimo interiore”.  La fama del B. iniziò specialmente negli ambienti del “platonismo” legati a Terenzio Mamiani, ottenendo anche ruoli di alto prestigio al di fuori della propria attività didattica.  Fu membro del comitato di redazione del periodico “La filosofia delle scuole italiane”, fondato dal Mamiani nel ‘69; posizione che mantenne fino al 1874, quando rassegnò le proprie dimissioni in seguito alla pubblicazione di alcuni articoli del filosofo Giovanni Maria Bertini che, contenendo aspre critiche al cattolicesimo, urtavano con le sue solide convinzioni religiose. Nonostante ciò, il B. proseguì la propria collaborazione con la rivista, curandone la rubrica “Conversazioni filosofiche”.  Socio corrispondente nazionale dell'Accademia dei Lincei per la classe di Scienze morali, storiche e filologiche; mentre, il 5 febbraio 1882 divenne socio corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Torino, nella sezione di Scienze filosofiche.  Nell'ultimo decennio del secolo XIX pubblicò un altro saggio importante: “Percezione e pensiero”.  Bonatelli fu anche un brillante verseggiatore ed autore di alcune pregevoli opere letterarie, fra cui: il carme “In morte di Tommaso Grossi” (Milano, 1853), il poemetto “Alfredo” (Lodi, 1856), il carme precedentemente menzionato “Il servaggio e la liberazione” (Brescia, 1860) e numerose composizioni in lingua dialettale.  Il filosofo Giovanni Gentile ne lodò le doti letterarie, apprezzando la forma netta e quasi sempre precisa della sua espressione ed il linguaggio vivo ed immaginoso; affermando addirittura che gli scritti del Bonatelli potranno essere sempre cercati e letti con profitto. (G. Gentile, “La filosofia in Italia dopo il 1850”, su “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce”).  Inoltre, non esitò ad esporre il proprio pensiero su tematiche politiche d'attualità.  Ricordiamo, a proposito, due saggi sulla possibilità di allargamento del diritto di voto: “Intorno al fondamento naturale del diritto di voto” (Padova; Rendi) ed “Intorno al diritto elettorale” (Atti del Reale Istituto veneto di scienze, lettere ed arti). Con l'avanzare dell'età, si manifestò inevitabilmente qualche acciacco fisico, che egli accolse stoicamente, confortato da una fede sincera e tenace.  È significativo quanto scrisse al nipote Bernardino Varisco, in una lettera datata 25 Gen. 1906.  «Carissimo Dino,  l'aver io tardato a congratularmi teco della riuscita non deriva certo dall'essermene io poco rallegrato, bensì dal cumulo di noie, di pensieri, di tribolazioni che ora più che mai m'è piombato addosso e che quasi mi schiaccia. Non entro nei particolari, perché a cosa servirebbe?  […] Basta, [sia] quello che Dio vuole!». (Massimo Ferrari, “Lettere a Bernardino Varisco, La Nuova Italia, Firenze. Malgrado ciò, il filoso d'Iseo proseguì l'attività di docente ed accademico anche nei primi anni del '900, senza affatto abbandonare l'indagine speculativa, grazie ad una lucidità mentale che mai lo abbandonò, dedicando i suoi ultimi sforzi alla traduzione del primo volume dell'opera “Microcosmo” di Hermann Lotze, che sarà pubblicato postumo.  Morì a Padova. Aveva insegnato fino a due giorni precedenti alla morte.  Le sue spoglie mortali riposano nel piccolo cimitero di Longiano (FC), dove furono traslate da Padova, negli anni '80 del secolo scorso, per volontà del nipote Gualtiero.  Pensiero Filosofo spiritualista, Pose al centro della sua speculazione l'uomo e ne difese la spiritualità contro il positivismo materialista. Sulla scia di Hermann Lotze valorizzò il sentimento e pose in esso la principale rivelazione dell'essere per mezzo del giudizio di valore. La psicologia e la logica furono sempre risguar date o come parte integrante della filosofia o almeno come una preparazione essenziale allo studio di questa. E in vero essendo la filosofia la ricerca dei fon damenti ultimi d'ogni cosa conoscibile all' uomo e una tale ricerca suddividendosi in due grandi rami, che sono l'uno l'inves jigazione de' supremi prin cipii dell'essere e l'altro quella dei supremi prin cipii del conoscere, questa seconda parte della filo sofia domanda necessariamente lo studio del sub bietto conoscente e della funzione conoscitiva, cioè la psicologia, e lo studio delle forme e delle leggi della conoscenza, cioè la logica. Ecco perchè al breve trattato che precede si fanno qui seguire questi elementi di logica. 264 1 La logica poi differisce essenzialmente dalla psicologia per questo, che mentre la seconda studia il fatto del pensare e del conoscere (oltre agli altri fatti interni o psichici) come effettivam ente avviene, la logica in cambio studia le norme secondo le quali deve essere conformato e diretto, perchè rag giunga il fine dell'attività conoscitiva che è il pos sesso della verità. Essa quindi è una scienza nor mativa o precettiva e potrebbe non male definirsi la scienza delle forme del pensiero in quanto sono ordinate alla conoscenza. La verità, oggetto della conoscenza, è di tre ma niere: a ) verità materiale, cioè la conformità del pensiero con la cosa a cui si riferisce; b ) verità formale, che è l'armonia del pensiero con se stesso; c ) verità melafisica o ideale od obbietliva in senso as soluto, che è l'intrinseca ragionevolezza degli esseri o delle essenze. La seconda, cioè la formale, è l'ob bietto speciale della logica ed è una condizione necessaria, sebbene non sufficiente, anche della prima. In quanto alla verità nel terzo significato, ella, come s'è visto, riguarda più presto l'essere che non il pensiero; ma il pensiero è pensiero razio nale solo a condizione di partecipare a quella. La logica, secondo alcuni, è scienza puramente forinale cioè considera esclusivamente la forma del pensiero che è quanto dire il modo in cui gli ele menti di questo sono tra loro combinati); secondo altri essa è anche materiale, cioè risguarda anche la contenenza del pensiero. Senza discutere qui una tal questione assai sottile e intricata noi ossserveremo: 1. ° Che una logica strettamente formale è possibile, benchè così se ne restringa il campo e si debbano lasciare insoluti de' problemi ch'essa medesima solleva. In questo campo ella è scienza rigorosamente esatta e offre delle affinità colla matematica. • 2.º Che a voler trattare a fondo le questioni logiche, è mestieri entrare in attinenze del pen siero, che oltrepassano la pura forma e toccano da una parte alla psicologia dall'altra alla metafisica. Il pensiero poi, oltre alle forme logiche, ne ha delle altre che si riferiscono vuoi all ' esercizio dell'attività pensante (forme psicologiche), vuoi al sentimento del bello (forme estetiche ), vuoi al l'espressione del pensiero per mezzo della parola (forme grammaticali e retoriche). Tutte queste non riguardano la logica; ma le psicologiche e le grammaticali hanno colle logiche delle attinenze strettissime. Il valore della logica è doppio; cioè essa ha in primo luogo un valore assoluto in quanto è un complesso sistematico di verità, una scienza per sé stante; poi ha un valore relativo in quanto serve a dirigere il pensiero e gli addita le norme, a cui deve conformarsi se vuol raggiungere il suo fine. Il primo è nn valore puramente teoretico, il secondo è un valore pratico e in questo senso la logica chiamasi anche arte del pensiero. 266 Le parti principali della logica si possono ri durre a due, che sono 1.º il trattato delle forme logiche elementari, cioè del concetto, del giudizio e del raziocinio; 2.º la metodologia logica ossia. l'applicazione delle forme logiche a ' fini speciali delle scienze. Questo manualetto si circoscrive quasi unica mente alla parte prima; per la seconda dovremo contentarci di qualche breve cenno. Del concetto Il pensare, come funzione conoscitiva, è sem pre un giudicare (come s'è veduto nella psicolo gia); quindi la sua forma primitiva è il giudizio. Perciò il concetto, come forma del pensiero, nonché şia anteriore al giudizio, lo presuppone. Onde, con formemente alle dottrine esposte nella parte psicolo gica (1 ), s ' ha a stimar falsa l'opinione di quelli che considerano il concetto come una rappresenta zione generale; prima perchè una rappresentazione non può esser mai generale, poi perchè il concetto si compone di giudizi e questi non si possono in verun modo ridurre a rappresentazioni. Il concetto, psicologicamente considerato, è un sistema di giu dizi reso fisso , la cui unità solitamente è legata a un vocabolo o ad una espressione equivalente 2 ). (1 ) Cf. Sez. prima, cap. XX e XXIII. (2) Di qui lo sforzo delle lingue per foggiare nomi composti, come ferrovia, cromolitografia, Strafrecht (diritto penale) ecc. Obbiettivamente poi il concetto è l'essenza della cosa, che in esso si pensa, o vogliam dire la cosa in quanto pensabile. Ma per la logica il concetto è un tutt' insieme di più determinazioni o note. Conviene per altro che le note (caratteri) ineriscano a qualche cosa, di cui siano note e questo substratum si può chia mare la sostanza logica del concetto; questa è sempre presupposta in ogni concetto, quando sia considerato in sè e come per sè stante (1). Per altro il concetto, benchè sia un prodotto del pensiero e non della sensibilità, ha bisogno di un elemento rappresentabile (sensibile) a cui s'ap poggi. A questo fine servono principalmente quelle rappresentazioni sommarie, che abbiamo chiamato schemi fantastici (2), e la parola; talvolta la sola parola. Ci sono poi nelle nostre rappresentazioni, di qualunque specie sieno, delle relazioni le quali alla lor volta si riflettono nelle relazioni intrinseche dei concetti. Tra codeste relazioni principalissime sono quelle d'omogeneità e d'eterogeneità. Le rappre sentazioni omogenee formano generalmente una scala di disgiunzione, ossia una serie ordinata, in cui la differenza va aumentando dall'uno all'altro termine. Le rappresentazioni omogenee (disgiunte) (1 ) Sostantivamente e non aggettivamente direbbe la gram matica. (2) Cf. Psicologia non si escludono non solo le une dalle altre, ma possono nemmeuo inerire a un tertium quid identico; le eterogenee o disparate, com'anco si chiamano, non possono immedesimarsi tra loro, ma ben pos sono inerire simultaneamente a una stessa cosa. Per quanto si proceda innanzi nel cercare la ragione delle differenze tra le rappresentazioni, non si può fare a meno d'arrestarsi finalmente davanti a delle differenze originarie, di cui non si può ren dere altra ragione se non il fatto. Il concetto è logicamente perfetto quando tut tociò che in esso si pensa armonizza seco stesso; ma sotto il rispetto epistemologico ed obbiettivo il concetto per essere perfetto deve adeguare piena mente la cosa, cioè quel quid qualsiasi a cui si ri ferisce. Ciò non si avvera quasi mai in senso asso luto per l'uomo, anzi nella più parte de' casi i nostri concetti sono molto inadeguati. E qui vuolsi notare un equivoco, in cui spesso si cade per non aver distinto il concetto, in quanto è da noi effet tivamente pensato, dal concetto nella sua perfezione obbiettiva. Perocchè inteso in quest'ultimo signifi cato esso contiene già tutte le sue determinazioni e non è suscettivo di svolgimento e di perfeziona mento. Le qualità che il concetto deve possedere per accostarsi alla sua perfezione sono: 1.° la determinalezza. Se questa manca, esso è un frammento, un abozzo di concetto, non un con cetto compiuto. La determinatezza poi contiene 270 1 1 anche la chiarezza e la perspicuità; la prima ri chiede che il concetto sia pensato in modo che si possa distinguere da ogni altro; la seconda si ot tiene quando si distinguono perfettamente tra loro i suoi elementi e questi sono pensati nelle loro vere relazioni. 2.° L'universalità. E questa è di due maniere, cioè il concetto deve essere valido per tutti i pen santi e deve potersi applicare a tutti gli oggetti, che cadono entro il suo àmbito. 3.0 L'armonia ossia l'intrinseca congruenza; la quale sotto l'aspetto negativo è l'assenza d'ogni contraddizione tra le parti del concetto, sotto l'aspet to positivo è la reciproca esigenza, il mutuo lega me delle parti stesse. Osservazione: -- Dall'universalità del concettto deriva ancora la sua indipendenza dal tempo; onde si può dire immutabile ed eterno (estra -temporario ). Nè a ciò osta punto se la materia del concetto sia per natura sua mutabile e soggetta al tempo. Il concetto di cosa che muta e passa, anche di ciò che ha l'esistenza appena d'un istante (p. es. della vita umana, del temporale, dalla caduta dei corpi, ecc. ) non muta e non passa, anzi, è eternamente identico a se stesso. Comprensione ed estensione del concetto; astrazione e determinazione Il concetto, come di sopra notammo, conside rato logicamente è l'unione di più determinazioni o note, le quali ineriscono a quella che fu detta sostanza logica del concetto. Si vedrà più innanzi che cosa sia e quel che importi codesta sostanza logica; qui si osservi che essa pure può essere con siderata come una nota o un gruppo di note, on dechè il concetto si potrà risguardare come l'in - sieme di tutte le sue note. Ora il complesso di tutte le note d'un concetto costituisce quella che chia masi comprensione o tenore o contenenza del con. cetto stesso. Siccome poi un concetto si può pensare come determinazione di altri (siano concetti, siano en tità quali si vogliano, per. es. il concetto mammi fero è determinazione de' concetti: cavallo, cane, topo, ecc. e cosi dei singoli cavalli, cani ecc. ), l'in sieme di tuttoció, di cui quel concetto è una de terminazione, forma ciò che chiamasi estensione o sfera o ámbito del concetto medesimo. Così, posto che il concetto A riunisca in se soltanto le note a, b, c, queste nella loro totalità formeranno la comprensione di A. Se poi A è una 272 determinazione di in, n, pe nulla più, la totalità m, n, p, costituirà l'estensione di A. A significare il rapporto, che collega tra di loro le parti della comprensione ossiano le note di un concetto, si suole usare il simbolo algebrico della moltiplicazione; onde comprensione di A = axbxc, o abc. Il rapporto invece delle parti dell' estensione tra di loro suolsi esprimere col simbolo dell'addi zione, onde estensione di A = m + n + p, E non a torto, perchè come nella moltiplica zione ogni fattore moltiplica tutti gli altri, così ogni nota determina l'insieme di tutte le altre; mentre le parti dell'estensione si escludono tra di loro, come gli addendi, e sommate insieme costi tuiscono il tutto. Questa relazione, che corre tra le note del concetto, fu da molti disconosciuta e se ne accusò la logica, quasi essa pretenda ridurre i concetti più differenti tra di loro a un tipo unico, ignorando anzi cancellando le attinenze molto più essenziali che in ciascun concetto ne collegano tra di loro i vari elementi. Ma a torto, perchè non tutti gli ele menti, che entrano a comporre un concetto, possono per ciò dirsi note di questo. Nota veramente non è se non ciò che può legittimamente applicarsi a un concetto come un suo predicato. (Così p. es. nel concetto di triangolo entra senza fallo anche l'idea della linea; ma siccome non può dirsi: il triangolo è una linea, così linea non è nota di triungolo. Il medesimo dicasi del numero tre). Ciò che entra in un concetto e non è nota di esso, sarà elemento d'una sua nota; elemento che per costituire que sta nota deve essere pensato in certe speciali rela zioni con altri elementi; ma queste non sono re lazioni logiche e appartengono alla materia, non alla forma logica del concetto. Se da un concetto si toglie qualche nota (o, a, parlar più propriamente, se nel pensare un concetto si esclude dal nostro sguardo mentale qualche nota) questo processo si chiama astrazione. Il processo contrario, che consiste nell'aggiungere qualche nota a un concetto, prende il nome di determina zione, L'astrazione poi può essere di due maniere, ascendente o verticale l ' una, laterale od orizzon tale l ' altra. La prima si fa quando si tien fermo il concetto nella sua parte sostanziale e si abban dona una o più note del medesimo (1 ). Per es, dato il concetto animale vertebrato mammifero, si lascia [La locuzione propria in tal caso è astrarre da, Nel l'esempio addotto di sopra si dirà: astraggo dal carattere mammifero. da parte la nota mammifero e si mantiene il con cetto animale vertebrato. La seconda si effettua ritenendo del concetto dato una nota (o un gruppo di note), che viene cosi a costituire un nuovo con cetto, e lasciando andare tutto il resto. Per ciò fare è d'uopo comporre alla nota che si astrae una nuova sostanza logica (1 ). Ad es. dato il concetto giglio, io ritengo la nota bianco e abbandono il rimanente; qui il nuovo concetto non avrà più per sostanza logica fiore, ma colore o qualità. La determinazione è il processo contrario, come s'è veduto; ma di regola si contrappone non all ' astrazione orizzontale, bensì alla verticale. Per essa da un concetto più generico, cioè di minor comprensione, se ne forma uno meno generico os sia di maggiore comprensione, aggiungendovi col pensiero qualche nuova nota. Per es. se al concetto governo io aggiungo il carattere costituzionale, for mando così il nuovo concetto meno generale go verno costituzionale, ho eseguito quell'operazione che dicesi determinazione. Tale aggiunta di nuove note non è del resto arbitraria del tutto; occorre che il carattere aggiunto sia compatibile colla sostanza logica del concetto dato e col resto de'suoi elementi. Per es. non si potrà aggiungere al concetto triangolo la nota quadrilatero, al concetto virtù la nota verde, (1 ) In questo caso si usa il verbo astrarre transitiva mente. Nell'esempio di sopra: astraggo la bianchezza. ecc. Donde si vede che la determinazione, per esser valida, presuppone la conoscenza della materia del concetto e della reale dipendenza de' suoi elementi tra di loro; criteri che la logica formale è impo tente a somministrare. É poi chiaro che per l'astrazione ascendente si impicciolisce la compressione e con ciò si au menta l'estensione del concetto; all'incontro per la determinazione si accresce la comprensione e si diminuisce l'estensione. Questo rapporto tra le estensioni e le compren sioni di due concetti, l'uno più l'altro meno astratto, si esprime dicendo, che la comprensione e l'esten sione stanno tra di loro in ragione inversa. Rap porto il quale perciò suppone che i due o più con cetti, che si considerano, appartengano allo stesso tronco ossia abbiano la stessa sostanza logica, in altri termini. appartengano alla medesima categoria. Di qui ci nasce il bisogno di considerare bre vemente che cosa s'intenda in logica per categoria. I concetti, considerati puramente sotto il ri. spetto della forma logica, si distinguono tra di loro solamente per la ricchezza maggiore o minore della comprensione e per la maggiore o minore am piezza dell' estensione, che è quanto dire pel vario grado della loro generalità e particolarità. Pure ci sono delle differenze fondamentali tra i concetti, che non si possono trascurare, sebbene propriamente riguardino più la materia loro che non la forma. Tali differenze vengono espresse anche dal linguaggio (1) colla differente forma dei voca boli, significandosi per es.gli oggetti concreti in dividuali coi nomi propri, le classi di questi co'nomi comuni, le qualità cogli aggettivi, le azioni co' verbi e cosi via. Di qui i tentativi tante volte rinnovati per determinare le specie originarie de concetti os. siano le categorie. I più famosi tra codesti tenta tivi furono quello d'Aristotele fra gli antichi e del Kant fra i moderni. Le categorie aristoteliche sono dieci: oủoia (che contiene un' ambiguità, potendosi tradurre per so stanza e per essenza ), nogóv (quantità), nolóv (qua lità) noóo ti (relazione, noú (il dove), noté (il quando), nemogai (la giacitura), èzelV (l'avere, l ' abitus), TOLETV (azione), náoxelv (passione). In quanto alle categorie kantiane si noti che esprimono più presto le forme generali a priori, sotto le quali la nostra intelligenza è, necessitata a pensare qualunque dato (stando alla teoria del Kant) che non le specie supreme dei concetti. Esse sono dodici, ripartite a tre a tre sotto quattro dif ferenti rispetti. Eccone il quadro: secondo la quantità Unità Pluralità Totalità secondo la secondo la secondo la qualità relazione modalità Realtà Sostanzialità Possibilità Limitazione Causalità Esistenza Negazione Az. reciproca Necessità (1) Parliamo qui delle lingue del ceppo indoeuropeo, & cui appartengono le classiche e quasi tutte le moderne europee. · 277 Il Kant le dedusse dalle varie forme del giu dizio, come apparirà della trattazione di queste. Ad Aristotele le sue furono suggerite dall'analisi delle forme grammaticali della lingua. Le categorie aristoteliche possono comodamen te ridursi alle quattro seguenti: 1.0 Sostanza. 2.º Proprietà (che comprende la qualità e la quantità). 3. Stato (che comprende la giacitura, l'abito, il fare, il patire). 4.° Relazione (che compende il n1980 ti, il luogo, e il tempo). Finalmente alcuni le ridussero tutte a due; sostanza e accidente. E qui voglionsi notare due cose, ciò sono: 1. Che la categoria costituisce propriamente quel che abbiamo chiamato sostanza logica o tronco del concetto, dimodochè levando via coll'astrazione ascendente tutte le note d'un concetto, quello che resta sarà in ogni caso una delle categorie. 2.º Che il nostro pensiero, pe ' suoi fini parti colari, usa sovente spostare la categoria de'concetti, concependo per es. una qualità quasi fosse una so stanza oppure un'azione, una relazione come qua lità ecc. L'astrazione orizzontale di solito implica uno spostamento di categoria. Di qui i così detti nomi astratti della grammatica, come bianchezza dall'aggettivo bianco, conoscenza del verbo cono scere, ecc. Del resto non sempre quando una pa 278 rola muta la categoria grammaticale (facendo per es. d'un verbo un sostantivo, d'un aggettivo un verbo, ecc. ) si muta veramente anche la categoria logica. S'è creduto da molti che tutti i concetti po tessero essere così distribuiti o ordinati tra loro, salendo via via dagli infimi (più concreti e parti colari ) ai superiori (più astratti o generali) e da questi a uno supremo, che venissero a formare quasi una piramide appuntantesi in codesto concetto su premo. Ma questo a rigore è impossibile, perocchè: 1.0 Dato il concetto supremo (che indicheremo con A), donde si avrebbero le differenze che occor rono a costruire i concetti inferiori? Poniamo in fatti che il concetto supremo A si divida in due, M ed N. In tal caso M dovrebbe essere A più una differenza d, N sarebbe = A più una differenza d'. Ma ded dunque non contengono la nota A; dunque sono concetti anch'essi e originari al pari di A.. 2.° Il concetto supremo sarà l'ente o il qualche cosa. Ma in tal caso ci sarà almeno il concetto del nulla e della negazione, che ne saranno esclusi. Oltredichè sarà un far violenza non solo alle pa role ma anche al concetto, se si considerino come enti" p. es. le relazioni, come l'eguaglianza, la dif ferenza, ecc. Se poi vogliasi risguardare come concetto as solutamente supremo il pensabile (lasciando stare che abbiamo pure il concetto dell'impensabile), è 279 bensì vero che tutti i concetti, (tranne appunto quello dell'impensabile ) si potranno subordinare a questo; ma il pensabile è un genere puramente analogico, ossia non riguarda il contenuto de' con cetti, bensì soltanto la loro relazione estrinseca verso il subbietto pensante (Come se v. gr. tutti gli oggetti ch'io posseggo li volessi ridurre al ge nere supremo: il mio ). Le note dei concetti furono distinte dai logici in essenziali e non essenziali ossia accidentali. Le essenziali si suddivisero in costitutive o primarie e consecutive o attributi. Per altro queste e altre distinzioni analoghe appartengono più presto alla metafisica che non alla logica, essendochè questa non ci fornisce criteri sicuri per siffatte distinzioni. Infatti se noi dichiariamo essenziali a un con cetto quelle note, tolte le quali il concetto non è più quello di prima, tutte diventano essenziali. Se poi si dichiarino essenziali solamente quelle note, levate le quali il concetto non solo si muta, ma si sfascia del tutto (come p. es. se dal concetto trian golo si tolga la nota figura o la nota trilatero), noi usciamo dalla logica.Delle relazloni logiche che possono intercedere tra due concetti Affinché due concetti possano essere paragonati logicamente tra di loro all' uopo di determinarne la relazione, bisogna che abbiano la stessa sostanza logica ossia appartengano alla stessa categoria. Ciò fermato, le relazioni in cui possono tro varsi tra loro due concetti si ridurranno alle in frascritte. Alcuni chiamano equipollenti due concetti quando sono un medesimo concetto espresso in due differenti maniere. Questa denomi nazione crediamo sia impropria. Altri più esatta mente dicono equipollenti que' concetti, che hanno la stessa estensione, ma una differente compren sione. Tali sono p. es. triangolo equilatero e trian golo equiangolo. Ente infinito e spirito assoluto, ecc. 2.0 Sopra e sott'ordinazione. Questa relazione si avvera tra due concetti, quando l'estensione dell' uno fa parte dell ' estensione dell'altro; per conseguenza la comprensione del secondo fa parte di quella del primo. Il più generale (ossia quello che ha l'estensione maggiore e minore la comprensione) dicesi sopra ordinato, il più particolare subordinato. (Per es. figura è sopraordinato, triangolo è subordinato ). Il superiore o sopraordinato dicesi anche genere, l' in feriore o subordinato specie. Ogni genere poi è alla sua volta specie rispetto ad uno che gli sia supe riore, ogni specie è genere rispetto a' suoi inferiori, e ciò finchè s'arrivi al supremo, che non può es sere più specie e all'infimo che non può essere mai genere. Notisi per altro che il concetto di un ente individuale, per es. di Tizio, logicamente non è per necessità infimo e può considerarsi ancora come genere in rispetto al medesimo come concetto preso con ultertori determinazioni. Così Tizio è genere riguardo a Tizio seduto, a Tizio addormentato, ecc. 3.0 Coordinazione. Sono coordinati tra di loro i concetti che sono subordinati in pari grado a uno stesso concetto superiore. Alcuni logici, col Wundt alla testa, distinguono cinque maniere di coordinazione. Noi le riportiamo qui sotto, osservando nel tempo stesso che la vera e propria coordinazione è soltanto la prima. Code ste varie specie di coordinazione pertanto hanno luogo: a) Quando due o più concetti, subordinati in pari grado a uno più generico, sono tra di loro di sgiunti, vale a dire quando le loro estensioni si escludono reciprocamente. Per es. rosso, verde, az zurro, ecc., che sono tutti subordinati a colore. 282 b) Quando tra due concetti v' ha una relazione vicendevole; per es. maschio e feminina, padre e figlio, agente e paziente, ecc. Questi si chiamano propriamente concetti correlativi. c) Quando due concetti, compresi sotto un terzo comune, hanno la massima differenza possi bile tra loro. Per es. buone e cattivo, bianco e nero, angolo acuto e ottuso, ecc. Tale relazione dicesi di contrarietà. d) Quando tra due concetti, compresi sotto un terzo comune, passa la minima differenza possibile. Per es. tra i sette colori dello spettro, giallo e verde; tra i poligoni, pentagono ed esagono, ecc. Perché ciò avvenga occorre che la serie sia discreta; chè se in cambio è continua, potendosi tra due termini qua lunque concepirne sempre uno intermedio, questa, relazione a rigore non si avvera mai. Tale rela zione si dice di contiguità (1 ). e) Quando due concetti s'incrocicchiano, ossia le loro estensioni hanno una parte comune. Per es. figura rettangolare e figur'il equilatera, europeo e cattolico. Codesta relazione è detta da alcuni d' in ter: ferenza. 4. Dipendenza, che può essere unilaterale o reciproca. Ha luogo tra concetti, che senza essere tra loro nè coordinati nè subordinati, sono tali (1 ) Il termine contingenza adoperato da taluno in que st'uso è ambiguo.]che l ' uno determina l'altro; e questa dipendenza può essere o non essere mutua. Per es. pena o colpa hanno una dipendenza unilaterale, perchè la pena dipende dalla colpa, ma non questa da quella; fra il tempo occorrente a eseguire un dato lavoro e la quantità del lavoro v'è dipendenza reciproca, ecc. Tale relazione ha luogo tra un concetto qualsiasi e la sua negazione; essi si chiamano anche contradit torii. Il concetto negativo non si trova qui, come accade del contrario, in una opposizione determi nata verso il positivo, anzi, preso a tutto rigore, esprime l’indefinita sfera di tutto il pensabile ad esclusione del solo positivo opposto. Perciò Aristo tele chiama le espressioni non -uomo, non -albero, ecc. nomi indefiniti. Ma ne' casi concreti il concetto negativo si pensa solitamente come tale, che, in sieme col suo opposto positivo, costituisca l'esten sione d'un concetto prossimamente superiore. Così ad es. non -verde non verrà pensato come equiva lente a tutto il pensabile ad eccezione del verde (1); ma bensì sotto il superiore colore, di cui insieme col suo opposto verde costituisce tutta l'estensione. (1 ) In tal supposto il non - verde comprenderebbe i con cetti più disparati, per esempio giustizia, strada ferrata, mu sica, cilindro, balena, ecc. Si può dire che la re lazione che passa tra questi concetti consiste nel non avere tra loro veruna relazione. Del resto la disparatezza non è si può dir mai assoluta, po tendosi sempre trovare un qualche rispetto, sotto del quale i due concetti cessano d'essere tra loro disparati. - Per rappresentare graficamente le relazioni lo giche de' concetti tra di loro si ricorre solitamente al simbolo dei circoli tracciati in un piano. Per A es. la congruenza di due circoli simbo B leggia l'equipollenza. La subordinazione viene significata con l'in O o B clusione d'un circolo in altro dove A è il A subordinato e B il sopraordinato. La coordinazione dei concetti disgiunti in ge nerale è simboleggiata con vari circoli entro un D altro. B Questa rappresentazione per altro Oc è imperfetta, perchè esprime bensi l'inclusione delle estensioni di A, B, C in quella di D e la loro vi cendevole esclusione; ma non già che la somma 285 delle tre estensioni degli inclusi eguaglia quella dell'includente. Se tuttavia i coordinati disgiunti sono due soli, tale relazione è significata meglio colla divisione d'un circolo per mezzo del dia с metro, А B Tra le varie maniere di coordinazione, che noi consideriamo come improprie, solo l'interferenza A B si rappresenta bene con questo sistema, O > Il Wundt propone degli altri simboli, consi stenti in linee rette, de' quali daremo qui una suc cinta idea per mezzo della figura seguente: n b с e f m Dove 1.° l'equipollenza è significata dal rap porto d'un segmento con se stesso; per es. ad: ad. 2. ° La sopra- ordinazione del rapporto d'una retta con una sua parte: per es. ag: ab, e la su bordinazione inversamente, ab: ag. La coordinazione a) di disgiunzione, dal rapporto di una parte del segmento totale con una qualunque altra parte, per es. ab: de. a) di correlazione, dal rapporto tra due parti collocate simmetricamente; per es. bc: ef. c) di contrarieti, dal rapporto tra i due seg menti più distanti; per es. ab: fg. a ) di contiguità, dal rapporto tra due porzioni contigue, per es. de: ef. e) d' interferenza, dal rapporto tra due seg menti che in parte coincidono; per es. bd: ce. La dipendenza si esprime col rapporto di una retta ad un'altra, la cui situazione dipenda dalla prima, per es. ag: am. Se la dipendenza è reciproca, tale relazione è rappresentata meglio dal rapporto tra due rette, le quali si suppone che si determinino reciprocamente; per es. am: an. A ben intendere la natura di la definizione come operazione logica giovi considerarne i fini. E anzi tutto quando l ' uomo possedesse de' concetti obbiettivamente per fetti, non ci sarebbe bisogno di definizioni; dun que la definizione sovviene in primo luogo alle imperfezioni del nostro pensiero. Le imperfezioni principali, a cui ripara la de finizione, sono a) l'incertezza del vincolo tra il concetto e la parola con cui lo si esprime; ) l'in debolimento del nesso psicologico tra gli elementi logici del concetto. Rispetto al primo fine la definizione è sempre nominale, perchè serve a fissare il senso del voca bolo, a far sì che a quel dato vocabolo si unisca sempre quel dato concetto. Rispetto al secondo fine la definizione è reale, perchè serve a fissare e chia rire l'organismo interno del concetto. Si aggiunga che la definizione (per es. nelle scienze puramente formali, come le matematiche pure) spesso equivale alla formazione del concetto. Infatti l'unità concettuale, come individuo logico, è spesse volte arbitraria. In una moltitudine d'ele menti pensabili, la definizione ne fissa un certo gruppo per iscopi vuoi scientifici, vuoi didattici. La definizione pertanto è l'esposizione o me glio la determinazione della comprensione d'un con cetto e prende la forma d' un giudizio, il cui sog getto è il concetto di cui si tratta (detto il defi niendo ovvero definito) e il predicato (che chiamasi definiente) è quel gruppo di note mediante le quali il primo viene definito. Non è per altro necessario e nemmeno oppor tuno che il concetto da definirsi si risolva in tutte le note che contiene; bensì basta si indichino quelle che sono sufficienti a determinarlo perfetta- · mente, ossia a distinguerlo e dai concetti conge neri e da quelli che appartengono ad altri generi. A tal uopo servono il genere prossimo (cioè il con 288 cetto prossimamente superiore al definiendo ) e la differenza specifica cioè quel carattere che lo con traddistingue dai concetti coordinati ). Non s' inten de tuttavia con ciò che ogni definizione debba es ser fatta per mezzo di due soli elementi; soltanto si avverte che il tutt' insieme dei caratteri, che costituiscono il definiente, dee comprendere due parti, cioè le note generiche e le specifiche. L'in dicazione del genere serve anche a indicare a qual categoria il definiendo appartenga. Anche la regola del genere prossimo non vuole esser presa con pedantesco rigore. Una definizione può essere vera e logicamente irreprensibile anche servendosi d'un genere che non sia il prossimo. Del resto non è nemmeno sempre possibile il de terminare in via assoluta quale sia il genere pros simo a cui appartiene un dato concetto. Per es. nella definizione dell'uomo si suol as segnare come genere prossimo l'animale; mentre senza fallo ve n'è di più prossimi, come a. verle bralo, mammifero, ecc. I logici, come già s'è accennato più sopra, sogliono distinguere varie maniere di definizione, come la nominale, che determina soltanto quel che si deve intendere sotto una data espressione, e la reale, che si riferisce all ' intrinseco valore del con cetto. Una sottospecie della definizione reale è la genelica, che esprime il processo onde la cosa de finita si forma. 289 Si noti per altro che la distinzione delle de finizioni in nominali e reali non è rigorosa, per che ogni definizione è reale, in quanto indica le note dell'oggetto ed è nominale, in quanto il con cetto così determinato si collega con un dato nome. Alcuni tuttavia intendono la distinzione tra la de finizione reale e la nominale in un senso alquanto differente; e dicono la definizione essere nominale, quando ha per fine solamente di assegnare un dato vocabolo a un gruppo d'elementi pensabili, senza curarsi se codesto gruppo abbia poi un' intima con nessione ed unità, se quindi sia un concetto ob biettivamente valido; chiamano invece reale una definizione, quando in essa apparisce anche la va lidità obbiettiva del definito. Gli errori, da cui conviene guardarsi per dare una buona definizione sono principalmente quelli che seguono: a ) L'angustia. Una definizione è angusta quando il definiente contiene qualche nota che non appar tiene a tutta l'estensione del definito. 0) L'ampiezza, la quale ha luogo quando, per mancanza di note specifiche sufficienti, il definiente oltrecchè al definito, conviene anche ad altri con cetti congeneri. c) La sovralbondanza, che consiste nell'aggiun gere note non essenziali e superflue rispetto al fine di distinguere il concetto dato da tutti gli altri. d ) La tautologia, che ha luogo quando il con cetto stesso da definirsi è contenuto, sia manifesta 19 290 mente sia copertamente, nel definiente. (Per es. la legge è il comando del legislatore). " e ) Il circolo o diallele, che consiste nel defi nire A per mezzo di Be B daccapo per mezzo di A; ovvero anche nel definire A per B, B per C, C per D, ecc. e D daccapo per A. Questo errore uel definire è analogo e spesso si confonde col pa ralogismo detto ysleron - proteron, pel quale si fon damenta una dottrina o un concetto sopra una dot trina o un concetto, che hanno bisogno dei primi per essere scientificamente validi. f) Le definizioni metaforiche. g ) Le definizioni negative, che è quanto dire quelle che si servono unicamente di negazioni. Pure la definizione negativa talvolta è giusti ficata, sia perché il concetto da definirsi è esso medesimo negativo, sia perch' esso è semplice e però non si può determinare in altro modo che di stinguendolo per via di negazioni da quelli coi quali potrebbe essere confuso. A determinare l ' estensione d'un concetto e insieme a mettere in chiaro le attinenze intrinseche di più concetti subordinati ad un altro serve la divisione logica. Essa consiste in un giudizio, di cui il soggetto è il concetto da dividersi (detto il dividendo o il diviso, secondochè la divisione si considera come già fatta oppure da farsi), e il pre dicato è una serie di concetti subordinati al primo o coordinati disgiuntivamente tra di loro (membri dividenti). In altre parole il soggetto è il genere e il predicato è l'enumerazione delle specie com prese sotto quel genere. Siccome le specie nascono dalle varie determi nazioni di cui il genere è suscettivo, quindi in ge nerale occorre per la divisione che il concetto da dividersi possegga una nota, la quale sia suscetti bile di varietà. Codesta nota chiamasi fondamento della divisione, che dicesi anche il rispetto, sotto cui il concetto dato si divide. Cosi il concetto uomo possiede la nota colore e questa essendo capace di varietà, se n'avrà una divisione dell'uomo sotto il rispetto o il fondamento del colore, in bianchi, neri, gialli, ecc. Lo Herbart pel primo fece osservare che, do vendo la nota, la quale serve di fundamentum di visionis, essere un concetto già diviso, ne segue che ogni divisione ne presupporrebbe un'altra già fatta. Ora è chiaro che per tal modo s' andrebbe all ' in finito e quindi niuna divisione sarebbe possibile. Donde segue che ci debbono essere alcnne di visioni primitive cioè senza un fondamento asse gnabile. Tale è per es. la divisione del colore in rosso, verde, ecc.; la divisione del numero in 1, 2, 3, ecc. 292 Secondo il numero de' membri dividenti la di visione chiamasi dicotomia, tricotomia, ecc. Ogni divisione può essere ridotta a una dico tomia, ponendo come primo membro il genere, col. l'aggiunta d'una differenza specifica e a questo contrapponendo il genere stesso più la negazione di quella. Così la divisione degli uomini sotto il rispetto del colore sarà sempre possibile nella forma dico tomia così: gli uomini sono bianchi o non bianchi. In generale A ¢ A b o A non b. Per altro, se le specie sono realmente più di due, il termine nega tivo resta indeterminato. La dicotomia presenta dei vantaggi; per il che alcuni l'hanno considerata come la divisione più rigorosamente logica; infatti in essa i membri dividenti costituiscono una perfetta contrarietà. Altri preferiscono la tricotomia, per la ragione che questa ci dà due termini opposti e uno che serve di mediatore tra essi. Queste considerazioni per altro, valide per certi casi e per certi determinati fini scientifici, non sono d'ordine generale nè applicabili a tutti i casi. La dicotomia però può considerarsi come un utile processo preparatorio affine di trovare tutte le spe cie d'un concetto. La divisione dicesi naturale, se il fondamento è preso tra le note essenziali del concetto; artifi ciale ove sia preso tra le accidentali. Notisi tutta via che per gli speciali fini scientifici può riuscire 293 importantissima una divisione, la quale per il pen sar comune parrebbe frivola e artificiosissima. Quando tutti i membri dividenti d' una data divisione vengono divisi alla loro volta, si ha la suddivisione. Per la quale non è necessario che i membri dividenti della prima siano suddivisi tutti sotto lo stesso fondamento. Se all'incontro un concetto viene successiva mente diviso sotto più d'un fondamento, il com plesso di queste divisioni ci dà una codivisione. I membri di questa saranno in numero eguale al prodotto del numero di termini che si ottengono da ciascuna delle singole divisioni. Perché la co divisione sia possibile bisogna che ciascuno dei termini ottenuti con una delle divisioni sia atto a esser diviso sotto il medesimo fondamento. La divisione logica, per essere corretta, deve rispondere ai seguenti requisiti: 1. ° Ella dev'essere adeguata; il che vuol dire che i membri dividenti presi insieme devono ri produrre tutta intera l'estensione del diviso. 2.° Membra sint opposita, vale a dire che le estensioni dei membri dividenti debbono escludersi tra di loro. 3.° Si deve sfuggire il saltus in dividendo, os sia la divisione dev'essere continua. Il salto con siste nel passare da termini ottenuti colla divisione fatta dietro un fondamento a termini ricavati da una suddivisione fatta sotto un altro fondamento. (Come v. gr. se uno dividesse i verbi in transitivi, intransitivi e passivi). 4.° La divisione non deve scendere a minuzie. se Osservazione. - Una divisione per essere logi camente compiuta domanderebbe che tutte le parti in cui il fondamento è già diviso, fossero applicate al concetto da dividersi. Ma in realtà ciò non si avvera se non rade volte, perchè spesso il dividendo non è suscettivo di assumere non alcune di quelle varietà; perciò il numero effettivo delle spe cie d'un dato genere non è dato dal puro schema tismo logico, ma dalla natura delle cose. Così per es. gli uomini non possono dividersi, sotto il ri spetto del colore, in tante specie in quante é di viso il fondamento colore. Assai difficile a determinarsi logicamente è l'esclusione reciproca delle estensioni di più con cetti tra loro e quindi dei membri dividenti, quando l'uno' non sia la pura negazione dell'altro. In par ticolare manca la reciproca esclusione e perciò i concetti sono interferenti, quando sono risultati da una divisione fatta sotto più d'un fondamento (Per es. europeo e musulmano, russo e marinaio, qua drilatero e figura regolare sono, a due, a due, con cetti interferenti e perciò non si escludono tra di loro; il che deriva da ciò che la prima coppia fu ottenuta colla divisione di uomo sotto i due fon damenti parte del mondo e religione; la seconda colla divisione sotto i fondamenti nazionalità e pro fessione; la terza sotto i fondamenti numero dei tati e grandezza relativa degli angoli e dei lati). Ma l'escludersi dei termini, in cui un concetto originariamente si divide (i quali servono poi di fondamento a tutte le divisioni) è un fatto primi tivo, su cui la logica nulla può dire. Le difficoltà incontrate dai logici ne' tentativi fatti per definire l'atto giudicativo o il rapporto obbiettivo che a quello corrisponde, nascono da ciò ch'esso è l'atto primitivo del pensiero e però as solutamente sui generis. Se per es. lo si definisce quell'atto per cui si afferma o si nega qualche cosa di qualche cosa, in realtà abbiamo fatto una definizione tautologica, perché l'affermare o negare è appunto ciò che co stituisce il giudizio, ond' è come dire: il giudizio è l'atto per cui si giudica. Riporteremo qui alcune altre definizioni del giudizio. Per es. questa: Il giudizio è la determinazione d'un concetto per mezzo d'un altro. E quest'altra: Il giudizio è il congiungimento o la disgiunzione di due elementi del pensiero in 296 corrispondenza all'unione o alla separazione delle cose. O anche: È la coscienza d'un rapporto esi stente tra due concetti. 0: La rappresentazione o la coscienza del l'unità o della non unità di due concetti. Oppure: La decomposizione d'una rappresen tazione ne' suoi elementi, ecc., ecc. • A proposito di queste due ultime definizioni (la seconda è del Wundt) si noti il fatto, parados sale in apparenza, che la stessa cosa, cioè il giu dizio, possa essere definita in modi diametralmente opposti. Ma questo fatto appunto rivela meglio di ogni altra considerazione la vera natura del giu dizio, che è di essere sintesi e analisi ad un tempo, di dividere unendo e unire dividendo. E ciò è pro prio e caratteristico del pensiero, perchè io non posso separare mentalmente due elementi senza pensarli insieme l'uno e l'altro col medesimo atto indiviso, nè posso mentalmente riunirli senza te nerli al tempo stesso l'uno fuori dell'altro. Nel giudizio si distinguono tre parti o elementi che sono 1.º il soggetto, che è il concetto da de terminarsi ossia ciò di cui si afferma o nega qual che cosa. 2.' Il predicato, che è il concetto che serve a determinare il soggetto. 3.° La copula, che è la relazione tra il soggetto e il predicato, o guar dando il giudizio come atto della mente, è l'affer mazione stessa. La copula è espressa dalla lingua propriamente ed esplicitamente colla voce è, ovvero è significata dalla flessione del verbo. Il giudizio senza fallo è una forma propria del pensiero; nelle cose, a cui il pensiero si riferisce, (tranne il caso in cui l'oggetto del pensiero con sista esso medesimo in pensieri) non ci sono giu dizi; ma se il pensiero è vero, esso deve rappre sentare le cose, quindi in queste ci ha da essere alcun che, il quale corrisponda alla forma del giu. dizio. Che cosa è questa? Un tal problema è metafisico e però esce dai termini della logica; crediamo tuttavia opportuno di farne un brevissimo cenno. Ricordiamoci che l'atto di coscienza, base del pensiero, è essenzialmente reduplicazione, la cui forma più semplice è questa A è A. Ciò posto la prima occasione obbiettiva dei no stri giudizi potrebbero essere le differenze e i can giamenti delle cose e la loro costanza o persistenza; le differenze come occasione che ne fa avvertire la costanza. Ora la costanza delle cose, la loro fedeltà per così esprimerci, a sè stesse, sono l'equivalente ob biettivo del giudizio d'identità e in generale del giudizio affermativo. La differenza è di regola il corrispondente del giudizio negativo. Il cangiamento poi, che del resto non può esser mai totale e as soluto, ma che si fa sopra un fondo che rimane identico a sè stesso, è rappresentato dai giudizi narrativi, p. es, il cane corre (mentre prima era 298 fermo); l'albero perde le foglie (mentre prima era fronzuto) ece. Insomma le cose, con la loro essenza immuta bile, le qualità, gli avvenimenti, le relazioni, sono categorie obbiettive, che trovano il loro riscontro nel giudizio. Di più il giudizio, come s'è visto nella Psico logia, è per l'essenza sua un riferire; ora le cose possono essere riferite o al subbietto pensante (p. es. io vedo, io percepisco, io penso la cosa A ); O a sè stesse (A è A, l'uomo è uomo, ecc. ); o le une alle altre (come: la terra gira intorno al sole, ecc. ); o anche le parti tra di loro (p. es. le colonne so stengono la volta ); la cosa alle sue proprietà, a' suoi stati successivi, alle azioni e passioni e via via. Le relazioni poi si partono in due classi, cioè reali o del pensiero. Reali diciamo quelle che in teressano il modo d' esistere delle cose (p. es. cau salilà, paternità, reciproca azione ecc. ); diciamo ideali o del pensiero quelle che non interessano le cose, ma solo il nostro pensiero intorno alle cose, come uguaglianza, somiglianza, differenza, maggioranza. Per es. la grandezza relativa dei lati e quella degli angoli sono in una relazione reale; all'incontro la relazione ch' io pongo fra un trian golo, pognamo, e un quadrilatero quando dico che questo ha un lato di più di quello, è del pensiero. Kant chiama analitici que' giudizi, il cui predicato si cava dalla semplice analisi del soggetto, che cioè anche prima del giudizio faceva parte del pensiero del soggetto; sintelici quelli, il cui pre dicato è preso fuori del soggetto. Contro questa dottrina si sono sollevate fino dal tempo del Kant molte obbiezioni, alcune delle quali insussistenti. Tra cui questa: se il giudizio ha da esser vero, per necessità il soggetto deve contenere il predicato; dunque tutti i giudizi sono analitici. Ora questa obbiezione suppone che il giu dizio sia anteriore a sè stesso. Quel predicato che dopo il giudizio, appartiene al soggetto, ha pure abbisognato d'un primo giudizio che glielo appli casse. Così io potevo ad es. conoscere la capra ab bastanza per distinguerla da ogni altro animale, eppure non sapere che è un ruminante. Quando vengo a scoprire questa sua proprietà, tale scoperta prende la forma del giudizio: la capra è un ru minante, il quale perciò è sintetico. D' allora in (1) So il professore crede la sua scolaresca immatura per questa questione, potrà o saltare questo capitolo o tras portarlo in fondo al trattato del giudizio. 300 poi, dato ch'io ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per me analitico. Ciò mostra che, almeno per molti giudizi, la differenza tra l' essere sintetici o analitici, è relativa allo stato delle cognizioni di chi li fa. Ma la distinzione tra giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi sopra, un altro rispetto; analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele mento cosi essenziale al concetto del soggetto, che questo senza di esso non possa affatto esser pen sato. Tale sarebbe p. es. la trilateralità rispetto al concetto triangolo. Sintetici al contrario saranno quelli, il cui soggetto può essere pensato anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto di legge è stato approvato dal Parlamento, ecc. ). La dottrina del Kant del resto non coincide perfettamente nè colla prima interpretazione, nė colla seconda; egli insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la comprensione del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico addotto da lui e tanto criticato (7 + 5 = 12), è realmente sintetico, perché chi pensa il numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non per questo ha già il concetto dell'unità nu merica 12, numero che è formato con quell'addi zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa contro versia e anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè (dato che ci siano de' giudizi sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a priori, ci contenteremo qui di que. sta osservazione. È chiaro che acciò siano possibili delle analisi, quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che anteriormente ci siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera del pensiero? E il pensare non è sempre un giudicare? Dunque ci devono essere dei giudizi sintetici. E siccome c'è un pensare, a posteriori e uno a priori, cosi pare innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a priori (1 ). I giudizi rispetto alla forma si sogliono distin. guere anzitutto in semplici e composti. E qui si noti che debbono considerarsi come composti sol tanto quei giudizi, che si possono senza alterarne il valore risolvere in due o più giudizi semplici. I semplici si dividono primamente sotto il ri spetto della qualità in affermativi e negativi. Af fermativi sono quelli in cui il predicato è posto come, relativamente, identico al soggetto; negativi quelli in cui il predicato è escluso dalla compren (1 ) Del resto la distinzione de' giudizi in analitici e sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un lato, dal l ' altro metafisica. 302 sione del soggetto; ovvero, avendo riguardo alle estensioni, pel giudizio affermativo il soggetto vien posto nell'estensione del predicato, pel negativo ne è escluso. A queste due specie si po trebbe aggiungerne una terza, ch' io proporrei di chiamare dei giudizi di disparatezza o per più bre vità disparanti; e sono quelli i quali non esclu dono il predicato dalla comprensione del soggetto nė ve lo includono, ma affermano soltanto che il soggetto per sè non implica quel dato predicato, benchè lo possa ricevere. Per es. se io prendo per soggetto il ferro e per predicato ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto includa un tal predicato e nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia affermato (p. es. colla formola: il ferro per sè, o in quanto ferro, non è ossidato ) costituisce un giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per quanto mi consta, ha tenuto conto di questa classe speciale di giudizi. Osservazione 2. - Secondo alcuni logici la ne gazione, ne' giudizi negativi, non affetta la copula, ma bensì il predicato (A non è B equivarrebbe al giudizio: A è non - B). Ma questo modo di consi derare il giudizio negativo non è naturale nè rap presenta l'intenzione di chi pronuncia il giudizio, salvo in rari casi. Osservazione 3. – Oltre a' giudizi affermativi e negativi taluni col Kant ammettono una terza specie di giudizi, sotto il rispetto della qualità, cioè 303 - gl' indefiniti. Tali sarebbero quelli in cui è nega tivo il predicato (A è un non B). Ma è una classe superflua, perchè in realtà questi giudizi coincidono coi negativi. In secondo luogo i giudizi si distinguono sotto il rispetto della quantità, vale a dire secondo la estensione in cui è preso il concetto che fa da sog getto. Se l'estensione del soggetto è presa in tutta la sua totalità, il giudizio dicesi universale. (Tutti gli A sono B o più brevemente A è B; nessun A è B, o più brevemente A non è B). Se in cambio il soggetto è preso solo con una parte della sua estensione, il giudizio è particolare (Alcuni A sono B; alcuni A non sono B ). Stando a una teoria propugnata dallo Hamilton e da altri e oonosciuta sotto il nome di teoria della quantificazione del predicato, nel giudizio sarebbe determinata non solo l'estensione in cui si prende il soggetto, ma anche quella del predicato. Cosi nel giudizio: tutli gli uomini sono mor tali, il soggetto sarebbe preso in tutta l'estensione e il predicato solo in parte della sua estensione, cosicchè la forma rigorosamente logica sarebbe: tutti gli uomini sono alcuni mortali (vale a dire parte dei mortali ). Nel giudizio: alcuni animali sono mammiferi, il soggetto sarebbe preso in parte della sua esten sione e il predicato in tutta la sua estensione; sic chè la sua forma rigorosa sarebbe: alcuni animali sono tutti i mammiferi. Così ogni giudizio affer 304 merebbe una congruenza di estensione e corrispon derebbe sempre ad un'equazione. Ma questa teoria non è accettabile, perché se anche la determina zione dell'estensione del predicato si può artificio samente dedurre da ogni giudizio, essa è innaturale non essendo effettivamente pensata da chi forma il giudizio, tranne certi casi speciali che la lingua suole esprimere con qualche suo spediente. Osservazione 1. – Secondo Aristotele a' giu dizı universali e particolari si dovrebbe aggiungere per terza la classe degli indefiniti o aorisli (1 ) sarebbero quelli, in cui al soggetto si attribuisce o si nega un predicato senza aver riguardo all'esten sione (P. es. la virti merita premio; concepito senza pensare se ci siano o no molte virtù e se il predicato meritevole di premio convenga a tutte o no). Questa forma di giudizio coincide con quello che alcuni moderni chiamano giudizio della com prensione, per distinguerlo da quelli, in cui il pre dicato viene determinatamente attribuito a tutti o solo a una parte dei termini che formano l ' esten sione del soggetto e ch'essi denominano giudizi dell' estensione. Noi non accogliamo codesta classe di giudizi; perchè, sebbene sia vero che chi forma il giudizio ' ora ha di mira la comprensione del sog getto ora l ' estensione, pure l ' una relazione trae (1 ) Da non confondersi cogli indefiniti del Kant, che sa rebbero una classe nel rispetto della qualità. Vedi sopra la Osservazione 3. 305 con sè l ' altra anche se non esplicitamente pen sata. Osservazione 2. – Altri, col Kant, a' giudizi universali e particolari aggiungono i singolari, quelli cioè in cui il soggetto ha il minimum pos sibile di estensione cioè è un individuo. Ma se que st' individuo è determinato, esso costituisce tutta l'estensione del concetto (p. es. Giulio Cesare) e pertanto il giudizio è universale; se é indetermi nato (p. es. un soldalo ), esso rappresenta una parte dell'estensione e perciò il giudizio cade nella classe dei particolari. Osservazione 3. - I giudizi particolari possono ricevere ulteriori determinazioni secondochè la parte che si prende dell'estensione del soggetto o è più o men determinata o si lascia affatto indeterminata (Per es. molti A sono B, pochissimi A sono B, la più parte degli A sono B, dodici A sono B, ovvero semplicemente parte degli A sono B ). Ma per la logica queste specificazioni hanno di regola poca importanza, salvo il caso che l'interesse del pen siero cada appunto su esse, come p. es. nel numero de' voti d'un corpo deliberante. Osservazione 4. – Il giudizio particolare dif ferisce d'assai quanto al suo valore secondochè preso indeterminatamente o determinatamente. In fatti il giudizio: alcuni A sono B, può significare o che almeno alcuni A sono B, o che soltanto al cuni A sono B. Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli A sono B, nel secondo senso il 20 306 giudizio universale, tutti gli A sono B, è necessa riamente falso. I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari in luto senso, i secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo si distinguono in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano (o negano) l'inerenza del predicato al sog getto (g. categorici), oppure: la dipendenza del pre dicato dal soggetto (g. ipotetici), o, finalmente, se al soggetto viene come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri d'una disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g. disgiuntivi). Osservazione Questa classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu nemente accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E invero i giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle altre due, ma piuttosto una sottospecie di quelle; difatti tanto il giudizio categorico quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi (Il tipo del y. categorico disgiuntivo è: A è o B o C, dell'ipotetico -disgiun tìvo: se A è B, o C è D, o M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il predicato si pensa come necessariamente pertinente al soggetto, e questi chiamansi giudizi necessari o apoditlici; o sono tali che il predicato si pensa come di fatto appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi giudizi della realtà o as sertorii; o, in terzo luogo, sono tali che il predi 307 cato si pensa come possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi possibili o problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio. Osservazione. – Veramente in questa classifi cazione della modalità si confondono due rispetti differenti. I giudizi considerati obbiettivamente, sono o necessari, o della realtà, o possibili; con siderati obbiettivamente sono apodittici, assertori o problematici. Vale a dire che nel primo rispetto si considera la necessità, la semplice realtà o la possibilità delle cose; nel secondo rispetto si con sidera l'intensità della nostra affermazione. La dif ferenza tra i due rispetti apparisce principalmente nella terza classe, in cui il giudizio della possibi lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data determinazione, benchè possa non averla (Per es. una casa può essere di nove piani ), mentre il problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B? ). Tuttavia, affine di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella logica si può prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i giudizi si dividono: 1.º rispetto alla qualità, in affermativi e ne gativi; 2.º rispetto alla quantità, in universali e par ticolari; 3.º rispetto alla relazione, in categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e ipote tico - trovano il loro riscontro nel giudizio. Di più il giudizio, come s'è visto nella Psico logia, è per l'essenza sua un riferire; ora le cose possono essere riferite o al subbietto pensante (p. es. io vedo, io percepisco, io penso la cosa A ); O a sè stesse (A è A, l'uomo è uomo, ecc. ); o le une alle altre (come: la terra gira intorno al sole, ecc. ); o anche le parti tra di loro (p. es. le colonne so stengono la volta ); la cosa alle sue proprietà, a' suoi stati successivi, alle azioni e passioni e via via. Le relazioni poi si partono in due classi, cioè reali o del pensiero. Reali diciamo quelle che in teressano il modo d' esistere delle cose (p. es. cau salilà, paternità, reciproca azione ecc. ); diciamo ideali o del pensiero quelle che non interessano le cose, ma solo il nostro pensiero intorno alle cose, come uguaglianza, somiglianza, differenza, maggioranza. Per es. la grandezza relativa dei lati e quella degli angoli sono in una relazione reale; all'incontro la relazione ch' io pongo fra un trian golo, pognamo, e un quadrilatero quando dico che questo ha un lato di più di quello, è del pensiero. Kant chiama analitici que' giudizi, il cui predicato si cava dalla semplice analisi del soggetto, che cioè anche prima del giudizio faceva parte del pensiero del soggetto; sintelici quelli, il cui pre dicato è preso fuori del soggetto. Contro questa dottrina si sono sollevate fino dal tempo del Kant molte obbiezioni, alcune delle quali insussistenti. Tra cui questa: se il giudizio ha da esser vero, per necessità il soggetto deve contenere il predicato; dunque tutti i giudizi sono analitici. Ora questa obbiezione suppone che il giu dizio sia anteriore a sè stesso. Quel predicato che dopo il giudizio, appartiene al soggetto, ha pure abbisognato d'un primo giudizio che glielo appli casse. Così io potevo ad es. conoscere la capra ab bastanza per distinguerla da ogni altro animale, eppure non sapere che è un ruminante. Quando vengo a scoprire questa sua proprietà, tale scoperta prende la forma del giudizio: la capra è un ru minante, il quale perciò è sintetico. D' allora in (1) So il professore crede la sua scolaresca immatura per questa questione, potrà o saltare questo capitolo o tras portarlo in fondo al trattato del giudizio. 300 poi, dato ch'io ripensi lo stesso giudizio, questo sarà per me analitico. Ciò mostra che, almeno per molti giudizi, la differenza tra l' essere sintetici o analitici, è relativa allo stato delle cognizioni di chi li fa. Ma la distinzione tra giudizio analitico e sin tetico potrebbe fondarsi sopra, un altro rispetto; analitici sarebbero quelli, il cui predicato è un ele mento cosi essenziale al concetto del soggetto, che questo senza di esso non possa affatto esser pen sato. Tale sarebbe p. es. la trilateralità rispetto al concetto triangolo. Sintetici al contrario saranno quelli, il cui soggetto può essere pensato anche senza il predicato (p. es. Tizio scrive, il tale pro getto di legge è stato approvato dal Parlamento, ecc. ). La dottrina del Kant del resto non coincide perfettamente nè colla prima interpretazione, nė colla seconda; egli insiste sulla differenza tra l'es ser preso il predicato entro la comprensione del sog getto o fuori di essa. L'esempio di giudizio sinte tico addotto da lui e tanto criticato (7 + 5 = 12), è realmente sintetico, perché chi pensa il numero 7 e il numero 5 e anche l'operazione significata dal +, non per questo ha già il concetto dell'unità nu merica 12, numero che è formato con quell'addi zione e che è quindi posteriore ad essa. In generale su questa contro versia e anche sul l ' altra che ne dipende, se cioè (dato che ci siano de' giudizi sintetici ) altri di questi siano a poste 301 riori e altri a priori, ci contenteremo qui di que. sta osservazione. È chiaro che acciò siano possibili delle analisi, quindi dei giudizi analitici, fa d'uopo che anteriormente ci siano state delle sintesi. Ora codeste sintesi non sono opera del pensiero? E il pensare non è sempre un giudicare? Dunque ci devono essere dei giudizi sintetici. E siccome c'è un pensare, a posteriori e uno a priori, cosi pare innegabile che ci dovranno essere anche de' giudizi sintetici a priori. I giudizi rispetto alla forma si sogliono distin. guere anzitutto in semplici e composti. E qui si noti che debbono considerarsi come composti sol tanto quei giudizi, che si possono senza alterarne il valore risolvere in due o più giudizi semplici. I semplici si dividono primamente sotto il ri spetto della qualità in affermativi e negativi. Af fermativi sono quelli in cui il predicato è posto come, relativamente, identico al soggetto; negativi quelli in cui il predicato è escluso dalla compren (1 ) Del resto la distinzione de' giudizi in analitici e sin tetici non è veramente logica, ma psicolog da un lato, dal l ' altro metafisica. 302 sione del soggetto; ovvero, avendo riguardo alle estensioni, pel giudizio affermativo il soggetto vien posto nell'estensione del predicato, pel negativo ne è escluso. Osservazione 1. – A queste due specie si po trebbe aggiungerne una terza, ch' io proporrei di chiamare dei giudizi di disparatezza o per più bre vità disparanti; e sono quelli i quali non esclu dono il predicato dalla comprensione del soggetto nė ve lo includono, ma affermano soltanto che il soggetto per sè non implica quel dato predicato, benchè lo possa ricevere. Per es. se io prendo per soggetto il ferro e per predicato ossidato, io non posso affermare che un tal soggetto includa un tal predicato e nemmeno che lo escluda e un tale rap porto ove sia affermato (p. es. colla formola: il ferro per sè, o in quanto ferro, non è ossidato ) costituisce un giudizio disparante. Del resto nes sun logico, per quanto mi consta, ha tenuto conto di questa classe speciale di giudizi. Osservazione 2. - Secondo alcuni logici la ne gazione, ne' giudizi negativi, non affetta la copula, ma bensì il predicato (A non è B equivarrebbe al giudizio: A è non - B). Ma questo modo di consi derare il giudizio negativo non è naturale nè rap presenta l'intenzione di chi pronuncia il giudizio, salvo in rari casi. Osservazione 3. – Oltre a' giudizi affermativi e negativi taluni col Kant ammettono una terza specie di giudizi, sotto il rispetto della qualità, cioè 303 - gl' indefiniti. Tali sarebbero quelli in cui è nega tivo il predicato (A è un non B). Ma è una classe superflua, perchè in realtà questi giudizi coincidono coi negativi. In secondo luogo i giudizi si distinguono sotto il rispetto della quantità, vale a dire secondo la estensione in cui è preso il concetto che fa da sog getto. Se l'estensione del soggetto è presa in tutta la sua totalità, il giudizio dicesi universale. (Tutti gli A sono B o più brevemente A è B; nessun A è B, o più brevemente A non è B). Se in cambio il soggetto è preso solo con una parte della sua estensione, il giudizio è particolare (Alcuni A sono B; alcuni A non sono B ). Stando a una teoria propugnata dallo Hamilton e da altri e oonosciuta sotto il nome di teoria della quantificazione del predicato, nel giudizio sarebbe determinata non solo l'estensione in cui si prende il soggetto, ma anche quella del predicato. Cosi nel giudizio: tutli gli uomini sono mor tali, il soggetto sarebbe preso in tutta l'estensione e il predicato solo in parte della sua estensione, cosicchè la forma rigorosamente logica sarebbe: tutti gli uomini sono alcuni mortali (vale a dire parte dei mortali ). Nel giudizio: alcuni animali sono mammiferi, il soggetto sarebbe preso in parte della sua esten sione e il predicato in tutta la sua estensione; sic chè la sua forma rigorosa sarebbe: alcuni animali sono tutti i mammiferi. Così ogni giudizio affer 304 merebbe una congruenza di estensione e corrispon derebbe sempre ad un'equazione. Ma questa teoria non è accettabile, perché se anche la determina zione dell'estensione del predicato si può artificio samente dedurre da ogni giudizio, essa è innaturale non essendo effettivamente pensata da chi forma il giudizio, tranne certi casi speciali che la lingua suole esprimere con qualche suo spediente. Osservazione 1. – Secondo Aristotele a' giu dizı universali e particolari si dovrebbe aggiungere per terza la classe degli indefiniti o aorisli (1 ) sarebbero quelli, in cui al soggetto si attribuisce o si nega un predicato senza aver riguardo all'esten sione (P. es. la virti merita premio; concepito senza pensare se ci siano o no molte virtù e se il predicato meritevole di premio convenga a tutte o no). Questa forma di giudizio coincide con quello che alcuni moderni chiamano giudizio della com prensione, per distinguerlo da quelli, in cui il pre dicato viene determinatamente attribuito a tutti o solo a una parte dei termini che formano l ' esten sione del soggetto e ch'essi denominano giudizi dell' estensione. Noi non accogliamo codesta classe di giudizi; perchè, sebbene sia vero che chi forma il giudizio ' ora ha di mira la comprensione del sog getto ora l ' estensione, pure l ' una relazione trae (1 ) Da non confondersi cogli indefiniti del Kant, che sa rebbero una classe nel rispetto della qualità. Vedi sopra la Osservazione 3. 305 con sè l ' altra anche se non esplicitamente pen sata. Osservazione 2. – Altri, col Kant, a' giudizi universali e particolari aggiungono i singolari, quelli cioè in cui il soggetto ha il minimum pos sibile di estensione cioè è un individuo. Ma se que st' individuo è determinato, esso costituisce tutta l'estensione del concetto (p. es. Giulio Cesare) e pertanto il giudizio è universale; se é indetermi nato (p. es. un soldalo ), esso rappresenta una parte dell'estensione e perciò il giudizio cade nella classe dei particolari. Osservazione 3. - I giudizi particolari possono ricevere ulteriori determinazioni secondochè la parte che si prende dell'estensione del soggetto o è più o men determinata o si lascia affatto indeterminata (Per es. molti A sono B, pochissimi A sono B, la più parte degli A sono B, dodici A sono B, ovvero semplicemente parte degli A sono B ). Ma per la logica queste specificazioni hanno di regola poca importanza, salvo il caso che l'interesse del pen siero cada appunto su esse, come p. es. nel numero de' voti d'un corpo deliberante. Osservazione 4. – Il giudizio particolare dif ferisce d'assai quanto al suo valore secondochè preso indeterminatamente o determinatamente. In fatti il giudizio: alcuni A sono B, può significare o che almeno alcuni A sono B, o che soltanto al cuni A sono B. Nel primo significato esso è vero anche se tutti gli A sono B, nel secondo senso il 20 306 giudizio universale, tutti gli A sono B, è necessa riamente falso. I primi giudizi si chiameranno giudizi parti colari in luto senso, i secondi particolari in senso stretto. I giudizi in terzo luogo si distinguono in ri spetto alla relazione, vale a dire secondochè affer mano (o negano) l'inerenza del predicato al sog getto (g. categorici), oppure: la dipendenza del pre dicato dal soggetto (g. ipotetici), o, finalmente, se al soggetto viene come predicato attribuita l'alter nativa fra due o più membri d'una disgiunzione, p. es. A è o Bo CoD (g. disgiuntivi). Osservazione Questa classificazione de' giu dizi sotto il rispetto della relazione, sebbene comu nemente accettata, pecca gravemente contro le leggi della divisione logica. E invero i giudizi disgiun tivi non sono veramente una specie coordinata alle altre due, ma piuttosto una sottospecie di quelle; difatti tanto il giudizio categorico quanto l'ipotetico possono essere disgiuntivi (Il tipo del y. categorico disgiuntivo è: A è o B o C, dell'ipotetico -disgiun tìvo: se A è B, o C è D, o M N ). In quarto luogo finalmente i giudizi o sono tali che il predicato si pensa come necessariamente pertinente al soggetto, e questi chiamansi giudizi necessari o apoditlici; o sono tali che il predicato si pensa come di fatto appartenente al soggetto, senza necessità, e diconsi giudizi della realtà o as sertorii; o, in terzo luogo, sono tali che il predi 307 cato si pensa come possibile ad appartenere al sog. getto e diconsi giudizi possibili o problematici. Que sto rispetto chiamasi modalità del giudizio. Osservazione. – Veramente in questa classifi cazione della modalità si confondono due rispetti differenti. I giudizi considerati obbiettivamente, sono o necessari, o della realtà, o possibili; con siderati obbiettivamente sono apodittici, assertori o problematici. Vale a dire che nel primo rispetto si considera la necessità, la semplice realtà o la possibilità delle cose; nel secondo rispetto si con sidera l'intensità della nostra affermazione. La dif ferenza tra i due rispetti apparisce principalmente nella terza classe, in cui il giudizio della possibi lità afferma che un concetto è suscettivo d'una data determinazione, benchè possa non averla (Per es. una casa può essere di nove piani ), mentre il problematico afferma soltanto la nostra incertezza (A è B? ). Tuttavia, affine di non moltiplicare eccessiva mente le suddivisioni, nella logica si può prescin dere dal considerare queste differenze. Riassumendo, i giudizi si dividono: 1.º rispetto alla qualità, in affermativi e ne gativi; 2.º rispetto alla quantità, in universali e par ticolari; 3.º rispetto alla relazione, in categorici, ipo tetici e disgiuntivi (categorico -disgiuntivi e ipote tico -disgiuntivi); 308 4.º rispetto alla modalità, in apodittici, asser torii e problematici. Secondo alcuni logici poi la modalità nor non appartiene alla forma logica del giudizio, ma alla sua materia. Alle distinzioni sopra enumerate alcuni vogliono aggiunta anche questa in: a) giudizi narrativi, nei quali il predicato esprime un fatto e suol essere rappresentato da un verbo; b ) descrittivi, nei quali il predicato è una pro prietà del soggetto e suole grammaticalmente essere espresso da un aggettivo; c ) esplicativi, nei quali il predicato è un con cetto più generale, per se stante, nella cui esten sione viene collocato il soggetto e solitamente si esprime mediante un sostantivo (Esempi di queste tre specie: Cesare fu ucciso in Senato, il gelsomino è odoroso, il triangolo è una figura ). La qualità e quantità de' giudizi vengono de. signate per brevità colle lettere a, e, i, o, secondo i versi mnemonici: Asserit a negat e, sed universaliter ambo; Asserit i negat o, sed particulariter ambo. Altri preferiscono i seguenti segni: a = 72 19 ta = giudizio universale affermativo negativo particolare affermativo Pр negativo. P 79 72 309 Osservazione sul giudizio ipotetico. - Codesta forma di giudizio è stata interpretata in quattro maniere, ciò sono: 1.º Come un giudizio, il cui soggetto e predi cato sono il soggetto e il predicato del conseguente, ma la copula è subordinata all' antecedente come a condizione. (Dato p. es. il giudizio ipotetico: Se A é B, C è D, il soggetto sarebbe C, il predicato D, e la copula (ė ) è posta sotto la condizione che A sia B ). 2.º Come un giudizio, il cui soggetto è il con seguente e il predicato è il suo dipendere dall'an tecedente. Ossia, dato il tipo precedente, del nesso (Cé D) si afferma ch'esso dipende dal nesso (A é B). 3º. Come un giudizio, in cui l ' antecedente fa da soggetto ed il conseguente equivale al predicato. Cioè del nesso (A è B) si afferma che da esso di pende la realtà del nesso (CUD). Questa interpre tazione, che è la preferita dalla scuola erbartiana, è comoda specialmente per la trattazione dei sillo gismi. 4.° Come un giudizio, il cui soggetto è il nu mero dei casi in cui si avvera l'antecedente, e di questo si afferma ch'esso coincide o non coincide, in tutto o in parte, col numero de casi in cui si avvera il conseguente, che costituisce il predicato. Secondo quest'ultinia interpretazione il giudi zio ipotetico non esprime la dipendenza o condi zionalità dell'un membro rispetto all'altro, ma sol tanto la loro connessione di fatto ossia la coincidenza. 310 Prendendo i giudizi ipotetici secondo una delle tre prime interpretazioni, questi non possono esser mai particolari. Infatti, posto un giudizio di questa forma: qualche volta, se A è, B'è che sarebbe la forma del giudizio ipotetico particolare), non si po trebbe più dire che B dipenda da A. Un'altra questione sorge a proposito del giu dizio ipotetico, vale a dire quand' esso debba dirsi negativo. Secondo taluni il giudizio ipotetico ne gativo è quello, col quale si nega che il conseguente dipenda dall'antecedente. Ma hanno torto, o per lo meno questo modo di vedere sconvolge tutta la teoria del giudizio. Noi diremo a miglior diritto essere negativo quello, in cui è negativo il conse guente (p. es. se A è, B non è, oppure se A è B, C non è D). Se fosse negativo l'antecedente e po sitivo il conseguente, il giudizio sarà ancora affer mativo (p. es. se A non è B, C è D, è un giudizio affermativo ). Quell' altra maniera di considerare il giudizio ipotetico negativo (se A è, non ne segue che B sia, oppure se A è B, non ne segue che C sia D ) sarebbe più presto una forma di giudizio ipotetico parallela a quella dei giudizi categorici da noi chiamati disparanti. - 311 - CAPITOLO IX. Relazioni logiche possibili tra due giudizi considerati in rispetto alla loro qualità e quantità Perchè due giudizi possano essere paragonati logicamente tra di loro, occorre che abbiano la stessa materia, cioè che contengano i medesimi concetti. Osservazione. -- Ci sono relazioni logiche an che tra due giudizi, che hanno la stessa materia solo in parte; per es. tra questi A è Be A è C; oppure A è B, C è B. Ma queste speciali relazioni qui non si considerano, come quelle di cui si dovrà trattare nella teoria del sillogismo. Ciò posto, divideremo tutte le relazioni formali, che possono aver luogo tra due giudizi contenenti gli stessi concetti e considerati in rispetto alla loro qualità e quantità secondo lo schema seguente: Indicando con a la medesima posizione dei concetti; con P la posizione inversa de' concetti; con y la medesima qualità ne' due giudizi; con 8 la qualità contraria ne' due giudizi; con & la medesima quantità ne' due giudizi; con Ġ la quantità differente ne' due giudizi, avremo: 312 E aye relazione d'identità (A è B, A è B ). 12 Ś - ays relazione di subalternazione (A è B, qualche A. è B, A non è B, qualche a non è B); dove l'universale si chiama subalternante é il par ticolare subalternato. a E ada relazione di contrarietà (se i giudizi sono uni versali ) (A è B, A non è B; di subcontrarietà (se particolari ) qualche d è B, qualche A non è B ). 8 Ś = ad relazione di contradditorietà (tutti yli A sono B, qualche A non è B; oppure: nessun A è B, qualche A è B ). E = Byɛ relazione di conversione semplice (A è B, B è A; qualche A è B, qualche B é A; A non è B, B  non è A; qualche A non è B, qualche B non è A ). Ś = By5 relazione di conversione accidentale (A è B, qualche B é A; A non è B, qualche B non è A). Bdɛ relazione di contrapposizione semplice (A è B, ciò che non è B non è A; qualche A è B, qual che non - B non è A; A non è B, ciò che non è Bè A; qualche A non è B, qualche non- Bè 4). d Ś = 386 relazione di contrapposisione accidentale (A è B, qualche non - B non è A; Anon è B, qual che non - B è A; qualchè A è B, ciò che non è B non è A; qualche A non è B, ciò che non è B è A ) (1 ). (1 ) La conversione e la contrapposizione si chiamano semplici, se i due giudizi, hanno la stessa quantità, cioè sono o ambedue universali o ambedue particolari; si dicono acci dentali (per accidens) ove la quantità sia differente, cioè l'uno sia universale e l'altro particolare. 313 contra vorietà Le relazioni 2a, 3a, e 4a, cioè tutte le relazioni formali possibili tra due giudizi, data la stessa po sizione dei concetti (escludendo la 1a, d'identità, che non è veramente relazione tra due giudizi, giac che i giudizi identici non sono che un giudizio solo) furono dagli antichi simboleggiate nel se guente diagramma: a contrarietà e subalternazione subalternazione subcontrarietà Dove convien rammentarsi che a significa un giudizio universale affermativo, e un g. universale negativo, i un g. particolare affermativo, o un g. particolare negativo (1). (1 ) Sarà un esercizio utile pei principianti di trovare esempi concreti per ciascuna delle relazioni di giudizi sopra indicate. Noi ce ne siamo astenuti per non ingrossare senza necessità il volume. Il medesimo diciamo in riguardo ai capitoli seguenti che trattano delle inferenze immediate e delle forme sillogi 314 CAPITOLO X. Delle inferenze immediate a) specie prima (dipendente dalla qualità e quantità) Quando da un giudizio dato se ne può rica vare un altro immediatamente, cioè senza uopo di un terzo giudizio, ha luogo quella che dicesi infe renza immediata. Noi distingueremo tre specie di tali inferenze: a) quelle che nascono dai rapporti formali tra due giudizi, dipendenti dalla qualità e quantità loro; b) quelle che procedono dalla relazione; c) quelle che dipendono dalla modalità. Noi indicheremo qui sommariamente le infe renze della specie accennata sub a, le quali dipen dono dai rapporti formali, che possono intercedere tra due giudizi, svolti nel capitolo precedente, omet tendo quello d'identità. 1.º Dalla subalternazione. Dal gudizio subal ternante si deduce legittimameute il subalternato, ossia se il subalternante è vero, sarà vero anche il stiche. Noi per brevità abbiamo dato il nudo schematismo;: l'insegnante potrà proporre o far cercare agli alunni gli esempi opportuni a illustrarlo. – 315 1 subalternato. (Se è vero il giudizio: tutti gli A sono B, sarà vero anche il giudizio: alcuni A sono B. Se è vero: nessun A è B, sarà vero anche che qual che A non è B ). Ma dalla verità del subalternato non segue la verità del subalternante. I alla falsità invece del subalternato segue la falsità del subalternante. Ma dalla falsità del su balternante non segue la falsità del subalternato. Osservazione. Questa legge della subalter nazione è valida soltanto ove il giudizio partico lare sia preso in senso lato (cioè nel senso dell'al meno non in quello del soltanto ). Se invece il giu dizio particolare si prenda in senso stretto, dalla verità del subalternante segue la falsità del subal ternato e dalla verità del subalternato segue la falsità del subalternante; ma dalla falsità del su balternante nulla segue rispetto al subalternato. 2.° Dalla contrarietà. Due giudizi contrari non possono essere amendue veri, ma possono bensì es sere amendue falsi; ossia dalla verità dell'uno segue la falsità dell'altro, ma dalla falsità d'nino nulla segue rispetto all'altro. 3. ° Dalla subcontrarietà. Due giudizi subcon trari possono essere amendue veri, ma non amendue falsi. Ossia dalla verità dell' uno nulla segue ri spetto all'altro; ma se l'uno è falso, l'altro deb b' essere vero. Osservazione. Anche questa legge vale so lamente prendendo i giudizi particolari in lato - 316 senso. Prendendoli in senso stretto dalla verità del l'uno segue la verità anche dell'altro; ma dalla falsità di uno d'essi nulla segue rispetto all'altro. 4. Dalla contradittorietà. Due giudizi contra dittorii non possono essere nè amendue veri ne amendue falsi. Quindi dalla verità dell' uno segue la falsità dell'altro, dalla falsità dell'uno la verità dell' altro. 5.º. Dalla conversione. Un giudizio universale affermativo può essere convertito solo accidental mente; l'universale negativo può essere convertito e semplicemente e accidentalmente. Un giudizio par. ticolare affermativo può essere convertito solo sem plicemente. Il particolare negativo non ammette conversione. Osservazione. -- Anche qui si prende il giudizio particolare in senso lato. Prendendolo in senso stretto, l'universale negativo non può essere con vertito accidentalmente e il particolare affermativo non si può convertire. 6.° Dalla contrapposizione. Il giudizio univer sale affermativo può essere contrapposto semplice mente e accidentalmente. L'universale negativo solo accidentalmente. Il particolare affermativo non ammette contrapposizione; il particolare negativo può essere contrapposto semplicemente. Osservazione 1. – Anche per questa legge vale l'osservazione precedente. Osservazione 2. - La dimostrazione di tutte le inferenze, così valide come invalide, indicate in - 317 questo capitolo, è assai facile, qualora si ricorra al paragone delle estensioni, nel che serve di grande aiuto l'uso delle rappresentazioni simboliche. Pren dasi per es. la relazione di contrarietà. Tutli gli A sono B, nessun A i B. Che non possano essere amendue veri risulta intuitivamente dalla figura. Sia B vero il primo si avrà; ora il contrario А non è compossibile col B. primo. Che poi possano essere falsi entrambi lo mostra il caso, che i due concetti A e B siano in A terferenti O; il qual caso esclude B tanto che tutti gli A siano B, come che A А B nessun A sia B Però la O dimostrazione di tutte le leggi delle inferenze immediate può essere un utile esercizio da farsi dagli alunni.  b ) specie seconda (inferenze della relazione) Diconsi inferenze della relazione quei giudizi che possono dedursi da un altro con mutamento della relazione. Così da un giudizio categorico affermativo si può dedurre un ipotetico affermativo e uno nega tivo. Infatti dato il giudizio: A e B si ha diritto d'inferirne che: se A è, B é, ed anche che, se B non è, A non é. La ragione è facile a intendersi; perchè se B é un predicato di A, la realtà di A trarrà seco quella di B; e togliendo B, la cui esten sione comprende quella di A, si toglie anche A. Dal giudizio categorico disgiuntivo si possono dedurre parecchi ipotetici, che qui brevemente in dicheremo. Sia dato il giudizio A é o M o N o P, ne segue: 1º. Se A è, Ô M o N o P è. 2." Se A è M, esso non è nè N nè P. 3.° Se A non è M, esso è o N o P. 4.° Se A non é nė M né N, esso é P. 5.° Se nè M nè N nè P è, A non é. . c ) specie terza (inferenze modali) Chiamasi inferenza o conseguenza modale la deduzione d'un giudizio da un altro per mezzo di un cangiamento di modalità. Il principio che giustifica tali inferenze è que sto, che affermando il più si afferma implicitamente anche il meno e negando il meno si nega impli citamente anche il più: ma non inversamente. Quindi dalla verità d'un giudizio apodittico s' inferisce legittimamente la verità dell'assertorio e del problematico; ma non in ordine inverso. Dalla falsità poi d'un giudizio problematico segue la falsità dell'assertorio e tanto più dell'apo dittico; dalla falsità del giudizio assertorio segue la falsità dell'apodittico; ma non viceversa. Le leggi precedenti sono giustificate da ciò che la negazione d'un giudizio problematico è un giudizio apodittico, mentre la ne gazione d'un apodittico, è un giudizio problematico. Si avverta che il giudizio problematico negativo ha la forma A può non esser Be non già questa: A non può esser B. Quest'ul timo è un giudizio apodittico.. 320 Queste relazioni appariscono intuitivamente nella tabella seguente. 1 2 3 dover essere essere poter essere 4 5 6 non dover essere non essere non poter essere ! Dove si vede che le formole 4, 5, 6 sono le formole 1, 2, 3 ' coll' aggiunta della negazione. Ora mentre il n. 1 è apodittico, il n. 4 è problematico: mentre il n. 3 è problematico, il n. 6 ė apodittico. Osservazione 3. -- Le formole 1, 2, 3, potreb bero essere anche negative; in tal caso la tabella precedente si trasforma in quest'altra. 1 1 2 3 dover non essere non essere poter non essere 4 6 non dover non essere non non - essere che equivale a poter essere che equivale a non poter non essere che equivale a essere dover essere Col confronto delle due tabelle è facile riscon trare le formole che si equivalgono: così il n. 6 della prima tabella equivale al n. 1 della seconda; il n. 5 della prima è identico al n. 2 della seconda; il n. 4 della prima equivale al n. 3 della seconda. Gli equivalenti dei numeri 4, 5, 6, della seconda tabella sono già stati indicati nella tabella stessa. Il giudizio disgiuntivo falsamente da taluni fu considerato come composto; esso non è una somma di giudizi, ma un giudizio unico indecomponibile. Giudizi veramente composti sono: 1º. i copulativi, i quali possono essere: a ) copulativi nel soggetto. Es. A, B, C sono M. b ) copulativi nel predicato. Es. A è M, N, P. c ) copulativi in ambedue i termini. Es. A, B, C, sono M, N, P. 2.° I remotivi. Questi alla loro volta possono essere: a ) remotivi nel soggetto. Es. nè A, nè B, né C À M. b ) remotivi nel predicato Es. A non è nè M, nè N, nè P. In quanto ai giudizi complessi in forma attri butiva, logicamente considerati, sono giudizi sem plici, perchè l'attributo non è che una nota sia del soggetto sia del predicato. Essi o 1.º sono complessi nel soggetto; es. A (che è M) è N. o 2.º sono complessi nel predicato; es. A è un M (che è N); o 3.º sono complessi in amendue i termini; es. A (che è B) è un M (che è N). 21 322 Il problema generale che un sillogismo si pro pone di risolvere è: dati due giudizi indipendenti tra di loro, i quali contengono un termine comune, ricavarne un terzo eliminando il termine comune. Se noi paragoniamo la forma rigorosamente sillogistica col processo reale del nostro pensiero, vedremo che di rado il secondo combacia esatta mente colla prima. Le cause principali di questo fatto sono le due infrascritte. 1.º Che i nostri pensieri e i discorsi con cui li significhiamo, anche se indirizzati a dimostrare qualche tesi, di solito contengono più sillogismi svariatissimamente intrecciati e allacciati insieme. 2.º Che molti giudizi, benchè formino una parte essenziale de' nostri ragionamenti, sono sottintesi e solo implicitamente pensati, ossia pensati senza averne piena coscienza. Ora la logica, non può e non deve proporsi di seguire i meandri psicologici del pensiero, sibbene di determinare le forme esatte, le quali debbono essere almeno implicitamente osservate se il nostro ragionamento ha da essere concludente. Contro il valore del sillogismo furono emesse, massime dai moderni, varie obbiezioni. Qui si ac I 323 cennano brevemente le più speciose, unendo a cia scuna una concisa risposta. Il sillogismo non produce verun au mento di cognizione, perché la conclusione era già racchiusa nelle premesse. Risposta Codesta obbiezione potrebbe tutt'al più esser valida se il pensare umano fosse istan taneo e tutto abbracciasse con uno sguardo. Ma siccome è discorsivo, quindi successivo, la combi nazione del soggetto col predicato della conclusione ha mestieri d' essere esplicitamente pensata; il che è per 1 appunto ciò che si fa per mezzo del sillo gismo. 05. 2. - Il sillogismo è una pura petizione di principio, perchè la verità della premessa mag giore dipende dalla verità della conclusione, anzi chè questa da quella. Infatti non può esser vero per es. che tutti gli uomini sono mortali, se già non sia vero che Pietro, Paolo, Antonio ecc. sono mortali. Risposta. – Codesta obbiezione si fondamenta sul falso concetto che un giudizio universale altro non sia che la somma di tanti giudizi particolari. Ora ciò nella massima parte dei casi non è nem meno possibile, come se per es. io dovessi aspettare a formulare il giudizio: gli uomini sono mortali, d'aver prima verificato la morte in ciascun uomo. È vero invece che le premesse universali parte ri sultano dall'analisi del soggetto considerato nella sua comprensione, parte da nessi necessari tra un 324 concetto e un altro, parte da legittime induzioni. In generale sono indipendenti dai singoli giudizi particolari e il sillogismo applica a questi la regola già riconosciuta nel generale. 06. 3. - Il sillogismo potrà servire tutt'al più a rischiarare o ad esporre sistematicamente ve rità già note, ma non mai a scoprirne, perché la scoperta del nuovo si fonda su processi psicologici. Risposta. Prima di tutto è da notarsi, che tra i processi psicologici, onde può risultare la sco perta di nuove verità, ce ne sono anche di quelli che coincidono col sillogismo. Ma quel che più importa si è che un processo psicologico, in quanto tale, non ha alcun valore scientifico e quello che può avere è giustificato soltanto dal processo logico che lo informa. Finalmente contro tutte le predette obbiezioni e altre analoghe sta questa osservazione fondamen tale, che le premesse d'un sillogismo contengono la ragione della conseguenza. Certo se è vero che tutti gli uomini sono mortali e che Pietro è uomo, è già vero che Pietro è mortale; ma questa pro posizione è vera appunto perché sono vere le prime due e il valore del sillogismo consiste nel mostrare questa dipendenza. Tutti i sillogismi semplici possono ripartirsi nelle cinque classi seguenti: 1. ° categorici puri, e sono quelli in cui tanto le premesse come la conclusione sono giudizi ca tegorici; 2.° categorico - ipotetici o ipotetici spurii, nei quali si le due premesse come la conclusione sono giudizii ipotetici; 3.0 ipotetico -categorici o ipotetici in senso pro prio, che sono quelli la cui premessa maggiore è un giudizio ipotetico, la minore un giudizio cate gorico e la conclusione ordinariamente non sempre) un giudizio categorico; 4. ° categorici disgiuntivi, nei quali la maggiore è un giudizio categorico disgiuntivo, la minore un giudizio categorico semplice o anche.categorico di sgiuntivo, la conclusione un giudizio categorico semplice o anche categorico - disgiuntivo; 5.° ipotetici disgiuntivi, in cui la premessa mag giore è un giudizio ipotetico disgiuntivo, la minore è un giudizio categorico semplice o categorico di sgiuntivo, la conclusione un giudizio categorico semplice o disgiuntivo. - 326 Osservazione 1. Alcuni considerano l'indu zione e l'analogia come forme speciali d'argomen tare distinte dal sillogismo; ma noi vedremo a suo luogo che non sono se non casi particolari di questo. Osservazione 2. – C'è chi distingue prima di tutto i sillogismi in semplici e composti. Ma i così detti sillogismi composti non sono che serie di sil logismi semplici, i quali ricevono la loro unità dalla forma stilistico - grammaticale. Del sillogismo categorico (puro) I due giudizi, da cui si cava il terzo, qui come in tutte le forme di sillogismo, si chiamano pré messe; il terzo conclusione. I concetti o termini, che esso contiene, non possono essere nè più né meno di tre, perché le due premesse debbono avere un termine comune. S'intende da sè che i concetti o termini del sillogismo possono essere significati verbalmente o con una parola o con parecchie. Di questi tre concetti quello che è comune ad ambedue le premesse e che dev'essere escluso dalla conclusione dicesi medio, gli altri due diconsi - 327 estremi; dei quali il soggetto della conclusione chiamasi minore, il predicato della conclusione, maggiore. Delle due premesse l ' una si dice maggiore e suol essere più generale, l'altra minore. Quella, nel sillogismo ordinato, si enuncia per prima, que sta per seconda. Per altro la premessa maggiore è distinta rigorosamente dalla minore solo nella fi gura prima, come si vedrà a suo luogo. Il sillogismo può avere diverse figure (oxńuara) secondo la posizione che occupa il termine medio. Se questo funge da soggetto nella maggiore e da predicato nella minore si ha la figura prima. Se è predicato in entrambe le premesse, si ha la figura seconda. Se è soggetto in tutte e due, si ha la fi gura terza. Fnalmente se è predicato nella mag giore e soggetto nella minore, avremo la quarta figura. Le tre prime furono scoperte da Aristotele; la quarta è attribuita a Galeno. Eccone qui i tipi; dove si noti che con S si indica il termine minore, con M il medio, con P il maggiore. Fig. 1. Fig. 2.a Fig. 3.a MP PM MP Fig. 4.8 PM SM Ş M MS MS SP SP SP SP - 328 SM Osservazione. – L'ordine in cui vengono enun ciate le premesse è indifferente rispetto al produrre la conclusione; questo per altro è l'ordine normale. Ma rispetto alla figura 1.a alcuni, col Leibniz, so stennero come più naturale l'ordine inverso come quello in cui apparisce intuitivamente la con tinuità della subordinazione, conformemente al tipo matematico (S < M < P ). Codesta continuità però è intuitiva anche nell'ordine tradizionale, quando come appunto suol fare Aristotele, nell'enunciare il giudizio si parte dal predicato (P compete ad M, M ad S). Siccome poi le premesse possono variare di qualità e di quantità, cosi si hanno tanti modi (τρόποι των σχημάτων) quante sono le combinazioni che due giudizi possono presentare sotto questo rispetto. Queste in effetto sono sedici per ciascuna figura a a e a ia оа a e e e ie ое (1) αι ei i i o ¿ α Ο e o io 00 e pertanto sessantaquattro per tutte le figure. (1) Cioè amendue le premesse universali affermative (a a), la maggiore universale affermativa e la minore universale negativo (a e ), la maggiore universale affermativa e la minore particolare (a i), ecc. 4 Ma dei 64 'modi possibili, ce n'è 41 che non danno conclusione; sicchè i modi concludenti e quindi validi si riducono a 19 tra tutte le figure; dei quali 4 appartengono alla figura prima, 4 alla seconda, 6 alla terza e 5 alla quarta. Essi sono enumerati nei seguenti versi barbari, che con qual che leggera variante si trovano per la prima volta nelle Sunmulae logicales di Petrus Hispanus, il quale fu poi papa Giovauni XXI. Barbara, Celarent, primae, Darii, Ferioque; Cesare, Camestres, Festino, Baroco, secundae; Tertia grande sonans recitat Darapti, Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo. Ferison. Quartao Sunt Bamalip, Calemes, Dimatis, Fesapo, Fresinon. L'artifizio di questi versi mnemonici (tante volte messi in ridicolo, eppure anche a ' giorni no stri reputati utilissimi, come sussidio alla memoria, da filosofi insighi d'oltralpe) consiste in questo: che le vocali di ciascun vocabolo denotante un modo indicano la qualità e quantità delle premesse e della conclusione. Per es. i tre 4 di Barbara significano che nel 1.º modo della 1.a figura sono universali afferma tive le due premesse e la conclusione; l'e, i, o, di Festino significano che nel 3.º modo della 2. figura la maggiore è universale negativa (e ), la minore particolare affermativa (ë ), la conclusione particolare negativa (0), ecc. In quanto alla consonante iniziale, questa nella figura prima esprime il numero d'ordine nel modo (B essendo la prima consonante del l ' alfabeto, C la seconda, D la terza, F la quarta ); ma nelle altre figure indica a qual modo della 1.8 figura quel dato modo venisse ridotto nella logica aristotelico - scolastica per dimostrarne la validità. (Per es. l'iniziale di Cesáre e Camestres nella fi gura 2.a e di Calemes · nella 4.&, indicano che tutti e tre questi modi si dimostrano con ridurli al modo Celarent della 1.a figura ). Le altre consonanti, nella figura 1. sono puramente eufoniche; ma nelle re stanti figure le lettere s, m, p, c, significano l'ope razione logica, che si deve eseguire per dimostrare la validità di quel dato modo riducendolo a un modo della figura 1. Così s significa conversio Sim plex, p conversio Per accidens, m Metathesis prae missarum, c ductio per Contradictoriam proposi tionern. Che se si chiedesse con qual metodo e secondo quali criteri siansi trascelti fra i 6+ modi possibili i 19 dati come concludenti, si risponde che Aristo tele e in generale gli antichi e gli scolastici si servirono a tal uopo d'un processo differente da quello che preferiscono i moderni. Aristotele di mostra dapprima quali modi siano validi e quali no nella figura 1.a; e ciò fa sia partendo da' prin cipi generali del ragionamento, sia per via d'esempi. Per le altre figure procede in parte riducendone i modi a quelli della figura 1.“, in parte per via di esempi, ossia mostrando che, se si ammettesse la validità di certi modi, si avrebbero conclusioni ma 331 nifestamente false. Questo processo non è rigoro samente logico. I moderni in generale procedono per via d'eli minazione, cioè scartano via via tutti quei modi ne' quali dalle relazioni tra gli estremi e il medio contenute nelle premesse non risulta determinata la relazione tra i due estremi. E ciò fanno col con fronto delle estensioni, nel che ci si può giovare anche dei simboli grafici. Contro questo metodo si può obbiettare che è meccanico e che suppone che le premesse siano sempre giudizi di subassunzione e che il predicato sia sempre un concetto sostantivo, mentre in realtà esso può rappresentare anche un'attività, una pro prietà, uno stato del soggetto. A ciò si risponde 1.º che ogni giudizio, anche se narrativo o descrit tivo, contiene pur sempre una subassunzione (1); 2.º che per mezzo dello spostamento di categoria è sempre possibile concepire il predicato sostanti vamente. Ora applicando il detto processo d'eliminazione, si ripudiano 1.º i modi e e, eo, o e, oo in tutte o quattro le figure. Con che si giustifica l'antica re gola: ex mere negativis nihil sequitur. I rapporti tra le estensioni degli estremi e del (1 ) Pietro ieri passeggiava in giardino equivale alla subassunzione di Pietro sotto gli esseri che ieri passeggiavano in giardino. Indichiamo con P il complesso di tutti quelli che ieri passeggiavano in giardino e abbiamo Pietro e P. 332 medio si possono simboleggiare come segue nella ipotesi e e, ossia che entrambi le premesse siano universali negative. Mм P S M M S Dove si vede a colpo d'occhio, che stando ferma la esclusione re ciproca tra M e Pe tra Se M, la relazione di S con P può concepirsi in tutti i modi possi bili; il che val quanto dire che niuna conclu. sione è legittima. Se poi una delle pre messe (come in eo e in o e) od amendue (0 o) siano particolari, l ' in determinazione è anco ra maggiore. Così sono scartati 16 modi. 2.° In guisa analoga si eliminano i modi che hanno amendue le premesse particolari e ciò per tutte le figure. Donde la regola: ex mere particu laribus nihil sequitur. I modi che per questa legge vengono esclusi sono i i, io, oi, oltre ad oo, che fu già eliminato in forza della legge precedente. Sono così espunti altri 12 modi. 3.° Si rifiutano similmente per tutte le figure M M SP 333 io, quei modi che hanno una maggiore particolare e insieme una minore negativa. Così si elimina i e in tutte le figure (giacchè io, o e, 00 sono già stati eliminati) e così altri 4 modi sono dimostrati in concludenti. 4.° In figura 1.a se la maggiore è particolare e del pari se la minore è negativa, non si ha con clusione. Restano cosi esclusi per la figura 1a, oa, o e, a o (essendochè gli altri modi che cadono sotto questa legge sono già stati esclusi in virtù delle leggi precedenti ). Ecco dunque eliminati altri 4 modi. 5.° In figura 2.a sono invalidi i modi, ne ' quali la premessa maggiore è particolare e quelli in cui entrambi le premesse sono affermative. Così, oltre a' già esclusi, sono eliminati dalla totalità dei 64 gli altri 4 modi i a, o a, a a, ai in fig. 2. * 6. ° In figura 3." sono esclusi i modi, che hanno la minore negativa; quindi, oltre a' già esclusi, si espungono a e, a o. Altri due della totalità. 7.° In figura 4. non sono concludenti quei modi in cui sia contenuta una premessa particolare negativa. Sicché, oltre a' già esclusi, vengono eli minati i modi o a e ao. Di più in questa figura è invalido anche il modo che ha la maggiore univer sale affermativa con una minore particolare affer mativa (a i). Eliminati così altri tre modi, che coi precedenti sommano a 45, restano i 19 concludenti. 334 Con un processo simile si dimostra la validità di questi (1 ). Dall'ispezione comparativa di tutti i modi con cludenti si ricavano le infrascritte regole per tutte le figure. 1.° Se amendue le premesse sono affermative, la conclusione sarà pure affermativa. 2. ° Se una delle premesse è negativa, negativa è pure la conclusione. 3.° Se ambe le premesse sono universali, la conclusione sarà universale nelle figure prima e se conda e talvolta nella quarta; nella terza e talvolta nella quarta particolare. 4. ° Se una delle premesse è particolare, è par ticolare anche la conclusione. 5.° La figura prima ha conclusioni di tutte le forme; la figura seconda solamente negative, la terza solamente particolari. Le regole quassù esposte sono compendiate nel detto: conclusio sequitur pártern debiliorem (dove s'intende che un giudizio negativo è più debole d'uno affermativo, uno particolare più debole d'uno (1) Un 'esercizio che potrà essere utilmente fatto dagli alunni, sarà di dimostrare quali siano i modi concludenti e i modi non concludenti per ciascuna figura, sia col metodo di raffrontare le estensioni dei termini, di cui s'è dato un esem pio rispetto a quelli che hanno ambedue le premesse nega tive, sia col metodo aristotelico - scolastico della riduzione alla figura prima. 335 universale ). Questa legge poi vale non solamente per la qualità e quantità delle conclusioni, ma an che per la loro modalità. Vero è che Aristotele in segna che con una premessa apodittica e una as sertoria si può avere una conclusione apodittica. Ma ciò non è rigorosamente vero, come già rico nobbero gli antichi. Del sillogismo per sostituzione, se un dato concetto fa parte comecchessia (at tributivamente od obbiettivamente) del soggetto o del predicato d' un giudizio, servendo a determi narli, e se da un secondo giudizio risulta che quel concetto è equipollente a un altro, questo potrà es sere sostituito a quello nel primo giudizio. Così s'avrà un sillogismo che chiamasi di sostituzione. Eccone il tipo. 1 2 Am è P A è Pm in S m S dunque As è P dunque A è Ps. Ma se il giudizio, che funge da premessa mi nore non è un giudizio d'identità, sibbene di sub assunzione, in quali casi sarà lecito sostituire nella premessa maggiore il nuovo termine della minore? 336 Se il dato concetto fa parte del soggetto della maggiore, potrà essere sostituito da qualunque con cetto che sia subordinato al primo. Se in cambio esso fa parte del predicato, vi si potrà sostituire qualunque concetto, che contenga il primo cioè che gli sia logicamente superiore. Così: 3 4 Am é P s è m A è Pm m è s dunque As è P (1 ) dunque A è Ps Questa regola vale se il concetto dato entra nella maggiore sotto forma positiva; che se v'entra negativamente, allora vale la regola inversa 5 6 A non mè P m és A è P non m s è m dunque A non s è P dunque A è P non s La dimostrazione di queste leggi si trova fa cilmente col confronto delle estensioni e potrà as segnarsi per esercizio agli scolari, come pure l'esco gitare degli esempi concreti. (1) Si avverta esser facile a cadere in equivoco riguardo a questa formola, qualora si ritenga che la conclusione af. fermi che A è s, mentre afferma soltanto che se A è s, esso è P. 337 Noi daremo un esempio del tipo N. 3. Lo studio delle lingue classiche giova a formare la mente. Il latino è una lingua classica. Dunque: Lo studio del latino giova a formare la mente. La logica aristotelico - scolastica ha trascurato questa forma di sillogismo, che pure è quella di cui si fa uso più frequente. Dei sillogismi ipotetici spurii o categorico- ipotetici Se entrambe le premesse d’un sillogismo sono giudizi ipotetici, si avrà una conclusione del pari. ipotetica e, quando s'adotti il sistema di risguar dare l'antecedente come soggetto e il conseguente come predicato, anche la posizione dei termini sarà identica a quella dei sillogismi categorici. Anzi, secondo alcuni trattatisti di logica, si avranno esat tamente tutte le figure e i modi del sillogismo ca tegorico. Figura 1. Figura 2.2 modo BARBARA modo CAMESTRES Se A è B, C è D Se E è F, A è B Se A e B, C e D Se E è F, C non è D Se E è F, CD. Se E è F, A non è B 22. · 338 Figura 3.2 Figura 4.a modo DARAPTI modo BAMALIP Se A e B, C D Se A i B, E È F se A è B, C i D se c è D, E è F Talvolta, se E é F, C è D. Talvolta, se E é F, A è B. E così dicasi degli altri modi delle varie figure. Senonchè contro questa dottrina si solleva una gravissima difficoltà; poichè come abbiamo veduto, un giudizio ipotetico, ove s'interpreti come espri mente la dipendenza del conseguente dall'antece dente, non può esser mai particolare. Resterebbero quindi escluse le figure 3.8 e 4.a e tutti i modi delle altre due, in cui o nelle premesse o nella conclusione entri un giudizio particolare. Se in cambio s'interpreti il giudizio ipotetico come semplice coincidenza dell'antecedente col con seguente, tutte le figure e tutti i modi del sillo gismo categorico si potranno applicare anche ai giudizi ipotetici. Perocchè in tale ipotesi il giudizio ipotetico universale affermativo significa che la to talità dei casi, in cui s'avvera l'antecedente, coin cide con una parte almeno de' casi in cui s ' avvera il conseguente; e il giudizio ipotetico particolare affermativo significa che una parte dei casi, in cui s'avvera l'antecedente, coincide con una parte al meno de' casi, in cui s'avvera il conseguente. Ana logamente dicasi dei negativi. Così p. es. nel modo Darapti in figura 3. recato qui sopra, la maggiore 339 significa che il numero totale dei casi, in cui A è B coincide con una parte almeno dei casi, in cui C è D; la minore significa che la totalità dei casi, in cui A e B.coincide anche con una parte almeno dei casi, in cui E è F. Sicché è legittima la con clusione che una parte dei casi in cui E é F coin cide con una parte almeno de' casi in cui C e D. Conclusione espressa dal giudizio: Talvolta se E è F, C e D. Se pertanto al giudizio ipotetico voglia man tenersi il suo significato tradizionale, di esprimere cioè la dipendenza del conseguente, come condizio nato, dall'antecedente, come condizione, questa teo ria deve essere rigettata. Siccome per altro anche la semplice coincidenza o connessione è una rela zione, che effettivamente ha luogo tra i fatti, è pur legittimo anche il sillogismo inteso in questo senso. Solo a togliere gli equivoci, sarebbe neces sario farne una classe a parte e designarlo con un nome particolare. E ciò basti per la presente que stione, che il diffonderci di più sarebbe violare le proporzioni di questo trattatello elementare. Dei sillogismi ipotetici propriamente detti ossia ipotetico- categorici Sono questi quei sillogismi, di cui la maggiore è un giudizio ipotetico, la minore è un giudizio 340 categorico che afferma l'antecedente o nega il con seguente della maggiore e la conclusione è un giu dizio categorico il quale afferma il conseguente o nega l'antecedente della maggiore. Sicché questo sillogismo ha due modi fonda mentali, il modo ponente (ponendo ponens) e il modo tollente (lollendo -tollens). 1 2 MODO PONENDO PONENS MODO TOLLENDO - TOLLENS Se A e B, C è D A è B Se A è B, C e D C non è D Dunque CD Dunque \ non i B Il modo ponente segue il tipo della prima fi gura del sillogismo categorico, il tollente quello della figura seconda. La conclusione poi si giusti fica col metodo della riduzione all'assurdo; perchè, supponendo falsa la conclusione, ne segue esser falsa una delle premesse. Onde la regola: posta la condizione, è posto il condizionato, ma non vice versa; tolto il condizionato, è tolta la condizione, ma non vice versa. Che se nella premessa maggiore il conseguente sia negativo, si hanno due modi po nendo tollentes.. 3 4 MODO PONENDO TOLLENS MODO PONENDO TOLLENS Se A ¿ B, C non ¿ D A e B Se A è B, C non ¿ D Сер Dunque C non è D Dunque A non è B 341 Se l'antecedente è negativo e affermativo il conseguente, si hanno due modi lollendo ponentes. 5 6 MODO TOLLENDO PONENS MODO TOLLENDO PONENS Se A non è B, C è D A non è B Se A non è B, C è D C non è D Dunque C è D Dunque A è B Finalmente, ove siano negativi tanto l'antece dente quanto il conseguente, si avranno i due modi seguenti: MODO TOLLENDO TOLLENS MODO PONENDO PONENS Se A non è B, C non è D A non è B Se A non è B, C non è D C è D Dunque C non è D Dunque A è B Un caso particolare di sillogismo ipotetico, che merita considerazione, sebbene per quanto a me consta non sia stato mai trattato dai logici, è il seguente. Sia la premessa maggiore un giudizio ipotetico copulativo nel soggetto, ossia tale che il condizio nato dipenda da più condizioni riunite; se la mi nore afferma la realtà d'una o più di tali condizioni, non però di tutte, la conclusione sarà un giudizio ipotetico, nel quale il conseguente dipenderà da quella o quelle condizioni, che non sono state poste nella premessa minore. Tipo 342 1 MODO PONENTE Se A è B, C e D, ed E è F S è P A è B e C è D dunque Se E è F, S è P Ora siccome il progresso scientifico consiste per gran parte nel trasformare i giudizi ipotetici in categorici, è chiaro che questa forma d'argomen tazione non ha piccola importanza, come quella che tende ad eliminare via via le ipotesi, da cui dipende il conseguente e si accosta così sempre più allo scopo. Se poi la premessa minore sia negativa, avremo un modo tollente, in cui la conclusione affermerà la mancanza di tutte o d' alcune o almeno d' una delle condizioni. Tipo 2 MODO TOLLENTE Se A è B, C è D é E è F S è P S non è P dunque o nè A è B, nè C è D, né E é F o né A é B, né cé D o né A é B, né E é F oné C é D, né E é F O A non é B o C non ¿ D O E non é F 343 Sillogismi disgiuntivi a) CATEGORICI Il sillogismo categorico disgiuntivo ha per pre messa maggiore un giudizio categorico disgiuntivo, per premessa minore un giudizio categorico sem plicemente o categorico remotivo e per conclusione un giudizio categorico, disgiuntivo o no secondo i casi. I tipi principali di questa maniera di sillogismo possono ridursi ai quattro seguenti: 1 1 2 A è o BoCoD A é o Bo COD F non è nè B nè C nè D dunque Fio Bo CoD dunque F non é A 3 4 Аёо восор A non è nè B mè C A è o Bo COD A non è B dunque A è D dunque A è o COD b) IPOTETICI Il sillogismo ipotetico disgiuntivo è quello che ha come premessa maggiore un giudizio ipotetico 344 disgiuntivo. I principali suoi tipi sono i seguenti: 1 2 Se A ¢ B, o C é Do E é F A é B Se A e B, o C é Do E é F né Cé D, né E é F dunque o C é Do E é F dunque A non é B 3 4 Se A e B, o C é Do E é F А ё Весё D Se A é B, OC é Do E é F A é B e C non é D dunque E non é F dunque Eé F In tutte poi le forme dei sillogismi disgiuntivi, se la minore nega tutti i membri disgiunti della maggiore, la conclusione nega il soggetto (o l'an tecedente) della maggiore. 1 2 A É O MONOP Né Mné N né P sono Se' A é B, o C é Do E é Fo G é H C non é D, E non é F, G non é H dunque A non é dunque A non é B Forma che dicesi dilemma, trilemma, quadri lemma, ecc. secondo il numero dei membri disgiunti. 345 CAPITOLO XXI. Dell induzione L'induzione (erayoyń ) non è se non un sillo gismo, nel quale in luogo del termine medio (M) è data la serie completa o incompleta delle sue specie (u, u', u ', u ' ', ecc. ). Il suo tipo pertanto è questo: M, u ', u '.... sono P My u ', u '.... sono S dunque S è P Il quale è un sillogismo in figura 3.a, colla differenza che la conclusione è (o tende ad essere) universale. Se la serie delle specie di Mè completa così nell' una come nell'altra premessa, l'induzione di cesi completa o perfetta e, potendosi la minore con vertire, equivale a un sillogismo in Barbara: (u, u ' u '') sono P Séoul, ou ou" dunque S e P Ma se i concetti specifici, in cui il medio ė risoluto, non esauriscono l'estensione di S, l'in duzione dicesi imperfetta e, stando alle leggi formali, non può dare se non una conclusione più o meno probabile. Infatti la conclusione attribuisce a tutta l'esten sione del genere di S quella proprietà P, che se condo la premessa maggiore è riconosciuta appar tenere a un certo numero delle specie di S. Perciò suol dirsi che, a differenza del sillogismo propriamente detto, il quale conchiude dall'univer sale al particolare, l'induzione dal particolare con chiude all ' universale. Ma per grande che fosse il numero dei casi particolari u, u', u ', ecc. non si avrebbe giammai il diritto d' estendere il carattere P ai rimanenti che con quelli costituiscono tutta l'estensione di S, quando non s'avesse fondamento di supporre che P competa ai primi non accidentalmente, sibbene in forza della loro comune natura. Quindi la pro babilità della conclusione aumenta di molto qualora My u ', U ", ecc., anzichè concetti specifici del genere S, siano esemplari d'un'unica specie. In tal caso può bastare che la proprietà P si scopra anche in un solo. Il principio fondamentale, su cui si appoggia l'induzione, è la ferma nostra persuasione dell'uni formità e della costanza delle leggi naturali. Que sto principio tuttavia non basterebbe a fondamen tare l'induzione senza la supposizione sopra accen nata: perché ove non si supponga che il carattere P appartenga a M, u', u ', ecc. appunto in forza d'una legge di natura, non saremmo in diritto di attri buirlo ad S. Ma stando ad alcuni empiricisti e positivisti moderni l'induzione è l'unica sorgente d'ogni no stra cognizione; quindi anche il principio della uniformità e costanza della natura non potrebb’es sere ottenuto se non per mezzo dell'induzione. Ora ciò è contradittorio, e per fuggire questa contrad dizione si ricorse a uno spediente poco migliore della stessa contraddizione. Si disse che le prime nostre induzioni, non potendo appoggiarsi a un principio che non è ancora dato, si sostengono pu ramente sul numero dei casi, che presentano la proprietà P; onde furono dette induzioni per enu meralionem simplicem. Ma se la semplice enumerazione basta per le prime induzioni, per quelle in particolare da cui poi risulterà il principio dell'uniformità di natura, perché non dovrebbe bastare per tutte, rendendo così inutile il detto principio? E se non basta per le altre, come basterà per quelle? Se la nostra credenza nell ' uniformità e costanza delle leggi di natura non ha fondamento logico, quindi è irragio nevole, come potranno aver valore le induzioni fon date sopra di essa? Non si esce da questo laberinto di contraddi zioni e di assurdi se non si riconosca che l'uomo è particeps rationis, cioè possiede delle verità ori ginarie, le quali poi cumunicano il loro valore an che a quelle che si acquistano coll'esperienza, in quanto contengono la giustificazione dei processi sperimentali e in particolare del processo induttivo. Con il nome di “analogia” si suole designarsi un raziocinio, che va da un particolare ad un altro particolare coordinato, ossia più specificatamente, un raziocinio, pel quale date due cose aventi un certo numero di caratteri comuni, un nuovo carattere che si co nosca appartenere all'una di esse viene attribuito anche all'altra. Il suo tipo è questo A (che è m, n, q ) é P S é m, n, a dunque S é P Paragonando questa formola col sillogismo pro priamente detto si vede ch'essa risulta di due sil logismi, che sono: 1 2 A é m, n, 9 S é m, n, 9 A é P S é A (Dunque S ė A?) Dunque $ é P È chiaro che il n. Í non autorizza a conchiu dere che Sè A, essendo un sillogismo in figura 24 con le premesse amendue affermative. Perchè la conclusione (S è A), la quale deve servire di pre messa minore al n. 2, sia legittima e certa, biso gnerebbe che la premessa maggiore del n. 1 fosse 319 convertibile semplicemente ciò, che è m, n, q, è A). Ora ciò di regola non si avvera e perciò le con clusioni dell'analogia non possono essere se non più o meno probabili a seconda che l'enumerazione dei caratteri m, n, q si accosta più o meno al tipo: ciò che è m, n, q, è A, ossia secondo che essi ser vono più o meno perfettamente a caratterizzare A. È restato celebre il raziocinio per analogia, col quale Franklin nel novembre 1749 argomentò che il fulmine dovesse essere attirato dalle punte me talliche. Esso risponde esattamente al tipo proposto di sopra. L'elettricità (la quale è condotta dai metalli, dà una luce d'un certo colore, ha un movimento velocissimo, ecc. ) è attirata dalle punte metalliche. Il fulmine è condotto dai metalli, dà una luce di quel dato colore, ha un movimento velocissimo, ecc. Dunque: il fulmine sarà attirato dalle punte metalliche. Anche l'analogia, come l'induzione, si fonda menta sul principio dell'uniformità delle leggi della natura e della costanza dei tipi naturali. Vuolsi poi notare che se il fatto del riscon trarsi i medesimi caratteri m, n, q in S ed in A non basta a provare che S sia specie e A genere o viceversa, indicherà che almeno deve esserci tra loro una correlazione e una corrispondenza; sicchè se non potremo a rigore attribuire ad $ il carat tere P, potremo attribuirgliene uno analogo Pin modo che s'abbia la proporzione: 4: P = S: P'. 350 E il carattere P' sarà il prodotto di ciò per cui A coincide con S e di ciò per cui differiscono. Così in fatti ha considerato l'analogia il Dro bisch. Il quale istituisce questo ragionamento: Po niamo che G sia un genere di cui A e B siano specie. Dato che in A scoprasi una nota ", questa potrebbe spettare ad A per una di queste tre ra gioni: 1.° Perché y sia un carattere del genere G. In tal caso y competerà anche a B. 2. Perché y sia nota specifica di 4 (quella per cui esso si distingue da B). In questo caso y non si può attribuire a B. 3.° Perché y sia il prodotto o la risultante della natura generica di A (cioè di G) e della sua tura specifica. In tal caso a B si dovrà attribuire non già y, ma una nota y ', che sia il prodotto della natura generica che B ha comune con de delia sua peculiar natura speclfica. Questo terzo caso sarebbe la propria e vera aualogia. Così un naturalista, che abbia scoperto in una specie animale un dato carattere, p. e. un certo organo, non attribuirà a un'altra specie con genere alla prima l'identico carattere (organo); ma ben piuttosto uno analogo, cioè tale che raccolga, in sè la natura del genere e risponda insieme alla particolar natura della seconda specie. na Della prova o dimostrazione Chiamasi con questo nome un ragionamento, il quale si propone non solamente di vedere quali conseguenze dipendano logicamente da certe pre messe, ma bensì di dedurre da premesse vere la verità di una conclusione. La verità da dimostrarsi dicesi tesi o anche teorema, le premesse si chia mano argomenti. La prova è di due specie, di cui l'una è la diretta, l'altra l ' indirelti o apagogica. Diretta è quella che, partendo dalla verità delle premesse, ne deduce per via sillogistica (sia poi qualunque la forma e il concatenamento dei sillo gismi) la verità della tesi. Indiretta o apagogica quella, che muove dal supporre falsa la tesi e da questa supposizione de duce una proposizione assurda in sé o tale che stia in contraddizione con una verità già riconosciuta. Dicesi anche riduzione all'impossibile o all'assurdo (ab assurdis, duà tõv aduvátov). È una dimostrazione indiretta anche quella che, partendo da una premessa disgiuntiva, esclude ad uno ad uno tutti i membri di questa disgiun zione meno uno; di che resta provato solo valido essere quell' uno che rimane. La dimostrazione diretta ha un pregio maggiore in quanto, non solamente produce la certezza della verità della tesi, ma ne fa vedere anche la ragione. Codesto pregio è massimo quando il fondamento logico, da cui la prova è ricavata, coincide col fon damento reale della cosa (dimostrazione dalla causa. L'indiretta in cambio ha il vantaggio d'essere, per dir così, più violentemente necessitante; essa, in forza del principio di contraddizione, ci strappa l'assenso, benchè noi non vediamo il perchè della cosa. Osservazione: -- La dimostrazione detta ad ho minem, non è una vera dimostrazione, ma piuttosto un artifizio della discussione. Essa parte da un principio, non in quanto sia vero in sé, ma in quanto è accettato e ritenuto vero dall'avversario, onde questi è forzato ad accettare la tesi sotto pena di cadere in contraddizione con se stesso. Gli errori da fuggirsi nella dimostrazione o 1.º risguardano il modo in cui la conclusione fu dedotta dalle premesse; o 2.º risguardano le pre messe (gli argomenti); o 3.º stanno nella conclu sione. Gli errori della prima specie consistono nella violazione di qualghe legge logica, in particolare delle leggi del sillogismo; e ad' evitarli, oltre la conoscenza pratica delle dette leggi, conviene por mente sopratutto al valore logico delle espressioni. In quanto agli errori della seconda classe, il principale è la falsità d'una o più delle premesse. E siccome questo per lo più si nasconde nel modo in cui il medio è connesso cogli estremi, così prende il nome di fallacia falsi medii. Nelle dimostrazioni apagogiche è assai fre quente l'errore della disgiunzione incompleta della premessa maggiore. Altro errore riguardante le premesse è la pe tizione di principio, la quale ha luogo quando si assume come principio una proposizione, che può anche esser vera, ma la cui verità dipende da quella della tesi che si vuol dimostrare. Gli errori della 3.* specie consistono in ciò che la proposizione effettivamente dimostrata non è quella che si suppone d'aver dimostrato (éregosumnos ). Codesta differenza tra la conclusione realmente ot tenuta col nostro ragionamento e la tesi da dimo strarsi puo essere qualitativα (μετάβασις εις άλλο γένος) ovvero quantitativa (il provar troppo o troppo poco). Nella disputa un vizio frequente è la consape vole o inconsapevole ignoratio elenchi (ή του ελέγχου äyvora ); vale a dire il non avvertire o non voler avvertire qual sia il punto in discussione. Un caso particolare di quest'ultimo difetto della prova è lo scambiare la confutazione d'una data dimostrazione con la confutazione della tesi. Per rispetto al provar troppo o troppo poco notisi che si prova troppo poco quando la conclu sione effettiva è un giudizio meno ampio ossia meno generale della tesi; quindi in tal caso la prova è senza fallo insufficiente. 354 Ma il provar troppo, se veramente esatto, non nuoce al valore della prova, anzi fornirebbe una dimostrazione a fortiori della tesi. Tuttavia accade generalmente che la proposizione, con quella gene ralità con cui sarebbe dimostrata se la prova fosse realmente corretta, è manifestamente falsa; di che risulta ch'essa è destituita di valore anche per la tesi, che è più ristretta. Ogni dimostrazione poi suppone che le pre messe siano certe. Ora questa certezza o è il resul tato di altre dimostrazioni o converrà sia immediata. Quindi coloro che negano che ci sia verun princi pio immediatamente certo, tolgono con ciò la pos sibilità di qualsiasi dimostrazione e però d'ogni certezza. Il medesimo avviene anche per chi non am mette Verità se non relative; perocchè anche la verità relativa, perche si possa dimostrare, abbisogna di qualche principio che sia vero di verità assoluta. Chi invece nega alcuni principii amnettendone altri, può essere convinto per via di ragionamento; il che per lo più si ottiene mostrando che il ne gare la certezza immediata di quelli ch'egli nega conduce per logica necessità a negare anche quelli che ei riconosce per veri. Ma in genere si tratta più ch' altro di dissi pare un'illusione. L'avversario crede di ammettere soltanto questo o quel principio, ma poi ne' suoi ragionamenti presuppone tacitamente la verità an che di quelli ch'egli professa di non riconoscere. 355 L'argomentazione allora deve essere rivolta a pro vargli che implicitamente egli ammette anche que sti. (Cosi ad es. il famoso cogito ergo sum di Car. tesio, che egli pretendeva essere l'ultima e unica åncora di salvezza contro il dubbio universale, per aver valore e servire di base alle deduzioni ch'egli ne trae, richiede la verità anche del principio di identità e in genere de' principii logici).  Delle fonti da cui si ricavano le premesse dei nostri ragionamenti e in particolare del me todo sperimentale. La logica non può avere per ufficio di enume rare tutti i principii de' nostri ragionamenti; ogni scienza particolare si occupa di quelli che la ri guardauo. Tuttavia ella può offrire delle norme generali valide per qualunque ordine di ricerche. I principii in genere consistono in un giudizio che può essere o analitico o sintetico. Un giudizio analitico è per sè evidente ogni qualvolta il con cetto di cui si tratta (il soggetto del giudizio) sia valido (il che importa 1.º che non contenga ele menti contradittorii tra di loro; 2.0 che rappresenti una sintesi legittima di elementi) e il predicato sia evidentemente contenuto nel soggetto. L 356 I giudizi sintetici o sono a priori (e in questo caso essi debbono esser tali che il negarli conduca alla negazione della ragione e dello stesso pensiero), ovvero sono a posteriori (e in tal caso l'ultimo criterio è l'esperienza si interna che esterna, si diretta che indiretta (storica] ). Per rispetto alle cognizioni che provengono da quest'ultima fonte, cioè dall'esperienza, si vuol di stinguere l'osservazione dall'esperimento propria mente detto. L'osservazione non dipende da regole logiche o almeno quelle che vi si possono assegnare hanno ben poca efficacia; essa dipende sopra tutto dalle attitudini naturali, che per altro possono essere educate e guidate. Uno de' maggiori ostacoli, che si oppongono alla buona osservazione è la facilità a vedere nelle cose più di quello che realmente c'è, ossia le false integrazioni della percezione. Un altro sta nel non distinguere le parti d'un tutto o, con tendenza con traria, nel concentrare e isolare l'attenzione sulle parti in guisa da perdere di vista il loro nesso ed il tutto (che è quello che il proverbio tedesco esprime dicendo che gli alberi non lasciano vedere il bosco ). Nella grande complessità dei fenomeni naturali, la massima difficoltà, che s'incontra per distinguere le cause dagli effetti e a ciascun effetto assegnare la sua causa propria, nasce il più delle volte dal l'impossibilità, in cui siamo, di osservare gli uni separatamente dagli altri. A superare questo scoglio l'osservazione si giova, sempre che lo possa, delle circostanze varie in cui un medesimo fatto si presenta. Ma a questo fine serve sopratutto l'esperimento con produrre artificialmente il fatto, che si vuol studiare, in circostanze differenti e isolandone fin dove è possibile i vari elementi. E l'esperimento s' avvantaggia sopra l'osser vazione non solo col variare le circostanze del fatto, ma col produrre per l'appunto quelle varietà che meglio servono all'uopo. (Si confrontino p. es. le cognizioni intorno all'elettricità che si potrebbero ottenere dalla semplice osservazione dei temporali, dei lampi, dei fulmini, ecc., con quella che il fisico ricava dagli esperimenti istituiti sistematicamente nel suo laboratorio ). Ma la via comoda e fruttuosa dell'esperimento non ci è sempre aperta; moltissimi esperimenti per la natura della cosa e per la limitazione dei nostri mezzi sono impossibili (come sarebbe per es. il produrre una cometa artificiale, un uomo due teste, ecc. ); molti, benchè possibili, sono ille citi, come quelli che lederebbero dei diritti e vio lerebbero le leggi della morale (P. es. l'allevare un bambino in un ambiente viziato, spaventare un uomo con una falsa notizia ecc. ). Il famoso esperi mento di Psammetico, narrato da Erodoto nel 2.º libro delle Storie, sui due fanciulli, cui non fu in segnato a parlare e che probabilmente è una favola, sarebbe stato illecito. con 358 In generale se l'esperimento, quando è possi: bile, è superiore all'osservazione nello scoprire gli effetti di date cause, l'osservazione supera l'espe rimento nel determinare le cause di dati effetti. Perocchè se d'un effetto, che la natura ci presenta noi ignoriamo la causa o le cause, di dove potremmo muovere per produrlo artificialmente? Se per altro l'osservazione ci mostra certi fatti preceduti sempre da certi antecedenti, si avrà ra gione di congetturare che tra questi antecedenti ci sia la causa, che cerchiamo. Allora interviene l'espe rimento e provando e riprovando scopre se e quale sia la vera causa. L'investigazione sperimentale, a cui la scienza della natura deve i meravigliosi progressi che ha fatto da due secoli in qua, si giova massimamente di due metodi, che secondo lo Stuart Mill, sono i seguenti: 1. ° Paragonare tra loro differenti casi, in cui il fenomeno che si studia, avviene. 2.° Paragonare i casi, in cui il fenomeno ay viene, con altri (simili nel rimanente) in cui quello non avviene. Il primo chiamasi metodo della concordanza, il secondo metodo della differenza. E qui si avverta che altra cosa è se si cerca la causa, altra se si cerca l'effetto d'un fenomeno qualsiasi, quantunque nella maggior parte dei casi queste due ricerche procedano per la stessa via. 359 Ciò posto, le regole del primo metodo si rias sumono in questa: Se due o più casi d'un dato fenomeno hanno comune una sola circostanza, que sta circostanza, ch'è la sola in cui tutti i casi combinano, conterrà la causa (oppure l'effetto) di quel fenomeno. Pel secondo metodo si assegna la regola se guente: Se un caso, in cui il fenomeno da esami narsi s' avvera, e un caso, in cui il medesimo non ha luogo, hanno comuni tutte le circostanze ad ec cezione d'una sola e quest'una s' incontra solo nel primo caso, questa circostanza, per la quale sol tanto i due casi differiscono, sarà l'effetto o la causa o una parte necessaria della causa del feno meno. Osservazione. -- Il metodo della concordanza serve specialmente ne' casi in cui l'esperimento è impossibile; quello della differenza nei casi in cui è possibile. Siccome poi s'incontrano spesso' de' casi, in cui nè l'uno nè l'altro dei due metodi accennati, preso da sè, ci potrebbe condurre allo scopo, cosi l'uno può integrarsi per mezzo dell'altro ricor rendo a un terzo metodo, che è la riunione di que' due e che si formola in questa regola: Se due o più casi in cui un dato fenomeno (A ) si avvera, hanno comune una sola circostanza (a), mentre due o più casi, in cui quello non s'avvera, non hanno comune l'assenza di verun altro fra gli antecedenti di A, tranne quella di a, questa circostanza in cui 360 le due serie di casi unicamente differiscono, sarà l'effetto o la causa o una parte necessaria della causa del fenomeno (1 ). Questo dicesi il metodo della concordanza e della differenza riunite. Altri due metodi della ricerca sperimentale sono: a) quello che dicesi dei residui, il cui canone può essere così formulato: Se da un fenomeno si detragga quella parte, che in forza di anteriori in duzioại si sa essere effetto di certi antecedenti, il (1) Lo Stuart Mill, da cui abbiamo preso la teoria sopra esposta dei metodi per la ricerca sperimentale, ha formolato questo terzo canone in altro modo, cioè precisamente cosi: Se due o più casi, in cui il fenomeno avviene, hanno sol tanto una circostanza comune, mentre due o più casi, in cui quello non avviene nulla hanno di comune tranne l'assenza di questa circostanza; la circostanza in cui solamente le due serie di casi differiscono, è l'effetto o la causa o una parte indispensabile della causa di quel fenomeno (A system of Logic 5. edit. London 1862, pag. 435). Ora noi abbiamo già osservato fino dal 1867 in una recensione della detta logica del Mill (Rivista bolognese) che qui era corso un errore o ne abbiamo proposto la correzione colla formola riportata nel testo. 6 Perocchè scrivevamo - più casi che differiscano in tutto meno nella mancanza di una sola circostanza (a) sono nonch'altro inescogitabili; le coincidenze puramente negative sono infinite. » E a giustificare la mia formola io soggiungeva: « Supponiamo che si avverino i casi A B C, A DE, A FG, le conseguenze dei quali siano per or dine abc, ad e, afg; noi non siamo ancora in diritto di ri tenere A come l'antecedente costante di a, potendo questo O 361 resto del fenomeno sarà l'effetto degli antecedenti che sopravanzano. b) Il metodo delle variazioni concomitanti. Il suo canone è questo. Se un fenomeno varia in qual siasi modo ogniqualvolta un altro fenomeno varia in una certa particolar maniera, quello sarà una causa o un effetto di questo o sarà connesso col medesimo per qualche vincolo causale. essere una volta l'effetto di B, un'altra di D, una terza di F, ecc. Se ora siano dati i casi G HL, MNO, ecc., che non sono seguiti dal fenomeno a, il coincidere essi nella man. canza di A non prova nulla; ma ben maggiormente provereb bero i casi BCH, DEL, FGM, perchè non avendo essi co mune l'assenza di nessuno tra gli antecedenti di a, tranne quella di A, ne risulta che nè B, nè C, nè D, nė E, nè F, nė G sono la causa di a, ossia che in tutti i casi osservati, in cui a ebbe luogo, esso fu sempre dovuto ad A. Il Mill ha notato essere difficile applicare il metodo della concordanza ai casi negativi, cioè ai casi in cui quel determinato fenomeno non succedo, ma non avverti che è ancora più enorme per non dire infinita la difficoltà di determinare la coincidenza nei caratteri negativi, vale a dire d'aver comuni delle mancanze. Nella lezione precedente [v. sommario] abbiamo ricercati i principii generatori della lingua italiana; venendo ora a parlarvi dell’importanza che il medesimo ha rispetto al pensare, noteremo prima di tutto su che falso terreno si pongono coloro, che vogliono fare una separazione assoluta tra il pensiero e la parola [greco ‘parabola’, cf. romano ‘per-ferenza], per esaminare poscia se questa riesca a quello di aiuto ovvero d’impedimento. La quale disamina, qualora venga istituita in questa maniera, conduce quasi inevitabilmente alla seconda soluzione, cioè a considerare la lingua italiana come un impaccio e nulla più, come un traino inutile e pesante che il pensiero e costretto a trascinarsi dietro e che ne impedisce il libero volo. Noi faremo ragione un’altra volta di queste opinion. Quello che qui vogliamo si avverta si è che la parola [parabola, transferenza] e il pensiero sono talmente concresciuti e fusi nella vita dello spirito, che non si può movere un passo nella storia di questo senza trovarli l’uno nell’ altro inviluppati. Come non e concepibile la lingua italiana in un essere che fosse destituito dell attivitta pensativa, così non possiamo dire che cosa sarebbe il pensiero senza la lingua italiana. Nè si dica che i sordo-muli ce ne porgono un esempio vivente, giacché prima di tutto ogni educazione di questi infelici e solo possibile per mezzo d' un sistema di comunicazione arbitrario, convenzionale, e artifiziale che viene sostituito a quello negato a loro dalla natura, e iu secondo luogo anche quel poco disviluppo intellettuale, che essi possono raggiungere senza una siffatta educazione, è evidenlemenle conneso colla lingua italiana, via un sistema di comunicazione di gesti e di moti, che sebbene imperfettismo in confronto della parola, pure ne tien loro le veci comechessia. Affine di formarci un’idea dell’ importanza che ha la lingua italiana per lo svolgimento spirituale dell’uomo, noi esamineremo i seguenti punti. Come la lingua italiana cooperi alla formazione delle prime nozioni che noi acquistiamo. Qual ufficio la lingua italiana adempia nel collegamento di queste in sistemi di cognizioni. Qual parte abbia nelle produzioni dello spirito via le implicature. Questo argomonlo lu Iraltalo in Ire lezioni, delle quali diamo qui solo la seronda j rispetto alle allre due, vedi il Sommario in lino. Quanto al punto della cooperazione basti richiamare quanto si è dotto allorché esaminammo il processo psicologico, onde la singola intuizione sensitiva danno origine ad una nozione generale. Una nozione generale risulta da moltissimo intuizioni singolari fuse insieme o collegale in serie. Ma come avviene poi che tanti elementi psichici formino una unità? Come avviene che l’anima nostra componga a sò stessa di quella pluralità una sola rappresentazione? Sta benissimo che rinforzandosi reciprocamente le parti identiche, mentre le parti diverse per la loro opposizione si oscurano a vicenda, quelle predominino sopra di queste in modo da comparire esse sole nella coscienza; ma che cosa è poi finalmente che dà a quelle il valore di una unità? Che cosa ò ciò che le tiene insieme stabilmente congiunte di modo che non solo compariscano sempre unite, ma compariscano come una cosa sola? Evidentemente non è altro se non la parola (greco: parabola). La parola (greco: parabola) forma il nocciolo stabile, intorno a cui si aggruppano tutti i singoli caratteri, che presi insieme costituiscono una nozione, essa è come l’apice d' una piramide o d’un cono, la cui base ò formata da tutte le singole intuizioni ond’ò risultata l’idea generale. In tal modo poi, se ben si avverta, è spiegata non solamente l’unità della nozione, ma anche la sua universalità, che ne è il carattere essenziale. Niuna intuizione sensibile infatti, niuna imagine della fantasia può mai vestire questo carattere della universalità; sia pure che l’imagine stessa, non contenendo se non quei caratteri che sono comuni a molle intuizioni e quindi a molli oggetti, possa risguardarsi corno il tipo generico di questi; la ò questa una relazione che non è contenuta nell’ imagine stessa, ò una relazione aggiuntavi dal pensiero che la considera in rapporto a quelle intuizioni e a quegli oggelli. Conviene pertanto che essa imagine ridivenga oggetto della coscienza riflessa, e questo accade solo per mezzo della parola (Steinlhul. Gram. Log. u. Psych.). Un’ intuizione si colleghi psicologicamente con un suono vocale – il sistema fonologico della lingua italiana. Ora il ricomparire di quest’ultimo nella coscienza trae seco il ricomparire anche di quella e cosi nel suono — cioè nella parola (greco: parabola) — è di nuovo intuita l’intuizione, ossia l’intuizione è divenuta alla sua volta oggetto d’un’altra intuizione – l’imagine -- vale a dire è divenuta oggetto della coscienza riflessa. Per tal guisa nella intuizione riflessa, ossia nella parola (greco: parabola), non solamente una somma di intuizioni viene aggruppata in una unità, ma anche tutte le unità simili (cioè tutte le somme di intuizioni, che sono intuite dalla coscienza riflessa sotto una sola intuizione) vengono comprese nella unità d’una sola specie. Così la nozione o parola della lingua italiana, “albero”, è una sola, qualunque sia il numero degl’oggeti a cui può applicarsi, qualunque il numero delle singole intuizioni di alberi reali o dipinti che noi possiamo avere avuto, e in questa sua unità “albero” ha il potere di essere il “rappresentante” (segnante) di tutti gli infiniti alberi possibili. Io debbo per altro farvi avvertire una cosa, acciocché non abbiale ad attribuirmi dottrine che non sono le mio. Io ho mostrato come il processo psicologico onde i diversi tratti rappresentativi si  unificano in una sola rappresentazione complessa e la universalizzazione di questa sono strettamente connessi colla parola “albero” (greco: parabola). Con ciò io non ho inteso affermare clic le idee delle cose — prese in sò — altro non sieno che parole, ossia che quella sia mera unità fìttizia tenute insieme dalla parola (greco: parabola). No, io conosco le enormi conseguenze che si trarrebbe seco questa teoria. Essa riuscirebbe nientemeno che alla negazione assoluta delle idee e con ciò alla negazione dell' ordine morale, dell’ ordine logico e dell' ordine estetico del mondo; alla negazione assoluta del vero, del bello, del bene e del giusto. Vedete pertanto se in questa materia occorra camminare guardinghi e come un passo falsi dato in una investigazione apparentemente secondaria puo far precipitare noi sistemi più spaventevoli. Io dico pertanto: l’idea di una cosa e in se quello che e, eterna, immutabile, assoluta, norma e archetipo del tutto. Essa si trovano più o meno realizzate nella natura e nell' uomo, ma non per questo esaurite o scemate d’efficacia. Noi sappiamo che essa vi e, perchè vediamo il creato e ogni processo che si compiono in esso soggetto a certa legge, perchè nell’ente organici sopratutto viamo una rispondenza di fini e di mezzi, troviamo un ordine, una proporzione, un’armonia, una bellezza, che rivelano evidentemente un disegno. Noi sappiamo che essa e assoluta ed eterna perchè il nostro pensiero si rifiuta a pensarle distrutto o alterato, perchè noi concepiamo che gli assiomi, che valgono per noi, non potrebbero non valere per qualunque altro essere in qualunque altro mondo a qualsiasi enorme distanza ili tempo. Ma noi sappiamo altresì che solo un piccolo numero di tali idee è accessibile alla nostra mente, che difficilmente la pensiamo nella sua purezza e integrita), che molte nostre concezioni, che noi crediamo di poter mettere nel novero di quelle, non sono che informi aborti della nostra imaginazione. Noi argomentiamo finalmente che una idea assoluta, archetipo, eterna non possono esistere completamente che nel pensiero divino; giacché altrimenti dove esisterebbero esse? Sarebbero forse anteriori alla mente che dee concepirle, come suona la paradossale sentenza di Hegel? Esisterebbero da sè, in aria, aspettando che finalmente dopo molte evoluzioni e ri-assorbimenti sorga dal loro seno un essere capace di afferrarle col suo pensiero? Essa esistoe dunque. Na non e il patrimonio ereditario dell’uomo. Questi dee faticare tutta la sua vita, anzi le intere generazioni devono a poco a poco accumulare il fruito delle loro fatiche, perchè l’uomo giunga al possesso d’ una parte di quelle. Ora in questo lavoro, l'uomo è sostenuto e guidato per mano dalla parola. L’impressione sensibile e la ri-produzione (coppia) di queste forniscono il materiale greggio, da cui lo spirito colle strumento della lingua italiana distilla i suoi concetti: o questi non sono addirittura e comunque generati l’equivalente di quelle, ma si hanno il compilo di avvicinarvisi sempre più e noi abbiamo veduto, allorché parlammo degli elementi a priori dell'intelligenza dell’uomo, come nella natura stessa dell’ anima sia deposta la norma istintiva, la misura originaria. a tenore della quale un prodotto dello spirito viene a mano a mano depurato e condotto a quel punto in cui possono aver valore di assoluta verità. E tanta è 1’importanza della parola in questo procosso, che noi non sappiamo altrimenti concepire nò anche il pensiero divino, che come una intima parola che il pensiero divino dice a sè stesso. La parola è per noi il “rappresentante” della cosa in sè, dell’intima natura d’ogni essere, appunto perchè i nostri pensieri non possono sollevarsi a quei concetti universali, che rappresentano non più le accidentalità della cosa, ma la loro stabile essenza, se non nella parola e per mezzo della parola. Dove si vede la causa d' un fatto a prima giunta inesplicabile, cioè di quelle credenze superstiziose, giù altre volte tanto diffuse e comuni a quasi tutti i popoli, sulla potenza magica di certe parole. Tornando ora al nostro argomento osserveremo un altro importantissimo ufficio che fa la parola per il pensiero. Benché l’attività del pensiero puro sia in sè altra cosa dalla rappresentazione sensibile è tuttavia per la nostra natura impossibile o per lo meno estremamente difficile di pensare senza l’appoggio d’un elemento sensibile (l’imagine – di un segno). Basta la più leggera riflessione sopra di sè per convincersi come anche un concetto astrattio non viene mai pensato da noi senza un qualche fantasma sensibile che ad essi si accoppia, anzi che fa l’ufficio di darcene a dir così un “segnale” che li contraddistingua. Così l’idea di minaccia suole accompagnarsi all’ imagine visiva – il gesto, il moto -- d’un dito brandito in alto. L’idea di frazione a quella di due numeri o lettere separati da una linea orizzontale. L’idea di morte a quella dell’oscurilt e va dicendo. Questo fallo, che si spiega osservando il processo psichico che ha luogo nel pensare un concetto astratto, mentre consistendo questi in una moltitudine grandissima di singole rappresentazioni fuse e complicale insieme e che non possono più ri-comparire ad una ad una o non lo possono che successivamente, conviene che vi sia nella coscienza qualche elemento chiaramente re-presentabile e congiunto con quelle, il quale porta con sè la tendenza alla successiva evoluzione di quella massa. Questo fatto mostra ad un tempo l’utilità della parola. La parola infatti è un’magine sensitiva – uditiva, ma cf. segno per l’altri quattro sensi -- facilmente re-presentabile, distinta da ogni altra e perciò acconcia mirabilmente a quello suopo. Per la sua chiarezza e distinzione la parola (o espressione o segno patognomico) evita il pericolo di ri-chiamare altre serie di rappresentazioni da quelle che si vogliono, ossia altri concetti, mentre per la sua semplicità e vivezza è facile a tenersi presente nella coscienza. In tal modo, assicurali che noi siamo che ogni espressione è il re-presentante d’un dato complesso di idee, noi non abbiamo più mestieri di affaticarci a richiamare questo e colla rapidità del baleno percorrendo colla mente diversi espressioni, compiamo un processo cogitativo complicatissimo, che altrimenti op primerebbe il nostro pensiero colla sua spaventevole molliplicità. Un altro fallo psicologico che dimostra l’intimo nesso del pen¬ siero colla parola, si è questo che noi non crediamo mai aver piena cognizione d’ una cosa finché non ne sappiamo il nome, mentre al1' opposto molte volte ci sembra di conoscerla, quando in realtà ne conosciamo solo l’espressione (nominale,  il nome) e nulla più. Noi avremo esaminato un oggetto (o cosa) sotto ogni aspetto, ce ne saremo fatti un’imagine completa, ma finché non sappiamo il “nome” (l’espressione nominale, alpha) che ha nel sistema di comunicazione della lingua italiana, esso ci sembra pur sempre avvolto in una certa oscurità. Dato poi che ci venga appreso un tal “nome”, quell’ oscurità pare dilegui al risonare di esso, e sembra che l’oggetto o la cosa acquisti allora definitivamente il suo posto fra le cose esteriori, che diventi allora qualche cosa di stabile e indipendente (1). Quante volte passeggiando pei campi ci abbattiamo a considerare un fiorellino, che forse abbiamo già spesso veduto, ma senza che mai l’imagine del fiorellino pigliasse nella nostra memoria un luogo stabile e fisso. Dopo averlo guardato e riguardato noi stiamo per gettarlo e così esso rimarrebbe anche questa volta un oggetto perduto per noi, quando l’amico che ne accompagna, studioso coni’ è di botanica, ce ne insegna il “nome”; ed ecco che questo fiorellino ha preso per noi una consistenza e individualità nuova. Noi sappiamo oramai -- che cosa? Se alle nostre cognizioni non si è aggiunto altro che un puro “nome”? Un puro “nome” sì. Ma questo nome è un testimonio che quel fiorenillo è già noto all’uomo. Testimonio che ha ricevuto un posto determinato nell’ordine degli esseri. Quel nome ci attesta che esiste pari a quello una intera *specie*, che gl’uomini possiedono questo concetto come cosa oramai stabilita e indubitabile. Tanta è la forza d’ un nome! L’osservazione che facemmo or ora intorno ai servigi che ci presta la lingua per re-presentarci un concetto astratto ci introduce ad altro punto che ci siamo proposti di esaminare. Per essere la parola il re-presentante del concetto, noi possiamo operare sulla parole o il segno patognomico quasi fossero esso medesimo il concetto, e i risultati riescono esatti al pari di quelli che ottiene l’ algebrista, il quale designando arbitrariamente, artificialmente, colle lettere dell’alfabeto le quantità, su cui vuole istituire le sue investigazioni, ne cava fuori dei risultati non meno rigorosi di quel che se avesse operato sulle effettive quantità. Che immensa facilitazione sia questa per i processi del pensiero non occorre ch’io mi fermi a osservarlo. Una frase, un *periodo*, un breve discorso equivalgono a dei mondi intieri di idee con tutti i loro rapporti reciproci ! idee e rapporti che, ove non fossero nella coscienza re-presentali da un’espressione, richiederebbero un enorme sforzo mentale e un tempo non breve per venire effettivamente pensati. Bastici ricordare quello che a ciascuno di noi certamente sarà più volte intervenuto, cioè la difficoltà che si prova per concepire un’idea chiara di qualche cosa, non trovando un vocabolo appropriato che la significhi (che e segno). Non è pertanto da disprezzare — come fanno leggermente ta¬ luni — la tendenza di tutte le scienze a crearsi una determinata e minuta terminologia, mentre senza di questa è impossibile la sveltezza e la libertà di moversi del pensiero. E sotto questo rispetto mi sembrano ridicoli coloro che, per un concètto esagerato della purità della lingua, vorrebbero tolto alle scienze il più potente loro stromento, i vocaboli. Che altri si provi a scrivere di fisica o di fisiologia o di chimica o di psicologia nella lingua dei trecentisti! Anzi tutto io sono certo che egli avrà pensato prima ciò che scrive sotto altri termini e altre forme linguistiche e poi si sforzerà di sostituirvi alla meglio quelli del Cavalca e del Villani; e poi che lentezza, che strascico, che indeterminatezza, che equivoci, che confusioni! Non c’è via di mezzo, (I) Lolze, Mikrokosmus. E. I. 8 i) pensare coinè <jaelli di cui volete copiare il linguaggio o servirvi d’ altro materiale linguistico. Certo ogni novità ha da essere giustificata da duo ragioni, l’insufficienza del materiale preesistente e la novità del pensiero; ove manchi l’una o l’altra di queste due condizioni, avremo o licenziosi corrompitori della lingua o miseri ammantatori di idee vecchie solto spoglie novelle. Per mezzo della lingua italiana il pensiero ricostruisce entro di sè il mondo esterno, col suo ordinamento, le sue graduazioni e lo sue reciproche attinenze; gli esseri stabili c permanenti si distaccano dalle accidentalità mutabili e passeggere, le sostanze si distinguono dalle qualilà, gli avvenimenti si distribuiscono nel tempo, gli citelli mostrano il loro concatenamento colle cause, le azioni e le passioni si contrappongono agli enti che agiscono o che patiscono, i correlativi si fronteggiano e va dicendo, e tuttociò sotto l’influsso c per l’opera della parola. E che la cosa sia così voi lo vedete nelle forme gramaticali della lingua italiana e anzi tutto nelle cose dette parti del discorso. Mentre la lingua italiana comprende un concetto sotto la forma di “nome sostantivo”, la lingua lo riconosce è lo caratterizza come una cosa che sta da sè, che si appoggia a sè stessa c che è idonea a servire di punto di partenza por una seconda, di oggetto ad una terza. Il sostantivo è la forma natu¬ rale con cui la lingua riproduce la cosa e elio però in origine essa impiega solamente a designare ciò che come oggetto stabile e indi¬ pendente si presenta alla intuizione sensibile. Se essa ad un altro concetto impronta la forma di aggettivo, con ciò lo denota corno cosa che non islà da sè e che riceve esistenza, grandezza, forma, circoscrizione solu da un altro concetto sostantivo, a cui è pur sempre costretto appoggiarsi: e le qualità sensibili delle cose sono le prime che la lingua italiana comprende sotto forma di “nome aggettivo”. A questi elementi la lingua italiana aggiunge il terzo, che è il più indispensabile, cioè il “verbo” o la copula, aflìne d’esprimere il passaggio, con cui l’avvenimento collega fra loro quello imagini immote (1). Anche questa forma serve da principio solamente a denotare i cangiamento sensibile, ma poi ben presto venne estesa anche ad esprimere la relazione stabile della cosa, mentre il movimento interno del nostro pensiero che va dall’una all’altra e per coi solo noi possiamo concepire la relazione, viene riguardato come un movimento reciproco che abbia luogo fra le cose stesse paragonale. Senza tener dietro allo svolgimento delle altre forme gramaticali — ciò che è ufficio della “filosofia della lingua italiana” — osserviamo qui che queste tre forme — nome sostantivo (alpha), nome aggettivo (beta), e verbo o copula (“il alpha e beta”)— presentano il minimo di organizzazione e di distribuzione nel contenuto del pensiero, senza di cui sarebbe a questo impossibile di intraprendere le sue operazioni. Nè è da opporre a queste considerazioni che parecchie lingue non distinguono le parti del discorso con particolari *modificazioni* di suono (amare, amante, amato, l’amante ama l’amato, l’amato e amato dall’amante); perocché non è necessario che ogni forma del pensiero abbia il suo corrispondente nella forma del suono, basta bene che questo sia pensato con quella relazione (l) 111. ibiil. 9 Cogitativa. So un “idioma” non possiede, a cagione di esempio, alcun distintivo esteriore per caratterizzare il nome sostantivo, però la sua parola, sintatticamente informe, nell’anima di chi parla (il mittente), per il pensiero concomitante dello stare da sè, è trasformata in nome sostantivo. Ma se v’hanno alcune lingue che difettano dei mezzi per rendere esternamente sensibile il concatenamento dei pensieri, le più di esse invece inclinano all'altro estremo, producendo da sè una quantità di forme gramaticali e sintattiche che evidentemente soverchiano il bisogno logico del pensiero (1). E questo sia il luogo di richiamare una verità non mai abbastanza ripetuta, cioè che la forma della lingua italiana è in sè diversa dalla “forma logica”. La “forma logica” non conosce altri rapporti che quello di universale e particolare, di subordinazione, coordinazione, inclusione ed esclusione, posizione e negazione, mentre le forme linguistiche oltre di queste relazioni ne esprimono infinite altre che si attengono vuoi alla natura delle cose, vuoi alla maniera con cui queste fanno impressione sulla nostra sensibilità. La qual ultima attinenza essendo suscettiva di infinite e finissime gradazioni ha dato origine a tutte quelle delicate e svariatissime tinte (o implicature) della lingua italiana?, di cui non possiamo farci un’ idea se non collo studio dei filosofi più perfetti. In particolare la antica lingua latina usata dai romani ha sotto questo rispetto dispiegalo un lusso e una ricchezza di forme, che il pensiero italianao più arido e severo ha abbandonato come superflue. Basti ricordare le ricchissime flessioni del verbo. Aggiungiamo a queste considerazioni l’immenso vantaggio che l’antica lingua latina usati dai antichi romani all'individuo in grazia del tesoro di pensieri che nella antica lingua latina già si improntarono e che egli riceve come in eredità dalle generazioni precedenti col solo apprendere la lingua latina. Quante intuizioni, quanti giudizi, quante riflessioni, quanti confronti e raziocinii di infiniti uomini romani si sono a dir così depositati nella lingua di un po¬polo! e il bambino che viene alla luce nuovo a tutlociò che lo circonda, col solo apprendere la lingua italiana si risparmia una fatica che supererebbe enormemente le forze del genio più potente. Venendo da ultimo a considerare l'influenza che la lingua esercita sulle produzioni dello spirito in generale e in particolare sulle creazioni letterarie e poetiche, dobbiamo prima di lutto avvertire che la lingua italiana non è già solamente una veste esteriore del pensiero, alla quale sia indifferente di sostituire qualsiasi altro segno, ma sibbene la forma stessa in cui il pensiero è fuso e concresciuto: che a volergliela strappare per aver nudo il contenuto, gli'è come se si volesse togliere a una foglia o ad un fiore la sua forma lasciandone intatta la sostanza. Noi avremmo in tal caso un dato miscuglio chimico di materie, ma non più una foglia nè un fiore. Ma quello che più imporla, considerando la lingua italiana sotto l’aspetto letterario, si è che qualsiasi concetto può venir pensalo in varie maniere, in diverse attinenze, con una maggiore o minor ricchezza di (1) Irt. iblei. 2 10 contenuto, con un accompagnamento più o meno ricco di fantasie e di sentimenti. Conviene qui distinguere il valore del concetto strettamente logico od obbiettivo che dir si voglia dal valore psicologico o subiettivo. Il primo deve essere eguale per tulli e in tutte le circostanze, a menochè l'idea di cui si tratta non sia addirittura falsata — il che equivarrebbe a dire che in vece di un' idea se n' ha un- altra. Il secondo invece varia a seconda della persona (mittente) che lo pensa, del lernpo, delle circostanze, dell' unione con altri e va dicendo. Chi dice per esempio “la primavera”, certo intenderà quella data porzione dell'anno che è determinata dal calendario. Ma questo non è che il valore assoluto obbiettivo di tal concetto; quanti diversi aspetti non vestirà esso invece nella mente delle varie persone che lo pensano! Per uno è la stagione dei fiori, delle aure miti e feconde, del ringiovanimento delia natura, per altri è il ritorno delle giornate del lavoro, delle opere campestri, pel pastore è 1’epoca di ricondurre le gregge su pe’monli, per la giovinetta la stagione della gioia e dell' amore e va dicendo che non finiremmo sì presto. E basti questo esempio per mille che potremmo addurre a conferma delle nostre parole. Ora la lingua italiana non si limita a denotare quel concetto astratto e nudo, ma per lo più lo colora in una data guisa, lo lumeggia a suo modo, ne mette in risalto un aspetto, ne accenna una profondità, ne tratteggia un attinenza con altri, gli dà uno sfondo particolare, una positura determinala. Tultociò senza dubbio la parola lo ottiene per mezzo diquella che chiamammo forma interna (1) e che è contenuta nell' etimologia dell’espresione; ed è per questo altrettanto vero che scomparendo l’etimologia od origine, come si è dello, dalla coscienza del mittente e del recipiente col procedere della coltura, la lingua italiana dei moderni non presenta a gran pezza quella vivacità di colorito, quella vita che sembra un eco ili quella elio si agita nel seno delle cose stesse, quella freschezza d'imagini, che sono proprietà delle lingue e dei popoli primitivi. Ma è pur vero che in sostiluzione di quella forma interna, perdutasi insieme colla etimologia del vocabolo, nei tempi storici ognuno che parla se ne vien formando un’altra, spesso indipendente dalla perentela gramaticnle di quello e dalla sua primitiva derivazione. Chi dicendo per esempio “cannone” pensa, come porterebbe la etimologia a noi pur vicinissima del vocabolo, ad una grossa “canna”? 0 non si è egli piuttosto formata un’altra forma interna, dovuto forse all'analogia tra il suono di questa parola e il rimbombo solenne, e cupo dello sparo? lo forza di questa il cannone non è più per noi la grossa canna, ma sibbene quello che tuona e rimbomba; ragione per cui questo vocabolo da qual che poeta moderno si è potuto introdurre nel verso, a malgrado della eccessiva schiiìltosilà della poesia italiana. Giù posto è facile argomentarne con quanta forza debba la parola influire sul nostro pensiero; posciachè a tenore delle speciali rappresentazioni e de’sentimenti che ogni I) Questo concetto messo in luce specialmente dallo Sleinlhal. Qui basii notare che la forma interna è l’anello intermedio che congiunge il significato (il segnato) della parola (l’espressione) colla forma eslerna di questa cioè col suono. Il vocabolo e ogni giro di frase e ogni costruito porla seco nella coscienza, anche le ideo, che formano per così dire lo scheletro d’ un dato pensiero, rivestonsi di polpe e di vene, e indossano ora un manto sfarzoso e sfolgorante, ora una lugubre gramaglie, ora sprizzano vivaci e saltellanti come la gragnola sui tetti, ora fluiscono tranquille e compatte come l’onda d’un ruscello. Ben si accorgono di questa verità coloro che si provano a voltare un poeta d'ima in altra lingua; chè mentre la lettura di un passo dell’originale li esalta e li rapisce, quel medesimo passo reso colla massima proprietà e purezza nell’altro idioma non appare che un pensiero dozzinale e senza effetto. E certi poeti non Sono mai propriamente gustati fuori della propria nazione italiana! Ecco eziandio perchè la poesia nei tempi di progredito incivilimento è costretta ad abbandonare una gran parte del comune materiale linguistico, come quello che si è logorato ed è divenuto senza effetto in grazia dell' uso cotidiano nelle bisogne triviali e prosaiche della vita, per attenersi a quella parte che è ancora fresca di giovinezza e che porla seco nell’animo del recipient quelle tinte fantastiche, quelle speciali rappresentazioni e quei sentimenti, che debbono contribuire all'effello della comuniccazione. Nè però è solamente l'uno o l’altro vocabolo che sia capace di questa efficacia; la medesima voce riceve dal contesto, cioè dall’insieme di quelle idee a cui è associata, un valore tutt’affatto particolare; e mentre in un caso non desta in noi che un concetto astratto, in un altro eccita un’ imagine triviale e bassa, in un terzo è capace di vestire la più splendida corona di superbe fantasie. Prendiamo ad esempio l’espressione “ala”. Chi dicesse; la lunghezza dell’ala deve avere la tale o tal’altra proporzione col peso del volatile, non mi desta che il concetto astratto di quella parte del corpo del Uccello che serve al volo; è un concetto scientifico. Se altri invece dica: “Ami meglio l'ala, la coscia o il petto?” risveglierà nel recipient delle irnagini gastronomiche eia rappresentazione per esem pio d’ un cappone arrostilo. Allorché invece Ogo Foscolo canta di chi vede il suo spirito ricovrarsi sotto le grandi ale Del perdono di Dio (metafora). Foscolo è forse l’estremità anteriore del volatile, o la gustosa polpa del cappone che si muovono nella nostra fantasia? o non piuttosto qualche cosa di indefinito e misterioso che si stende sul creato come un gran manto e tutto lo copre e lo avvolge? L'oggetto non è per noi se non ciò, per cui lo percepiamo, e siccome la parola, come si è veduto, è l'organo della percezione, così ogni cosa è per noi quello che la parola ce ne annunzia. Or chi non vede come tutte le produzioni dello spirito saranno intimamente legate alla natura della lingua italiana e non solo della lingua in generale. ma sì particolarmente della lingua italiana in cui si pensa. Se poi lo scopo della composizione non sarà unicamente di trasmettere un certo numero d'idee insieme colle loro attinenze, ma più di tutto di commovere gli animi, di suscitare gli affetti, mettere in gioco la fantasia — ciò a cui mirano appunto i prodotti della letteratura, nessun dubbio che la lingua italiana sarà l’elemento predominante. E come essa guida per mano il poeta e gli conduce innanzi questa o quell’altra imagine, questa o quell'altra serie di pensieri e di fantasie, così alla sua volta il poeta per guidare e signoreggiare gli uditori dovrà essere padrone di tutti i segreti, di tutti gli espedienti della lingua italiana. La storia 'della letteratura lo conferma. Sommario di tutto il corso: il segno patognomico. Dfferenti opinioni intorno al concetto della filosofia. Se la Filosofìa sia una scienza, ovvero una speciale tendenza del pensiero, un bisogno dello spirilo umano sempre linascente e non inai appagabile. La Filosofia è una scienza in formazione. Oggetto della filosofia. La filosofia è la scienza della verità assoluta, degli ultimi fondamenti del tutto. Quindi essa investiga i principii su cui si fondano la altre scienze ed è la scienza suprema (la regina delle scienze). Dottrina della cognizione. I problemi fondamentali di questa. Lo scetticismo. Il criticism. L’idealismo. La dottrina della cognizione vuol essere preceduta dalla psicologia. La Psicologia è una parte della filosofia propriamente detta? Pensar volgare, pensar scientifico, pensar filosofico. Esperienza e cognizione assoluta e loro rapport. La Psicologia abbraccia questi due ordini di cognizioni. Partizione di essa, materia, metodo, fonti, difficoltà, scopo e importanza. Se quesla parie della psicologia sia indipendente dalla questione intorno all’ esistenza dell’ anima. Si ammette qui l’esistenza dell' anima come un’ipolesi, senza però che una tale supposizione influisca sullo sludio dei fenomeni spirituali. Primi passi della  (I) /. pubblicata a parte. r,o r.rj.a, *?1 Complessili dei fenomeni psichici _ Zu T lrasf0rmazione d«' corpo, coscienza — classilìcazione provvisoria dei fenomeni psicWci “na "Ua SUCC0ssione ~ Sirss- descriz!°ne re-presentazione, percezione, fattori dell’intuizione  ali sensazione» intuizione, re-ppresentazione co!,.plesso ed elementideHe med» me"-~a~e. 77 1 intuizione lolale e per cui gli elementi ranni-esenti,ivi si S P.. Sl spezza in piu in cui questi clementi si compongono è un nun-1 ele,nen?n ° ~ la fo,ml.’ ficazione della sensazione. Sentimento fondamentale di Rosmini**'-"duncoHà°d' s ClaSSI' ‘ 'golosamente l’elemento re-presentativo dal sentimento „ fi. dira?011,1 d' separare distingue la materia dalia forma da che sia data " una 7v aZ m ^ grandezza, "forma' c solidità d;i°cro%i0in%S „"rson7Mi pel Ziio~ *?".,,ÌT0 aMa vtne„ùr?c,'ia s s^no1: “-JM materia - suoni o romori - scala musicalo - seHIkinn^ r’ ‘ncdl° f, p,ocesso ~ ^5?*“ SSS - materia - manca ogni dislinzione di parti - se si «a una mCd'° ° P''?Cesso ^assu riarr.. ~.%sa sar* delle sensazioni. ’g CSl6"C' “ r,gorosa '"dividualità c incoi,,unicabililà mSmSVSfiS, iÌ^SSSS£ --—1 itipioduzione — meccanismo doli’anima — si» i« „... o scsi debba ammettere un principio suneriore (r/i U f p,,n.c,p,° atl,vo in essa della dottrina di Ile, hai ! (la re-presentazione consi. ef /lé”'"' 0 J r~ prinClp" fondamentali ra,nonio reciproco residn eauiE 1 T,, '?omc fori!c ~ contrasto, oscue soglia meccanica - con,piloni c fusioni l°1'0i„ ed8S,!ne ~ coscienza, soglia statica incrocicchia,ncnto delle serie ed elTetli del medesimo -nSdTmnn, T •*“ “ percezione - appercezione interna) Il sentir.» o t> r • f,1? f1alazl0;M - eli¬ porti di re-presentazione appetire ■■ciotti da llerbart a rap¬ ai. stabile a^ufslo ta *« — - «ebba ritenere codella re-presentazione c al gradualo oscuramento deMc^s etsc"6'''^-!0 '"‘-T al!anforza produzione, memoria e imaginazione. 1 0 “ ggl clnP*ricl,e della ricirca^la'realtà"^^*tiiva*dello*spazio c *«7 Zr't'T Si**".-* «- - « -TS5S *r-s.%SS Intelligenza caratteri che la distinguono dalla sprmihititò, • cartesiana, maiebranchiana (e giobe,-liana, egeliana e rosa,intana) P'egaZ,°"e plat0nica’ Il giudizio come allo foridamcnlale del pensiero — sli.iii •,, luizione, riconoscimento, classiflcazione giudizio logico ! - „iT ' da,- T T"0 (informazione del concetto generic. Il giudizio implicito ed il giudizio esplicito. falli senza consapevolezza di una o d’ambedue le  raziocinii tasr*. - - «*— « » ~Wssutnsr--^.^.«• •,» mm* pili le idee innule se una tale ipolesi sia aminrsihile i> •' pi'e"d?ssero Pel' lo risolvere queslo problema - lendcnze innata de, pensiero os^g^I“nT'in! r.i consapevolmente nelle sue operazioni e che poi la riflessione discopre sceverandole dalla materia accidentale e riconoscendone la necessilà ed il valore assoluto. Il pensiero e la lingua italiaa. Importanza dei problemi che si riferiscono alla lingua italiana. S’elimina il problema circa l’origine storica della lingua italiana. La disposizione fisiologica e psichica che concorrano alla produzione di un sistema di comunicazione – un sistema – il segno patognomico – della lingua italiana. Ripercussione dalla sensazione al movimento. L’associazione del movimento fra loro e colla sensazione. Come l’anima si scarichi della sua “affezione” (pathos) per via del movimento. Il segno articolato. onomatonee. Come un segno (segnante, signans) acquisti un significalo (segnato, signatum), ossia diventi parola [parabola] espressione o segno patognomico. Il periodo o la fase patognomico – il segno patognomico. Il periodo patognomico. La fase patognomica. Periodo patognomico, onomatoeico e caratteristico--  nella formazione o costituzione della comunicazione -- di un sistema di comunicazione -- linguaggio — Signo patognomonico. Periodo patognomonico. Il processo linguistico nei tempi storici che cosa s’ intenda per forma interna della lingua. Come la lingua italiana coopera alla formazione della nozione generale. L’dea eterna e i concetti umani — lorza dei non» ordinamento sistematico delle nostre idee per mezzo della parola — influenza della lingua sui prodotli letterarii — la lingua non è solamente I’ espressione del pensiero — spiritualizzazione progressiva del linguaggio - la lingua è uno dei prin¬ cipali elementi che costituiscono le nazioni — danni che a dello di alcuni la lingua arreca al pensiero dilesa della lingua — organismo indipendcnle di questa. La mitologia considerata nella sua origine psicologica. L’nfanzia dell’ umanità. Come si possa scoprire il processo psicologico che dà origine alla mitologia (tre cose ser¬ vono a questo fine: I. la cognizione generalo delle leggi psichiche. Lo studio della mitologla comparata, o la mitologia dei bambini e le superstizioni popolari. Che cosa sia la Mitologia - fasi per cui passa - rapporti tra la biologia e la morale - due opposte opinioni (tei pensatori intorno all’ origine della mitologia. Della coscienza di sà - distinzione di questa dalla coscienza dei propri stali. Se si possa ammettere un senso interno stadii che il pensiero percorre per arrivare alla concezione del proprio io - pretesa contraddizione nel concetto dell’ io tre gradi o potenze della coscienza. Lo fenomenale e lo trascendente - lo, soggetlo puro* pura attivila c lo realtà — l' lo e il centro mobile delle cose. Egoismo primitivo e’come 1 uomo ne esca — raddoppiamento dell’ Io nel sogno... Scnl"-"<» >nipossibilità di dedurlo da altre attività, quindi è un’ attività primil'va. 7- J°, S‘ rPICg? cssenza ’ ma bensi *’ or'Sine del sentimento - le due forme ladicali de sentimento - cause della varietà dei sentimenti - intreccio di questi - che cosa impedisca la loro fusione in un sentimento unico indistinto — efTctti della progredì a col ura sulla varietà dei sentimenti sentimenti inavvertiti. Influenza del sentimento sulla fantasia e sulla ragiono. Classificazione dei sentimenti sentimenti estetici - il bel o d.liburne U ridicolo e 1 loro opposti - due diverse teorie estetiche senlimenli mo all -- clementi innati della inoratila - idea formale del dovere - contraddizioni intrin¬ seche ne I egoism. Lo sviluppo dei sentimenti morali. La civiltà. Il sentirnent1 religiosi — origine di questi - depurazione progressiva del sentimento religioso — come il terrore passi in venerazione. Il sentimento simpatico — spiegazione meccanica di questi. Con quale uomo un uomo po simpatizzzare — crudeltà dei bambini e degli desimi'. T°m importanza del sentimento simpatico per la morale, educazione dei me Riproduzione dei sentimenti, associazione di questi fra loro e colle re-presentazione dC ° 'ggl che,e?olano la re-produzione e tras-missione del sentimento per la concezione fantastica dell’universo per le arti, per la comunicazione coll’altr’uomo. Ecc. Affetti in che differiscano dai sentimenti, classificazione dei medesimi, appetizione, distinzione fra l’appetito e il sentimento, analisi dell’appetizione appetizione cieco c desiderio accompagnato dalla re-presentazione dell’ oggetto Vamato iTtinb g eia n Pr',na °. de' S,‘C°n < l0 classificazione degli appetiti «ratiere degH sbassi? bi“8ni "“b‘“, volontà - in che differisca dall’ appetite, fattori della volontà, due alti di (me¬ sta - fine e mezzo, molivi della volontà - so il motivo sia da confondere colla caule efficiente spontaneità e liberta la volontà è sempre spontanea. non sempre liberà _ Jra.Ps*cologica e libertà morale, schiavitù del volere procedente dallo passioni se VI siano passioni buone, nobili, ecc. effetti delle passioni sull’anima ine so'uzione - fine supremo - carattere morale e immorale) - in che consta „ Zi Svolgimento progressivo della vita psichica — vifa del sentimenlo vita delti »ni::r.'.ivsr.s4  PSICOLOGIA RAZIONALA 0 METAFISICA 0) Problema circa l'esistenza dell' anima, so non sia un vero di evidenza immediate, perchè si debba dimostrare - contraddizione inerente al materialismo in quanto vuol essere teoria, il fatto di coscienza diversità dei fenomeni fisici c psichici, pretesa spiegazione materialistica della coscienza - come la natura del fenomeno psichico non permetta di attribuirlo ad un principio materiale unità della coscienza incompatibile con un ente compost, altri argomenti in favore dell'"esistenza" dell’ anima, obiezione idealistica conilo l’esistenza dell’anima monismo spirituale. Dell’unione dell’anima col corpo so si possa spiegare il commercio fra due sostanze se la spiegazione del nesso fra anima e corpo sia più facile supponendo l'anima materiale - come si spieghino le sensazioni e i movimenti (sp. volontarii del corpo ammollendo 1'anima di naura soprasscnsiliva. Fin dove sia conoscibile l’essenza dell'anima. Sede dell’anima nel corpo che senso possa avere questo quesito organo centrale dell’ anima presenza dell- anima in (ulto il corpo. (Il Di i/ iieslu seconda parte non si fecero per mancanza rii tempo se non tre sole lezioni, delle finali si dà qui il sommario. Altre opere: “Pensiero e conoscenza” (Bologna, G. Monti); “La coscienza e il meccanismo interiore. Studi psicologici, Padova, Minerva); “Discussioni gnoseologiche e note critiche, Venezia, Antonelli); “Elementi di psicologia e logica, ad uso dei licei, Padova, Tip. F. Sacchetto); “Percezione e pensiero” (Venezia, Tip. Ferrari); “Percezione e pensiero”; “La percezione interna”; “Il pensiero”; “Intorno alla conoscibilità dell'io” (Venezia, Officine grafiche di C. Ferrari); “Studi d'epistemologia, Venezia, C. Ferrari); “Sentire e conoscere, Prato, Tip. Collini). G. Calogero, Enciclopedia Italiana, riferimenti in F. De Sarlo, F. Bonatelli, Firenze, Ufficio della «Rassegna Nazionale» Erminio Troilo, Il pensiero filosofico di Bonatelli, estratto dagli «Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti» Venezia, Ferrari. D. oggi, La coscienza e il meccanesimo interiore. F. Bonatelli, R. Ardigò e G. Zamboni, Padova, Poligrafo, Guido Calogero, «BONATELLI, Francesco», in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, BONATELLI, Francesco», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Francesco Bonatelli. Keywords: segno patognomico, period patognomico-periodo onomatopoieco-periodo caratteristico – patognosis, patognomia, tratto da Volkmann, “Lehrbuch der Psychologie” astrattio, imagine sensibile, vehicolo di communicazione, segno, segnante, segnato, ‘fiorinello’; concetto, giudizio; percezione; comunicazione pathognomica; pathognomia reciproca. logica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonatelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bonavino – schola labri --  la scuola italiana – uso di ‘scuola’ per significare ‘maniere’ – scuola italiana -- la filosofia delle scuole italiane – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pegli). Filosofo italiano. Grice: “In fact, Bonavino is the same – vide my ‘Personal identity’ – he changed his name when he ‘lascio l’abito,’ and teaches philosophy – his essays are slightly rationalistic – he endorsed Thomistic orthodoxy at a later point.’” --  Grice: “I love Bonavino, but not every Oxonian would – for one, he used a pseudonym, since he was a priest – we cannot imagine Copleston doing that – or Kenny! As a philosopher he was a ‘rationalist,’ and indeed, the editor of a journal called ‘Reason’ (like my Carus lectures), as a priet, he was ‘irrationalist.’ – My favourite of his tracts is his ‘storia della filosofia,’ – which concentrated on Rome (Ancient Rome, that is) and Croce --!”  Nacque in una casa che sorgeva sulla via Aurelia, successivamente demolita per la costruzione del lungomare. Entra in seminario. A Bobbio, entra nella congregazione degli oblati di Alfonso Maria de' Liguori, fondata, in quella stessa città da Gianelli. Venne accolto nella diocesi di Bobbio da Gianelli il quale lo riteneva persona dotata di ottime qualità. Venne ordinato sacerdote in tre feste consecutive, dallo stesso Gianelli il quale lo accolse tra i suoi oblati, da poco fondati in Bobbio alla Madonna dell'Aiuto. Il vescovo lo costitue vicesuperiore. In tale posizione Bonavino indusse Gianellio ad irrigidire molto la regola che aveva loro data. Usav con i colleghi un rigore che essi reputarono intollerabile, tanto che molti ne rimasero disgustati e parecchi se ne andarono. Qualche suo compagno nota in lui uno spirito di superbia inoltre in una disputa filosofica, mostra una dottrina diametralmente opposta a quella di Alfonso Maria de' Liguori, tanto che Gianelli dovette intervenire per richiamarlo, dicendogli: "se continuate in questa guisa, voi non potrete recare che gravi dispiaceri alla Chiesa e voglia Iddio che non diventiate apostata". Dapprima rispose positivamente al richiamo, ma poi nuovamente ritornò sulle sue posizioni. Attinto dallo spirito giansenista, tenacemente combattuto da Gianelli e non ancora assopito, sia leggendo opere spregiudicate sia discorrendo con qualche filosofo ancora seguace di quella dottrina. Gianelli o chiamò nuovamente a sé e gli chiese paternamente se e vero quanto gli viene riferito. Audacemente risponde di sì e dice che persiste nel suo sentimento e che non vi era alcuna speranza che si potesse ricredere. Le sue parole sono: "No, neppure se mi trovassi innanzi alla bocca di un cannone e mi si minacciasse di darmi fuoco!" Allora Gianelli dovette cacciarlo da Bobbio, dubitando della buona riuscita del nuovo istituto. Sube, anche, l'influenza del positivismo e del criticismo. Venne espulso dalla congregazione per le sue dottrine che si allontanavano dal probabilismo alfonsiano.  A Genova apre una scuola. Partecipa nelle lotte contro i gesuiti, collaborando alla redazione de “Il gesuita moderno” e e con due saggi, “I gesuiti” e “Autentiche prove contro i gesuiti”. Vive in prima persona la rivoluzione  condividendo gli ideali risorgimentali, e stando in contatto, al punto di arrivare alle polemiche, colli filosofi più rappresentativi di esso. E sospeso a divinis per la difesa degl’errori del suo Corso di religione all Bernardo, e lascia il ministero sacerdotale. Us ail nome di Ausonio Franchi, cioè "italiano libero".  Su consiglio di Gioberti, verso il quale si orienta politicamente, si dedica agli studi filosofici. In questo periodo scrisse “Lla filosofia delle scuole italiane”, ove giustifica la propria filosofia; “La religione del secolo XIX”, “Studi religiosi e filosofici”, “Del sentimento; “Il razionalismo del popolo”. Trasferitosi a Torino, divenne mazziniano. Fonda “Ragione, un bimestrale di critica politica e sociale. Si trasferì a Milano dove diresse La gente latina. Ottenne la cattedra di storia della filosofia a Pavia. Venne trasferito all'Accademia di Scienze e Lettere di Milano. Membro della loggia massonica "Insubria" di “rito simbolico italiano”, che con altre, di numero minore rispetto alle prevalenti di rito scozzese antico e accettato, si strinsero intorno alla Loggia madre torinese "Ausonia" e si organizzarono all'obbedienza del Gran Consiglio Simbolico, sorto da un'assemblea tenuta a Milano. Membro onorario della Loggia "Azione e Fede", di Pisa.  Il Gran Consiglio Simbolico ha sede prima a Torino e poi a Milano e con la sua presidenza si une al Grande Oriente Italiano con un atto firmato per il Gran Consiglio tra gli altri dallo stesso, che fu strenuo e auterevole propugnatore della fusione nel nuovo Grande Oriente.  In questo periodo scrisse i saggi, “Soria della filosofia moderna,” “La teoria del giudizio”, “Saggi di critica e polemica”. Inizia poi un periodo in cui rimise in discussione la propria attività filosofica. Ciò lo portò a scrivere “L'ultima critica”. Dice di voler essere la confutazione del paralogismo che mi conduce al razionalismo” ed esposizione degli argomenti che mi hanno ricondotto prima alla filosofia d’Aquino e poi alla fede Cristiana. Vive isse l'esperienza della conversione filosofica e religiosa. Iniziò facendo visita al Santuario di Virgo Potens in Sestri Ponente, dove è collocata una lapide in ricordo dell'evento. TRA QUESTE SACRE MURA LA VERGINE POTENTE CON UN PRODIGIO DI MATERNA PIETÀ IL FIERO NEMICO D'OGNI CRISTIANA RIVELAZIONE AUSONIO FRANCHI TRAMUTA IN CRISTOFORO BONAVINO RIDONANDO ALLA VERA SCIENZA UNO TRA I PIÙ PROFONDI FILOSOFI DELLA NOSTRA ETÀ DAL VORTICE DELLA RIVOLUZIONE MISERAMENTE TRAVOLTO PERCHÉ IL RICORDO DI SÌ BEL TRIONFO DELLA POTENZA DI MARIA SI PERPETUASSE A CONFORTO E A SPERANZA DELLE FUTURE GENERAZIONI IL COMITATO LIGURE DEI CONGRESSI CATTOLICI.”  L'ultima critica venne da lui annunciata  a Magnasco. Manifesta, inoltre, l'intenzione di ritirarsi nel santuario di Rho per confessarsi e riconciliarsi con la Chiesa. Il saggio fu terminato nel convento carmelitano di Sant'Anna, a Genova. Ha un buon rapporto con i frati, anche se conduce vita molto ritirata. Dopo il ritorno alla fede confida che anche negli anni in cui sembrava più lontano dalla Chiesa cattolica e più imbevuto di positivismo, non aveva mai abbandonato la pratica quotidiana di recitare tre Ave Maria e non era mai venuto meno al celibato sacerdotale. Sulla casa natale di Pegli e apposta questa lapide, trasferita alla piazzetta della Giuggiola al Vico Condino). “Filosofo tra i primi dell'età nostra [a] professa[re] il razionalismo più aperto.”Dizionario biografico degli italiani. Giuseppe Bonavino. La storia delle scienze è un portato del pensiero moderno. Nel suo stesso conceito essa involge un periodo di tempo e un grado di riflessione, che doveano per condizion di natura mancare agli antichi romani. Perocchè, prima di poter comporre una storia scientifica, bisogna aver costituita ed attuata la scienza che d e v'esserne la materia. Onde l'epoca, in cui lo spirito umano in tende alla costruzione del suo sapere, ha necessariamente da precedere a quella, in cui esso, raccogliendo i monumenti e idocumenti, le tradizioni e le memorie, ne rintraccia l'origine, ne studia i progressi, ne descrive le trasformazioni. Quello era il compito assegnato agli antichi romani; questo era riserbato ai moderni. Ed a Francesco Bacone si deve, se non la prima idea, certo l'idea più chiara e distinta, più larga e profonda d'una storia delle scienze, lettere, ed arti, e dello scopo ch'era in essa da prefigersi, delle leggi da seguire, dei servigj da rendere, dei frutti da produrre. Quel Bacone, a cui communemente si attri buisce la gloria di tante risorme ch'egli non ha mai fatte ne sognate, e di tante scoperte ch'erano già belle e fatte assai prima di lui, ha non dimeno un gran merito, che pur li stessi suoi ammiratori non mostrano d'apprezzare abbastanza; ed è quello di aver proposto il disegno e stabilito il programma di varie scienze nuove, che non tardarono in effetto ad arricchire il patrimonio intellettuale dell'umanita. Ora fra le nuove discipline, ch'egli additava ai posteri in forma di desiderj (desiderata), primeggia la storia letteraria, senza della quale, diceva egli argutamente, la storia del mondo rassimiglia troppo bene alla statua di Polifemo privo dell'occhio; giacchè la parte mancante è quella appunto, che potrebbe ritrarre meglio il carattere ed il genio del personaggio. Vero è, che in certe scienze particolari, nella giurisprudenza, nella matematica, nella retorica, nella *filosofia*, sole già darsi un qual che ragguaglio assai magro delle sette e delle scuole, degli filosofi e dei saggi, delle vicende e degl'incrementi loro; ma una storia propriamente detta della letteratura, come la concive Bacone, dove essere ben altra cosa. Essa deve, per usare le sue parole, rovistare li archivi di tutti I tempi,e indagare quali scienze e quali arti fiorissero nel mondo, in quali tempi e luoghi fossero più o meno cultivate; notare con la più minuta esattezza possibile la loro antichità, i progressi, le migrazioni nelle varie parti della terra; poi la loro declinazione, e il loro risurgimento; specificare, per rispetto a ciascuna scienza od arte, l'occasione che la fece inventare; le regole e le tradizioni, secondo le quali venne via via trasmessa; i metodi e i processi, con cui si esercita; registrare poscia le varie scuole, in cui si divisero i suoi cultori; le più famose controversie, che occuparono l'ingegno dei filosofi; le calunnie, a cui la scienza e esposta; li elogj e i premj, onde viene onorata; indi. care i principali filosofi e i migliori saggi in ciascun genere; le academie, i collegj, li instituti, tutto quanto insomma concerne lo stato della letteratura; e massime chè in ciò consiste propriamente la vita e la bellezza della storia accoppiare li eventi con le loro cagioni, notando la natura dei paesi e del popolo romano, che mostrarono più o meno di idoneità alle scienze; le circostanze storiche che tornarono loro propizie o contrarie; lo zelo, il fanatismo religioso, che vi si immischio; li ostacoli, onde le leggi attraversarono loro il cammino, e le agevolezze che loro procurarono. Infine li sforzi generosi, l'energia magnanima, di cui fecero prova i più illustri e potenti ingegni per migliorarne la condizione e promuoverne l'avanzamento. Nè il frutto di si mili lavori ha da essere una vana pompa di minuzie erudite, bensì un ajuto alla sagacia e alla prudenza degli studiosi nella cultura del sapere; poichè in una storia cosi fatta puo evocarsi quasi per incanto il genio letterario d'ogni èra passata; osservarsi i movimenti e le perturbazioni, le virtù e i vizj del mondo intellettuale, non altrimenti che del mondo politico; e ricavarne ammaestramenti e conforti per un miglior indirizzo futuro. Tal era, giusta il concetto grandioso di Bacone, l'indole, l'oggetto, e l'officio d'una storia letteraria in generale. Or applicandolo alla storia della *filosofia*, che è una porzione rilevantissima di quel gran tutto, convien determinare in nanzi tratto, entro quali confini essa vada circoscritta; chè al trimenti si correrebbe rischio o di escluderne certe materie che le appartengono, o di includervene altre che non le spettano punto, come la teologia. E siccome i confini della storia d'una scienza sono prestabiliti nel concetto specifico della scienza stessa; cosi non c'è altra via da circoscrivere ilcampo de'nostri studj,se non quella di risalire all'idea medesima della filosofia, per definirne il con tenuto in guisa da comprendere nella sua storia tutte e sole le materie, che ne fan parle. Ma questa determinazione è più difficile assai di quel che a prima giunta si crederebbe. V'ha nel concetto della filosofia, come indica lo stesso nome (amore alla sapienza), un'ampiezza originaria cosi indefinita e quindi variabile, che se pur ammette certi limiti, lascia sempre al filosofo una gran latitudine di fissarli a tenore del proprio sistema. Così dopo venticinque secoli di speculazione filosofica, si desidera ancora una definizione della filosofia che possa dirsi generalmente accettata da'suoi cultori. Tacio degli antichi romani, i quali per lo più stando all'interpretazione etimologica del nome, pigliavano la filosofia in senso latissimo, e comprendevano sotto di essa ogni specie di scienze. Ma anco tra i moderni, sebbene tanta confusione non potesse più aver luogo, dac chè varj rami del sapere si sono affatto staccati dall'albero filosofico, ed hanno costituito altre tante scienze particolari; pure il concetto definitivo della filosofia non è ancora di commune accordo stabilito, e ogni scuola lo stabilisce un po'a modo suo. Chi considera la filosofia sotto l'aspetto meramente *ontologico*, la riguarda come la scienza dell'ente, la scienza del reale, la scienza dell'assoluto; e perciò nella sua storia non deve abbracciare fuorchè le prette dottrine speculative, trascendenti, o metafisiche. Chi all'incontro contempla la filosofia dal lato puramente *logico* o psicologico, la qualifica per scienza del pensiero, scienza della ragione, o scienza dello spirito umano; e quindi nella sua storia non avrebbe da esporre se  non le dottrine formali della cognizione. Chi poi studia la filosofia sotto il rispetto *morale* e sociale, la tiene in conto di scienza del bene, la scienza della vita, o la scienza dell'umanità; onde nella sua storia non potrebbe raccogliere fuorchè la dottrina pratiche del dovere e diritto umano. Egli è manifesto, che simili concetti e definizioni della filosofia peccano per difetto, in quanto che non comprendono l'intero suo campo, ma solo alcune parti; talche, ove si pigliassero a guida d'una storia della filosofia, essa riu scirebbe per necessità parziale, esclusiva, inetta ad adeguare il suo oggetto e conseguire il suo scopo. Nell'estremo opposto cadono le scuole, che formandosi un concetto della filosofia più vasto, ma più vago insieme ed indeterminato, peccano d'eccesso; poichè la confundono con la scienza in genere, e la sforzano ad entrare nella messa di ogni dottrina, che per qualche rispetto sieno da qualificarsi d'indole razionale: la sua storia, in tal caso, deve invadere quasi tutta l'enciclopedia. A scansare questo doppio errore fa dunque mestieri di allargare il concetto dei primi, e di restringere quello dei secondi, per poter comprendere nella storia della filosofia tutto il necessario, che li uni a torto ne escludono, ed escluderne tutto il superfluo, che li altri v'introducono senza ragione. Ora: se da un lato è assai malagevole di circoscrivere l'objetto della filosofia mediante una definizione logicamente rigorosa. Dall'altro però la difficultà vien meno, ove basti determinarlo per via di semplice classificazione o enumerazione di parti. Perocchè confrontando insieme i termini varj e disparati, onde le varie scuole concepiscono la filosofia, apparisce tosto come la ragione del loro contrasto sia una condizione della sua natura medesima, la quale non è, come quella delle altre scienze particolari, tutta subjettiva o tutta objettiva, cioè esclusivamente razionale o empirica, ideale o positiva; ma è mista, e partecipa dell'uno e del l'altro carattere, e tocca ai due poli opposti della cognizione. Ed invero, la cognizione consiste in quel rapporto, che scaturisce dal combaciarsi, dal compenetrarsi dei due termini intellettivi: subjetto conoscente ed objetto conoscibile; e la filosofia ha per officio principale di investigarne l'indole, le proprietà, le forme, le leggi più intime e più generali. E siccome le determinazioni di un rapporto non possono ricavarsi se non dal mutuo riscontro de’ suoi termini costitutivi; cosi la filosofia dee necessariamente addentrarsi nello studio del subjetto e del l'objetto della cognizione, per poter giungere ad una teorica universale della scienza, Ora, in quanto essa scruta la natura del subjetto conoscente, anima, spirito, intelletto, mente, o Io che dir si voglia, prende forma di scienza subjetliva; si traduce in *logica*, psicologia, e antropologia; e riesce ad una dottrina generale del pensiero. Sotto questo solo aspetto la considerano le scuole, che mostrano di ridurla ad una semplice ideologia. All'incontro, in quanto essa studia la natura dell'objetto conoscibile, acquista il valore di scienza objettiva. Ma l'objetto stesso può trattarlo in due modi. O nella sua massima universalità, come ente in genere; e allora essa diviene una schietta ontologia, protologia, o metafisica generale: ovvero sotto certe speciali determinazioni, a cuirispondono le varie parti della *metafisica speciale*; come di ente *assoluto* o Dio, oggetto della teodicea; di Cosmo o universo, oggetto della *cosmologia*; di uomo o Umanità, oggetto della morale. All'una o all'altra soltanlo di coteste parti la restringono le scuole, che intendono di ridurre il suo campo all’uno o all'altro di simili objetti. Il che spiega bensi, ma non giustifica punto il loro procedere esclusivo: lo spiega, poichè assegna la ragione che li muove ad appigliarsi rispettivamente al proprio metodo; ma non lo giustifica, poichè il considerare un oggetto da un lato solo, per vero e giusto che sia, non vale mai a conoscerlo intero; e il non conoscerlo intero implica necessariamente due condizioni, che repugnano troppo all'indole del sapere scientifico. La prima, che alcune parti dell'oggetto rimangono fuori della trattazione, e quindi ignote. La seconda, che la cognizione delle parti stesse trattate e chiarite rimane inadequata, incompiuta, e quindi più o meno erronea e fallace; onde i giudizi coşi discordi, e non di rado contrarj circa il valore di un sistema o il carattere di un'epoca: veri tutti in parte, per quel rispetto  Se noi pertanto vogliamo esporre nella sua integrità propria e specifica la storia della filosofia, dovremo abbracciare, nel quadro delle varie epoche e de’varj sistemi, due ordini di dottrine filosofiche: quelle che si riferiscono alla determinazione del subjetto stesso,— logica, psicologia, antropologia; e quelleche concernono le determinazioni dell'objetto, in quanto appartiene al regno della speculativa: cioè, o nella sua universalità assoluta,— ontologia, protologia; o sotto certe forme razionalie metafisiche di Infinito, di Universo, di Umanità, teodicea, cosmologia, e morale. Ecco le materie, che direttamente fanno parte della filosofia, e per conseguente della sua storia. Ma nessuna scienza può dirsi compiutamente esposla, finchè si considera in sè stessa unicamente, e come segregata da tutte le altre. L'unità del pensiero da un lato, e dell'universo dall'altro, stabilisce un cotal nesso intrinseco sra i varj ordini di cognizione, che sono quasi i rami del grand'albero del sapere: nesso, che fra alcuni ordini più affini, più omogenei introduce relazioni cosi strette e necessarie, che l'uno non si potrebbe adequatamente conoscere senza contemplarlo eziandio nelle sue attinenze con l'altro. Laonde per ciascuna scienza, come per la sua storia, oltre le materie di sua diretta spettanza, ve n'ha certe altre che indi rettamente le appartengono, siccome quelle che per una loro particolare ed essenziale relazione con essa, valgono a meglio rilevare il suo valore e la sua efficacia, a spiegare le sue evoluzioni e le sue trasformazioni, ad apprezzare il suo influsso, cosi nello svolgimento teoretico del sapere, come nell'incremento pratico della civiltà. Questa condizione ha luogo sopratutto nella filosofia, la quale appunto per il suo carattere di *scienza prima* ed universale, tocca ai principj supremi della cognizione, e con essi porge li ultimi fondamenti a tutte le scienze. Non sarebbe difficile quindi a trovarle qualche attinenza, prossima o remota, con le singole parti dell'intera enciclopedia; ma volendo pur contenere il tema sotto cui riguardano questa o quello  ma tutti in parte falsi, per li altri rispelti da cui prescindono,e di cui non fanno caso. Primeggia fra esse la *religione* cattolica, che ha con la filosofia medievale una tal affinità, da scusar quasi l'errore assai commune di chi le confunde ambedue insieme. Ed infatti, l'oggetto proprio di ambedue è in sustanza lo stesso; poichè si travagliano del pari nello studio dell'ente infinito ed assoluto, e delle sue relazioni metafisiche e morali con l'universo e con l'uomo. Diversificano bensi profondamente nel metodo, onde ciascuna piglia rispetti vamente a trattarlo: giacchè l'una procede per via di intuito, di sentimento, d'affetto; l'altra invece per via di riflessione, d'analisi, e di raziocinio. Quella traduce l’ideale in un *simbolo*, e questa in una formula. La prima ne fa un dogma di fede, e la seconda un sistema di scienza. Tuttavia coteste differenze non tolgono punto, anzi confermano li influssi scambievoli, che l'una deve esercitare nel corso della storia su l'altra. La religione cattolica sta alla filosofia,come il sentimento alla ragione; e nella guise medesima che questa prende da quello la materia prima de'suoi concetti, la filosofia trae dalla religione cattolica il primo abbozzo de' suoi teoremi. Vediamo infatti dovunque il simbolo cattolico andare innanzi ai sistema filosofico; e la fede cattolica governare l'uomo prima che la scienza; e i miti e le leggende pascere la sua fantasia lungo tempo prima che il suo intelletto li sapia discernere dal reale e dal vero. E quando la ragione, fatta adulta e robusta, comincia ad aver coscienza di sè ed a provare il bisogno d'una cognizione più chiara, più pura, e più soda, non può pigliare d'altronde le mosse che dallo stato mentale, a cui l'uomo è educato dalla sua fede cattolica instintiva o tradizionale; si che i primi passi della filosofia non sono altro che tentativo di tradurre una credenza religiose in un concetto razionale. E siccome in quest'opera di semplice riduzione esso incontra bentosto difficultà insuperabili, incontra cioè elementi al tutto fantastici e ribelli ad ogni forma scientifica; cosi la filosofia perde in breve quel carattere primitivo d'interpretazione del simbolo cattolico o dogma ne'suoi più rigorosi confini, come mai si potrebbe disconoscere il mutuo vincolo, che lega intimamente la filosofia con alcune dottrine ed instituzione della Chiesa cattolica romana, nelle quali la ragione speculativa rinviene o i suoi più importanti materiali,o le sue più solenni applicazioni  religiosi, ed assume per necessità, verso di essi, quello di critica, di scetticismo, di negazione. Indi le prime lutte fra la leggenda e la storia, la mitologia e la scienza, la fede e la ragione; e indi, per legge naturale e quasi organica deli’intelletto umano, le prime vitlorie della verità schietta e positiva su i pregiudizj idoleggiati dall'imaginazione o dal cuore. Disfatta però la prima forma d'un simbolo non è già distrutta l'idea ch'esso adombra e preconizza; nè tanto meno è eliminata la questione, ch'esso mirava a troncare, se non a risolvere. La fede della chiesa cattolica è una funzione psicologica cosi con-naturata all'umanità come la ragione: quella può e dee formare, riformare, e trasformare il suo simbolo, come questa I suoi sistemi; ma nell'organismo mentale l'una è cosi irreduttibile e indistruttibile come l'altra. Sotto il Martello della critica adunque cadono e scompajono la credenza della Bibbia semita, mitologica e leggendaria, che non rispondono più al grado superiore di cultura, cui un popolo ha raggiunto; ma danno luogo ad altre credenze meno grossolane e fantastiche, e più consentanee alle nuove idee, alle nuove dottrine, che la ragione fa prevalere. E allora, su quei simboli rinovati la filosofia ripiglia da capo il suo lavoro: in prima teoretico, finchè il pensiero speculativo armonizza con essi, e cerca solo di interpretarli in guisa da cavarne, un significato o costrutto razionale; e poscia critico, quando, grazie al progresso del pensiero e all'incremento del sapere, quell'interpretazione riesce vana, quell'armonia impossibile. Indi un'altra èra di conflitto, e un'altra serie di teoriche e di critiche filosofiche, di riforme e di ricostruzioni religiose, rispondenti ad un periodo superiore dell'educazione umana. E cotesta vicenda non è cessata, ne cesserà, infino a che l'objetto ultimo della fede e de’ suoi simboli, della ragione e de'suoi sistemi, che è l'assoluto, non sia adequatamente conosciuto e compreso; e il subjetto commune di questi e di quelli, che è l'io, non sia pervenuto a concertare e identificare tutte le sue facultà o funzioni psicologiche in una si perfetta unità, da cancellare ogni specie di antagonismo fra il cuore e la mente, fra il senso e l'intelletto, fra l'imaginativa e il raziocinio, fra quei due elementi, insomma, uno  animale e l'altro divino, che in modo si misterioso e ad un tempo si manifesto concorrono a costituire l'umanità. E vale a dire, che per quanto a noi è dato di conghietturare, quel processo del pensiero, svolgentesi in una serie di azioni e di reazioni tra il dogmatismo della religione e il criticismo della filosofia, è la sua condizion naturale, e durerà finchè l'uomo sia uomo; poichè e il dualismo subjettivo dell'io e l'incomprensibilità objettiva dell'assoluto sono due leggi, che hanno il loro fondamento nella stessa natura umana, essenzialmente finita e limitata, e come risultante di due forze, indefinitamente perfettibili e armonizzabili, ma non capaci di acquistare giammai una perfezione infinita ed un'unità perfetta. Simiglianti, per non dire identiche, sono le relazioni che ha la filosofia con la poesia, presa nel suo più ampio significato di arte, e rappresentata nella sua moltiforme varietà dai varj ge neri della letteratura. La poesia, come la religione, precede alla metafisica. Nasce anch'essa dal sentimento dell'infinito, che è innato ed immanente nell'uomo; anch'essa tenta di ritrarre l'Assoluto, e i rapporti che seco hanno la natura e l'Umanità; e i suoi canti primitivi sono teogonie e cosmogonie, poco differenti dai libri sacri della Biggia. Anch'essa, come la religione, traduce l’Assoluto in un Ideale simbolico; ma i simboli religiosi pigliano bentosto l'aspetto di dogmi rivelati, che s'impongono alla fede; laddove i simboli poetici serbano il carattere di imagini spontanee, la cui efficacia risiede nella loro idoneità estetica à soddisfare la fantasia ed il cuore, senza offendere la ragione. Quindi sotto l'inspirazione religiosa l'Ideale veste una forma o affatto impersonale, o d'una persona como Gesu cosi posta al di fuori e al di sopra del mondo, che apparisce al rivelatore stesso come un Ente sovrintelligibile e sovranaturale; laddove sotto l'inspirazione poetica l'Ideale tiene sempre dell'umano, del subjettivo, e ritrae della persona stessa dell poeta, che lo immedesima con sé, mentre s'immedesima con esso.La filosofia pertanto, nelcorso deila sua storia, s'intreccia col movimento letterario, quasi come col religioso. Trora pure nei primitivi poemi l'addentellato della speculazione; incomincia a farne l'esegesi, e poi la critica; e conduce l'arte a dover creare una nuova forma dell'Ideale,che possa appagare il gusto di genti più culte, e più avvezze a non iscompagnare il Bello dal Vero. Nascono cosi e si succedono via via progressivamente le forme letterarie, a quel modo che i simboli sacri, sotto l'influsso critico della filosofia; la quale, determinando in modo sempre più razionale il concetto dell'Assoluto, prescrive all'arte, come alla fede, di effigiare l'Ideale con imagini d'età in età più pure, più atte a conciliare il sensibile con l'intelligibile, l'intuito con la riflessione, l'affetto col pensiero. La qual conciliazione tuttavia, per quanto venga informando l’arte ad un tipo gradualmente più filosofico, non può togliere via il carattere differenziale, che distingue l'opera poetica dal sistema speculativo,come due specie di cognizione, che muovono da facultà diverse, procedono con diverso metodo, e mirano a diverso fine. L'arte è figlia principalmente dell'intuizione e dell'imaginazione; la filosofia invece, dell'analisi'e del raziocinio. L'arte riveste le idee di forme sensibili, fantastiche, dramatiche, le dispone con libera scelta, le connette a suo gusto, non vincolata ad altre leggi che alle convenienze estetiche, e licenziata ad abbandonarsi in grad parte all'impeto spontaneo e quasi autonomo dell'inspirazione, dell'estro, del genio, che agli antichi pareva il soffio prepotente d'un nume. La filosofia, all'incontro, scevera dalle figure poetiche il concetto puro, passa l’ imagine sensibile al suo crogiuolo per cavarne le idee, e con le idee costruisce un sistema regolare, modellato rigorosamente su i canoni della logica, e ridutto ad unità scientifica mediante quell'intreccio dialettico di principj, applicazioni, e conseguenze, che è prestabilito dall'indole stessa del tema, deduttivo o indut ivo, razionale o sperimentale che sia. La poesia ha per iscopo la rappresentazione del bello; non esclude il vero, ma neppure il finto; subordina l'uno e l'altro egualmente al suo disegno; e se ne vale come di mezzi per colorirlo con più di varietà, di vivacità, di efficacia. Lafilosofia, all'opposto, ha per oggetto la dimostrazione del vero; tiene il bello in conto di accessorio, e non di principale; lo tratta da mezzo, e non da fine; e lo ammette solo in quanto non repugni alle condizioni della scienza. La sua storia adunque non potrebb'essere compiutamente descritta, se non avesse riguardo, come allo stato religioso, così allo stato letterario di ciascun'epoca, per apprezzare equamente liinflussi scambievoli della poesia su la speculativa e della metafisica su l'arte, e per meglio dilucidare la legge progressiva che dirige lo spirito umano nello svolgimento armonico delle sue facultà conoscitive. Se non che, nelle sue attinenze verso della letteratura, la filosofia procede più all'amichevole che non verso della teologia; perocchè il simbolismo estetico non pretende mai all'impero dottrinale, che si arroga il simbolismo teologico; non invoca per sè l'autorità di una rivelazione divina; non si usurpa nessun privilegio d’infallibilità assoluta: canta, e non decreta; narra, e non dogmatizza; inventa, instruisce, diletta, commuove, e non oracoleggia. La filosofia pertanto può scorgere in esso un errore da emendare, ma non un nemico da combattere; delpari che l'arte può rinvenire nella filosofia una censura un po'se vera, ma non una guerra dichiarata ed implacabile. Le religioni adunque, le letterature, e le scienze, come hanno contribuito per qualche rispetto all'origine ed al progresso della filosofia, devono parimente fornirci utili sussidi e schiarimenti per la sua storia. Ma non basta il porre mente alle sue relazioni intrinseche con le varie discipline d'ordine dottrinale. Essa inoltre ha moltiplici attinenze con quelle instituzioni d'ordine pratico, che si comprendono sotto il nome di condizioni politiche e sociali di un'epoca o di una nazione: attinenze estrin seche, è vero, ma non per ciò men necessarie ad intendere e spiegare levicende storiche de'suoi sistemi. I quali, per trascendenti che sieno, ritraggono pur sempre qualche cosa delle cre. Per quello poi che spetta alle attinenze della filosofia con altre scienze, e particolarmente con le scienze fisiche e naturali, e massime con quelle loro parti, che trattano dei primi principj delle cose e delle leggi generali dell'universo, gli è un fatto cosi per sè manifesto e notorio, che appena è mestieri di accennarlo per sentire la necessità di farne gran caso in una storia del pensiero filosofico. credenze e delle dottrine, che predominano nei tempi e nei luoghi, in cui vive il loro autore; siccome questi, per novatore che sia, non può mai rompere ogni communione intellettuale con la società, in mezzo a cui è nato, cresciuto, educato; e il suo pensiero, esplicandosi in un dato ambiente mentale, dee imbe versi più o meno delle idee communi e prevalenli. I filosofi stessi più originali precorrono bensì per un verso alla loro generazione, ed anticipano il futuro; ma rimangono, per l'altro, figli del loro secolo, e raccolgono,e riassumono nel loro genio, in modo più chiaro, ordinato, e complessivo, tullo quanto v'ha di più eletto, di più sodo e secondo nel suo sapere. Essi partecipano della vita scientifica di due età, poichè sono alunni del presente e institutori dell'avvenire. Laonde ciò che v'ha di nuovo no'loro sistemi, ha sempre il suo germe nello stato intellettuale de’loro contemporanei; talchè questo è la chiave della genesi di quello. Ora dello stato intellettuale di un secolo o di un popolo qual documento v'è egli più reale ed autentico, più vi vente e parlante che la sua costituzione politica e sociale, e i suoi costume domesticie civili. Nei costume esso incarnai suoi principj di morale; nella costituzione, i suoi principi di diritto: e con la notizia de'suoi principj di diritto e di morale si ha la guida sicura per penetrare nei recessi della sua coscienza e della sua ragione, e per delineare un quadro fedele delle sue cognizioni. La storia politica e civile dovrà quindi porgere an ch'essa il suo ajuto alla storia della filosofia; la quale appren derà tanto meglio a conoscere i grandi filosofi ed a giudi care i loro grandiosi sistemi, quanto meglio avrà conosciuto i tempi e i luoghi a cui appartenevano, e le idee e le instituzioni che reggevano le genti, di cui erano dessi prima discepoli, e poi maestri. Circoscritta in tali termini la materia, che direttamente e in direttamente spetta alla storia della filosofia, vede ognuno da sé quanto sia vana e falsa l'accusa di chi la spaccia a dirittura per un'arida e vuota farraggine di metafisicherie, l'una più astrusa e stravagante ed incomprensibile dell'altra. Essa è invece il racconto delle più eroiche lutte e delle più nobili conquiste del ל  M  acciocchè la contenga di fatto, bisogna dare a quella materia, che è il corpo della storia, la forma conveniente, che ne sia l'anima. Chi si contentasse di narrare la vita ed esporre la dottrina di ciascun filosofo, ma separatamente, a guisa di fatti o eventi diversi, sconnessi, indipendenti l'uno dall'altro, senza un principio organico che li coordini, e riduca la loro varietà fenomenica ad un'unità sistematica, e mostri il perchè ed il come l'uno sia causa dell'altro, e questo effetto di quello: fa rebbe una cronaca,e non una storia della filosofia.Ilcompito della storia si è di riprodurre i fatti nel loro intreccio origi nario. E siccome ogni serie di fatti non è altro che l'atluazione successiva d'una legge naturale, ed ogni legge della natura si riscontra con un principio della ragione; così il racconto dei fatti od eventi filosofici non può acquistar il valore di storia,se non in quanto li riordina, li classifica, li accentra sotto della legge psicologica, che ne ha determinato l'origine, il processo, e la trasformazione; di guisa che lo svariato contrasto di afferma zioni e negazioni, di tesi e antitesi, di teoriche e critiche, o n  15 genio umano nel campo del pensiero, che sovente,pur troppo ! ebbe a convertirsi in campo di battaglia. Le questioni, venti late dai sistemi in essa esposti, toccano agli affetti e ai desi derj più intimi, ai bisogni e agl'interessi più gravi dell'animo: la cognizione di noi medesimi e delle nostre facultà, del mondo e delle sue leggi; il criterio del vero e l'amore del bene; l'educazione dell'intelletto e il persezionamento del cuore; l'os servanza del dovere e la rivendicazione del diritto; le condizioni della felicità privata e della prosperità publica; la missione della vita presente e la speranza della futura. Li autori, ch'essa prende a commentare, sono l'ingegni più potenti e su blimi ed ardimentosi che vanti l'Umanità: sono propriamente i legislatori del pensiero e li instauratori dell'incivilimento. Ed infine, per le sue attinenze con tutte le vicende religiose, let terarie, e scientifiche, con tutte le forme e le riforme politiche e sociali, essa diviene lo specchio verace della vita interiore dell'Umanità; onde può dirsi fondatamente, che la Storia della Filosofia contiene in sustan.za la Filosofia della Storia.  E il fondamento di questa legge d'unità storica non è fitti zio o arbitrario, ma concreto e positivo, siccome quello che ri posa su la doppia unità del subjetto conoscente e dell'objetto conoscibile. Il subjetto è lo spirito umano, l'Io; il quale se per rispetto agl'individui ammette infinite graduazioni e differenze, al pari d'ogni altro essere, serba pure in riguardo alla specie tutta la unità e identità di natura, che si osserva in ciascun altro tipo. Quindi,per diverse e discordanti che sembrino le m a nifestazioni della sua attività individuale, non escono però mai fuori del limite, che segna la cerchia delle sue funzioni speci fiche; e vanno tutte comprese sotto certe categorie, le quali pure non rappresentano altro che certi aspetti o rapporti di un unico principio attivo. L'objetto poi è ilvero in genere,o quelle specie di vero che formano la materia della filosofia. Ora che può egli mai concepirsi di cosi identico ed uno, come il vero in sè stesso e nella sua forma universale ed assoluta? E quanto agli ordini particolari di verità, che danno luogo alle singole parti della filosofia, o si tratta dell'Io stesso, qual ente p e n sante; e allora l'unità dell'objetto s'immedesima con quella del subjetto, ed è tanto una la scienza,quanto uno è il pensiero: o si tratta invece di objetti esterni, della società umana, del mondo, dell’Assoluto; e allora l'unità della scienza ha pure il suo fondamento nell'unità del principio protologico, cosmologico, e morale, di cui quelle dottrine sono rispettivamente una m e todica esplicazione. La legge di unità adunque,che deve infun dere la vita, l'anima, la forma nella storia della filosofia, sus  16 d'è intessuta la storia della filosofia, apparisca, non quasi un caos informe e fortuito, ma come un mondo ideale, in cui i varj sistemi tengon luogo di elementi o forze integranti, che rappresentano nel loro complesso la moltiforme attività di un principio unico, del pensiero; e producono col loro antagonismo un'armoniá simile a quella del mondo reale. Indagare e veri ficare questa legge primitiva, che sotto l'infinita varietà dei si stemi stabilisce l'unità di un organismo dottrinale, e dirige la vita interna del pensiero, è dunque l’officio proprio d'una sto ria della filosofia.  A trovarla però occorre sopratutto di saperla cercare; onde nella storia della filosofia, non altrimenti che in qualsiasi di sciplina, ha un'importanza capitale il metodo. Or qual è il metodo da seguire per giungere con maggior sicurezza al nostro scopo? chè v'è anche qui disparità e contrarietà d'opinioni. In generale, li storici antichi, vale a dire quelli dei due ultimi secoli scorsi, e dei primi anni del corrente procedevano con metodo quasi affatto empirico edescrittivo; badavano solo a far la biografia dei filosofi e il sommario delle loro dottrine, sen z'altro legame che la successione cronologica, o la parentela etno grafica, o la classificazione scolastica; raccoglievano la materia dellastoria,ma netrasandavanolaforma.Fra imoderni,al cuni e de'più rinomati si gettarono nell'estremo opposto, e precut ă tesero di costruire la storia della filosofiacon metodo specula- láhystal tivo ed a priori. Costoro, ove mai fossero venuti a capo d'una simile impresa,avrebbero disegnato una cotal forma idealedella storia, m a vuota di contenuto reale; avrebbero mostrato ciò che, nel loro concetto, doveva essere la filosofia, m a non mai cið che fu nella sua realtà; insomma avrebbero costruita una teorica, ma non già narrata una storia. Perocchè oggetto della storia sono i fatti; e i fatti si apprendono per via d'esperienza e d'os servazione, di memorie e di documenti, e non già per opera di deduzioni dialettiche e di evoluzioni metafisiche. Del resto, la scuola che tentò di introdurre le costruzioni a priori anche nella storia, obediva necessariamente al principio cardinale della sua filosofia, che identificando il pensiero con l'essere, affer m a risolutamente, i fatti e le leggi della storia, della natura, dell'universo doversi cercare nei fatti e nelle leggi del pensiero stesso.Ma quando essa volle passare dalla teorica allapratica, e chiarire col proprio esempio la superlativa bontà del suo m e todo, a che è riuscita? A null'altro fuorchè a provare lavanità  17 siste non meno nel subjetto che nell'objetto del pensiero spe culativo. Potrà in qualche caso riuscire malagevole a scoprirsi e significarsi; potrà eziandio rimanere ancor ignota: m a sarà per difetto nostro, e non per mancanza sua; e vorrà dire sol tanto, che non si è ancora trovata, e non già che non esista.  delle sue speculazioni; giacchè tutto quanto v'ha di slorico noi suoi lavori, è attinto dai monumenti ordinarj, e non fabricato a priori; è ciò che v'ha di propriamente dedutto a priori, è ipotesi, poesia, romanzo, ogni cosa, fuorchè storia. Tra l'empirismo degli uni e il trascendentalismo degli altri s'apre nondimeno una via di mezzo, che è quella indicata dalla ragione, e battuta dalla scienzaUn metodo non è altro che un mezzo di cognizione: il suo valore è dunque relativo,e con siste nella sua rispondenza al fine, cui dee servire. L a sto ria della filosofia consta di due elementi: d'una materia positiva. e d'una forma razionale; dunque il metodo di studiarla vuol essere misto: positivo, quanto all'esposizione dei fatti; e razio nale, quanto alla investigazione delle leggi. A questo metodo si potrebbe meritamente appropriare il nome di critico; poiche esso è ilsolo,in cui una critica sagace e sapiente riconosca mantenuti i suoi principj, ed osservate le sue regole. Comunque però si chiami, esso è quello che noi ci studieremo di se guitare costantemente. Le regole di questo metodo sono le stesse, che la logica pre scrive generalmente negli studi storici. Le principali, per quanto spetta in particolare al nostro tema, saranno. 2.° Equilà nel giudizio delle dottrine; e perciò aver s e m pre riguardo alle condizioni de'luoghi e de'tempi, in cui vivea l'autore; apprezzare le sue idee in relazione con quelle d'allora, e non con quelle d'adesso; discernere accuratamente le veré. Fedeltà nel ragguaglio dei fatti; - e quindi, anzitutto lasciare a ciascun autore la fisionomia sua propria; non aggiungere, nè togliere nulla alla sua parola; riferire il suo sistema tal quale piaque a lui di comporlo, e non come piacerebbe a noi di rifarlo: chè primo officio della critica si è di non far dire ad alcuno nulla più e nulla meno di quel ch'egli ha detto: officio, a cui mancano tutte le scuole esclusive e parziali, che vanno a cercare nella storia della filosofia, non una notizia del sistema altrui, m a una giustificazione del proprio; e in luogo di farsi interpreti degli altri, costringono -li altri a farsi loro apologisti.   dalle false; non assolvere queste in grazia di quelle, nè con danpar quelle in odio di queste; e cosi nell'approvazione come nella riprovazione procedere con tutto il rigore, non so lamente della logica, ma anche della giustizia:chè debito della critica si è di esercitare il diritto di lode e di biasimo come una funzione non meno morale che letteraria: debito,a cui fal liscono del pari e i panegiristi fanatici e i detrattori arrabiati; poichè li uni, predisposti a lodar tutto, scambiano la storia in adulazione; e li altri, prerisoluti a tutto biasimare, conver tono la critica in maldicenza: e questi e quelli tanto più rei, in quanto che d'ordinario trattasi di giudicare personaggi, che non partecipano più alle nostre dispute, e non sono più in grado di difendersi nè dalle cortigianerie de’partigiani,nè dalle calun nie degli avversarj. Terzo, Cautela nell'assegnazione delle leggi; - e però non in durre da fatti particolari, nè dedurre da dozioni generali più di quel che contengano; professare il dubio, dove ragioni pro e contro interdicono la certezza; é confessare l'ignoranza, dove il difetto di notizie e di documenti non lascia penetrare alcuna luce di scienza; tener conto dell'elemento variabile, che la li bertà introduce nella storia; e non ostinarsi a geometrizzare tutta la vita dell'Umanità, quasi che ilpensiero fosse suggetto alla regolarità di una combinazione chimica o di una produzione b o tanica; evitare con egual diligenza l'errore dell'empirismo, che non sa riconoscere verun nesso causale tra li eventi umani, e rimette la storia in balia del caso; e l'errore del trascendenta lismo, che vuole incatenare anche i fenómeni volontarj all'im pero di una fatalità inesorabile, e ragguaglia tutti liattimorali alla condizione di effetti fisici: che dovere della critica si è di studiare la natura in sè stessa, e non di foggiarsela a proprio gusto; e perciò di apprendere da essa le sue leggi, e non di det tare ad essa le proprie. Ora, che il regno umano non sia inte ramente governato dalle forze necessarie, a cui obediscono ine Juttabilmente lialtri regni della natura,ed in quello operi una forza libera,che in questi non ha luogo:eglièun fatto,lacui sussistenza ci è cosi nota e,certa, come la coscienza di noi stessi.  Ben si potrà disputare dell'essenza, dell'origine, della costitu zione di questa potenza superiore, che crea il mondo morale; si potrà allargare o restringere si la cerchia della sua compe tenza nella vita interna ed esterna del pensiero, e si quella de'suoi rapporti con le altre funzioni della natura umana ed universa: ma simili questioni, che riguardano la spiegazione teoretica del fatto, non detraggono punto all'evidenza della sua positiva realtà, nè valgono a revocare menomamente in dubio l'ingerenza, che spetta alla libertà nell'andamento delle cose umane. E con la libertà entra nella storia un principio,ilquale per rispetto agli altri elementi, tutti fatali ed invariabili,assume ilcarattere di irregolare,anomalo,perturbativo,e dà origine ad una serie particolare di fenomeni, assai più complessi, poichè ten gono insieme del necessario e del libero, del fisico e del morale. Questa serie pertanto, se è determinata per una parte, è indeterminabile per l'altra; giacchè libertà e predeterminazione sono concetti, che scambievolmente si escludono. La storia ammette dunque leggi fisse ed immutabili, in quanto essa procede a tenore di cause fisiche e fatali; e ammette solo divinazioni, conghietture, probabilità, più o meno plausibili e ragionevoli, m a non leggi anticipatamente definibili e indecli nabilmente effettuabili, in quanto essa dipende da cause m o rali e libere.E la sagacia della critica consisterà nel raccogliere la maggior somma possibile di probabilità induttive, a fine di trarre dal passato un qualche lume per rischiarare un po' l'avvenire; e non già nel trascurare tutto ciò che non quadra alla simmetria preconcetta di un sistema, per procacciarsi la vana soddisfazione di aver compassato ogni cosa alla stregua del proprio cervello. Egli è quindi manifesto, come dicendo noi, la storia della filo sofia,presa nell'ampio giro del suo significato,convertirsi davvero in una filosofia della storia, non sia questa da intendersi nel senso dogmatico degli aprioristi, secondo i quali applicar la filo sofia alla storia equivale a trasformare la storia in una cotal metafisica imaginaria, che fa dell'uomo un concetto astratto e dell'Umanità una formula matematica. Un tal genere di specu  20   lazione potrà per avventura intitolarsi ancor filosofia, m a certo non merita punto il nome di storia; di quella disciplina, cioè, a cui non è lecito di acquistare un carattere filosofico, fuorchè a palto di non ismettere mai il carattere storico,che costituisce la sua stessa natura. E poichè, come storia, è una dottrina es senzialmente positiva e sperimentale, dee 'pure, come filosofia, serbare la forma medesima,e procedere con metodo sperimenlale e positivo. Essa, in luogo di narrare i fatti particolari,ad uso della pretta storia descrittiva, baderà a raccogliere da ciascuna serie di falli leleggi psicologiche,morali,e sociali,che ne rampollano; m a le raccoglierà con quello stesso metodo induttivo, onde le varie scienze naturali ricavano dall'osservazione e dalla classifi cazione dei fenomeni fisici, chimici, fisiologici, le leggi dell'uni verso. Solo a questa condizione ci sembra possibile di innestare la filosofia nella storia, e sopratutto di effettuare l'innesto m e diante la storia della filosofia. Alla quale ritornando ancora per poco, ci resterebbe da chia rirne brevemente l'importanza, l'utilità, la necessità,così per sè stessa, come per le sue atlinenze con le altre discipline. Ma bastano a tal uopo, in tesi generale, li argumenti stessi, che ci valsero a stabilirne la materia,la forma, ed ilmetodo;giacchè sono ben poche,per fermo, le scienze a pro delle quali si possa no addurre titoli eguali per provarle importanti, utili,e necessarie. Per altro, ciò che sarebbe al tutto superfluo sotto il rispetto teoretico ed in astratto, può di leggieri tornare assai conveniente in qualche caso pratico e concreto, che da un singolare con corso delle circostanze di tempo e di luogo riceva un'impronta tutta sua propria. Ed è il caso nostro. Commendare lo studio della filosofia colà, dove il pensiero filosofico è nel pien vigore del suo esercizio, e fiorisce sotto tutte le sue forme, e si svolge largamente, liberamente in tutta la svariata energia delle sue funzioni, saprebbe di anacronismo o di paradosso. M a oggi, tra noi,- a che dissimularlo?— pon ècosì. L'Italia, che alter volte s'ebbe il primato in ogni genere di studj; che nell'antichità ebbe tanta parte al progresso della filosofia per opera delle scuole della Magna Grecia; e che al cadere del medio evo suscitò nel mondo intellettuale quel gran moto del Risurgimento, e con di esso rimise l'Umanità su la via di ogni riforma e di ogni sco- tu perta: non occupa più da lungo tempo il seggio,che le pareva che assegnato dalla natura medesima nel regno del sapere. Le ca gioni, che le hanno rapita la corona scientifica, possono ben vie tarci di imputarle a colpa la sua caduta;ma non già disentire in questa caduta il peso di una tremenda sciagura. Si, la per dita della libertà, le sette politiche, le persecuzioni religiose, dominazioni straniere, le tirannidi nostrali, rendono più che sufficiente ragione delle misere condizioni, a cui venne dannato negli ultimi tre secoli il pensiero italiano; e spiegano abbastanza come il genio filosofico, perseguitato a morte in questa regione che parea divenuta sua patria, dovesse emigrare in altre con trade, e cercare ospitalità presso altre genti, che li avi nostri chiamavano barbare, e che a noi tocca invece di salutare mae- al stre. Ma spiegare il fatto non è distruggerlo; e sieno pur evi. di denti, necessarie, irrefragabili le sue cagioni, sta sempre vero, che nella storia della speculativa moderna l'Italia non occupa più, dinanzi alla culta Europa, uno de'primi, bensì uno degli ultimi posti.  Ed è tempo oggimai, che una tanta umiliazione abbia fine. di Per lo passato potevamo sopportarla senza troppo rossore,come ni una conseguenza fatale dell'oppressione, sotto di cui il bel paese di gemeva; m a d'ora in poi la cesserebbe di essere una sventura, e diventerebbe un'ignominia. Perocchè la massima parte delle fo barriere, che divideano e smembravano l'italica famiglia, sono cancellate; li spegnitoj, che l'arte o la violenza avea sovrapostizie all'ingegno,sonocaduti:anche a noi siapre ilgloriosoarringo dei nobili e liberi studj; e possiamo correrlo anche noi con ge- in nerosa gara e con nuovo e più fortunato ardore. Sta dunque a noi di dar l'ultima mano a questo prodigioso rinovamento d'I talia. Il valor militare e il senno civile l'hanno redenta dalla servitù politica, e la van componendo a nazione indipendente, libera, e forte; m a questo risurgimento stesso o non sarebbe d u raturo, o rimarrebbe sterile e vano, ove non avesse il suo de N le a 20 210 zid Sg TO de SE gno riscontro in una restaurazione scientifica e letteraria, capace &    1 - in di redimerla pure della sua minoranza intellettuale, e di resti On tuirle nel mondo delle idee il luogo corrispondente a quello, Ta che si è rivendicato nel mondo degli Stati. -a Ed invero, la vita dei popoli, non altrimenti che degli indi eu vidui, proviene dal complesso di un doppio ordine di fatti e di re leggi: l'uno fisico, e l'altro morale, di cui ciascuno risponde ad una serie di forze rispettivamente analoghe. E nella costituzione le sociale del genere umano egli è fuori di dubio, che le forze he fisiche vanno subordinate alle forze morali,siccome lo strumento 10 all'opera, il mezzo al fine. Che se da un lato è verissimo,non alla ragione il suo impero; o sono esse medesime effello d'un i disordine morale, produtto dall'ignoranza e dall'errore nelle co; 'scienze, e il loro rimedio non può venire se non da un grado à superiore di educazione e di cultura publica, cioè da un pro li gresso intellettuale. L'indipendenza, la libertà, la grandezza dei popoli hanno dunque il fondamento della loro durata e la ra B.;dice del loro incremento nelle idee,nelle credenze,nelle opi é nioni, in cui sono essi allevati;vale a dire,insomma,nelle con je dizioni della loro vita mentale. Ora l'alimento più sano, più sustanzioso del pensiero non è e forse la filosofia? Non è dessa lo studio più idoneo ed efficace 0 a svelare, a combattere,a distruggere i pregiudizj, le supersti tizioni, li errori d'ogni fatta, che mantengono i popoli nello stato o di fanciullezza, e li conducono troppo spesso ad esser vittime - infelici e strumenti inconsapevoli di servitù? Non è dessa il ti a rocinio più sicuro per informare l'intelletto al riconoscimento.del vero,la ragione al culto della scienza, l'ingegno al gusto a del bello, l'animo all'annore del bene, la coscienza all'adempi mento del dovere e al rispetto del diritto, e tutto l'uomo all'e sercizio delle virtù private e publiche, domestiche e sociali?. Non è dessa la fonte viva, da cui tutte le altre scienze attin za > sempre quest'ordine naturale reggere in effetto le sorti delle n a nezioni, e non di rado prevalere la violenza al diritto e alla giu 1 stizia; dall'altro però non è men vero, che o simili perturba rizioni sociali sono temporanee, e alla lunga lasciano ripigliare 1,. e gono i principj, i metodi, i criterj del loro insegnamento? Non    è dessa pertanto, in ogni periodo della storia, la misura più certa del grado di potenza, di energia, e di fecondità, a cui per venga di mano in mano il pensiero? Nella grand' opera della restaurazione scientifica d'un popolo spetlano dunque alla filo sofia le prime parti; e sarà quella tanto più pronta,prospera, e permanente, quanto più vasta e profonda sarà la cultura di questa. Laonde, oggi che l'Italia, sciolto il voto di tante gene razioni, e raccolto il frutto di tanti martirj, saluta finalmente l'alba di un'êra nuova, deve insieme provedere alla sicurezza e stabilità del suo riscatto politico mercè di un rinovamento in tellettuale e morale, cioè prima e sopra di tutto, filosofico. Del quale poi, chi potrà mai e chi dovrà pigliarsi il carico precipuo, se non quell'eletta gioventù che si consacra di pro fessione agli studj? Essa, che ha già pagato eroicamente il d e bito suo alla patria col valore del braccio, si ricordi che la p a tria stessa attende da lei altre prove di devozione,più pacifiche e riposate, ma non meno ardue e magnanime,col valore dell’ ingegno. Essa, che ha mostrat, fra l’ammirazione e d il plauso del mondo civile, come nel sangue italiano sia ridesto il ge nio della guerra; s'accinga a provare, con egual entusiasmo di fede e di sacrificio, come riviva é rifiorisca del pari nell’in telletto ilaliano il genio della sapienza. E poichè le due grandi e culte nazioni, che al di là delle Alpi ricingono l'Italia, hanno oggimai dovuto persuadersi, che al di quà è risurto un popolo degno di star loro a fianco o di fronte coll'armi; oh ! possano apprendere bentosto, che questo popolo stesso intende di emu lare le loro glorie, non solo marziali, ma anche scientifiche; intende di gareggiare con esse, non solo di coraggio e di p o tenza, ma anche di studio e di sapere; intende che d'ora in nanzi,quando essedescriverannoilmappamondo filosofico,non abbiano più a dividerlo, con orgoglio purtroppo da lunga pezza non affatto temerario,in duesoleregioni:FranciaeGer mania; ma debbano, buono o mal loro grado, disegnarvi una terza divisione, e chiamarla Italia.  Due parti essenziali del metodo: la critica, e la teorica. Ordine tenuto dall'Autore nella pu blicazione de' suoi scritti. Questione preliminare dei rapporti fra la filosofia e la religione. pag. S 2. Sistema che nega il primo termine del rap porto, cioè la filosofia. - Dottrina fondamentale del cristianesimo. Spoglia la filosofia d'ogni carattere di scienza razionale. Circolo vizio Filosofia e cristianesimo son termini, che si escludono a vicenda S3. Sistema che nega il secondo termine del rap porto, cioè la religione. Dottrina degli Enci clopedisti. La scuola rivoluzionaria. Espo sizione della teoria di C. Lemaire, di G. Fer rari, di Proudhon, -di Feuerbach, - di C. Marx e A, Ruge. so. Critica di questo sistema. Vero stato della questione. Universalità e perpetuità della re ligione. Non se ne può attribuire l'origine al l'arbitrio degli individui. È un elemento natu rale dell'Umanità. Testimonianze di 0. Müller, -di P. Leroux, e di Lamennais. Objezione di Proudhon. - Risposta. - La religione si tras forma sempre, ma non muore mai. Confessione di Feuerbach. Giudizio di G. Villeneuve Sistema che confunde i due termini insieme. Alcuni riducono tutta la religione alla sola mo rale. Dottrina di Kant, di Saint- Simon, d'altri Riformatori. Critica di tale sistema. - Necessità d'una dot trina teoretica per la morale. La morale della. carità e della fratellanza non fu un trovato dell'E vangelio. - Lo han confessato li scrittori eccle siastici antichi. Documenti. Li Esseni ei Terapeuti. - Parallelo di Reynaud. - Giudizio di De Potter. La carità e la fratellanza del cristianesimo sono il rovescio del socialismo. Sentenza di D. Stern ". Altri immedesimano affatto la religione con la metafisica e la scienza. Esposizione e critica dei sistemi di Leroux, di Reynaud, di La mennais, e di Comte. Sistema che separa affatto i due termini l'uno dall'altro. Professione di fede dell'ecletticismo. Contradizioni di E. Saisset, già ben notate da F. Génin. La bandiera dell'ecletticismo di sertata. Altre contradizioni di E. Martin. Vani tentativi per conciliare il razionalismo col sovranaturale. scenza. Conclusioni che derivano dalla critica di questi sistemi. — Condizioni generali del problema da risolvere. Significato preciso dei due termini: la religione come dogmatica, e la filosofia come metafisica. Il rapporto d'unione fra loro è nell'u nità del loro oggetto. Il rapporto di distinzione non può dedursi che da una teorica della cono Conoscenza sensibile e razionale. Sensazioni, imaginazioni, e sentimenti. Per cezioni, credenze, e concetti. Sentimento pri mitivo dell'Assoluto. — Cognizione razionale, che ne proviene. La credenza, propria della reli gione. Il concetto, proprio della filosofia. Simboli e teoriche. Influenza reciproca della filosofia e della religione. Perpetuità di am bedue. Giudizio di Strauss. Sistemi che mantengono tutti e due i termini; ma pongono fra essi un rapporto inesatto. Ana lisi critica dei sistemi di Constant, di Trul di Villeneuve, di Mamiani. Filoso fia della religione di Hegel, esposta da A. Véra. » Varj significati, in cui si prende il raziona lismo. Razionalismo teologico. Dogma tismo. Ontologismo. Idealismo. Il solo sistema, che il razionalismo escluda, è il dogma tismo. Caratteri positivi e negativi del razio nalismo. Parte scientifica e parte critica, - lard, Carattere objettivo della filosofia antica, e subjettivo della moderna. Necessità e importanza della psi cologia. Classificazione incompleta delle facultà umane. = Trascuranza del sentimento nelle scuole italiane Classificazione proposta dagli autori scolastici » Sistema del Galluppi. Sistema del Mancino. Vizio commune di questi due sistemi Analisi critica della teoria del Poli X - Esposizione e censura della teoria di Gioberti » Pregio commune di queste due teorie Analisi dei due sistemi del Rosmini. Assurdità e contradizioni. Rosmini confutato da Rosmini Saggio della sua modestia. Suoi giudizj in torno alle scuole tedesche, alla filosofia moderna, e al nostro secolo. — Il calculo degl'interessi mate riali. Come Rosmini intenda la storia Danni, che recò alla filosofia la negligenza del sentimento. - Principio della classificazione psi cologica. - Non si può riporre nel subjetto. E ne pure nell'objetto Se il senso abbia un oggetto. Giochi di pa role del Rosmini. Contradizioni e sofismi. Il principio della classificazione sta nel rapporto del subjetto con l'objetto, cioè nella fun zione. La classificazione delle funzioni deriva > » dai caratteri de' fenomeni conoscitivi, Metodo induttivo di Bacone. Avvertenze e canoni di Garnier Tradizione filosofica su la divisione delle facultà in senso e ragione Se fra il sentire e l'intendere passi una differenza generica, o specifica soltanto. Strane contradizioni di Gioberti e di Rosmini Non havvi una differenza generica ed essenziale fra il sentire ed il conoscere. Prova filologica. Valore di certe locuzioni ammesse an che dai filosofi. Il senso commune. Séguito delle contradizioni di Rosmini. Il buon senso. Il senso intimo. Sofismi di Rosmini circa la natura della sensazione. Il senso e l'intelletto si identi ficano nel genere, e si distinguono nella specie. Dottrina di Tomaso d'Aquino, e del Poli.. La funzione generica della conoscenza si divide in due funzioni specifiche: il sentimento e la ragione. Tre serie di fenomeni del sentimento. Sensazioni. Errore della scuola psicologica francese, Dottrina di Matthiae. Imaginazioni. Sentimenti. Elemento proprio, ed elemento commune dei varj modi della conoscenza sensibile. Sono spontanei, immediati, concreti Tre serie di fenomeni della ragione. Percezioni. Credenze. Concetti. Elemento proprio ed elemento commune dei varj modi della conoscenza razionale. Sono riflessi, - mediati, - astrattivi. Assurdità del Rosmini su lo sviluppo cro nologico della conoscenza. I bambini filosofi. La nipote di venti mesi. Curiosa confessione Funzioni pra Unità dello spirito umano. Intimo nesso delle funzioni conoscitive. tiche. Classificazione generale Analogie e differenze tra questo sistema e quello di Franck, di Garnier, di Lamennais, di Leroux. Elogio e critica della teoria di A. Martin. La divisione delle facultà in attive e pas sive è falsa e contradittoria. Li atti attivi, e li atti passivi del Rosmini. È erronea del pari la di visione in facultà objettive e subjettive. Sofismi del Rosmini circa la subjettività del sentimento e l'objettività dell'idea. Quali sieno le conoscenze reali ed oggettive, e quali le suggettive ed astratte. Dottrina di G. Ferrari. Antitesi del dogma tismo Objezioni e risposte. Che cosa sia la verità. S'ella esista in sè stessa, fuori della mente. Paralogismi del Rosmini. Egli non si prende cura e timore delle conseguenze. · Non ha paura dell'assurdo. Assurdità e contradizioni della sua teorica delle idee. Caratteri, che differenziano l'uomo dal l'animale. Della cognizione delle essenze. Come il Rosmini fa ragionare i moderni. Come ragionino davvero. Storchenau, Dmowski. Scempiaggini che Rosmini affibbia agli antichi. Conoscere l'essenza d'una cosa, per lui, vale saperne il nome. Origine delle idee. Confini della scienza umana. Divisione delle scienze. Due specie diverse di credenza. Elogio di Alfonso Testa. Saggio delle sue dottrine. »  Kant, » Esame della teorica del Bianchetti. Şuoi meriti. Critica delle sue objezioni contro la dottrina del sentimento. -Egli stabilisce la que stione in termini contradittorj. - Equivoco dell'as soluto. Se siano più mutabili i sentimenti, o le idee. Certezza della cognizione. Conseguenze della teoria platonica delle idee. Guida sicura del | l'Umanità è la natura. In qual senso la verità, la giustizia, e la bellezza sieno assolute. Cognizione dell'io fenomeno e dell'io sustanza. Qual parte abbia il sentimento nella morale. L'assoluto formale, e l'assoluto reale. La regola delle azioni. Applicazione della teoria psicologica alla pedagogia, e alla storia. - Il sentimento del Vero e la filosofia della conoscenza. Il sentimento del Bello e la filosofia dell'arte. - Il sentimento del Bene e la filosofia della morale e del diritto.  Il senti mento dell'Infinito e la filosofia della religione e del l'assoluto.. Critica degli argumentidel Rosmini contro la teorica del sentimento religioso. Se possano collocarsi tutte le religioni sotto una stessa cate goria. La prova rosminiana è logicamente un so fisma. Storicamente è una falsità. Dottrine cristiane anteriori al cristianesimo.- Carattere del l'Evangelio. Un filosofo inquisitore. L'accusa d'empietà. –Logica buffonesca del Rosmini. - Sua storia dell’empietà. Contradizioni ed assurdità del suo catechismo. Insulti all'Umanità. Ca lunnie in luogo di ragioni. Verità assoluta e ve rità relativa della religione. Il Dio vero e il Dio falso. - L'infallibilità del dogmatismo. Rosmini - - dichiara bestia chi non pensa come lui. - Il fondo e le forme della religione. Chi ammette il senti mento non lascia la via della ragione. La ragione e il sentimento non sono contrarj. Subjettività della religione. Trasformazioni dell'idea di Dio. - L'uomo ha una religione perchè è uomo. -Come nella dottrina del sentimento vi sia la verità, la certezza, e la morale. I motivi della fede. Con tradizioni del Rosmini intorno alla natura. Là legge e l'obbligazione morale. - Dove cominci l'im moralità delle religioni. –La credenza non precede il sentimento. Avvertimento ai giovani stu diosi Programma d'un corso di Filosofia. Il razionalismo e la fede. Distruttore d'ogni fede è il dogmatismo. Differenze reali e pratiche fra il razionalista e il dogmatico. - Analisi e critica dell'opera di G. A. Nallino: Del Sentimento. B. Dottrina di C. Lemaire intorno alla verità. C. Esame di una lettera del vescovo d'Annecy all'Ar monia su l'educazione D. Legge storica del progresso, giusta il sistema di Comte e di Ferrari. E. Inno di Cleanto a Giove tradutto dal Pompei F. Dottrina di Franck intorno alla fede. » Teorica del Sovranaturale Introduzione allo studio della Filosofia. Della formula ideale. Del necessario e del contingente. - Dell'intelli gibile. Della esistenza dei corpi. —Dellaindividuazione. Dell' evidenza e della certezza. Dell'origine delle idee. De' giudizj analitici e sintetici. Della natura del raziocinio Della universalità scientifica della formula ideale. -Della matematica. Della logica e della morale. Della co smologia Della estetica Tavola delle trasformazioni ontologiche della formula ideale, corrispondenti ai vari stati psicologici dello spirito umano Teorica dei Primi.' – Della dialettica La grande innovazione, che Gioberti portò nella filosofia, è quella dei vocaboli e delle locuzioni. - Il suo sistema però è sempre il vecchio dogmatismo della scolastica. -Egli 1 s'era proposto di ricondurre la scienza ideale alle credenze catoliche e all'obedienza della chiesa, onde l'aveano sviata; il metodo, il principio, e il criterio della filosofia moderna, e volea sostituire: I. Come metodo, l'ontologismo al psicologismo. — Defi nizione dei due metodi. — Il psicologismo osserva, e l'on tologismo viola il primo canone di una buona metodica, che è di procedere dal noto all' ignoto; - parimente il secondo, che è di camminare dal certo all'incerto. - Li miti del psicologismo. - Conseguenze, che il filosofo ne dee tirare. Gioberti ba ragione contro i psicologisti dogmatici, e noncontro i psicologisti critici. - Il processo psicologico non è ipotetico. L'ontologismo invece non può essere che una ipotesi. L'uomo di Gioberti, e l'intuito diretto, immediato della creazione. Come principio, la creazione al panteismo. –Che valore debba attribuire la filosofia al panteismo, ed ai varj sistemi ontologici e cosmogonici. Anche la creazione, nel sistema di Gioberti, è una ipotesi. - Non la stabilisce su d'alcuna prova. Tutti i sistemi possono appropriarsi il suo ragionamento. Gioberti non prova il fatto capi tale del suo sistema, che è la notizia della creazione nel l'intuito primitivo. Anziquesto fatto medesimo, in virtù de' suoi principj, non è ammissibile. Scambia la que stione dell'esistenza con quella del modo. - In luogo di tre termini ne abbiamo un solo. Differenza essenziale fra l'azione dell'Ente e quella degli esistenti - Il sistema di Gioberti si risolve o in una contradizione formale, o in un'asserzione gratuita Comecriterio, il sovranaturale al razionalismo. cosa intenda Gioberti per sovrintelligenza.-Un commento favoloso di  Mauri. – La sovrintelligenzaèuna facultà contraditioria ed assurda. Stato della questione fra il razionalismo ed il teologismo. Per la filosofia, la fede non può esser altro che una maniera di cognizione. La distinzione dei sovranaturalisti fra la certezza o evi denza estrinseca ed intrinseca non giova. Il sovrana turale o non è oggetto di conoscenza, o il suo criterio è la ragione. I fatti sovranaturali, a cui ricorre Gioberti, o non sono fatti, o non conchiudono punto. La crea zione. La parola. La beatitudine. La rivelazione. Il sovranaturalismo consiste nel fondare il noto su l'ignoto, o nel dedurre l'evidente dall' incomprensibile. 329 Una confutazione efficace del razionalismo non è pos sibile, fuorchè a patto di ammettere due specie diverse e contrarie di verità e di ragione Come risultato finale, la teologia alla filosofia. È un corollario. Gioberti stesso lo ha dichiarato in mille luoghi.- Suamoltiforme definizione della filosofia. — Saggio di commenti, con cui Gioberti laspiega. — Anche per lui, come per Rosmini, la filosofia è la serva della teologia. Il signor Mauri lo nega formalmente; formalmente lo afferma. Egli vede lucidamente il 'nulla. —E mostra d'intendersi cosi bene di teologia, come di filosofia. - Ar gumento di Gioberti per conciliare il primato della teo logia con la libertà della scienza. E un controsenso. L'unico principio di ordine nel regno delle idee e la Gioberti con la sua teorica del magisterio e della regola autorevole condanna il proprio sistema. – Egli non credeva alla filosofia, non era filosofo. - Suoi impro bi. E contro Descartes, como rappresentante di essa. Varie classi d' avversarj. -La critica presente si rife risce ai soli avversarj delle dottrine filosofiche di Gioberti. Nella questione del metodo, suoi avversarj naturali do vean essere i psicologisti critici. -Ma'in Italia una scuola critica non esiste. – Nicolò Tommaseo. Salvatore Mancino - Terenzio Mamiani. I psicologisti rosminiani. Questione fondamentale tra Gioberti e Rosmini. La critica di Gioberti distrusse la metafisica del psicologismo. E la critica de' rosminiani disfece la metafisica dell'on tologismo. Il sistema di Kant riceve una nuova conferma dal fatto stesso de' suoi detrattori. Lato comico della controversia fra Gioberti Rosmini. Conclusione, che ne dee trarre la filosofia e l'Italia. Pag. 88 Nella questione del principio, avversarj di Gioberti avrebbero dovuto essere i panteisti. - Ma nella patria di Giordano Bruno il panteismo non ha una scuola. Si levarono inyece contro Gioberti i difensori officiali della creazione, e lo accusarono di panteismo. Mala fede di questiaccusatori. - Protesta diGioberti. - Il panteismo é inevitabile nel sistema psicologico del dogmatismo —La critica dei teologi era una cavillazione ed una sofistiche ria. Gioberti non è panteista. Il che però non gli torna a lode Nellaquestione del criterio, avversarj di Giobertinon furono i razionalisti, ma i teologi. E l'accusarono di razionalismo. Favole, che un frate diede ad intendere a otto vescovi degli Stati Romani. Gioberti ebbe il torto di prenderle sul serio, Sua protesta. L'accusa non è giustificata dalla guerra, ch'egli mosse ai gesuiti. Ma in virtù de suoi stessi principj egli non poteva lagnarsi della sentenza de' teologi L'ordine degli avversarj, eziandio quanto al risultato ultimo della controversia, apparvorovesciato. Gioberti non fu combattuto in nome della filosofia. Vera filosofia, nel senso moderno, non esiste ancora in Italia. Quivi regna tuttora la scolastica. Fu in quella vece combat tuto dai teologi. - E con ragione. - Problema della con ciliazione fra la ragione e la fede. Soluzione dei razio nalisti, o dei teologi. - Gioberti s'era condannato da sè stesso con la sua professione di fede. Il catolicismo era la sua religione, e lo trattavada catolico. Opposizione assoluta della fedee della ragione.- 0razionalismo, o teologismo: nessuna via di mezzo. L'esempio di Gioberti è una conferma di questa verità o di questo fatto Opere postume di Gioberti. Riforma catolica della chiesa Filosofia della rivelazione - Divisione del programma. False accuse che Mamiani dà all'età nostra. Egli nega i fatti più notorj ed evidenti. Afferma, che oggidi la mente umana ha perduta una sua facultà naturale. Se ella sia diventata inetta a conoscere i sommi principj Mamiani taccia l'età nostra d'inettitudine a conoscere le dottrine, che ogni pro fessore insegna, ed ogni studente impara. Anche l'ac cusa di empirismo è vana. - L'influenza dell'empirismo grosso e cieco non esiste. V' ha però un empirismo no grosso, nè cieco, a cui la scienza rende omaggio. E una volta Mamiani lo riconosceva anch'egli come il metodo naturale. Testimonianze del Rinovamento, dell'Onto logia, e dei Dialoghi. Egli ora nega perfino i pro gressi dell'industria. Per questo rispetto, lo scopo del Ľ Academia è inutile o dannoso Il titolo dell' Academia. È un idiotismo. A che razza di patrioti possa piacere, Abuso che Mamiani fa dell'espressioni di filosofia italica, e italiana - L'antico moderno. Ritratto ch'egli fa di questa filosofia. È un'amplificazione retorica da declamatore. Che Ma miani 'abbia inventato o scoperto una nuova storia? Il suo giudizio è falso, o si riferisca alla scuola pitagorica: Testimonianze diFréret, -Tennemann. Degerando, Ritter, e del Dizionario delle scienze filosofiche. O s'intenda della scuola eleatica. O anche delle dot trine de' nostri filosofi riformatori al principio dell' era moderna. Conseguenze del giudizio di Mamiani intorno all'eccellenza della filosofia antica. Risposta di Mamiani a Mamiani Discussioni non filosofiche. Altre, di cui s'accenna il titolo solo o si fa un indice sommario. Paragone, che Mamiani instituisce fra l'Academia di scienze morali e po litiche, e la sua. Strana censura dell'Academia fran cese. I difetti del secolo e della nazione. Se un'A cademia li possa correggere. A chi appartenga questo officio educativo. Al carattere del secolo e della nazione partecipano paturalmente l'individui. - E il Genio stesso, Se l'Academia francese dipendesse troppo dal potere ministrativo. Fondazione Statuto. Soppressione, rinovazione, e stato attuale, - Le moltitudini di Francia. -Mamiani rinfaccia loro ingiustamente la preoccupazione dei materiali interessi. Che cosa farebbe il Conto della Rovere, qualora si trovasse nel caso di quello moltitudini, Forma dell'intelligenza francese. - Mamiani la taccia di poco idonea agli studi speculativi. Falsità o calun nia. Se moltidell'Instituto seguilino ancoraledottrino superficiali del secolo andato. L'Academia di Mamiani. Stato personale dei fondatori e socj primarj. Sono tutti indipendenti d' un nuovo genere: impiegati. -Pro blema, cheMamiani dovrebbe proporre a 'suoi colleghi. Un elogio degl' Italiani peggiore d'ogni insulto. Nuove materie di filosofia italica antica. Mamiani ac cusa di superficialità e leggerezza tutti i fisiologi. E liene per sodezza e profondità l'ignoto e l'assurdo. Domanda di un illustre scrittore piemontese. Risposta degna di un casista. - La religione di Mamiani e della sua Academia è un enigma. - Questione della sovranità e del diritto. Teoria di Mamiani. Li ottimati. Formula: Dio e la legge. Critica di questa teoria e di questa formula. Doppio senso del problema intorno alla sovranità. Un fatto di natura, che non s'è mai effet tuato. Il diploma d'ottimo e di sapiente. Dio e Dio. Anche Mamiani crede alla favola, che di Tomaso d'A quino fa un dottore della democrazia. E cita lopu scolo De regimine principum. -Ad ognuno il suo. Analisi del famoso opuscolo. Mamiani dunque non l'avea letto. Un'impertinenza del segretario Boccardo. II suo discorso su la filosofia della storia è un tessuto di contradizioni, d’arzigogoli, e d'assurdità Discussioni che non meritano il nome di filosofiche. Discorso proemiale di Mamiani.  Critica. La censura filosofica, che Mamiani fa dei tedescbi, è ingiusta ed assurda. – L'esperienzae l'Assoluto. - Fede e temerità dei filosofi tedeschi. Così ne avessero un po' l'Italiani. - I tilosofi e la rivoluzione. - I Tede hi e l'Italici. Errori di Mamiani intorno allo scetticismo. È erro Se debbano querelarsene i savj e li onesti. Quali siano i suoi confini. Chi reca guasti nelle intelligenze e nei cuori è il dogmatismo, e non lo scetticismo. Nuova descrizione, che Mamiani fa dello scetticismo. pea. Mamiani grida allo scetticismo senza conoscerlo. Che cosa dee fare per circoscrivere la vera signoria dello scetticismo. - Ideo confuse e stravolte circa la reli gione. L'asserzione di Mamiani, che il secolo torna a religiosità per impulso di ragione, è un doppio contro senso. Prove che non provano nulla. La pianta e le radici della fede. Mamiani chiama religione ciò che tutte le religioni chiamano empietà ed ateismo. Dev'essere un' ironia. La piaga © la peste dell'epoca nostra è l'ipocrisia di certi scrittori. Sarebbe tempo che Ma miani cessasse dall'equivocazione e dall'anfibologia. E facesse una professione di fede chiara e precisa. Almeno la gioventù conoscerebbe le sue guide. Pag. 238 Dottrina di Mamiani su la filosofia della storia. Qual mezzo rimanga ad un popolocorrotto per tornare alla li bertà e alla virtù civile. Il popolo, Le politiche in stituzioni, - I metodi educativi, L'incremento del sa pere commune, non pajono a Mamiani una ragione sufficiente. Egli muoveda un'ipotesi assurda. E da un'enu merazione incompiuta.Donde possa ricavarsi la soluzione delproblema. -Questione del progresso – Definizione di Mamiani. Sommario del suo primo discorso. - Con tradizione fondamentale. - Sommario del secondo discorso. Una conclusione che rovescia le premesse Se Ma miani ammetta, o no, il progresso, è un mistero. Lo affermae lo nega ad un tempo. Due grandi scoperte del professore Garelli. Un'altra del professor Torre. Li applausi dell Academia. L'eletto parto d' un gio vine e raro ingegno. Altra e più mirabile scoperta del signor Bonghi. Ê riescito a capire che i filosofi antichi non erano teologi cristiani. Fuori della chiesa catolica l'anima catolica non può trovarsi. Concetto ch'egli s'è formato della filosofia italiana. Le viscere e le croste dei dogmi cristiani. L'estremo della loro possapza re stauratrice. Il signor Bonghi lo hanno già restaurato perfettamente. Discorso proemiale del signor Boncompagni, su li officj civili della filosofia. Sommario. Diritti della ragione. Libertà della filosofia. Libero esame. Lite fra li ettici e la umana generazione. Origine e causa dello scetticismo. -Eccesso dei dogmatici edegli scettici. Me todo di combattere lo scetticismo. Se la filosofia moderna lo posseda. La filosofia e il paganesimo.  Il cristianesimo e la filosofia. Accordo della fede e della ragione. Torti del secolo XVIII. Filosofia scozzese e tedesca. La filosofia moderna non ha finora adempiuto i suoi officj. Speranza fallace di un riposo. Dove si la vera, sana, ed utile filosofia Critica di questo discorso.. Il figlio degno della madre. - Il discorso di Boncompagni è un paralogismo. Le premesse confutano la conclusione. La conclusione rovescia le premesse - Diritti della filosofia verso il cristia nesimo. Boncompagni dee riformare le premesse, o la conclusione. L'esempio degl'instauratori della filosofia moderna non prova nulla. Il metodo italianissimo dei filosofi italici ministri di Stato. Lo scetticismo è la pie tra d'inciampo anche per Boncompagni. - Cinque affer mazioni, che son cinquo falsità. Contro di chie di che combattano li scettici. Di che dubitino. Se ricono scano il progresso del pensiero umano verso la verità. Che verità e che scienza impugnino. Un altro discorso di Boncompagni su la libertà d'inse gnamento. Perchè non se no facia l'analisi. Conci liazione della libertà del pensiero con l'autorità. Tre parole convertite in principi essenziali alla vita intellet iuale e morale dell'uomo Per Boncompagni la massima parte degli uomini sono bestie. E l’Inquisizione è un Ufficio veramente santo. – L'autorità veneranda dei birri. Che risposta e che trattamento dovrebbe aspettarsi Boncompagni, se i suoi avversarj gli applicassero i suoi stessi principj Discorso di Bertrando Spaventa su i principj della filo sofia pratica di Bruno. La prima e l'unica lodė data a chi la meritava. Quel dotto discorso è la critica e la satira  più acerba della filosofia italica. Sommario. Il proe mio. Fondamento della filosofia pratica. Forme della moralità e del diritto: la verità. La prudenza. La filosofia. La legge. La giustizia pupitrice. Il governo. Il lavoro. La religione. Sviluppo della idea di Bruno nella storia della filosofia. Spinoza. Kant. Hegel. Il principio essenziale del cristianesimo. L'identità della natura divina e della natura umana è un'eresia e non un dogma. I dogmi cristiani della creazione e del l'incarnazione l'escludono. Il cristianesimo avrebbe regnato per sedici secoli, senza nè pur esistere. Ne seguirebbe che una religione nasce allorchè muore. - Lo religioni orientali non avrebbero cominciato a trionfare che su la fine del secolo passato. La rivoluzione francese e il cristianesimo. La filosofia moderna e la rivoluzione non possono dirsi una realizzazione dell'Evangelio. - I germi delle idee. Il criterio comparativo delle religioni non è il germe o la sustanza dell'idea, ma la forma del sentimento. Analogia del cristianesimo conle religioni antecedenti e con la democrazia moderna. Non bisogna chiedere, nè attribuire ad un'instituzione ciò ch'essa non è destinata a dare. Rapporto del razionalismo co ' l cri stianesimo. Legge di successione e di progresso nella storia delle religioni. - Importanza d'una questione di parole. Bandiera dell'autorità e della libertà Cicalata di un principe Torella. E il segretario la chiama elegante. Giunta peggiore della derrata. La moderazione dei sedicenti moderati. Origine e defini zione del socialismo, secondo l'onesto e moderato principe Torella. Risposta per le rime. Mamiani con la sua Academia non ha recato nessun vantaggio alla filosofia. Ha fatto grave torto all'Italia. Patriotismo fanatico ed esaggerato. E un errore nelle questioni politiche. On assurdo nelle scientifiche. Scambia l'amor della patria con una vile piacenteria. L'Italia e la filosofia moderna. Il primato dell'ignoranza. Quale dovrebb’ essere il programma filosofico di un ' Academia, che volesse meritar bene del l'Italia. Ma in Italia non si potrebbe attuare. Che cosa dovrebbero fare i politici e i filosofi patrioti. Occasione e argumento dell'opera. Nuova genía di filosofanti. Vanità de' loro sforzi, e consola zione della filosofia. Se la divisione de' giudizj in analitici e sintetici fosse già fatta da Aristotele (Rosmini ), V. O da S. Tomaso (Balmes), O da Locke (Galluppi). VII. O da Hume (Kuno Fischer ). Divario fra la teorica di Hume e di Kant, IX, Dichiarato da Kant stesso pag. Due edizioni della Critica della Ragione Pura. Stato della questione. IValore della formula: A è B; la differenza tra i giudizj analitici e sintetici non dipende dall'essere contenuto, o no, il predicato nel subjetto Nè dall'essere identico, o no, il pre dicato co ' l subjetto. V. I giudizj: Tutti i corpi sono estesi, e Tutti i corpi sono pesanti, non differiscono formalmente tra loro. Il giudizio analitico di Kant è il giudizio categorico in genere, ed il giudizio sintetico è un giudizio impossibile. Relazioni dei concetti in ordine alla loro estensione e comprensione. Il concetto di corpo include la nota della gra vità non meno che dell'estensione. IX. Vale la stessa legge per i giudizj empirici e particolari. X. Con fusione che fa Kant dell'analisi con la sintesi, e della forma sintetica con la forma contingente del giudizio. Inesattezza del divario ch'egli stabilisce fra la cognizione a posteriori, a priori, e pura. – Cognizione propriamente empirica, propriamente pura, e mista; universalità e necessità del giudizio. quale classe appartenga il giudizio: Tutti i corpi sono estesi. E della stessa classe è il giudizio: Tutti i corpi sono pesanti. Erroneo commento che fa a Kant il suo traduttore italiano. Determi ne del doppio processo intellettuale d'analisi e sintesi. Carattere differenziale dei giudizj ana litici e sintetici; concetti e giudizj primi. II carattere analitico e sintetico non può ridursi nè alla mera conversione de' giudizj, nè ad una semplice diver sità di funzione del subjetto e del predicato. Due testimonianze di Kant. Importanza della teorica del giudizio sintetico per la questione dell'ori gine delle idee. Sorte diversa ch'ebbero le due parti della dottrina kantiana. Officio dell'esperienza ne' giudizj analitici e sintetici di Kant, III. Nella sintesi empirica e pura. Valore del giudizio: Tutto ciò che avviene ha la sua causa; e necessità de' giudizj sintetici a priori in tutte le scienze.Valore de'giudizj matematici: 7 +5 = 12; La linea retta è fra due punti la più breve; Il tutto è eguale a sè stesso, e maggiore della sua parte. Carattere logico di tali giudizj. Principj della fisica, X. E della metafisica. Il mistero de' giudizj sintetici. Il problema universale della ragione pura: Come sono possibili i giudizj sintetici a priori? Se da esso dipenda l'esistenza della metafisica COUsil, Seguaci e spositori di Kant. Prima divisione che fa Cousin del giudizio; medesimezza logica e psicolo gica delle due specie. Riduzione del giudizio ana litico al categorico in genere e del sintetico all'im · possibile. Suddivisione del giudizio sintetico. Errori di Cousin nell'interpretazione de' giudizj: Tutti i corpi sono pesanti, e Ogni mutamento ha una - Non tutti i giudizj analitici sono i priori. Due corollarj di Cousin su l'origine delle co gnizioni e su la natura de' giudizj. VIII. Scambio che fa il Testa del giudizio sintetico con l'empirico e dell' analitico co' l pur'o. Objezione e risposta; confusione del carattere sperimentale con la contingenza, e del carattere puro con la necessità. Pos sibilità de'giudizj sintetici a priori; principio di cau salita. Le definizioni sono giudizj analitici sintetici. Definizioni geometriche e costruzioni. Definizioni genetiche e concezioni. non Erronea nozione del giudizio sintetico proposta dal Gal luppi con l'esempio: La nere è fredda. Erroneo paragone di questo giudizio con l'altro: triangolo ha tre angoli; assurdità del giudizio sintetico kantiano dimostrata dallo stesso Galluppi. ILa divisione del giudizio in analitico e sintetico non può desumersi nè dalla necessità o contingenza della relazione fra su bjetto e predicato, nè dall'impossibilità o possibilità dell'opposto. Non v'ha differenza per questo rispetto fra i giudizi empirici e puri. Altro pa ragone fallace tra il giudizio: La nere è freddo, e Due quantità eguali ad una terza sono eguali fin loro. - Tolto il predicato, può essere distrutta o no l'idea del subjetto cosi nei giudizj empirici come nei puri. Erra il Galluppi non meno di Hune nel determi nare quali sieno i giudizj, di cui è inconcepibile l'op posto. Confunde l ' intelletto speculativo con l'intelletto pratico. Fallacia della sua argumen tazione contro la possibilità de ' giudizj sintetici a priori. S'aggira in un circolo vizioso. Necessita fisica e necessità logica, repugnanza assoluta e repu gnanza ipotetica o relativa. Contingenza del giu dizio; predicati di qualità e predicati di azione. -Al giudizio sintetico non conviene propriamente il ca rattere di necessità, Nè il carattere di contin genza. Ed al giudizio analitico appartiene il ca rattere di necessità, e repugna quello di contingenza. Fra i concetti di cavallo alato e di monte senza valle non c'è differenza d'ordine razionale, ma d'ordine imaginativo. Le nozioni di possibi lità ed impossibilità han valore logico e non fisico.  Erronea dottrina del Galluppi su la natura della definizione, E su ' l divario ch'egli fa tra de finizione e proposizione e tra idea e segno dell'idea.  Li esempj, con cui Vacherot spiega la nozione kantiana del giudizio analitico e sintetico, valgono a scalzarne il fondamento. Sua ridu zione di tutti i giudizj analitici in puri e di tutti i sin tetici in empirici. Merito e difetto della cri tica ch'egli fa del giudizio 7 + 5 = 12. Perspicacia nell'avvertire il difetto capitale della teorica kantiana e il vero punto della questione. Erronea tuttavia è la nozione che ha il Rosmini del giudizio sintetico empirico. - Sua formula del problema dell'ideologia: Come si formino i concetti; e del giudizio primitivo: Esiste ciò che io sento. Suoi giudizj con un subjetto -sensazione ed un predicato -idea. Non sono un fatto della.coscienza, ma un'illu sione del Rosmini; Nè possono dirsi giudizj sintetici. False supposizioni ch'egli imputa vana mente a Kant. Teorica rosminiana della per cezione intellettiva de' corpi. Strana distinzione fra subjetto e concetto del subjetto; E strane conclusioni che il Rosmini ne trae.  I giudizj, con cui egli vuol risolvere il problema dell'ideologia, non sono nè primitivi, nè sintetici, nè a priori. Condizioni del problema e della sua soluzione. Nozione del giudizio sintetico, guasta dalla clau sula ch'esso debba avere per subjetto un'idea sem plice. Applicazione che ne fa il Gioberti ai giu dizj matematici. Valore del giudizio: A è eguale ad A. Eccezione del giudizio: L'essere è l ' es V. Se la realtà de ' giudizj sintetici a priori di penda dalla struttura dello spirito umano o dalla sin tesi objettiva del Gioberti. Sua tesi circa i giudizj a priori, tutti analitici rispetto alla cognizione rifles sere. . siva, e tutti sintetici rispetto alla cognizione intuitiva; Contraria a' suoi principj, in virtù de quali appartengono all'ordine della riflessione e non dell' in tuito così i giudizj sintetici come li analitici. Analisi della percezione primitiva fatta dal Reid e ri fatta da Kant. Spiegazione che dà il Gioberti del giudizio primo; mistero sopra mistero. X. Sua divisione de' giudizj sintetici a priori in assoluti e re lativi. Se il problema kantiano sia psicologica mente insolubile. Fallacia dell' argumentazione giobertiana contro il processo psicologico. Que stione dell'origine delle idee; differenza tra il fatto e la sua spiegazione  Principio della teorica. Divisione che si fa del giudizio analitico, piena di repugnanze e inefficace contro la teorica kantiana. V. Altra divisione del giudizio non meno inesatta. La differenza tra le due specie non sussiste Nè quanto al carattere di necessità o contingenza, nè quanto al riferimento dell'idea all'essere attuale o all'eterna possibilità. La materia attuale e la materia possibile. Sequela di repugnanze, che deriva dalla classificazione de' giudizj secondo che hanno objetto finito od infinito.Critica infelice che il Mamiani fa de' giudizj sintetici a pricri di Kant con vernenti la matematica E la metafisica. Divisione ch'il filosofo fa del giudizio e che disfà con li esempj. Fallacia della definizione dall'accidente. Il carattere di essenzialità o accidentalità del predicato verso del subjetto è d'ordine logico e rela tivo, non già d' ordine reale ed assoluto. Si ri duce alla relatività dei concetti di genere e di specie. Il giudizio sintetico del Peyretti è intrinseca inente falso e logicamente impossibile. Non si può mai negare ciò che si afferma senza contradirsi. Paralogismi del Peyretti a prova della tesi che tutti i giudizj empirici sono sintetici; – E della tesi che tutti i giudizj analitici sono puri. Tesi disdette dalla sua stessa teorica dell'opposizione de' giudizj. Caso di un predicato non incluso nel subjetto. La teorica dell'analisi e della sintesi, professata dal Peyretti, mal s'accorda con le sue teo riche dell'apprensione analitica e sintetica; Del l'affermazione artificiale e naturale; del giudizio primi tivo o intuitivo, e secondario o razionale; della distinzione intensiva ed estensiva delle idee. Nozione dell'analisi e della sintesi e teorica della definizione, con cui il Peyretti s' accosta alla vera idea del giudi-. zio analitico e sintetico. La divisione anche del giudizio falso in analitico e sintetico,  Fondata in una differenza affatto arbitraria e fallace tra due giudizj, Che paragonati a dovere fra loro non differiscono punto Autori da omettersi. Errori circa la forma negativa del giudizio analitico e sintetico ecirca il carattere spontaneo della sintesi e riflesso dell'analisi. Critica ch'egli fa della dottrina di Kant su i giudizj sintetici a priori E delle obje zioni mosse contro di quella dottrina dal Galluppi E dal Rosmini. Teoria ontologica del Toscano, condannata dal Gioberti E distrutta da gli esempj stessi, con cui il Toscano crede d'illustrarla. Vanagloria della scuola degli ontologi.Dottrina del Romano su i giudizj necessarj e contingenti; Su la necessità assoluta e condizionale E su la sintesi e l'analisi. Assimilazione e dissimilazione spontanea tra le percezioni. Erronea definizione dell'analisi e della sin tesi. Esempj con cui il Corleo non chiarisce, ma distrugge la sua teorica dell'assimilazione. Della. sintesi, E dell' analisi. Nesso ch'egli sta bilisce fra l'analisi e la sintesi; E contempora neità delle due funzioni. Forme principali della cognizione. Ordine di priorità e posteriorità fra la sintesi e l'analisi. Dottrina del Corleo su la sintesi riflessa; disdetta da' suoi esempii e da fatti d' esperienza commune. Differenza che si fa tra il giudizio e la sintesi ed analisi. Giu dizj che per lui non sono veri giudizj. Censura ch'egli muove alla maggior parte dei filosofi per aver confuso la sintesi ed analisi riflessa co'l giudizio. Sua scoperta della conversione de' giudizj empirici in necessarj. Analisi del giudizio: Ogni corpo è grave; E confronto coʻl suo reciproco: Ogni grave è corpo. - Correzioni e giunte del Corleo alla teorica kantiana de'giudizj analitici e sintetici, a priori ed a posteriori. Altra sua scoperta della priorizzazione de' concetti. Effetti prodigiosi della quinta percezione  e conseguenze davvero nuove della priorizzazione de'concetti. Critica delle definizioni del giudizio date da varj filosofi; Da Stuart Mill e dal Rosmini. III. Defi nizione che ne dà il Barbera. Sua teorica del giudizio analitico Identità manifesta ed occulta. Esempio del quadrato di 13.Teorica del giudizio sintetico. Officio della copula. Esempio del campanile di Pisa. Teorica della for mazione delle idee. Risoluzione dell'idea ne'suoi elementi mediante il giudizio. Attributi del su hjetto ideale e del subjetio reale. Esempio del peso dei corpi. Teorica del giudizio sintetico a priori. Vocaboli che dinotano l'ignoto. Subjetto ignoto ed attributi noti. Esempio del yocabolo. Declinazione degli studj logici in Inghilterra. - INota di Stuart Mill su la questione de'giudizj analitici e sin tetici. Condizione degli studj logici in Francia. IV. A. Garnier e C. Bailly. Dottrina di Re nouvier intorno al giudizio in genere, al giudizio cate gorico, e al giudizio analitico e sintetico. Se ogni giudizio sia analitico e sintetico insieme. Delbouf: sua teorica del giudizio sintetico E dell'ana litico.  Confusione ch'egli fa dell'uno con l'altro, Confermata da' suoi esempj. Una nuova riforina dell'insegnamento filosofico in Italia. es guaci ed avversarj di Kant in Germania Que stione de’giudizj analitici e sintetici ripigliata da Stuart Mill nella sua critica della Filosofia di Hamilton. Sue objezioni contro la teorica commune del giu dizio. Teorica sua propria; divario ch'egli am mette tra il concetto ed il fatto.Relazione tra giudizi e concetti; come i fatti possano esser materia dei giudizj. Proposizioni ch'egli trova nei fenomeni esterni; ed elementi o momenti della sua teorica del giudizio. Giudizj nuovi e giudizj ripetuti; Co pernico e Tolomeo. Attributi che racchiude il concetto. Attributi impliciti nel senso del nome; teorica della definizione. Esempio del vocabolo Precisione del linguaggio filosofico di Stuart Mill nella divisione del giudizio in analitico e sintetico. Objezioni del Krug alla teorica kantiana; esposizione della teorica sua propria. II. Contenenza originaria del predicato nel subjetto; astrazione della logica dal pensiero sintetico. Altre definizioni del giudizio analitico e sintetico. Relazione del concetto con l'objetto. Esempi che non confermano punto la tesi. Differenza tra ' giudizj sintetici ed analitici mal fondata dal Krug nell'opposizione fra objetti determinati e concetti già esistenti; E fra objetto, idea del l'objetto, e nota della sua idea. Distinzione fra il valore objettivo e subjettivo de'giudizj, male appli cata. Eposizione che si fa della teorica, non guari migliore delle altre. Sistema. In luogo di correggere, si aggrava l'inesattezza che riconosce nelle dottrine altrui. Valore teoretico e pratico della sua divisione; forme vuote della logica e forme piene della metafisica. Confusione del giudizio analitico con l'a priori. Teorica del Twesten,E del Braniss. Officio della sintesi e dell'analisi; giudizj esistenziali ed essenziali; cognizione empirica e razionale; necessità assoluta e relativa.  Brevi e giuste ossservazioni del Troxler su la classifi cazione kantiana del giudizio. Teorica del Krause: nozione inesatta del giudizio sintetico,  E del l'analitico. – Giunta del Tiberghien. Dottrina del Drobisch intorno al giudizio categorico ed ipotetico. Classificazione del giudizio analitico e sintetico fondata nell'opposizione arbitraria fra le note interne ed esterne de concetti. Teorica del Trendelen burg. Sua critica del sistema kantiano; meca 1 nismo ed organismo, composizione e sviluppo. Valore materiale e formale del giudizio. Errore del Trendelenburg nel fare analitici tutti i giudizi positivi, e tanto più i negativi. Divario essenziale fra il giudizio positivo e negativo. Carattere sin tetico attribuito erroneamente dal Trendelenburg ad ogni giudizio. Sue variazioni circa la natura < lel giudizio sintetico.Giudizj sintetici a priori; giudizj tetici ed esistenziali.Valore sintetico ed analitico de'giudizj tétici. Doppio valore anche de' giudizj esistenziali. Oscurità e confusione della teorica del Reinhold. Sistema del Beneke: differenza tra subjetto e predicato del giudizio. INozione dell'analisi e della sintesi. Contenenza qualitativa e quantitativa del predi cato nel subjetto. V. Aumento della cognizione me riante il giudizio, determinato assai male dal Beneke. Critica ch'egli fa della divisione. kantiana: enigmi sopra enigmi. Applicazione del principio d'iden tità a' giudizj analitici e sintetici. VNon ogni giudizio sintetico è fittizio. Lacuna nel sistema del Beneke. Teorica singolare e stravagante della validità del giudizio esposta dallo Zimmermann. Applicazione non meno strana ch ' egli ne fa al giudizio analitico e sintetico. Assurdità della sua classi ficazione.  Sistema dell' Ulrici: sua tesi dell'iden tità de'giudizj analitici e sintetici. Ammessa pure la differenza a parole, ma cancellata in effetto. Critica savia ch'egli avea già fatta della dottrina kantiana. Nuova teorica dello Zimmermann. Sintesi a priori ed a posteriori. For mazione di nuovi concetti mediante una nuova osservazione. Soluzione del problema dei giudizj sin tetici a priori, Fondata in falsi supposti. Conclusione che rinega il suo principio. Differenza che il Ritter introduce fia proposizione e giudizio, fra giudizio e concetto, fra concetto e rap presentazione. Significato de' vocaboli.  Intelligibile diretto e riflesso; valore del vocabolo e della proposizione. Se le proposizioni analitiche espri mano un solo concetto. V. Proposizioni analitiche e sintetiche, le quali, secondo il Ritter, non esprimono giudizj analitici e sintetici. VI. Proposizioni analiti che e abolizione de giudizj analitici. Bizzarra nozione del giudizio sintetico. Censura che fa il Ritter de giudizj sintetici a priori di Kant. Va lore objettivo e subjettivo de concetti; determinazione delle essenze individuali. X. Note essenziali e neces sarie, e note accidentali e contingenti dell'individuo. Diversità della forma analitica de' giudizj neces F 1 sarj e contingenti. Autorità di Platone mal in vocata dal Ritter. Valore variabile delle sue proposizioni sintetiche; negazione della scienza. - Teorica dell' Ueberweg. Teorica del Lindner: giunte alla nozione kantiana de' giudizj analitici e sin tetici.Se campo proprio della logica sia il giu dizio analitico e non il sintetico. Altre definizioni 1 1 del Lindner, che sopprimono ogni differenza logica fra i giudizj analitici e sintetici. Relatività naturale della sintesi e dell'analisi. Questioni da trattare; criterio e divisione. II. Appli cazione del carattere analitico e sintetico ai giudizj uni versali, particolari, e singolari. Ai positivi e negativi.  Agli infiniti Ai categorici, ipo tetici, e disgiuntivi. Riduzione del giudizio ca tegorico in ipotetico, e dell'ipotetico in disgiuntivo. Modalità de ' giudizj secondo la scuola kantiana e secondo la scuola peripatetica. Esclusione del carattere sintetico ed analitico da' giudizj modali. Origine, scopo, fondamenti del criticismo kan tiano. Suè relazioni con li altri sistemi, e suoi pregi. Suoi difetti: dualismo fra subjetto ed objetto della cognizione. Unità e dualità ori ginaria della coscienza; identità e distinzione del su bjetto e dell' objetto. Altre forme del dualismo kantiano; attinenze della ragione co ' l senso nell' unità dell' io. XV. Realtà ed objettività, materia e forma della cognizione. XVI. Il criticismo kantiano e il problema capitale della filosofia. Esempio del principio di causalità. From here both the hot and probably also the cold water were conducted to the bath tub on the other side of the partition wall. 550  Since this wall between  l  and  20  is heavily restored, no remains of the pipes or even openings for them have survived. Whether these features were removed already in antiquity, either before the eruption or soon after it by looters or in connection with the excavation is unknown, due to the lack of reports. In corridor  h²  two concave and  parallel indentations from two round features such as pipes (diam. 0.04 m, preserved length 1.2 m) run in a north-south direction along the west wall at a height of 1.1 m with a slight downward incline (  Fig. 89 ). The form and dimension of these indentations indicate that they stem from two parallelly- placed lead pipes, running along the west wall of the corridor. Since the wall at both ends of these indentations shows modern repairs, the original length and the starting and end points can no longer be established. But since the repair to the south of these indentations covers the back side of the east wall of kitchen  l , it could be very probable that the pipes that made these indentations came from the boiler in front of the north wall of the kitchen and left that room through its east wall. The repaired area to the north corresponds to the rear side of the niche for the   schola labrum  (  Fig. 56  ). 551  To the north of this 0.95 m wide repaired area of the wall, no indentations can be found. Thus it seems probable that the supposed pipes led into  caldarium   20  in the niche of the   schola labrum  to supply this element of the bath with water as well.Ausonio Franchi. Cristoforo di Giovan Battista Bonavino. Cristoforo Bonavino. Keywords: la filosofia delle scuole italiane, i due massoni, giudizio, sentimento, storia della filosofia, storia della filosofia italiana, risorgimento, rito italiano simbolico, name index in Austonio Franchi’s works. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonavino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Boniolo – l’atleta del vicolo -- le regole e il sudore – filosofia del sudore -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Grice: “I like Boniolo; especially that he takes ‘antichita’ seriously – he is right on the emphasis on ‘argomentare’ but obviously the balance shoud be between epagoge and diagoge – I would like to see more diagoge! He has philosophised on other topics, too!” Cresciuto nel Petrarca Basket, debutta in prima squadra diventando in quell'anno il più giovane giocatore di Serie A. Giocò con il Petrarca Basket. Presidente. Laureato a Padova, insegna a Padova, Roma, Milano, e Ferrara. Studia I fondamenti filosofici della biomedicina e sulle loro implicazioni etiche, in collaborazione con diversi istituti e fondazioni mediche milanesi. Svolge ricerca in ambito filosofico, in particolare sulla filosofia della ricerca biomedica e della pratica clinica, nonché di etica pubblica e individuale. Si è occupato anche di filosofia della scienza di filosofia della fisica, di storia della filosofia e della fisica contemporanee. Il suo lavoro  è documentato da saggi pubblicati su riviste.  Membro dell'Accademia dei Concordi di Rovigo.  Altre opere: “Mach e Einstein. Spazio e massa gravitante” (Armando Editore); “Linguaggio, realtà, esperimento” (Piovan); “Metodo e rappresentazioni del mondo. Per un'altra filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Questioni di filosofia e di metodologia delle scienze sociali” (Borla); Introduzione alla filosofia della scienza” (Bruno Mondadori); “Il limite e il ribelle: etica, naturalismo, darwinismo” (Cortina);. Argomentare” (Bruno Mondadori); “Individuo e persona. Tre saggi su chi siamo” (Bompiani); “Strumenti per ragionare: logica e teoria dell'argomentazione” (Bruno Mondadori); “Il pulpito e la piazza. Democrazia, deliberazione e scienze della vita” (Cortina); “Le regole e il sudore. Divagazioni su sport e filosofia” (Raffaello Cortina); “Strumenti per ragionare” (Pearson Italia spa); “Conoscere per vivere. Istruzioni per sopravvivere all'ignoranza” (Meltemi); “Filosofia della fisica, Bruno Mondadori, J. von Neumann, I fondamenti matematici della meccanica quantistica, Il Poligrafo); Storia e filosofia della scienza. Un possibile scenario italiano” (Le Scienze); “La legge di natura. Analisi storico-critica di un concetto” (McGraw Hill); “Laicità. Una geografia delle nostre radici” (Einaudi); “Filosofia e scienze della vita. Un'analisi dei fondamenti della biologia e della medicina” (Bruno Mondadori); “Passaggi. Storia ed evoluzione del concetto di morte cerebrale” (Il Pensiero Scientifico Editore); “Etica alle frontiere della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole” (Mondadori); Consulenza etica e decision-making clinico. Per comprendere e agire in epoca di medicina personalizzata” Pearson Italia spa,.Poincaré, Opere epistemologiche, Mimesis. Mimesis,. Etica alle frontiere della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole (Mondadori).  Apoxyómenos Apoxyomenos Pio-Clementino Inv1185.jpg AutoreLisippo DataCopia latina dell'età claudia da un originale bronzeo greco del 330-320 a.C. circa Materialemarmo pentelico Altezza205 cm UbicazioneMusei Vaticani, Città del Vaticano Coordinate41°54′24.23″N 12°27′12.65″E L'Apoxyómenos (traslitterazione dal participio grecoἀποξυόμενος, "colui che si deterge") è una statua bronzea di Lisippo, databile al 330-320 a.C. circa e oggi nota solo da una copia marmorea (marmo pentelico) di età claudia del Museo Pio-Clementinonella Città del Vaticano. Si conoscono inoltre varie copie con varianti.   Dettaglio  La testa Storia Modifica La statua bronzea dell'Apoxyómenos, assieme ad un'altra statua di Lisippo che rappresentava un leonegiacente, si trovò, in epoca successiva, ad abbellire e ornare le terme di Agrippa in Roma. Tiberio, affascinato dall'opera, provò a portarla nel suo palazzosul Palatino, ma dovette poi ricollocarla a posto per le proteste dei Romani.  Una versione marmorea fu rinvenuta nel 1849 nel quartiere romano Trastevere, nel vicolo delle Palme, che da quel ritrovamento, prese poi il nome di "vicolo dell'Atleta".Unitamente alla statua furono ritrovate anche le statue del Toro frammentario e il Cavallo di bronzo.  L'opera venne esposta, quasi subito, nei Musei Vaticani[3] (Città del Vaticano), inizialmente nella camera del Mercurio, nel cortile ottagonale, quindi fu rimossa e spostata al Braccio Nuovo. Nel 1924 fece il percorso a ritroso e ritornò nella Camera dell'Hermes, dove ci fu un nuovo, più accurato restauro effettuato dal Galli. Questi, tra le altre cose, tolse il dado posto dal Tenerani nella mano destra, provvide a rifare lo strigile, effettuò la sostituzione di vari perni esistenti e infine, vi integrò molto accuratamente le dita distese. Nel 1932 la statua trovò la sua collocazione definitiva nella stanza più propriamente detta Gabinetto dell'Apoxyómenos. Nel 1994 la scultura fu oggetto di una profonda e completa opera di pulitura.  La statua fin dal suo ritrovamento ebbe subito una grandissima notorietà mondiale: di essa fu diffuso il calco in gesso, in numerose copie e in varie parti d'Europa. Una copia del calco, venne richiesta anche dallo scultore Shakespeare Wood, al quale venne donata, per essere poi collocata nell'Accademia di Belle Arti di Madras. In tale occasione e per tale finalità fu realizzata una copia cosiddetta "forma buona", vale a dire, una particolare matrice in gesso; di questa operazione, rimasero visibili le tracce fino a quando fu effettuato l'ultimo restauro.  Una variante del tipo dell'Apoxyómenos è il cosiddetto Atleta di Lussino, un originale bronzeo trovato nel 1996. Una più simile a quest'ultima, ma con le braccia reggenti un vaso si trova nella galleria degli Uffizi.  Descrizione Modifica L'Apoxyómenos raffigura un giovane atleta nell'atto di detergersi il corpo con un raschietto di metallo, che i Greci chiamavano ξύστρα e i Romani strigilis, in italiano striglia.[4] Era uno strumento dell'epoca, di metallo, ferro o bronzo, che era usato solo dagli uomini e, principalmente, dagli atleti per pulirsi dalla polvere, dal sudore e dall'olio in eccesso che veniva spalmato sulla pelle prima delle gare di lotta.[1] L'atleta è quindi raffigurato in un momento successivo alla competizione, in un atto che accomuna vincitore e vinto.[4]  La versione dei Musei Vaticani si presume sia stata eseguita in un'officina romana di buona qualità, pure se, ad una più attenta analisi, resta qualche piccola imperfezione e decadimento di livello; ne è un particolare esempio la resa della zona interna del braccio sinistro. La statua risulta nella sua totalità sostanzialmente completa e tuttora in condizioni molto buone. Piccoli particolari rovinati si possono riscontrare nella punta del naso, mancante, diverse scheggiature relative all'orecchio sinistro, ai capelli, a una delle mascelle e anche allo zigomo sinistro. Esistono due fratture sul braccio destro; una è situata alla metà circa del bicipite e una seconda sopra il polso. Il braccio sinistro riporta una frattura alla spalla, dove si possono anche notare piccole perdite di materiale e una seconda frattura al polso.  Su una vasta zona dell'avambraccio destro sono evidenti le tracce di leggere corrosioni e di un'antica azione del fuoco. In una delle mani mancano tutte le dita e si notano fori di perni che risalgono ad un precedente restauro.  Mancano anche il pene e una parte dei genitali nella zona inferiore. La gamba sinistra rivela una frattura sotto l'anca. La gamba destra rivela due fratture; sotto la caviglia e sotto il ginocchio.  Stile Modifica Col gesto di portare in avanti le braccia (tesa la destra e piegata la sinistra), la figura segnò una rottura definitiva con la tradizionale frontalità dell'arte greca: le statue precedenti avevano infatti il punto di vista ottimale davanti (un retaggio delle collocazioni dei simulacri nelle celle dei templi), mentre in questo caso per godere appieno del soggetto si deve girargli intorno. Con tale innovazione l'opera è considerata la prima scultura pienamente a tutto tondo dell'arte greca.  La figura si muove ormai nello spazio con una grande naturalezza, con una posizione a contrapposto che deriva dal Doriforo di Policleto; in questo caso però entrambe le gambe sostengono l'atleta e la sua figura è leggermente inarcata verso la sua sinistra, seguendo quel gusto per la dinamica e l'instabilità maturato da Skopas qualche anno prima. Esso si protende nello spazio con audacia, col peso caricato sulla gamba sinistra (aiutata da un sostegno a forma di tronco d'albero) e con una lieve torsione del busto, che spezza irrimediabilmente la razionalità del chiasmopolicleteo, cosicché i pesi non sono più distribuiti con simmetria sull'asse mediano. Il corpo dell'opera è percorso da una linea di forza ondulata e sinuosa, che dà l'impressione allo spettatore che l'opera possa in qualche modo andargli incontro.  Il corpo è snello, con una testa più piccola del tradizionale 1/8 dell'altezza del canone di Policleto, in modo da assecondare un'innovativa visione prospettica, che tiene conto del punto di vista dello spettatore piuttosto che della reale antropometria della figura. Scrisse a tale proposito Plinio che Lisippo «soleva dire comunemente che essi [gli scultori a lui precedenti] riproducevano gli uomini come erano, ed egli invece come all'occhio appaiono essere» (Naturalis Historia).  Apoxyomenos, su museivaticani.va. URL consultato il 28 luglio 2017. ^ Vicolo dell'atleta, su romasegreta.it. URL consultato il 28 luglio 2017. ^ a b Apoxyómenos, su treccani.it, Treccani. URL consultato il 28 luglio 2017. ^ a b Lisippo di Scicione: l’Apoxyomenos, su instoria.it. URL consultato il 28 luglio 2017. Voci correlate Modifica Lisippo Policleto Scopas Atleta di Lussino Strigile Borrelli, APOXYOMENOS, in Enciclopedia dell'Arte Antica, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1958. Modifica su Wikidata Paolo Moreno, APOXYOMENOS, in Enciclopedia dell'Arte Antica, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1994. Portale Scultura: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di scultura Ultima modifica 15 giorni fa di Botcrux. Doriforo scultura di Policleto  Atleta di Lussino scultura greca  Eros con l'arco Il contenutoGiovanni Boniolo. Keywords: le regole e il sudore, sweat, sudore, instrument to oil, and get sweat off, strigila, strigil, cricket, golf, football. Grice, captain of the football team at Corpus Christi. His philosophy tutor taught him to play golf. Competed in cricketshire for Oxfordshire. Founding member of the Demi-Johns, ‘philosopher and cricketer’, ‘cricketer and philosopher’. Sluga learns cricket from Grice. References to cricket in THE TIMES. ‘rules of games’ – “The conception of values” – rule, “we don’t like rules, except rules in games and to keep quiet in colleges!” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boniolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bonomi – i quattro elementi – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Bonomi is undoubtedly a Griceian – my favourite is his account of the copula – as in ‘The wrestlers are good’ – in terms of what Bonomi, after Donato, calls ‘aspetto’ – S is P, S was P, S will be P, Be P!, and so on – Most of his philosophising is Griceian, such as his explorations on what he calls ‘the ways of reference,’ ‘image’ and ‘name’ in terms of  ‘significato,’ and ‘rappresentazione,’ – he is a Griceian in that he respects ‘la struttura logica’ and leaves whatever does not fit to the implicaturum!”  Insegna a Milano. Nei lavori di filosofia del linguaggio (“Le vie del riferimento” – Milano, Bompiani – “Universi di discorso” – Milano, Feltrinelli) concentra il proprio interesse verso il ruolo che l'apparato concettuale svolge nella determinazione dei contenuti semantici grazie ai quali ci riferiamo a oggetti ed eventi del mondo circostante.  Il suo saggi teoreticamente più impegnativo (“Eventi mentali”, Milano, Il Saggiatore) tratta invece delle modalità logiche che sono alla base delle procedure con cui, nel linguaggio, rappresentiamo i contenuti cognitivi di altri soggetti. Si è poi occupato della struttura semantica degli universi narrativi, concentrandosi in particolare sul ruolo che hanno le cosiddette espressioni indicali nel determinare la struttura spazio-temporale di un testo  (“Lo spirito della narrazione”, Bompiani).  Un saggio di semantica formale è dedicato alla struttura degli enunciati temporali (“Tempo e linguaggio. Introduzione alla semantica del tempo e dell'aspetto verbale”, Bruno Mondatori). A metà strada fra realtà autobiografica e immaginazione si colloca invece la opera narrativa (“Io e Mr Parky”, Bompiani), nella quale si descrivono i mutamenti che intervengono nella vita di una persona che scopre di essere affetta da una patologia neurodegenerativa.  Altre opere: “Esistenza e struttura, saggio su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano); “Sintassi e semantica nella grammatica tras-formazionale” (Milano, Il Saggiatore); “Le immagini dei nomi” (Milano, Garzanti). “Gli analitici lo fanno meglio. Le ragioni di un successo crescente anche tra i filosofi italiani cresciuti nella tradizione continentale, in La Stampa. Scuola di Milano. A DARK and mysterious art, called Alchemy,  which originated with the Arabian sages  about the seventh century, was the parent of  the brilliant and enchanting science of Che-  Baistay.   Philosophers of the polemical schools main-  tained that Fire, Air, Earth, and Water, were  the Four Elements of Nature; but the disciples  of Alchemy denied the validity of this doctrine,  and asserted that Salt, Sulphur, and Mercury,  were the Three Elements, from whose admixture  or union emanated the various productions of  the a,nima.l, vegetable, and mineral kingdoms.   Both notions were erroneous, as the sequel  will prove, but that of the alchemists rapidly  excited intense interest, because it led to the  performance of curious experiments, and to the  observance of strange phenomena attendant  upon the mixture of adds, salts, spirits, and  metala   ^ B  U^ im^ pROMB golci^ ami ieSd findk td  hrrfr^ V>f»^^ duit tiie noe afl»adt»iiL of d  (ftimdhf fA Salt, Salphur, and Mercnrr of tl  ^/r»#» ii^aS wr/tUd eaaase ite TraBSHntaciija ini   Th^» ffAvht^mt^f therefore, consfcroctei powe  fifl f^rrirt^'^^ wvfmUid curious stills^ alembic  I'i^.hdn, t^titf'^)tUmf and much costly and con  fillf'Mf^d h^pnmim for extractrug strong acid  «nJlM, Mifid w<ilvt»fif.«, from minerals and earths.   A1jI»mI ljy llu^Mo tliny (jommenced an arduox  MhrtH'li llihiHwIuMd. mII Nature, for an imaginai   substance, which they named the Philosopher's  stone; a minute fragment of this miracle of art,  when discovered, and thrown upon molten lead,  was destined to alter the proportions of its three  supposed elements, to cleanse it fix)m impurity  and dross, and transmute it into pure and efful-  gent gold   From the laboratories of Arabia, the prin-  ciples of this seductive art soon spread over  Europe, and all ranks of society joined in wild  pursuit of the golden phantom for a long succes-  sion of ages; vain was their incessant toil and  labour, it eluded their anxious grasp, and instead  of enjoying riches and splendour, they invariably  languished in poverty and misery.   The alchemists, baffled in the acquisition of  metallic treasure, sought after a powerful liquid  for dissolving all things; but this was quickly  abandoned, because an Universal solvent could  not be retained in their retorts or crucibles.   Ultiniately they dared to think Immortality  within their reach, and presumptuously endea-  voured to prepare a medicine to prevent the  decay of nature, and prolong life to an indefinite  extent; but disease and death were the grim  attendants upon the operators, who trusted to obtain an Elixir of life amidst the poisozi^  fiimes of the furnace.   Such were the three grand objects of alchern^^^  art, and though abortive in regard to their at:::;^  ticipated results, yet productive of the good eflFec:^  of inducing philosophers to descend from disput^-'^  upon words, to experiments upon things.   Accordingly, out of the vast mass of intricat^^  materials accumulated by the alchemists, a fe^^'  master minds were enabled to select, examin^^  and classify valuable facts, striking experimentsf^  and wonderful phenomena, which had been  either abandoned or forgotten during the in-  fatuated pursuits now briefly described.   The gradual introduction of metallic pre-  parations into Medicine, as substitutes for the  drugs and simples of its ancient practice, and of  others into the arts and manufactures, conjoined  with the publication of essays concerning these  and other experimental facts, eventually drew  the attention of civilized society to the utility of  the labours of the philosophers, who engaged  upon the ruins of the once dearly cherished, yet  delusive art, and in an incredibly short time,  like the fabled Phoenix of Arabia, Chemistry  soared from the ashes of Alchemy. Chemistiy, guided by accurate experiment  sound theory, has attained its just rank in  "^^ circle of the sciences, and has proved the  ^^^Unate connexion of its beautiful facts and  ^^^^^^trines, with the wonderful phenomena of the  ^^^^d, and their great utility when judiciously  applied to the arts of life, in aid of the wants,  ^^^orts, and luxuries of mankind.   The votary of Chemistry is not chained to  ^Q flaming furnace in fruitless labour after gold,  ^or compelled to invoke witchcraft and magic  for the production of an universal solvent, nor  immured in the dark laboratory, amidst deadly  exhalations, to discover the art of prolonging  life; no! in this happy age, the fetters of  ignorance and superstition are shattered by the  powerful hand of Truth, and he comes forth  with freedom into the glowing sunlight of Phi-  losophy, as the servant and interpreter of  Nature; he looks abroad into the rich and mag-  nificent Universe, calls the delightful scenery all  his own, the mountains, the valleys, the oceans,  the rivers, and the sky; through these wide  bounds he is free at will to choose   Whate'er bright spoils the florid earth contains,  Whatever the* waters, or the ambient air. All present him with perfect instances of tb^  consummate wisdom of the Almighty God, wb^  created a World so fraught with beauty, and \K  their examination he gains materials for refle^^  tion and research, which, if properly applied axx*  pursued, not only enlighten and adorn, hv  exalt and purify his mind, teaching him to ap  preciate the miraculous workings of an Omid  potent and Eternal Power.   Chemisfay is the most instructive and de  lightfiil study that can be pursued, because it i  purely a science of Experiment; no anticipatioit  can be formed as to the results which will ensu^  upon the presentation of different substances U  each other.   By making experiments with great attentior  and accuracy, and intently studying the results,  philosophers soon discovered the real nature oi  the Four Ancient, and the Three Alchemical  Elements; a short account of the conclusiom  which are thus established will furnish a correct  notion of the modem meaning of the term  Elements, which will frequently occur during  the present inquiry.   Fire is not a peculiar or distinct principle,  but a result of intense attraction between two      i   '- or Q^Qpe substancea Air is a mixture of two   S^^QB, called Oxygen and Nitrogen. Earth is a   ooQapound of Oxygen and numerous Metala   " ^ter is a compound of Oxygen and a gas *   ^ed Hydrogen.   Salt is a compound of a vapour called Ohio-   '^e, and a metal called Sodiimi; but the com-   P^xxents of Sulphur and Mercury are unknown,   "^^lefore these two substances are called Ele-   °^^xits, to denote that they have not been   8*Udysed, and in this acceptation of the term   C^Xygen, Nitrogen, Hydrogen, Metals, and several   ^ther substances, are Elements; altogether there   ^e Fifty -six such Elements: their names are   shown in the following list. Aluminum. A metal thus named from the Latin  dt/u/men, clay.   Antdcont. a metal thus named from the Greek  am, agoMisty and imvos, movJc, because  several monks were poisoned by its preparations.  Arsenic. A metal thus named from the Qmk   apcrsytKoy, powerful, on aoooont of iti   strengA aa a poison.  Bariu^l a metal extracted from Baiyta^ ft   heavy mineral thus named frx>m the Gieekj   ^apvs, weight.  Bismuth. A metal said to be thus named byihe   German miners, from wiesarruitte, a Uoomr   ing meadow, because of the variegatied   hues of its tarnish.  Boron. A non-metallic combustible, obtained   from Borax, a substance so called from the   Arabic, burvJc, brillicmt,  Bromink a non-metallic incombustible liquid. Its name is derived from the Greek, Spufjoi,   stench, on account of the insupportable   odour of its vapour.  Cadmium. A metal thus named from the Greek   xaSjw.gia, cola/mine, an ore of zinc.  Calcium. A metal thus named from the Latin   calx, Ivme.  Carbon. A non-metallic combustible, thus   named from the Latin carbo, coaL  Cerium. A metal thus named in honour of the   planet Ceres.  Chlorine. A non-metallic incombustible vapour, thus called from the Greek yO^^pos, green, in  aUusion to its colour.   HRomuM. A metal thus named from the Greek  XP<»f^oC) colour, on account of the varied  hues which its compounds assume.   OBALT. A metal thus named after Kobold, a  sprite or gnome of the German mines. OLUMBIUM. A metal thus named from its dis-  covery in a mineral from CoVwmbia,   DPPER A metal thus named from being ori-  ginally wrought in Cyprus.   DDYMITJM. A metal thus named from SiJiz/Aoi,  twins, on account of its resemblance to  Lantanum. LUORINK A non-metallic iminflammable va-  pour, extracted from fluor-spa/r,   LUCINUM. A metal extracted from a mineral  named Glucina; a term derived from the  Greek yXvKv;, sweet, on account of such  taste being communicated by its com-  pounds.   DLD. A metal the etymology of whose 5tiame is  uncertain. YDROGEN. A non-metallic inflammable-: gas,  and being an element of water, it is thus  called from the Greek if^cjp, water, t^d  yBvcj, to generate.   K  Bume a red colour; hence ite name tiOM   ' the Greek ^ dSw», a rose.   Selenium. A non-metallic inflammable ela  ment, thus named in honour of the moOE  from the Greek atMvn, the nwon.  SrucRTM. A metal thus named from the Latin   SlLTXB. A metfd, ihe oii^ of whose name is   obecnra.  SoDiuiL A metal obtained from the ashes oJ   a plant called the solaola «m2a.  StbontiuU. a metal extracted from a minera]   discoTersd at j%vn<Ja«.  Sdlphdb. a non-metaUio cnmbustible, whoBC   name is probably of Arabic eztntct^on.  Tbxlukium. a metal thus named in honour o:   the Earth, from the Latin TeUAia, the earth.  Thobintju. a metal thus named in honour o:   the Saxon deitj Thor.  Tin. a metal, the origin of whose name is t   matter of doubt  TiTANiUH. A metal thus named in honour o:   the Tita/ns of heathen mythology,  TtraGSTENUM. A metal thus named from th<   Swedish word tUTigaten, heavy-stone, fron   which it was extracted.    ^Hanium. a metal thus named in honour of  the planet Uranus,   ^Akadium. a metal thus najned in honour of  Vcmadis, a Scandinavian deity.   TTranjM. A metal extracted from a mineral  found at Ytterby.   ZlKa A metal supposed to be thus named from  the Grerman zi/nJcen, ruiUa.   ZmcoKTCTM. A metal obtained from a gem  called zircoon, by the Cingalese, in allu-  sion to its four-cornered shape.   By far the greater number of the above  host of elements have been elicited by chemical  analysis; very few are presented absolutely pure  by Nature.   The Elements may be thus classed:  L Forty-four Metals, Aluminum, Antimony,  Arsenic, Barium, Bismuth, Cadmium, Calcium,  Cerium, Chromium, Cobalt, Columbium, Cop-  per, Didymium, Glucinum, Gold, Iridium, Iron,  Lantanum, Lead, Lithium, Magnesium, Man-  ganesium. Mercury, Molybdenum, Nickel, Os-  mium, Palladium, Platinum, Potassium, Rho-  dium, Silicium, Silver, Sodium, Strontium, Tel-  lurium, Thorinum, Tin, Titanium, Tungstenmn,     14   Cnac^rcoL TjoimSizsl. YmrmB Zsnc, and 1   IL Tla^ie Gaae&. HrdrQeoL Qo?ai. v   IIL Two Vapcrais. CIjctom* awi FhuHin^   V. fSx NoEHiXfcetallic s^aA^ Baran. Cuboi  l^/ijlx*^; Pb</«]>lKAi2£, Selfiimmi. zuA Solphur.   Tl^ H*JpporteirE fA combosdon are BromiiM  CJU^^riuLtf;; FliK/nne, Iodine, and QxygtoL   Ti><<:; O/tnlHutibl^s are. Boron. CarlMMi, H]  dr'>g<^^ Vhf^hfjmu^ Selenium, and Snlphm:   It miitst fie particularly remembered that tli  (itM^mhA doe« not affirm these suhstances to I  Um^ Ai/fmif^f or AWJute Elements of Xature  ou iiit', ^yyutrary, }kh d^r/^ms it extremely probabl  tliiit th'ry rrjAy }>^5 aiialysed or decomposed i  the ^y;ijr«-r; of time, but until this be effectei  he «tyl<?« them Elements for convenience <  diw'.'ijwjion, and as a confession of the limits <  hiii aiialyti/;al skilL   Tlie (yliemist investigatf^js the habitudes <  tlies^i KlefrK^itH, dis^^^ivers how they combine 1  form (Join(>oijndH, and how these combine t  form I)oubl(} compounds; he ascertains th  Weight in which tliesc Primary and Secondai   combinations ensue, and how the elements of  all known compounds may be separated; he  determines the laws which preside over all  these changes, and studies to apply such know-  ledge to the interpretation of natural pheno-  mena, and to useful purposes in the arts of Ufe.  Throughout these extensive researches the  Chemist depends entirely upon Experiment;  and the marvels which it reveals are referrible  to the exertion of a power which promotes union  between elements and compounds, even though  their natures be strongly opposed.   This power is called Chemical Attraction,  Attraction of Composition, or Chemical Affinity,  the latter term being used in a figurative sense,  to suggest the idea of peculiar attachments  between different substances, under the influ-  ence of which they combine so that their indi-  vidual characters are totally changed and dis-  guised.   Thus, the Elements Hydrogen and Oxygen,  are gases viewless as air, the one combustible,  the other incombustible, and they are opposed  in other respects, but they have mutual affinity,  and combine to form the liquid Compound  called Water. Wikipedia Ricerca Quattro elementi Lingua Segui Modifica Il riferimento a quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) è comune a tutte le cosmogonie.  Tanto l'Oriente quanto l'Occidente hanno concepito una stretta connessione tra il microcosmo umano e il macrocosmo naturale. Dall'equilibrio degli elementi dipendeva la vita della specie umana e la sopravvivenza del cosmo: l'universo ordinato, sorto dal caos, era governato da personificazioni divinizzate dei quattro elementi.[1]   Tiziano Concerto campestre, 1509, Parigi, Museo del Louvre  La donna alla fonte è una personificazione dell'Acqua. Il suonatore di liuto rappresenta il Fuoco. L'uomo con i capelli scompigliati dal vento simboleggia l'Aria. La donna di spalle raffigura la Terra.[2] Storia del concetto in Occidente Modifica «Uno dei sette sapienti, Talete di Mileto, indicò nell'acqua il principio di ogni cosa, Eraclito nel fuoco, i sacerdoti magi nell'acqua e nel fuoco, Euripide […] nell'aria e nella terra. Pitagora in verità, Empedocle, Epicarmo e altri filosofi della natura sostennero che gli elementi primordiali sono quattro, aria fuoco terra acqua.»  (Vitruvio, De architectura, libro VIII, pref.) Nella tradizione ellenica gli elementi sono quattro: il fuoco (Fire symbol (alchemical).svg), la terra (Earth symbol (alchemical).svg), l'aria (Air symbol (alchemical).svg), e l'acqua (Water symbol (alchemical).svg).  Rappresentano nella filosofia greca, nell'aritmetica, nella geometria, nella medicina, nella psicologia, nell'alchimia, nella chimica, nell'astrologia e nella religione i regni del cosmo, in cui tutte le cose esistono e consistono.  Empedocle Modifica Platone sembra che si riferisca agli elementi con il termine stoicheia, rifacendosi alla loro origine presocratica. Essi infatti si trovano già elencati dal filosofo ionico Anassimene di Mileto e poi da Empedocle di Girgenti, il primo a proporre quattro elementi che chiama rizòmata (rizoma al plurale) "radici" di tutte le cose, immutabili ed eterne.  «Empedocle occupa un posto a parte nella storia della filosofia presocratica. Se si prescinde da quella figura poco conosciuta e per qualche verso mitica che è Pitagora, egli appare in effetti il primo autore dell'Antichità a voler riunire contemporaneamente in un solo e medesimo sistema concezioni filosofiche e credenze religiose. [....] nessun pensatore prima di lui aveva inserito all'interno di un quadro filosofico questa corrente di idee mistiche delle quali si troverà più tardi l'eco nelle iscrizioni funerarie dell'Italia meridionale e nei dialoghi di Platone: per Empedocle, infatti, come per gli anonimi autori delle iscrizioni funerarie, l'uomo, essendo di origine divina, non raggiungerà la vera felicità che dopo la morte, quando si riunirà alla compagnia degli dèi.[3]»  Afferma Empedocle:  «Conosci innanzitutto la quadruplice radice Di tutte le cose: Zeus è il fuoco luminoso, Era madre della vita, e poi Idoneo, Nesti infine, alle cui sorgenti i mortali bevono»[4]  Secondo una interpretazione Empedocle indicherebbe Zeus, il dio della luce celeste come il Fuoco, Era, la sposa di Zeus è l'Aria, Edoneo (Ade), il dio degli inferi, la Terra e infine Nesti (Persefone), l'Acqua.  Secondo altri interpreti i quattro elementi designerebbero divinità diverse: il fuoco (Ade), l'aria(Zeus), la terra (Era) e l'acqua (Nesti-Persefone[5]).  L'unione di tali radici determina la nascita delle cose e la loro separazione, la morte. Si tratta perciò di apparenti nascite e apparenti morti, dal momento che l'Essere (le radici) non si crea e non si distrugge, ma è soltanto in continua trasformazione.  L'aggregazione e la disgregazione delle radici sono determinate dalle due forze cosmiche e divine Amore e Discordia (o Odio), secondo un processo ciclico eterno. In una prima fase, tutti gli elementi e le due forze cosmiche sono riunite in un Tutto omogeneo, nello Sfero, il regno dove predomina l'Amore. Ad un certo punto, sotto l'azione della Discordia, inizia una progressiva separazione delle radici. L'azione della Discordia, non è ancora distruttiva, dal momento che le si oppone la forza dell'Amore, in un equilibrio variabile che determina la nascita e la morte delle cose, e con esse quindi il nostro mondo. Quando poi la Discordia prende il sopravvento sull'Amore, e ne annulla l'influenza, si giunge al Caos, dove regna la Discordia e dove è la dissoluzione di tutta la materia. A tal punto il ciclo continua grazie ad un nuovo intervento dell'Amore che riporta il mondo alla condizione intermedia in cui le due forze cosmiche si trovano in nuovo equilibrio che dà nuovamente vita al mondo. Infine, quando l'Amore si impone ancora totalmente sulla Discordia si ritorna alla condizione iniziale dello Sfero. Da qui il ciclo ricomincia.[6]  Il processo che porta alla formazione del mondo è quindi una progressiva aggregazione delle radici. Tale unione, lungi dall'avere un benché minimo carattere finalistico, è assolutamente casuale. E tale casualità si evidenzia a proposito degli esseri viventi. All'inizio infatti le radici si uniscono a formare arti e membra separati, che solo in seguito si uniranno, sempre casualmente tra di loro. Nascono così mostri di ogni specie (come ad esempio il Minotauro), che, dice Empedocle quasi anticipando Charles Darwin, sono scomparsi solo perché una selezione naturale favorisce alcune forme di vita rispetto ad altre, meglio organizzate e perciò più adatte alla sopravvivenza.[7]  Le quattro radici sono anche alla base della gnoseologia di Empedocle. Egli infatti sostenne che i processi della percezione sensibile (modificata dagli oggetti esterni) e della conoscenza razionale fossero possibili solo in quanto esisteva una identità di struttura fisica e metafisica tra il soggetto conoscente, ossia l'uomo, e l'oggetto conosciuto, ossia gli enti della natura. Sia l'uomo che gli enti erano formati da analoghe mescolanze quantitative delle quattro radici ed erano mossi dalle medesime forze attrattive e repulsive. Questa omogeneità rendeva possibile il processo della conoscenza umana, che si basava dunque sul criterio del simile, tesi esattamente opposta a quella di Anassagora: l'uomo conosceva le cose perché esse erano simili a lui. Infatti così affermò Empedocle: «noi conosciamo la terra con la terra, l'acqua con l'acqua, il fuoco con il fuoco, l'amore con l'amore e l'odio con l'odio»[8].  Ad ognuno di essi Platone associò nel Timeo uno dei solidi platonici: il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, l'ottaedro all'aria, l'icosaedro all'acqua.[9]  A questi quattro elementi Aristotele ne aggiungerà un quinto (la quintessenza medioevale) che egli chiamerà etere e che costituisce la materia delle sfere celesti.  La tetraktys pitagorica Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tetraktys. Per Pitagora (575 a.C. circa - 495 a.C. circa) la successione aritmetica dei primi quattro numeri naturali, geometricamente disposti secondo un triangolo equilatero di lato quattro, ossia in modo da formare una piramide, aveva anche un significato simbolico: a ogni livello della tetraktys corrisponde uno dei quattro elementi. Rappresentazione della tetraktys a piramide. 1º livello. Il punto superiore: l'Unità fondamentale, la compiutezza, la totalità, il Fuoco  2º livello. I due punti: la dualità, gli opposti complementari, il femminile e il maschile, l'Aria  3º livello. I tre punti: la misura dello spazio e del tempo, la dinamica della vita, la creazione, l'Acqua  4º livello. I quattro punti: la materialità, gli elementi strutturali, la Terra  La medicina e la psicologia ippocratiche Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Teoria umorale.  I quattro elementi della filosofia antica, base per lo sviluppo della teoria umorale. Ippocrate di Coo (460 a.C. circa – prima del 377 a.C.) elaborò la teoria umorale, che rappresenta nell'Occidente il più antico tentativo di fornire un'eziologia per le malattie e una classificazione per i tipi psicologici e somatici.  Secondo Empedocle, ogni radice possiede una coppia di attributi: il fuoco è caldo e secco; l'acqua fredda e umida; la terra fredda e secca; l'aria calda e umida. Ippocrate tentò di applicare tale teoria alla natura umana definendo l'esistenza di quattro umori base, ossia bile nera, bile gialla, flegma e sangue (umore rosso):  il fuoco corrisponderebbe alla bile gialla; la terra alla bile nera (o melancolia, in greco Melàine Chole); l'aria al sangue; l'acqua al flegma.[12] Il buon funzionamento dell'organismo dipenderebbe dall'equilibrio degli elementi, mentre il prevalere dell'uno o dell'altro causerebbe la malattia.  A questi elementi e umori corrispondono quattro temperamenti, pertanto la teoria ippocratica è anche una teoria della personalità. La predisposizione all'eccesso di uno dei quattro umori definirebbe un carattere psicologico e insieme una costituzione fisica:  il malinconico, con eccesso di bile nera, è magro, debole, pallido, avaro, triste; il collerico, con eccesso di bile gialla, è magro, asciutto, di bel colore, irascibile, permaloso, furbo, generoso e superbo; il flemmatico, con eccesso di flegma, è grasso, lento, pigro e sciocco; il tipo sanguigno, con eccesso di sangue, è rubicondo, gioviale, allegro, goloso e dedito ad una sessualità giocosa.[13] Secondo i racconti mitologici e folcloristici, ogni elemento sarebbe inoltre animato da un suo specifico spirito elementare, detto anche «elementale», che Paracelso riteneva realmente operante dentro di essi, dedicando loro un trattato, il Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris, così suddividendoli:  le Salamandre che sono gli elementali del fuoco; le Ondine gli elementali dell'acqua; le Silfidi gli elementali dell'aria; gli Gnomi gli elementali della terra.[14] La quintessenza Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etere (elemento classico). L'etere (in greco antico αἰθήρ, confluito in latino come aether), sinonimo di "quintessenza" (dal latino medievale quinta essentia, a sua volta calco dal greco pémpton stoichêion, 'quinto elemento'), era un elemento che, secondo Aristotele, si andava a sommare agli altri quattro già noti: il fuoco, l'acqua, la terra, l'aria.  Secondo gli alchimisti, l'etere sarebbe il composto principale della pietra filosofale,[15] fungendo da matrice o materia prima degli altri elementi.[16]  La storia dell'etere inizia con Aristotele, secondo il quale era l'essenza del mondo celeste, diversa dalle quattro essenze (o elementi) di cui si riteneva composto il mondo terrestre: terra, aria, fuoco e acqua. Aristotele credeva che l'etere fosse eterno, immutabile, senza peso e trasparente. Proprio per l'eternità e l'immutabilità dell'etere, il cosmo era un luogo immutabile, in contrapposizione alla Terra sublunare, luogo di cambiamento.  Lo stesso concetto venne espresso alcuni secoli più tardi da Luca Pacioli, neoplatonico del XVI secolo, che coinvolge anche le strutture matematiche e geometriche: secondo il Pacioli, infatti, il cielo, il quinto elemento, aveva la forma di un dodecaedro, struttura perfetta secondo lo studioso.  «Successivamente gli alchimisti medievali indicarono con l'etere o quintessenza la forza vitale dei corpi, una sorta di elisir di lunga vita: Quella cosa che muta i metalli in oro possiede altre virtù straordinarie: come, ad esempio, conservare la salute umana integra sino alla morte e di non lasciar passare la morte (se non dopo due o trecento anni). Anzi, chi la sapesse usare potrebbe rendersi immortale. Questo lapisnon è certamente nient'altro che seme di vita, gheriglio e quintessenza dell'intero universo, da cui gli animali, le piante, i metalli e gli stessi elementi traggono sostanza.»  (Jan Amos Komensky, da Labirinto del mondo e paradiso del cuore del 1631) Tra il XIV e il XVIII secolo, i chimici supposero che la quintessenza non fosse altro se non un elisir ottenuto dalla quinta distillazione degli elementi; da questa ultima accezione la quintessenza ha anche assunto un significato più ampio di caratteristica fondamentale di una sostanza o, più in generale, di una branca del sapere.   La raffigurazione dei quattro elementi (da sinistra) terra, acqua, aria e fuoco, con le sfere alla base rappresentanti i simboli dell'alchimia. La chimica Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Stato della materia. Secondo Odifreddi,   «[i] quattro elementi concreti: cioè terra, acqua, aria e fuoco, [...] oggi noi [li] associamo rispettivamente agli stati solido, liquido e gassoso della materia, e all'energia che permette di trasmutare uno nell'altro (ad esempio, il ghiaccio in acqua, e l'acqua in vapore).[10][17]»  La fisica Modifica I quattro elementi in fisica sono associati agli stati solido (terra), liquido (acqua), gassoso (aria) e plasma(fuoco), quest'ultimo definito il "quarto stato" della materia, estende il concetto di fuoco, considerato gas ionizzato della categoria dei plasmi terrestri, come anche i fulmini e le aurore, nell'universo costituisce più del 99% della materia conosciuta: il plasma è infatti la sostanza di cui sono composte tutte le stelle e le nebulose[18].  L'astrologia Modifica  I segni zodiacali suddivisi in base al loro elemento: terra, fuoco, aria, acqua Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Segno zodiacalee Triplicità. Nell'astrologia occidentale i segni sono divisi in:  segni di fuoco (Ariete, Leone, Sagittario) segni di terra (Toro, Vergine, Capricorno) segni d'aria (Gemelli, Bilancia, Aquario) segni d'acqua (Cancro, Scorpione, Pesci) In tal modo essi formano complessivamente le quattro triplicità.  Pensiero religioso Modifica  Un pentacolo La rappresentazione simbolica del microcosmo e del macrocosmo si ritrova nell'antico segno del pentacoloche combina cioè in un unico segno tutta la creazione, ovvero l'insieme di processi su cui si basa il cosmo. Le cinque punte del pentagramma interno simboleggiano i cinque elementi metafisici dell'acqua, dell'aria, del fuoco, della terra e dello spirito. Questi cinque elementi sintetizzerebbero i gruppi in cui si organizzano tutte le forze elementali, spiritiche e divine dell'universo[19].  Il rapporto tra i vari elementi rappresentati all'interno del pentacolo è ritenuto una riproduzione in miniatura dei processi su cui si basa il cosmo. Questo processo inizia dall'elemento dello spirito, il quale si manifesta dando origine a tutto ciò che esiste. La creazione si verifica partendo dalla divinità e scendendo verso la punta in basso a destra, simboleggiante l'acqua, ovvero la fonte primaria e sostentatrice della vita sulla Terra. Dall'acqua ebbero origine le primissime forme elementari di vita, le quali poi evolsero con il passare dei millenni staccandosi dall'elemento primordiale. Dall'acqua il processo creativo risale verso l'aria, la quale rappresenta le forme di vita sufficientemente evolute da potersi organizzare da sole, prendendo coscienza del proprio sé. Questi esseri, dalla loro innocenza originaria, si evolvono e si organizzano moralmente e tecnologicamente, procedendo lungo la linea orizzontale verso la terra a destra. La terra simboleggia il massimo grado di evoluzione che un'epoca può supportare, quando questo diviene troppo ingente avvengono delle ricadute, sotto vari punti di vista, ma innanzitutto sotto il profilo spirituale. L'essere si allontana dallo spirito, degradando verso il basso, il fuoco, simboleggiante l'apice della degenerazione. In seguito alla depressione avviene però sempre una ripresa, un ritorno alle origini, in questo caso allo spirito, l'essere umano riscopre la spiritualità[20].  Ebraismo Modifica Nella tradizione ebraica è ampia la letteratura sui quattro elementi di cui se ne riportano tanto la simbologia tanto le corrispondenze nella Creazione. Ricordando anche il testo di El'azar da Worms Il segreto dell'Opera della Creazione, oltre allo Zohar, il testo più importante che ne tratta l'argomentazione secondo l'interpretazione mistica ebraica è il Sefer Yetzirah, la cui sapienza risale ad Avraham: questo testo argomenta il confronto tra le Sefirot, i quattro elementi, le lettere ebraiche, i pianeti, i segni zodiacali, i mesi e le parti del corpo umano.  Se ne discute anche in altri testi di Qabbalah ed è tra i principali oggetti di studio del percorso esoterico ebraico definito Ma'asseh Bereshit, lo Studio dell'Opera della Creazione. Si ritiene che il mondo sia stato creato con la Torah le cui parole sono formate da lettere ebraiche che, permutate, sono il riferimento della Sapienza divina da cui sorse la parola di Dio al fine di creare ogni cosa esistente. Derivando dal significato delle lettere la loro corrispondenza con le creature e le create è così possibile avvicinarsi alla sapienza della Qabbalah che permette di cogliere il significato segreto proprio di esse.  Lo Zohar afferma che i quattro elementi fuoco, acqua, aria e terra corrispondono ai quattro metalli: oro, rame, argento e ferro; un'ulteriore corrispondenza è quella del Nord, del Sud, dell'Est e dell'Ovest. Dopo averne descritto i rapporti, lo Zohar continua l'esposizione ammettendo che, come si contano così 12 elementi, si possono contare 12 pietre preziose corrispondenti alle dodici tribù d'Israele, cosa confermata poi dalle fattezze degli Urim e Tummim.  Importante anche il confronto con i quattro venti.  I quattro elementi, uniti nel corpo vivente, con la morte si separano.  Con lo studio della Torah l'uomo si eleva al di sopra dei quattro elementi dominandoli anche nel proprio corpo e talvolta, in questo, si collega alle quattro figure metaforiche della Merkavah  Cristianesimo Modifica  Il profeta Elia, di José de Ribera. Secondo il primo libro dei Re, Elia sul monte Oreb  « [...] entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco il Signore gli disse: «Che fai qui, Elia?». [...] Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. »   ( 1Re 19, 9.11-12, su laparola.net. Per l'esegesi biblica di Carlo Maria Martini,   «Al versetto [11 e] 12 abbiamo i quattro segni: vento, terremoto, fuoco, mormorio di un vento leggero. Non si dice che il Signore fosse in quest'ultimo ma si nega che fosse nei primi tre. È un passo ricchissimo di simboli che rimandano a tante altre pagine bibliche, un passo oscuro perché non riusciamo bene a capirlo: Jahvé era o non era nel mormorio di un vento leggero? E perché altrove, nella Scrittura, Dio è nel fuoco mentre qui non lo è?[22]»  Sempre per Martini,   «Anche nel Nuovo Testamento troviamo i primi tre segni del racconto di Elia: "rombo, come di vento che si abbatte gagliardo", "lingue come di fuoco",[23] "quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò, e tutti furono pieni di Spirito santo".[24] Il vento, il fuoco, il terremoto sono simboli ben noti in tutta la Scrittura; hanno significato la presenza del Signore sul Sinai, nel cammino del deserto, e sono stati ripresi dai Salmi. Non troviamo però il vento leggero.[25]»  Ciò significa che, tanto per l'ebraismo quanto per il cristianesimo, è dubbio che le manifestazioni relative almeno ai primi tre dei quattro elementi costituiscano una teofania, sia per Mosè ed Elia sul Sinai/Oreb sia per la Pentecoste.  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Letteratura apocalittica § Uso del termine. Pensiero orientale Modifica Pensiero hinduista Modifica Il pancha mahabhuta, o "cinque grandi elementi", nell'Hinduismo[26] sono:  khsiti o bhumi (terra) ap o jala (acqua) agni o tejas (fuoco) marut o pavan (aria o vento) byom o akasha (etere). Gli hindu credono che Dio usò l'aakasha per creare i restanti quattro elementi, e che la conoscenza dell'uomo sia nell'archivio akashiko.  Pensiero del buddhismo antico Modifica Nella letteratura Pali, i mahabhuta ("grandi elementi") o catudhatu ("quattro elementi") sono terra, acqua, fuoco e aria. Nel primo buddhismo, erano alla base per la comprensione della sofferenza, e per la liberazione dell'uomo dalla sofferenza.  Gli insegnamenti del Buddha riguardanti i quattro elementi li raggruppano come base delle reali sensazioni, più che un pensieri filosofici. Gli elementi erano quindi intensi come "caratteristiche" o "proprietà" di varie sensazioni:  la coesione era una proprietà dell'acqua. la solidità e l'inerzia erano proprietà della terra. l'espansione e la vibrazione erano proprietà dell'aria. il calore era una proprietà del fuoco. I suoi insegnamenti dicono che ogni cosa è composta da otto tipi di 'kalapas', il cui gruppo principale è composto dai quattro elementi, mentre il gruppo secondario è composto da colore, odore, gusto e alimento, derivati dai primi quattro elementi.  Gli insegnamenti del Buddha precedono quelli dei quattro elementi nella filosofia greca. Questo può essere spiegato perché furono inviati 60 arhat nel mondo conosciuto al tempo per diffondere i suoi insegnamenti.  Pensiero giapponese Modifica Il pensiero tradizione giapponese usa cinque elementi chiamati 五大 (go dai, letteralmente "cinque grandi"). Gli elementi sono:  terra, che rappresenta le cose solide acqua, che rappresenta le cose liquide fuoco, che rappresenta le cose distrutte aria, che rappresenta le cose mobili vuoto, che rappresenta le cose che non sono nella vita quotidiana. Pensiero cinese Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Wu Xing. Si ritiene che anche la filosofia tradizionale cinesecontenga degli «elementi» come nella filosofia grecaclassica: nel taoismo infatti sono presi in considerazione tre termini affini a quelli occidentali, l'acqua il fuoco e la terra, più altri due, il legno e il metallo, per un totale di cinque, wu xing in cinese, sebbene più che di elementi si tratti di fasi in movimento all'interno di un ciclo, come spiega Anne Cheng:  «La traduzione convenzionalmente adottata di wuxing con "Cinque Elementi" presenta innanzitutto l'inconveniente di non rendere conto dell'aspetto dinamico della parola xing ("camminare", "andare", "agire"). Inoltre non vi è qui nulla in comune con i quattro elementi o radici costitutivi dell'universo - fuoco, acqua, terra, aria - individuati da Empedocle nel V secolo a.C., ma sembrano essere originariamente concepiti in una prospettiva essenzialmente funzionale, più come processi che come sostanze.[27]»  (Anne Cheng, Storia del pensiero cinese) Si tratta a ogni modo di distinzioni storicamente poco accettate,[28] ad esempio i mongoli hanno accolto nel novero degli elementi sia quelli cinesi che quelli occidentali.[29] Analogie tra i due sistemi sono rinvenibili nel fatto che l'elemento cinese del legno si avvicina maggiormente al concetto occidentale dell'aria, poiché entrambi corrispondono alle qualità del punto cardinale est,[30] della primavera, dell'infanzia e della crescita, mentre il metallo sembra inglobato nelle proprietà occidentali della terra, quali l'ovest, l'autunno e il declino.[31] La terra in Cina occupa propriamente il centro della rosa dei venti, ed è più che altro la matrice degli altri quattro elementi,[32] come in Occidente lo è la prima materia o etere.[33]  La peculiarità della concezione cinese consiste semmai nel carattere trasmutatorio dei suoi cinque elementi,[34] da intendere come forze attive o facoltà dinamiche.[35] La loro origine si perde nella preistoria cinese ed è difficilmente ricostruibile.[35] La prima descrizione delle caratteristiche dei Wuxing la troviamo nello Shujing («Classico della Storia»):  «L'acqua consiste nel bagnare e nello scorrere in basso; il fuoco consiste nel bruciare e nell'andare in alto; il legno consiste nell'essere curvo o diritto; il metallo consiste nel piegarsi e nel modificarsi; la terra consiste nel provvedere alla semina e al raccolto. Ciò che bagna e scorre in basso produce il salato, ciò che brucia e va in alto produce l'amaro; ciò che è curvo o diritto produce l'acido; ciò che si piega e si modifica produce l'acre; ciò che provvede alla semina e al raccolto produce il dolce.[36]»  (Shu-ching, Il grande progetto) Questi Cinque Agenti sono in relazione tra di loro e danno vita a molte altre serie di cinque combinazioni complementari ai Wuxing stessi: i punti cardinali ed il centro, le note musicali, i colori, i cereali, le sensazioni, ecc. Sempre nello Shujing, nella sezione detta "Grande Norma" si fanno seguire ai Wuxing Cinque Funzioni:  «Poi è quella delle Cinque Funzioni. La prima è il comportamento personale; la seconda è la parola; la terza la visione; la quarta l'udito; la quinta il pensiero. Il comportamento personale deve essere decoroso, la parola ordinata; la visione chiara; l'udito distinto; il pensiero profondo. il decoro dà solennità, e l'ordine dà regolarità, la chiarezza dà intelligenza, la distinzione dà deliberazione; la profondità dà saggezza.[37]»  (Shu-ching, La grande norma)  Rappresentazione dei due cicli: in verde quello generativo che procede in senso orario dal padre al figlio (in rosso quello inverso di riduzione o impoverimento); ed in blu le linee dirette del ciclo di controllo con cui il nonno inibisce il nipote. I cinque pianeti maggiori del nostro sistema sono associati e prendono il modo degli elementi: Venere è oro (metallo), Giove è legno, Mercurio è acqua, Marteè fuoco e Saturno è terra. In aggiunta, la Lunarappresenta lo Yin e il Sole lo Yang.  Lo Yin, lo Yang e i cinque elementi sono temi ricorrenti dello I Ching, il più antico testo classico cinese, che descrive la cosmologia e filosofia cinese.  La dottrina delle cinque fasi descrive due cicli di equilibrio, uno generativo e creativo (, shēng), e l'altro dominante e distruttivo (, kè).  Generativo il legno alimenta il fuoco il fuoco crea la terra (cenere) la terra genera il metallo il metallo raccoglie l'acqua l'acqua nutre il legno Distruttivo il legno divide la terra la terra assorbe l'acqua l'acqua spegne il fuoco il fuoco scioglie il metallo il metallo abbatte il legno Gli elementi nella cultura di massa Modifica Nel 1997 il regista francese Luc Besson ha girato il film di fantascienza Il quinto elemento.  La Walt Disney Company Italia ha prodotto dei racconti a fumetti e una serie di film a cartoni animati (W.I.T.C.H.) ideati da  Elisabetta Gnone dove le protagoniste incarnano i poteri degli elementi naturali.  Sempre nei fumetti, i superpoteri dei Fantastici 4, supereroi della casa editrice Marvel Comics, sono basati sui quattro elementi naturali.  I Gormiti sono basati sugli elementi naturali e hanno poteri collegati ad essi.  La rock band italiana dei Litfiba negli anni novanta ha pubblicato 4 album che compongono la "tetralogia degli elementi", dedicando un disco ad ogni elemento naturale: El Diablo (rappresentante il "fuoco"), Terremoto (la "terra"), Spirito (l'"aria") e Mondi Sommersi (l'"acqua").  Note Modifica ^ Anna Marson, Archetipi di territorio, Alinea Editrice, 2008, p. 23 sgg. ^ Matilde Battistini, Simboli e Allegorie, Milano, Electa, O' Brien, Empedocle in Il sapere greco. Dizionario critico, vol. 2. Torino, Einaudi, 2007, p. 80 ^ (v.460),Empedocle, frammento B 6: I presocratici, Gallimard, p.376 ^ Peter Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, 2007 ^ Fabrizio Tinaglia, Pensiero primario NPT, Lampi di stampa, Mariucci, Il Sapere degli Antichi Greci, SteetLib, Empedocle, fr.109 ^ Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. L'avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Milano, Longanesi, Milano, TEA, Corinne Morel, Dizionario dei simboli, dei miti e delle credenze, Firenze, Giunti Editore, 2006, p. 836. Sala, Gabriele Cappellato, Viaggio matematico nell'arte e nell'architettura, ed. Franco Angeli, Geymonat, Gianni Micheli, Corrado Mangione, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Volume 1, Garzanti, 1970, p.380 ^ Paracelso, Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus, trad. it. in Paracelso, Scritti alchemici e magici, pp. 17–32, Phoenix, Genova 1991. ^ Glenn Alexander Magee, Hegel e la tradizione ermetica, § 4.4, Mediterranee, 2013. ^ Isabella Puliafito, Feng Shui: armonia dei luoghi, pag. 49, Hoepli Editore, 1999. ^ Cf. Ferdinando Abbri, Le terre, l'acqua, le arie. La rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, il Mulino, Rogoff, Ed., IEEE Transactions on Plasma Science, vol. 19, dicembre 1991, p. 989 ^ Heinrich Cornelius Agrippa, Of Occult Philosophy, Book 3, Part 5, su esotericarchives.com, traduzione di John French, The Key of Solomon, Trans. S. L. MacGregor Mathers. ^ Giorgio Tarditi Spagnoli, Cabala e Antroposofia, NaturaSofia, Martini, Il dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Casale Monferrato, Piemme, Cf. Atti At 2, 2-3, su laparola.net.. ^ Cf. Atti 4, 31, su laparola.net.. ^ Carlo Maria Martini, op. cit., p. 108. ^ Gianfranco Bertagni, La teoria indù dei cinque elementi - Da Studi sull'Induismo (René Guénon) ^ Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, Vol I, Dalle origini allo studio del mistero, Einaudi, pag.257 ^ Derek Walters, Il libro completo dell'astrologia cinese, pag. 21, Gremese Editore, 2004. ^ Derek Walters, op. cit., pag. 21. ^ Isabella Puliafito, Feng Shui: armonia dei luoghi, pag. 49, op. cit. ^ Isabella Puliafito, op. cit., pag. 49. ^ Isabella Puliafito, op. cit., pag. 50. ^ Isabella Puliafito, op. cit., pag. 49. ^ Isabella Puliafito, op. cit., pag. 50. ^ a b Averna V. Leonardo, La Filosofia Cinese, Da Confucio a Mao Tse-tung, Biblioteca Universale Rizzoli, Leonardo, La Filosofia Cinese, Da Confucio a Mao Tse-tung, Biblioteca Universale Rizzoli, Yu-lan, Storia della filosofia cinese, confucianesimo, taoismo, buddismo, Mondadori, 1990, Cles, Rigotti, Pierangelo Schiera (a cura di), Aria, terra, acqua, fuoco: i quattro elementi e le loro metafore, Bologna, Il Mulino, 1996. Altri progetti Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su quattro elementi   Portale Antropologia   Portale Astrologia   Portale Bibbia   Portale Filosofia   Portale Mitologia   Portale Religioni Ultima modifica 1 mese fa di WikiBathor PAGINE CORRELATE Fuoco (elemento) uno dei quattro elementi classici  Terra (elemento) uno dei quattro elementi tradizionali  Wu Xing Wikipedia Il contenutoAndrea Bonomi. Keywords: i quattro elementi, “minimal use of transformations” (Grice), chronological logic, time-relative identity, The Grice-Myro theory of identity, A. N. Prior, Chomsky, ways of reference, referring, existence and structure, imagery and naming, universe of discourse, mental event, psychological inter-subjectivity, indicale, Grice on embedeed psychological attitudes Operator, Addressee, Sender, propositional content. I want you to know that p, Iinform you that p, I want you to want to do p, I force you to do P, etc. Symbols in “Aspects of Reason”, Op1 Op2 Op3 Op4 judicative volitive indicative informative intentional imperative interrogative reflective inquisitive reflective Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonomi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bontadini – la neo-classica –de-ellenizante –I nazionalisti romani – Appio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I would call Bontadini a Griceian; first, he likes sports, like I do; second he is a neo-classical (as I am) and a anti-anti-metaphysicist, as I am!” --  “Se Dio non ci fosse, il mondo sarebbe contraddittorio»  (G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza). Esponente di spicco del movimento neotomista, che ebbe presso Milano uno dei suoi più importanti punti di riferimento e diffusione. Iscrittosi presso Milano quando essa aveva iniziato le sue attività, ma non era ancora riconosciuta dal governo italiano, egli fu il terzo laureato assoluto dell'ateneo, presso il quale fu poi professore di filosofia teoretica. Ha insegnato anche presso l'Urbino, Milano e Pavia. Pur rifacendosi alla metafisica classica, quella aristotelica e tomistica, Bontadini si dichiara "neoclassico" intendendo evidenziare il nuovo ruolo che quell'antica metafisica può svolgere nella filosofia contemporanea.  Egli infatti definisce se stesso come «un metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno».  Rifacendosi alla filosofia idealistica ne apprezza soprattutto la «verità metodologica» che ha evidenziato il ruolo della coscienza, del cogito cartesiano, nel cogliere il significato dell'essere pur considerandolo come altro, diverso dalla soggettività della coscienza stessa, realizzando cioè una identità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'intelletto e la sensibilità che riporta in luce l'antica teoria parmenidea dell'identità di Essere e Pensiero.  Un Parmenide, quello di Bontadini, che non esclude la constatazione del divenire, da un lato, e la denuncia della sua contraddittorietà, dall'altro. Due protocolli che fanno capo rispettivamente ai due piloni del fondamento: l'esperienza e il principio di non contraddizione (primo principio). I due protocolli sono tra loro in contraddizione, e tuttavia godono entrambi del titolo di verità  sono verità, però, che in quanto prese nell'antinomia (antinomia dell'esperienza e del logo) si trovano a dover lottare contro un'imputazione di falsità. Giacché l'esperienza oppugna la verità del logo e il logo quella dell'esperienza».  Il sapere Una nuova concezione del sapere è alla base del pensiero di Bontadini che ne ribadisce l'origine nell'esperienza che però va intesa non più come risultato delle operazioni della ragione (razionalismo) o come ricezione passiva dei dati empirici (empirismo), ma come "presenza": mentre la gnoseologia contemporanea continua a concepirla nell'ambito di un dualismo dell'essere e del conoscere, correlando così il problema metafisico a quello del conoscere e facendo nascere la questione, di difficile soluzione, di quale correlazione possa esserci tra il pensiero e la realtà.  Ma ogni qual volta si considera ciò che si ritiene sia "al di là" del pensiero, questo inevitabilmente è nel pensiero, appartiene al pensiero stesso.  Quindi ogni esperienza come presenza è assoluta, perché non costruita, ed è totale, poiché ogni singolo fatto empirico fa parte di essa.  L'unità dell'esperienza Si arriva quindi alla concezione di "unità dell'esperienza" dove tra l'esperienza e il pensiero si sviluppa quel rapporto di circolarità che costituisce il sapere.  Ma secondo l'insegnamento di Parmenide l'essenza dell'esperienza è il divenire che si presenta come contraddittorio nella sua realtà di essere e di esistere inteso come opposto al non essere.  Come può il sapere allora basarsi su una struttura contraddittoria di essere e divenire?  «Il divenire si presenta cioè contraddittorio; anzi come la stessa incarnazione della contraddittorietà (l'identificarsi del positivo e del negativo), come la smentita alla suprema e immediata identità: l'essere è. La soluzione in Dio creatore «L'ente, che è temporale in quanto empirico, è eterno in quanto divino».  La contraddizione insita nel divenire cioè può essere superata nell'esistenza di Dio creatore. La contraddizione del divenire è superata con la dottrina della creazione, in quanto quella identificazione dell'essere e del non essere, che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'Essere, di Colui che crea dal non essere l'essere. Ma l'essere poi non ricade, divenendo, nel nulla?  Non si può, risponde Bontadini, pensare assurdamente che l'essere sia distrutto dal nulla ma il mondo creato da Dio è diverso da Lui ma insieme coincide nella sua creazione non alterando la sua essenziale immutabilità. Severino, traendo le conclusioni dalla concezione del suo maestro Bontadini  in un saggio pubblicato su la Rivista di filosofia neo-scolastica dal titolo “Ritornare a Parmenide” elimina ogni differenza tra l'immutabilità di Dio e quella del mondo soggetto al divenire per cui ogni cosa è eterna come è eterno Dio.  Rispose con toni duramente ironici Bontadini in un articolo dal titolo“Sozein ta fainomena”. Io mi chiesi con quale barba si trovi, nel mondo dell'essere, il mio alter ego immutabile. Giacché, da quando ero matricola venendo fino ad oggi, di barbe io ne ho cambiate molte centinaia. Ora, se poniamo che tutte sono immutabili, mi pare che non troverei abbastanza superficie sul mio corpoquello fissato per l'eternitàper fare posto a tutte. Ribadì quindi la sua concezione del principio di creazione che permette di superare la contraddittorietà del divenire tramite l'azione creatrice di Di, «in quanto quella identificazione dell'essere e del non-essere, che riscontriamo nell'esperienza, è ora vista come il risultato dell'azione dell'essere (azione indiveniente dell'essere indiveniente). Altre opere: “Saggio di una metafisica dell'esperienza” (Milano, Vita e pensiero); “Studi sull'idealismo” (Urbino, A. Argalia); “Dall'attualismo al problematicismo. Studi sulla filosofia italiana contemporanea” (Brescia, La scuola); “Studi sulla filosofia dell'età cartesiana” (Brescia, La scuola); “Dal problematicismo alla metafisica. Nuovi studi sulla filosofia italiana contemporanea, Milano, Marzorati); “Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno” (Brescia, La scuola); Il compito della metafisica” (Milano, Fratelli Bocca); “Studi di filosofia moderna, Brescia, La scuola); “Conversazioni di metafisica” (Milano, Vita e pensiero); Metafisica e de-ellenizzazione” (Milano, Vita e pensiero); “Appunti di filosofia, Milano, Vita e pensiero), “Metafisica e de-ellenizzazione”; “Sull'aspetto dialettico della dimostrazione dell'esistenza di Dio”. Espulso per le sue posizioni filosofiche dalla Cattolica di Milano. Sembra qui tornare il Deus sive Natura di Spinoza. “Sozein ta fainomena”. Dal diveniente all'immutabile. Studio sul pensiero di Gustavo Bontadini, prefazione di Emanuele Severino, Venezia: Cafoscarina,. Bontadini e la metafisica.  L'Essere è Persona. Riflessioni su ontologia e antropologia filosofica in Gustavo Bontadini, Orthotes, Napoli-Salerno. Francesco Saccardi, Metafisica e parmenidismo. Il contributo della filosofia neoclassica, Orthotes, Napoli-Salerno. Dizionario di filosofia. SIEKE. APPIUS CLAUDIUS  CAECUS CENSOR.  Historische disöertation, welche... ^M vi "^r.  eingereicht hat. Marburg, Thesis. Marburg.  APPIÜS CLAUDIUS CAECÜS CENSOR. HisTORiscFiE Dissertation, WELCHE ZUR ErLAKGUXG DER DoCTüRWÜRDE BEI DER Philosophischen Facultät  DER KÖNIGLICHEN Universität Marburg EINGEREICHT HAT -- SIEKE.  MARBURG. Der Censor App. Claudius ist schon den Alten ein Problem  gewesen. Die Quellenberichte, welche uns vorliegen, geben  uns keineswegs ein einheitliches und übereinstimmendes Bild;  wir werden vielmehr zwischen den einzelnen Gewährsmännern  sowohl in Bezug auf die Thatsachen, als auch auf das Urteil  über den Censor und seine politische Wirksamkeit die grössten  Unterschiede und Widersprüche finden. Von den alten Autoren  haben sich, wie das natürlich ist, die Differenzen auf die neueren  Forscher übertragen.   In diesem Widerstreit der Meinungen galt es für mich,  eine feste Grundlage für alle Erörterungen zu finden. Und  diese glaube ich in dem Satze sehen zu müssen, dass der  Bericht Diodors über die Censur der älteste, reinste und beste  ist, welcher uns überliefert ist. Von diesem Berichte müssen  wir bei jeder einzelnen Frage ausgehen, ihn überall zu Grunde  legen. Von keinem neueren Forscher scheint mir dieser  quellenkritische Grundsatz konsequent durchgeführt zu sein.   Dies zu versuchen, ist die Aufgabe der folgenden Abhandlung.   Cap. 1.   Amtsantritt und Amtsdauer des Censors App. Claudius.   Die Quellen, aus denen fast allein die Kenntnis von der  Censur des App. Claudius Caecus und überhaupt seiner Per-  sönlichkeit und politischen Wirksamkeit fliesst, sind Diodor  (XX, 36) und Livius (IX, 29, 33 f. 46). Verschiedener zu-  fälliger Erwähnungen des Censors bei anderen Schriftstellern  sowie seines Elogiums (Corp. Inscr. lat. I. p. 287 n. XXVIII),  welches die Ämterlaufbahn giebt, werden wir im Gange der  Darstellung zu gedenken haben. Ich stelle die Berichte der  beiden Hauptquellen im Zusammenhang voraus.   Diod. XX, 36 lautet: 'Ev dt "Fotfifi xartx lomov tot  iviamov ri^n^rai; «Aovto xai rovTViv o eteQOi: '^titiio^ K'/Mudiog  inmoov l%on' tov avvctiixoyTa yUvxiov Ilkuriiov tio'A/m nur  ^GTituiiav vo/ulfiMv ixivf^ae, xat n^onov fih to xaloö^ttrov  ^'ATiTtiOvvÖMQ and atadiiov oydoi-xoma xmi-yayfv dg rijv 'Piofn;v  xai TiolXd Tiov dt]/iWaio)r xQ^Jf^ckm' eig lavrr^r n]v xazaaxevfjv  dvi^kcjasv av€v doyitiatog rijc; aiyxh'^iov. fif-uc dt ravta lijg  a^'avTOv xh^&eiat^g ''AnTiiag oöov rd 7cktov fitQOi; d^oig  areQeoig xartarQwaev and 'Pio/iit^g f^x^i^ Kanvi^g ovroi: tov  öiaöTrjltiaTOi; aradiviv Tiltiown'*' i^dnon' rovi;  /.dv vnsQtxovTai; öiaüxcci^fag roug dt (paQayyviöfig ?} xoilovg  dvalrifi^iaaiv d^iohlyotg iSiocooccg xaravi^hoatv dnaöag rag  ör^liwalag n()oa6dovgy auzod de juvi^juelov d&dvarov xaTehnev  dg xoivrjv evx{)j]aTiav cpiloTifiT^d^eig' xatejiii^t dt xai rijv auyxh]TOv  ov tovg evyevslg xai nQOtxovTag xdig a'^uofiaac 7i()ogyiid<pcov  ^lovovg, uig r^v si^oS, dlkd nollovg xai rtov d7iBXtvd^i{)iov vlovg  dvt^u^B^ i(f olg ßaQtojg tfSQOv oi xavx^o/nevoi Tijg eoyeveiag*  edioxe dt Toig noUTaig xai ti]y t^ovalav onoi TiQoaiQoh'TO rifii^-  aaa^ar ro dt okov dQclt' rtOrjaavQiafutvov xax" avrov TiaQa rolg  iTiKpavtatdioig rdv <p^dvov i^txhve rd Tt^oaxomHy^iöi tiov  dllojv Tiohtviv dvTiiay^ia xaTaoxevd^on' rjj rwv svyevdjv dkko-  TQiozr^Tt TTJv 7ia(td lioY nokhov evvoiav xai xaid fitv T?jv tiov  Innkiiv doxijtiaaiav ovdevdg dcfsü.eTO rdv 'innov, xard dt r?}v  TcJv avvtdQtJv xatayQaipi]}' oudtva tiov ddo^ovvTon' avyxh]TixLov  t^tßakevj onti) j}y td^og noielv rolg rifirjaJg, a^' oi fih vnaTOi  did TOV (fO^drov xa) duc rd ßovltotha Tolg tniffareOTaTOig x«-  ()U€Gi)^ai oimy/or n)v Oüyyh]TOv ov ti)v vrid toütov xaraleyelöav,  dlld T}]v und Ttr7v n()oyty€V7^^itru)v tifirjiör xcaayqacptlöav  o dt di^jiwg jOiTOig fitv dvTi7T()dTTiov, Tift dt ^AnnUi* ov/ii(pikoTt  jitovuti'og Xia f/;r nor dcoytTtor 7ii)oay('tyt]r ßtßcucoaai ßov?,6fitrog  dyo()dvofior tiktio trg tniifartaititag dyoi>avoftiag vidv  dnelevd^iiiov rralov 0/Mßiov, og n^onog ' FiD^ialuv TavTrjg Trjg  di)xrjg f-V<7« naiodg vh' dtdov'/.tixoTog. d dt ^'Anniog zijg dQyrjg  dno/.v&e}g xai tov and Tijg avyxlrjtov ip^ovov 8vkaßr;^€lg  nQoaenoiijO^r^ rvcpkdg elvai xai xar oixiav ejAeivsv, —   Liv. IX, 29: Et censura clara eo anno App. Claudii et C. Plautii fuit, memoriae tarnen felicioris ad posteros nomen  Appi, quod viam munivit et aquam in urbem duxit, eaqüe unus  perfecit, quia ob infamem atque invidiosam senatus lectionem  verecundia victus collega magistratu se abdicaverat: Appius  iam inde antiquitus insitam pertinaciam familiae gerendo solus  censuram obtinuit   Cap. 30: Itaque consules, qui eum annum secuti sunt,  C. Junius Bubulcus tertium et Q. Aemilius Barbula iterum,  initio anni questi apud populum deformatum ordinem prava  lectione senatus, qua potiores aliquot lectis praeteriti essent,  negaverunt eam lectionem se, quae sine recti pravique dis-  crimine ad gratiam et libidinem facta esset, observaturos, et  senatum extemplo citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium et C. Plautium fuerat. Permulti iam anni erant, cum inter patricioa  magistratus tribunosque nulla certamina fuerant, cum ex ea  familia, cui velut fato lis cum tribunis et plebe erat, certamen  oritur. App. Claudius censor circumactis decem et octo man-  sibus, quod Aemilia lege finitum censurae spatium temporis  erat, cum C. Plautius collega eius magistratu se abdicasset,  nulla vi compelli, ut abdicaret, potuit. P. Sempronius erat  tribunus plebis, qui finiendae censurae intra legitimum tempus  actionem susceperat, non populärem magis quam iustam nee  in vulgus quam optimo cuique gratiorem   Cap. 34 (Schluss): Haec taliaque cum dixisset, prendi  censorem et in vincula duci iussit. adprobantibus sex tribunis  actionem collegae tres appellanti Appio auxilio fuerunt, summaque invidia omnium solus censuram gessit.   Cap. 42, 3: Appium censorem petisse consulatum, comi-  tiaque eius ab L. Furio tribuno plebis interpellata, donec se  censura abdicarit, in quibusdam annalibus invenio. creatus  consul,   Cap. 46, 10: Ceterum Flavium dixerat aedilem fore nsis  factio, App. Claudii censura vires nacta, qui senatum primus  libertinorum filiis lectis inquinaverat et, posteaquam eam  lectionem nemo ratam habiiit, nee in curia adeptus erat, quas  petierat opes urbanas, humilibus per omnes tribus divisis forum   et campum corrupit ex eo tempore in duas partes   discessit civitas: aliud integer populus fautor et cultor bonorum,  aliud forensis factio tenebat, donec Q. Fabius et P. Decius  censores facti, et Fabius, simul concordiae causa, simul ne  humillimorum in manu comitia essent, omnem forensem turbam  excretam in quattuor tribus coniecit urbanasque eas appellavit.  adeoque eam rem acceptam gratis animis fcrunt, ut Maximi  cognomen, quod tot victoriis non pepererat, hac ordinum tem-   peratione pareret ....   Diodor berichtet die Wahl des App. Claudius zum Censor  zu Ol. 117, 4. Er erzahlt, man habe in diesem Jahre den  App. Claudius und Lucius (sie !) Plautius zu Censoren gewählt.  Es ist dies das Jahr 444 der Varronischen Zählung oder das  Jahr 310 v. Chr., das Jahr der Consuln Q. Fabius und C.  Marcius (Diod. XX, 17). Zugleich erzählt er an dieser Stelle  (XX, 36) alles, was er von der Censur zu berichten hat; nur  noch einmal erwähnt er späterhin den App. Claudius, nämlich  als Consul des Jahres Ol. 118, 2 (XX, 45) d. i. des Jahres   447 aer. V.  807 V. Chr.   Livius, welcher die Nachrichten über den Censor anna-  listisch zersplittert, setzt den Amtsantritt der Censoren App.  Claudius und Gaius (!) Plautius unter das Consulat des M.   _ _ , 1 TL 44* Ä6r. VÄrr.   Valerius und P. Decius (IX, 29), d. h. m das Jahr 312 v. chr.  Zum Jahre ^ berichtet er, dass App. Claudius nach Verlauf  von IS Monaten, welches nach der lex Aemilia die gesetz-  mässige Dauer der Censur war, sein Amt nicht niedergelegt,  sondern es, obwohl sein College C. Plautius abgedankt habe  (IX, 33 f.), bis zur Bewerbung um das Consulat 1. J. -^  fortgeführt habe (IX, 42, 3).   Es besteht also im chronologischen Ansatz der Censur  zwischen Diodor und Livius eine Differenz von zwei Jahren.  Die neueren Forscher schliessen sich sämtlicii, olnie die  Differenz zu erörtern, dem Livius an (vgl. Xiebuhr, K. G. III,  345. Mommsen, R. G. I, 454. R. Forsch, I, 301).   Wir w^erden jedoch den Ansatz Diodors als den richtigen  erkennen.   Schon das allgemeine Quellenverhältnis der beiden Autoren,  ihr Wert und ihre Glaubwürdigkeit, wird bei der Entscheidung  der Frage von Bedeutung sein. Es ist eine seit Niebuhr feststehende Thatsache, dass die  bei Diodor erhaltenen Berichte über die ältere römische Ge-  schichte eine weit bessere und glaubwürdigere Tradition sind  als die livianisclien (Xiebuhr, R. G. II, 122 A. 367. II, 511,  514, 599. 629 f. III, 264 f. 277. Kissen, Rhein. Museum XXV,  27; vgl. dagegen Schwegler, R. G. 11, 22. III, 199). Während diese von Fälschungen völlig durchsetzt sind, bis in das  geringste Detail durch die Tendenz rhetorischer Ausschmückung  und Erweiterung und patriotischer Verherrlichung entstellt  sind und infolge dessen eine sehr trübe Quelle bieten, so  weisen die Berichte Diodors, so wenig ihrer sind, (XI, 37. 40.  53. 68. XII, 23—26. 30. 64. 80. XTII, 6. 42. XIV, 11. 16.  34. 43. 93. 96. 98. 102. 109. 113—117. XV, 27. 35.47.61.  75. XVI, 36. 45. 69. 90. XIX, 10. 65. 72. 76. 101. 105.  XX, 26. 35. 36. 44. 80. 90. 101) und so knapp und lücken-  haft diese wenigen auch sind (vgl. jNFommsen, R. Forsch. II,  225. 270, A. 68. 275. Chron. 121. Niebuhr, R. G. II, 630.  Volquardsen, Quelle Diodors 11) eine fast reine und unver-  fälschte Tradition auf.   Die Quelle, aus der Diodor geschöpft hat, reicht eben in  relativ alte Zeit hinauf. Freilich lä^st sich sein Gewährsmann  nicht mit Bestimmtheit nachweisen ; es ist nicht erwiesen, dass  Fabius, der älteste römische, noch griechisch schreibende  Annalist, Diodors Quelle sei (Petavius, Doctr. Tempi. Lib. IX,  C. 55. Wesseling zu Diodor XI, 1. Xiebuhr, R. G. II  192 A. 629 if., wo aber das 13, und 14. Buch Diodors aus-  genommen ist. Mommsen, Chron. 221. R. Forsch. II, 263 ff:  Fabius und Diodor." Vgl. dagegen Schwegler, R. Gesch. II,    24. C. Peter, Zur Kritik der Quellen der ältesten römischen  Geschichte, 118 f. Nitzsch, Rom. Annalistik, 227. Niese,  Hermes XIII, 412 f. Thouret, Fleckeisens Jahrbücher, Splb.  1880. Meyer, Rhein. Museum, 37, 611); es ist leere Hypothese,  dass Diodor aus der angeblich ältesten Redaktion der römischen  Annalen, welche der Schützling und Parteigenosse unseres App.  Claudius, derÄdil Gn.Flavius, bewerkstelligt haben soll, geschöpft  habe (Nitzsch, R. Annalistik, 229 if. ; vgl. Momnisen, Chronol.  204. R. G. I, 467. R. Forsch. II, 278. 338. Schwegler, R. G.  II, 7); ebenso hypothetisch ist die Behauptung, dass L. Piso,  ein Annalist aus der Grachenzeit, Diodors Quelle sei (Clason,  Heidelberger Jahrbücher 1872 S. 35. R. G. I, 17. Klimke,  Diodor und die röm. Annalistik. Colni, Philologus 1883. S. 1  bis 22; vgl. Mommsen, R. Forsch. 11, 338 A); ganz in der  Luft aber schwebt die neueste Ansetzuug Matzats, der in  L. Cincius Alimentus, neben Fabius dem ältesten römischen  Annalisten, Diodors Gewährsmann sieht (Matzat, R. Chronol.  I, 288; vgl. Niese, Piniol. Anzeiger 1884 S. 554 f.). Aber  wenn auch alle diese Versuche, die Quelle Diodors mit Sicher-  heit zu ermitteln, misslungen sind, so ist dieselbe dennoch in  relativ alte Zeit hinaufzusetzen (vgl. Rhein. Museum 37, 617).  Dagegen gehören die Quellen des Livius fast nur der  sullanischen und nachsullanischen Zeit oder sogar der cicero-  nischen und augusteischen an, wo der Fälschungs- und Aus-  schmückungsprozess der Annalistik in vollem Gange war.  Zuweilen nennt Livius zwar ältere Gewährsmänner, den Fabius  (I, 44, 45. II, 40. VIII, 30. X, 37), Cincius (VII, 3), Piso  (IX, 44. X, 9); aber sehr wahrscheinlich hat er diese nur  aus zweiter Hand benutzt oder höchstens an dieser oder jener  Stelle kurz eingesehen. Meistens nennt Livius als Gewährs-  männer Namen wie Lic. Macer, Val. Antias, Aelius Tubero,  von deren ersterem es z. B. feststeht, dass er ein Geschichts-  fälscher im verwegensten Sinne des Wortes war (Mommsen,  R. Forsch. I, 1 ff. II, 315 f. Seeck, Kalendertafeln der Pon-  tifices S. 42 ff.). Alle Fälschungen darf man freilich nicht  diesen Männern zuschreiben, es giebt Anhaltspunkte, dass die Ausschmückung der Annalen selbst zu Ciceros Zeiten fort-  geführt wurde (Niese, Observationes de annalibus Romanis^  Marburg 1885 L 13). Im einzelnen lassen sich die livianischen  Berichte nicht auf bestimmte Quellen zurückführen. Man hat  ^s zwar, wie für die 3., 4. und 5. Dekade (Nissen, Kritische  Untersuchungen über die Quellen der 4. und 5. Dekade des  Livius. Böttcher, Quellen des Livius im 21. und 22. Buch),  «o auch für die 1. Dekade zu thun versucht (Nitzsch, Röm.  Annalistik; Clason, R. G.); aber die Mittel, die man dabei  -angewandt hat, leisten keine Bürgschaft für die Wahrheit der  Resultate (vgl. Peter, Zur Kriiik der Quellen S. ü ff. Mommsen,  R. Forsch. 224).   Das dargelegte Quellenverhältnis zwischen Diodor und  Livius, wonach Diodor eine weit ältere und getreuere Ueber-  lieferung giebt als Livius, lässt sich für die Kriegsgeschichte,^  Verfassungsgeschichte sowie auch für die Zeitrechnung und  die Fasten, auf denen die Chronologie beruht, nachweisen.  Mommsen hat an schlagenden Beispielen die Güte der diodo-  rischen Tradition gegenüber der sonstigen , namentlich der  livianifcchcn, nachgewiesen (R. Forsch. II, 222 fl'.). Zwei der  Mommsenschen Beispiele betreffen die Fasten (die Consuln  des Jahres 433, die Consulartribunenliste a. a. O.). Selbst  bei chronologischen Einzelan?ätzen ist derjenige Diodors, wenn  €r von dem des Livius abweicht, immer der richtige.   Gerade in der Zeit des sog. zweiten Samnterkrieges, in  welche die Censur unseres App. Claudius fällt, können wir  mehrfach bei Livius Verschiebungen von Ereignissen um  mehrere Jahre finden, so berichtet Livius den Waffenstillstand  des Jahres 320 zu 318 (IX, 20 vgl. Rhein. Museum 25, 34;,  so setzt er den Anfang des Etruskerkrieges (310) schon ins  Jahr 312 (Liv. IX, 29, 1. Diodor XX, 35. Fleckeisens  Jahrb. Splb. 13, 708).   Das allgenn'ine QuellenverhälMiis, wie wir es dargestellt  haben, weist darmif hin. 'lass wii in Betreff des Zeitansatzes  der Censur unseres Ajjp. Claudius bei Livius eine Verschie-  bung anzunehmen und dem Diodor zu folgen haben werden. Zudem lassen sich hierfür eine Reihe von sachlichen Gründen  geltend machen. Zunächst ist zu erwähnen, dass sich in des  Livius eigener Erzählung Spuren von der ünwahrscheinkeit  seines Ansatzes finden. Wenn nämlich Livius den Amts-  antritt des Censors in das Jahr 312 setzt (IX, 29, G) und  zum Jahre 310 berichtet (IX, 33, 3ff), dass die 18 Monate,  in welchen App. Claudius nach der lex Aemilia gesetz-  mässiger Censor war, abgelaufen seien, so folgt daraus, dass  sich die 18 ]\Ionate auf ;> Jahre erstreckt liätten, und dass  App. Claudius seine Censur in der zweiten Hälfte des Jahres  312 angetreten habe. Nun aber ist nach allem, Avas wir von  diesen Verhätnissen wissen, ziemlich sicher, dass die Censoren  gewöhnlich kurz nach dem Amtsansritt der ihre Wahl leitenden  Oberbeamten, der Consuln, d. i., um hier nur eine allgemeine  Bestimmung zu geben, im Frühjahr gewählt wurden i]\Iommsen,  Str. II, 324 ff.)? sodass also die 18 Monate jedes Mal schon  im nächsten Jahre abliefen. Eine Erstreckung der Censur  über 3 Jahre ist nirgends bezeugt, vielfach aber ist überliefert,  dass das Lustrum, der Abschluss der censorischen Thätigkeit,  im folgenden Jahre stattfand (z. B. i. J. 300, De Boor,  fasti censorii S. 9., Liv. X, 9, 14. i. J. 294. De Boor, S.  10, Liv. X, 47, 2. i. J. 209. De Boor S. 15, Liv.  XXVII, 36, 6 cf. 11, 7 u. s. w.). So wird auch die Censu  des App. Claudius, solange sie rechtmässig war, t^ich nicht  über 3 Jahre erstreckt haben. Vielmehr wird durch diese  Angabe des Livius sein chronologischer Ansatz sehr unwahr-  scheinlich gemaclit.   De Boor (fasti censorii 44) hat die zwischen Diodor und  Livius bestehende Differenz zu Gunsten des livianischen An-  satzes so auszugleichen versucht, da^s er annimmt, Diodor  habe die Censur deswegen zum Jahre 310 behandelt, weil er  unter diesem Jahre in seiner Quelle die wichtigsten Ereignisse  der Censur, die Zwietracht des App. Claudius mit seinem  Collegßn C. Plautius und die Uebertretung des über die  Dauer der Censur gegebenen Gesetzes (lex Aemilia) von  Seiten des App. Claudius, berichtet gefunden hätte. Diese Annahme hebt aber einerseits nicht das Bedenken, welches  über die Ausdehnung der Censur oben geltend gemacht ist,  und dann widerspricht sie direkt den Worten Diodors, dessen  Bericht so beginnt: tv <)t ' Pv'tiii] zcaa rovrov iny triavrov   /444 \ ^ f ', ^ ' t f " # 1'^ '   f -J Tiiirini^ hi/.inro y.ca lovntv o fTfooc, ^iTTcrio^ hhxv-  tho^ etc. —   Man könnte nun für den livianischen Ansatz anführen,  dass sowohl die Capitolinischen Fasten, als auch Frontin und  Cassiodor mit Livius übereinstimmen. Frontin (de aquis 5)  und Cassiodor setzen die Censur unter das Consulat des M.  Valerius und P. Decius d. h. in das Jahr 312. Aber dies  hat unserer Ansicht nach absolut keine Bedeutung; denn die  gesamte nachlivianische Geschichtschreibung über die römische  Republik ruht auf den Schultern des Livius, alle Historikei*^  nach Livius gebrauchen ihn als Gewährsmann, so haben auch  sor.der Zweifel Frontin und Cassiodor diese chronologische  Angabe aus Livius geschöpft.   Von grösserer Bedeutung schon könnte es sein, dass die  Capitolinischen Fasten gleichfalls mit Livius übereinstimmen,  indem sie berichten (C. J. L, I, 432 z. J. ^, De Boor, a. a.  O. S. 8), dass im Jahre 312 App. Claudius und C. Plautius  das 2ß. Lustrum gefeiert hätten. Es pflegen nämlich die  Capitolinischen Fasten zum Antrittsjahr der Censoren die  Lustration zu berichten, obwohl das Lustrum doch als Schluss-  akt der censorischen Thätigkeit gegen Ende der Censur, also  im 2. Jahre der Censur, abgehalten wurde (Mommsen, Str. 11^  326 A.).   Aber auch diese Uebereinstimmung des Livius mit den  Capitolinischen Fasten kann nichts für den livianischen Ansatz  beweisen. Es ist zwar sicher, dass die Fasten des Livius^  obwohl die Capitolinischen Fasten, als Livius schrieb, schon  auf dem Forum standen (Mommsen, R. Forsch II, 81), doch  von den letzteren unabhängig sind, und dass zwischen beiden  die grundsätzlichen Differenzen bestehen, welche überhaupt  die Fasten der Jahrtafel (Fasti Capitolini, Chronograph v. J.  354, Idatius, Paschalchronik) von denen der Chroniken  —   <Diodor, Dionys, Livius, Cassiodor) trennen, deren wesent-  lichste die ist, dass die Jahrtafel die sog. 4 Diktatorenjahre  <333, 324, 309, 301 v. Chr.) der chronologischen Aus-  gleichung wegen eingefügt hat, während die Chroniken  -dieselben weder nennen noch zählen (Mommsen, R. Chronol.  110 ff.). Aber ebenso sicher ist, dass die Capitolinischen  Fasten, wie die gesamte Jahrtafel, aus keiner besseren und  früheren Quelle geflossen sind als die des Livius, während  <iie Fasten und die Chronologie des Diodor auf derselben  guten, alten Quelle beruhen, aus denen seine Berichte ge-  flossen sind (vgl. Rhein. Museum 37,611). Es giebt eine  Menge Beispiele dafür, dass, während Livius und die  €apitolinisclien Fasten gefälschte oder entstellte Fasten und  falsche Chronologie haben, Diodor die echten Fasten bewahrt  und die richtige Chronologie giebt (vgl. Mommsen, R. Forsch II,  222 u. passim). Deshalb geben wir auch hier dem diodorischen  Ansatz den Vorzug.   Es bedarf noch der Untersuchung, wie derselbe in die  Reihe der Lustren und Censoren, die uns, obzwar nicht von  'Quellen ersten Ranges überliefert ist, passt. Die Vorgänger  des App. Claudius in der Censur traten ihr Amt i. J. 318 an.  Darin stimmen die Capitolinischen Fasten mit Diodor und  Livius überein (C. J. L. I, 432 z. J. ^f, Diod. XIX, 10  Liv. IX, 20, 5). Wenn die beiden letzten dies auch nicht  ausdrücklich sagen, so berichten sie doch, dass in diesem  Jahre die Tribus Falerna und Ufentina neu eingerichtet seien.  Die Neueinrichtung der Tribus war aber ein censorisches  Geschäft (Liv. VIII, 17, 11. X, 9, 14 cf. Mommsen, Str. II,  361 m. A. 1.) Zwischen dem Amtsantritt, und füglich auch  dem Lustrum, dieser Censoren und demjenigen des App.  Claudius und C. Plautius lagen demnach, wenn wir dem  Livius und den Capitolinischen Fasten folgen, 6 Jahre (318—312);  wenn wir mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius ins  Jahr 310 setzen, 8 Jahre (318—310). Die nächsten Censoren,  M. Valerius und C. Junius, wurden im Jahre 307 gewählt  <fasti Capit. C. J. L. I, 432 z. J. ^J^ Liv. IX, 43,25). Das  Lustrurn des App. Claudius und C. Plautius ist also nach  Livius vierjährig (312—307), nach Diodor zweijährig (310—307);  das Jahr 309 ist nämlich als Diktatorenjahr nicht zu berechnen^   Die Nachfolger in der Censur, Q. Fabius u. P. Decius,  bind nach dem Zeugniss des Livius (IX, 46, 13,) und der Ca-  pitolinischen Fasten ((J. J. L. z. J. ~) i. J. 304 gewählt; efv  liegen also zwischen ihrem Amtsantritt und dem ihrer Vor-  gänger drei Jahre (307 — 304). Das Lustrum des Q. Fabius^  u. P. Decius war dreijährig; die folgenden Censoren traten  nämlich ihr Amt i. J. 300 an, wie ^loramsen aus den Resten  der Capitolinischen Fasten eruiert hat (C. ,1. L. I, 566  z. J. ~) ; das Jahr 303 ist dabei als Diktatorenjahr nicht zu  rechnen.   Schon aus dieser Reihe der Lustren, welche dem des-  App. Claudius und C. Plautius unmittelbar vorangingen und  folgten, geht hervor, dass das Lustrum kein bestimmter Zeit-  raum damals gewesen sein kann. In der späteren Zeit, seit  dem hannibalischen Kriege, wurde als regelmässige Frist des-  Lustrums 5 Jahre festgesetzt und es ist lange so durchgeführt  worden (De Boor, fasti censorii S. 15 — 20), bis die beginnende  Revolution das Institut erschütterte und bald ganz zerstörte  (Mommsen, Chronol. 161. Str. II, 318). In der früheren  Zeit waren die Lustrenintervalle ganz imbestimmt ; es werden  Lustren von 3, 4, 5 und mehr Jahren überliefert (De Boor,  a. a. 0. S. 1 — 14), ja eins wird ausdrücklich als siebzehn-  jährig bezeichnet (Dionys XI, 63). Eine solche Unregel^  mässigkeit kann doch offenbar nicht erklärt werden, wenn  man nicht für die frühere Zeit auf die Annahme des Lustrums^  als einer festen Zeitfrist verzichtet; falsch ist es, wenn  Mommsen meint, das Lustrum sei, wie die griechische Olym-  piade, ursprünglich ein vierjähriger Zeitraum gewesen, aber  es sei dies nur als Minimaldauer festgesetzt worden (Chronol.  158. Str. II, 316): es sind ja doch mehrere dreijährige  Lustren sicher bezeugt ; unbewiesen ist ferner, wenn De Boor  als anfängliche Minimaldauer des Lustrums drei Jahre ansetzt  (a. a. 0. S. 43 f.).  Die Dauer des Lustrums war ohne Zweifel von der all-  gemeinen Lage des Staates abhängig, je nach den Bedürfnissen  war das Lustrum länger oder kürzer. Für mehrere Lustren  ist es bezeugt, dass sich ihre Kürze aus der Lage der Zeit  erklärt z. B. für die des Jahres 89 u. 92 v. Chr. (vgl. Rhein.  Museum 25, 487).   Da nun das Lustrum ursprünglich kein fester Zeitraum  war, so widerspricht dem die Annahme des appianischen  Lustrums als eines zweijährigen (310—307) nicht, obgleich  kein anderes von solcher Kürze nachweisbar ist. Diese aber  erklärt sich aus den Zeitverhältnissen von selbst : Die Patrizier  waren durch die Anordnungen des Censors App. Claudius,  seine senatus lectio und Tribusänderung, hart getroffen und  suchten so schnell als möglich dieselben zu nichte zu machen  (s. unten, vgl. Niebuhr, R. G. III, 374. Mommsen, Chronol.  160 f. A. 320). Deshalb wählten sie schon zwei Jahre nach  dem Amtsantritt des App. Claudius, also gleich im Jahre  nach des Appius Lustration, i. J. 307, neue Censoren, den  M. Valerius u. C. Junius. Da aber diese Censoren nichts  erreichen konnten — wir wissen nicht, aus welcher Ursache,  da von ihrer Amtsführung nichts überliefert ist (Liv. IX,  43, 25. Val. Max. II, 9, 2) — so wurden schon nach weiteren  drei Jahren, i. J. 304, neue Censoren in den Personen des  Q. Fabius u. P. Decius gewählt, welche alsbald die Tribus-  verteilung des App. Claudius rückgängig machten oder  wenigstens umänderten (s. unten). Auch die anstössige Senats-  liste des App. Claudius (s. unten) wurde von den Patriziern  sogleich umgestossen, u. zwar sofort von den Consuln des  folgenden Jahres. Dies waren, wenn wir, wie es richtig ist,  mit Diodor den Amtsantritt des App. Claudius in das Jahr  310 setzen — das Jahr 309 ist Diktatorenjahr — die  Consuln d. J. 308, Q. Fabius u. P. Decius (Diod. XX, 37.  Liv. IX, 41). Also haben, wenn wir der guten Quelle Diodors  folgen, dieselben Männer, welche als Censoren i. J. 304 die  Tribusänderung des App. Claudius rückgängig gemacht haben,^  als Consuln i. J. 308 die Senalsliste des App. Claudius umgestossen. Und es ist diese Thatsache in sich sehr wahr-  scheinlich: denn nachdem die ersten Nachfolger des App.  Claudius in der Censur die Abschaffung der Tribusänderung  des App. Claudius nicht hatten erreichen können, ist es sehr  natürlich, dass die Patrizier nun die Männer, welche schon  als Consuln so energisch gegen die Neuerungen des App.  Claudius vorgegangen waren, zu Censoren wählten.   Dies von der Kritik hergestellte Zusammentreffen scheint  mir unsere Ansiclit, dass Diodors chronologischer Ansatz der  richtige sei, wesentlich zu stützen.   In den Quellen des Livius ist also die Censur von 310  auf 312 verschoben: der Grund dieser Verschiebung hängt  mit der Ansiclit des Livius über die Amtsdauer des App.  Claudius zusammen, worüber wir nun zu sprechen haben.   Die Censur ist nach der Ueberlieferung (Liv. IV, 8,  Dion. XI, 63, Zonaras VII, 19, Val. Max IV, 13, Frontin,  de aquis 5) bei ihrer Einsetzung (443 v. Chr.) als fünfjährige  Magistratur bestimmt worden. Die lex Aemilia d. J. 434  V. Chr. soll sie dann auf 18 Monate beschränkt haben (Liv.  IV, 24). Wahrscheinlich aber ist sie überhaupt erst i. J.  434 V. Chr. eingesetzt worden u. von Anfang an auf 18 Mo-  nate beschränkt gewesen (Mommsen, Chronol. 91, Str. II, 322,  vgl. dagegen Rhein. Museum 25, 480 ff.).   Die angeführte lex Aemilia nun hat App. Claudius, so  erzählt Livius, eigenmächtig übertreten, indem er nach Ver-  lauf von 18 Monaten sich das Amt selbst prorogierte  (Liv. IX, 29, 8. 33, 34). Betrachten wir die Angaben des  Livius hierüber, so müssen wir zunächst das Resultat einer  Mommsenschen Abhandlung berücksichtigen: „Die patrizischen  Claudier" (Rom. Forsch. I, 287 — 318). Mommsen hat darin  nachgewiesen, dass in den jüngeren römischen Annalen, bei  Livius u. Dionysius u. bei den aus diesen schöpfenden Sueton  u. Tacitus alle Glieder der alten und hochadligen gens Claudia  eine ähnliche oder dieselbe Rolle spielen, indem sie sämtlich  vom höchsten Adelstolz und höchster Feindseligkeit gegen die  Plebs beseelt sind. Nicht bloss wird dies häufig von der  geiiB Claudia im allgemeinen ausgesagt (gens superbissima in  plebem Romanam Liv. II, 56), sondern man lässt alle Claudier,  welche auf dem politischen Schauplatz auftreten, harte Kämpfe  mit der Plebs und den Volkstribunen auskämpfen. Ja, es^  kehren sogar häufig Reden von Claudiern gegen die Plebs oder  umgekehrt claudierfeindliche Reden von Volkstribunen wieder,  worin sich offenbar die Erfindung ausdrückt. Dass Livius  oder Dionysius die Erfinder seien, wird Niemand annehmen.  Mommsen meint, die Fälschung sei in politischer Tendenz ge-  schehen, ein wütender Claudierfeind zur Zeit der Bürger-  kriege habe die Annalen in solch claudierfeindlichem Smne  gefälscht: und zwar sei dies L. Macer gewesen. Die letzte  Behauptung ist völlig unbewiesen, und was die Erfindung  selbst angeht, so glaube ich nicht, dass sie in politischer  Tendenz geschehen ist ; sie scheint vielmehr aus der rlietorischen  Strömung, welche die römische Geschichtschreibung beherrscht,  geflossen. Man suchte nach allen Mitteln, die Erzählung aus-  schmückend zu erweitern, und wie so vieles in den Annalen,  z. B. die meisten Schlachtberichte, nach feststehenden Mustern  erzählt wurde, so wurden, da vielleicht ein Claudier ein  adelstolzer Junker war, alle Claudier schablonenhaft als Volks-  feinde behandelt.   Dieselbe Rolle ist nun auch unserm Censor übertragen,  was wir zunäclist und besonders aus der Erzählung von der  ungesetzlichen Fortführung der Censur ersehen. Livius be-  richtet hierüber zuerst IX, 29, 7 f. App. Claudius, heisst es  da, vollendete die Bauten allein, weil sein College C. Plautius  aus Scham über die ruchlose und gehässige Senatsliste ab-  dankte, während Appius mit dem alten Claudiertrotze die  Censur weiterführte. Daraus muss geschlossen werden, dass  C. Plautius abgedankt habe, ohne die senatus lectio zu  billigen, oder wenigstens gleich nach ihrer Vollendung. Da  aber die Censoren die senatus lectio kurz nach dem Amts-  antritt vornahmen (Mommsen, Str. II, 3i)6, Lange, Alter-  thümer, I, 805. Willems, le senat de la republique Ro-  maine I, 240), was auch nach der Ordnung der Erzählung bei Diodor und Livius in der Censur des App. Claudius ge-  schehen zu sein scheint, so müsste C. Plautius vor Ablauf der  18 Monate abgedankt haben (vgl. Weissenborn, Livius zu IX,  29, 7. Willems, a. a. 0. I, 186). Dies hat schon Frontin  (de aquis I, 5) aus Livius' Worten gefolgert; er sagt: sed  quia is (Plautius) intra annum et sex menses deceptus a  collega . . . abdicavit se censura. Aber an einer späteren  Stelle (IX, 33, 4) sagt Livius selbst, dass C. Plautius nach  Verlauf von 18 Monaten vom Amte abgetreten sei. Er  widerspricht sich also ausdrücklich. Von dem Verhältnis des  App. Claudius zu seinem Collegen wissen wir nur, dass  letzterer alles that oder thun musste, was Appius wollte (Diodor  a. a. O. : VTitjxoov f/wv tov avvcc()xovTCi Aevy.iov nkavTiov)^  also eine untergeordnete Rolle spielte. Er hätte ja die  senatus lectio durch seinen Widerspruch vernichten können.  An das Verliältnis des App. Claudius zu C. Plautius hat die  Fälschung des Livius offenbar angeknüpft. Sie ist gemacht,  um den Censor, den Claudier, als ungesetzlich handelnden  Mann darzustellen, dass er gegen das Gesetz der Collegialität  (Mommsen, Str. IT, 312) die Censur allein fortgeführt habe.  Aber damit begnügte sich der Fälscher noch nicht. Er  erdichtete auch noch eine Fortführung des Amtes über die  gesetzmässige Dauer hinaus. „Viele Jahre, so beginnt Livius  hierüber zu erzählen (IX, 33, 3), waren schon vergangen, seit  zwischen den patrizischen Magistraten und den Volkstribunen  keine Streitigkeiten stattgefunden hatten, als aus der Familie,  quae velut fatalis ad lites cum tribunis ac plebe erat, sich  ein Kampf erhob. App. Claudius konnte nach Ablauf der  gesetzmässigen Frist der Censur nicht bewogen werden, sein  Amt niederzulegen. Der Volkstribun P. Sempronius übernahm  die Aufgabe, ihn zur Abdankung zu zwingen. Livius setzt  selbst hinzu, dass diese actio ebenso populär als gerecht und  auch dem Volke angenehm gewesen sei, w^ie den Optimaten;  dennoch rechnet er sie zu den Streitigkeiten, welche den  Claudiern mit der Plebs und ihren Tribunen gleichsam vom  Schicksal beschieden gewesen seien. Der Tribun Sempronius erinnerte nun den Ap]). Claudius ener-iscli an die lex Aemilia.  Dieser erwiderte, dnss dies Gesetz nur für die beim Erlass  desselben amtierenden Censoren bindend gewesen wäre,  während alle danach gewählten Censoren und also auch er  selbst nicht von ihm betroffen würden ; denn, sagt er, id quod  postremum popuhis iussisset, ius ratumque esse. Wie  sophistisch dieses Zwölftafelgcsetz hier angewandt wird, liegt  auf der Hand. Eine rechtliche Begründung für die Amts-  verlängernng, die dem App. Claudius in den l\lund gelegt  werden könnte, fehlt völlig; aber darauf kam es auch den  Fälschern nicht an, sie wollten eben den Claudier als einen  jedes Gesetz verachtenden Mann darstellen. Alsdann lä&st  Livius den Tribun Sempronius eine längere Rede lialten (IX,  34), in welcher der gens Claudia ein langes Sündenregister  vorgehalten ^'ird. Es kehren, wie erwähnt, solche claudier-  feindliche Reden oder auch Reden von Claudiern gegen die  Plebs sehr häufig bei Livius wieder (vgl. II, 56, 57. IV, 48.  Y 3 — 6. VI, 40, 41 u. a.) u. sie stehen sämtlich auf dem-  selben Niveau, d. h. sie sind sämtlich erdichtet, entstanden aus  dem rhetorischen Bedürfnis der Annalisten ihre Erzählung  auszuschmücken. Dennoch, so erzählt Livius weiter, stehen  dem App. Claudius sechs Volkstribunen bei, und er führt  summa invidia omnium ordinum die Censur allein w^elter.   Die inneren Unwahrscheinlichkeiten, die wir in diesem  Berichte dargelegt haben, machen uns sehr misstrauisch gegen  denselben. Dazu kommt aber noch eine ganze Reihe von  Gründen, durch welche der ganze Bericht als völlig un-  historisch erwiesen wird. Zunächst ergeben sich einige aus  Livius selbst. Wenn Livius den Tribun Sempronius sagen  lässt: „Satis est aut diem aut mensem censurae adicere?  triennium, inquit, et sex menses ultra quam licet Aemilia  lege censuram et solus geram% so folgt daraus, dass Livius  annimmt, App. Claudius habe das Amt fünf Jahre beibehalten  wollen, und da er ausser einer Andeutung (s. unten) nichts  weiter hierüber sagt, so scheint er auch anzunehmen, App.  Claudius habe dies durchgeführt. Der Verfasser von „de viris illustribus" hat dies offenbar aus der Angabe des Livius  gefolgert, wenn er sagt: censuram solus omnium quinquen-  nis obtinuit. Von der Abdankung des Censors sagt Livius  selbst nichts, er führt nur eine Version an (IX, 42, 3), dass  nämlich Appius Claudius noch als Censor sich um das  Consulat ])eworben hätte, aber vom Tribun L. Furius ge-  zwungen sei, die Censur niederzulegen, und dann zum Consul  gewählt sei: Livius scheint sich dieser Version anzuschliessen.  Danach hat also App. Claudius seine Censur am Ende d. J.  308 niedergelegt; das konnten die Annalisten nicht ändern,  weil 307 neue Censoren und Appius Claudius selbst für  dieses Jahr als Consul in den Magistratsfasten verzeichnet   waren.   Nun liegen nach den Capitolinischen Fasten zwischen  312 und 307 zwar 5 Jahre, nicht aber so bei Livius, da er  ja das Diktatorenjahr 309 nicht kennt und zählt: seine An-  sicht, App. Claudius habe die Censur 5 Jahre hindurch be-  hauptet, wird also durch seine eignen Angaben widerlegt.   Dass App. Claudius sich noch als Censor um das Con-  sulat beworber habe, ist eine Erfindung eines Annalisten, der  dem Censor ausser den genannten Ungesetzlichkeiten noch  ^as Streben nach der Cumulierung zweier hoher Amter an-  dichtete, um ihn noch schärfer als Verächter aller Gesetze  darzustellen.   Bei dieser ganzen Erdichtung von der gewaltsamen Proro-  gation der Censur durch App. Claudius hat man ohne Zweifel  nach Analogie dessen verfahren, was von dem Ahnen unseres  Oensors, dem Decemvirn gleichen Kamens, überliefert ist, der  decemvir in annum creatus, altero anno se ipse creavit, tertio  nee a se nee ab ullo creatus fasces et imperium obtinuit (Liv.   IX, 34, 1).   Nach unserer Ansicht ist demnach der Bericht des Livius  über die gesetzwidrige Amtsverlängerung des Censors von  Anfang bis Ende erfunden. Dafür spricht ausser der oben  gegebenen Kritik des Berichtes . entscheidend folgende Er-  w^ägung : App. Claudius hat nach der guten Nachricht Diodors   i. J. 310 die Censur angetreten, wir Laben das als historisch  nachgewiesen. Am Ende des Jahres 308 muss er aber ab-  gedankt haben, einmal weil 307 neue Censoren in den Ma-  gistratslisten erscheinen (Liv. IX, 43, 25. C. J. L. I, 432 z. J.  ^), und dann weil App. Claudius selbst i. J. 307 zum Con-   307 ' '   sul gewählt wurde (Diod. XX, 45. Liv. IX, 42, 3. C. J. L. I,   432 z. J. ^).   Zwischen 310 und 307 liegen aber nur zwei Jahre, also  kann die Censur kaum länger als 18 Monate gedauert haben.   Dennoch halten die meisten neueren Forscher, obwohl  sie zugeben, dass in der Erzählung des Livius Vieles er-  dichtet und übertrieben sei, an der Annahme der Prorogation,  der Censur fest. Ja Niebuhr (R. G. III, 356), Lange (Alterth. I,  85 ff.), Siebert (Appius Claudius S. 67 ff.) u. a. folgen dem  Livius fast in dem ganzen, offenbar erfundenen Detail, dass er  die Censur 5 Jahre habe beibehalten wollen, dass er das Con-  sulat der Censur habe cumulieren wollen u. a.   Nur stellen sie, wovon nichts überliefert ist, eine Hypo-  these über den Zweck der Amtsfortführung auf. App. Clau-  dius, meinen sie, habe sich deshalb sein Amt verlängert, um  seine grossartigen Bauten zu Ende zu führen, und damit keinem  andern die Ehre der Vollendung zufalle.   Mommsen schliesst sich dieser Hypothese an, nur ver-  mutet er, es sei keine ungesetzliche Prorogation gewesen. Es  bestand nämlich in der That die Einrichtung, dass die Censur,  wenn 18 Monate nicht genügten, prorogiert wurde „ad  opera, quae censores locassent, probanda et ad sarta tecta  exigenda^' (Liv. 45, 15. cf. Mommsen, Str. II, 324 m. Anm.  1, 2.). Es sei nun, wenn man alles Incriminieren und Moti-  vieren, welches den Claudiererzählungen anzuhaften pflege,  ausscheide, sehr wahrscheinlich, dass auch des App. Claudius  Amtsverlängerung nur eine solche gesetzmässige Prorogation  sei (ähnlich Madvig, Verfassung und Verwaltung I, 396.  Herzog, Geschichte und System l, 273). Aber dagegen ist  zu sagen, dass grade die Ungesetzlichkeit in dem Berichte    <ias Wesentliche ist, dann, dass die kolossalen Bauten, die  des Censors Namen tragen , auch schliesslich in vier oder  fünf Jahren nicht vollendet werden konnten , woran schon  Niebuhr erinnert (R. G. III, 356). Ausserdem ist wohl bei  einer solchen gesetzmässigen Prorogation (ex instituto) immer  beiden Censoren das Amt verlängert, weil, wie Mommsen  selbst sagt, (Str. II, 312 m. Anm, 6), das Prinzip der CoUe-  gialität bei der Censur mit besonderer Strenge gehandhabt  wurde. Und wenn nun Mommsen dennoch meint (a. a. 0.),  dass die appianische Prorogation diesem Prinzip nicht wider-  streite, so scheint mir das keineswegs ein bindender Schluss  zu sein. Endlich liegen, was das Entscheidende ist, zwischen  dem Amtsantritt des App. Claudius und dem seiner Nach-  folger überhaupt nur zwei Jahre (310 — 307 s. oben); die  Censur kann ihm also kaum, jedenfalls nicht 4 oder 5 Jahre  prorogiert sein.   Wiederholen wir kurz unsere Resultate: App. Claudius  trat seine Censur i. J. 310 v. Chr. an und behielt sie ganz ge-  setzmässig 18 Monate lang mit seinem Collegen C. Plautius,  der ihm völlig zu Willen war {vTir/.oog),   Wir kommen nun zu den Thaten des Censors.   Cap. 2.  Die Bauthätigkeit des App. Claudius.   Eine Hauptseite der censorischen Thätigkeit war die Re-  gulierung der Gemeindeeinnahmen (mit Ausnahme der persön-  lichen, directen Vermögenssteuer, des Tributums) und der Ge-  meindeausgaben.   Nach der römischen Finanzpraxis wurden die indirecten  Staatseinnahmen von jeglichem ertragsfähigen Staatsgut (Zölle,  Gemeindeland, Ausbeutung von Flüssen, Seen, Bergwerken u.a.)  nicht direct vom Staate erhoben, sondern an einzelne Unter-  nehmer zur Ausnutzung gegen eine bestimmte Entrichtung  an die Staatskasse verpachtet.   Ebenso Hess der Staat die Lieferungen, die er brauchte,  und die Arbeiten, die er vornehmen Hess, an Private verdingen  (locare opera publica od. sarta tecta od. ultro tributa).     99     Die Censoren waren es, welche mit diesen Verpachtungen  beider Art betraut waren. Aber sie standen dabei unter der  Oberaufsicht des Senates. Neue Zölle konnten sie z. B. nur  mit Bewilligung des Senates anordnen, der Senat konnte cen-  sorische Verpachtungen rückgängig machen, die Pachtsumme   ^rmässigen u. a.   Bei vielen Ausgabeposten wurde den Censoren nicht bloss  die Verdingung, sondern auch die Überwachung, Leitung und  schliessliche Übernahme der Arbeit übertragen (Polyb. 6, 17  Liv. 42, 3 faciendum oder reficiendum curare C. J. L. I,.   p. 177, n. 605).   Dies geschah namentlich bei den öfFentlichen Bauten, bei  Reparaturen (z. B. des Circus Liv. 41, 27, der Mauern Liv.  6, 32, der Strassen Liv. 29, 37. 41, 47, Wasserleitungen,  Frontin. aq. 95 u. a.) wie bei Neubauten (z. B. bei Tempeln,  Basiliken, Theatern, Brücken, Heerstrassen, u. a.). Nach  dieser Seite hin wird die censorische Competenz gradezu als  Fürsorge für die Bauten aufgefasst. Aber auch hierbei waren  sie vom Senat abhängig. Vor allem musste der Senat die-  Gelder verwilligen; nur wenn und insoweit es der Senat ge-  stattete, konnten die Censoren das aerarium in Anspruch nehmen,,  und zwar durch Vermittlung der Quästoren, welche als Ver-  walter der Staatskasse die Gelder einnahmen und auszahlten.  Der Senat bewilligte den Censoren eine Bauschsumme (pe-  cunia decreta Liv. 39, 44. Polyb. G, 13), jedoch als certa pe-  cunia, und zwar gewöhnlich eine gewisse Quote der Staats-  einnahmen (vectigal annuum Liv. 40, 46. 44, 16). Was die  Censoren im einzelnen damit anfangen wollten, war ihre Sache.  Inwieweit sie darin vom Senat abhängig waren, ob sie z. B.  zu Neubauten die Einwilligung des Senates einholen mussten  (cf. Liv. 36, 36), lässt sich nicht bestimmen.   Soviel musste ich im allgemeinen über diese Seite des  censorischen Amtes vorausschicken, um die Thätigkeit des-  App. Claudius in dieser Hinsicht richtig zu würdigen.   Die Censur des App. Claudius ist nämlich die erste, bei  der uns dies censorische Geschäft in der Überlieferung entgegeniritt, und App. CLnudius n acht von dieser Seite semes  Amtes in so grossartiger und zugleich von der gewöhnlichen  und späteren Handhabung dieses Rechtes verschiedentlich in  so abweichender Art Gebrauch, wie es kaum wieder ge-   schehen ist. .   Über die Bauthätigkeit des Censors App. Claudius sind  ausser den Notizen bei Diodor und Livius noch die Angaben  des S. Julius Frontinus in seiner Schrift „de aquis Romae" zu  benutzen. Ohne Zweifel beruhen die Angaben Frontins, der unter  dem Kaiser Nerva 97 n. Chr. curator aquarum war (Fronün 1. c.  Einleitung), auf eigener Erfahrung und Anschauung. Ausführ-  lich und klar beschreibt er auch die aqua Appia, berichtet, wo-  her sie kommt, wie lang sie ist, welchen Weg sie nimmt etc.  Was er sonst über die Censur des App. Claudius beibringt,  ist offenbar aus den Hvianischen ähnlichen Quellen geschöpft.  Auch Diodors Angaben sind relativ ausführlich, und mit Recht  nimmt Mommsen an, dass der vielgereiste Verfasser (Diodor  1, 4) hier aus eigener Anschauung spricht (Mommsen, Rom.   Forsch. II, 284 A. 90).   Livius berührt die Bauten des Appius nur ganz kurz;  doch ist bemerkenswert, dass er, während er im allgemeinen  sowohl in dem Sachlichen als in der Beurteilung sehr von  Diodor abweicht, im Lobe der Bauthätigkeit des Censors mit  ihm übereinstimmt. Er sagt (IX, 29,6): et censura clara  eo anno App. Claudii et C. Plautii fuit, memoriae tamen  felicioris apud posteros quod viam munivit et aquam in urbem  duxit, und bei Diodor heisst es: caror d^ ^nriiehn' c^Jcaarov   Die Bauwerke, welche des App. Claudius Censur ver-  ewigen, sind die Wasserleitung und die Heerstrasse, welche  beide seinen Namen tragen, die via und aqua Appia.   Es war nämlich das Recht des bauleitenden Beamten, den  öffentlichen Gebäuden, natürlich mit Ausnahme der Tempel,  seinen Namen beizulegen; seit App. Claudius ist dies wenig-  stens zumeist geschehen, und es scheint sein Beispiel dies Recht  hervorgebracht zu haben, da sich vor ihm keine solche Fälle nachweisen lassen. Die grossartigen Bauwerke der Republik  in der Stadt Rom sind fast alle nach ihren Erbauern genannt,  die mit wenigen Ausnahmen Censoren sind (Beispiele : basilica  Porcia, Aemilia-Fulvia , Sempronia; circus Flaminius. Die  Erbauer der Bauten ausserhalb Roms sind nicht Censoren,  ausgenommen von zwei Heerstrassen, der via Appia und   Flaminia).   Die aqua Appia ist der älteste und erste Trinkwasser-  aquadukt Roms, deren es später so viele gab. Bis zur Zeit  des Appius hatte man sich mit dem Wasser mehrerer Quellen  und Brunnen (Frontin I, 4: putei, worunter auch Cisternen  bejrriften werden können. Kiebuhr, R. G. III, 359 A. 24)  begnügt, ja man hatte Tiberwasser getrunken (Frontin a. a. O.j.  Der Ruhm, die Quellen gefunden zu haben, aus denen  die aqua Appia gespeist wurde, wird dem Collegen des Appius,  L. Plautius, zugeschrieben, der deshalb den Beinamen Venox  (von Vena) erhalten haben soll (Frontin I, 5. Fasti Capit.  C. J. L. I, 432 ad a. 442: qui in hoc honore Venox appel-  latus est). Das Bedenken Drumanns, dass dies Cognomen  nicht von vena abgeleitet sei, da hiervon besser Venosus ge-  bildet werde, sondern mit dem häufig in der gens Plautia  wiederkehrenden Cognomen Venno oder Veno (vgl. Liv. VIII,  19, IX, 20) identisch sei, scheint in der That begründet.  Die Quellen, welche diese etymologische Ableitung geben,  leisten nicht hinlänglich Gewähr für die Richtigkeit derselben ;  es scheint nur ein Versuch der Erklärung des Cognomens zu  sem, wie wir von dem des Appius selbst mehrere finden werden.  Den Lauf der aqua Appia beschreibt Frontin (I, 5) fol-  gendermaassen : Concipitur Appia in agro Lucullano via Prae-  nestina inter milliarium septimum et octavum deverticulo sinis-  trorsus passuum septingentorum octoginta; ductus eius habet  longitudinem a capite usque ad Salinas, qui locus est ad por-  tam Tergeminam, passuum undecim millium centum nonaginta:  ex eo rivus est subterraneus — offenbar absichtlich unter-  irdisch, damit das Wasser nicht abgeschnitten würde (Nie-  buhr, R. G. III, 361) — passuum undecim millium centum triginta : supra terram substructio et opus arcuatum proximum  portam Capenam — ein Mauerwerk, welches wahrscheinlich  die sog. XII portae bildete (vgl. Siebert, App. Claudius  S. 63).   Jungitur ei ad Spem veterem in confinio hortorum Tor-  quatianorum . . . ramus Augustae ab Augusto in supple-  mentum eius additus . . . hie via Praenestina ad milliarium  sextum deverticulo sinistrorsus passuum nongentorum octoginta  proxime viam Collatiam accipit fontem, cuius ductus usque  ad Gemellos efficit rivo subterraneo passuum sex millia tre-  centos sexaginta. Incipit distribui Appia imo Publica clivo  ad portam Trigeminam (Frontin, de aq. I, 5. cf. Kiebuhr,  R. G. III, 356 ff\ Siebert, App. Claud. S. 62 f. Becker,  Handbuch I, 702. Jordan, Topogr. der Stadt Rom I, 456.  <jf. „Auetor de viris illustr." 34, der die aqua „Anienem'^  nennt, was oifenbar ein Schreibfehler ist. Eutrop II, 4 nennt  sie „aqua Claudia", die erst von Kaiser Claudius ausge-  führt ist).   Wie Frontin angiebt (s. oben) hatte man in dem Thal  zwischen dem Caelius und Aventinus ein Mauerwerk von nur  60 Schritt nötig; daraus zieht Kiebuhr mit Recht den Schluss,  dass die Gänge nicht eben sehr tief gelegt waren (R. G. III,   361).   Die aqua Appia war von den 9 Wasserleitungen, die  €s zur Zeit des Kaisers Claudius gab, die zweitniedrigste  (Siebert a. a. O. 62). Sie konnte daher nur den niedrigsten  Stadtteilen, der Vorstadt, dem Circus, dem Velabrum, dem  Vicus Tuscus, vielleicht noch der Subura, Wasser zuführen  und selbst diesen kaum in ausreichendem Maasse (Kiebuhr,   R. G. III, 361). —   Das grössere der Bauwerke des Censors ist jene Heer-  strasse, welche gleichfalls seinen Kamen trägt. Es scheint  aber nicht die älteste ihrer Gattung zu sein ; bei der  via Latina und Salaria weist der Käme auf höheres Alter hin,  (Kiebuhr, R. G. III, 359). Die späteren Heeresstrassen, welche  in Italien censorische Bauten (Flaminia, Aemilia) , in den     v"     r . -a i. "a > < 4 4     ~ 26 —   Provinzen und im cisalpinisclien Gallien consularisclie Baute»  sind (Aemilia in Gallia cisalpina, Postmnia ebenda, Doniitia in  iS^arbonensis u. a.), sind alle nach ihren Erbauern genannt;,  die via Appia wäre also die erste, bei der dies geschehen  ist, sodass also allgemein das Beispiel des App. Claudius das  Recht der Eponymie für die bauleitenden Beamten hervor-  gebracht zu haben scheint.   Es führte die via A])i)ia an der ]\[eeresküste entlang  durch die Städte Terracina, Fuudi, lAIola bis nach Capua.  Durch die pomptinischcn Sümpfe hat erst Trajan die Strasse  gebaut. App. Claudius hat durch dieselben wahrscheinlich,  nur einen Damm gelegt, während man als lleeresstrasse  durch die Sümpfe von Velitrae nach Terracina damals die-  via Setina benutzte (Niebuhr, R. G. III, 358).   Diodor berichtet, dass App. Claudius die via Appia von-  Rom bis Capua mehr als 1000 Schritte weit zum grössten  Teil mit festen Steinen gepflastert habe (//^o/c; ateoeolg-  yxalöTQOJüev), Nissen (Pompejanische Studien S. 519) meint,  dies sei nicht recht: Diodor und seine Gewährsmänner  hätten ihre eigene Zeit vor Augen, wenn sie von der  Pllasterung der via Appia sprächen (ebenso der Verfasser  von „de viris illustribus" 34 und Procop, bell. got. I, 14).  Denn erst i. J. 29G sei die erste Strecke der via Latina  saxo quadrato (Peperinplatten, Kiebuhr III, 357. Nissen,  a. a. O.) gepflastert, und zwar eine semita von der porta Ca-  pena bis zum Marstempel, so berichte Livius (X, 23). Dann  hätten i. J. 293 die curulischen Aedilen die Chaussee von dort  bis nach Bovillae silice (Lavapolygonen, s. Niebuhr und Nissea  a. a. 0.) zu pflastern fortgefahren (Liv. X, 47). ]\lir scheint  aber durch diese Notizen des Livius das Zeugnis Diodors  noch nicht aufgehoben zu werden. Es ist zwar zuzugeben,,  dass App. Claudius die Chaussee nicht schon mit der Kunst  und in der herrlichen Weise gepflastert habe, wie die römi-  schen Heerstrassen später gepflastert wurden. Aber der Aus-  druck Diodors {yMCtocQtoü'F — bedecken, bestreuen) braucht  o-ar nicht von einer eigentlichen Pflasterung verstanden zu  werden; und dann sagt Diodor auch nur, dass Appius de»  grösseren Tlieil (n> 'ixUmy uioog) der Strasseso ausgeführt habe.  Worin die wesentliche Arbeit beim Bau dieser Chaussee  bestand, sagt Diodor mit deutlichen Worten: 7('7r rorrtüv  riwg fdr v7ie()tyoviic^ (hanyMif^as, tov^ (>^ ijcyir/ytodets K  y.inhw^ <}vah;ufia(JLV u'^io/jr/oii: fif/rRr^W.c yaniW/AOüF etc...  Dass das Terrain, über welches die Strasse führen sollte, ge-  ebnet wurde, Anhöhen abgetragen und Thäler ausgefüllt wur-  den, dass der Grundbau solid und bequem hergestellt wurde,  - darin bestand zunächst die Hauptarbeit, darin das Ver-  dienst des App. Claudius. Deshalb konnte er mit Repht die  Heerstrasse als sein Werk betrachten, und derselben sein  Name beigelegt werden. Keineswegs aber kann sie App. Clau-  dius schon ganz in der grossartigen Weise vollendet haben,,  in der sie später den Namen regina viarum erhielt.   Mitten in den pomptinischcn Sümpfen, unmittelbar an der  via legte App. Claudius das forum Api)ii an, das jetzt noch  als Foro Appio existiert (vgl. IMommsen, U. Forsch. IL 309.  Niebuhr, 11. G. HL 358. Lange, Alterth. II, 87). Hier  scheint er sich selbst eine statua diademata gesetzt zu haben,.  woraus das Gerücht entstanden ist, dass er sich Italien per  clientelas habe unterwerfen wollen. Denn was Sueton (Tib. 2>  über einen gewissen Claudius Drusus sagt, bezieht sich, wie  Mommsen überzeugend dargethan hat (R. Forsch. II, 305 ff.  vgl. Niebuhr, R. G. HI, 355 ff. und Strebe, xM. L. Drusus,  Diss. Marburg 1889), auf unsern App. Claudius.   Diodor setzt beim Bericht über die aqua Appia hinzu r  xcd TioUix TOJV dj;iioouov yorjuucor fig icwn.r T/;r yMiaüxevy-  ccn-hoaev avev d(r/itcaü^ zi^g ücyyhpov; und weiter unten beim  Bericht über die via Appia: xtaco7;/.oKJ6v c^tJüc^c,- 7«^* (5';.«o<^'W  nooooöov^ Wir bemerkten, dass in späterer Zeit die Censoren.  in Bezug auf ihre Ausgaben ganz vom Senat abhängig waren^  indem ihnen eine pecunia certa angewiesen wurde. Wenn  nun Diodor sagt, dass App. Claudius die Staatsgelder urfir  düyftcnog Tr^s; övyyli[iov verwandt habe, so kann er entweder  me'i'nen, dass zur Zeit des Appius lür die censorischen Aus-      -jviibcii tlas ^)uyitlc iP^^ ar/yli\inv noch nicht nötig gewosen sei,  oder, was nilher liegt, dass App. Claudius venuüge seiner  energischen Persönlichkeit sicli von der Abhängigkeit vom  Senate in seinen Geldausgabcn zum öftcntlichen Nutzen trei-  gemaclit habe. Jedenfalls folgt aus der Thatsache, das App.  •Claudius das öoyficc des Senates ganz übergehen konnte, die  weitere, dass die Grenze der Befugnis des Senats und des  Zensors bei den Staatsausgaben nicht gesetzlich scharf ge-  zoecen war, und dass das Schalten der Censoren zu dieser Zeit  freier war als später.   Ein drittes Bauwerk, welches App. Claudius ausführte,  ist der Tempel der Bellona d. i. der griechischen 'Evvu) (Liv. X,  19. Ovid, fasti, 6, 203. C. J. L. I, 287: Elogium des Appius  Claudius); es fällt dies aber erst in seine spätere Lebenszeit.  Ap]-). Claudius ist es aber entgegen der Mommsenschen An-  nahme (K. Forsch. I, 308) nicht gewesen, der in diesem Tem- .  ■pel die Ahnenbilder seiner Vorfahren autgestellt hat (vergl.  Starck, Verhandlungen der dtsch. rhilologenversammlung zu  Tübingen, Lpz. 1877. S. 38 11".). Auf diese Fragen jedoch  brauche ich, da sie sich nicht auf die Ccnsur beziehen, füglich  nicht einzugehen.   Jn der gewaltigen Bautliätigkcit drückt sich sehr prägnant  •der politische Charakter dos Ccnsors und seine politischen Ten-  denzen aus. „Er warf^', sagt ]\Ionnnscn treifend, „das veraltete  Bauernsystem des Si)arschatzsammeln bei Seite und lelirtc  seine ]\Iitbüvger die ölfentlichen jNIittel in würdiger V\Visc zu  gebrauchen'' (R.- G. I, 448). App. Claudius war, wie wir bei  allen seinen politischen Maassnahmen sehen werden, ein De-  mokrat, und zwar förderte er besonders die Verkehrsinteressen,  die der städtischen Bevölkerung; dazu passt vortrefflich, dass  wir ihn als Beförderer des griechischen Einflusses in Kom  kennen lernen, was sich sclion in dem Bau eines Tempels zu  Ehren einer rein griechischen Gottheit ausdrückt.   Vortrefflich passt zu solchen politischen Tendenzen die  Bauthätigkeit des App. Claudius .und die Richtung, in der er  .sie entfaltete.  Cap. 3.  Die Senatsliste und die Rittermusterung des App. Claudius.   Die senatus lectio des App. Claudius ist die erste, über  •welche uns etwas Bestimmtes überliefert ist. Es ist dcshalb-  von liohem Wert, dass wir grade über sie den Bericht eines  80 alten und bewährten Autors, wie ihn Diodor benutzt hat,,  besitzen. Schon zur Zeit des App. Claudius, das sagt Diodor  deutlich, war es Sitte {i}v tO-o^), die euyerelg und u^uoftuöt  nqohyfivieg in den Senat zuzuschreiben {7Toni:'/ou(fetr). Von-  dieser Gewohnheit nun, erzählt Diodor, sei App. Claudius in-  sofern abgewichen, als er nicht bloss diese hinzuschrieb,-  sondern auch viele Freigelassenensöhne darunter niischte-  (avtfu^e jToAAotv ycd ich' dTiF?.8i)0^t()0)v tiovi;),   Livius erzählt zwar zu dem Jahre der Censur selbst nur,  dass die senatus lectio infamis und invidiosa gewesen sei, dass^  sie sine recli pravique discrimine geschehen sei, dabei potiores-  aliquot übergangen seien. Offenbar berichteten seine Quellen  an dieser Stelle nichts Spezielles von der Senatsliste; und  diese hatten die Wahl von Libertinensöhnen in den Senat  ohne Zweifel übergangen, weil eine solche Maassregel dem  hocharistokratischen Charakter, welchen sie dem App. Clau-  dius beilegen, widers])rochcn hätte. Livius selbst aber fügt  an einer späteren Stelle (IX, 4G), die, wie wir darthun werden,  aus einer anderen und besseren Quelle geschö])ft ist, hinzu,,  dass App. Claudius den Senat zuerst durch Libertinensöhne   befleckt habe.   Auch von anderen Geschichtschreibern wird die senatus  lectio des App. Claudius erwähnt. Sueton sagt im Leben  des Claudius (24) : (Claudius imperator) Appium Caecum cen-  sorem generis sui proauctorem libertinorum tilios in senatum  adlegisse docuit, ignarus temporibus Appii et deinceps ali-  quamdiu libertinos dictos non ipsos qui manu mitterentur sed  ingenuos ex his pracreatos.   Aus welcher Quelle Sueton diese Nachricht hat, wisse»  wir nicht; manche neuere Forscher halten sie für richtig; sie      „,cineu also, dass u,>tcr libcrtini ursi,rü,.glich nicht Frei-  gelassene, d. h. ge^-esene Sklaven, sondern deren ^öhne ver-  standen seien (Momnisen, Str. I, 387 f. m. Ann,. Madvg, \ erf.  u Verhalt. I, 137. Siel.crt, Ap,.. Claud. 23 ft. A\ os.senborn.  zu Liv IX, 4C, 1 u. 10). Mommsen, der frülier auch diese  Ansicht vertrat, hat neuerdings seine Meinung etwas geändert  (Str III 422 m. Anm. 2 u. 3). In späterer Zeit hicssen  libcrtini diejenigen, welche Servituten, servierunt oder manu  missi .sunt. ■ Wenn nun Sucton sagt, früher seien als l.bevt.n.  die Sühne solcher Freigelassenen bezeichnet, so schen.t er zu  meinen, dass die Freigelassenen selbst liberti genannt seien..  Dies ist aber sprachlich unmöglich, was durch die Analogien  divus - divinus, masculus - masculinus bewiesen wird (W lUenis,  le sönat, I, 184 ,n. A. 3). Ausserdem widerspricht einer  solchen Annahme der feststehende Unter-schicd der beiden Be-  zeichnungen : beide bez-eichnen nämlich allein den gewesenen  Sklaven, nur dass bei libertinus derselbe nach seiner allge-  meinen bürgerlichen Stellung, bei libertus aber nach dem  Verhältniss zu seinem Herrn verstanden wird (Mommsen,   Str. III, 423). . c . A   So kann also die Stelle Suetons nicht gefasst werden.   Ernesti meint, Sueton wolle sagen, zur Zeit des App. Claudius  seien nicht bloss die Freigelassenen, sondern auch ihre  Sühne libcrtini genannt. Diese Interpretation setzt allerdings  eine ungenaue Ausdrucksweisc bei Sueton voraus; aber sie  kann ja richtig sein, obwohl auch dies noch unbewiesen bleibt.  Es ist ohne jeden Zweifel, dass alle andern Schriftsteller  unter libcrtini nur die Freigelassenen, und zwar für alle Zeiten,  verstehen. Alle beziehen die senatus lectio unseres Censors  auf die Söhne gewesener Sklaven. Diodor nennt die von App.  Claudius in den Senat Aufgenommenen c}Tre).i'^ii>iov wotv,  und von dem i. J. 304 zum curulischen Aedil gewählten An-  lönger unseres Censors, dem Cn. Flavius, sagt er direkt, er  sei der Sohn eines gewesenen Sklaven gewesen (rr«ro<.,- «»■  dsdov/.suxöms). Hiermit stimmen alle andern Gewährsmänner  überein: Livius (IX, 46), der Kaiser Claudius (Sueton 1. c),        l  Tacitus (ann. XI, 24), Plutarch (Pomp. 13). Wir werden  -also mit diesen Autoren annehmen müssen, dass Söhne von  Freigelassenen, niclit Enkel, wie Sueton meint, von App. Clau-  <lius in den Senat aufgenommen seien.   Wertlos ist die Angabe des Verfassers von „de viris  illustribus" (34), dass App. Claudius Libertinen selbst in den  Senat aufgenommen habe.   Die Freigelassenen selbst wie ihre Söhne waren eben,  ^a sie mit dem Makel der Knechtschaft behaftet waren, ob-  Äwar nicht durch Gesetz, sondern nur durch das Herkommen  Tom Senat wie von der l\Iagistratur ausgeschlossen (Mommsen,  Str. l, 459 f.)» während die Enkel der Freigelassenen zu allen  Zeiten zu den ingenui gehört haben (Mommsen, Str. III, 422),  und von den plebejischen Geschlechtern, deren Glieder im  Senat sassen , stammen sicher manche von Libertinen ab  (Willems, le s^nat, I, 188). Indem nun App. Claudius I.iber-  tinensöhne in den Senat wählte, warf er den staatsrechtlichen  Usus, wonach sie vom Senat und von der Magistratur aus-  geschlossen waren, um. Und dies ist der Grund, weshalb  die senatus lectio unseres Censors für so schimpf lieh galt und  den Adel aufs äusserste erbitterte (Diod. 1. c. : i(p' olg ßaQtvf^  i'(feQOV oi yMVXiouaroi 7a/> Fvyeveiai;).   Il2in hat nun die von App. Claudius in den Senat auf-  genommenen Libertinensöhne näher bestimmen zu können ge-  glaubt. Willems meint, es seien solche Libertinensöhne ge-  wesen, welche seit dem .1. 318 v. Chr. Volkstribunen gewesen  .seien (le senat, I, 185 m. Anm. 5). In dieses Jahr ungefähr  setzt nämlich Willems die lex Ovinia, durch welche bestimmt  wurde, dass optimus quisque ex omni ordine — d. h. nach  Willems omni ordine magistratuum et curulium et plebeiorum   in den Senat gewählt werden sollte. Nach diesem Gesetze   * hätten, meint Willems, nicht bloss gewesene Consuln, Prätoren,  <>urulische Aedilen, sondern auch Volkstribunen und plebejische  Aedilen gewählt werden müssen (I, 157 f.).   Dass die von App. Claudius in den Senat gewählten  Libertinensöhne gewesene Volkstribunen seien, glaubt Willems         daraus folgern zu können, dass zu diesem Amte welches zehn  Männer jedes Mal zusammen bekleideten, d,e L.bertmensohne  leichteren Zutritt hatten als zu irgend einem andern Wir  wissen niehts darüber, dass in dieser Zeit schon em L.ber-  tinensohn zum Volkstribunat gelangt sei; L. Macer L.v IX,  46, 3), dessen Zeugnis sehr wenig gilt, überliefert allem dass  Cn. Fiavius vor seiner Aedilität (i. J. 304) sclK,n Volkstnbun  gewesen sei. Es ist dies aber sehr unwahrschemhch, da vor  ier Tribusänderung des App. Claudius das St.mmrecht d r  niedri-en Bürger in den Tributcomitien wenig Gewicht hatte   (s. unten). ,. ^ , xj„„;i   Wie hypothetisch dieser Schluss ist, liegt auf der Hand..  Und dass überhaupt die gewesenen Tribunen hätten in der.  Senat gewählt werden müssen, ist nichts als Vemmtung.  Willems behauptet es nach seiner Auslegung der lex Ovinia.  Ich habe mich auf diese Frage, weil sie memem Ziele fern  liegt, nicht einzulassen, will nur erwähnen, dass m der lex  Ovinia unter omnis ordo, aus dem optimus quisque m den Se-  „at gewählt werden sollte, nicht omnes ordines magis ra uum  et curulium et plebeiorum (Willems a. a. OO, auch nicht blos.  ordines magistratuum curulium (Lange, R. Alterth. I, «U  de plebiscito Ovinio et Atinio. Progr. 7 ff.) zu vers eben  sind sondern dass die Worte am einfachsten und natürlichsten  als der gesamte Bürgerstand zu fassen sind (Hotmann, der rom.  Senat S 7 ff., Becker, Handbuch, II, 2, 300 .Herzog Gesch.  u. System 1,882 f. Mommsen, Str. H, 39o, 397 -• Anm^ 1).  Die senatus lectio des App. Claudius war nicht bloss  wecen der Aufnahme von Libertinensöhnen anstössig, sondern  auch deshalb, weil App. Claudius nicht, wie es die Censoren  zu thun hatten, die anrüchigen Senatoren ausstiess (Diod. 1. c.  o,]J^m rc.> döo^ocvTcov avyy2rjry.ä^v tS^ßale), Beachten wir  aber den Grund, welchen Diodor für diese Maassregel angiebt:  Weil App. Claudius, sagt er, sich bei den Patriziern äusserst  verhasst gemacht habe, so mied er es, bei irgend einem an-  dern Bürger anzustossen, und in dieser Absicht unterliess er  auch die Reinigung der Senatsliste von anrüchigen Personen VeOTUTOL^ TÜV (fd^üVOV^ i^l'xklVF TO TlQOOXÜTlTeiVTlVt liOV tikXcüV   tioXltwv .... xai xaia rtiv riov owtö^icüv xarayQatfr^v ovdh'ct etc.  Diod. 1. c).   In demselben Gedanken nahm er auch bei der Rittermusterung  (equitum recognitio oder census) keinem sein Ritterpferd  (Diod. : xa) xara Trjv tcüv ltitifhov doxLf.iaolav ovdh'a difFiXero  Tov 'iTtJiov), Es ist dies die einzige Notiz, welche wir über  die Rittermusterung des App. Claudius haben. Sein Auftreten  dabei steht aber im Einklang mit seiner politischen Stellung,  die Diodor mit den Worten bezeichnet: ccvTiTayf^a xaxaaxF vciCiov   Die Senatsliste unseres Censors ist aber bald wieder um-  gestossen worden. Die Consuln beriefen, so erzählt Diodor,  aus Hass und zugleich um sich dem Adel gefällig zu zeigen,  den Senat nach der früheren Liste, {sid^" ol fih v^raTot did  zov (fMvov xal did to ßovkEöd^ai rolg sTiKpavsaTaTOic; /«(»/Led^ar  övvijyov irjv GvyxXr^cov etc. Diod. 1. c.)   Damit stimmt Livius über ein (IX, 30, 1,2): Consules  negaverunt eam lectionem observaturos esse et senatum ex-  templo citaverunt eo ordine, qui ante censores App. Claudium  et C. Plautium fuerat.   Diodor erzählt die Zurückweisung der appianischen Senats-  liste zu demselben Jahr, wo App. Claudius sein Amt antrat (310  V. Chr.). Daraus darf man aber nicht schliessen, dass es von den  Consuln dieses selbigen Jahres geschehen sei. Das war nicht  der Fall, nicht sowohl, weil Livius, der den Amtsantritt des  App. Claudius in das Jahr 312 setzt, die Zurückweisung der  Senatsliste zum folgenden Jahr 311 erzählt und den Con-  suln d. J., C. Jun. Bubulcus und P. Aem. Barbula, zuschreibt,  als deshalb, weil die Censoren nach den Consuln und zwar  unter ihrem Vorsitz gewählt wurden, im ersten Jahr der Cen-  sur also immer der Senat schon in der früheren Ordnung zu-  sammen getreten war (Mommsen, Str. II, 396). Und diese  Annahme widerstreitet dem Diodor keineswegs, da er öfters  Ereignisse, die sich auf mehrere Jahre verteilen, zusammen erzählt, wofür die Erzählung der Gallierkriege (Diod. XIV,  113 ff) ein klares Beispiel giebt. Diodor deutet d,es an  unserer Stelle klar genug an, indem er die Zurückwe.sung  der Senatsliste zugleich mit der ebenfalls nieht m das Jahr  310 .gehörenden Wahl des Cn. Flavius zum Aedden am  Schlüsse seines Berichtes erzählt und mit dra anknüpft.   Wenn wir nun mit Diodor den Amtsantritt des App.  Claudius h. d. J. 310 setzen, so müssen -- J"-'™-: ^^^JJ  die Senatsliste von den Consuln des Jahres 308 -oO.» ^ em  Diktatorenjahr - umgestossen ist. D.ese waren (f 1 abms  und P Decius (Diod. XX, 37). Es sind d.es dieselben Manner,  welche als Censoren i. J. 304 die Tribusänderung des App.  Claudius rückgär>gig machten (s. unten). Wir sähe,, m d.esem  von der Kritik hergestellten Zusammentreften emen kratt.gen  Beweis für die Richtigkeit des chronologischen Ansatzes   Aus den Angaben Diodors folgt, dass schon die Vor-  gänger des App. Claudius und C. Plautius in der Censur eine  lenatsliste aufgestellt haben; er sagt ausdrücklich, dass die  Consuln den Senat berufen hätten o*^ ir:v vm> tinnov y.ara-  }a^^8lmv dl/M t^v vn.) u^n' .r^oy. /fr^7'^ rrn- xt//yo>r  yaia^'oaifeiaar. Diese unzweideutige Angabe scheint mir ent-  scheidend für eine weitere Streitfrage , welche sich an die  Senatsliste des App. Claudius knüpft. Es ist nämhch die An-  Sicht aufgestellt worden, dass die senatus lectio des App.  Claudius überhaupt die erste censorische sei, und dass die  lex Ovinia, welche das Amt der Senatswahl von den Consuln  auf die Censoren übertragen hat, im Jahre der Censur des  App. Claudius oder kurz vorher gegeben worden sei. Die  lex Ovinia ist uns von Festus an einer etwas verderbten stelle  überliefert (p. 246 ed. Müller: praete riti senatores quondam  in opprobrio non erant, quod ut reges sibi legebant sublege-  bantque, quos in consilis publico haberent, ita post exactos  eos consules quoque et tribuni militum c. p. coniunctissimos  sibi quosque patriciorum et deinde plebeiorum legebant, donec  Ovinia tribunicia intervenit, qua sanctum est, ut censores ex omni ordine optimum quemque legerent, quo factum est, ut  >qui praeteriti essent et loco moti haberentur ignominiosi").  Über die vielen Streitfragen in Bezug auf dies Plebiscit  vgl. Hofman, der röm. Senat S. 3 if. Willems, le senat,  153 ff. u. a. Uns geht nur die Frage nach der Datierung  an. Dieselbe ist nicht überliefert.   Man bringt nun die lex Ovinia in engen Zusammenhang  mit der senatus lectio des App. Claudius (Mommsen, Str. II,  395 m. A. 1. Willems, le senat, I, 185 ff.). Es gebe, so  meint man, kein anderes Beispiel dafür, dass eine censorische  senatus lectio von den Consuln umgestossen sei. Und wenn  die Censoren schon lange diese Befugniss gehabt hätten, so  hätten die Consuln nicht gewagt, die appianische Senatsliste  zu ignorieren. Wenn man dagegen annehme, dass App. Clau-  dius und C. Plautius zum ersten Male als Censoren den Senat  zusammengesetzt haben, so erkläre es sich leicht, dass die  Consuln, zu deren Amtskreis bis dahin die Senatswahl gehörte,  die Liste des App. Claudius hätten umstossen können, zumal  dieselbe gegen Gesetz und Herkommen Verstössen habe.   Es ist diese Deduction reine Hypothese; von unsern  Quellen w^ird als Grund der Verwerfung der appianischen  senatus lectio ganz allein ihre Ungesetzlichkeit oder vielmehr  ihr Verstoss gegen das Herkommen angegeben ; und es scheint  dies zur Erklärung auch völlig zu genügen.   Zudem sagt ja Diodor mit klaren Worten, dass schon  die früheren Censoren den Senat gewählt hätten, und diesem  •bestimmten und guten Zeugnis glaube ich mehr Gewicht bei-  legen zu müssen als den unbestimmten Worten des Livius  (IX, 33 senatum citaverunt eo ordine qui ante censores App.  Claudium et C. Plautium fuerat). Wir werden also den Er-  lass der lex Ovinia jedenfalls vor das Jahr 318, wo die Amts-  vorgänger des App. Claudius Censoren wurden, setzen. Ge-  nauer dem Datum nachzuforschen ist nicht meine Aufgabe.   Allerdings können wir in der Umstossung der appiani-  schen senatus lectio von Seiten der Consuln noch einen Nach-  klang eines ehemals senatorischen Rechtes bemerken. Die  Consuln vom J. 308 werden sich bei ihrer That ohne Zweifel  darauf berufen haben, dass die Senatswahl ursprünglich ein  consularisches Recht war.   Was ist nun von der Senatsliste unseres Censors zu ur-  teilen? Welche politische Absicht verfolgte er bei der Ein-  wahl von Libertinensöhnen? Auch hierüber bestehen die  grössten Differenzen zwischen den neueren Forschern. Nie-  buhr (R. G. III, 344 ff".) und mehrere Anhänger (Lange,  R. Alterth. II, 78, 79. Herzog, Gesch. u. Syst. I, 271.  Siebert, App. Claudius 44, 45) halten an dem Grundcharakter  fest, welcher der Politik des App. Claudius von Livius bei-  gelegt wird, d. h. sie meinen, App. Claudius sei ein strammer  Aristokrat gewesen und habe nur die hohe und höchste No-  bilität mit allen seinen censorischen Maassregeln fördern wollen.  Diesem politischen Charakter widerspricht nun off'enbar die  senatus lectio, durch welche die niedrigste Bevölkerungsklasse  der Libertinen begünstigt wurde, sowie auch die Tribusänderung  des App. Claudius. Auf eigenthümliche Weise suchen die ge-  nannten Forscher diesen Widerspruch zu lösen. Der Adel, so  führt Niebuhr aus, und also auch der Senat zerfalle damals in  zwei Klassen, die patrizische Kobilität, welche schon sehr ab-  genommen habe, und die plebejische Nobilität, welche jene zu  überflügeln drohe. App. Claudius nun, selbst aus einem alt-  und hochadligen Geschlecht stammend, habe seine ganze poli-  tische Thätigkeit in den Dienst des alten patrizischen Adels  gestellt und den plebejischen Adel herabdrücken wollen. Dies  erkenne man aus seinen späteren Thaten: J. J. 299 v. Chr.  habe er gegen die lex Ogulnia gestimmt (Liv. X, 7), als  Kandidat für das Consulat (Liv. X, 15) i. J. 295 und als  interrex (Cic. Brutus XIV, 55) habe er mit aller Macht da-  nach gestrebt, dass die Patrizier die beiden Consulnstellen  wieder erlangten (Niebuhr, R. G. 353). Durch die Aufnahme  von Libertinensöhnen in den Senat, dessen grösster Teil schon  damals dem plebejischen Adel angehört habe, habe er diesen  nur insultieren und sich dafür rächen wollen, dass er bis jetzt,  eben durch die Verhinderung des plebejischen Adels, noch nicht zum Consulat gelangt sei (R. G. III, 345). Andere  fingieren eine sog. „Coalitionspartei" (Siebert, a. a. O. 45),  deren Ziel gewesen sei, eine enge Verbindung zwischen der  patrizischen und plebejischen Nobilität im politischen Leben  herzustellen. Gegen diese sei besonders die politische Thätig-  keit unseres Censors gerichtet gewesen. Um sie herabzu-  drücken, habe er die Libertinensöhne in den Senat aufge-  nommen, damit sie die Zahl der Anhänger der alten Nobilität  vergrössern sollten.   Die UnWahrscheinlichkeit steht dieser Ansicht an der  Stirn geschrieben. Sie könnte sich allein stützen auf zwei  Angaben des Livius, wo dieser den App. Claudius nach seiner  Censur altpatrizische Standesvorrechte vertreten lässt. Dass diese  aber Dichtungen sind, erfunden nach der bekannten Claudier-  schablone, werden wir in anderm Zusammenhange nachweisen  (s. unten). Wir fassen die politische Bedeutung der Senats-  liste in dem positiven Sinne, dass App. Claudius Libertinen-  söhne in den Senat aufnahm, weil er das libertinische Element  und überhaupt die niederen Volksschichten begünstigte und  in ihren politischen Rechten fördern wollte. Die Demagogie,  die sich in der appianischen senatus lectio, wie in der ge-  sammten censorischen Thätigkeit ausdrückt, ist in dem Berichte  Diodors klar gesagt, was selbst die Gegner zugeben müssen  {Siebert, a. a. 0. 21).   C a p. 4.   Die Tribusänderung des App. Claudius und ihre Verwerfung  durch die Censoren d. J. 304 v. Chr., Q. Fabius und P. Decius.   Die Änderung, welche App. Claudius mit der Tribus-  ordnung vornahm, gilt allgemein als die wichtigste und ein-  schneidendste seiner censorischen Maassregeln. Sie wurde  schon von den zweiten Nachfolgern des App. Claudius und  O. Plautius, den Censoren Q. Fabius und P. Decius d. J. 304    V. Chr., umgestossen; daher ist diese Censur in den Rahmen  unserer Betrachtung mit hinein zu ziehen.   Über die Tribusänderung des App. Claudius liegen un&  drei Berichte vor : Diodor XX, 36. Livius IX, 46. Plutarch,  Popl. 7. Die Gegenmassregel des Fabius erwähnen: Liv. IX^  46. Val. Max. II, 2, 9 und der Auetor de viris illustribus 32^  von denen die beiden letzten Angaben wertlos sind.   Diese Berichte sind aber weder hinlänglich ausführlich  und klar, noch stimmen sie so überein, dass sie, aus einander  ergänzt, ein genaues und deutliches Bild von des Appius  Claudius Tribusänderung geben. Zudem wissen wir im übrigen  vom Wesen der Tribus, ihrer Bedeutung und praktischen Ver-  wendung im Staat äusserst wenig. Es kann daher nicht  Wunder nehmen, dass dies Edikt des App. Claudius von seiner  gesamten censorischen Thätigkeit am meisten umstritten ist.  Vieles freilich, was von den Gelehrten zur Begründung ihrer  Ansichten über die Tribusänderung des App. Claudius vor-  gebracht wird, ist lediglich Vermutung; und wenn derselben  auch bei der Knappheit der Überlieferung Raum gegeben  wird, so scheint mir doch das, was vermutet und aus der  Überlieferung gefolgert wird, von dem, was wirklich unzwei-  deutig überliefert wird, streng geschieden werden zu müssen.  In Bezug auf die Überlieferung unseres Gegenstandes ist die  Grundfrage, welchem Berichte wir das Hauptgewicht beilegen  sollen, ob dem diodorischen oder dem livianischen. Nach  unsern Erörterungen im ersten Kapitel über den Wert und  das Verhältnis der beiden Quellen ist die Frage für uns schon  dahin entschieden, dass wir von Diodors Berichte auszugehen  und ihn zu Grunde zu legen haben. Wenn seine Angabe  auch äusserst kurz ist, so werden w^ir doch finden, dass sie,  genau und wortgetreu ausgelegt, das Edikt des Censors über  die Tribusänderung in der knappsten Weise, vielleicht mit  den Worten des Ediktes selbst, richtig wiedergiebt, ohne frei-  lich seine Bedeutung oder Wirkung auch nur zu berühren.  Den Bericht des Livius glauben wir zur Ergänzung heran-  ziehen zu dürfen, wir haben Gründe dafür, dass er da, wo er von der Tribusänderung des App. Claudius und ihrer Ver-  werfung durch Q. Fabius spricht, aus einer besseren Quelle  schöpft, als sein hauptsächlicher Gewährsmann dieses ganzen  Abschnittes ist (s. unten), und wir werden sehen, dass seine  Angaben in Bezug auf die Wirkung der appianischen Tribus-  änderung mit den Schlüssen, die wir aus Diodors Worten  ziehen müssen, wohl übereinstimmen; daher werden wir auch  seinen Angaben über die Censur des Fabius, wo er die einzige  Quelle ist, und w^elche er offenbor von demselben Gewährs-  mann hat, in gewissem Grade Vertrauen entgegen bringen.   Erörtern wir zunächst kurz, was wir von der Tribus-  ordnung vor der Censur des App. Claudius, ihrem Wesen  und ihrer Bedeutung weissen, weil dies notwendig zum Ver-  ständnis der appianischen Änderung ist.   Die Tribus sind von Haus aus lokale Bezirke. Das be-  weisen viele Quellenbelege (Dionys IV, 14. Liv. I, 43.  Verrius Flaccus b. Gellius XVIII, 7. Laelius Felix b. Gelhus  XV, 27), die ich in anderm Zusammenhang, wo ich erörtere,  wie die lokale Grundlage der Tribusordnung zu fassen ist,  behandeln werde. Das beweisen vor allem die Namen der  einzelnen Tribus. Zunächst haben die 4 städtischen Tribus  örtliche Namen: Die Sucusana von der Sucusa (Subura)  (Jordan, Topogr. v. Rom I, 185 f. 199), die Esquilina vom  mons Esquilinus (Jordan I, 183 f.), die Palatina vom mons  Palatium (Jordan, I, 182 f.), die Collina vom collis sc. Qui-  rinalis (Jordan, I, 180 f.). Alsdann ist die lokale Grundlage  evident für alle in historischer Zeit seit 389 errichteten  Tribus, deren Namen von Seeen, Flüssen, Städten ge-  nommen sind oder sonstigen örtlichen Ursprungs sind (vgl.  Moramsen, Str. III, 171 A. 1—8. 172 A. 1—9. Kubit-  schek, de Rom. tribuum origine et propagatione bei Be-  handlung der einzelnen Tribus). Wenn die ältesten sechszehn  Tribus auch nach alten patrizischen Geschlechtern genannt  sind, so gilt für sie dennoch dasselbe örtliche Prinzip: es  wird z. B. neben der Tribus Pupinia der ager Pupinius ge-  nannt (s. Kubitschek a. a. O. S. 10). Grotefend vermutet, dass   erst i. J. 495 mit der Tribus Crustumina die Lokaltribus ein-  gerichtet sei (Imp, Rom. trib. descr. S. 3). Aber dem ist  entgegen zu halten, dass doch die tribus urbanae, welche nach  der Überlieferung zuerst geschaffen sind, schon Namen ört-  lichen Ursprungs tragen.   Die Benennung von 16 Tribus nach patrizischen Ge-  schlechtern erklärt man so, dass die Tribus von der gens,  deren Grundbesitz der Tribusbezirk umfasste, den Namen er-  halten habe (Mommsen, Str. III, 168). Das die Geschlechter im  frühesten Gemeindeleben Roms von grosser Bedeutung gewesen  sind, ist ohne Zweifel, und es kann leicht sein, dass, als das  damals noch kleine römische Gebiet in Tribus zerlegt wurde,  die einzelnen Tribus nach den Geschlechtern genannt wurden,  deren Grundbesitz hauptsächlich den Tribusbezirk bildete.  Aber es kann ja auch möglich sein, dass die gentilizischen  Namen erst später erfunden sind. Genug, der Grundsatz, dass  die Tribus ursprünglich Territorialbezirke sind, wird allgemein  anerkannt. Nur ist man uneinig, in welcher Weise die lokale  Grundlage der Tribus zu fassen ist. Damit hängen aufs engste  die verschiedenen Ansichten von der Tribusänderung des App.  Claudius zusammen.   Mommsen fasst die lokale Grundlage der Tribus in eigen-  tümlichem Sinne, er meint, dass die Tribuseinteilung anfangs  nur eine Einteilung des römischen Privatgrundbesitzes (ager  privatus) gewesen sei (Rom. Trib. 17, 151 ff. Rom. Forsch.  I, 151). „Die Tribus, sagt er bei der neuesten und ausführ-  lichsten Auseinandersetzung dieser seiner Ansicht (Rom. Staatsr.  III, 164), kommt nur dem Grundstück zu, welches im quiri-  tischen Eigentum steht oder stehen kann. Die Einzeichnung  von Grundstücken in die Tribus ist nicht Folge der Grenz -  erweiterung , sondern der Ausdehnung des Privateigentums,  mag diese nun erfolgen durcii die Adsignation von Gemeinde-  land an römische Bürger, wohin namentlich die Gründung  der Bürgerkolonien gehört, oder durch Aufnahme von Halb-  bürger- oder Nichtbürgergemeinden in das Vollbürgerrecht."  Der ursprüngliche Privatbodenbesitz ist nach Mommsens  Ansicht der an Haus und Garten (Str. III, 24). Dann  wurde das personale Eigentum ex iure Quiritium auf den  Orundbesitz überhaupt übertragen, was dasselbe ist als die  Erstreckung der Tribus von der Stadt auf die Flur (Str. III,  166, 168). Demnach hat sich die Tribuseinteilung anfangs  (bei der Giündung durch Servius TuUius) nur auf die Stadt  bezogen (Str. III, 166) und ist erst, als die Flur quiritisches  Eigentum ward, auf sie bezogen worden. Diese Übertragung  ivird ausgedrückt durch die Einrichtung der 16 ältesten Tribus,  ivelche ihre Namen von den Geschlechtern, deren Grundbesitz  sie umfassten, erhielten: die Flur war ja Anfangs lediglich  Geschlechtsbesitz und zerfiel in Geschlechtsäcker, deren Auf-  teilung eben die Einrichtung der ältesten ländlichen Tribus  bedeutet (Str. III, 168, 170).   Aus der Bodentribus ist die personale abgeleitet ; und da  «ich die Bodentribus anfangs nur auf den ager privatus bezog,  so folgt für Mommsen daraus, dass ursprünglich nur die  Römer die Tribus hatten, welche am ager privatus ex iure  <5uiritium partizipierten d. h. anfangs standen nur die An-  sässigen (adsidui-adsidentes, locupletes = qui in loco sunt) in  den Tribus, einerlei ob dies Patrizier oder Plebejer waren  (Rom. Forsch. I, 151 f. 154. Rom. Trib. 151 ff. Str. II,  ^71 f. Str. III, 182 ff.). Der Besitzer von Privatgrund-  stücken stand in der Tribus, in welcher sein Grundstück lag ;  und mit dem Grundstück ist die personale Tribus von dem  jedesmaligen Besitzer gewonnen und verloren worden. Die  Personaltribus ist also wandelbar (Str. II, 372), während die  Bodentribus unwandelbar ist, indem das einer Tribus zuge-  schriebene Grundstück späterhin nicht in eine andere über-  tragen werden kann (Str. II, 371; III, 162).   Die Tribus in personaler Hinsicht umfassen also die ge-  samte Bürgerschaft, Patrizier wie Plebejer, welche am ager  privatus partizipieren. Aber dies ist keineswegs die Gesamt-  bürgerschaft (R. Str. III, 182. R. Forsch. 154). Alle nicht  ansässigen Bürger stehen eben ausserhalb der Tribus.Die personale Tribus ist nun der Inbegriff aller Pflichten '  und Rechte, welche dem Bürger aus der Bodentribus er-  wachsen ; sie ist das Zeichen desjenigen Bürgers, der zur Be-  steuerung und Aushebung fähig ist und das Stimmrecht be-  sitzt. Steuer-, Heer- und Stimmordnung beruhen auf der  Tribusordnung, sodass die Tribulen, d. h. die Ansässigen, und  nur diese, nach Tribus diesen ihren Pflichten und Rechten  nachkamen. Was zunächst die Kriegspflicht imd das Stimm- |  recht betrifft, so gilt für beides die Tribus als Qualifikation^  nur mit dem Unterschied, dass diese schlechthin an den Grund-  besitz, Dienstpflicht und Stimmrecht dagegen an einen Minimal-  satz von Grundbesitz geknüpft ist (III, 247). Denn wenn  auch die 5 Abstufungen, welche König Servius in Heer- und  Stimmordnung geschaffen hat, in Geldansätzen überliefert sind^  so sind diese doch anfangs vermutlich in Landmaass aus-  gedrückt (s. Gründe Mommsens Str. III, 247): die 1. Klasse  hat den Besitz einer Hufe (wahrscheinlich c. 20 iugera) und  die vier niederen den Besitz einer Dreiviertel-, Halb-  Viertel- und Kleinstelle (c. 20 jug.) erfordert, während  Eigentümer von kleinerem Grundbesitz nicht zu den Grund-  besitzern gezählt sind (Str. III, 248). Innerhalb dieser Grenze  war die Bürgerschaft, von den Censoren in Centurien formiert  und zwar nach dem Prinzip der gleichmässigen Verteilung  der Tribulen einer jeden Tribus in sämtliche Centurien, zu  Waflendienst und Abstimmung berechtigt. Die Nichtgrund-  besitzer und Vermögenslosen gehörten in eine Zusatzcenturie  (accensi velati), deren Stimmrecht aber bei ihrer Masse illu-  sorisch war (Str. III, 284), und die zwar in der Ordnung des  exercitus centuriatus ihre Stelle hatten, aber vom Waffendienst  ausgeschlossen waren (Str. III, 281, 82). Zwischen der Heer-  und Stimmordnung einerseits und der Steuerordnung anderer-  seits bestehen nach Mommsen keine inneren Beziehungen  (III, 230). In älterer Zeit ist nur Grund und Boden und das,  was wesentlicher Bestandteil der Ackerwirtschaft ist (Sklaven,  Zug- und Lastvieh), steuerpflichtig. Indessen gilt dies nur für  die Grundbesitzer, d. h. die Tribulen. Ihnen entgegengesetzt sind  die Aerarier „die Steuerpflichtigen" im eminenten Sinn, diesehaben nämlich nach Mommsen von Haus aus Steuern vonL  sämtlichen Mobiliarvermögen entrichtet, während sie, wie wir  erwähnten, in Heer- und Stimmordnung nur scheinbar berück-^  sichtigt waren. Späterhin, es scheint ziemlich früh, setzt  Mommsen hinzu, wurde das tributum allgemein, also auch für  die Grundbesitzer, zur Vermögenssteuer; so war also der  Gegensatz zwischen Grundbesitzern (= Tribulen) und Arariern  in Frage gestellt (Str. II, 262 ff.). Unmittelbar hieran knüpft  Mommsen seine Ansicht über die Tribusänderung des Censors  Appius Claudius.   / Bleiben wir zunächst hier stehen. Wir haben das System  Mommsens von dem Wesen und der ursprünglichen Bedeutung^  der Tribus kurz in seinem Zusammenhang dargelegt, um zu  zeigen, wie der Grundgedanke des Systems, dass der Grund-  besitz ursprünglich das Requisit für den römischen Vollbürger  gewesen ist, zwar consequent, aber zu sehr schematisch und  doktrinär durchgeführt ist , und um nun unsere Kritik der  Mommsenschen Ansicht anzureihen und unsere eigene ab-  weichende Ansicht zu entwickeln.   In den späteren Zeiten der römischen Geschichte, seit  dem Bundesgenossenkrieg, war der lokale Zusammenhang  der Tribus, welcher bei einer Bodeneinteilung jedenfalls ur-  sprünglich vorauszusetzen ist, völlig zerstört. Nach dem ge-  nannten Kriege, durch welchen die meisten bisher bundes-  genössischen italischen Städte und Staaten das römische  Vollbürgerrecht und damit die Tribus erlangten, verteilte man  die neuen Vollbürgergemeinden in die bestehenden 35 Tribus,  sodass nun die einzelnen Tribus, lokal gefasst, aus zerstückelten,  über ganz Italien verbreiteten Landcomplexen bestanden. Eine  Zusammenstellung der zu den einzelnen Tribus gehörigen Ge-  meindeterritorien ergiebt die Italia tributim descripta (Cic. de  pet. cons. 8, 30), welche Grotefend mustergültig, soweit es  möglich, rekonstruiert hat („Imperium Romanum tributim  descriptum" Hannover 1863 vgl. Kubitschek, de Romanarum  tribuum origine et propagatione. Abhdl. des arch. - epigr^   Seminars. Wien 1882). Schon in Italien schrieb man grössere  Territorien einer bestimmten Tribus zu (wie z. B. Calabrien  der Fabia, Campanien der Falerna, u. a. vgl. Kubitschek 1. c.  S. 74) *, und in der Kaiserzeit, als der Zuwachs des römischen  Gebietes immer grösser wurde, pflegte man oft ganze Länder-  massen einzelnen Tribus einzuverleiben (so wurden die neuen  Vollbürgergemeinden von Spanien der Quirina und Galeria,  die von Gallia Narbonensis der Voltinia zugeteilt vgl. Kubit-  schek S. 199).   Indem eine Gemeinde in das Vollbürgerrecht aufge- ]  nommen wurde, wurden alle in ihr heimatsberechtigten frei-  gebornen Bürger einer bestimmten Tribus zugewiesen. Sie  ist also der Ausdruck der Zugehörigkeit 1. zur communis  patria Roma und 2. zur Sonderheimat, der domus (origo) und  der aus dieser Zugehörigkeit erwachsenden politischen Pflichten  und Rechte; sie ist das Zeichen der Heimatsberechtigung in  einer römischen Vollbürgergemeinde. Es ist dies inschriftlich  so ausgedrückt und sehr vielfach belegt, dass hinter den  Namen die Bezeichnung der Ingenuität, der Tribus und des  Heimatsortes gesetzt wird. (Z. B.: L. Cornelius. L. F. Vel.  Secundinus. Aquileia. Grotefend. S. 31.) Die Qualifikation  für die Tribus ist die Ingenuität: Jeder Freigeborne in einer  neuen Vollbürgergemeinde erhält die Tribus seiner Heimat  und damit eine persönliche und erbliche Rcchtsqualität, die  nicht durch Adoption (Grotefend S. 23) noch durch den In-  <iolat, selbst wenn der Übergesiedelte zu Magistratswürden in  ,€einem neuen Wohnort gelangte (Grotefend 21), affiziert wurde.  Kur bei Aussendung einer römischen Colonie (colonia  <5ivium Romanorum) mussten die Ausgesandten ihre ange-  stammte Tribus mit der Tribus der Colonie vertauschen (Grote-  fend, S. 15).   In der Auff'assung dieser Bedeutung der jüngeren Tribus,  wie wir sie hauptsächlich aus den Inschriften kennen, herrscht  im allgemeinen Übereinstimmung (Grotefend. Vorbemerkungen.  Mommsen, R. Forsch. I, 151 fl". R. Str. HI, 178 ff*. 780 fF.).  Mommsen, der als Qualifikation für die Tribus älterer Form     45     den Grundbesitz annimmt , giebt nun selbst zu , dass die  spätere Tribus vom Grundbesitz unabhängig gewesen sei. Er  hat also die Pflicht zu erklären, wie und wann sich diese  radikale Veränderung im Wesen der Tribus vollzogen haty.  dass aus der Tribus, welche das Zeichen der Ansässig-  keit ist, die Tribus geworden ist, welche die origo, die  Heimatsberechtigung in einer Vollbürgergemeinde ausdrückt.  Staatsrecht II, 341 A. 2 nennt er dieselbe eine ebenso  bekannte und sichere wie in ihrer Entstehung schwierig zu  erklärende Umgestaltung. Er giebt zu, dass über das Auf-  kommen der theoretisch wie praktisch gleich tief einschneiden-  den Änderung nichts berichtet werde (Str. III, 781). Aber  sie stimme so vollkommen mit der Tendenz des Bundes-  genossenkriegs, dass sie mit voller Sicherheit auf ihn zurück-  geführt werden könne. Er beschreibt dann die Änderungen^  welche seit Einführung des neuen Prinzips mit den Tribus-  verhältnissen in lokaler und personaler Hinsicht vorgenommen  sein müssten (Str. III, 782 ff".). Was die Stadt Rom selbst  angehe, so sei auch für ihre Bürger, die füglich keine Sonder-  heimat und also keine Ortsangehörigkeit hätten, irgend einmal  durch Gesetz die Tribus als eine persönliche und erbliche  vom Grundbesitz unabhängige Rechtsqualität fixiert worden,  sodass jeder Bürger diejenige Tribus, die er infolge seines  dermaligen Grundbesitzes eben inne hatte, als persönliche über-  kam und auf seine Nachkommen vererbte (R. Forsch. I, 153).  Die Patrizier hätten sich die Tribus selbst gewählt bei dem  Eintreten der neuen Ordnung: daher komme es, dass zwei  der ältesten Patriziergeschlechter, die Aemilier und Manlier,  in der Palatina erschienen, die ihrem Adelstolz durch diese  Tribus des königlichen Rom hätten Ausdruck geben wollen.  (Str. III, 789.)   Die Auff'assung Mommsens von der lokalen Grundlage  der Tribus ist also die, dass dieselbe sich anfangs auf den  ager privatus Romanus, und personal auf die Ansässigen bezogen  habe, später dagegen auf das Territorium einer Vollbürger-  gemeinde und personal auf alle freigeborne in diesem Territorium Heimatsbereclitigten ; die Entwicklung vom ersten zum  letzten Prinzip liabe sich im Bundesgenossenkrieg vollzogen.  Abgesehen davon, dass die jüngere und ältere Tribus nach  dieser Auffassung nicht die geringste Verwandtschaft mit ein-  ander haben, sondern etwas ganz und gar Fremdes, Ver-  schiedenes, ja Entgegengesetztes ausdrücken, würde es doch  äusserst merkwürdig sein, wenn eine solche gänzliche Um-  wandlung der rechtlichen Bedeutung der Tribus auch nicht  die geringste litterarische Spur hinterlassen hätte, zumal sie  doch in ziemlich später Zeit geschehen sein soll. Und dass  «ie absolut unbezeugt ist, muss Mommsen selbst zugeben.   Die Erklärung einer solchen radikalen Umwandlung fehlt  zudem bei Mommsen völlig. Denn was er über die allmäh-  liche Einwirkung der Ortsangehörigkeit auf die Personaltribus  (Str. III, 779 f.) und über das Verhältnis beider (Str. III,  782 ff.) sagt, wird man doch nicht als Erklärung gelten lassen  können. Es erheben sich aber überhaupt gegen eine solche  Umwandlung der Tribus die gewichtigsten Bedenken. Zu-  nächst wäre, vorausgesetzt einmal, dass aus der Tribus der  Grundsässigkeit die des Territoriums einer Vollbürgergemeinde  entstanden sei, der Zweck einer solchen Umwandlung absolut  nicht abzusehen. Bei der Aufnahme einer Vollbürgergemeinde  wies man die gesamten Bürger derselben, einerlei ob Grund-  besitzer oder nicht, einer bestimmten Tribus zu. Warum  zeichnete man denn z. B. bei der Aufnahme Tusculums nicht  bloss den ager Tusculanus und die Eigentümer an demselben  in die papirische Tribus? So wäre ja das alte Prinzip ge-  wahrt worden.   Ein weiterer Widerspruch ist folgender: Auf die Stadt  Rom selbst ist das neue Prinzip nicht vom Anfang seines  Aufkommens an bezogen worden: denn aus der Zunahme  der Vollbürgergemeinden hat es sich ja erst entwickelt. Wenn  also für Rom noch die alte Ordnung bestand, d. h. nach  Mommsen, wenn nur die Grundbesitzer in den ländlichen  Tribus standen, während die nicht Grundansässigen in den  4 tribus urbanae zusammengedrängt waren, so standen die  Bürger einer Vollbürgergemeinde sämtlich in einer ländlichen  Tribus, sodass z. B. ein nichtansässiger Tuskulaner vor dem  nichtansässigen Römer ein Vorrecht hatte, indem jener in der  Papiria stand, dieser aber in eine der städtischen Tribus ge-  hörte. Welches Missverhältnis dies bei dem Dignitätsunter-  :schiede der tribus urbanae und rusticae (s. unten) gewesen  wäre, liegt auf der Hand.   Der entscheidende Grund ergiebt sich aus folgender Er-  wägung : Dass die Tribus der späteren Form vom Grundbesitz  unabhängig ist, giebt auch Mommsen zu. Kun aber bezieht  sich die Hauptquellenstelle (Cic. pro Flacco 32, 80), auf  welche Mommsen seinen Grundsatz, dass die Tribus - Distrikte  des ager privatus Romanus seien, stützt (Mommsen, Str. II,  360 mit A. 2 u. 3. Rom. Trib. 3), auf die Zeit Ciceros, wo,  auch nach Mommsen, die neue Tribusordnung schon bestand.  Wenn Cicero den Decianus fragt: sintne ista praedia censui  censendo ... in qua tribu denique ista praedia censuisti?  fio geht doch daraus mit Evidenz hervor, dass noch damals  der Grundbesitz in der Tribus stand. Und dass er dies stets  sethan hat and der Grundbesitz stets für die Tribus von Be-  deutung gewesen ist, werden wir in anderm Zusammenhang  erörtern. Keinesfalls aber kann die angeführte Stelle dazu  benutzt werden, um die Ansicht, dass die Tribus sich ur-  sprünglich lediglich auf den ager privatus bezogen  habe, zu stützen.   Alle diese Erwägungen führen zu dem Resultate, dass  eine Entwicklung, wie sie Mommsen annimmt, von einer Tribus,  welche die Grundansässigkeit ausdrückte, zu einer solchen,  welche, vom Grundbesitz unabhängig, die Zugehörigkeit zu  einer Vollbürgergemeinde bezeichnete, nicht stattgefunden  haben kann. Da nun das Wesen der späteren Tribus fest-  steht, so muss die Mommsensche Auffassung von der ursprüng-  lichen Tribus falsch sein.   Und in der That ist der Satz, dass die Tribus sich ur-  sprünglich lediglich auf den Grundbesitz b^ogen habe, den  Mommsen freilich stets als quellenmässig belegt bezeichnet  und in seinen Consequenzen darlegt, gänzlich unbewiesen.  Zunächst ist scharf zu betonen, dass er keineswegs in dei>  Quellen bezeugt ist und ledighch eine kühne Hypothese ist. ,|  Nirgends findet sich bei den alten Autoren, so oft sie auch  die Tribuseinteilung erwähnen, eine Angabe, dass die An-  sässigkeit die Grundbedingung für das Stehen in der Tribute  sei. Und es wäre dies doch sehr zu verwundern, wenn ein  so klares Prinzip so scharf durchgeführt wäre, wie ea  Mommsen annimmt, zumal dasselbe, wenigstens für die tribu&  rusticae, bis in die späte historisch helle Zeit gegolten   haben soll.   Welches war aber die lokale Grundlage der Tribusord-  nung? Was sagen die Alten darüber? Unserer Ansicht nach  war die Tribuseinteilung eine geographische Distriktseinteilung  des gesamten römischen Gebietes, eine nackte Zerlegung in  Bezirke, und zwar war sie von Haus aus dazu bestimmt, eine  Volks einteilung zu sein mit dem Zwecke, im Staatsleben  praktisch verwandt zu werden. Die Tribus wurde also vom  Lokal auf die Person übertragen und zwar, wie das natürlich  ist, in der Weise, dass alle, die in dem Bezirke einer Tribus  wohnten, dieser Tribus angehörten, um in ihr ihre politischem  Pflichten und Rechte zu erfüllen. Das Domizil bestimmte  also ursprünglich die Tribus.   Eine Reihe direkter Quellenbelege lassen sich für diese  unsere Auffassung geltend machen. Wenn Laelius Felix  (b. Gellius XV, 27) die Tributcomitien so definiert, dass in  ihnen ex regionibus et locis abgestimmt würde, so kann das-  nicht anders aufgefasst werden, als dass nach Bezirken und  Wohnsitzen abgestimmt werde. Mit regiones meint er offen-  bar die lokalen Tribusbezirke, nach denen geordnet die Bürger-  schaft abstimme, und mit loca die Wohnsitze der Einzelnen.  Durchaus müsste, wenn der Grundbesitz das notwendige Re-  quisit für das Stehen in der Tribus also das Stimmen in den  Tributcomitien wäre, dies possessorische Prinzip in einer De*  finition der Tributcomitien ausgedrückt sein. Dionys erwälint direkt die Beziehung zwischen Tribus  und Domizil. Nacli ihm (IV, 14) richtete König Servius die  Tribus ein rjf-jnom^ Hfiyxcoij^^ dTrodf-i'^ca^' ()ruuo()ic{^ vjü'Tre(i   ül/.iuY {-'yMüH}^ üiy.rl ; ausserdem lässt Dionys (IV, 14) den  König Servius demjenigen , der in eine bestimmte Tribus  eingeschrieben sei, verbieten '/Mitßari-ti' uh^ku oiy.rüiv.   Wenn diese Angaben auch keineswegs im einzelnen zu  glauben sind, so folgt doch daraus, dass Dionys meint, der  Wohnort habe die Zugehörigkeit zur Tribus bestimmt. Und  das ist unserer Ansicht nach sicher der Fall gewesen.   Wenn Avir in diesem Sinne die lokale Grundlage der  Tribus auflassen, lässt sich das, was uns vom Verhältnis  der Tribulen unter einander überliefert ist, sehr einfach und.  natürlich erklären. Es was ein nachbarlicher Geist, so wird  uns mehrfach berichtet, der sie verband. Freilich wäre dies  ja auch denkbar, wenn die Tribus nur die Grundbesitzer um-  fasst hätten. Aber es ist mehrfach bezeugt, dass grade zwischen  den niederen und höheren Tribulen einer Tribus dies Nahver-  hältnis bestand (der geringe Mann wird von seinem vornehmen  Tribusgenossen zu Tisch gezogen Horaz ep. I, 13, 15 und  beschenkt Sueton, Aug. 4 und anderes; vgl. Mommsen, Str. III,  197 f.). Es war das gemeinsame Interesse des Wohnbezirks  (Cic. pro Roscio IG, 47: tribules vel vicinos meos), welches  die Tribulen mit einander verband (so z. B. wie die Censoren  i. J. 204 in einigen Tribus den Salzpreis erhöhten).   Und dies weist eben darauf hin, dass die Tribus rein   lokale Bezirke sind.   Wie viel leichter lassen sich bei dieser Auffassung der  lokalen Grundlage der Tribus die anderen Quellenstellen ver-  stehen, welche die Lokalität der Tribus erwähnen! Die Worte  des Livius (I, 4o): (Servius Tullius) quadrifariam urbe divisa  regionibus collibusque partes eas tribus appellavit sind doch,  meine ich, viel naturgemässer so auszulegen, dass S. Tullius  das gesamte Stadtgebiet in vier rein lokale Bezirke teilte, als  so, dass der im Stadtgebiet gelegene ager privatus in vier Tribus zerlest sei. Dasselbe gilt von dem Ausdruck des  Dionys, dass S. Tullius die Stadt in 4 to.-ax«, <fcm zerlegt  habe. Dionys sagt selbst, wie er ro.-r,.o,aufgefasst wissen  will, und auch Livius hat nach den ob.gen Worten die  lokale Bedeutung der Tribus nicht anders aufgetasst. Schliess-  lich führe ich noch die Erklärung der Tribus an, welche  Verrius Flaccus (b. Gellius XVIII, 7) giebt: tribus d.c.  et pro loco et pro iure et pro hominibus. Auch hier ist  locus einfach und natürlich als Wohnort zu fassen. Wenn  also Mommsens Anschauung von dem Wesen der Tnbus einer-  seits auf einer gezwungenen Quelleninterpretation beruht, so  erheben sich anderseits dagegen auch viele sachliche Be-   Der Tribule. d. h. nach Mommsen der Grundbesitzer, hat  diejenige persönliche Tribus, in deren lokalem Bezirk sein  Grundbesitz lag. Wie aber war es, wenn Jemand in mehreren  Tribusbezirkcn Grundstücke besass? Persönlich konnte doch  Jeder nur in einer Tribus stehen (Mommsen, Str. 111, 1»^),  und in der Steuerrolle konnte Jeder nur einmal seinen Platz  finden In einem solchen Falle, vermutet Mommsen, habe die  Wahl der Personaltribus und die EinSchätzungssumme vom  Censor besthumt werden müssen. Die Willkür, die in einer  solchen Sachlage liegt, giebt Mommsen selbst zu (11, d7 J t.;.  So hätte es also Grundstücke gegeben, deren Tribus sich  nicht auf den Eigentümer übertrug.   Dasselbe trat ein, wenn Personen, die nicht Bürger sein  konnten, - etwa Frauen oder Ausländer - römischen ager  privatus erwarben. Auch dann sei, meint Mommsen (Str. 111  18;]) die Übertragung der Bodentribus auf die Personen tort-  gcfallen, so dass also für die Tribus in diesem Falle der Um-  stand, dass Jemand nicht aktiver römischer Bürger sein konnte,  wichtiger war als der Grundbesitz.   Wie sich gegen die Auffassung des Tribulen Bedenken  erheben, so auch' gegen die des Nichttribulen, des Arariers.  Die Annahme, es seien die Ärarier eine den Tribulen absolut  entgegengesetzte Bürgerklasse, sie seien ohne Stimmrecht und Heerespflicht und nur stärker besteuert, ist lediglich Hypo-  these ; sie beruht allein auf der häufig wiederkehrenden Formel  der censorischen nota „tribu movere et aerarium facere".  Aus derselben geht allerdings hervor, dass das aerarium facere  häutig mit tribu movere verbunden war, aber nicht, dass es  identisch ist. Dies kann es vielmehr nicht gewesen sein. Das  folgt deutlich aus einem Bericht des Livius, wo er erzählt, der  Censor M. Livius habe 34 Tribus zu Arariern gemacht (Liv. 29,  37). Da nach Mommsen tribu movere in späterer Zeit gleich einer  Versetzung in die tribus urbanae ist, so müssten also damals alle  Tribulen in die städtischen Tribus versetzt sein, was Unsinn  ist. Tribu movere kann nicht dasselbe sein wie aerarium fa-  cere ; dazu stimmt, dass letzteres mehrfach allein genannt wird  (Liv. 9, 34. 27, IL Gellius 4, 12 u. a.). Wer Ärarier  war, brauchte noch nicht tribu motus zu sein ; das folgt gleich-  falls aus dem angeführten Bericht des Livius. Der tribu  motus war aber immer aerarius: also ist der eine Begriff  weiter als der andere.   Tribu movere heisst die Tribus ändern lassen (Liv. 45,  15 : tribu movere nihil aliud est quam mutare iubere tribum).  Was dies für Nachteile mit sich brachte, wissen wir absolut  nicht. Die Ärarier aber sind nichts als eine Art Strafklasse,  die höher besteuert war. Livius deutet die Art dieser will-  kürlichen Straf besteuerung an, wenn er berichtet (IV, 24),  Mam. Aemilius sei zum aerarius octuplicato censu gemacht,  d. h. zum Ärarier unter Erhöhung seiner Steuerpflicht um  das Achtfache (vgl. Soltau, Volksversamml. 535 ff., Madvig,  Verf. u. Verw. 122). Hiermit ist der absolute Gegensatz auf-  gehoben, welchen Mommsen zwischen Tribulen und Arariern  annimmt, als seien alle Ärarier Nichttribulen.   Das Resultat dieser Erörterungen besteht darin, dass die  Mommsensche Theorie von der Tribusordnung, als sei sie an-  fangs lediglich eine Einteilung des ager privatus, und als  ständen nur die Grundbesitzer in den Tribus, nicht recht sein  kann. Die lokale Grundlage besteht vielmehr, wie wir aus  den Quellen gefolgert haben und jetzt noch weiter erörternd beweisen werden, darin, dass die Tribuseinteilung eine einfache  geographische Distriktseinteilung des gesamten römischen Ge-  bietes war. Diese lokale Grundlage ist stets dieselbe geblieben: deutlich lässt sie sich noch in der späten Zeit er-  kennen, wo Mommsen einen völligen Umschwung im Wesen  der Tribus annimmt. Denn nachdem man zu dem Grundsatz ge-  kommen war, keine neuen Tribusbezirke mehr einzurichten,  konnte man füglich das angegebene lokale Prinzip nur wahren,  wenn man das ganze Gebiet einer neuen Vollbürgergemeinde  einer der bestehenden Tribus zuwies. Und so geschah es:  nach demselben einfachen lokalen Prinzip, nach welchem das  gesamte römische Gebiet in Tribusbezirke zerlegt war, schrieb  man die späteren neuen Vollbürgerterritorien einem jener Ur-  bezirke zu. Nur der örtliche Zusammenhang, welcher für die  Urbezirke bestand, ward dadurch aufgehoben ; das war aber eine notwendige Folge davon, dass man keine neue Bezirke  seit d. J. 241 v. Chr. stiftete. Es liegt nicht in meinem  Plane, zu erörtern, aus welchen Gründen man zu diesem  Grundsatz kam, die Zahl der Tribus nicht mehr zu vermehren,  noch auch, nach welchen Prinzipien man später die neuen  Vollbürgerterritorien an die einzelnen Tribus verteilte. Darin  dass man bei der Neuaufnahme einer Vollbürgergemeinde ihr  ganzes Territorium einer Tribus zuschrieb, zeigt sich dasselbe  lokale Prinzip, welches wir von Anfang an anzunehmen haben.  Von dem Lokal wurde die Tribus auf die Person übertragen.  In späterer Zeit gehörte derjenige zum Verbände einer Voll-  bürgergemeinde, also in die Tribus dieser Gemeinde, der in  ihrem Territorium heimatsberechtigt war. Dass die Heimats-  berechtigung in der Regel mit dem Domizil zusammenfiel,  liegt in der Natur der Sache; aber es ist ausdrücklich be-  zeugt, dass solche, welche in andere Städte übersiedelten, die  Tribus ihrer Heimat behielten (Mommsen, R. Forsch. I, 153).  In früherer Zeit war in dieser Hinsicht das Domizil ent-  scheidend. Wer in dem Bezirke einer Tribus wohnte, hatte  persönlich diese Tribus, und mit dem Wechsel des Wohn-  sitzes ward auch die Tribus gewechselt. Die Personaltribu&  ist also auch nach unsrer Ansicht wandelbar. IMit diesen  Unterschieden der Personaltribus in späterer und früherer Zeit,  werden wir sehen, hängt das Edikt des App. Claudius eng  zusammen.   Die lokale Grundlage der Tribus in dem Sinne, wie wir  entwickelt haben, nimmt schon Niebuhr an (R. G. I, 458).  Wenn wir auch in allem andern, was er über die Tribus und  ihre ursprüngliche Bedeutung annimmt, ihm widersprechen  müssen, so hat er doch das lokale Prinzip, auf dem die  Tribusordnung beruht, richtig erkannt, dass sie nämlich eine  einfache Distriktseinteilung ist und in persönlicher Hinsicht  alle in dem Distrikte einer Tribus Wohnenden umfasst. Von  Niemanden ist diese Ansicht angenommen, nur Clason (Kritische  Erörterungen über den röm. Staat. II. S. 1 ff.) vertritt sie,  leitet sie aber weder beweisend ab, noch verfolgt er ihre  Consequenzen in der politischen Verwendung der Tribusord-  nung. Die Übertragung der Tribus vom Lokal auf die Per-  son geschah in der Weise, dass, grade wie später die Per-  sonen, welche dem Territorium einer Vollbürgergemeinde an-  gehörten, der Tribus derselben zugeschrieben wurden, auch  früher die Tribus auf die Personen, welche ihrem Bezirke an-  gehörten, übertragen wurde. Doch war dazu eine bestimmte  Qualifikation notwendig. Diese war in späterer Zeit die In-  genuität. Wann dies Prinzip aufgekommen, habe ich nicht  zu erörtern; es scheint erst sehr spät (Mommsen, R. Staatsr. III,  439 ff.j. In früherer Zeit und ursprünglich bestand diese  Grenze nicht. Vielmehr haben ursprünglich alle in dem Be-  zirke einer Tribus wohnenden römischen Bürger auch personal  diese Tribus gehabt. Die Qualifikation für die Personaltribus  war also ursprünglich das Bürgerrecht, und zwar das Bürger-  recht schlechthin und unbeschränkt.   Die Ansicht Niebuhrs (R. G. I, 457 f.), dass ursprüng-  lich nur die Plebejer in den Tribus gestanden hätten, wird  schon dadurch widerlegt, dass die 16 ältesten ländlichen Tribus  ^atrizische Geschlechtsnamen tragen. Die Schriftsteller bezeichnen ausdrücklich die 35 Tribu»  als identisch mit dem ganzen römischen Volke (z. B. Cic. de  leg. III, 19 populus fuse in tribus convocatus und viele andere  Stellen), und nirgends schliessen sie einen Teil der Gesamt-  bevölkerung aus, was bei der Annahme einer distriktartigen  Einteilung des gesamten Gebietes sehr erklärlich und natur-   gemäss ist.   Selbst die Freigelassenen haben ursprünglich in den  Tribus gestanden. Denn wenn Dionys und Zonaras über-  liefern, dass S. Tullius den Libertinen das Bürgerrecht ge-  geben habe und sie in die Tribus (Zon. VII, 9), und zwar  in die 4 tribus urbanae (Dion. IV, 22) aufgenommen habe,  so besagt dies jedenfalls soviel, dass das römische Staatsrecht,  indem es die Tribus der Freigelassenen auf S. Tullius, den  mythischen Urheber des römischen Verfassungslebens, zurück-  führt, keine Zeit kannte, wo die Freigelassenen nicht in den  Tribus gestanden hätten. Die Freigelassenen haben ja von  Haus aus das Bürgerrecht, wenn auch ein zurückgesetztes.  Und da sie deshalb dem Staate gegenüber Pflichten und  Rechte, wenn auch in geringerem Masse, hatten, so mussten  sie auch in den Abteilungen der Bürgerschaft Platz linden,  welche dazu bestimmt waren, damit die Bürgerschaft nach  ihnen ihren Pflichten und Rechten dem Staate gegenüber ge-  nüge (vgl. über die Tribus der Libertinen Becker, Hdb. II,  1, 96 ff. Madvig, Verf. u. Verw. I, 203. Clason, App.   Claud. 80).   In der politischen Bedeutung nämlich liegt das weitere  wesentliche Moment der Bedeutung der Tribusordnung.  Sie ist dazu geschaffen, und dieser Zweck ist ihr von Haus  aus eigentümlich, dass sie im Staatsleben praktisch zu politisch-  administrativen Zwecken verwandt werde. Denn was hätte  eine solche geographische Distriktseinteilung für einen Wert,  wenn sie nicht von Anfang an dazu bestimmt gewesen wäre,  eine Volkseinteilung zu sein, dass die Bürgerschaft, nach  diesen Distrikten geordnet, ihren politischen Pflichten und  Rechten nachkomme? Die Tribusordnung ist von Anfang an  die Voraussetzung der Steuerordnung, Heerordnung und Stimm-  ordnung. Die Alten selbst betrachten diese politisch - admi-  nistrative Verwendung der Tribus als ihren Zweck. Dionys  sagt vom König Servius (IV, 14) : Ta^ y.cauyoaifd^ tlov oya-  Tivncov ycci nc^ Fi^7ii>a§F.i^ n^n' y^njicktov rag yivofihag etg ra  oroaTiomyi} vmi rag aUag /of/c.,-, ag ^yaorov ^'ösi toj y.oivco  Tiuolyeiv, inyÄTi yard rag iQflg cfr/Mg rag yerimg, (k tcqoteqov,  cWm 'xard rag rhra^ag rag romy^g rag v(f' kwnw diarayßeiaag  tTCOulro. Dasselbe ergiebt sich aus den Etymologien, welche  von dem Worte tribus gegeben werden. Varro (d. 1. 1. V,  181) sagt: tributum dictum a tribubus quod ea pecunia, quae  populo imperata erat, tributim a singulis pro portione census  exigebatur, und Livius umgekehrt (I, 43): (Servius) partes  urbis tribus appellavit, ut ego arbitror, a tributo. Diese Ety-  mologien haben selbstverständlich als solche keinen Wert; sie  beweisen nur, dass sich die Schriftsteller die Steuerordnung und  die Tribuseinteilung als unzertrennlich dachten; ebenso haben  auch ohne Zweifel Heer- und Stimmordnung von Anfang an  auf der Tribusordnung beruht.   Ich kann, wenn ich die politische Bedeutung der ur-  sprünglichen Tribus darlegen will, selbstverständlich nicht alle  die einzelnen Fragen, die zum Teil äusserst schwierig sind,  und über die noch lange nicht die Akten geschlossen sind,  sowie über die politischen und administrativen Institute, bei  denen die Tribuseinteilung praktisch verwandt worden ist,  handeln : ich habe mich lediglich darauf zu beschränken, dar-  zulegen, in welchem Verhältnis die Tribus zu Steuer-, Heer-  und Stimmordnung stehen. Der Akt, welcher eine allgemeine  Zählung der Bürger bezweckte, um nach ihren eidlichen Aus-  sagen über ihre Verhältnisse ihre Bürgerpflichten und Bürger^  rechte zu bestimmen, ist der Census, die Schätzung (vgl.  Mommsen, Str. H, 333 ff". Madwig, Verf. u. Verw. I,^ 399 ff".).  Diese nun beruht unmittelbar und allein auf der Tribusein-  teilung. Denn tributim mussten alle römischen Bürger auf  dem Marsfelde vor dem Censor erscheinen und ihre eidlichen  Angaben über Namen, Alter, Vermögen machen. (Dionys,  IV, 15. V, 75). Darin dass beim Census durchaus alle  Bürger mcldungspfliclitig waren (Ladungsbefehl b. Varro 1. 1.  6, 86: omnes Quirites, Liv. 1, 44: lex de incensis etc. Cic.  pro Cluent. 34. Dion. IV, 15), und dies tributim geschah,  sehe ich einen neuen Fingerzeig dafür, dass die Tribus auch  alle Bürger umtasst haben: von einer Schätzung, die nicht  tributim geschehen wäre, erfahren wir absolut nichts. Momm-  sen hilft sich, indem er für seine ausser der Tribus stehenden  Ärarier eine besondere Schätzung, welche derjenigen der  Tribulen folgte, annimmt (Str. II, 343). Auf dem Census  beruht zunächst die Bestimmung des Tributum, der direkten  Vermögenssteuer (Mommsen, Str. III, 228. Madvig, Verf. u.  Verw. II, 387 f.). Der Bürger musste sein Vermögen de-  klarieren, und der Censor hatte es abzuschätzen zum Zweck  der Besteuerung. Als steuerpflichtig werden die verschieden-  sten Gegenstände bezeichnet (cf. Mommsen, Str. II, 363 m.  A. 1). Das hauptsächlichste steuerpflichtige Objekt ist, zumal  vor dem Aufkommen der Geldwirtschaft, der Grundbesitz:  m Grundbesitz hat Anfangs wohl allein, wie das natürlich  ist und allgemein angenommen wird, der Pwcichtum bestanden,  und auch später ist dies vielfach der Fall gewesen. Da nun  die o-esamte Schätzung und also auch die Deklarierung des  steuerfähigen Vermögens tributim geschah, so musste auch  der Grundbesitz tributim zum Zweck der Besteuerung ab-  geschätzt werden d. h., wenn man will, auch der ager pri-  vatus stand in der Tribus. Es ist dabei natürlich, dass an-  fangs, wo die Personaltribus an das Domizil gebunden war,  dies in der Tribus geschah, in dessen Bezirk der Grund-  besitzer wohnte, mochte sein Grund])esitz oder Teile desselben  auch in den Bezirken andrer Tribus liegen. So allein, glaube  ich, können die Quellenstellen, die von agri censui censendo  oder der Tribus von Grundstücken sprechen, ausgelegt werden.  (Festus, epit. p. 58. Cic. pro Flacco 32, 79). Dies ist das  Verhältnis von tribus und ager privatus, welches, wie Cic. pro  Flacco 32, 79 beweist, stets so geblieben.   Auf dem Census beruht ferner die gesamte sog. servianische Klasseneinteilung und Centurienverfassung. Da der  Census nach Tribus geschah, so folgt, dass zwischen Tribus-  einteilung und der Centurienverfassung ein Zusammenhang be-  stehen muss. Für die sog. reformierte Centurienverfassung,  welche seit der Mitte des dritten vorchristlichen Jahrhunderts  bestand (vgl. Mommsen, Str. III, 280), steht das Verhältnis  ziemlich fest, schon seit Pantagathus (vgl. die neusten Ab-  weichungen Mommsens vom bekannten Schema Str. III,  274 ff.). Aber damit habe ich mich nicht zu befassen. Auch  für die ältere sog. servianische Centurienverfassung ist ein  Verhältnis zur Tribusordnung anzunehmen, wenngleich nichts  <lavon überliefert ist. Mommsen hat das wahrscheinliche Ver-  hältnis nachgewiesen (Trib. 132 ff. Str. III, 267 f.). Sein  Resultat ist dies, dass das leitende Prinzip bei der Centuriation  ^die gleichmässige Verteilung der Tribulen einer jeden Tribus  in sämtliche Centurien, also die Zusammensetzung einer jeden  Centurie aus gleich vielen Tribulen aller Tribus" gewesen sei.  Aber mehr als approximativ hätte diese Gleichmässigkeit im  besten Falle nicht sein können. Ganz so wie Mommsen das  Prinzip der Centuriation annimmt, kann es unmögUch gegolten  haben. Denn wenn eine jede Centurie aus gleich vielen  Tribulen aller Tribus zusammengesetzt worden wäre, so würde  dadurch vorausgesetzt, dass in jedem Tribusbezirk gleich viel  Bürger einer jeden Censusklasse gewohnt hätten, dass also  alle Tribus an Kopfzahl und Vermögen sich einander gleich  gewesen wären, was, selbst approximativ, unmöglich der Fall  gewesen sein kann, wie Polyb. VI, 20 (s. unten die Inter-   pietation) beweist.   Das Prinzip der gleichmässigen Centuriation ist wohl  nur auf die Angehörigen einer Tribus von gleichem Census  zu beziehen, sodass die in einer Tribus wohnenden Bürger  mit gleichem Census in die Centurien ihrer Censusklasse gleich-  massig verteilt wurden. Und selbst so eingeschränkt, kann  das Prinzip keineswegs als Gesetz gegolten haben, sondern  ist vielfach, wie Mommsen sehr wahrscheinlich macht (Str. III,  269), der Machtvollkommenheit der Censoren überlassen : vielleicht sind auch noch andere Dinge bei der Centuriation be-  rücksichtigt (s. unten). Für die nicht klassischen Tribulen d. h.  die Bürger, deren Census den Satz der untersten Klasse nicht  erreichte, kam die Centuriation überhaupt nicht in Frage ; sie  standen in einer Zusatzcenturie. Wenn sich auch kein be-  stimmtes Verhältnis zwischen der Tribusordnung und der  älteren Centurienverfassung nachweisen lässt, so müssen sie  doch in notwendigem Zusammenhang stehen ; es folgt die&  eben schon daraus, dass die Centurienordnung auf dem Census^  und dieser auf den Tribus beruht.   Direkt auf der Tribusordnung ruhten die Tributcomitien,  Sie waren diejenige Volksversammlung, in welcher unmittelbar  nach Tribus, Mann für Mann, viritim, ohne Rücksicht auf  Census oder Unterschied des Standes und der Stellung ab-  gestimmt wurde (Dionys VII, 59 Cic. de leg. III, 19 Liv. 39,^  15 u. a.).   Wir haben das Wesen der Tribus dahin festgestellt, das»  sie lediglich einfache, lokale Bezirke sind, dass alle römischen  Bürger, welche in dem Bezirke einer Tribus wohnen, auch  persönlich dieser Tribus angehören, und zwar, um in derselben .  ihre politischen Pflichten und Rechte auszuüben. So können  wir zur Erörterung der Tribusänderung des App. Claudius  übergehen.   Wir gehen aus von der besten Überlieferung Diodors.  Wenngleich seine Angabe äusserst knapp ist und vielleicht  mehrfache Auslegung zulassen könnte, so glaube ich doch,,  dass sie, wortgetreu aufgefasst, klar, deutlich und wahr ist.  Diodor sagt (XX, 36): i^dioite rolg Tio/Ajai^ ij]v e^ovaiav otiol  TiQoaiQolvTO xif.uaaal>ca d. h. er gab den Bürgern die Erlaub-  nis, sich schätzen zu lassen, wo d. h. in welcher Tribus sie  wollten. Mit Recht hat Dindorf die Worte, welche in einigen  Handschriften folgen: 'Acd iv unoia Tig ßov/.8Tai cpv/,fi TccTzea-  d^ai gestrichen, da sie dasselbe bedeuten wie die vorhergehen-  den. Wenn Siebert (App. Caudius S. 50) die Worte otiol tt^^o-  aiQolvTO TifojaaaS^ta auf die Klassen bezieht, während die  folgenden iv oTioia iig ßauXerat (fvXfi TaTTeoO^at nach seiner     'i!-  Meinung die Tribus bezeichnen, so ist die Tautologie, die in  dem Zusatz läge, noch nicht aufgehoben, weil, wer in der  Tribus stand, auch nach dem Census in die Klassen aufge-  nommen werden musste; zudem widerspricht Sieberts Aus-  legung den Worten Diodors; denn er -giebt selbst zu, das&  der Census bei der Bestimmung der Klasse massgebend war :  die Bürger konnten sich also die Klasse nicht wählen {7i()oaL~  QohTo), sondern der Censor hatte sie nach dem Census in  die bestimmte Klasse zu setzen.   Noch willkürlicher ist der Versuch Gerlachs („Griechischer  Einfluss in Rom" Basel 1872. S. 36 ff. 40), die Worte iv  OTioirf rtg ßovkeTai (fvl^ Tcareoü^ca als echt zu erweisen.   Appius Claudius gab nach Diodors Worten den Bürgern  die Erlaubnis, sich in der Tribus, in welcher sie wollten^  schätzen zu lassen. Der Ton liegt auf den Worten oTiot  TiQOaiQoh'TO, und es folgt aus ihnen, dass vor App. Claudius  die Bürger sich nicht in jeder beliebigen Tribus schätzen lassen  durften, sondern, so fahren wir nach unseren obigen Erörte-  rungen fort, in der Tribus, in deren lokalem Bezirke sie  wohnten. Es stimmt dies so genau und klar zusammen, dass  Diodors Worte nicht anders ausgelegt werden können, wenn  man ihnen nicht Gewalt anthun will. Diodor bezieht die Ände-  rung, die Appius Claudius mit den Tribus vornahm, zunächst  auf die Schätzung {jL^irfiaad^ai)', da aber auf dem Census^.  der eben nach den Tribus vorgenommen wurde, Steuer-^  Heer- und Stimmordnung, wie wir sahen, beruhte, so musste  das Edikt des App. Claudius natürlich und notwendig auf  alle diese Verhältnisse zurückwirken. Die Änderung des  App. Claudius bestand also darin, dass er die Personal-  tribus von dem Wohnsitz löste, dass er den Zwang be-  seitigte, nach welchem der römische Bürger für die Aus-  übung seiner politischen Pflichten und Rechte an den Bezirk  seines Wohnortes geknüpft war; an Stelle des früheren  Domizilzwangs für die Ausübung der Bürgerpflichten und  Bürgerrechte setzte App. Claudius also die Freizügigkeit.  Absoluter Domizilzwang hat wohl nie bestanden, obwohl dies Dionys vom König Servius einführen lässt (IV, 14); also ist  wohl auch Tribuswechsel gestattet gewesen: aber vor Appius  <^laudius konnte letzterer nur die Folge des ersteren sein,  nur wer sein Domizil in einen andern Tribusbezirk verlegte,  erhielt auch personal diese andere Tribus und kam in ihr  seinen politischen Obliegenheiten nach. Seit der Censur des  App. Claudius konnte jeder Bürger in jeder beliebigen Tribus  sich schätzen lassen und seinen politischen Pflichten und  Rechten nachkommen, jeder im Bezirk einer städtischen Tribus  wohnende Bürger in jeder beliebigen städtischen und länd-  lichen und umgekehrt.   Den Zweck, welchen App. Claudius mit seinem Edikte  verfolgte, seine Wirkung und Bedeutung werden wir, soweit  und was sich darüber festsetzen lässt, unten erörtern; sehen  war zunächst, w^as die anderen Berichte über die Tribusände-  rung des App. Claudius sagen.   Livius übergeht in dem Jahre, in welches er die Censur  <les App. Claudius setzt, die Tribusänderung desselben vöUig.  Ohne Bedenken kann man annehmen, dass seine Quelle, der  «r an dieser Stelle folgt, gleichfalls davon schwieg. Und es  scheint dies bei dem Standpunkt, den die Quellen des Livius  dem App. Claudius und überhaupt der gens Appia gegenüber  einnehmen, nicht wunderbar. In anderm Zusammenhang haben  wir bereits erwähnt, dass der gens Claudia in der späteren  römischen Annalistik eine merkwürdige, durchweg erkennbare  Rolle angedichtet ist: alle Appii Claudii werden seit Livius  und besonders von ihm als ultraconservative Vertreter des  Adelsregimentes dargestellt. Nach demselben Schema ist auch  unser Censor geschildert (9, 34). Es hätte nun die Massregel  der Tribusänderung, welche, wie wir noch genauer betrachten  -werden, durchaus demagogisch ist, mit dem politischen Cha-  rakter, den die spätere Annalistik dem App. Claudius beilegt,  keineswegs übereingestimmt: so überging man dieselbe eben.  Zu einem späteren Jahre jedoch, dem Jahre der Adilität des  €n. Flavius (304), berührt Livius kurz die Tribusänderung  des App. Claudius, und es ist höchst wahrscheinlich, dass er  an dieser Stelle (9, 4G von ceterum bis Schluss) aus einer  andern, und zwar bessern, Quelle geschöpft hat. Er berichtet  nämlich in diesem Kapitel (9, 46) zunächst die Wahl des  Cn. Flavius zum Ädilen, alsdann dessen Amtsführung und  kehrt schliesslich mit ceterum wieder zur Wahl zurück, um  noch neues Detail über dieselbe beizubringen. Es ist dies  offenbar ein Compositionsfehler, der sich am besten so erklärt,.  dass man annimmt, Livius habe nach Abschluss seiner Er-  zählung in einer neuen Quellle andere Angaben gefunden  über die Wahl des Cn. Flavius, die er nun anhangsweise bei-  fügte (cf. Seeck, Kalendertafel der Pontifices S. 5 f.). Dass  diese Quelle eine bessere ist als die, welcher Livius sonst  über App. Claudius folgt, geht daraus hervor, dass er die  Massregeln des App. Claudius erwähnt, welche als dema-  gogische dem ihm sonst von Livius beigelegten politischen  Charakter widersprechen, und das Demagogische derselben  sogar ohne Hehl ausdrückt.   Es heisst bei Livius a. a. 0.: Ceterum Flavium dixerat  aedilem forensis factio Appii Claudii censura vires nacta, qui  senatum primus libertinorum filiis lectis inquinaverat et postea-  quam eam lectionem nemo ratam habuit nee in curia adeptus  erat quas petierat opes urbanas humilibus per omnes tribus  divisis forum et campum corrupit. Den Gedanken, dass App.  Claudius, weil er nach dem Scheitern seiner senatus lectio  nicht die erstrebten opes urbanas erreicht hatte, dies nun durch  seine Tribusänderung bezweckt habe, werfen wir weg: es ist  offenbar eine causale Verbindung der beiden Massregeln, die  Livius selbst hergestellt hat, und die aus der allgemeinen  Auffassung des Livius von dem politischen Streben des App.  Claudius geflossen ist. Nach Livius besteht die Tribusände-  rung des App. Claudius darin, dass derselbe die humiles über  alle Tribus verbreitet habe und so die Tributcomitien (forum)  und die Centuriatcomitien (campum sc. Martium) verschlechtert,   heruntergebracht habe.   Unter humiles versteht Livius nie eine bestimmte Bürger-  klasse, es ist bei ihm nur der Gegensatz von nobilis, potens opuleritus, bedeutet also im allgemeinen niedrig, an Geburt,  Stand oder Macht und Vermögen (I, 8, 39. III, 36, 53, 56.  VI, 41. XXII, 25. XXIII, 3. XXVI, 31 cf. Siebert, 1. c. 49).  Zuweilen versteht Livius darunter auch die ärmeren Plebejer  (III, 19, 65. V, 32). Und ein solcher allgemeiner Begriff,  den Livius stets mit humilis verbindet und daher sicher auch  hier, passt vortrefflich zu unserer Auffassung von des App.  Claudius Tribusänderung.   Es ist naturgemäss anzunehmen, dass die Bewohner der  Stadt Rom dichter zusammenwohnten als die des umliegenden  flachen Landes, ferner dass die Stadtbewohner zum grössten  Teil zu den mittleren und unteren Volksschichten gehörten,  seien es Kaufleute, Handwerker oder ein sonstiges städtisches \  Gewerbe Treibende. Zu den Reichen werden die Stadtbe- i  wohner in ihrer grossen Masse nicht zählen können, zumal in  ältester Zeit nicht, wo der Grundbesitz der alleinige Reich-  tum war. Dabei ist nicht ausgeschlossen, dass reiche Grund-  besitzer in der Stadt wohnten und umgekehrt Nichtgrund-  besitzer auf dem Lande, wie für die spätere Zeit der Repu-  blik es vielfach bezeugt ist, dass Grundbesitzer in der Stadt  wohnten (s. unten). Ihrer grossen ]\Iasse nach waren aber  die Städter einmal dichter zusammengedrängt und dann ärmer  als die Masse der Landbewohner. Zur Ausübung ihrer poli-  tischen Pflichten und Rechte waren sie nun an die Tribus  ihres Wohnplatzes gebunden, und es ist nicht zweifelhaft,  dass sie in diesem d. h. ni den tribus urbanae von jeher  das Übergewicht gehabt haben. Aber es standen den städ-  tischen Tribus von jeher eine grössere Anzahl ländlicher  gegenüber, in denen ohne Zweifel die Reicheren und  Reichsten die Überzahl ausmachten. Zur Zeit des App. Clau-  dius standen 21 ländliche gegen die 4 städtischen Tribus.  Vermöge der Überzahl der Bezirke der ländlichen Tribulen  hatte diese also stets, vor allem in den Tributcomitien, die  Oberhand, während das Stimmrecht der ärmeren und ärmsten  Tribulen, die in der Stadt zusammengedrängt waren, ziemlich  illusorisch war, da nur die Abstimmung der 4 tribus urbanae        — 63 —   .precLde Macht in den Comitien m we chen d- Kopfzahl  entschied, zu erlangen, sich über d.e l^^^^f ^ Jj \^ ;;;„  breiteten und so vern,öge ihrer Masse '" -«1^ "/^^ J" ^^^  „meisten ländlichen Tribus das Übergewicht -lang -Und  dies sagt ia eben Livius mit nicht misszuverstehenden Worten  (ipp C humilibus per on,nes tribus divisis forun, corrup.t .  Ltht so leicht erklärbar ist der Zusatz des Livius, dass durch  JSicht so leiciii. Stimmrecht in den Centuriatcomitien   diese Massregel auch das Stimmrecht m ae  verschlechtert sei (eampum sc. Martmm corrupit). Denn de  Erklärung Clasons (1. c. S. 104), -'»^r campus se. d^ u.  .eine ländliche Tribus, unter forum d.e S;-";-J '^;;.  comitien zu verstehen, wird doch schon aus dern g'-f J^^J  fällig weil darin eine Tautologie läge, mdem das Ubei gewicht  Tln gesamten Tributcomitien dasjenige - /-.-f"/;^  Tribusbezirken voraussetzt. Wenn bei der Centunafon das  Szt dir gleichmässigen Verteilung der TrlbtUen em. jeden  Tribus auf alle Centurien Gesetz gewesen wäre, so hatten schon  n; Claudius die hunüles auf die Centurien der d.em^.us  entsprechenden Klasse gleichmässig verteil --d- ^^Tg  Aber dass dem nicht so gewesen ist, wird d-h die Wnkun  des appianischen Ediktes bewiesen. Liyius sagt, dass durch  die Verteilung der humiles auf alle Tribus auch das Stimm  thl il den Lturiatcomitien verschlechtert worden sei ; als  gewannen die humiles, indem sie sich auf alle T"bus zer  Eeuten, auch mehr Geltung in den C-turi^-— ^^^^ ^   ,. je mehr Tribus sie -;^ VklTsiorl^Tu: aTf t  langten sie auch von da aus. Ls kann sicn u   ■ letzte höchstens vorletzte Censusklasse beziehen, da de  dltber Stehenden wohl nicht mehr zu den humiles gezahlt  werden können. So liegt hier das Verhältnis zwisciien Tribus und Cen-  turien; aber wie es zu erklären ist, ist mir unmöglich zu  finden. Die ]\[achtvollkommenheit der Censoren, die dies zu  regeln hatte, genügt auf keinen Fall zur Erklärung (vgl.  Mommsen, Str. III, 269). Sei ihm, wie es wolle, wir dürfen  dem Livius glauben, dass die Wirkung des appianischen  Ediktes sich nichi bloss auf die Tribut-, sondern auch auf die  Centuriatcomitien geäussert hat.   Aber damit hören auch unsere Nachrichten über die  Wirkung des Ediktes auf. Ob es und welchen Einfluss es auf  Steuererhebung und Aushebung geübt hat, ist kaum zu er-  mitteln. Die Zahl der Steuer- und aushebungspÜichtigen Bürger  wurde durch dasselbe nicht vergrössert, sondern es trat durch die  Massregel nur eine andere Verteilung der Tribulen über die  Tribus ein. Also trat wohl eine Veränderung der Tribulen-  anzahl in den meisten Tribus ein, indem sich viele Bürger  nicht in ihrer Heimattribus sondern in einer andern schätzen  Hessen; aber das Gesamtresultat der Aushebung und Steuer-  erhebung musste, da die Zahl der zu beiden Verpflichteten  nicht vermehrt wurde, füglich dasselbe bleiben. Das Edikt  hatte wesentlich nur die oben ausgeführte, von Livius über-  lieferte politische Wirkung, dass es durch die Freistellung der  Tribuswahl das Stimmrecht der humiles verbesserte. Und  wenn hierin der hauptsächlichste, wenn nicht ehizige, Zweck  des Censors selbst beim Erlassen des Ediktes bestanden hat,  so stimmt dies vortrefflich mit seinem gesamten politischen  Charakter. Er war Neuerer und Demagog, begünstigte die  niederen Volksschichten und besonders die städtische Be-  völkerung. Ohne Zweifel ist der Samniterkrieg, der ja  unter der Censur des App. Claudius geführt wurde, auf die  demokratische Massregel von Einfluss gewesen. Die W^ehr-  kraft des römischen Volkes musste in diesen Jahren aufs  höchste gespannt werden, und da die unteren Schichten die  meisten Krieger stellten, so war es zeitgemäss, wenn unser  volksfreundlicher Censor deren politischen Rechte förderte.  Die Tribusänderung des App. Claudius ist sehr wohl denkbar mit der alleinigen Wirkung auf die Comitien, be-  sonders die Tributcomitien. Alles, was sonst von neueren  Gelehrten über die Wirkung der appianischen Massregel auf  Steuerordnung und Aushebung aufgestellt ist, ist unbeglaubigt;  besonders gilt dies von Mommsens Ausführungen, die aller-  dings consequent mit seiner Ansicht über das ursprüngliche  Wesen der Tribus und die Tribusänderung- des App. Clau-  dius zusammenhängen. Anfangs steuerten nach Mommsen  die Tribulen d. h. die Grundbesitzer nur vom Grundbesitz,  während die Ararier von jeher vom ganzen Vermögen steuerten.  Bald aber ward auch für die Tribulen aus der Grund-  steuer eine Vermögenssteuer. Und hieran consequent an-  knüpfend, verband App. Claudius die persönliche Tribus  statt mit dem Grundbesitz mit dem Vermögensbesitz schlecht-  hin oder vielmehr mit dem Bürgerrecht, indem er die Ararier  in die Tribus aufnahm, sie also den Tribulen gleichstellte  (Str. II, 375). In Folge des Ediktes, dass sich jeder Bürger,  in welcher Tribus er wolle, schätzen lassen dürfe, konnte^  während früher nur der Ansässige in der Tribus seines Grund-  besitzes gestanden hatte, jetzt sowohl der Ansässige in eine  andere als auch der Nichtansässige, der bisher ausserhalb der  Tribus gestanden hatte, in jede beliebige Tribus eintreten.  Die natürliche Wirkung des Erlasses sei die gewesen, dass  sich die besitzlose, in Rom zusammengedrängte Menge über  alle Tribus verteilt habe (Rom. Trib. 153 f.) : es habe sich  diese Wirkung geäussert auf Stimm-, Heer- und Steuerordnung,  in Bezug auf die erstere sowohl in den Tribut- als den Cen-  turiatcomitien. Für die Tributcomitien sei es klar , ebenso  für die (Centuriatcomitien, da jeder, der in die Tribus neu  aufgenommen werde, auch in die Centurien gelangen müsse  je nach dem Census. (Rom. Trib. 154. Str. III, 248). Da  nun die Centurien sowohl dem Zwecke der Abstimmung als  dem des lleerdienstes dienten, so hätten die Nichtansässigen  seit App. Claudius auch ihre Stellung in der Wehrordnung.  Nur sei das letztere an einen Minimalsatz von Vermögen ge-  knüpft. Dieses, das ursprünglich, wie alle Censussätze, in Bodenmass ausgedrückt sei, könne in der Epoche des App.  Claudius nur in schweren Ass angesetzt sein, grade wie die  gesamten Censussätze (40,000, 30,000, 20,000, 10,000, 4400  Ass, letzteres der Miniraalsatz. Str. III, 249.)   In Bezug auf die Steuerordnung sei durch die Censur  des Appius der Vermögensbesitz schlechthin auch für die  Tribulen d. h. die Grundbesitzer als Objekt der Besteuerung  festgesetzt worden (Str. III. 249). Grade dieser Punkt ist  1^ geeignet, um mit der Kritik der Mommsenschen Ansicht ein-  zusetzen. Mommsen macht nämlich selbst den Zusatz,  dass die Censur des App. Claudius nicht wohl denkbar sei,  wenn nicht damals schon das Tributum allgemein zur Ver-  mögenssteuer geworden wäre, d. h. wenn nicht damals schon  auch die grundsässigen Leute vom ganzen Vermögen gesteuert  hätten (Str. II, 363 A. 4). Appius Claudius habe nur die  Consequenz daraus gezogen, indem er die Ärarier auch an  Rechten den Tribulen gleichstellte. Mommsen erkennt also  an, dass der faktische Gegensatz, der nach seiner Ansicht  zwischen Ärariern und Tribulen bestand, dass jene vom ganzen  Vermögen steuerten, diese nur vom Grundbesitz und also die  bessere Steuerklasse waren, schon vor der Censur des Appius  Claudius aufgehoben sei. Mindestens müsste man doch beides  als gleichzeitig ansetzen; denn die Gleichstellung in den  Pflichten gegenüber dem Staate hätte doch naturgemäss die  Gleichstellung in den Rechten zur notwendigen und sofortigen   Folge gehabt.   Aber überiiaupt steht diese Ansicht von der Tribusände-  rung des App. Claudius auf schwachen Füssen. Wie ge-  zwungen ist zunächst die Interpretation der Quellenstellen,  wenn man sie in Mommsens Sinne auflassen will. Sagt denn  Diodor oder Livius ein Wort oder liegt in ihren Notizen auch  nur eine Andeutung, dass die Massregel des App. Claudius  in der Neuaufnahme von Nichttribulen bestanden hätten?  Vv'arum hätten diese Schriftsteller, wenn sie die appianische  Massregel so aufFassten, wie Mommsen meint, nicht deutlich  gesagt, dass App. Claudius viele bisherige Nichttribulen in <lie Tribus aufnahm und dann allen Tribulen das Recht gab,  «ich in einer beliebigen Tribus schätzen zu lassen? Diodor  und Livius selbst können also die Massregel unmöglich in  Mommsens Sinne gefasst haben, denn sonst hätten sie ja,  müsste man annehmen, das Wesentliche derselben, die Neu-  aufnahme bisheriger Nichttribulen, nicht gesagt. Nein!  Beide sprechen nur von einer anderen Verteilung der Tribulen.  Es hängt diese Ansicht Mommsens, die von vielen Seiten,  nur hier und da mit nebensächlichen Abweichungen vertreten  wird (Niebuhr R. G. I, 477, ITI, 346 f. 349 — 52. Alterth.  70, 98, ist darin Mommsens Vorgänger, hat die Ansicht  nur nicht im einzelnen so genau ausgeführt. Herzog, Gesch.  und System I, 269 fl*. Ihne, Rom. Gesch. I, 366 fl*. u. a.)  eng zusammen mit seiner Auflassung vom ursprünglichen Wesen  der Tribusordnung, die wir oben widerlegt zu haben glauben.  Wie unwahrscheinlich ist es, um den oben ausgeführten Grün-  den noch eine hierhin gehörende Erwägung vom historischen  Standpunkt aus hinzuzufügen, dass eine ganze Bevölkerungs-  klasse mit einem Male in die Rechte der Vollbürger eingesetzt  sei. Denn es umfassten doch nach Mommsen die Ararier d. h.  die Nichtgrundbesitzer die ganze gewerbetreibende und die  „ganze in Rom zusammengedrängte besitzlose Menge" (R.  Trib. 153), deren Gesamtzahl doch sehr gross gewesen sein  muss, da sie durch die Verteilung auf alle Tribus in der  Mehrzahl der Tribus die Majorität erlangt hat, sodass sie  z. B. die noch nicht dagewesene Wahl eines Libertinensohnes  zum Curulaedilen durchsetzen konnte. Diese Nichtgrund-  besitzer müssen demnach nach Mommsen, da doch Centuriat-  und Tributcomitien den populus („die patriizisch - plebejische  Bürgerschaft") ausmachen, bis auf App. Claudius aus dem  Begrifl* des populus ausgeschieden werden. Die ganze grosse  Bevölkerungsklasse der Nichtansässigen lebte also Jahrhunderte  lang bis zum Jahre 310 v. Chr. ohne jede Teilnahme an  den politischen Rechten der Bürger lediglich als Steuerzahler.  Und nirgends wird von einem Versuche dieser grossen Be-  ^ölkerungsklasse, sich die politischen Vollbürgerrechte zu erringen, berichtet, wie es doch die plebs gethan hat. Erst da&  Machtedikt eines Schatzungsbeamten setzte sie in die Voll-  bürgerrechte ein. Ziehen wir hinzu, dass nirgends in unser»  Quellen weder von einer ursprünglichen Ausschliessung der  Nichtgrundbesitzer aus den Tribus, d. h. den VoUbürgerrechten^  noch von einer Neu aufnähme derselben durch Appius Clau-  dius auch nur eine Andeutung gemacht wird, so kann man  wohl das gesamte System Mommsens als hinfällig bezeichnen,  zumal wenn dessen Consequenzen, wie wir bei der Erörterung,  der Censur des Fabius darthun werden, bestimmten, von  Quellen ersten Ranges überlieferten Thatsachen widersprechen.  Ausser Diodor imd Livius erwähnen noch einige alte  Autoren die Tribusänderung des App. Claudius: Plutarch,.  Popl. 7. Val. Max. II, 2, 9. Valerius Maximus hat, wie  man auf den ersten BHck erkennt, aus Livius geschöpft und  kann, da er nichts neues beibringt, übergangen werden. Plu-  tarch sagt a. a. O. : (Ova/Joio^) rov Orndlxior t.iJ>}](pioc(ro  ngviTOv tmekevd^eimv ty,elr<n' tv 'Piöur yeviO&ai TToUxr.v xal  (fl^etv ifjijffov I] ijOv'/MiTO (f>(ita()iH :TO(K;rfiit;0ivTa. Tol^; dt  aklot^ ccTislecdiooii; oipf- y.ca uem riolvv yomov tiovoiav   Diese Stelle ist der Ausgangspunkt für die von manchen  Neueren, in einigen Variationen, vertretene Ansicht, dass die  Massregel des App. Claudius sich lediglich auf die Frei-  gelassenen bezogen habe, indem man meint, der präciseren  Angabe Plutarchs über die vom appianischen Edikt Betroffenen  vor den ungenaueren des Diodor und Livius den Vorzug geben  zu dürfen.   Madvig lässt die Freigelassenen mit der übrigen besitz-  losen hauptstädtischen Einwohnermasse von Anfang an auf  die 4 tribus urbanae beschränkt sein (Verf. u. Verw. 1, 202 f.),.  während die übrigen Bürger je nach der Lage ihres Grund-  besitzes in die Tribus eingezeichnet wären (a. a. 0. lOO),  In den städtischen Tribus hätten die Libertinen seit Ser-  vius Tullius, wie Dionys (IV, 22) überliefere, das Stimm  recht gehabt (a. a. O. 203). Zwar sei diese Beschränkung: in und wieder durchbrochen, aber immer wieder zur Geltung  gekommen und habe bestanden, so lange es Volksversamm-  lungen gegeben habe. Die erste Aufhebung dieser Beschrän-  kung sei eben das Edikt des App. Claudius, welches den  Freigelassenen den Zutritt zu allen Tribus gestattet habe   <a. a. 0. 203).   Siebert fasst den Begrift der Leute, auf welche sich das  Edikt des App. Claudius bezogen habe, noch enger. Er  meint, es seien davon nur die grundsässigen Libertinen betroifen;  das Prinzip der Ansässigkeit für die ländlichen Tribus habe  der Censor nicht aufgehoben, sondern nur die grundsässigen  Libertinen den ingenui gleichgestellt, indem er sie und ihre  ISöhne, welche beide mit den nichtansässigen Freigelassenen  und nichtansässigen Freigebornen bisher auf die städtischen  Tribus eingeschränkt waren (S. 23 ff.), in die ländlichen Tribus  aufnahm, und zwar in diejenige, in welcher sie ansässig waren ;  in Folge dessen habe er sie auch in die Klassen und Cen-  turien aufgenommen, während sie vorher von diesen ausge-  schlossen waren und in der letzten Zusatzcenturie gestimmt  hatten. In diesem Sinne interpretiert Siebert in äusserst ge-  zwungener Weise die Angaben aller Autoren über App.  -Claudius (l. c. S. 50 ff.). Ausgehend von der Auffassung  ;Niebuhrs über den politischen Charakter des App. Claudius  als eines streng patrizischen Politikers bringt nun Siebert die  Tribusändrung in der Weise mit den angeblich patrizischen  Tendenzen in Einklang, dass er annimmt, App. Claudius habe  die Libertinen begünstigt, um sich auf sie gegen die plebejische  Nobilität und die „Coalitionspartei", deren Ziel die Verbindung  ^er patrizischen und plebejischen Nobilität gewesen sei, zu   stützen.   Nach Lange sind unter den humiles, welche das Edikt  <les Censors betraf, sowohl die nichtansässigen Freigeborenen  als die gesamten Freigelassenen, einerlei ob ansässig oder  nicht, zu verstehen. Diese habe App. Claudius, wenn sie es  wünschten, in die Tribus des Landes eingezeichnet. Das  Prinzip der Grundsässigkeit sei also für die Tribus aufgehoben  nicht aber für die discriptio classium et centuriarum. Diese  sei von App. Claudius' Edikt nur insofern berührt, als die^  ansässigen Freigelassenen auch in die Klassen und Cen-  turien gelangt seien (Lange, Altert. II, 79 fF.). Soltau, nach  dessen Ansicht das Prinzip der Grundsässigkeit zur Zeit der  Decemvirn durchbrochen ist (Entstehung u. Zusammensetzung  der altröm. Volksversammlungen S. 477 ff.) lässt den App.  Claudius nur die Libertinen in die Tribus aufnehmen (a. a,  O. 404 ff. 606).   Diesen Ansichten gegenüber muss zunächst die Frage  aufgeworfen werden, ob der einzige Plutarch, der für gewöhn-  lich seine Nachrichten über römische Geschichte aus späten»  Quellen schöpft, das Gewicht hätte, dem Diodor und Livius  vorgezogen zu werden. Letztere können nämlich sicher nicht  die Tribusändrung des App. Claudius allein auf die Frei-  gelassenen bezogen haben. Denn es wäre doch wahrlich  wunderbar, wenn sie diese allein als vom appianischen Edikt  betroffen angenommen hätten und sich dabei so unbestimmt  ausgedrückt hätten (Diodor: ol Tiollxm. Liv. humiles), während  sie doch bei der senatus lectio des Censors die von Appius  in den Senat Aufgenommenen ganz bestimmt als Libertinen -  söhne bezeichnen. Aber sagt denn Plutarch wirklich, das&  sich die Tribusändrung des Censors allein auf die Freigelassenen,  bezogen habe? Vindicius, so berichtet er, erhielt zur Be-  lohnung von Valerius Poplicola das Bürgerrecht und die  Erlaubnis, sich eine Tribus, welcher er angehören wolle, zu  wählen ; daran knüpft er die Bemerkung : col^ (U ttlloi^ dne-  ^evd^'ciioig e^ovoiar ffi/^ipou ör^(.it(yioytov vöioi^e ^'ATiTTiot^, Das  kaim doch nicht heissen, dass App. Claudius den Freigelassenen^  das Bürgerrecht gegeben habe, da dies doch noch mehr als  das Stimmrecht umfasst, sondern es bezieht sich auf das, was-  Plutarch vom Stimmrecht des Vindicius gesagt hat; Plutarch  meint also ohne Zweifel, dass App. Claudius den Libertinen  dasselbe Stimmrecht gegeben habe, wie Valerius dem Vin-  dicius, d. h. das Recht, die Stimme in der Tribus, in welchei?.  sie wollen, abzugeben. Und so gefasst enthalten die Worte Plutarchs offenbar  Wahrheit. Denn dass die Freigelassenen zum grössten Teile  von städtischem Gewerbe lebten und unter den humiles urbam  eine grosse, wenn nicht die grösste, Anzahl ausmachten, ist  an sich schon wahrscheinlicli und folgt auch daraus, dass eme  der wichtigsten Wirkungen der appianischen Tribusänderung  die Wahl eines Libertinensoimes zur curulischen Aeddität  gewesen ist (s. unten), dass also die vom appianischen Edikt  Betroffenen vom libertinischen Element dominiert wurden.   Aber allein können die Freigelassenen nicht diejenigen  gewesen sein, auf welche sich das Edikt bezog. Das sagt  kein Schriftsteller, selbst Plutarch nicht, und es wird be-  sonders dadurch bewiesen, dass erst im 6. Jahrhundert der  Stadt ein rechtlicher Unterschied zwischen libertini und ingenui  festgesetzt wurde, indem um das Jahr 220 v. Chr. die liberum  auf die 4 tribus urbanae beschränkt wurden (Liv. Ep. 20. cf.  Mommsen, Str. III, 436 ff Madvig, Verf. und Verw. I, 203 f.).  Auch Mommsen lässt die Freigelassenen nur einen Teil  derer sein, auf welche sich die Massregel des App. Claudius  bezog, und zwar hätten sie unter den Bürgern, denen sie vor  allem zum Vorteil gereichte, an Zahl besonders hervorgeragt.  Die Libertinen, meint er (R. Trib. 153 f. Str. III, 43o),  hätten unter den nicht grundsässigen ohne Zweifel die erste  Stelle eingenommen, weil es ihnen bei „der noch ungebrochenen  Erbgutsqualität ^ unmöglich, wenngleich nicht verboten, ge-  wesen sei, Grundbesitz zu erwerben. Deshalb hätte die That  des Appius, die Aufhebung des Prinzipes der Grundsässigkeit  für die Personaltribus , allenfalls als Verleihung des Stimm-  rechtes an die Freigelassenen bezeichnet werden können, wie  es Plutarch thue. Es hängt diese Ansicht, wie man sieht,  eng mit der allgemeinen Auffassung Mommsens von der Tribus-  ändrung des App. Claudius zusammen.   Recapitulieren wir kurz unsere Resultate: Die Tribus-  ändrung war eine lokale Distriktseinteilung, sie war von Haus  aus dazu bestimmt, eine politische Volkseinteilujig zu sein,  d. h. sie hatte den Zweck, dass die Bürger nach ihr geordnet ihre Ptlichten und Rechte gegenüber dem Staate erfüllten.  Sie umfasste daher die gesamte Bürgerschaft (mit P]inschluss  der Freigelassenen): die Tribus in personaler Beziehung be-  zeichnete also das Bürgerrecht schlechtliin. Der Bürger war  in Bezug auf die Ausübung der Rechte, welche ihm die Tribus  gewährte, an die Tribus seines Wohnortes gebunden. Diesen  Domizilszwang für die Tribusordnung hob App. Claudius auf.  Es hatte dies die natürliche Wirkung, dass sich die in der  Stadt zusammengedrängte Masse der niedrigen Volksschichten  über alle Tribus verbreiteten, um einen ihrer Kopfzahl ent-  sprechenden Einfluss in den einzelnen Tribus zu gewinnen;  sie erhielten so' in den Tributcomitien die Oberhand und auch  in den Centuriatcomitien gewannen sie grössere Geltung.   Es haben sich Spuren in der Überlieferung erhalten, dass  die humiles von ihrem neuen Rechte, in jede beliebige Tribus  eintreten zu dürfen, ausgiebig und leidenschaftlich Gebrauch  gemacht haben, vielleicht dass sie sich planmässig über die  einzelnen Tribusbezirke verteilt haben, um in möglichst vielen  oder allen Tribus vermöge ihrer Kopfzald — und diese muss  gross gewesen sein — die Majorität zu erlangen. Livius sagt  (IX, 46, 13) : ex eo tempore (vgl. Weissenborn z. d. St.: seit  der Censur des Appius Claudius) in duas partes discessit  civitas: aliud integer populus fautor et cultor bonorum, aliud  forensis factio tenebat, doncc etc. ; es sind hier unter der  forensis factio die Leiter der Bewegung zu verstehen, welche  bezweckte, auf Grund der appianischen Tribusänderung die  humiles möglichst planmässig über die Tribus zu verteilen,  um ihnen in den meisten Tribus die Majorität zu verschaffen,  während der integer populus diejenigen bezeichnet, welchen  nichts daran lag oder liegen wollte, dass die humiles so in  ihren Rechten gefördert wurden, und welche sich daher an der  Bewegung nicht beteiligten. Die humiles, zu deren Nutzen  A.pp. Claudius sein Edikt der Tribusändrung erlassen hat,  scheinen also ihr neues Recht energisch benutzt zu haben.   Einen grossen Erfolg erreichten sie sechs Jahre nach dem  Erlass des Ediktes: sie setzten nämlich in den Tributcomitien ciie Wahl eines Libertinensohnes, des Cn. Flavius, zum curu-  lischen Aedilen durch. Dass diese Wahl mit der Censur des App.  Claudius zusammenhängt, ist sicher bezeugt (s. unten). Diodor  sagt a. a. O.: o di- drjuo^ TOthoig f-dv dvTi7TQdTT0)v (d. i. rolg  iTiKpaveOTcnoig) t(;7 di- ^Atttiui) o i luf i /.OTijiiObuerog y.a) t/]v tlov  dtoyerolr TFQOayioyj]}' ßsßcatoaai ßoch^ievog^ dyn^aroiwr eilezo  ^rjg tTiKfarearFnag ccyooavoiiiag vlor uTte/.rvd^H^no FvaTov 0l(xßiov  etc. ; und Livius : ceterum Flavium dixerat aedilem forensis  factio App. Claudii censura vires nacta . . .   Die Nobilität hatte zwar sogleich im folgenden Jahr nach  der Abdankung des App. Claudius (d. i. im J. 307) neue  Censoren, M. Valerius und C. Junius , gewähl t, offenbar so  schnell, um die Tribusändrung des App. Claudius rückgängig  zu machen. Aber diese erreichten nichts, wir wissen nicht,  warum. Kach sehr kurzem Lustrum, drei Jahren, wählten sie  nun zwei Männer zu Censoren, welche schon als Consuln  d. J. 308 energisch gegen eine Neuerung des App. Claudius vor-  gegangen waren, den Q. Fabius und P. Decius.   Diesen gelang es auch, die Tribusändrung des App. Clau-  dius umzustossen.   Über die Censur des Q. Fabius und P. Decius ist allein  der Bericht des Livius (IX, 46) von Wert. Wir haben er-  örtert, dass der Abschnitt, in welchem Livius hiervon berichtet  (IX, 46 von ceterum bis Schluss) , aus einer andern und  besseren Quelle geschöpft ist. Valerius Maximus (II, 2, 9)  kann, weil er den Livius benutzt hat und nichts neues bei-  bringt, bei Seite gelassen werden ; ganz wertlos ist wegen ihrer  Nachlässigkeit die Angabe des Auetor de viris illustribus 32:  censor libertinos tribubus amovit.   Es heisst bei Livius a. a. O. : Fabius simul concordiae  causa simul, ne humillimorum in manu comitia essent, omnem  forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit urbanas-  que eas appellavit; adeoque eam rem acceptam gratis animis  ferunt, ut Maximi cognomen, quod tot victoriis non pepererat,  hac ordinum temperatione pareret. Dieser Bericht wird von den Forschern je nach ihrem  verschiedenen Standpunkt, den sie der Massregel des App^  Claudius gegenüber einnehmen, ausgelegt. Mommsen nimmt  an, dass Fabius für die seitdem sogenannten ländliclien Tribu»  den Zustand wieder eingeführt habe, der vor Appius war,  d. h. dass für sie ländlicher Grundbesitz wieder das Requisit  wurde. Die vier städtischen dagegen , in deren lokalem Be-  reich die forensis turba domiziliert war, habe er den nicht  ansässigen Bürgern überlassen und habe sie, die nicht minder  ländliche gewesen waren , deshalb die städtisclien genannt.  (R. Trib. 154.) Von Ansässigen seien vermutlich mir die  nicht zahlreichen Hausbesitzer ohne Landbesitz in den städti-  schen Tribus geblieben (Str. III, 186). Dass so in den Tribut-^  comitien das Übergewicht der ansässigen Bürger w^ieder her-  gestellt wurde, sei klar; und dafür, dass die Nichtansässigen  sich nicht aus den vier städtischen Tribus über alle Centurien  verbreiteten, habe die Machtvollkommenheit der Censoren sorgen  müssen. (R. Trib. 155. Str. III, 184 f. 269 f.).   Es steht und fällt diese Ansicht mit der Auffassung vom  Wesen der Tribus und der Änderung, die App. Claudius damit  vornahm. Aber gerade an dieser Stelle erheben sich noch  einige gewichtige Bedenken, welche das ganze Mommsensche  System treffen.   Mommsen meint, dass in den städtischen Tribus nur  Nichtansässige und höchstens w^enige städtische Hausbesitzer,  also zumeist die ärmeren und ärmsten Bürger, ständen. Es  müssen aber in ihnen Bürger aller Censusklassen gestanden  haben. Das geht deutlich aus dem Ausliebungsbericht des  Polybius (VI, 19, 20) hervor. Von der Aushebung sind  nach Polybius überhaupt au.sgeschlossen die Libertinen und alle,  deren Census 4000 Ass nicht erreichte. Nach dem Berichte  des Polybius werden nun die einzelnen Tribus nach dem Loose  vorgerufen imd dann für 4 Legionen je 4 und 4 ausgewählt.  Da die Dienstpflicht und die Ausrüstung sich nach dem Census  abstufte, so muss innerhalb der einzelnen Tribus die Aushebung  nach den Censusklassen stattgefunden haben. Also müssen doch alle Censusklassen in allen Tribus vertreten sein, also  auch in den städtischen (vgl. Niese, Göttinger gelehrte An-  zeigen 1888, No. 25, S. 959).   Auch in den städtischen Tribus müssen demnach die höchsten  Censusklassen vertreten gewesen sein. Für die spätere Zeit  ist dies wirklich nachgewiesen. Senatoren erscheinen mehrfach  in städtischen Tribus: Ein Aemilier (C. J. L. II, 3837), ein  Manlier (C. J. L. VI, 2125), ein Nummier (C. J. L. V, 4347>  in der Palatina, ein Sestius (Bull, de corr. hellen. XI, 225),  ein Coponius (Josephus, Archäol. XIV, 8, 5), ein Matius^  (C. J. L. V, 1872), welches sämtlich Senatoren sind (vgL  Mommsen Str. III, 788 f. Niese, Gott. Gel. Anz. a. a. O.).  Mommsen übersieht dies freilich nicht, er weiss es auch zu  erklären: In der späteren Zeit, so sagt er, sei die Bedeutung^  der Tribus ganz anders geworden, und zwar seit dem Sozial-  krieg ; sie habe seitdem eine persönliche und vom Grundbesitz  unabhängige, nur die origo d. h. die Heimatsberechtigung in  einer Vollbürgergemeinde ausdrückende Rechtsqualität be-  zeichnet. Auch auf Rom selbst sei diese neue Bedeutung^  übertragen; und als dies geschehen sei, da hätte sich ein  jeder seine Tribus wählen können oder seine frühere behalten  können. So seien die genannten Patrizier in die städtischen  gelangt: und die altadligen Manlier und AemiHer hätten füg-  lich ihrem Adelstolz durch die Wahl der Tribus des könig-  lichen Rom Ausdruck geben wollen (Str. III, 789). Die Un-  wahrscheinlichkeit steht dieser Erklärung an der Stirn  geschrieben. Wozu nimmt man eine solche Wandlung in der  Bedeutung der Tribus an, die so künstlich erklärt werden  muss, und die zu dem ganz und gar unbezeugt ist. Nach  unserer Ansicht erklärt sich der Umstand, dass später auch  die ersten Censusklassen in den städtischen Tribus vertreten  sind, einfach so, dass sie auch in früherer Zeit und von Anfang:  an darin haben stehen dürfen und gestanden haben.   Diejenigen Forscher, welche die Tribusändrung des App^  Claudius allein auf die Libertinen beziehen, müssen dasselbe^  auch von der Massregel des Fabius behaupten; sie meinem also, dass die Libertinen von Fabius auf die 4 städtischen  Tribus beschränkt seien. Auf die einzehien Variationen dieser  Ansicht (Madvig, Verf. u. Verw. I, 203. Lange, Altert. II,  92 f. Siebert, App. Claud. 79) und ihre Widerlegung brauche  ich nicht einzugehen, nachdem wir nachgewiesen, dass des  Appius Massregel nicht allein die Libertinen betroffen haben   kann.   Wie nun hat Q. Fabius die Tribuaiindrung des App.   Claudius rückgängig gemacl\t?   Die wichtigste und den Optimaten so unangenehme Wirkung  des appianischen Edikts war die gewesen, dass die urbani  Jiumiles sich über alle Tribus verteilten und besonders die  Abstimmungen der Tributcomitien völlig in ihre Gewalt be-  kamen. Diese Wirkung musste nun ausgeglichen werden.  Und Fabius bewirkte dies dadurch, dass er den humiles nicht  mehr alle Tribus, sondern nur eine kleine Anzahl frei Hess.  Omnem forensem turbam excretam in quatuor tribus coniecit  urbanasque eas appellavit, sagt Livius. Fabius schied also  die forensis turba, die humiles aus, d. h. er schied sie aus  <ler Zahl der übrigen Tribulen und den Gesetzen, welche für  diese galten, aus, nahm ihnen das Recht, sich in jeder beliebigen  Tribus zu schätzen, und beschränkte sie auf vier Tribus, und  zwar, wie sich das natürlich ergab, auf die ihres Wohnsitzes,  die städtischen. Der Domizilszwang für die Ausübung der  Rechte, welche mit der Tribus verbunden waren, blieb nach  wie vor aufgehoben. Nur auf die humiles bezog sich das  Edikt des Fabius, während für alle andern Bürger die An-  ordnung des App. Claudius auch weiterhin zu Rechte bestand,  sodass sich dieselben also in jeder beliebigen ländlichen  oder städtischen Tribus schätzen lassen konnten , welches  letztere aber kaum vorgekommen ist, da es wertlos war. Die  Massregel bezweckte nur das Übergewicht der humiles urbani  ^u brechen, welches diese nach dem Edikt des App. Claudius  vermöge ihrer Kopfzahl in den Tributcomitien erlangt hatten,  und dies wurde dadurch erreicht, dass den humiles die vier  «tädtischen Bezirke angewiesen wurden, in welchen sie allein ihre politischen Rechte ausüben durften. Innerhalb derselben  wird dem Einzelnen die Wahl der Tribus überlassen sein^  sodass also auch für sie nicht wieder der alte Domizilszwang  für die Ausübung der politischen Rechte eingesetzt wurde.   Das Edikt des Fabius bezog sich demnach ledighch auf  die humiles urbani, deren Vorteil App. Claudius mit seiner  Tribusänderung bezweckt hatte. Aber Fabius kann unmög-  lich als die, welche sein Edikt betraf, nur ganz unbestimmt  die humiles genannt haben, er muss eine bestimmte Grenze  gezogen haben für die, welche in der Folge nur in den  städtischen Tribus ihre politischen Rechte ausüben durften.  Es ist darüber nichts überliefert. Kahe liegt die Vermutung^  dass die Beschränkung sich auf diejenigen bezog, welche den  Minimalcensus nicht erreichten. Doch ist das eine blosse  Vermutung.   Wenn Livius sagt: urbanas eas appellavit, so heisst das  nicht, dass diese Tribus vorher noch nicht bestanden hätten^  oder dass die Bezeichnung tribus urbanae von Fabius er-  funden wäre. Da aber jetzt durch ein Gesetz der in der  Stadt wohnenden niederen Volksmasse die vier städtischen  Tribus speziell angewiesen wurden, so verband sich mit dem  Begriff der tribus urbanae seitdem der Begriff der geringer  geachteten Tribus gegenüber den rusticae; und so scheint  Livius den obigen Ausdruck zu fassen: Fabius habe die  Tribus urbanae zuerst so in dem geringschätzigen Sinn ge-  nannt. Damit ist nicht ausgeschlossen, dass nicht Patrizier  oder sonstige reiche Grundbesitzer in den städtischen Tribut  nach Fabius stehen konnten. Gestattet war es nach unserer  Auffassung der Massregel des Fabius, und es ist nach den  angeführten Beispielen sicher. Vielleicht sind es solche,  welche in der Stadt wohnten und es vorzogen, ihre politischen  Rechte am Wohnort zu üben oder aus einem andern Grund.   Wie durch die Massregel des Fabius das Uebergewicht  der humiles in den Tributcomitien gebrochen wurde, ist klar.  Aber auch in weniger Centurien müssen sie verteilt sein, da.     "sie in weniger Tribus standen. Doch dies ist eben ein völlig  unbekannter Punkt (s. oben). Die Bedeutung und der Zweck der Massregel des Fabius  lag darin, dass sie das Uebergewiclit der humiles in den  meisten Tribus brach.   Und dies war eine grosse That, seitdem dieselben schon  sechs Jahre lang ihr neues Recht, sich in allen Tribus  schätzen zu lassen, gebraucht hatten. Fabius erhielt davon  den Namen des Grossen (Liv. a. a. O.).   Cap. 5.   Sonstiges über den Censor App. Claudius Caecus   und Schlussurteil.   Der Neuerungssinn unseres Censors hat sich auch auf  andern Gebieten bethätigt. Ich erwähne kurz, dass er sich  auch mit litterarischen Dingen, Eloquenz, Poesie, Grammatik,  Orthographie, befasst haben soll (Cic. Tusc. 4, 2. Priscian  8, 18. Dig. 1, 2, 36. Hart. Cap. 1, 3, 261. vgl. Mommsen,  Rom. Forsch. 1, 303).   Alsdann habe ich zwei Anordnungen des App. Claudius  über sakrale Dinge zu nennen. Die erste ist die Austreibung  der Pfeifergilde aus dem Tempel des Jupiter. Livius (X, 30)  erzählt diese heitere Geschichte genauer (vgl. Censorin. d. d.  n. 12. Ovid, fasti, VI, 653-92. Val. Max. II, 5, 4); man  kann aber nicht wissen, in wie weit sie historisch ist (vgl.  Mommsen, R. Forsch. 1, 303. Lange, Alterth. II, 78). Eine  zweite Änderung des App. Claudius im Götterkult ist die  Uebertragung des Herkuleskult von der gens der Potitier auf  Gemeindesklaven (Liv. IX, 29. cf. I, 7. Festus, pag. 237.  Varro, 1. 1. VI, 54. Val. Max. I, 1, 17. Macrob. Saturn.  III, 6). Historisch scheint daran die Uebernahme des Her-  kuleskult von Seiten des Staates zu sein, der ihn dann durch  Staatssklaven ausüben Hess (Preller, Mjthol. 651. Marquardt,  Staatsalterth. VI, 422. Niebuhr, III, 362. Schwegler, R. G.  I, 69.).  Mit der Potitierlegende steht in unserer Ueberlieferung  unseres Censors Beiname Caecus im Zusammenhang. Die  Götter seien durch jene Massregel erzürnt , erzählt Livius  <^IX, 29), und hätten ihn einige Jahre nach seiner Censur mit  Blindheit geschlagen. Daher habe er seinen Beinamen er-  halten. Aber diese Annahme wird schon dadurch widerlegt,  •dass App. Claudius in den Fasten noch zwei Mal, i. J. 307  und 296, als Consul erscheint (Diod. XX, 45). Es ist diese  Erzählung ohne Zweifel nur ein Versuch , das Cognomen zu  erklären, der aber durch die angegebene Thatsache als falsch  "bewiesen wird; denn was Cicero (Tusc. disp. V, 38, 112)  sagt, App. Claudius habe sich, obwohl er blind gewesen sei,  keinem Amte entzogen, ist doch nicht zu glauben. Ein eben-  so zu beurteilender Erklärungsversuch des Beinamens ist die  Nachricht Diodors, dass App. Claudius ^iji; di)yf^g diioi.v^tig  xal lor icTTO r/;s' avyy.hWov ifih'.vov ev'Ucßr.^rt)^ tc oo^- tTTOirOrj  TV(fi/Mg elvai y.u) xar^ oiy.iar iiietrer. In Diodors eignen Fasten  erscheint App. Claudius i. J. 307 bereits wieder als Consul  (Nitzsch, Rom. Annal. 233. Mommsen, Forsch. II, 362).   Die natürlichste Erklärung des Beinamens ist die , dass  man annimmt, App. Claudius sei im Alter erblindet; einige  Autoren melden dies (Liv. ep. XIII. Cic. de senect. 6, 16.  Plut. Pyrrh. 18. Appian, Samn. X, 2. Dionys. 16, 6); und  viele neuere Forscher folgen ihnen (vgl. dagegen Mommsen,  R. Forsch. I, 302). Sicher nachweisen lässt es sich nicht,  denn in den ältesten Annal en ist es nicht überliefert. Das  geht daraus hervor, dass der alte Gewährsmann Diodors eine  so falsche und merkwürdige Erklärung des Beinamens geben  konnte.   Die Aemter, welche App. Claudius ausser der Censur  bekleidet hat, führt sein Elogium (C. J. L. I, S. 287 N.  XXVIII) auf, welches auch einige Thaten berichtet. Es  lautet: Appius Claudius C. F. Caecus Censor. cos. bis dict.  interrex III. Pr. II. aed. cur. IL Q. Tr. mil. III complura  oppida de Samnitibus cepit, Sabinorum et Tuscorum exerci-  tum fudit, pacem iieri cum Pyrrho prohibuit, in censura viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit, aedem Bellonae  facit.   Ich komme nun zu einer wichtigeren Frage, zur Erörte-  rung des Zusammenhangs der Censur des App. Claudius mit  der Ädihtät des Cn. Flavius im J. 304 (über die Schwierig,  keiten des chronologischen Ansatzes der Adilität vgl. Liv.  IX. 46. Plin. n. h. XXXIII, 1. 17—20. Mommsen, Chron.  193, 388. Matzat, Chron. I, "266. Seeck, Kalendertafeln 20,  22 f. Soltau, Prolegomena zu einer röm. Chron. 4 ff.).   Cn. Flavius war der Sohn eines Freigelassenen (Diod:  TiuT{id^ (oy ()8dov'/.evy,(hü^). Als solcher ist er zuerst zu einem  curulischen Amte gelangt. Bald scheint dies öfter vorge-  kommen zu sein ; in einem Briefe Philipps V. von Makedonien  an die Larisäer (Hermes 17, 469) heisst es, dass die Römer  im Unterschiede von den Griechen die freigelassenen Sklaven  zum Bürgerrecht und zu den Amtern zulassen. Cn. Flavius  verdankte seine Wahl der Tribusänderung des App. Clau-  dius. Die curulischen Adilen wurden in den Tributcomitien  gcAvählt, was bei dieser Gelegenheit zuerst erwähnt wird (Pisa  b. Gellius VII, 9. Livius IX, 40, 1 — 2, der aus Piso wört-  lich geschöpft hat). Wir haben erörtert, dass durch die appia-  nische Tribusänderung die niederen Bevölkerungsklassen das  Übergewicht in den Tributcomitien erhalten haben, sodass sie  einen solchen Erfolg, wie die Wahl eines Libertinensohnes^  zum curulischen Ädilen, erzielen konnten. Diodor und Livius  erwähnen klar genug den Zusammenhang der Tribusänderung  des App. Claudius mit der Wahl des Cn. Flavius zum  Ädilen (Diod.: o ()i- ()/;/i()s" f^;^ \i7i7iUi) oi\u(fi'/.OTtfiouf.i€vOi;  xui Ttjv diayev(^)i' 7r{iüir/vr/i]r ßeßati'lGai ßou/.uuerOi^ cr/OQm'ojnor  eilfjo etc. Liv: ceterum Flavium dixerat aedilem forensis  factio Appii Claudii censura vires nacta). App. Claudius und  Cn. Flavius haben überhaupt wahrscheinlich in nähern Be-  ziehungen zu einander gestanden. Eine Nachricht lässt den  Flavius vor seiner Aedilität Schreiber des App. Claudius sein  (Plin. a. -a. O.j. Cn. Flavius führte sein Amt ganz im Sinne  seines Meisters, des App. Claudius. Das beweisen seine  Thaten, auf die ich aber nicht einzugehen habe. Die Forscher  shid sich noch nicht einig darüber (vgl. Liv. IX, 46, 5.  Cic. pro Murena 11, 25. Plin. n. h. XXXIII. , 1, 17—20.  Mommsen, Röm. Forsch. I, 304. Seeck, Kalendertafeln 32 ff.).   Ohne Zweifel ist, dass die Thaten des Cn. Flavius den-  selben demokratischen Neuerungssinn zeigen als diejenigen des  App. Claudius.   Über App. Claudius hat schon der gute Gewährsmann  Diodors dieses Urteil, tioIICc toIv TtaT^ycliov voiiliicor ly.ivr^ae.  sagt Diodor von unserm Censor. Dem gegenüber haben  einige Notizen jüngerer Autoren, woraus folgen würde, dass App.  Claudius speziell hocharistokratische Tendenzen in seiner Po-  litik verfolgt habe, kein Gewicht. Die Nachrichten des Livius,  App. Claudius habe i. J. 299 die lex Ogulnia, wonach vier  Pontifices und fünf Augurn aus der Plebs hinzugewählt  werden sollten, mit allen Mitteln zu vereiteln gesucht, er habe  als Kandidat für das Konsulat (nach Cic. Brut. XIV, 55 als  interrex, was er i. J. 399 (Liv. X, 11) war,) die zweite  Konsulstelle den Patriziern zurückzugewinnen versucht, diese  Nachrichten sind, was Mommsen (R. Forsch, I, 311 f.) dar-  gethan hat, erfunden: wer wird es glauben, dass ein Mann  wie App. Claudius, nachdem er als Censor die niederen Volks-  schichten mit seinen Massnahmen begünstigt hat, nun einige  Jahre später extrem aristokratische Tendenzen verfolgen konnte?  Offenbar sind diese Nachrichten erfunden nach dem Schema,  nach welchem alle Claudier als Volksfeinde in der jüngeren  Annalistik dargestellt sind. /   Unserer Ansicht nach war unser Censor ein demo-  kratischer Neuerer, ein Urteil, welches schon, wie gesagt, der  Gewährsmann Diodors gehabt hat. Er begünstigte und  förderte die niedrigen und niedrigsten Volksschichten, be-  sonders die städtische Bevölkerung^klasse , den Handelsstand  und das in ihm am meisten vertretene libertinische Element.  Dazu passt vortreff'lich , dass wir ihn als Beförderer des  griechischen Einflusses kennen lernen; und schliesslich lässt  sich in diesem Zusammenhange recht klar sein letztes politisclies Auftreten, seine bekannte Senatsrede gegen den Gre-  sandten des Pyrrlms, verstehen. Nur in dieser Auffassung  lässt sich ein harmonisclies Bild von dem politischen Charakter  unseres Censors, von seinen politischen Absichten und Zielen  herstellen. 4 Lebenslauf.     I Icli, Theodor Ludwig Carl Sieke, Solin des Volksschul-  llehrers Friedrich Sieke zu Marburg, bin geboren am 6. Oc-  itober 1864 zu Mengringhausen im Fürstentum Waldeck.  ;Ich bekenne mich zur evangelischen Confession. Die erste  Ausbildung erhielt ich von meinem Vater, trat Ostern 1878  in die Quarta des Marburger Gymnasiums, welches icli Ostern  mit dem Zeugniss der Reife verliess. Ich bezog als-  dann die Universität Marburg, um mich dem Studium der  '^eschichte, germanischen und klassischen Piiilologie zu  idmen. Ich hörte Vorlesungen bei den Herren Professoren  Bergmann, Birt, Caesar (f), Cohen, Fischer, Justi, Koch,  -^enz, Lucae (f), Niese, Varrentrapp, Schmidt, beteiligte mich  nehrere Semester an den Uebungen der historischen Semi-  liare, des althistorischen unter Leitung des Herrn Professor  Niese, des neuhistorischen unter Leitung der Herren Professoren  >nz und Varrentrapp, war Mitglied des germanistischen Semi-  ^lars des Herrn Professor Lucae (f) und wohnte den pliilo-  Bophischen Uebungen des Herrn Professor Bergmann bei.  fm Sommer-Semester 1885 besuchte ich die Universität Berlin  md hörte dort Vorlesungen bei den Herren Professoren  Delbrück, Kiepert, Koser, Roediger, Scherer (f), v. Treitschke  md Zeller.   I Allen diesen Herren spreche ich an dieser Stelle meinen  iefsten Dank aus, besonders den Herren Professoren Niese  and Varrentrapp.     I>ruck von Gebrüder Gotthelft in Casael. Gustavo Bontadini. Keywords: la neoclassica, neoclassico come concetto contradittorio o ironico -- storia della filosofia, storia della filosofia italiana, de-ellenizzazione”, appio primo filosofo romano in lingua Latina -- “conversazioni metafisiche”, “conversazione metafisica”, “gnoseologia”, “gnoseologismo”, “problematicismo”, “metafisica dell’esperienza”, ens, essential, l’essere, essere, verbo, nome, sostantivo, copula, parmenideismo, severino, la porta di Velia, Grice Vx, x izz x. Grice, RAA, Reductio ad absurdum.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bontadini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bontempelli – il sintomo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pisa). Filosofo italiano. Grice: “Bontempelli knows that the Romans never liked the Greek ‘symptom,’ but ‘coincidence’ seems weak: x means y if y coincides with x, or if x is a symptom of y.’ (‘those spots mean measles’ – and ‘dog’ means that there is a dog.”” -- “I suppose my favourite Bontempelli is his section on Roman philosophy in his history of philosophy series!” -- There is the other Massimo Bontempelli, nato a Como. Como-born Massimo Bontempelli had a son, called Massimo Bontempelli. Massimo Bontempello ha un cugino, nipotte di Massimo Bontempelli: Alessandro Bontempelli. Nato a Pisa, dopo il conseguimento della laurea in filosofia, Bontempelli dedica all'insegnamento negli istituti superiori, alla realizzazione di manuali scolastici di storia e filosofia e alla stesura di saggi di argomento filosofico. Storico di impostazione marxiana, e originale pensatore filosofico di orientamento neoidealista, realizza i suoi più importanti contributi imperniando lo studio dei processi storici attorno alla categoria di "modo di produzione". Tematizza con attenzione le strutture sociali entro i modi di produzione neo-litico, nomade-pastorale, prativo-campestre, antico-orientale, asiatico, africano, meso-americano, schiavistico, colonico, feudale e capitalistico, elaborando su queste basi una ri-costruzione della genesi sociale dei fenomeni filosofici. Rilevante è la sua interpretazione della figura storica di Gesù, ricostruita entro una totalità sociale a partire dalla analisi dell'economia pianificata del modo di produzione antico-orientale palestinese, sulla scorta di una prospettiva metodologica storico-scientifica nei confronti dei vangeli. Come storico della filosofia ha studiato in particolare il pensiero platonico, neo-platonico e la dialettica hegeliana. Come pensatore filosofico originale viene collocato da Costanzo Preve all'interno della corrente del neo-idealismo italiano, essendo il suo pensiero fortemente influenzato dalla Scienza della Logica hegeliana. Muove dalle profonde critiche al nichilismo contemporaneo e al relativismo anti-metafisico per approdare ad un tentativo di rifondazione onto-assiologica degli orizzonti di senso dell'esistenza umana sulla scorta di una indagine della natura trascendentale dell'uomo, alla luce di un superamento della polarità dualistica empiria/trascendenza. Si dedica alla critica serrata della sinistra politica e allo sviluppo del tema della decrescita.  Altre opere: “Il senso della storia antica. Itinerari e ipotesi di studio” (Milano, Trevisini); “Antiche strutture sociali mediterranee” (Milano, Trevisini), “Storia e coscienza storica” (Milano, Trevisini); Per il triennio; “Civiltà e strutture sociali dall'antichità al medioevo” (Milano, Trevisini); “Antiche civiltà e loro documenti” (Milano, Trevisini); “Civiltà storiche e loro documenti” (Milano, Trevisini, Per il triennio); “Filosofia:  Il senso dell'essere nelle culture occidental” (Milano, Trevisini); Filosofia, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS,. [riedito nel  in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum] “Eraclito e noi”” (Milazzo, Spes); “Percorsi di verità della dialettica antica” (Milazzo, Spes); “Nichilismo, verità, storia” (Pistoia, CRT); “Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero” (Pistoia, CRT); “La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT); “La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT); “Tempo e memoria, Pistoia, CRT); “Il concetto di realtà e il nichilismo contemporaneo, Pistoia, CRT); “L'agonia della scuola italiana” (Pistoia, CRT); “Un sentiero attraverso la foresta hegeliana, Pistoia, CRT); “Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, Diciamoci la verità, "Koiné" n.6, Pistoia, CRT, Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia, L'arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, -- very Griceian: Grice: “D. K. Lewis drew his example of the arbitrariness of a convention from Massimo Bomtempelli.” Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull'ambiente di Bin Laden e su quello di Bush” (Pistoia, CRT, -- cf. Grice: “I took the example, ‘those spots mean measle’ from Bontempelli, “Il sintomo e la malattia” – “Il sintomo” -- [ristampato nel  dalla casa editrice Petite Plaisance] Diciamoci la verità, CRT, Pistoia); “Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945” (Pistoia, CRT, Il mistero della sinistra’ (Genova, Graphos,  La Resistenza Italiana. Dall'8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, La sinistra rivelata” (Bolsena, Massari, Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC  [ristampato nel ] Civiltà occidentale” Genova, Il Canneto,. Marx e la decrescita, Trieste, Abiblio,. Platone e i preplatonici. Morale in Grecia, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS); “Un pensiero presente:  scritti su Indipendenza, Roma, Indipendenza Editore Francesco Labonia,. Capitalismo globalizzato e scuola, Roma, Indipendenza Editore Francesco Labonia, La sfida politica della decrescita, Roma, Aracne,. Gesù di Nazareth, Pistoia, Petite Plaisance; “Il respiro del Novecento, "Koiné" n.6, Pistoia, CRT); “Metamorfosi della scuola italiana, "Koiné" n.4, Pistoia, CRT, Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, "Koiné" n.5, Pistoia, CRT, Scienza, cultura, filosofia, "Koiné" n.8, Pistoia, CRT, 2002. I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, Roberto Massari, Bolsena, Massari. Addio al professor Massimo Bontempelli, Il Tirreno.  Bontempelli individua, in diverse epoche, un feudalesimo ario, cinese, indiano, iranico del regno dei Parti, del Vicino Oriente islamico, del Ghana e infine il feudalesimo occidentale.   Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero (uaar)  Costanzo Preve, Ideologia italiana. Saggio sulla storia delle idee marxiste in Italia, Milano, Vangelista, 1993 (p. 201 sgg.)  Marxismo modo di produzione. Una vita semplice, una mente scintillante,Le idee forti di Massimo Bontempelli. Il bene come processo possibile concreto: natura umana e ontologia sociale.  u a  be US  (2    Se Um  . %. Pr pn d Der  sd g,’ fr    Ben =  Ri  »    e Wu  sIGM FREUD    Hemmung, Symptom  und Angst    re et .  Van * A    1.1    ee    ne ia he       Hemmung, Symptom  und Angst    von    Siem. Freud  Internationaler Psychoanalytischer Verlag  Leipzig u RE ai Zürich    Alle Rechte vorbehalten,  insbesondere die der Übersetzung in alle Sprachen    Copyright 1926  bv „Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Ges. m. b. H.*, Wien    Druck: Elbemühl Papierfabriken und Graphische Industrie A.G.  Wien, IL, Rüdengasse ıı  I  Unser Sprachgebrauch läßt uns in der Beschreibung  pathologischer Phänomene Symptome und Hemmungen  unterscheiden, aber er legt diesem Unterschied nicht  viel Wert bei. Kämen uns nicht Krankheitsfälle vor,  von denen wir aussagen müssen, daß sie nur Hem-  mungen und keine Symptome zeigen, und wollten wir  nicht wissen, was dafür die Bedingung ist, so brächten  wir kaum das Interesse auf, die Begriffe Hemmung  und Symptom gegeneinander abzugrenzen.   Die beiden sind nicht auf dem nämlichen Boden  erwachsen. Hemmung hat eine besondere Beziehung  zur Funktion und bedeutet nicht notwendig etwas  Pathologisches, man kann auch eine normale Ein-  schränkung einer Funktion eine Hemmung derselben  nennen. Symptom hingegen heißt soviel wie Anzeichen  eines krankhaften Vorganges. Es kann also auch eine  Hemmung ein Symptom sein. Der Sprachgebrauch  verfährt dann so, daß er von Hemmung spricht, wo  eine einfache Herabsetzung der Funktion vorliegt, von    6 Siem. Freud Symptom, wo es sich um eine ungewöhnliche Ab-  änderung derselben oder um eine neue Leistung handelt.  In vielen Fällen scheint es der Willkür überlassen,  ob man die positive oder die negative Seite des  pathologischen Vorgangs betonen, seinen Erfolg als  Symptom oder als Hemmung bezeichnen will. Das  alles ist wirklich nicht interessant und die Fragestellung,  von der wir ausgingen, erweist sich als wenig fruchtbar.Da die Hemmung begrifflich so innig an die  Funktion geknüpft ist, kann:man auf die Idee kommen,  die verschiedenen Ichfunktionen daraufhin zu unter-  suchen, in welchen Formen sich deren Störung bei  den einzelnen neurotischen Affektionen äußert. Wir  wählen für diese vergleichende Studie: die Sexual-  funktion, das Essen, die Lokomotion und die Berufs-  arbeit. |   a) Die Sexualfunktion unterliegt sehr mannigfaltigen  Störungen, von denen die meisten den Charakter  einfacher Hemmungen zeigen. Diese werden als psy-  chische Impotenz zusammengefaßt. Das Zustande-  kommen der normalen Sexualleistung setzt einen sehr  komplizierten Ablauf voraus, die Störung kann an  jeder Stelle desselben eingreifen. Die Hauptstationen  der Hemmung sind beim Manne: die Abwendung  der Libido zur Einleitung des Vorgangs (psychische  Unlust), das Ausbleiben der physischen Vorbereitung  (Erektionslosigkeit), die Abkürzung des Aktes (Eja-  culatio praecox, die ebensowohl als positives Symptom    Hemmung, Symptom und Angst beschrieben werden kann), die Aufhaltung desselben  vor dem natürlichen Ausgang (Ejakulationsmangel),  das Nichtzustandekommen des psychischen Effekts  (der Lustempfindung des Orgasmus). Andere Störungen  erfolgen durch die Verknüpfung der Funktion mit  besonderen Bedingungen, perverser oder fetischistischer  Natur.   Eine Beziehung der Hemmung zur Angst kann  uns nicht lange entgehen. Manche Hemmungen sind  offenbar Verzichte auf Funktion, weil bei deren Aus-  übung Angst entwickelt werden würde. Direkte Angst  vor der Sexualfunktion ist beim Weibe häufig; wir  ordnen sie der Hysterie zu, ebenso das Abwehr-  symptom des Ekels, das sich ursprünglich als nach-  trägliche Reaktion auf den passiv erlebten Sexualakt  einstellt, später bei der Vorstellung desselben auf-  tritt. Auch eine großse Anzahl von Zwangshandlungen  erweisen sich als Vorsichten und Versicherungen gegen  sexuelles Erleben, sind also phobischer Natur.   Man kommt da im Verständnis nicht sehr weit;  man merkt nur, daß sehr verschiedene Verfahren  verwendet werden, um die Funktion zu stören: 7) die  bloße Abwendung der Libido, die am ehesten zu  ergeben scheint, was wir eine reine Hemmung  heißen, 2) die Verschlechterung in der Ausführung  der Funktion, 3) die Erschwerung derselben durch  besondere Bedingungen und ihre Modifikation durch  Ablenkung auf andere Ziele, 2) ihre Vorbeugung    8 Siem. Freud    durch Sicherungsmaßregeln, 5) ihre Unterbrechung  durch Angstentwicklung, sowie sich ihr Ansatz nicht  mehr verhindern läßt, endlich 6) eine nachträgliche  Reaktion, die dagegen protestiert und das Geschehene  rückgängig machen will, wenn die Funktion doch  durchgeführt wurde.   6) Die häufigste Störung der Nahrungsfunktion ist  die Efunlust durch Abziehung der Libido. Auch  Steigerungen der Eßlust sind nicht selten; ein Eß-  zwang motiviert sich durch Angst vor dem Verhungern,  ist wenig untersucht. Als hysterische Abwehr des  Essens kennen wir das Symptom des Erbrechens.  Die Nahrungsverweigerung infolge von Angst gehört  psychotischen Zuständen an (Vergiftungswahn).   c) Die Lokomotion wird bei manchen neurotischen  Zuständen durch Gehunlust und Gehschwäche gehemmt,  die hysterische Behinderung bedient sich der  motorischen Lähmung des Bewegungsapparates oder  schafit eine spezialisierte Aufhebung dieser einen  Funktion desselben (Abasie). Besonders charakteristisch  sind die Erschwerungen der Lokomotion durch Ein-  schaltung bestimmter Bedingungen, bei deren Nicht-  erfüllung Angst auftritt (Phobie). Die Arbeitshemmung, die so oft als isoliertes  Symptom Gegenstand der Behandlung wird, zeigt uns  verminderte Lust oder schlechtere Ausführung oder  Reaktionserscheinungen wie Müdigkeit (Schwindel, Er-  brechen), wenn die Fortsetzung der Arbeit erzwungen wird. Die Hysterie erzwingt die Einstellung der Arbeit  durch Erzeugung von Organ- und Funktionslähmungen,  deren Bestand mit der Ausführung der Arbeit unver-  einbar ist. Die Zwangsneurose stört die Arbeit durch  fortgesetzte Ablenkung und durch den Zeitverlust bei  eingeschobenen Verweilungen und Wiederholungen.   Wir könnten diese Übersicht noch auf andere  Funktionen ausdehnen, aber wir dürfen nicht erwarten,  dabei mehr zu erreichen. Wir kämen nicht über die  Oberfläche der Erscheinungen hinaus. Entschließen wir  uns darum zu einer Auffassung, die dem Begriff der  Hemmung nicht mehr viel Rätselhaftes beläßt. Die  Hemmung ist der Ausdruck einer Funktions-  einschränkung des Ichs, die selbst sehr ver-  schiedene Ursachen haben kann. Manche der Mecha-  nismen dieses Verzichts auf Funktion und eine allge-  meine Tendenz desselben sind uns wohlbekannt.   An den spezialisierten Hemmungen ist die Tendenz  leichter zu erkennen. Wenn das Klavierspielen, Schreiben  und selbst das Gehen neurotischen Hemmungen unter-  liegen, so zeigt uns die Analyse den Grund hiefür in  einer überstarken Erotisierung der bei diesen Funk-  tionen in Anspruch genommenen Organe, der Finger  und der Füße. Wir haben ganz allgemein die Einsicht  gewonnen, dafs die Ichfunktion eines Organs geschädigt  wird, wenn seine Erogeneität, seine sexuelle Bedeutung,  zunimmt. Es benimmt sich dann, wenn man den  einigermaßen skurrilen Vergleich wagen darf, wie eine Köchin, die nicht mehr am Herd arbeiten will, weil  der Herr des Hauses Liebesbeziehungen zu ihr ange-  knüpft hat. Wenn das Schreiben, das darin besteht,  aus einem Rohr Flüssigkeit auf ein Stück weißes  Papier fließen zu lassen, die symbolische Bedeutung  des Koitus angenommen hat, oder wenn das Gehen  zum symbolischen Ersatz des Stampfens auf dem Leib  der Mutter Erde geworden ist, dann wird beides,  Schreiben und Gehen, unterlassen, weil es so ist, als  ob man die verbotene sexuelle Handlung ausführen  würde. Das Ich verzichtet auf diese ihm zustehenden  Funktionen, um nicht eine neuerliche Verdrängung  vornehmen zu müssen, um einem Konflikt mit  dem Es auszuweichen.   Andere Hemmungen erfolgen offenbar im Dienste  der Selbstbestrafung, wie nicht selten die der be-  ruflichen Tätigkeiten. Das Ich darf diese Dinge  nicht tun, weil sie ihm Nutzen und Erfolg bringen  würden, was das gestrenge Über-Ich versagt hat. Dann  verzichtet das Ich auch auf diese Leistungen, um  nieht in Konflikt mit dem Über-Ich zu  geraten.   Die allgemeineren Hemmungen des Ichs folgen  einem einfachen anderen Mechanismus. Wenn das Ich  durch eine psychische Aufgabe von besonderer Schwere  in Anspruch genommen ist, wie z. B. durch eine  Irauer, eine großartige Affektunterdrückung, durch  die Nötigung, beständig aufsteigende sexuelle Phantasıen niederzuhalten, dann verarmt es so sehr an der  ihm verfügbaren Energie, dafs es seinen Aufwand an  vielen Stellen zugleich einschränken muß, wie ein  Spekulant, der seine Gelder in seinen Unternehmungen  immobilisiert hat. Ein lehrreiches Beispiel einer solchen  intensiven Allgemeinhemmung von kurzer Dauer konnte  ich an einem Zwangskranken beobachten, der in eine  lähmende Müdigkeit won ein- bis mehrtägiger Dauer  bei Anlässen verfiel, die offenbar einen Wutausbruch  hätten herbeiführen sollen. Von hier aus mufß auch  ein Weg zum Verständnis der Allgemeinhemmung zu  finden sein, durch die sich die Depressionszustände  und der schwerste derselben, die Melancholie, kenn-  zeichnen.   Man kann also abschließend über die Hemmungen  sagen, sie seien Einschränkungen der Ichfunktionen,  entweder aus Vorsicht oder infolge von Energie-  verarmung. Es ist nun leicht zu erkennen, worin  sich die Hemmung vom Symptom unterscheidet. Da  Symptom kann nicht mehr als ein Vorgang in oder  am.Ich beschrieben werden. Die Grundzüge der Symptombildung sind längst  studiert und in hoffentlich unanfechtbarer Weise aus-  gesprochen worden. Das Symptom sei Anzeichen und  Ersatz einer unterbliebenen Triebbefriedigung, ein Erfolg  des Verdrängungsvorganges. Die Verdrängung geht  vom Ich aus, das, eventuell im Auftrage des Über-  Ichs, eine im Es angeregte Triebbesetzung nicht mit-  machen will. Das Ich erreicht durch die Verdrängung,  daß die Vorstellung, welche der Träger der unlieb-  samen Regung war, vom Bewußtwerden abgehalten  wird. Die Analyse weist oftmals nach, daß sie als un-  bewußste Formation erhalten geblieben ist. So weit  wäre es klar, aber bald beginnen die unerledigten  Schwierigkeiten.   Unsere bisherigen Beschreibungen des Vorganges  bei der Verdrängung haben den Erfolg der Abhaltung  vom Bewußtsein nachdrücklich betont, aber in anderen  Punkten Zweifel offen gelassen. Es entsteht die Frage,  was ist das Schicksal der im Es aktivierten Triebregung, die auf Befriedigung abzielt? Die Antwort  war eine indirekte, sie lautete, durch den Vorgang der  Verdrängung werde die zu erwartende Befriedigungs-  lust in Unlust verwandelt, und dann stand man vor  dem Problem, wie Unlust das Ergebnis einer Trieb-  befriedigung sein könne. Wir hoffen den Sachverhalt  zu klären, wenn wir die bestimmte Aussage machen,  der im Es beabsichtigte Erregungsablauf komme infolge  der Verdrängung überhaupt nicht zustande, es gelingt  dem Ich, ihn zu inhibieren oder abzulenken. Dann  entfällt das Rätsel der „Affektverwandlung‘‘ bei der  Verdrängung. Wir haben aber damit dem Ich das  Zugeständnis gemacht, daß es einen so weitgehenden  Einfluß auf die Vorgänge im Es äußern kann, und  sollen verstehen lernen, auf welchem Wege ihm diese  überraschende Machtentfaltung möglich wird.   Ich glaube, dieser Einfluß fällt dem Ich zu infolge  seiner innigen Beziehungen zum Wahrnehmungssystem,  die ja sein Wesen ausmachen und der Grund seiner  Differenzierung vom Es geworden sind. Die Funktion  dieses Systems, das wir W-Bw genannt haben, ist mit  dem Phänomen des Bewußstseins verbunden; es empfängt  Erregungen nicht nur von außen, sondern auch von  innen her und mittels der Lust-Unlustempfindungen,  die es von daher erreichen, versucht es, alle Abläufe  des seelischen Geschehens im Sinne des Lustprinzips  zu lenken. Wir stellen uns das Ich so gerne als ohn-  mächtig gegen das Es vor, aber wenn es sich gegen einen Triebvorgang im Es sträubt, so braucht es blof3  ein Unlustsignal zu geben, um seine Absicht durch  die Hilfe der beinahe allmächtigen Instanz des Lust-  prinzips zu erreichen. Wenn wir diese Situation für  einen Augenblick isoliert betrachten, können wir sie  durch ein Beispiel aus einer anderen Sphäre illustrieren.  In einem Staate wehre sich eine gewisse Clique gegen  eine Mafsregel, deren Beschluß den Neigungen der  Masse entsprechen würde. Diese Minderzahl bemächtigt  sich dann der Presse, bearbeitet durch sie die souve-  räne „Öffentliche Meinung“ und setzt es so durch,  daf$ der geplante Beschluf3 unterbleibt.   An die eine Beantwortung knüpfen weitere Frage-  stellungen an. Woher rührt die Energie, die zur Erzeugung des Unlustsignals verwendet wird? Hier weist  uns die Idee den Weg, daß die Abwehr eines un-  erwünschten Vorganges im Inneren nach dem Muster  der Abwehr gegen einen äußeren Reiz geschehen  dürfte, daß das Ich den gleichen Weg der Verteidi-  gung gegen die innere wie gegen die äußere Gefahr  einschlägt. Bei äußerer Gefahr unternimmt das  organische Wesen einen Fluchtversuch, es zieht zu-  nächst die Besetzung von der Wahrnehmung des  Gefährlichen ab; später erkennt es als das wirk-  samere Mittel, solche Muskelaktionen vorzunehmen,  dafs die Wahrnehmung der Gefahr, auch wenn man  sie nicht verweigert, unmöglich wird, also sich dem  Wirkungsbereich der Gefahr zu entziehen. Einem solchen Fluchtversuch gleichwertig ist auch die Ver-  drängung. Das Ich zieht die (vorbewußte) Besetzung  von der zu verdrängenden Triebrepräsentanz ab und  verwendet sie für die Unlust-(Angst-)Entbindung. Das  Problem, wie bei der Verdrängung die Angst entsteht,  mag kein einfaches sein; immerhin hat man das Recht,  an der Idee festzuhalten, daß das Ich die eigentliche  Angststätte ist, und die frühere Auffassung zurück-  zuweisen, die Besetzungsenergie der verdrängten Regung  werde automatisch in Angst verwandelt. Wenn ich  mich früher einmal so geäußert habe, so gab ich  eine phänomenologische Beschreibung, nicht eine meta-  psychologische Darstellung.   Aus dem Gesagten leitet sich die neue Frage ab,  wie es ökonomisch möglich ist, daß ein bloßer Abziehungs- und Abfuhrvorgang wie beim Rückzug der  vorbewufßsten Ichbesetzung Unlust oder Angst erzeugen  könne, die nach unseren Voraussetzungen nur Folge  gesteigerter Besetzung sein kann. Ich antworte, diese  Verursachung soll nicht ökonomisch erklärt werden,  die Angst wird bei der Verdrängung nicht neu erzeugt,  sondern als Affektzustand nach einem vorhandenen  Erinnerungsbild reproduziert. Mit der weiteren Frage  nach der Herkunft dieser Angst — wie der Affekte  überhaupt — verlassen wir aber den unbestritten  psychologischen Boden und betreten das Grenzgebiet  der Physiologie. Die Affektzustände sind dem Seelen-  leben als Niederschläge uralter traumatischer Erlebnisse einverleibt und werden in ähnlichen Situationen  wie Erinnerungssymbole wachgerufen. Ich meine, ich  hatte nicht Unrecht, sie den spät und individuell erwor-  benen hysterischen Anfällen gleichzusetzen und als  deren Normalvorbilder zu betrachten. Beim Menschen  und ihm verwandten Geschöpfen scheint der Geburts-  akt als das erste individuelle Angsterlebnis dem Aus-  druck des Angstaffekts charakteristische Züge geliehen  zu haben. Wir sollen aber diesen Zusammenhang nicht  überschätzen und in seiner Anerkennung nicht über-  sehen, daß ein Affektsymbol für die Situation der  Gefahr eine biologische Notwendigkeit ist und auf  jeden Fall geschaffen worden wäre, Ich halte es auch  für unberechtigt anzunehmen, daß bei jedem Angst-  ausbruch etwas im Seelenleben vor sich geht, was  einer Reproduktion der Geburtssituation gleichkommt.  Es ist nicht einmal sicher, ob die hysterischen Anfälle,  die ursprünglich solche traumatische Reproduktionen  sind, diesen Charakter dauernd bewahren.   Ich habe an anderer Stelle ausgeführt, daß die  meisten Verdrängungen, mit denen wir bei der  therapeutischen Arbeit zu tun bekommen, Fälle von  Nachdrängen sind. Sie setzen früher erfolgte  Urverdrängungen voraus, die auf die neuere  Situation ihren anziehenden Einfluß ausüben. Von  diesen Hintergründen und Vorstufen der Verdrängung  ist noch viel zu wenig bekannt. Man kommt leicht  in Gefahr, die Rolle des Über-Ichs bei der Verdrängung zu überschätzen. Man kann es derzeit nicht  beurteilen, ob etwa das Auftreten des Über-Ichs die  Abgrenzung zwischen Urverdrängung und Nachdrängen  schafft. Die ersten —- sehr intensiven — Angstaus-  brüche erfolgen jedenfalls vor der Differenzierung des  Über-Ichs. Es ist durchaus plausibel, daß quantitative  Momente, wie die übergroße Stärke der Erregung  und der Durchbruch des Reizschutzes, die nächsten  Anlässe der Urverdrängungen sind.   Die Erwähnung des Reizschutzes mahnt uns wie  ein Stichwort, daß die Verdrängungen in zwei unter-  schiedenen Situationen auftreten, nämlich wenn eine  unliebsame Triebregung durch eine äußere Wahr-  nehmung wachgerufen wird, und wenn sie ohne solche  Provokation im Innern auftaucht. Wir werden später  auf diese Verschiedenheit zurückkommen. Reizschutz  gibt es aber nur gegen äußere Reize, nicht gegen  innere Triebansprüche.   Solange wir den Fluchtversuch des Ichs studieren,  bleiben wir der Symptombildung ferne. Das Symptom  entsteht aus der durch die Verdrängung beeinträch-  tisten Triebregung. Wenn das Ich durch die Inan-  spruchnahme des Unlustsignals seine Absicht erreicht,  die Triebregung völlig zu unterdrücken, erfahren wir  nichts darüber, wie das geschieht. Wir lernen nur  aus den Fällen, die als mehr oder minder mißglückte  Verdrängungen zu bezeichnen sind.   Dann stellt essich im Allgemeinen so dar, dafs die Triebregung zwar trotz der Verdrängung einen Ersatz  gefunden hat, aber einen stark verkümmerten, ver-  schobenen, gehemmten. Er ist auch als Befriedigung  nicht mehr kenntlich. Wenn er vollzogen wird, kommt  keine Lustempfindung zustande, dafür hat dieser  Vollzug den Charakter des Zwanges angenommen.  Aber bei dieser Erniedrigung des Befriedigungs-  ablaufes zum Symptom zeigt die Verdrängung ihre  Macht noch in einem anderen Punkte. Der Ersatz-  vorgang wird wo möglich von der Abfuhr durch die  Motilität ferngehalten; auch wo dies nicht gelingt,  mufS er sich in der Veränderung des eigenen Körpers  erschöpfen und darf nicht auf die Außenwelt über-  greifen; es wird ihm verwehrt, sich in Handlung um-  zusetzen. Wir verstehen, bei der Verdrängung arbeitet  das Ich unter dem Einfluß der äußeren Realität und  schließt darum den Erfolg des Ersatzvorganges von  dieser Realität ab.   Das Ich beherrscht den Zugang zum Bewußtsein  wie den Übergang zur Handlung gegen die Außen-  welt; in der Verdrängung betätigt es seine Macht  nach beiden Richtungen. Die Triebrepräsentanz  bekommt die eine, die Triebregung selbst die andere  Seite seiner Kraftäußerung zu spüren. Da ist es denn  am Platze, sich zu fragen, wie diese Anerkennung der  Mächtigkeit des Ichs mit der Beschreibung zusammen-  kommt, die wir in der Studie „Das Ich und das Es“  von der Stellung desselben Ichs entworfen haben.  Wir haben dort die Abhängigkeit des Ichs vom Es  wie vom Über-Ich geschildert, seine Ohnmacht und  Angstbereitschaft gegen beide, seine mühsam aufrecht  erhaltene Überheblichkeit entlarvt. Dieses Urteil hat  seither einen starken Widerhall in der psychoanaly-  tischen Literatur gefunden. Zahlreiche Stimmen  betonen eindringlich die Schwäche des Ichs gegen  das Es, des Rationellen gegen das Dämonische in uns  und schicken sich an, diesen Satz zu einem Grund-  pfeiler einer psychoanalytischen „Weltanschauung“ zu  machen. Sollte nicht die Einsicht in die Wirkungs-  weise der Verdrängung gerade den Analytiker von so  extremer Parteinahme zurückhalten?   Ich bin überhaupt nicht für die Fabrikation von  Weltanschauungen. Die überlasse man den Philosophen,  die eingestandenermafßsen die Lebensreise ohne einen  solchen Baedeker, der über alles Auskunft gibt,  nicht ausführbar finden. Nehmen wir demütig die  Verachtung auf uns, mit der die Philosophen vom  Standpunkt ihrer höheren Bedürftigkeit auf uns herab-  schauen. Da auch wir unseren narzißtischen Stolz  nicht verleugnen können, wollen wir unseren Trost in  der Erwägung suchen, daß alle diese ‚„Lebensführer“  rasch veralten, daß es gerade unsere kurzsichtig  beschränkte Kleinarbeit ist, welche deren Neuauflagen  notwendig macht, und daß selbst die modernsten  dieser Baedeker Versuche sind, den alten, so be-  quemen und so vollständigen Katechismus zu ersetzen.  Wir wissen genau, wie wenig Licht die Wissenschaft  bisher über die Rätsel dieser Welt verbreiten konnte;  alles Poltern der Philosophen kann daran nichts  ändern, nur geduldige Fortsetzung der Arbeit, die  alles der einen Forderung nach Gewißheit unter-  ordnet, kann langsam Wandel schaffen. Wenn der  Wanderer in der Dunkelheit singt, verleugnet er  seine Ängstlichkeit, aber er sieht darum um nichts  heller.    IM    Um zum Problem des Ichs zurückzukehren: Der  Anschein des Widerspruchs kommt daher, daf wir  Abstraktionen zu starr nehmen und aus einem kom-  plizierten Sachverhalt bald die eine, bald die andere  Seite allein herausgreifen. Die Scheidung des Ichs  vom Es scheint gerechtfertigt, sie wird uns durch  bestimmte Verhältnisse aufgedrängt. Aber anderseits  ist das Ich mit dem Es identisch, nur ein besonders  differenzierter Anteil desselben. Stellen wir dieses  Stück in Gedanken dem Ganzen gegenüber, oder hat  sich ein wirklicher Zwiespalt zwischen den beiden  ergeben, so wird uns die Schwäche dieses Ichs offen-  bar. Bleibt das Ich aber mit dem Es verbunden, von  ihm nicht unterscheidbar, so zeigt sich seine Stärke.  Ähnlich ist das Verhältnis des Ichs zum Über-Ich; für  viele Situationen fließen uns die beiden zusammen,  meistens können wir sie nur unterscheiden, wenn sich  eine Spannung, ein Konflikt zwischen ihnen hergestellt  hat. Für den Fall der Verdrängung wird die Tatsache entscheidend, daß das Ich eine Organisation ist,  das Es aber keine; das Ich ist eben der organi-  sierte Anteil des Es. Es wäre ganz ungerechtfertigt,  wenn man sich vorstellte, Ich und Es seien wie zwei  verschiedene Heerlager ; durch die Verdrängung suche  das Ich ein Stück des Es zu unterdrücken, nun  komme das übrige Es dem Angegriffenen zu Hilfe  und messe seine Stärke mit der des Ichs. Das mag  oft zustande kommen, aber es ist gewifs nicht die  Eingangssituation der Verdrängung; in der Regel  bleibt die zu verdrängende Triebregung isoliert. Hat  der Akt der Verdrängung uns die Stärke des Ichs  gezeigt, so legt er doch in einem auch Zeugnis ab für  dessen Ohnmacht und für die Unbeeinflußbarkeit der  einzelnen Triebregung des Es. Denn der Vorgang,  der durch die Verdrängung zum Symptom geworden  ist, behauptet nun seine Existenz außerhalb der  Ichorganisation und unabhängig von ihr. Und nicht er  allein, auch alle seine Abkömmlinge genießen das-  selbe Vorrecht, man möchte sagen: der Extraterritoria-  lität, und wo sie mit Anteilen der Ichorganisation  assoziativ zusammentreffen, wird es fraglich, ob sie  diese nicht zu sich herüberziehen und sich mit diesem  Gewinn auf Kosten des Ichs ausbreiten werden. Ein  uns längst vertrauter Vergleich betrachtet das Symptom  als einen Fremdkörper, der unaufhörlich Reiz- und  Reaktionserscheinungen in dem Gewebe unterhält,  in das er sich eingebettet hat. Es kommt zwar vor, daß der Abwehrkampf gegen die unliebsame  Triebregung durch die Symptombildung abgeschlossen  wird; soweit wir sehen, ist dies am ehesten bei der  hysterischen Konversion möglich, aber in der Regel  ist der Verlauf ein anderer; nach dem ersten Akt  der Verdrängung folgt ein langwieriges oder nie zu  beendendes Nachspiel, der Kampf gegen die Trieb-  regung findet seine Fortsetzung in dem Kampf gegen  das Symptom.   Dieser sekundäre Abwehrkampf zeigt uns zwei  Gesichter — mit widersprechendem Ausdruck. Einer-  seits wird das Ich durch seine Natur genötigt, etwas  zu unternehmen, was wir als Herstellungs- oder Ver-  söhnungsversuch beurteilen müssen. Das Ich ist eine  Organisation, es beruht auf dem freien Verkehr und  der Möglichkeit gegenseitiger Beeinflussung unter all  seinen Bestandteilen, seine desexualisierte Energie bekundet ihre Herkunft noch in dem Streben nach Bindung  und Vereinheitlichung und dieser Zwang zur Synthese  nimmt immer mehr zu, je kräftiger sich das Ich entwickelt. So wird es verständlich, daß das Ich auch  versucht, die Fremdheit und Isolierung des Symptoms  aufzuheben, indem es alle Möglichkeiten ausnützt, es  irgendwie an sich zu binden und durch solche Bande  seiner Organisation einzuverleiben. Wir wissen, daß  ein solches Bestreben bereits den Akt der Symptom-  bildung beeinflußt. Ein klassisches Beispiel dafür sind  jene hysterischen Symptome, die uns als Kompromifszwischen Befriedigungs- und Strafbedürfnis durchsichtig  geworden sind. Als Erfüllungen einer Forderung des  Über-Ichs haben solche Symptome von vorneherein  Anteil am Ich, während sie anderseits Positionen des  Verdrängten und Einbruchsstellen desselben in die  Ichorganisation bedeuten; sie sind sozusagen Grenz-stationen mit gemischter Besetzung. Ob alle primären  hysterischen Symptome so gebaut sind, verdiente  eine sorgfältige Untersuchung. Im weiteren Verlaufe  benimmt sich das Ich so, als ob es von der Er-  wägung geleitet würde: das Symptom ist einmal da  und kann nicht beseitigt werden; nun heißt es, sich  mit dieser Situation befreunden und den größtmög-  lichen Vorteil aus ihr ziehen. Es findet eine Anpassung  an das ichfremde Stück der Innenwelt statt, das  durch das Symptom repräsentiert wird, wie sie das  Ich sonst normalerweise gegen die reale Außenwelt  zustande bringt. An Anlässen hiezu fehlt es nie. Die  Existenz des Symptoms mag eine gewisse Behinde-  rung der Leistung mit sich bringen, mit der man eine  Anforderung des Über-Ichs beschwichtigen oder einen  Anspruch der Außenwelt zurückweisen kann. So wird  das Symptom allmählich mit der Vertretung wichtiger  Interessen betraut, es erhält einen Wert für die  Selbstbehauptung, verwächst immer inniger mit dem  Ich, wird ihm immer unentbehrlicher. Nur in ganz  seltenen Fällen kann der Prozeß der Einheilung eines  Fremdkörpers etwas ähnliches wiederholen. Man kann die Bedeutung dieser sekundären Anpassung an das  Symptom auch übertreiben, indem man aussagt, das  Ich habe sich das Symptom überhaupt nur ange-  schafft, um dessen Vorteile zu genießen. Das ist  dann so richtig oder so falschh wie wenn man die  Ansicht vertritt, der Kriegsverletzte habe sich das  Bein nur abschießen lassen, um dann arbeitsfrei von  seiner Invalidenrente zu leben.   Andere Symptomgestaltungen, die der Zwangs-  neurose und der Paranoia, bekommen einen hohen  Wert für das Ich, nicht weil sie ihm Vorteile, sondern  weil sie ihm eine sonst entbehrte narzißtische  Befriedigung bringen. Die Systembildungen der Zwangs-  neurotiker schmeicheln ihrer Eigenliebe durch die  Vorspiegelung, sie seien als besonders reinliche oder  gewissenhafte Menschen besser als andere; die Wahn-  bildungen der Paranoia eröffnen dem Scharfsinn und  der Phantasie dieser Kranken ein Feld zur Betätigung,  das ihnen nicht leicht ersetzt werden kann. Aus all  den erwähnten Beziehungen resultiert, was uns als  der (sekundäre) Krankheitsgewinn der Neurose  bekannt ist. Er kommt dem Bestreben des Ichs, sich  das Symptom einzuverleiben, zu Hilfe und verstärkt  die Fixierung des letzteren. Wenn wir dann den Ver-  such machen, dem Ich in seinem Kampf gegen das  Symptom analytischen Beistand zu leisten, finden wir  diese versöhnlichen Bindungen zwischen Ich und  Symptom auf der Seite der Widerstände wirksam. Es wird uns nicht leicht gemacht, sie zu lösen. Die beiden  Verfahren, die dasIch gegen das Symptom anwendet,  stehen wirklich in Widerspruch zu einander.   Das andere Verfahren hat weniger freundlichen  Charakter, es setzt die Richtung der Verdrängung  fort. Aber es scheint, daß wir das Ich nicht mit dem  Vorwurf der Inkonsequenz belasten dürfen. Das Ich ist  friedfertig und möchte sich das Symptom einverleiben,  es in sein Ensemble aufnehmen. Die Störung geht  vom Symptom aus, das als richtiger Ersatz und  Abkömmling der verdrängten Regung deren Rolle  weiterspielt, deren Befriedigungsanspruch immer wieder  erneuert und so das Ich nötigt, wiederum das Unlust-  signal zu geben und sich zur Wehre zu setzen.   Der sekundäre Abwehrkampf gegen das Symptom  ist vielgestaltig, spielt sich auf verschiedenen Schau-  plätzen ab und bedient sich mannigfaltiger Mittel.  Wir werden nicht viel über ihn aussagen können, wenn  wir nicht die einzelnen Fälle der Symptombildung  zum Gegenstand der Untersuchung nehmen. Dabei  werden wir Anlaß finden, auf das Problem der Angst  einzugehen, das wir längst wie im Hintergrunde lauernd  verspüren. Es empfiehlt sich, von den Symptomen,  welche die hysterische Neurose schafft, auszugehen;  auf die Voraussetzungen der Symptombildung bei der  Zwangsneurose, Paranoia und anderen Neurosen sind  wir noch nicht vorbereitet. IV Der erste Fall, den wir betrachten, sei der einer  infantilen hysterischen Tierphobie, also z.B. der gewifs  in allen Hauptzügen typische Fall der Pferdephobie  des ‚Kleinen Hans‘. Schon der erste Blick läßt uns  erkennen, daß die Verhältnisse eines realen Falles  von neurotischer Erkrankung weit komplizierter sind  als unsere Erwartung, solange wir mit Abstraktionen  arbeiten, sich vorstellt. Es gehört einige Arbeit dazu,  sich zu orientieren, welches die verdrängte Regung,  was ihr Symptomersatz ist, wo das Motiv der Verdrängung kenntlich wird.   Der kleine Hans weigert sich, auf die Straße zu  gehen, weil er Angst vor dem Pferd hat. Dies ist  der Rohstoff. Was ist nun daran das Symptom: die  Angstentwicklung, die Wahl des Angstobjekts, oder  der Verzicht auf die freie Beweglichkeit, oder mehreres  davon zugleich? Wo ist die Befriedigung, die er sich  versagt? Warum muß er sich diese versagen? 1) Siehe: Analyse der Phobie eines fünfjährigen Knaben. (Ges.  Schriften, Bd. VII.) Es liegt nahe zu antworten, an dem Falle sei  nicht so viel rätselhaft. Die unverständliche Angst  vor dem Pferd ist das Symptom, die Unfähigkeit, auf  die Straße zu gehen, ist eine Hemmungserscheinung,  eine Einschränkung, die sich das Ich auferlegt, um  nicht das Angstsymptom zu wecken. Man sieht ohne  weiteres die Richtigkeit der Erklärung des letzten  Punktes ein und wird nun diese Hemmung bei der  weiteren Diskussion außer Betracht lassen. Aber die  erste flüchtige Bekanntschaft mit dem Falle lehrt uns  nicht einmal den wirklichen Ausdruck des vermeint-  lichen Symptoms kennen. Es handelt sich, wie wir  bei genauerem Verhör erfahren, gar nicht um eine  unbestimmte Angst vor dem Pferd, sondern um die  bestimmte ängstliche Erwartung: das Pferd werde ihn  beifsen. Allerdings sucht sich dieser Inhalt dem Bewußt-  sein zu entziehen und sich durch die unbestimmte  Phobie, in der nur noch die Angst und ihr Objekt  vorkommen, zu ersetzen. Ist nun etwa dieser Inhalt  der Kern des Symptoms?   Wir kommen keinen Schritt weiter, so lange  wir nicht die ganze psychische Situation des Kleinen  in Betracht ziehen, wie sie uns während der  analytischen Arbeit enthüllt wird. Er befindet sich  in der eifersüchtigen und feindseligen Ödipusein-  stellung zu seinem Vater, den er doch, so weit die  Mutter nicht als Ursache der Entzweiung in Betracht  kommt, herzlich liebt. Also ein Ambivalenzkonflikt, gut begründete Liebe und nicht minder berech-  tigter Haß, beide auf dieselbe Person gerichtet.  Seine Phobie muß ein Versuch zur Lösung dieses  Konflikts sein. Solche Ambivalenzkonflikte sind sehr  häufig, wir kennen einen anderen typischen Ausgang  derselben. Bei diesem wird die eine der beiden mit-  einander ringenden Regungen, in der Regel die zärt-  liche, enorm verstärkt, die andere verschwindet. Nur  das Übermaß und das Zwangsmäßige der Zärtlichkeit  verrät uns, daf3 diese Einstellung nicht die einzig  vorhandene ist, daß sie ständig auf der Hut ist, ihr  Gegenteil in Unterdrückung zu halten, und läßt uns  einen Hergang konstruieren, den wir als Verdrängung  durch Reaktionsbildung (im Ich) beschreiben.  Fälle wie der kleine Hans zeigen nichts von solcher  Reaktionsbildung; es gibt offenbar verschiedene Wege,  die aus einem Ambivalenzkonflikt herausführen.  Etwas anderes haben wir unterdes mit Sicherheit  erkannt. Die Triebregung, die der Verdrängung unter-  liegt, ist ein feindseliger Impuls gegen den Vater.  Die Analyse lieferte uns den Beweis hiefür, während  sie der Herkunft der Idee des beifßenden Pferdes  nachspürte. Hans hat ein Pferd fallen gesehen, einen  Spielkameraden fallen und sich verletzen, mit dem er  „Pferd“ gespielt hatte. Sie hat uns das Recht  gegeben, bei Hans eine Wunschregung zu konstruieren,  die gelautet hat, der Vater möge hinfallen, sich  beschädigen wie das Pferd und der Kamerad. Beziehungen zu einer beobachteten Abreise lassen ver-  muten, daß der Wunsch nach der Beseitigung des  Vaters auch minder zaghaften Ausdruck gefunden  hat. Ein solcher Wunsch ist aber gleichwertig mit  der Absicht, ihn selbst zu beseitigen, mit der mör-  derischen Regung des Ödipuskomplexes. Von dieser verdrängten Triebregung führt bis jetzt  kein Weg zu dem Ersatz für sie, den wir in der  Pferdephobie vermuten. Vereinfachen wir nun die  psychische Situation des kleinen Hans, indem wir  das infantile Moment und die Ambivalenz wegräumen;  er sei etwa ein jüngerer Diener in einem Haushalt,  der in die Herrin verliebt ist und sich gewisser  Gunstbezeugungen von ihrer Seite erfreue. Erhalten  bleibt, dafß er den stärkeren Hausherrn haßt und ihn  beseitigt wissen möchte; dann ist es die natürlichste  Folge dieser Situation, daß er die Rache dieses Herrn  fürchtet, daß sich bei ihm ein Zustand von Angst vor  diesem einstellt — ganz ähnlich wie die Phobie des  kleinen Hans vor dem Pferd. Das heißt, wir können  die Angst dieser Phobie nicht als Symptom bezeichnen;  wenn der kleine Hans, der in seine Mutter verliebt  ist, Angst vor dem Vater zeigen würde, hätten wir  kein Recht, ihm eine Neurose, eine Phobie, zuzu-  schreiben. Wir hätten eine durchaus begreifliche  affektive Reaktion vor uns. Was diese zur Neurose  macht, ist einzig und allein ein anderer Zug, die  Ersetzung des Vaters durch das Pferd. Diese Verschiebung stellt also das her, was auf den Namen  eines Symptoms Anspruch hat. Sie ist jener andere  Mechanismus, der die Erledigung des Ambivalenz-  konflikts ohne die Hilfe der Reaktionsbildung gestattet.  Ermöglicht oder erleichtert wird sie durch den Um-  stand, daß die mitgeborenen Spuren totemistischer  Denkweise in diesem zarten Alter noch leicht zu  beleben sind. Die Kluft zwischen Mensch und Tier  ist noch nicht anerkannt, gewif3 nicht so überbetont  wie später. Der erwachsene, bewunderte, aber auch  gefürchtete Mann steht noch in einer Reihe mit dem  großen Tier, das man um so vielerlei beneidet, vor  dem man aber auch gewarnt worden ist, weil es  gefährlich werden kann. Der Ambivalenzkonflikt wird  also nicht an derselben Person erledigt, sondern gleich-  sam umgangen, indem man einer seiner Regungen  eine andere Person als Ersatzmann unterschiebt.  Soweit sehen wir ja klar, aber in einem anderen  Punkte hat uns die Analyse der Phobie des kleinen  Hans eine volle Enttäuschung gebracht. Die Entstellung,  in der die Symptombildung besteht, wird gar nicht  an der Repräsentanz (dem Vorstellungsinhalt) der zu  verdrängenden Triebregung vorgenommen, sondern  an einer davon ganz verschiedenen, die nur einer  Reaktion auf das eigentlich Unliebsame entspricht.  Unsere Erwartung fände eher Befriedigung, wenn  der kleine Hans an Stelle seiner Angst vor dem  Pferd eine Neigung entwickelt hätte, Pferde zu mißshandeln, sie zu schlagen, oder deutlich seinen Wunsch  kundgegeben hätte, zu sehen, wie sie hinfallen, zu  Schaden kommen, eventuell unter Zuckungen verenden  (das Krawallmachen mit den Beinen). Etwas der Art  tritt auch wirklich während seiner Analyse auf, aber  es steht lange nicht voran in der Neurose und  — sonderbar — wenner wirklich solche Feindseligkeit,  nur gegen das Pferd, anstatt gegen den Vater gerichtet,  als Hauptsymptom entwickelt hätte, würden wir gar  nicht geurteilt haben, er befinde sich in einer Neurose.  Etwas ist also da nicht in Ordnung, entweder an  unserer Auffassung der Verdrängung oder in unserer  Definition eines Symptoms. Eines fällt uns natürlich sofort  auf: Wenn der kleine Hans wirklich ein solches Ver-  halten gegen Pferde gezeigt hätte, so wäre ja der  Charakter der anstößigen, aggressiven Triebregung  durch die Verdrängung gar nicht verändert, nur deren  Objekt gewandelt worden.   Es ist ganz sicher, daß es Fälle von Verdrängung  gibt, die nicht mehr leisten als dies; bei der Genese  der Phobie des kleinen Hans ist aber mehr geschehen.  Um wieviel mehr, erraten wir aus einem anderen  Stück Analyse.   Wir haben bereits gehört, daß der kleine Hans  als den Inhalt seiner Phobie die Vorstellung angab,  vom Pferd gebissen zu werden. Nun haben wir.später  Einblick in die Genese eines anderen Falles von Tier-  phobie bekommen, in der der Wolf das Angsttier war, aber gleichfalls die Bedeutung eines Vaterersatzes hatte."  Im Anschluß an einen Traum, den die Analyse durch-  sichtig machen konnte, entwickelte sich bei diesem  Knaben die Angst, vom Wolf gefressen zu werden,  wie eines der sieben Geifjlein im Märchen. Daß der  Vater des kleinen Hans nachweisbar ‚‚Pferdl‘‘ mit ihm  gespielt hatte, war gewiß bestimmend für die Wahl  des Angsttieres geworden; ebenso lief3 sich wenigstens  sehr wahrscheinlich machen, daf3 der Vater meines  erst im dritten Jahrzehnt analysierten Russen in den  Spielen mit dem Kleinen den Wolf gemimt und  scherzend mit dem Auffressen gedroht hatte. Seither  habe ich als dritten Fall einen jungen Amerikaner  gefunden, bei dem sich zwar keine Tierphobie aus-  bildete, der aber gerade durch diesen Ausfall die  anderen Fälle verstehen hilft. Seine sexuelle Erregung  hatte sich an einer phantastischen Kindergeschichte  entzündet, die man ihm vorlas, von einem arabischen  Häuptling, der einer aus eßbarer Substanz bestehenden  Person (dem Gäingerbreadman), nachjagt, um ihn zu  verzehren. Mit diesem eßbaren Menschen identifizierte  er sich selbst, der Häuptling war als Vaterersatz  leicht kenntlich und diese Phantasie wurde die erste  Unterlage seiner autoerotischen Betätigung. Die Vor-  stellung, vom Vater gefressen zu werden, ist aber  typisches uraltes Kindergut; die Analogien aus der  Bd. VIIL) Mythologie (Kronos) und dem Tierleben sind allgemein  bekannt.   Trotz solcher Erleichterungen ist dieser Vorstellungs-  inhalt uns so fremdartig, daß wir ihn dem Kinde nur  ungläubig zugestehen können. Wir wissen auch nicht,  ob er wirklich das bedeutet, was er auszusagen scheint,  und verstehen nicht, wie er Gegenstand einer Phobie  werden kann. Die analytische Erfahrung gibt uns aller-  dings die erforderlichen Auskünfte. Sie lehrt uns, daß  die Vorstellung, vom Vater gefressen zu werden, der  regressiv erniedrigte Ausdruck für eine passive zärtliche  Regung ist, die vom Vater als Objekt im Sinne der  Genitalerotik geliebt zu werden begehrt. Die Ver-  folgung der Geschichte des Falles läßt keinen Zweifel  an der Richtigkeit dieser Deutung aufkommen. Die  genitale Regung verrät freilich nichts mehr von ihrer  zärtlichen Absicht, wenn sie in der Sprache der  überwundenen Übergangsphase von der oralen zur  sadistischen Libidoorganisation ausgedrückt wird.  Handelt es sich übrigens nur um eine Ersetzung der  Repräsentanz durch einen regressiven Ausdruck oder  um eine wirkliche regressive Erniedrigung der genital-  gerichteten Regung im Es? Das scheint gar nicht  so leicht zu entscheiden. Die Krankengeschichte des  russischen „Wolfsmannes“ spricht ganz entschieden  für die letztere ernstere Möglichkeit, denn er benimmt  sich von dem entscheidenden Traum an „schlimm“,  quälerisch, sadistisch und entwickelt bald darauf eine richtige Zwangsneurose. Jedenfalls gewinnen wir die  Einsicht, daf3 die Verdrängung nicht das einzige Mittel  ist, das dem Ich zur Abwehr einer unliebsamen Trieb-  regung zu (sebote steht. Wenn es ihm gelingt, den  Trieb zur Regression zu bringen, so hat es ihn im  Grunde energischer beeinträchtigt, als durch die Ver-  drängung möglich wäre. Allerdings läßt es manchmal  der zuerst erzwungenen Regression die Verdrängung  folgen. |   Der Sachverhalt beim Wolfsmann und der etwas  einfachere beim kleinen Hans regen noch mancherlei  andere Überlegungen an, aber zwei unerwartete Ein-  sichten gewinnen wir schon jetzt. Kein Zweifel, die  bei diesen Phobien verdrängte Triebregung ist eine  feindselige gegen den Vater. Man kann sagen, sie wird  verdrängt durch den Prozeß der Verwandlung ins  Gegenteil; an Stelle der Aggression gegen den Vater  tritt die Aggression — die Rache — des Vaters gegen  die eigene Person. Da eine solche Aggression ohne-  dies in der sadistischen Libidophase wurzelt, bedarf  sie nur noch einer gewissen Erniedrigung zur oralen  Stufe, die bei Hans durch das Gebissenwerden ange-  deutet, beim Russen aber im Gefressenwerden grell  ausgeführt ist. Aber außerdem läßt ja die Analyse  über jeden Zweifel gesichert feststellen, daß gleich-  zeitig noch eine andere Triebregung der Verdrängung  erlegen ist, die gegensinnige einer zärtlichen passiven  Regung für den Vater, die bereits das Niveau der genitalen (phallischen) Libidoorganisation erreicht hatte.  Die letztere scheint sogar die für das Endergebnis  des Verdrängungsvorganges bedeutsamere zu sein, sie  erfährt die weitergehende Regression, sie erhält den  bestimmenden Einfluß auf den Inhalt der Phobie. Wo  wir also nur einer Triebverdrängung nachgespürt  haben, müssen wir das Zusammentreffen von zwei  solchen Vorgängen anerkennen; die beiden betroffenen  Triebregungen — sadistische Aggression gegen den  Vater und zärtlich passive Einstellung zu ihm — bilden  ein (Gegensatzpaar, ja noch mehr: wenn wir die  Geschichte des kleinen Hans richtig würdigen, erkennen  wir, daß durch die Bildung seiner Phobie auch die  zärtliche Objektbesetzung der Mutter aufgehoben  worden ist, wovon der Inhalt der Phobie nichts verrät.  Es handelt sich bei Hans — beim Russen ist das weit  weniger deutlich — um einen Verdrängungsvorgang,  der fast alle Komponenten des Ödipuskomplexes betrifft,  die feindliche wie die zärtliche Regung gegen den Vater  und die zärtliche für die Mutter.   Das sind unerwünschte Komplikationen für uns, die  wir nur einfache Fälle von Symptombildung infolge  von Verdrängung studieren wollten und uns in dieser  Absicht an die frühesten und anscheinend durch-  sichtigsten Neurosen der Kindheit gewendet hatten.  Anstatt einer einzigen Verdrängung fanden wir eine  Häufung von solchen vor und überdies bekamen wir  es mit der Regression zu tun. Vielleicht haben wir die Verwirrung dadurch gesteigert, daß wir die beiden  verfügbaren Analysen von Tierphobien — die des  kleinen Hans und des Wolfsmannes — durchaus auf  denselben Leisten schlagen wollten. Nun fallen uns  gewisse Unterschiede der beiden auf. Nur vom kleinen  Hans kann man mit Bestimmtheit aussagen, daß er  durch seine Phobie die beiden Hauptregungen des  Ödipuskomplexes, die aggressive gegen den Vater  und die überzärtliche gegen die Mutter, erledigt; die  zärtliche für den Vater ist gewif) auch vorhanden, sie  spielt ihre.Rolle bei der Verdrängung ihres Gegensatzes,  aber es ist weder nachweisbar, daß sie stark genug  war, um eine Verdrängung zu provozieren, noch dafs  sie nachher aufgehoben ist. Hans scheint eben ein  normaler Junge mit sog. „positivem‘‘ Ödipuskomplex  gewesen zu sein. Möglich, daß die Momente, die wir  vermissen, auch bei ihm mittätig waren, aber wir  können sie nicht aufzeigen, das Material selbst unserer  eingehendsten Analysen ist eben lückenhaft, unsere  Dokumentierung unvollständig. Beim Russen ist der  Defekt an anderer Stelle; seine Beziehung zum weib-  lichen Objekt ist durch eine frühzeitige Verführung  gestört worden, die passive, feminine Seite ist bei  ihm stark ausgebildet und die Analyse seines Wolfs-  traumes enthüllt wenig von beabsichtigter Aggression  gegen den Vater, erbringt dafür die unzweideutigsten  Beweise, daß die Verdrängung die passive, zärtliche  Einstellung zum Vater betrifft. Auch hier mögen die anderen Faktoren beteiligt gewesen sein, sie treten  aber nicht vor. Wenn trotz dieser Unterschiede der  beiden Fälle, die sich nahezu einer Gegensätzlichkeit  nähern, der Enderfolg der Phobie nahezu der nämliche  ist, so muß uns die Erklärung dafür von anderer Seite  kommen; sie kommt von dem zweiten Ergebnis unserer  kleinen vergleichenden Untersuchung. Wir glauben  den Motor der Verdrängung in beiden Fällen zu kennen  und sehen seine Rolle durch den Verlauf bestätigt,  den die Entwicklung der zwei Kinder nimmt. Er ist  in beiden Fällen der nämliche, die Angst vor einer  drohenden Kastration. Aus Kastrationsangst gibt der  kleine Hans die Aggression gegen den Vater auf; seine  Angst, das Pferd werde ihn beißen, kann zwanglos ver-  vollständigt werden, das Pferd werde ihm das Genitale  abbeißßen, ihn kastrieren. Aber aus Kastrationsangst  verzichtet auch der kleine Russe auf den Wunsch,  vom Vater als Sexualobjekt geliebt zu werden, denn  er hat verstanden, eine solche Beziehung hätte zur  Voraussetzung, daß er sein Genitale aufopfert, das,  was ihn vom Weib unterscheidet. Beide Gestaltungen  des Ödipuskomplexes, die normale, aktive, wie die  invertierte, scheitern ja am Kastrationskomplex. Die  Angstidee des Russen, vom Wolf gefressen zu werden,  enthält zwar keine Andeutung der Kastration, sie  hat sich durch orale Regression zu weit von der  phallischen Phase entfernt, aber die Analyse seines  Traumes macht jeden anderen Beweis überflüssig. Es ist auch ein voller Triumph der Verdrängung,  daß im Wortlaut der Phobie nichts mehr auf die  Kastration hindeutet.   Hier nun das unerwartete Ergebnis: In beiden  Fällen ist der Motor der Verdrängung die Kastrations-  angst; die Angstinhalte, vom Pferd gebissen und vom  Wolf gefressen zu werden, sind Entstellungsersatz für  den Inhalt, vom Vater kastriert zu werden. Dieser  Inhalt ist es eigentlich, der die Verdrängung an sich  erfahren hat. Beim Russen war er Ausdruck eines  Wunsches, der gegen die Auflehnung der Männlich-  keit nicht bestehen konnte, bei Hans Ausdruck einer  Reaktion, welche die Aggression in ihr Gegenteil  umwandelte. Aber der Angstaffekt der Phobie, der  ihr Wesen ausmacht, stammt nicht aus dem Ver-  drängungsvorgang, nicht aus den libidinösen Besetzungen  der verdrängten Regungen, sondern aus dem Ver-  drängenden selbst; die Angst der Tierphobie ist die  unverwandelte Kastrationsangst, also eine Realangst,  Angst vor einer wirklich drohenden oder als real  beurteilten Gefahr. Hier macht die Angst die Verdrängung, nicht, wie ich früher gemeint habe, die Ver-  drängung die Angst.   Es ist nicht angenehm, daran zu denken, aber es  hilft nichts, es zu verleugnen, ich habe oftmals den  Satz vertreten, durch die Verdrängung werde die  Triebrepräsentanz entstellt, verschoben u. dgl., die  Libido der Triebregung aber in Angst verwandelt.  Die Untersuchung der Phobien, die vor allem berufen  sein sollte, diesen Satz zu erweisen, bestätigt ihn also  nicht, sie scheint ihm vielmehr direkt zu widersprechen.  Die Angst der Tierphobien ist die Kastrationsangst  des Ichs, die der weniger gründlich studierten Agora-  phobie scheint Versuchungsangst zu sein, die ja genetisch mit der Kastrationsangst zusammenhängen muß.  Die meisten Phobien gehen, so weit wir es heute  übersehen, auf eine solche Angst des Ichs vor den  Ansprüchen der Libido zurück. Immer ist dabei die  Angsteinstellung des Ichs das Primäre und der Antrieb  zur Verdrängung. Niemals geht die Angst aus der  verdrängten Libido hervor. Wenn ich mich früher  begnügt hätte zu sagen, nach der Verdrängung er-  scheint an Stelle der zu erwartenden Äußerung von  Libido ein Maß von Angst, so hätte ich heute  nichts zurückzunehmen. Die Beschreibung ist richtig  und zwischen der Stärke der zu verdrängenden  Regung und der Intensität der resultierenden Angst  besteht wohl die behauptete Entsprechung. Aber  ich gestehe, ich glaubte mehr als eine bloße Be-  schreibung zu geben, ich nahm an, daß ich den  metapsychologischen Vorgang einer direkten Um-  setzung der Libido in Angst erkannt hatte; das kann  ich also heute nicht mehr festhalten. Ich konnte auch  früher nicht angeben, wie sich eine solche Umwandlung  vollzieht. Woher schöpfte ich überhaupt die Idee dieser Umsetzung? Zur Zeit, als es uns noch sehr ferne lag,  zwischen Vorgängen im Ich und Vorgängen im Es zu  unterscheiden, aus dem Studium der Aktualneurosen.  Ich fand, daß bestimmte sexuelle Praktiken, wie Coitus  interruptus, frustrane Erregung, erzwungene Abstinenz  Angstausbrüche und eine allgemeine Angstbereitschaft  erzeugen, also immer, wenn die Sexualerregung in  ihrem Ablauf zur Befriedigung gehemmt, aufgehalten  oder abgelenkt wird. Da die Sexualerregung der Aus-  druck libidinöser Triebregungen ist, schien es nicht  gewagt, anzunehmen, daf die Libido sich durch die  Einwirkung solcher Störungen in Angst verwandelt.  Nun ist diese Beobachtung auch heute noch gültig;  anderseits ist nicht abzuweisen, daß die Libido der  Es-Vorgänge durch die Anregung der Verdrängung eine  Störung erfährt; es kann also noch immer richtig sein,  daß sich bei der Verdrängung Angst aus der Libido-  besetzung der Triebregungen bildet. Aber wie soll  man dieses Ergebnis mit dem anderen zusammen-  bringen, daß die Angst der Phobien eine Ich-Angst ist,  im Ich entsteht, nicht aus der Verdrängung hervor-  geht, sondern die Verdrängung hervorruft? Das scheint  ein Widerspruch und nicht einfach zu lösen. Die  Reduktion der beiden Ursprünge der Angst auf einen  einzigen läft sich nicht leicht durchsetzen. Man kann  es mit der Annahme versuchen, daß das Ich in der  Situation des gestörten Koitus, der unterbrochenen  Erregung, der Abstinenz, Gefahren wittert, auf die es  mit Angst reagiert, aber es ist nichts damit zu machen.  Anderseits scheint die Analyse der Phobien, die wir  vorgenommen haben, eine Berichtigung nicht zuzulassen. Von liguet!    V    Wir wollten die Symptombildung und den sekun-  dären Kampf des Ichs gegen das Symptom studieren,  aber wir haben offenbar mit der Wahl der Phobien  keinen glücklichen Griff getan. Die Angst, welche im  Bild dieser Affektionen vorherrscht, erscheint uns nun  als eine den Sachverhalt verhüllende Komplikation. Es  gibt reichlich Neurosen, bei denen sich nichts von  Angst zeigt. Die echte Konversionshysterie ist von  solcher Art, deren schwerste Symptome ohne Bei-  mengung von Angst gefunden werden. Schon diese  Tatsache müßte uns warnen, die Beziehungen zwischen  Angst und Symptombildung nicht allzu fest zu knüpfen.  Den Konversionshysterien stehen die Phobien sonst so  nahe, daß ich mich für berechtigt gehalten habe,  ihnen diese als ‚Angsthysterie anzureihen. Aber  niemand hat noch die Bedingung angeben können,  die darüber entscheidet, ob ein Fall die Form einer  Konversionshysterie oder einer Phobie annimmt, niemand  also die Bedingung der Angstentwicklung bei der  Hysterie ergründet. Die häufigsten Symptome der Konversionshysterie,  eine motorische Lähmung, Kontraktur oder unwillkür-  liche Aktion oder Entladung, ein. Schmerz, eine Hallu-  zination, sind entweder permanent festgehaltene oder  intermittierende Besetzungsvorgänge, was der Erklärung  neue Schwierigkeiten bereitet. Man weiß eigentlich  nicht viel über solche Symptome zu sagen. Durch die  Analyse kann man erfahren, welchen gestörten  Erregungsablauf sie ersetzen. Zumeist ergibt sich, daß  sie selbst einen Anteil an diesem haben, so als ob  sich die gesamte Energie desselben auf dies eine  Stück konzentriert hätte. Der Schmerz war in der  Situation, in welcher die Verdrängung vorfiel, vor-  handen; die Halluzination war damals Wahrnehmung,  die motorische Lähmung ist die Abwehr einer Aktion,  die in jener Situation hätte ausgeführt werden sollen,  aber gehemmt wurde, die Kontraktur gewöhnlich eine  Verschiebung für eine damals intendierte Muskel-  innervation an anderer Stelle, der Krampfanfall Aus-  druck eines Affektausbruches, der sich der normalen  Kontrolle des Ichs entzogen hat. In ganz auffälligem  Maße wechselnd ist die Unlustempfindung, die das  Auftreten der Symptome begleitet. Bei den perma-  nenten, auf die Motilität verschobenen Symptomen,  wie Lähmungen und Kontrakturen, fehlt sie meistens  gänzlich, das Ich verhält sich gegen sie wie unbe-  teiligt; bei den intermittierenden und den Symptomen  der sensorischen Sphäre werden in der Regel deutliche Unlustempfindungen verspürt, die sich im Falle  des Schmerzsymptoms zu exzessiver Höhe steigern  können. Es ist sehr schwer, in dieser Mannigfaltigkeit  das Moment herauszufinden, das solche Differenzen  ermöglicht und sie doch einheitlich erklären läßt. Auch  vom Kampf des Ichs gegen das einmal gebildete  Symptom ist bei der Konversionshysterie wenig zu  merken. Nur wenn die Schmerzempfindlichkeit einer  Körperstelle zum Symptom geworden ist, wird diese  in den Stand gesetzt, eine Doppelrolle zu spielen.  Das Schmerzsymptom tritt ebenso sicher auf, wenn  diese Stelle von außen berührt wird, wie wenn die  von ihr vertretene pathogene Situation von innen her  assoziativ aktiviert wird, und das Ich ergreift Vor-  sichtsmaßregeln, um die Erweckung des Symptoms  durch äußere Wahrnehmung hintanzuhalten. Woher  die besondere Undurchsichtigkeit der Symptombildung  bei der Konversionshysterie rührt, können wir nicht  erraten, aber sie gibt uns ein Motiv, das unfrucht-  bare Gebiet bald zu verlassen.   Wir wenden uns zur Zwangsneurose in der  Erwartung, hier mehr über die Symptombildung zu  erfahren. Die Symptome der Zwangsneurose sind im  allgemeinen von zweierlei Art und entgegengesetzter  Tendenz. Es sind entweder Verbote, Vorsichtsmaß-  regeln, Bußen, also negativer Natur, oder im Gegen-  teil Ersatzbefriedigungen, sehr häufig in symbolischer  Verkleidung. Von diesen zwei Gruppen ist die negative, abwehrende, strafende, die ältere; mit der Dauer  des Krankseins nehmen aber die aller Abwehr spotten-  den Befriedigungen überhand. Es ist ein Triumph der  Symptombildung, wenn es gelingt, das  Verbot mit der  Befriedigung zu verquicken, so daß das ursprünglich  abwehrende Gebot oder Verbot auch die Bedeutung  einer Befriedigung bekommt, wozu oft sehr künstliche  Verbindungswege in Anspruch genommen werden. In  dieser Leistung zeigt sich die Neigung zur Synthese,  die wir dem Ich bereits zuerkannt haben. In extremen  Fällen bringt es der Kranke zustande, daß die meisten  seiner Symptome zu ihrer ursprünglichen Bedeutung  auch die des direkten Gegensatzes erworben haben,  ein Zeugnis für die Macht der Ambivalenz, die, wir  wissen nicht warum, in der Zwangsneurose eine so  große Rolle spielt. Im rohesten Fall ist das Symptom  zweizeitig, d. h. auf die Handlung, die eine gewisse  Vorschrift ausführt, folgt unmittelbar eine zweite, die  sie aufhebt oder rückgängig macht, wenngleich sie  noch nicht wagt, ihr Gegenteil auszuführen.   Zwei Eindrücke ergeben sich sofort aus dieser  flüchtigen Überschau der Zwangssymptome. Der erste,  daß hier ein fortgesetzter Kampf gegen das Verdrängte unterhalten wird, der sich immer mehr zu  ungunsten der verdrängenden Kräfte wendet, und  zweitens, daß Ich und Über-Ich hier einen besonders  großen Anteil an der Symptombildung nehmen.   Die Zwangsneurose ist wohl das interessanteste und dankbarste Objekt der analytischen Untersuchung,  aber noch immer als Problem unbezwungen. Wollen  wir in ihr Wesen tiefer eindringen, so müssen wir  eingestehen, daß unsichere Annahmen und unbe-  wiesene Vermutungen noch nicht entbehrt werden  können. Die Ausgangssituation der Zwangsneurose ist  wohl keine andere als die der Hysterie, die not-  wendige Abwehr der libidinösen Ansprüche des Ödipus-komplexes. Auch scheint sich bei jeder Zwangsneurose  eine unterste Schicht sehr früh gebildeter hysterischer  Symptome zu finden. Dann aber wird die weitere  Gestaltung durch einen konstitutionellen Faktor ent-  scheidend verändert. Die genitale Organisation der  Libido erweist sich als schwächlich und zu wenig  resistent. Wenn das Ich sein Abwehrstreben beginnt,  so erzielt es als ersten Erfolg, daf3 die Genitalorgani-  sation (der phallischen Phase) ganz oder teilweise auf  die frühere sadistisch-anale Stufe zurückgeworfen wird.  Diese Tatsache der Regression bleibt für alles folgende  bestimmend.   Man kann noch eine andere Möglichkeit in  Erwägung ziehen. Vielleicht ist die Regression nicht  die Folge eines konstitutionellen, sondern eines zeit-  lichen Faktors. Sie wird nicht darum ermöglicht  werden, weil die Genitalorganisation der Libido zu  schwächlich geraten, sondern weil das Sträuben des  Ichs zu frühzeitig, noch während der Blüte der sadi-  stischen Phase eingesetzt hat. Einer sicheren Entscheidung getraue ich mich auch in diesem Punkte  nicht, aber die analytische Beobachtung begünstigt  diese Annahme nicht. Sie zeigt eher, dafs bei der  Wendung zur Zwangsneurose die phallische Stufe  bereits erreicht ist. Auch ist das Lebensalter für den  Ausbruch dieser Neurose ein späteres als das der  Hysterie (die zweite Kindheitsperiode, nach dem  Termin der Latenzzeit), und in einem Fall von sehr  später Entwicklung dieser Affektion, den ich studieren  konnte, ergab es sich klar, daß eine reale Entwertung  des bis dahin intakten Genitallebens die Bedingung  für die Regression und die Entstehung der Zwangs-  neurose schuf."   Die metapsychologische Erklärung der Regression  suche ich in einer „Triebentmischung“, in der Ab-  sonderung der erotischen Komponenten, die mit  Beginn der genitalen Phase zu den destruktiven  Besetzungen der sadistischen Phase hinzugetreten waren.   Die Erzwingung der Regression bedeutet den  ersten Erfolg des Ichs im Abwehrkampf gegen den  Anspruch der Libido. Wir unterscheiden hier zweck-  mäßig die allgemeinere Tendenz der „Abwehr“ von  der „Verdrängung“, die nur einer der Mechanismen  ist, deren sich die Abwehr bedient. Vielleicht noch  klarer als bei normalen und hysterischen Fällen erkennt  man bei der Zwangsneurose als den Motor der Abwehr  Be an    2 n S. Die Disposition zur Zwangsneurose. (Ges. Schriften,  den Kastrationskomplex, als das Abgewehrte die  Strebungen des Ödipuskomplexes. Wir befinden uns  nun zu Beginn der Latenzzeit, die durch den Unter-  gang des Ödipuskomplexes, die Schöpfung oder Kon-  solidierung des Über-Ichs und die Aufrichtung der  ethischen und ästhetischen Schranken im Ich gekenn-  zeichnet ist. Diese Vorgänge gehen bei der Zwangs-  neurose über das normale Maß hinaus; zur Zerstörung  des Ödipuskomplexes tritt die regressive Erniedrigung  der Libido hinzu, das Über-Ich wird besonders strenge  und lieblos, das Ich entwickelt im Gehorsam gegen  das Über-Ich hohe Reaktionsbildungen von Gewissen-  haftigkeit, Mitleid, Reinlichkeit. Mit unerbittlicher,  darum nicht immer erfolgreicher Strenge wird die  Versuchung zur Fortsetzung der frühinfantilen Onanie  verpönt, die sich nun an regressive (sadistisch-anale) Vor-  stellungen anlehnt, aber doch den unbezwungenen Anteil  der phallischen Organisation repräsentiert. Es liegt ein  innerer Widerspruch darin, dafs gerade im Interesse  der Erhaltung der Männlichkeit (Kastrationsangst) jede  Betätigung dieser Männlichkeit verhindert wird, aber  auch dieser Widerspruch wird bei der Zwangsneurose  nur übertrieben, er haftet bereits an der normalen  Art der Beseitigung des Ödipuskomplexes. Wie jedes  Übermaß den Keim zu seiner Selbstaufhebung in  sich trägt, wird sich auch an der Zwangsneurose  bewähren, indem gerade die unterdrückte Onanie  sich in der Form der Zwangshandlungen eine immer weiter gehende Annäherung an die Befriedigung  erzwingt.   Die Reaktionsbildungen im Ich der Zwangsneuro-  tiker, die wir als Übertreibungen der normalen Cha-  rakterbildung erkennen, dürfen wir als einen neuen  Mechanismus der Abwehr neben die Regression und  die Verdrängung hinstellen. Sie scheinen bei der  Hysterie zu fehlen oder weit schwächer zu sein.  Rückschauend gewinnen wir so eine Vermutung,  wodurch der Abwehrvorgang. der Hysterie ausge-  zeichnet ist. Es scheint, daß er sich auf die Ver-  drängung einschränkt, indem das Ich sich von der  unliebsamen Triebregung abwendet, sie dem Ablauf  im Unbewußstten überläßt und. an ihren Schicksalen  keinen weiteren Anteil nimmt. So ganz ausschließend  richtig kann das zwar nicht sein, denn wir kennen ja  den Fall, daf$ das hysterische Symptom gleichzeitig  die Erfüllung einer Strafanforderung des Über-Ichs  bedeutet, aber es mag einen allgemeinen Charakter  im Verhalten des Ichs bei der Hysterie beschreiben.   Man kann es einfach als Tatsache hinnehmen, daß  sich bei der Zwangsneurose ein so strenges Über-Ich  bildet, oder man kann daran denken, daß der funda-  mentale Zug dieser Affektion die Libidoregression ist,  und versuchen, auch den Charakter des Über-Ichs  mit ihr zu verknüpfen. In der Tat kann ja das Über-  Ich, das aus dem Es stammt, sich der dort einge-  tretenen Regression und Triebentmischung nicht entziehen. Es wäre nicht zu  verwundern, wenn es  seinerseits härter, quälerischer, liebloser würde als  bei normaler Entwicklung.   Während der Latenzzeit scheint die Abwehr der  ÖOnanieversuchung als Hauptaufgabe behandelt zu  werden. Dieser Kampf erzeugt eine Reihe von Symptomen, die bei den verschiedensten Personen in  typischer Weise wiederkehren und im allgemeinen  den Charakter des Zeremoniells tragen. Es ist sehr  zu bedauern, daß sie noch nicht gesammelt und  systematisch analysiert worden sind; als früheste  Leistungen der Neurose würden sie über den hier  verwendeten Mechanismus der Symptombildung am  ehesten Licht verbreiten. Sie zeigen bereits die Züge,  welche in einer späteren schweren Erkrankung so  verhängnisvoll hervortreten werden : die Unterbringung  an den Verrichtungen, die später wie automatisch  ausgeführt werden sollen, am Schlafengehen, Waschen  und Ankleiden, an der Lokomotion, die Neigung zur  Wiederholung und zum Zeitaufwand. Warum das so  geschieht, ist noch keineswegs verständlich; die Subli-  mierung analerotischer Komponenten spielt dabei eine  deutliche Rolle. Die Pubertät macht in der Entwicklung der   Zwangsneurose einen entscheidenden Abschnitt. Die  in der Kindheit abgebrochene Genitalorganisation setzt  nun mit großer Kraft wieder ein. Wir wissen aber,  daß die Sexualentwicklung der Kinderzeit auch für den Neubeginn der Pubertätsjahre die Richtung vorschreibt. Es werden also einerseits die aggressiven  Regungen der Frühzeit wieder erwachen, anderseits  muß ein mehr oder minder großer Anteil der neuen  libidinösen Regungen — in bösen Fällen deren Ganzes  — die durch die Regression vorgezeichneten Bahnen  einschlagen und als aggressive und destruktive Absichten auftreten. Infolge dieser Verkleidung der  erotischen Strebungen und der starken Reaktions-  bildungen im Ich, wird nun der Kampf gegen die  Sexualität unter ethischer Flagge weitergeführt. Das  Ich sträubt sich verwundert gegen grausame und  gewalttätige Zumutungen, die ihm vom Es her ins  Bewufßstsein geschickt werden, und ahnt nicht, daß es  dabei erotische Wünsche bekämpft, darunter auch  solche, die sonst seinem Einspruch entgangen wären.  Das überstrenge Über-Ich besteht um so energischer  auf der Unterdrückung der Sexualität, da sie so  abstoßende Formen angenommen hat. So zeigt sich  der Konflikt bei der Zwangsneurose nach zwei Rich-  tungen verschärft, das Abwehrende ist intoleranter,  das Abzuwehrende unerträglicher geworden ; beides  durch den Einfluß des einen Moments, der Libido-  regression.   Man könnte einen Widerspruch gegen manche  unserer Voraussetzungen darin finden, daß die unlieb-  same Zwangsvorstellung überhaupt bewußt wird. Allein  es ist kein Zweifel, daß sie vorher den Prozeß der Verdrängung durchgemacht hat. In den meisten ist  der eigentliche Wortlaut der aggressiven Triebregung  dem Ich überhaupt nicht. bekannt. Es gehört ein  gutes Stück analytischer Arbeit dazu, um ihn bewußt  zu machen. Was zum Bewußtsein durchdringt, ist in  der Regel nur ein entstellter Ersatz entweder von  einer verschwommenen, traumhaften Unbestimmtheit,  oder unkenntlich gemacht durch eine absurde Ver-  kleidung. Wenn die Verdrängung nicht den Inhalt  der aggressiven Triebregung angenagt hat, so hat sie  doch gewiß den sie begleitenden Affektcharakter  beseitigt. So erscheint die Aggression dem Ich nicht  als ein Impuls, sondern, wie die Kranken sagen, als  ein bloßer ‚„‚Gedankeninhalt‘, der einen kalt lassen  sollte. Das Merkwürdige ist, daß dies doch nicht der  Fall ist.   Der bei der Wahrnehmung der Zwangsvorstellung  ersparte Affekt kommt nämlich an anderer Stelle zum  Vorschein. Das Über-Ich benimmt sich so, als hätte  keine Verdrängung stattgefunden, als wäre ihm die  aggressive Regung in ihrem richtigen Wortlaut und  mit ihrem vollen Affektcharakter bekannt, und behandelt  das Ich auf Grund dieser Voraussetzung. Das Ich, das  sich einerseits schuldlos weiß, muß anderseits ein  Schuldgefühl verspüren und eine Verantwortlichkeit  tragen, die es sich nicht zu erklären weiß. Das Rätsel,  das uns hiemit aufgegeben wird, ist aber nicht so  groß), als es zuerst erscheint. Das Verhalten des Über-Ichs ist durchaus: verständlich, der Widerspruch im  Ich beweist uns nur, daß es sich mittels der Ver-  drängung gegen das Es verschlossen hat, während es  den Einflüssen aus dem Über-Ich voll zugänglich  geblieben ist.‘ Der weiteren Frage, warum das Ich  sich nicht auch der peinigenden Kritik des Über-Ichs  zu entziehen sucht, macht die Nachricht ein Ende,  daf dies wirklich in einer großen Reihe von Fällen  so geschieht. Es gibt auch Zwangsneurosen ganz ohne  Schuldbewußtsein; soweit wir es verstehen, hat sich  das Ich die Wahrnehmung desselben durch eine neue  Reihe von Symptomen, Bußhandlungen, Einschrän-  kungen zur Selbstbestrafung, erspart. Diese Sym-  ptome bedeuten aber gleichzeitig Befriedigungen ma-  sochistischer Triebregungen, die ebenfalls aus der  Regression eine Verstärkung bezogen haben.   Die Mannigfaltigkeit in den Erscheinungen der  Zwangsneurose ist eine so großartige, daß es noch  keiner Bemühung gelungen ist, eine zusammenhängende  Synthese aller ihrer Variationen zu geben. Man ist  bestrebt, typische Beziehungen herauszuheben und  dabei immer in Sorge, andere nicht minder wichtige  Regelmäßigkeiten zu übersehen.   Die allgemeine Tendenz der Symptombildung bei  der Zwangsneurose habe ich bereits beschrieben. Sie  geht dahin, der Ersatzbefriedigung immer mehr Raum    ı) Vgl. Reik, Geständniszwang und Strafbedürfnis, 1925,  SEHE. u  auf Kosten der Versagung zu schaffen. Dieselben  Symptome, die ursprünglich Einschränkungen des Ichs  bedeuteten, nehmen dank der Neigung des Ichs zur  Synthese später auch die von Befriedigungen an, und  es ist unverkennbar, daf3 die letztere Bedeutung all-  mählich die wirksamere wird. Ein äußerst einge-  schränktes Ich, das darauf angewiesen ist, seine  Befriedigungen in den Symptomen zu suchen, wird  das Ergebnis dieses Prozesses, der sich immer mehr  dem völligen Fehlschlagen des anfänglichen Abwehr-  strebens nähert. Die Verschiebung des Kräfteverhält-  nisses zugunsten der Befriedigung kann zu dem  gefürchteten Endausgang der Willenslähmung des Ichs  führen, das für jede Entscheidung beinahe ebenso  starke Antriebe von der einen wie von der anderen  Seite findet. Der überscharfe Konflikt zwischen Es  und Über-Ich, der die Affektion von Anfang an  beherrscht, kann sich so sehr ausbreiten, daf keine  der Verrichtungen des zur Vermittlung unfähigen  Ichs der Einbeziehung in diesen Konflikt entgehen  kann. VI Während dieser Kämpfe kann man zwei symptom-  bildende Tätigkeiten des Ichs beobachten, die ein  besonderes Interesse verdienen, weil sie offenbare  Surrogate der Verdrängung sind und darum deren  Tendenz und Technik schön erläutern können. Viel-  leicht dürfen wir auch das Hervortreten dieser Hilfs-  und Ersatztechniken als einen Beweis dafür auffassen,  dafs die Durchführung der regelrechten Verdrängung  auf Schwierigkeiten stößt. Wenn wir erwägen, dafs bei  der Zwangsneurose das Ich soviel mehr Schauplatz  der Symptombildung ist als bei der Hysterie, daß  dieses Ich zähe an seiner Beziehung zur Realität und  zum Bewußtsein festhält und dabei alle seine intellek-  tuellen Mittel aufbietet, ja, daß die Denktätigkeit  überbesetzt, erotisiert, erscheint, werden uns solche  Variationen der Verdrängung vielleicht näher gebracht.   Die beiden angedeuteten Techniken sind das  Ungeschehenmachen und das Isolieren. Die  erstere hat ein großes Anwendungsgebiet und reicht  weit zurück. Sie ist sozusagen negative Magie, sie  will durch motorische Symbolik nicht die Folgen  eines Ereignisses (Eindruckes, Erlebnisses), sondern  dieses selbst „wegblasen“. Mit der Wahl dieses  letzten Ausdruckes ist darauf hingewiesen, welche  Rolle diese Technik nicht nur in der Neurose, sondern  auch in den Zauberhandlungen, Volksgebräuchen und  im religiösen Zeremoniell spielt. In der Zwangsneurose  begegnet man dem Ungeschehenmachen zuerst bei  den zweizeitigen Symptomen, wo der zweite Akt den  ersten aufhebt, so, als ob nichts geschehen wäre, wo  in Wirklichkeit beides geschehen ist. Das zwangsneu-  rotische Zeremoniell hat in der Absicht des Unge-  schehenmachens seine zweite Wurzel. Die erste ist  die Verhütung, die Vorsicht, damit etwas Bestimm-  tes nicht geschehe, sich nicht wiederhole. Der Unter-  schied ist leicht zu fassen; die Vorsichtsmafßregeln  sind rationell, die „Aufhebungen‘ durch Ungeschehen-  machen irrationell, magischer Natur. Natürlich muß  man vermuten, daß diese zweite Wurzel die ältere,  aus der animistischen Einstellung zur Umwelt stam-  mende ist. Seine Abschattung zum Normalen findet  das Streben zum Ungeschehenmachen in dem Ent-  schluß ein Ereignis als ‚»on arrive“ zu behandeln,  aber dann unternimmt man nichts dagegen, kümmert  sich weder um das Ereignis noch um seine Folgen,  während man in der Neurose die Vergangenheit  selbst aufzuheben, motorisch zu verdrängen sucht. Dieselbe Tendenz kann auch die Erklärung des in  der Neurose so häufigen Zwanges zur Wieder-  holung geben, bei dessen Ausführung sich dann  mancherlei einander widerstreitende Absichten zu-  sammenfinden. Was nicht in solcher Weise geschehen  ist, wie es dem Wunsch gemäß hätte geschehen  sollen, wird durch die Wiederholung in anderer Weise  ungeschehen gemacht, wozu nun alle die Motive hin-  zutreten, bei diesen Wiederholungen zu verweilen. Im  weiteren Verlauf der Neurose enthüllt sich oft die  Tendenz, ein traumatisches Erlebnis ungeschehen zu  machen, als ein symptombildendes Motiv von erstem  Range. Wir erhalten so unerwarteten Einblick in eine  neue, motorische Technik der Abwehr oder, wie wir  hier mit geringerer Ungenauigkeit sagen können, der  Verdrängung.   Die andere der neu zu beschreibenden Techniken  ist das der Zwangsneurose eigentümlich zukommende  Isolieren. Es bezieht sich gleichfalls auf die moto-  rische Sphäre, besteht darin, daß nach einem unlieb-  samen Ereignis, ebenso nach einer im Sinne der Neu-  rose bedeutsamen eigenen Tätigkeit, eine Pause ein-  geschoben wird, in der sich nichts mehr ereignen  darf, keine Wahrnehmung gemacht und keine Aktion  ausgeführt wird. Dies zunächst sonderbare Verhalten  verrät uns bald seine Beziehung. zur Verdrängung.  Wir wissen, bei Hysterie ist es möglich, einen trau-  matischen Eindruck der Amnesie. verfallen zu lassen,  bei der Zwangsneurose ist dies oft nicht gelungen,  das Erlebnis ist nicht vergessen, aber es ist von  seinem Affekt entblößt und seine assoziativen Bezie-  hungen sind unterdrückt oder unterbrochen, so daß  es wie isoliert dasteht und auch nicht im Verlaufe  der Denktätigkeit reproduziert wird. Der Effekt dieser  Isolierung ist dann der nämliche wie bei der Ver-  drängung mit Amnesie. Diese Technik wird also in  den Isolierungen der Zwangsneurose reproduziert, aber  dabei auch in magischer Absicht motorisch verstärkt.  Was so auseinandergehalten wird, ist gerade das, was  assoziativ zusammengehört, die motorische Isolierung  sol eine Garantie für die Unterbrechung des  Zusammenhanges im Denken geben. Einen Vorwand  für dies Verfahren der Neurose gibt der normale  Vorgang der Konzentration. Was uns bedeutsam als  Eindruck, als Aufgabe erscheint, soll nicht durch  die gleichzeitigen Ansprüche anderer Denkverrichtun-  gen oder Tätigkeiten gestört werden. Aber schon im  Normalen wird die Konzentration dazu verwendet,  nicht nur das Gleichgültige, nicht Dazugehörige, sondern  vor allem das unpassende Gegensätzliche fernzuhalten.  Als das Störendste wird empfunden, was ursprüng-  lich zusammengehört hat und durch den Fortschritt  der Entwicklung auseinandergerissen wurde, z. B. die  Äußerungen der Ambivalenz des Vaterkomplexes in  der Beziehung zu Gott oder die Regungen der Ex-  kretionsorgane in den Liebeserregungen. So hat das Ich normalerweise eine große Isolierungsarbeit bei der  Lenkung des Gedankenablaufes zu leisten, und wir  wissen, in der Ausübung der analytischen Technik  müssen wir das Ich dazu erziehen, auf diese sonst  durchaus gerechtfertigte Funktion zeitweilig zu ver-  zichten.   Wir haben alle die Erfahrung gemacht, daß es  dem Zwangsneurotiker besonders schwer wird, die  psychoanalytische Grundregel zu befolgen. Wahr-  scheinlich infolge der hohen Konfliktspannung zwischen  seinem Über-Ich und seinem Es ist sein Ich wach-  samer, dessen Isolierungen schärfer. Es hat während  seiner Denkarbeit zuviel abzuwehren, die Einmengung  unbewußter Phantasien, die Äußerung der ambi-  valenten Strebungen. Es darf sich nicht gehen lassen,  befindet sich fortwährend in Kampfbereitschaft. Diesen  Zwang zur Konzentration und Isolierung unterstützt  es dann durch die magischen Isolierungsaktionen, die  als Symptome so auffällig und praktisch so bedeut-  sam werden, an sich natürlich nutzlos sind und den  Charakter des Zeremoniells haben.   Indem es aber Assoziationen, Verbindung in  Gedanken, zu verhindern sucht, befolgt es eines der  ältesten und fundamentalsten Gebote der Zwangsneu-  rose, das labu der Berührung. \Wenn man sich  die Frage vorlegt, warum die Vermeidung von  Berührung, Kontakt, Ansteckung in der Neurose eine  so große Rolle spielt und zum Inhalt so komplizierter Systeme gemacht wird, so findet man die Antwort,  daß die Berührung, der körperliche Kontakt, das  nächste Ziel sowohl der aggressiven wie der zärt-  lichen Objektbesetzung ist. Der Eros will die Berüh-  rung, denn er strebt nach Vereinigung, Aufhebung  der Raumgrenzen zwischen Ich und geliebtem Objekt.  Aber auch die Destruktion, die vor der Erfindung  der Fernwaffe nur aus der Nähe erfolgen konnte,  muß die körperliche Berührung, das Handanlegen,  voraussetzen. Eine Frau berühren ist im Sprach-  gebrauch ein Euphemismus für ihre Benützung als  Sexualobjekt geworden. Das Glied nicht berühren ist  der Wortlaut des Verbotes der autoerotischen Befrie-  digung. Da die Zwangsneurose zu Anfang die ero-  tische Berührung, dann nach der Regression die als  Aggression maskierte Berührung verfolgte, ist nichts  anderes für sie in so hohem Grade verpönt worden,  nichts so geeignet, zum Mittelpunkt eines Verbotsystems  zu werden. Die Isolierung ist aber Aufhebung der  Kontaktmöglichkeit, Mittel, ein Ding jeder Berührung  zu entziehen, und wenn der Neurotiker auch einen  Eindruck oder eine Tätigkeit durch eine Pause isoliert,  gibt er uns symbolisch zu verstehen, daß er die  Gedanken an sie nicht in assoziative Berührung mit  anderen kommen lassen will.   So weit reichen unsere Untersuchungen über die  Symptombildung. Es verlohnt sich kaum, sie zu resu-  mieren, sie sind ergebnisarm und unvollständig ge- Siem. Freud    blieben, haben auch wenig gebracht, was nicht schon  früher bekannt gewesen wäre. Die Symptombildung  bei anderen Affektionen als bei den Phobien, der  Konversionshysterie und der Zwangsneurose in Betracht  zu ziehen, wäre aussichtslos ; es ist zu wenig darüber  bekannt. Aber auch schon aus der Zusammenstellung  dieser drei Neurosen erhebt sich ein schwerwiegendes,  nicht mehr aufzuschiebendes Problem. Für alle drei  ist die Zerstörung des Odipuskomplexes der Ausgang,  in allen, nehmen wir an, die Kastrationsangst der  Motor des Ichsträubens. Aber nur in den Phobien  kommt solche Angst zum Vorschein, wird sie einge-  standen. Was ist bei den zwei anderen Formen aus  ihr geworden, wie hat das Ich sich solche Angst  erspart? Das Problem verschärft sich noch, wenn wir  an die vorhin erwähnte Möglichkeit denken, daß die  Angst durch eine Art Vergährung aus der im Ablauf  gestörten Libidobesetzung selbst hervorgeht, und  weiters: steht es fest, daß die Kastrationsangst der  einzige Motor der Verdrängung (oder Abwehr) ist?  Wenn man an die Neurosen der Frauen denkt, muß  man das bezweifeln, denn so sicher sich der Kastrations-  komplex bei ihnen konstatieren läßt, von einer  Kastrationsangst im richtigen Sinne kann man bei  bereits vollzogener Kastration doch nicht sprechen. Kehren wir zu den infantilen Tierphobien zu-  rück, wir verstehen diese Fälle doch besser als alle  anderen. Das Ich muf also hier gegen eine libidinöse  Objektbesetzung des Es (die des positiven oder  des negativen Odipuskomplexes) einschreiten, weil es  verstanden hat, ihr nachzugeben brächte die Gefahr  der Kastration mit sich. Wir haben das schon erörtert  und finden noch Anlaß, uns einen Zweifel klar zu  machen, der von dieser ersten Diskussion erübrigt ist.  Sollen wir beim kleinen Hans (also im Falle des posi-  tiven Odipuskomplexes) annehmen, daß es die zärt-  liche Regung für die Mutter oder die aggressive gegen  den Vater ist, welche die Abwehr des Ichs heraus-  fordert? Praktisch schiene das gleichgültig, besonders  da die beiden Regungen einander bedingen, aber ein  theoretisches Interesse knüpft sich an die Frage, weil  nur die zärtliche Strömung für die Mutter als eine  rein erotische gelten kann. Die aggressive ist wesent-  lich vom Destruktionstrieb abhängig, und wir haben immer geglaubt, bei der Neurose wehre sich das Ich  gegen Ansprüche der Libido, nicht der anderen  Triebe. In der Tat sehen wir, daf$ nach der Bildung  der Phobie die zärtliche Mutterbindung wie ver-  schwunden ist, sie ist durch die Verdrängung gründ-  lich erledigt worden, an der aggressiven Regung hat  sich aber die Symptom- (Ersatz-) Bildung vollzogen.  Im Falle des Wolfsmannes liegt es einfacher, die ver-  drängte Regung ist wirklich eine erotische, die  feminine Einstellung zum Vater, und ah ihr vollzieht  sich auch die Symptombildung.   Es ist fast beschämend, daß wir nach so langer  Arbeit noch immer Schwierigkeiten in der Auffassung  der fundamentalsten Verhältnisse finden, aber wir  haben uns vorgenommen, nichts zu vereinfachen und  nichts zu verheimlichen. Wenn wir nicht klar sehen  können, wollen wir wenigstens die Unklarheiten schart  sehen. Was uns hier im \Wege steht, ist offenbar  eine Unebenheit in der Entwicklung unserer Trieb-  lehre. Wir hatten zuerst die Organisationen der Libido  von der oralen über die sadistisch-anale zur genitalen  Stufe verfolgt und dabei alle Komponenten des Sexual-  triebs einander gleichgestellt. Später erschien uns der  Sadismus als der Vertreter eines anderen, dem Eros  gegensätzlichen Triebes. Die neue Auffassung von den  zwei Iriebgruppen scheint die frühere Konstruktion  von den sukzessiven Phasen der Libidoorganisation zu  sprengen. Die hilfreiche Auskunft aus dieser Schwierigkeit brauchen wir aber nicht neu zu erfinden. Sie  hat sich uns längst geboten und lautet, daß wir es  kaum jemals mit reinen Triebregungen zu tun haben,  sondern durchwegs mit Legierungen beider Triebe in  verschiedenen Mengenverhältnissen. Die sadistische  Objektbesetzung hat also auch ein Anrecht, als eine  libidinöse behandelt zu werden, die Organisationen  der Libido brauchen nicht revidiert zu werden, die  aggressive Regung gegen den Vater kann mit dem-  selben Anrecht Objekt der Verdrängung werden wie  die zärtliche für die Mutter. Immerhin setzen wir als  Stoff für spätere Überlegung die Möglichkeit beiseite,  daf3 die Verdrängung ein ProzefS ist, der eine beson-  dere Beziehung zur Genitalorganisation der Libido hat,  daß das Ich zu anderen Methoden der Abwehr  greift, wenn es sich der Libido auf anderen Stufen  der Organisation zu erwehren hat, und setzen wir  fort. Ein Fall wie der des kleinen Hans gestattet  uns keine Entscheidung; hier wird zwar eine aggressive  Regung durch Verdrängung erledigt, aber nachdem  die Genitalorganisation bereits erreicht ist.   Wir wollen diesmal die Beziehung zur Angst  nicht aus den Augen lassen. Wir sagten, so wie das  Ich die Kastrationsgefahr erkannt hat, gibt es das  Angstsignal und inhibiert mittels der Lust-Unlust-  Instanz auf eine weiter nicht einsichtliche Weise den  bedrohlichen Besetzungsvorgang im Es. Gleichzeitig  vollzieht sich die Bildung der Phobie. Die Kastrations-    Freud: Hemmung, Symptom und Angst 5    66 Sigm. Freud    angst erhält ein anderes Objekt und einen entstellten  Ausdruck: vom Pferd gebissen (vom Wolf gefressen),  anstatt vom Vater kastriert zu werden. Die Ersatz-  bildung hat zwei offenkundige Vorteile, erstens, dafß  sie einem Ambivalenzkonflikt ausweicht, denn der  Vater ist ein gleichzeitig geliebtes Objekt und zweitens,  daf3 sie dem Ich gestattet, die Angstentwicklung ein-  zustellen. Die Angst der Phobie ist nämlich eine  fakultative, sie tritt nur auf, wenn ihr Objekt Gegen-  stand der Wahrnehmung wird. Das ist ganz korrekt;  nur dann ist nämlich die Gefahrsituation vorhanden.  Von einem abwesenden Vater braucht man auch die  Kastration nicht zu befürchten. Nun kann man den  Vater nicht wegschaffen, er zeigt sich immer, wann  er will. Ist er aber durch das Tier ersetzt, so braucht  man nur den Anblick, d. h. die Gegenwart des  lieres zu vermeiden, um frei von Gefahr und Angst  zu sein. Der kleine Hans legt seinem Ich also eine  Einschränkung auf, er produziert die Hemmung, nicht  auszugehen, um nicht mit Pterden zusammenzutreffen.  Der kleine Russe hat es noch bequemer, es ist kaum  ein Verzicht für ihn, daß er ein gewisses Bilderbuch  nicht mehr zur Hand nimmt. Wenn die schlimme  Schwester ihm nicht immer wieder das Bild des auf-  rechtstehenden Wolfes in diesem Buch vor Augen  halten würde, dürfte er sich vor seiner Angst gesichert  fühlen.   Ich habe früher einmal der Phobie den Charakter    FHTemmung, Symptom und Angst 67    einer Projektion zugeschrieben, indem sie eine innere  Triebgefahr durch eine äußere Wahrnehmungsgefahr  ersetzt. Das bringt den Vorteil, daß man sich  gegen die äußere Gefahr durch Flucht und Ver-  meidung der Wahrnehmung schützen kann, während  gegen die Grefahr von innen keine Flucht nützt. Meine  Bemerkung ist nicht unrichtig, aber sie bleibt an der  Oberfläche. Der Triebanspruch ist ja nicht an sich  eine Gefahr, sondern nur darum, weil er eine richtige  äußere Gefahr, die der Kastration, mit sich bringt.  So ist im Grunde bei der Phobie doch nur eine  äußere Gefahr durch eine andere ersetzt. Daß das  Ich sich bei der Phobie durch eine Vermeidung oder  ein Hemmungssymptom der Angst entziehen kann,  stimmt sehr gut zur Auffassung, diese Angst sei nur  ein Affektsignal und an der ökonomischen Situation  sei nichts geändert worden.   Die Angst der Tierphobien ist also eine Affekt-  reaktion des Ichs auf die Gefahr; die Gefahr, die  hier signalisiert wird, die der Kastration. Kein anderer  Unterschied von der Realangst, die das Ich normaler-  weise in Gefahrsituationen äußert, als daf3 der Inhalt  der Angst unbewußt bleibt und nur in einer Entstellung  bewußt wird.   Dieselbe Auffassung wird sich uns, glaube ich, auch  für die Phobien Erwachsener giltig erweisen, wenngleich  das Material, das die Neurose verarbeitet, sehr viel    reichhaltiger ist und einige Momente zur Symptombildung hinzukommen. Im Grunde ist es das nämliche.  Der Agoraphobe legt seinem Ich eine Beschränkung  auf, um einer Triebgefahr zu entgehen. Die Triebgefahr  ist die Versuchung, seinen erotischen Gelüsten nachzu-  geben, wodurch er wieder wie in der Kindheit die  Gefahr der Kastration, oder eine ihr analoge, herauf-  beschwören würde. Als Beispiel führe ich den Fall eines  jungen Mannes an, der agoraphob wurde, weil er  befürchtete, den Lockungen von Prostituierten nach-  zugeben und sich zur Strafe Syphilis zu holen.   Ich weiß wohl, daf viele Fälle eine kompliziertere  Struktur zeigen und dafs viele andere verdrängte Trieb-  regungen in die Phobie einmünden können, aber diese  sind nur auxiliär und haben sich meist nachträglich mit  dem Kern der Neurose in Verbindung gesetzt. Die  Symptomatik der Agoraphobie wird dadurch kompli-  ziert, daßß das Ich sich nicht damit begnügt, auf etwas  zu verzichten; es tut noch etwas hinzu, um der Situation  ihre Gefahr zu benehmen. Diese Zutat ist gewöhnlich  eine zeitliche Regression in die Kinderjahre (im extremen  Fall bis in den Mutterleib, in Zeiten, in denen man gegen  die heute drohenden Gefahren geschützt war) und tritt  als die Bedingung auf, unter der der Verzicht unter-  bleiben kann. So kann der Agoraphobe auf die Straße  gehen, wenn er wie ein kleines Kind von einer Person  seines Vertrauens begleitet wird. Dieselbe Rücksicht mag  ihm auch gestatten, allein auszugehen, wenn er sich nur  nicht über eine bestimmte Strecke von seinem Haus entfernt, nicht in Gegenden geht, die er nicht gut kennt  und wo er den Leuten nicht bekannt ist. In der Aus-  wahl dieser Bestimmungen zeigt sich der Einfluß der  infantilen Momente, die ihn durch seine Neurose be-  herrschen. Ganz eindeutig, auch ohne solche infantile  Regression, ist die Phobie vor dem Alleinsein, die im  Grunde der Versuchung zur einsamen Önanie aus-  weichen will. Die Bedingung der infantilen Regression  ist natürlich die zeitliche Entfernung von der Kindheit.   Die Phobie stellt sich in der Regel her, nachdem  unter gewissen Umständen — auf der Straße, auf der  Eisenbahn, im Alleinsein — ein erster Angstanfall  erlebt worden ist. Dann ist die Angst gebannt, tritt  aber jedesmal wieder auf, wenn die schützende Be-  dingung nicht eingehalten werden kann. Der Mechanismus  der Phobie tut als Abwehrmittel gute Dienste und  zeigt eine große Neigung zur Stabilität. Eine Fort-  setzung des Abwehrkampfes, der sich jetzt gegen das  Symptom richtet, tritt häufig, aber nicht notwendig, ein.   Was wir über die Angst bei den Phobien erfahren  haben, bleibt noch für die Zwangsneurose verwertbar.  Es ist nicht schwierig, die Situation der Zwangsneurose  auf die der Phobie zu reduzieren. Der Motor aller  späteren Symptombildung ist hier offenbar die Angst des  Ichs vor seinem Über-Ich. Die Feindseligkeit des Über-  Ichs ist die Gefahrsituation, der sich das Ich entziehen  muß. Hier fehlt jeder Anschein einer Projektion, die  Gefahr ist durchaus verinnerlicht. Aber wenn wir uns  fragen, was das Ich von seiten des Über-Ichs befürchtet,  so drängt sich die Auffassung auf, dafs die Strafe des  Über-Ichs eine Fortbildung der Kastrationsstrafe ist.  Wie das Über-Ich der unpersönlich gewordene Vater  ist, so hat sich die Angst vor der durch ihn drohenden  Kastration zur unbestimmten sozialen oder Gewissens-  angst umgewandelt. Aber diese Angst ist gedeckt,  das Ich entzieht sich ihr, indem es die ihm auferlegten  Gebote, Vorsichten und Bußhandlungen gehorsam aus-  führt. Wenn es daran gehindert wird, dann tritt sofort  ein äußerst peinliches Unbehagen auf, in dem wir das  Äquivalent der Angst erblicken dürfen, das die Kranken  selbst der Angst gleichstellen. Unser Ergebnis lautet  also: Die Angst ist die Reaktion auf die Gefahr-  situation; sie wird dadurch erspart, daß das Ich etwas  tut, um die Situation zu vermeiden oder sich ihr zu  entziehen. Man könnte nun sagen, die Symptome  werden geschaffen, um die Angstentwicklung zu ver-  meiden, aber das läßt nicht tief blicken. Es ist richtiger  zu sagen, die Symptome werden geschaffen, um die  Gefahrsituation zu vermeiden, die durch die Angst-  entwicklung signalisiert wird. Diese Gefahr war aber  in den bisher betrachteten Fällen die Kastration oder  etwas von ihr Absgeleitetes.   Wenn die Angst die Reaktion des Ichs auf die  Gefahr ist, so liegt es nahe, die traumatische Neurose,  welche sich so häufig an überstandene Lebensgefahr  anschliefst, als direkte Folge der Lebens- oder Todes-    FIemmung, Symptom und Angst 71    angst mit Beiseitesetzung der Abhängigkeiten des Ichs  und der Kastration aufzufassen. Das ist auch von den  meisten Beobachtern der traumatischen Neurosen des  letzten Krieges geschehen, und es ist triumphierend ver-  kündet worden, nun sei der Beweis erbracht, dafs eine  Gefährdung des Selbsterhaltungstriebes eine Neurose  erzeugen könne ohne jede Beteiligung der Sexualität  und ohne Rücksicht auf die komplizierten Annahmen  der Psychoanalyse. Es ‘ist in der Tat aufserordentlich  zu bedauern, daß nicht eine einzige verwertbare Analyse  einer traumatischen Neurose vorliegt. Nicht wegen des  Widerspruches gegen die ätiologische Bedeutung der  Sexualität, denn dieser ist längst durch die Einführung  des Narziffmus aufgehoben worden, der die libidinöse  Besetzung des Ichs in eine Reihe mit den Objekt-  besetzungen bringt und die libidinöse Natur des Selbst-  erhaltungstriebes betont, sondern weil wir durch den  Ausfall dieser Analysen die kostbarste Gelegenheit zu  entscheidenden Aufschlüssen über das Verhältnis  zwischen Angst und Symptombildung versäumt haben.  Es ist nach allem, was wir von der Struktur der  simpleren Neurosen des täglichen Lebens wissen, sehr  unwahrscheinlich, daß eine Neurose nur durch die  objektive Tatsache der Gefährdung ohne Beteiligung  der tieferen unbewufßten Schichten des seelischen  Apparats zustande kommen sollte. Im Unbewußsten ist  aber nichts vorhanden, was unserem Begriff der Lebens-  vernichtung Inhalt geben kann. Die Kastration wird  sozusagen vorstellbar durch die tägliche Erfahrung der  Trennung vom Darminhalt und durch den bei der  Entwöhnung erlebten Verlust der mütterlichen Brust;  etwas dem Tod Ähnliches ist aber nie erlebt worden  oder hat wie die Ohnmacht keine nachweisbare Spur  hinterlassen. Ich halte darum an der Vermutung fest,  dafs die Todesangst als Analogon der Kastrationsangst  aufzufassen ist, und dafß die Situation, auf welche das  Ich reagiert, das Verlassensein vom schützenden Über-  Ich — den Schicksalsmächten — ist, womit die  Sicherung gegen alle Gefahren ein Ende hat. Außer-  dem kommt in Betracht, daf3 bei den Erlebnissen, die  zur traumatischen Neurose führen, äußerer Reizschutz  durchbrochen wird und übergroße Erregungsmengen  an den seelischen Apparat herantreten, so dafs hier  die zweite Möglichkeit vorliegt, daß Angst nicht nur  als Affekt signalisiert, sondern auch aus den ökono-  mischen Bedingungen der Situation neu erzeugt wird.   Durch die letzte Bemerkung, das Ich sei durch  regelmäßig wiederholte Objektverluste auf die Kastration  vorbereitet worden, haben wir eine neue Auffassung  der Angst gewonnen. Betrachteten wir sie bisher als  Affektsignal der Gefahr, so erscheint sie uns nun, da  es sich so oft um die Gefahr der Kastration handelt,  als die Reaktion auf einen Verlust, eine Trennung.  Mag auch mancherlei, was sich sofort ergibt, gegen  diesen Schluß sprechen, so muß uns doch eine sehr  merkwürdige Übereinstimmung auffallen. Das erste Angsterlebnis des Menschen wenigstens ist die Geburt  und diese bedeutet objektiv die Trennung von der  Mutter, könnte einer Kastration der Mutter (nach der  Gleichung Kind — Penis) verglichen werden. Nun wäre  es sehr befriedigend, wenn die Angst als Symbol einer  Trennung bei jeder späteren Irennung wiederholt  würde, aber leider steht einer Verwertung dieses Zu-  sammenstimmens im Wege, daß ja die Geburt subjektiv  nicht als Trennung von der Mutter erlebt wird, da  diese als Objekt dem durchaus narzifßstischen Fötus  völlig unbekannt ist. Ein anderes Bedenken wird  lauten, daß uns die Affektreaktionen auf eine Trennung  bekannt sind, und daß wir sie als Schmerz und Trauer,  nicht als Angst empfinden. Allerdings erinnern wir  uns, wir haben bei der Diskussion der Trauer auch  nicht verstehen können, warum sie so schmerzhaft ist.    VII    Es ist Zeit, sich zu besinnen. Wir suchen offenbar  nach einer Einsicht, die uns das Wesen der Angst  erschließt, nach einem Entweder—Oder, das die  Wahrheit über sie vom Irrtum scheidet. Aber das ist  schwer zu haben, die Angst ist nicht einfach zu erfassen.  Bisher haben wir nichts erreicht als Widersprüche,  zwischen denen ohne Vorurteil keine Wahl möglich  war. Ich schlage jetzt vor, es anders zu machen; wir  wollen unparteisch alles zusammentragen, was wir  von der Angst aussagen können, und dabei auf die  Erwartung einer nahen Synthese verzichten.   Die Angst ist also in erster Linie etwas Empfundenes.  Wir heißen sie einen Affektzustand, obwohl wir auch  nicht wissen, was ein Affekt ist. Sie hat als Empfindung  offenbarsten Unlustcharakter, aber das erschöpft nicht  ihre Qualität; nicht jede Unlust können wir Angst  heifßen. Es gibt andere Empfindungen mit Unlust-  charakter (Spannungen, Schmerz, Trauer) und die  Angst mufS außer dieser Unlustqualität andere Besonder-  heiten haben. Eine Frage: Werden wir es dazu bringen, die Unterschiede zwischen diesen verschiedenen Unlust-  affekten zu verstehen?   Aus der Empfindung der Angst können wir immer-  hin etwas entnehmen. Ihr Unlustcharakter scheint eine  besondere Note zu haben; das ist schwer zu beweisen,  aber wahrscheinlich; es wäre nichts Auffälliges. Aber  außer diesem schwer isolierbaren Eigencharakter nehmen  wir an der Angst bestimmtere körperliche Sensationen  wahr, die wir auf bestimmte Organe beziehen. Da  uns die Physiologie der Angst hier nicht interessiert,  genügt es uns, einzelne Repräsentanten dieser Sensa-  tionen hervorzuheben, also die häufigsten und deut-  lichsten an den Atmungsorganen und am Herzen.  Sie sind uns Beweise dafür, dafß motorische Inner-  vationen, also Abfuhrvorgänge an dem Granzen der  Angst Anteil haben. Die Analyse des Angstzustandes  ergibt also ı) einen spezifischen Unlustcharakter,  2) Abfuhraktionen, 3) die Wahrnehmungen derselben.   Die Punkte 2) und 3) ergeben uns bereits einen  Unterschied gegen die ähnlichen Zustände, z. B.  der Trauer und des Schmerzes. Bei diesen gehören  die motorischen Äußerungen nicht dazu; wo sie vor-  handen sind, sondern sie sich deutlich nicht als Bestand-  teile des Ganzen, sondern als Konsequenzen oder  Reaktionen darauf. Die Angst ist also ein besonderer  Unlustzustand mit Abfuhraktionen auf bestimmte Bahnen.  Nach unseren allgemeinen Anschauungen werden wir  glauben, daß der Angst eine Steigerung der Erregung zugrunde liegt, die einerseits den Unlustcharakter  schafft, andererseits sich durch die genannten Abfuhren  erleichtert. Diese rein physiologische Zusammenfassung  wird uns aber kaum genügen; wir sind versucht,  anzunehmen, dafß ein historisches Moment da ist,  welches die Sensationen und Innervationen der Angst  fest an einander bindet. Mit anderen Worten, daß  der Angstzustand die Reproduktion eines Erlebnisses  ist, das die Bedingungen einer solchen Reizsteigerung  und der Abfuhr auf bestimmte Bahnen enthielt, wodurch  also die Unlust der Angst ihren spezifischen Charakter  erhält. Als solches vorbildliches Erlebnis bietet sich  uns für den Menschen die Geburt, und darum sind  wir geneigt, im Angstzustand eine Reproduktion des  Greburtstraumas zu sehen.   Wir haben damit nichts behauptet, was der Angst  eine Ausnahmsstellung unter den Affektzuständen ein-  räumen würde. Wir meinen, auch die anderen Affekte  sind Reproduktionen alter, lebenswichtiger, eventuell  vorindividueller Ereignisse und wir bringen sie als  allgemeine, typische, mitgeborene hysterische Anfälle  in Vergleich mit den spät und individuell erworbenen  Attacken der hysterischen Neurose, deren Genese und  Bedeutung als Erinnerungssymbole uns durch die  Analyse deutlich geworden ist. Natürlich wäre es sehr  wünschenswert, diese Auffassung für eine Reihe anderer  Afiekte beweisend durchführen zu können, wovon  wir heute weit entfernt sind. Die Zurückführung der Angst auf das Geburts-  ereignis hat sich gegen naheliegende Einwände zu  verteidigen. Die Angst ist eine wahrscheinlich allen  Organismen, jedenfalls allen höheren zukommende  Reaktion, die Geburt wird nur von den Säugetieren  erlebt, und es ist fraglich, ob sie bei allen diesen die  Bedeutung eines Traumas hat. Es gibt also Angst  ohne Geburtsvorbild. Aber dieser Einwand setzt sich  über die Schranken zwischen Biologie und Psychologie  hinaus. Gerade weil die Angst eine biologisch unent-  behrliche Funktion zu erfüllen hat, als Reaktion auf  den Zustand der Gefahr, mag sie bei verschiedenen  Lebewesen auf verschiedene Art eingerichtet worden  sein. Wir wissen auch nicht, ob sie bei dem Menschen  ferner stehenden Lebewesen denselben Inhalt an Sen-  sationen und Innervationen hat wie beim Menschen.  Das hindert also nicht, daf3 die Angst beim Menschen  den Geburtsvorgang zum Vorbild nimmt.   Wenn dies die Struktur und die Herkunft der  Angst ist, so lautet die weitere Frage: Was ist ihre  Funktion? Bei welchen Gelegenheiten wird sie reprodu-  ziert? Die Antwort scheint naheliegend und zwingend  zu sein. Die Angst entstand als Reaktion auf einen  Zustand der Gefahr, sie wird nun regelmäßig reprodu-  ziert, wenn sich ein solcher Zustand wieder einstellt.   Dazu ist aber einiges zu bemerken. Die Inner-  vationen des ursprünglichen Angstzustandes waren  wahrscheinlich auch sinnvoll und zweckmäßig, ganz  a ——    so wie die Muskelaktionen des ersten hysterischen An-  falls. Wenn man den hysterischen Anfall erklären will,  braucht man ja nur die Situation zu suchen, in der  die betreffenden Bewegungen Anteile einer berech-  tigten Handlung waren. So hat wahrscheinlich während  der Geburt die Richtung der Innervation auf die  Atmungsorgane die Tätigkeit der Lungen vorbereitet,  die Beschleunigung des Herzschlags gegen die Ver-  giftung des Blutes arbeiten wollen. Diese Zweckmäßig-  keit entfällt natürlich bei der späteren Reproduktion  des Angstzustandes als Affekt, wie sie auch beim  wiederholten hysterischen Anfall vermißt wird. Wenn  also das Individuum in eine neue Gefahrsituation gerät,  so kann es leicht unzweckmäßig werden, daß es mit  dem Angstzustand, der Reaktion auf eine frühere  Gefahr antwortet, anstatt die der jetzigen adäquaten  Reaktion einzuschlagen. Die Zweckmäßigkeit tritt aber  wieder hervor, wenn die Gefahrsituation als heran-  nahend erkannt und durch den Angstausbruch signa-  lisiert wird. Die Angst kann dann sofort durch ge-  eignetere Maßnahmen abgelöst werden. Es sondern  sich also sofort zwei Möglichkeiten des Auftretens der  Angst: die eine, unzweckmäßige, in einer neuen Gefahr-  situation, die andere, zweckmäßige, zur Signalisierung  und Verhütung einer solchen.   Was aber ist eine „Gefahr‘‘? Im Geburtsakt  besteht eine objektive Gefahr für die Erhaltung des  Lebens, wir wissen, was das in der Realität bedeutet. Aber psychologisch sagt es uns gar nichts. Die Gefahr  der Geburt hat noch keinen psychischen Inhalt.  Sicherlich dürfen wir beim Fötus nichts voraussetzen,  was sich irgendwie einer Art von Wissen um die  Möglichkeit eines Ausgangs in Lebensvernichtung an-  nähert. Der Fötus kann nichts anderes bemerken  als eine großartige Störung in der Ökonomie seiner  narzißtischen Libido. Große Erregungssummen dringen  zu ihm, erzeugen neuartige Unlustempfindungen, manche  Organe erzwingen sich erhöhte Besetzungen, was wie  ein Vorspiel der bald beginnenden Objektbesetzung  ist; was davon wird als Merkzeichen einer ‚Grefahr-  situation‘ Verwertung finden?   Wir wissen leider viel zu wenig von der seelischen  Verfassung des Neugeborenen, um diese Frage direkt  zu beantworten. Ich kann nicht einmal für die Brauch-  barkeit der eben gegebenen Schilderung einstehen. Es  ist leicht zu sagen, das Neugeborene werde den Angst-  affekt in allen Situationen wiederholen, die es an das  Geburtsereignis erinnert. Der entscheidende Punkt  bleibt aber, wodurch und woran es erinnert wird.   Es bleibt uns kaum etwas anderes übrig, als die  Anlässe zu studieren, bei denen der Säugling oder  das ein wenig ältere Kind sich zur Angstentwicklung  bereit zeigt. Rank hat in seinem Buch „Das Irauma  der Geburt‘ einen sehr energischen Versuch gemacht,    I) Otto Rank, Das Trauma der Geburt und seine Bedeutung  für die Psychoanalyse. Internat. Psychoanalyt. Bibliothek XIV, 1924.  die Beziehungen der frühesten Phobien des Kindes  zum Eindruck des Geburtsereignisses zu erweisen,  allein ich kann ihn nicht für geglückt halten. Man kann  ihm zweierlei vorwerfen: Erstens, dafs er auf der Vor-  aussetzung beruht, das Kind habe bestimmte Sinnes-  eindrücke, insbesondere visueller Natur, bei seiner  Geburt empfangen, deren Erneuerung die Erinnerung  an das Greburtstrauma und somit die Angstreaktion  hervorrufen kann. Diese Annahme ist völlig unbewiesen  und sehr unwahrscheinlich; es ist nicht glaubhaft, dafs  das Kind andere als taktileund Allgemeinsensationen vom  Geburtsvorgang bewahrt hat. Wenn es also später  Angst vor kleinen Tieren zeigt, die in Löchern ver-  schwinden oder aus diesen herauskommen, so erklärt  Rank diese Reaktion durch die Wahrnehmung einer  Analogie, dieaber dem Kinde nicht auffällig werden kann.  Zweitens, daß Rank in der Würdigung dieser späteren  Angstsituationen je nach Bedürfnis die Erinnerung an die  glückliche intrauterine Existenz oder an deren trauma-  tische Störung wirksam werden läßt, womit der Willkür  in der Deutung Tür und Tor geöffnet wird. Einzelne  Fälle dieser Kinderangst widersetzen sich direkt der  Anwendung des Rank schen Prinzips. Wenn das Kind  in Dunkelheit und Einsamkeit gebracht wird, so sollten  wir erwarten, dafs es diese Wiederherstellung der  intrauterinen Situation mit Befriedigung aufnimmt, und  wenn die Tatsache, daß es gerade dann mit Angst  reagiert, auf die Erinnerung an die Störung dieses Glücks durch die Geburt zurückgeführt wird, so kann  man das Gezwungene dieses Erklärungsversuches:nicht  länger verkennen.   Ich muf3 den Schluß ziehen, daß die frühesten  Kindheitsphobien eine direkte Rückführung auf den  Eindruck des Geburtsaktes nicht zulassen und sich  überhaupt bis jetzt der Erklärung entzogen haben.  Fine gewisse Angstbereitschaft des Säuglings ist unver-  kennbar. Sie ist nicht etwa unmittelbar nach der  Geburt am stärksten, um dann langsam abzunehmen,  sondern tritt erst später mit dem Fortschritt der  seelischen Entwicklung hervor und hält über eine  gewisse Periode der Kinderzeit an. Wenn sich solche  Frühphobien über diese Zeit hinaus erstrecken, er-  wecken sie den Verdacht einer neurotischen Störung,  wiewohl uns ihre Beziehung zu den späteren deutlichen  Neurosen der Kindheit keineswegs einsichtlich ist.   Nur wenige Fälle der kindlichen Angstäufßserung  sind uns verständlich; an diese werden wir uns halten  müssen. So, wenn das Kind allein, in der Dunkelheit,  ist und wenn es eine fremde Person an Stelle der ihm  vertrauten (der Mutter) findet. Diese drei Fälle reduzieren  sich auf eine einzige Bedingung, das Vermissen der  geliebten (ersehnten) Person. Von da an ist aber der  Weg zum Verständnis der Angst und zur Vereinigung  der Widersprüche, die sich an sie zu knüpfen  scheinen, frei.   Das Erinnerungsbild der ersehnten Person wird    Freud: Hemmung, Symptom und Angst 6    GB ., Siem. Freud    gewif) intensiv, wahrscheinlich zunächst halluzinatorisch  besetzt. Aber das hat keinen Erfolg und nun hat es  den Anschein, als ob diese Sehnsucht in Angst um-  schlüge. Es macht geradezu den Eindruck, als wäre  diese Angst ein Ausdruck der Ratlosigkeit, als wüßte  das noch sehr unentwickelte Wesen mit dieser sehn-  süchtigen Besetzung nichts Besseres anzufangen. Die  Angst erscheint so. als Reaktion auf das Vermissen  des Objekts und es drängen sich uns die Analogien  auf, daf®? auch die Kastrationsangst die Trennung  von einem hochgeschätzten Objekt zum Inhalt hat,  und daß die ursprünglichste Angst (die „Urangst“  der Geburt) bei der Trennung von der Mutter ent-  stand.   Die nächste Überlegung führt über diese Betonung  des Objektverlustes hinaus. Wenn der Säugling nach  der Wahrnehmung der Mutter verlangt, so doch nur  darum, weil er bereits aus Erfahrung weiß, daß sie  alle seine Bedürfnisse ohne Verzug befriedigt. Die  Situation, die er als „Gefahr“ wertet, gegen die er  versichert sein will, ist also die der Unbefriedigung,  des Anwachsens der Bedürfnisspannung,  gegen die er ohnmächtig ist. Ich meine, von diesem  Gesichtspunkt aus ordnet sich alles ein; die Situation  der Unbefriedigung, in der Reizgrößen eine unlustvolle  Höhe erreichen, ohne Bewältigung durch psychische  Verwendung und Abfuhr zu finden, muß für den Säug-  ling die Analogie mit dem Geburtserlebnis, die Wiederholung der Gefahrsituation sein; das beiden Gemein-  same ist die ökonomische Störung durch das Anwachsen  der Erledigung heischenden Reizgrößen, dieses Moment  also der eigentliche Kern der „Gefahr“. In beiden  Fällen tritt die Angstreaktion auf, die sich auch noch  beim Säugling als zweckmäßig erweist, indem die  Richtung der Abfuhr auf Atem- und Stimmuskulatur  nun die Mutter herbeiruft, wie sie früher die  Lungentätigkeit zur Wegschaffung der inneren Reize  anregte. Mehr als diese Kennzeichnung der Gefahr  braucht das Kind von seiner Geburt nicht bewahrt  zu haben.   Mit der Erfahrung, daß ein äußeres, durch Wahr-  nehmung erfaßbares Objekt der an die Geburt mahnenden  gefährlichen Situation ein Ende machen kann, ver-  schiebt sich nun der Inhalt der Gefahr von der öko-  nomischen Situation auf seine Bedingung, den Objekt-  verlust. Das Vermissen der Mutter wird nun die  Gefahr, bei deren Eintritt der Säugling das Angst-  signal gibt, noch ehe die gefürchtete ökonomische  Situation eingetreten ist. Diese Wandlung bedeutet  einen ersten großen Fortschritt in der Fürsorge für  die Selbsterhaltung, sie schließt gleichzeitig den Über-  gang von der automatisch ungewollten Neuentstehung  der Angst zu ihrer beabsichtigten Reproduktion als  Signal der Gefahr ein.   In beiden Hinsichten, sowohl als automatisches    Phänomen wie als rettendes Signal, zeigt sich die Angst als Produkt der psychischen Hilflosigkeit des  Säuglings, welche das selbstverständliche Gegenstück  seiner biologischen Hilflosigkeit ist. Das auffällige  Zusammentreffen, daß sowohl die Geburtsangst wie die  Säuglingsangst die Bedingung der Trennung von der  Mutter anerkennt, bedarf keiner psychologischen  Deutung; es erklärt sich biologisch einfach genug aus  der Tatsache, daf3 die Mutter, die zuerst alle Bedürf-  nisse des Fötus durch die Einrichtungen ihres Leibes  beschwichtigt hatte, dieselbe Funktion zum Teil mit  anderen Mitteln auch nach der Geburt fortsetzt.  Intrauterinleben und erste Kindheit sind weit mehr ein  Kontinuum, als uns die auffällige Zensur des Geburts-  aktes glauben läßt. Das psychische Mutterobjekt  ersetzt dem Kinde die biologische Fötalsituation. Wir  dürfen darum nicht vergessen, daf3 im Intrauterin-  leben die Mutter kein Objekt war, und daß es damals  keine Objekte gab.   Es ist leicht zu sehen, daß es in diesem Zusammen-  hange keinen Raum für ein Abreagieren des Geburts-  traumas gibt, und daß eine andere Funktion der  Angst als die eines Signals zur Vermeidung der  Gefahrsituation nicht aufzufinden ist. Die Angst-  bedingung des Objektverlustes trägt nun noch ein  ganzes Stück weiter. Auch die nächste Wandlung der  Angst, die in der phallischen Phase auftretende  Kastrationsangst, ist eine Irennungsangst und an die-  selbe Bedingung gebunden. Die Gefahr ist hier die Irennung von dem Genitale. Ein vollberechtigt  scheinender Gedankengang von Ferenczi läßt uns  hier die Linie des Zusammenhanges mit den früheren  Inhalten der Gefahrsituation deutlich erkennen. Die hohe  narzifßtische Einschätzung des Penis kann sich darauf  berufen, daß der Besitz dieses Organs die Gewähr für  eine Wiedervereinigung mit der Mutter (dem Mutter-  ersatz) im Akt des Koitus enthält. Die Beraubung  dieses Gliedes ist soviel wie eine neuerliche Trennung  von der Mutter, bedeutet also wiederum, einer unlust-  vollen Bedürfnisspannung (wie bei der Geburt) hilflos  ausgeliefert zu sein. Das Bedürfnis, dessen Ansteigen  gefürchtet wird, ist aber nun ein sSpezialisiertes, das  der genitalen Libido, nicht mehr ein beliebiges wie in  der Säuglingszeit. Ich füge hier an, daf3 die Phantasie  der Rückkehr in den Mutterleib der Koitusersatz des  Impotenten (durch die Kastrationsdrohung Gehemmten)  ist. Im Sinne Ferenczis kann man sagen, das  Individuum, das sich zur Rückkehr in den Mutter-  leib durch sein Genitalorgan vertreten lassen wollte,  ersetzt nun regressiv dies Organ durch seine ganze  Person.   Die Fortschritte in der Entwicklung des Kindes,  die Zunahme seiner Unabhängigkeit, die schärfere  Sonderung seines seelischen Apparats in mehrere  Instanzen, das Auftreten neuer Bedürfnisse, können  nicht ohne Einfluß auf den Inhalt der Gefahrsituation  bleiben. Wir haben dessen Wandlung vom Verlust  des Mutterobjekts zur Kastration verfolgt und sehen  den nächsten Schritt durch die Macht des Über-Ichs  verursacht. Mit dem Unpersönlichwerden der Eltern-  instanz, von der man die Kastration befürchtete, wird  die Gefahr unbestimmter. Die Kastrationsangst ent-  wickelt sich zur Gewissensangst, zur sozialen Angst.  Es ist jetzt nicht mehr so leicht anzugeben, was die  Angst befürchtet. Die Formel: „Trennung, Ausschluß  aus der Horde‘, trifft nur jenen späteren Anteil des  Über-Ichs, der sich in Anlehnung an soziale Vorbilder  entwickelt hat, nicht den Kern des Über-Ichs, der der  introjizierten Elterninstanz entspricht. Allgemeiner aus-  gedrückt, ist es der Zorn, die Strafe. des Über-Ichs,  der Liebesverlust von dessen Seite, den das Ich als  Gefahr wertet und mit dem Angstsignal beantwortet.  Als letzte Wandlung dieser Angst vor dem Über-Ich  ist mir die Todes-(Lebens-)Angst, die Angst vor der  Projektion des Über-Ichs in den Schicksalsmächten  erschienen.   Ich habe früher einmal einen gewissen Wert auf  die Darstellung gelegt, daß es die bei der Verdrän-  gung abgezogene Besetzung ist, welche die Verwen-  dung als Angstabfuhr erfährt. Das erscheint mir nun  heute kaum wissenswert. Der Unterschied liegt darin,  daß ich vormals die Angst in jedem Falle durch einen  ökonomischen Vorgang automatisch entstanden glaubte,  während die jetzige Auffassung der Angst als eines  vom Ich beabsichtigten Signals zum Zweck der Beeinflussung der Lust-Unlustinstanz uns von diesem  ökonomischen Zwange unabhängig macht. Es ist  natürlich nichts gegen die Annahme zu sagen, daß  das Ich gerade die durch die Abziehung bei der  Verdrängung frei gewordene Energie zur Erweckung  des Affekts verwendet, aber es ist bedeutungslos  geworden, mit welchem Anteil Energie dies geschieht.   Ein anderer Satz, den ich einmal ausgesprochen,  verlangt nun nach Überprüfung im Lichte unserer  neuen Auffassung. Es ist die Behauptung, das Ich sei  die eigentliche Angststätte; ich meine, sie wird sich  als zutreffend erweisen. Wir haben nämlich keinen  Anlaß, dem Über-Ich irgendeine Angstäußerung zuzu-  teilen. Wenn aber von einer „Angst des Es die  Rede ist, so hat man nicht zu widersprechen, sondern  einen ungeschickten Ausdruck zu korrigieren. Die  Angst ist ein Affektzustand, der natürlich nur vom  Ich verspürt werden kann. Das Es kann nicht Angst  haben wie das Ich, es ist keine Organisation, kann  Gefahrsituationen nicht beurteilen. Dagegen ist es ein  überaus häufiges Vorkommnis, daß sich im Es Vor-  gänge vorbereiten oder vollziehen, die dem Ich  Anlaß zur Angstentwicklung geben; in der Tat sind  die wahrscheinlich frühesten Verdrängungen, wie die  Mehrzahl aller späteren, durch solche Angst des Ichs  vor einzelnen Vorgängen im Es motiviert. Wir unter-  scheiden hier wiederum mit gutem Grund die beiden  Fälle, daß sich im Es etwas ereignet, was eine der    88 Siem. Freud    Gefahrsituationen fürs Ich aktiviert und es somit  bewegt, zur Inhibition das Angstsignal zu geben, und  den anderen Fall, daß sich im Es die dem Geburts-  trauma analoge Situation herstellt, in der es automatisch  zur Angstreaktion kommt. Man bringt die beiden  Fälle einander näher, wenn man hervorhebt, daf der  zweite der ersten und ursprünglichen Gefahrsituation  entspricht, der erste aber einer der später aus ihr  abgeleiteten Angstbedingungen. Oder auf die wirklich  vorkommenden Affektionen bezogen: daß der zweite  Fall in der Ätiologie der Aktualneurosen verwirklicht  ist, der erste für die der Psychoneurosen charakteri-  stisch bleibt.   Wir sehen nun, daf wir frühere Ermittlungen  nicht zu entwerten, sondern bloß mit den neueren  Einsichten in Verbindung zu bringen brauchen. Es ist  nicht abzuweisen, daß bei Abstinenz, mißbräuchlicher  Störung im Ablauf der Sexualerregung, Ablenkung  derselben von ihrer psychischen Verarbeitung, direkt  Angst aus Libido entsteht, d. h. jener Zustand von  Hilflosigkeit des Ichs gegen eine übergroße Bedürfnis-  spannung hergestellt wird, der wie bei der Geburt in  Angstentwicklung ausgeht, wobei es wieder eine gleich-  gültige, aber nahe liegende Möglichkeit ist, daß gerade  der Überschuß an unverwendeter Libido seine Abfuhr  in der Angstentwicklung findet. Wir sehen, daß sich  auf dem Boden dieser Aktualneurosen besonders  leicht Psychoneurosen entwickeln, das heißt wohl, daß    Femmung, Symptom und Angst 89    das Ich Versuche macht, die Angst, die es eine Weile  suspendiert zu erhalten gelernt hat, zu ersparen und  durch Symptombildung zu binden. Wahrscheinlich  würde die Analyse der traumatischen Kriegsneurosen,  welcher Name allerdings sehr verschiedenartige  Affektionen umfaßt, ergeben haben, daf3 eine Anzahl  von ihnen an den Charakteren der Aktualneurosen  Anteil hat.   Als wir die Entwicklung der verschiedenen Gefahr-  situationen aus dem ursprünglichen Geburtsvorbild  darstellten, lag es uns ferne zu behaupten, dafs jede  spätere Angstbedingung die frühere einfach außer  Kraft setzt. Die Fortschritte der Ichentwicklung tragen  allerding dazu bei, die frühere Gefahrsituation zu  entwerten und beiseite zu schieben, so daf man  sagen kann, einem bestimmten Entwicklungsalter sei  eine gewisse Angstbedingung wie adäquat zugeteilt.  Die Gefahr der psychischen Hilflosigkeit pafst zur  Lebenszeit der Unreife des Ichs, wie die Gefahr des  Objektverlustes zur Unselbständigkeit der ersten Kinder-  jahre, die Kastrationsgefahr zur phallischen Phase, die  Über-Ichangst zur Latenzzeit. Aber es können doch  alle diese Gefahrsituationen und Angstbedingungen  nebeneinander fortbestehen bleiben und das Ich auch  zu späteren als den adäquaten Zeiten zur Angst-  reaktion veranlassen, oder es können mehrere von  ihnen gleichzeitig in Wirksamkeit treten. Möglicher-  weise bestehen auch engere Beziehungen zwischen der wirksamen Gefahrsituation und der Form der auf sie  folgenden Neurose.'   Als wir in einem früheren Stück dieser Unter-  suchungen auf die Bedeutung der Kastrationsgefahr    1) Seit der Unterscheidung von Ich und Es mußte auch unser  Interesse an den Problemen der Verdrängung eine neue Belebung  erfahren. Bisher hatte es uns genügt, die dem Ich zugewendeten  Seiten des Vorgangs, die Abhaltung vom Bewußtsein und von der  Motilität und die Ersatz- (Symptom-) Bildung ins Auge zu fassen, von  der verdrängten Triebregung selbst nahmen wir an, sie bleibe im  Unbewußten unbestimmt lange unverändert bestehen. Nun wendet  sich das Interesse den Schicksalen des Verdrängten zu, und wir  ahnen, daß ein solcher unveränderter und unveränderlicher Fort-  bestand nicht selbstverständlich, vielleicht nicht einmal gewöhnlich  ist. Die ursprüngliche Triebregung ist jedenfalls durch die Ver-  drängung gehemmt und von ihrem Ziel abgelenkt worden. Ist aber  ihr Ansatz im Unbewußten erhalten geblieben und hat er sich  resistent gegen die verändernden und entwertenden Einflüsse des  Lebens erwiesen? Bestehen also die alten Wünsche noch, von  deren früherer Existenz uns die Analyse berichtet? Die Antwort  scheint naheliegend und gesichert: Die verdrängten alten Wünsche  müssen im Unbewußten noch fortbestehen, da wir ihre Abkömmlinge,  die Symptome, noch wirksam finden. Aber sie ist nicht zureichend,  sie läßt nicht zwischen den beiden Möglichkeiten entscheiden, ob  der alte Wunsch jetzt nur durch seine Abkömmlinge wirkt, denen  er all seine Besetzungsenergie übertragen hat, oder ob er außerdem  selbst erhalten geblieben ist, Wenn es sein Schicksal war, sich in  der Besetzung seiner Abkömmlinge zu erschöpfen, so bleibt noch  die dritte Möglichkeit, daß er im Verlauf der Neurose durch Re-  gression wiederbelebt wurde, so unzeitgemäß er gegenwärtig sein  mag. Man braucht diese Erwägungen nicht für müßig zu halten;  vieles an den Erscheinungen des krankhaften wie des normalen  Seelenlebens scheint solche Fragestellungen zu erfordern. In meiner  Studie über den Untergang des Ödipuskomplexes bin ich auf den  Unterschied zwischen der bloßen Verdrängung und der wirklichen  Aufhebung einer alten Wunschregung aufmerksam geworden.   bei mehr als einer neurotischen Affektion stießen,  erteilten wir uns die Mahnung, dies Moment doch  nicht zu überschätzen, da es bei dem gewiß mehr  zur Neurose disponierten weiblichen Geschlecht doch  nicht ausschlaggebend sein könnte. Wir sehen jetzt,  daf3 wir nicht in Gefahr sind, die Kastrationsangst für  den einzigen Motor der zur Neurose führenden Abwehr-  vorgänge zu erklären. Ich habe an anderer Stelle  auseinandergesetzt, wie die Entwicklung des kleinen  Mädchens durch den Kastrationskomplex zur zärtlichen  Objektbesetzung gelenkt wird. Gerade beim Weibe  scheint die Gefahrsituation des Objektverlustes die  wirksamste geblieben zu sein. Wir dürfen an ihrer  Angstbedingung die kleine Modifikation anbringen, daß  es sich nicht mehr um das Vermissen oder den realen  Verlust des Objekts handelt, sondern um den Liebes-  verlust von seiten des Objekts. Da es sicher steht,  daß die Hysterie eine größere Affinität zur Weiblich-  keit hat, ebenso wie die Zwangsneurose zur Männlich-  keit, so liegt die Vermutung nahe, die Angstbedingung  des Liebesverlustes spiele bei Hysterie eine ähnliche  Rolle wie die Kastrationsdrohung bei den Phobien,  die Über-Ichangst bei der Zwangsneurose.  IX Was jetzt erübrigt, ist die Behandlung der Be-  ziehungen zwischen Symptombildung und Angst-  entwicklung.   Zwei Meinungen darüber scheinen weit verbreitet  zu sein. Die eine nennt die Angst selbst ein Symptom  der Neurose, die andere glaubt an ein weit innigeres  Verhältnis zwischen beiden. Ihr zufolge würde alle  Symptombildung nur unternommen werden, um der  Angst zu entgehen; die Symptome binden die psychi-  sche Energie, die sonst als Angst abgeführt würde,  so dafß® die Angst das Grundphänomen und Haupt-  problem der Neurose wäre. |   Die zumindest partielle Berechtigung der zweiten  Behauptung läßt sich durch schlagende Beispiele er-  weisen. Wenn man einen Agoraphoben, den man auf  die Straße begleitet hat, dort sich selbst überläßt,  produziert er einen Angstanfall; wenn man einen  Zwangsneurotiker daran hindern läßt, sich nach einer  Berührung die Hände zu waschen, wird er die Beute    MHemmung, Symptom und Angst 93    einer fast unerträglichen Angst. Es ist also klar, die  Bedingung des Begleitetwerdens und die Zwangs-  handlung des Waschens hatten die Absicht und auch  den Erfolg, solche Angstausbrüche zu verhüten. In  diesem Sinne kann auch jede Hemmung, die sich das  Ich auferlegt, Symptom genannt werden.   Da wir die Angstentwicklung auf die Gefahr-  situation zurückgeführt haben, werden wir es vor-  ziehen zu sagen, die Symptome werden geschaffen,  um das Ich der Gefahrsituation zu entziehen. Wird  die Symptombildung verhindert, so tritt die Gefahr  wirklich ein, d. h. es stellt sich jene der Geburt analoge  Situation her, in der sich das Ich hilflos gegen den  stetig wachsenden Triebanspruch findet, also die erste  und ursprünglichste der Angstbedingungen. Für unsere  Anschauung erweisen sich die Beziehungen zwischen  Angst und Symptom weniger eng als angenommen  wurde, die Folge davon, daß wir zwischen beide das  Moment der Gefahrsituation eingeschoben haben. Wir  können auch ergänzend sagen, die Angstentwicklung  leite die Symptombildung ein, ja sie sei eine not-  wendige Voraussetzung derselben, denn wenn das Ich  nicht durch die Angstentwicklung die Lust-Unlust-  Instanz wachrütteln würde, bekäme es nicht die Macht,  den im Es vorbereiteten, gefahrdrohenden Vorgang  aufzuhalten. Dabei ist die,Tendenz unverkennbar, sich  auf ein Mindestmaß von Angstentwicklung zu be-  schränken, die Angst nur als Signal zu verwenden,    94 Sigm. Freud    denn sonst bekäme man die Unlust, die durch den  Triebvorgang droht, nur an anderer Stelle zu spüren,  was kein Erfolg nach der Absicht des Lustprinzips  wäre, sich aber doch bei den Neurosen häufig genug  ereignet.   Die Symptombildung hat also den wirklichen Erfolg,  die Gefahrsituation aufzuheben. Sie hat zwei Seiten;  die eine, die uns verborgen bleibt, stellt im Es jene  Abänderung her, mittels deren das Ich der Gefahr  entzogen wird, die andere uns zugewendete zeigt,  was sie an Stelle des beeinflußten Triebvorganges  geschaffen hat, die Ersatzbildung.   - Wir sollten uns aber korrekter ausdrücken, dem  Abwehrvorgang zuschreiben, was wir eben von der  Symptombildung ausgesagt haben, und den Namen  Symptombildung selbst als synonym mit Ersatzbildung  gebrauchen. Es scheint dann klar, daß der Abwehr-  vorgang analog der Flucht ist, durch die sich das Ich  einer von außen drohenden Gefahr entzieht, daß er  eben einen Fluchtversuch vor einer Triebgefahr darstellt.  Die Bedenken gegen diesen Vergleich werden uns zu  weiterer Klärung verhelfen. Erstens läßt sich ein-  wenden, daß der Objektverlust (der Verlust der Liebe  von seiten des Objekts) und die Kastrationsdrohung  ebensowohl (Gefahren sind, die von außen drohen, wie  etwa ein reißsendes Tier, also nicht Triebgefahren.  Aber es ist doch nicht derselbe Fall. Der Wolf würde  uns wahrscheinlich anfallen, gleichgültig, wie wir uns  gegen ihn benehmen; die geliebte Person würde uns aber  nicht ihre Liebe entziehen, die Kastration uns nicht  angedroht werden, wenn wir nicht bestimmte Gefühle  und Absichten in unserem Inneren nähren würden. So  werden diese Triebregungen zu Bedingungen der  äußeren Gefahr und damit selbst gefährlich, wir können  jetzt die äußere Gefahr durch Maßregeln gegen innere  Gefahren bekämpfen. Bei den Tierphobien scheint die  Gefahr noch durchaus als eine äußerliche empfunden  zu werden, wie sie auch im Symptom eine äußserliche  Verschiebung erfährt. Bei der Zwangsneurose ist sie  weit mehr verinnerlicht, der Anteil der Angst vor dem  Über-Ich, der soziale Angst ist, repräsentiert noch den  innerlichen Ersatz einer äußeren Gefahr, der andere  Anteil, die Gewissensangst, ist durchaus endopsychisch.   Ein zweiter Einwand sagt, beim Fluchtversuch  vor einer drohenden äußeren Gefahr tun wir ja nichts  anderes, als daß wir die Raumdistanz zwischen uns  und dem Drohenden vergrößern. Wir setzen uns ja  nicht gegen die Gefahr zur Wehr, suchen nichts an  ihr selbst zu ändern, wie in dem anderen Falle, daß  wir mit einem Knüttel auf den Wolf losgehen oder  mit einem Gewehr auf ihn schießen. Der Abwehr-  vorgang scheint aber mehr zu tun, als einem Flucht-  versuch entspricht. Er greift ja in den drohenden  Triebablauf ein, unterdrückt ihn irgendwie, lenkt ihn  von seinem Ziel ab, macht ihn dadurch ungefährlich.  Dieser Einwand scheint unabweisbar, wir müssen ihm    96 Siem. Freud    Rechnung tragen. Wir meinen, es wird wohl so sein,  dafß es Abwehrvorgänge gibt, die man mit gutem  Recht einem Fluchtversuch vergleichen kann, während  sich das Ich bei anderen weit aktiver zur Wehre  setzt, energische Gegenaktionen vornimmt. Wenn der  Vergleich der Abwehr mit der Flucht nicht überhaupt  durch den Umstand gestört wird, dafs das Ich und  der Trieb im Es ja Teile derselben Organisation sind,  nicht getrennte Existenzen, wie der Wolf und das Kind,  so daf jede Art Verhaltens des Ichs auch abändernd  auf den Triebvorgang einwirken muß.   Durch das Studium der Angstbedingungen haben  wir das Verhalten des Ichs bei der Abwehr sozusagen  in rationeller Verklärung erblicken müssen. Jede Gefahr-  situation entspricht einer gewissen Lebenszeit oder  Entwicklungsphase des seelischen Apparats und er-  scheint für diese berechtigt. Das frühkindliche Wesen  ist wirklich nicht dafür ausgerüstet, große Erregungs-  summen, die von außen oder innen anlangen, psychisch  zu bewältigen. Zu einer gewissen Lebenszeit ist es  wirklich das wichtigste Interesse, daß die Personen,  von denen man abhängt, ihre zärtliche Sorge nicht  zurückziehen. Wenn der Knabe den mächtigen Vater  als Rivalen bei der Mutter empfindet, seiner aggressiven  Neigungen gegen ihn und seiner sexuellen Absichten  auf die Mutter inne wird, hat er ein Recht dazu, sich  vor ihm zu fürchten, und die Angst vor seiner Strafe  kann durch phylogenetische Verstärkung sich als Kastrationsangst äußern. Mit dem Eintritt in soziale  Beziehungen wird die Angst vor dem Über-Ich, das  Gewissen, zur Notwendigkeit, der Wegfall dieses  Moments die Quelle von schweren Konflikten und  Gefahren usw. Aber gerade daran knüpft sich ein  neues Problem.   Versuchen wir es, den Angstaffekt für eine Weile  durch einen anderen, z. B. den Schmerzaffekt, zu  ersetzen. Wir halten es für durchaus normal, daß das  Mädchen von vier Jahren schmerzlich weint, wenn ihm  eine Puppe zerbricht, mit sechs Jahren, wenn ihm die  Lehrerin einen Verweis gibt, mit sechzehn Jahren,  wenn der Geliebte sich nicht um sie bekümmert, mit  fünfundzwanzig Jahren vielleicht, wenn sie ein Kind  begräbt. Jede dieser Schmerzbedingungen hat ihre  Zeit und erlischt mit deren Ablauf; die letzten, defini-  tiven, erhalten sich dann durchs Leben. Es würde  uns aber auffallen, wenn dies Mädchen als Frau und  Mutter über die Beschädigung einer Nippsache weinen  würde. So benehmen sich aber die Neurotiker. In  ihrem seelischen Apparat sind längst alle Instanzen  zur Reizbewältigung innerhalb weiter Grenzen aus-  gebildet, sie sind erwachsen genug, um die meisten  ihrer Bedürfnisse selbst zu befriedigen, sie wissen längst,  daß die Kastration nicht mehr als Strafe geübt wird,  und doch benehmen sie sich, als bestünden die alten  Gefahrsituationen noch, sie halten an allen früheren  Angstbedingungen fest. Die Antwort hierauf wird etwas weitläufig aus-  fallen. Sie wird vor allem den Tatbestand zu sichten  haben. In einer großen Anzahl von Fällen werden die  alten Angstbedingungen wirklich fallen gelassen, nach-  dem sie bereits neurotische Reaktionen erzeugt haben.  Die Phobien der kleinsten Kinder vor Alleinsein,  Dunkelheit und vor Fremden, die beinahe normal zu  nennen sind, vergehen zumeist in etwas späteren  Jahren, sie ‚wachsen sich aus‘, wie man von manchen  anderen Kindheitsstörungen sagt. Die so häufigen  Tierphobien haben das gleiche Schicksal, viele der  Konversionshysterien der Kinderjahre finden später  keine Fortsetzung. Zeremoniell in der Latenzzeit ist  ein ungemein häufiges Vorkommnis, nur ein sehr  geringer Prozentsatz dieser Fälle entwickelt sich später  zur vollen Zwangsneurose. Die Kinderneurosen sind  überhaupt — soweit unsere Erfahrungen an den  höheren Kulturanforderungen unterworfenen Stadt-  kindern weißer Rasse reichen — regelmäßige Episoden  der Entwicklung, wenngleich ihnen noch immer zu  wenig Aufmerksamkeit geschenkt wird. Man vermißt  die Zeichen der Kindheitsneurose auch nicht bei einem  erwachsenen Neurotiker, während lange nicht alle  Kinder, die sie zeigen, auch später Neurotiker werden.  Es müssen also im Verlaufe der Reifung Angst-  bedingungen aufgegeben worden sein und Gefahr-  situationen ihre Bedeutung verloren haben. Dazu  kommt, daß einige dieser Gefahrsituationen sich da-    Femmung, Symptom und Angst 99    durch in späte Zeiten hinüberretten, daß sie ihre  Angstbedingung zeitgemäß modifizieren. So erhält  sich z. B. die Kastrationsangst unter der Maske der  Syphilisphobie, nachdem man erfahren hat, daß zwar  die Kastration nicht mehr als Strafe für das Gewähren-  lassen der sexuellen Gelüste üblich ist, aber daß  dafür der Triebfreiheit schwere Erkrankungen drohen.  Andere der Angstbedingungen sind überhaupt nicht  zum Untergang bestimmt, sondern sollen den Men-  schen durchs Leben begleiten, wie die der Angst vor  dem Über-Ich. Der Neurotiker unterscheidet sich  dann vor den Normalen dadurch, dafs er die Reak-  tionen auf diese Gefahren übermäßig erhöht. Gegen  die Wiederkehr der ursprünglichen traumatischen  Angstsituation bietet endlich auch das Erwachsensein  keinen zureichenden Schutz; es dürfte für jedermann  eine Grenze geben, über die hinaus sein seelischer  Apparat in der Bewältigung der Erledigung heischen-  den Erregungsmengen versagt.   Diese kleinen Berichtigungen können unmöglich  die Bestimmung haben, an der Tatsache zu rütteln,  die hier erörtert wird, der Tatsache, daf$ so viele  Menschen in ihrem Verhalten zur Gefahr infantil  bleiben und verjährte Angstbedingungen nicht über-  winden; dies bestreiten, hieße die Tatsache der Neu-  rose leugnen, denn solche Personen heifst man eben  Neurotiker. Wie ist das aber möglich? Warum sind  nicht alle Neurosen Episoden der Entwicklung, die mit Erreichung der nächsten Phase abgeschlossen  werden?. Woher das Dauermoment in diesen Reak-  tionen auf die Gefahr? Woher der Vorzug, den der  Angstaffekt vor allen anderen Affekten zu geniefsen  scheint, daß er allein Reaktionen hervorruft, die sich  als abnorm von den anderen sondern und sich als  unzweckmäßig dem Strom des Lebens entgegen-  stellen? Mit anderen Worten, wir finden uns unver-  sehens wieder vor der so oft gestellten Vexierfrage,  woher kommt die Neurose, was ist ihr letztes, das  ihr besondere Motiv? Nach jahrzehntelangen analy-  tischen Bemühungen erhebt sich dies Problem vor  uns, unangetastet, wie zu Anfang.  Die Angst ist die Reaktion auf die Gefahr. Man  kann doch die Idee nicht abweisen, daß es mit dem  Wesen der Gefahr zusammenhängt, wenn sich der  Angstaffekt eine Ausnahmsstellung in der seelischen  Ökonomie erzwingen kann. Aber die Gefahren sind  allgemein menschliche, für alle Individuen die näm-  lichen; was wir brauchen und nicht zur Verfügung  haben, ist ein Moment, das uns die Auslese der Indi-  viduen verständlich macht, die den Angstaffekt trotz  seiner Besonderheit dem normalen seelischen Betrieb  unterwerfen können, oder das bestimmt, wer an dieser  Aufgabe scheitern muß. Ich sehe zwei Versuche vor  mir, ein solches Moment aufzudecken; es ist begreif-  lich, daß jeder solche Versuch eine sympathische  Aufnahme erwarten darf, da er einem quälenden Be-  dürfnis Abhilfe verspricht. Die beiden Versuche  ergänzen einander, indem sie das Problem an ent-  gegengesetzten Enden angreifen. Der erste ist vor  mehr als zehn Jahren von Alfred Adler unternommen worden; er behauptet, auf seinen innersten  Kern reduziert, daf3 diejenigen Menschen an der  Bewältigung der durch die Gefahr gestellten Aufgabe  scheitern, denen die Minderwertigkeit ihrer Organe  zu große Schwierigkeiten bereitet. Bestünde der Satz  Simplex sigillum veri zurecht, so müßte man eine  solche Lösung wie eine Erlösung begrüßen. Aber  im Gegenteile, die Kritik des abgelaufenen Jahrzehnts  hat die volle Unzulänglichkeit dieser Erklärung, die  sich überdies über den ganzen Reichtum der von der  Psychoanalyse aufgedeckten Tatbestände hinaussetzt,  beweisend dargetan.   Den zweiten Versuch hat Otto Rank 1923 in  seinem Buch ‚Das Trauma der Geburt‘ unternommen.  Es wäre unbillig, ihn dem Versuch von Adler in  einem anderen Punkte als dem einen hier betonten  gleichzustellen, denn er bleibt auf dem Boden der  Psychoanalyse, deren Gedankengänge er fortsetzt und  ist als eine legitime Bemühung zur Lösung der ana-  Iytischen Probleme anzuerkennen. In der gegebenen  Relation zwischen Individuum und Gefahr lenkt Rank  von der Organschwäche des Individuums ab und aut  die veränderliche Intensität der Gefahr hin. Der  Geburtsvorgang ist die erste Gefahrsituation, der von  ihm produzierte ökonomische Aufruhr wird das Vor-  bild der Angstreaktion;, wir haben vorhin die Ent-  wicklungslinie verfolgt, welche diese erste Gefahr-  situation und Angstbedingung mit allen späteren verbindet, und dabei gesehen, daß sie alle etwas Ge-  meinsames bewahren, indem sie alle in gewissem  Sinne eine Trennung von der Mutter bedeuten, zuerst  nur in biologischer Hinsicht, dann im Sinn eines  direkten Objektverlustes und später eines durch in-  direkte Wege vermittelten. Die Aufdeckung dieses  großsen Zusammenhanges ist ein unbestrittenes Ver-  dienst der Rankschen Konstruktion. Nun trifft das  Trauma der Geburt die einzelnen Individuen in ver-  schiedener Intensität, mit der Stärke des Traumas  variiert die Heftigkeit der Angstreaktion, und es soll  nach Rank von dieser Anfangsgröße der Angst-  entwicklung abhängen, ob das Individuum jemals ihre  Beherrschung erlernen kann, ob es neurotisch wird  oder normal.   Die Einzelkritik der Rankschen Aufstellungen ist  nicht unsere Aufgabe, bloß deren Prüfung, ob sie zur  Lösung unseres Problems brauchbar sind. Die Formel  Ranks, Neurotiker werde der, dem es wegen der  Stärke des Geburtstraumas niemals gelinge, dieses  völlig abzureagieren, ist theoretisch höchst anfechtbar.  Man weiß nicht recht, was mit dem Abreagieren des  Traumas gemeint ist. Versteht man es wörtlich, so  kommt man zu dem unhaltbaren Schluß, daß der  Neurotiker sich um so mehr der Gesundung nähert,  je häufiger und intensiver er den Angstaffekt repro-  duziert. Wegen dieses Widerspruches mit der Wirk-  lichkeit hatte ich ja seinerzeit die Theorie des Abreagierens aufgegeben, die in der Katharsis eine so  große Rolle spielte. Die Betonung der wechselnden  Stärke des Geburtstraumas läßt keinen Raum für den  berechtigten ätiologischen Anspruch der hereditären  Konstitution. Sie ist ja ein organisches Moment,  welches sich gegen die Konstitution wie eine Zu-  fälligkeit verhält und selbst von vielen, zufällig zu  nennenden Einflüssen, z. B. von der rechtzeitigen  Hilfeleistung bei der Geburt abhängig ist. Die Rank-  sche Lehre hat konstitutionelle wie phylogenetische  Faktoren überhaupt außer Betracht gelassen. Will  man aber für die Bedeutung der Konstitution Raum  schaffen, etwa durch die Modifikation, es käme viel  mehr darauf an, wie ausgiebig das Individuum auf die  variable Intensität des Geburtstraumas reagiere, SO  hat man der Theorie ihre Bedeutung geraubt, und  den neu eingeführten Faktor auf eine Nebenrolle ein-  geschränkt. Die Entscheidung über den Ausgang in  Neurose liegt dann doch auf einem anderen, wiederum  auf einem unbekannten Gebiet.   Die Tatsache, daß der Mensch den Geburtsvor-  gang mit den anderen Säugetieren gemein hat,  während ihm eine besondere Disposition zur Neurose  als Vorrecht vor den Tieren zukommt, wird kaum  günstig für die Ranksche Lehre stimmen. Der Haupt-  einwand bleibt aber, daß sie in der Luft schwebt,  anstatt sich auf gesicherte Beobachtung zu stützen. Es  gibt keine guten Untersuchungen darüber, ob schwere    Aemmung, Symptom und Angst und protrahierte Geburt in unverkennbarer Weise mit  Entwicklung von Neurose zusammentreffen, ja, ob so  geborene Kinder nur die Phänomene der frühinfantilen  Ängstlichkeit länger oder stärker zeigen als andere.  Macht man geltend, daf präzipitierte und für die  Mutter leichte Geburten für das Kind möglicher-  weise die Bedeutung von schweren Traumen haben,  so bleibt doch die Forderung aufrecht, dafS Geburten,  die zur Asphyxie führen, die behaupteten Folgen mit  Sicherheit erkennen lassen müßten. Es scheint ein  Vorteil der Rankschen Ätiologie, daß sie ein Moment  voranstellt, das der Nachprüfung am Material der  Erfahrung zugänglich ist; solange man eine solche  Prüfung nicht wirklich vorgenommen hat, ist es  unmöglich, ihren Wert zu beurteilen.   Dagegen kann ich mich der Meinung nicht an-  schließen, daß die Ranksche Lehre der bisher in der  Psychoanalyse anerkannten ätiologischen Bedeutung  der Sexualtriebe widerspricht; denn sie bezieht sich  nur auf das Verhältnis des Individuums zur Gefahr-  situation und läßt die gute Auskunft offen, dafs, wer  die anfänglichen Gefahren nicht bewältigen konnte,  auch in den später auftauchenden Situationen sexueller  Gefahr versagen muß und dadurch in die Neurose  gedrängt wird.   Ich glaube also nicht, daß der Ranksche Versuch  uns die Antwort auf die Frage nach der Begründung  der Neurose gebracht hat, und ich meine, es läfst sich noch nicht entscheiden, einen wie großen Beitrag zur  Lösung der Frage er doch enthält. Wenn die Unter-  suchungen über den Einfluß schwerer Geburt auf die  Disposition zu Neurosen negativ ausfallen, ist dieser  Beitrag gering einzuschätzen. Es ist sehr zu besorgen,  daß das Bedürfnis nach einer greifbaren und einheit-  lichen ‚letzten Ursache‘‘ der Nervosität immer un-  befriedigt bleiben wird. Der ideale Fall, nach dem  sich der Mediziner wahrscheinlich noch heute sehnt,  wäre der des Bazillus, der sich isolieren und reinzüchten  läßt, und dessen Impfung bei jedem Individuum die  nämliche Affektion hervorruft. Oder etwas weniger  phantastisch: die Darstellung von chemischen Stoffen,  deren Verabreichung bestimmte Neurosen produziert und  aufhebt. Aber die Wahrscheinlichkeit spricht nicht für  solche Lösungen des Problems.   Die Psychoanalyse führt zu weniger einfachen,  minder befriedigenden Auskünften. Ich habe hier nur  längst Bekanntes zu wiederholen, nichts Neues hinzu-  zufügen. Wenn es dem Ich gelungen ist, sich einer  gefährlichen Triebregung zu erwehren, z. B. durch  den Vorgang der Verdrängung, so hat es diesen Teil  des Es zwar gehemmt und geschädigt, aber ihm  gleichzeitig auch ein Stück Unabhängigkeit gegeben  und auf ein Stück seiner eigenen Souveränität ver-  zichtet. Das folgt aus der Natur der Verdrängung,  die im Grunde ein Fluchtversuch ist. Das Verdrängte  ist nun „vogelfrei‘, ausgeschlossen aus der großen Organisation des Ichs, nur den Gesetzen unterworfen,  die im Bereich des Unbewußten herrschen. Ändert  sich nun die Gefahrsituation, so daß das Ich kein  Motiv zur Abwehr einer neuerlichen, der verdrängten  analogen Triebregung hat, so werden die Folgen der  Icheinschränkung manifest. Der neuerliche Triebablauf  vollzieht sich unter dem Einfluß des Automatismus,  — ich zöge vor zu sagen: des Wiederholungszwanges,  — er wandelt dieselben Wege wie der früher ver-  drängte, als ob die überwundene Gefahrsituation noch  bestünde. Das fixierende Moment an der Verdrängung  ist also der Wiederholungszwang des unbewufsten Es,  der normalerweise nur durch die frei bewegliche  Funktion des Ichs aufgehoben wird. Nun mag es  dem Ich mitunter gelingen, die Schranken der Ver-  drängung, die es selbst aufgerichtet, wieder ein-  zureißßen, seinen Einfluß auf die Triebregung wieder-  zugewinnen und den neuerlichen Triebablauf im Sinne  der veränderten Gefahrsituation zu lenken. Tatsache  ist, daß es ihm so oft mißlingt, und daß es seine  Verdrängungen nicht rückgängig machen kann. Quanti-  tative Relationen mögen für den Ausgang dieses  Kampfes maßgebend sein. In manchen Fällen haben  wir den Eindruck, daf die Entscheidung eine zwangs-  läufige ist, die regressive Anziehung der verdrängten  Regung und die Stärke der Verdrängung sind so groß,  daß die neuerliche Regung nur dem Wiederholungs-  zwange folgen kann. In anderen Fällen nehmen wir den Beitrag eines anderen Kräftespiels wahr, die An-  ziehung des verdrängten Vorbilds wird verstärkt durch  die Abstoßung von Seiten der realen Schwierigkeiten,  die sich einem anderen Ablauf der neuerlichen Trieb-  regung entgegensetzen.   Dafß dies der Hergang der Fixierung an die Ver-  drängung und der Erhaltung der nicht mehr aktuellen  Gefahrsituation ist, findet seinen Erweis in der an  sich bescheidenen, aber theoretisch kaum überschätz-  baren Tatsache der analytischen Therapie. Wennwir  dem Ich in der Analyse die Hilfe leisten, die es in  den Stand setzen kann, seine Verdrängungen aufzu-  heben, bekommt es seine Macht über das verdrängte  Es wieder und kann die Triebregungen so ablaufen  lassen, als ob die alten Gefahrsituationen nicht mehr  bestünden. Was wir so erreichen, steht in gutem  Einklang mit dem sonstigen Machtbereich unserer  ärztlichen Leistung. In der Regel muß sich ja unsere  Iherapie damit begnügen, rascher, verläßlicher, mit  weniger Aufwand den guten Ausgang herbeizuführen,  der sich unter günstigen Verhältnissen spontan ergeben  hätte.   Die bisherigen Erwägungen lehren uns, es sind  quantitative Relationen, nicht direkt aufzuzeigen, nur  auf dem Wege des Rückschlusses faßbar, die darüber  entscheiden, ob die alten Gefahrsituationen festgehalten  werden, ob die Verdrängungen des Ichs erhalten  bleiben, ob die Kinderneurosen ihre Fortsetzung finden oder nicht. Von den Faktoren, die an der  Verursachung der Neurosen beteiligt sind, die die  Bedingungen geschaffen haben, unter denen sich die  psychischen Kräfte mit einander messen, heben sich  für unser Verständnis drei hervor, ein biologischer,  ein phylogenetischer und ein rein psychologischer. Der  biologische ist die lang hingezogene Hilflosigkeit und  Abhängigkeit des kleinen Menschenkindes. Die Intrau-  terinexistenz des Menschen erscheint gegen die der  meisten Tiere relativ verkürzt; es wird unfertiger als  diese in die Welt geschickt. Dadurch wird der Ein-  fluß der realen Aufßenwelt verstärkt, die Differen-  zierung des Ichs vom Es frühzeitig gefördert, die  Gefahren der Außenwelt in ihrer Bedeutung er-  höht und der Wert des Objekts, das allein gegen  diese Gefahren schützen und das verlorene Intrau-  terinleben ersetzen kann, enorm gesteigert. Dies bio-  logische Moment stellt also die ersten Gefahrsituationen  her und schafft das Bedürfnis, geliebt zu werden, das  den Menschen nicht mehr verlassen wird.   Der zweite, phylogenetische, Faktor ist von uns  nur erschlossen worden; eine sehr merkwürdige Tat-  sache der Libidoentwicklung hat uns zu seiner An-  nahme gedrängt. Wir finden, daß das Sexualleben  des Menschen sich nicht wie das der meisten ihm  nahestehenden Tiere vom Anfang bis zur Reifung  stetig weiter entwickelt, sondern daß) es nach einer  ersten Frühblüte bis zum fünften Jahr eine energische   Siem. Ireud    Unterbrechung erfährt, worauf es dann mit der  Pubertät von neuem anhebt und an die infantilen  Ansätze anknüpft. Wir meinen, es müßte in den  Schicksalen der Menschenart etwas Wichtiges vorge-  fallen sein, was diese Unterbrechung der Sexualent-  wicklung als historischen Niederschlag hinterlassen hat.  Die pathogene Bedeutung dieses Moments ergibt sich  daraus, dafß die meisten Triebansprüche dieser kind-  lichen Sexualität vom Ich als Gefahren behandelt und  abgewehrt werden, so daf die späteren sexuellen  Regungen der Pubertät, die ichgerecht sein sollten,  in Gefahr sind, der Anziehung der infantilen Vorbilder  zu unterliegen und ihnen in die Verdrängung zu folgen.  Hier stoßen wir auf die direkteste Ätiologie der Neu-  rosen. Es ist merkwürdig, daß der frühe Kontakt mit  den Ansprüchen der Sexualität auf das Ich ähnlich  wirkt, wie die vorzeitige Berührung mit der Aufßen-  welt.   Der dritte oder psychologische Faktor ist in einer  Unvollkommenheit unseres seelischen Apparates zu  finden, die gerade mit seiner Differenzierung in ein  Ich und ein Es zusammenhängt, also in letzter Linie  auch auf den Einfluß der Außenwelt zurückgeht. Durch  die Rücksicht auf die Gefahren der Realität wird das  Ich genötigt, sich gegen gewisse Triebregungen des  Es zur Wehre zu setzen, sie als Gefahren zu be-  handeln. Das Ich kann sich aber gegen innere Trieb-  gefahren nicht in so wirksamer Weise schützen wie    Flemmung, Symptom und Angst III    gegen ein Stück der ihm fremden Realität. Mit dem  Es selbst innig verbunden, kann es die Triebgefahr  nur abwehren, indem es seine eigene Organisation ein-  schränkt und sich die Symptombildung als Ersatz für  seine Beeinträchtigung des Triebes gefallen läßt. Er-  neuert sich dann der Andrang des abgewiesenen  Triebes, so ergeben sich für das Ich alle die Schwierig-  keiten, die wir als das neurotische Leiden kennen.   Weiter muß ich glauben, ist unsere Einsicht in das  Wesen und die Verursachung der Neurosen vorläufig  nicht gekommen. Im Laufe dieser Erörterungen sind verschiedene  Themen berührt worden, die vorzeitig verlassen werden  mußten und die jetzt gesammelt werden sollen, um  den Anteil Aufmerksamkeit zu erhalten, auf den sie  Anspruch haben.    A MODIFIKATIONEN FRÜHER GEÄUSSERTER  ANSICHTEN    a) Widerstand und Gegenbesetzung    Es ist ein wichtiges Stück der Theorie der Ver-  drängung, daß sie nicht einen einmaligen Vorgang dar-  stellt, sondern einen dauernden Aufwand erfordert.  Wenn dieser entfiele, würde der verdrängte Trieb,  der kontinuierlich Zuflüsse aus seinen Quellen erhält,  ein nächstes Mal denselben Weg einschlagen, von dem  er abgedrängt wurde, die Verdrängung würde um  ihren Erfolg gebracht oder sie müßte unbestimmt oft wiederholt werden. So folgt aus der kontinuierlichen  Natur des’ Triebes die Anforderung an das Ich, seine  Abwehraktion durch einen Daueraufwand zu versichern.  Diese Aktion zum Schutz der Verdrängung ist es, die  wir bei der therapeutischen Bemühung als Wider-  stand verspüren. Widerstand setzt das voraus, was  ich als Gegenbesetzung bezeichnet habe. Eine  solche Gegenbesetzung wird bei der Zwangsneurose  greifbar. Sie erscheint hier als Ichveränderung, als  Reaktionsbildung im Ich, durch Verstärkung jener Ein-  stellung, welche der zu verdrängenden Triebrichtung  gegensätzlich ist (Mitleid, Gewissenhaftigkeit, Reinlich-  keit). Diese Reaktionsbildungen der Zwangsneurose sind  durchwegs Übertreibungen normaler, im Verlauf der  Latenzzeit entwickelter Charakterzüge. Es ist weit  schwieriger, die Gegenbesetzung bei der Hysterie auf-  zuweisen, wo sie nach der theoretischen Erwartung  ebenso unentbehrlich ist. Auch hier ist ein gewisses  Maß von Ichveränderung durch Reaktionsbildung un-  verkennbar und wird in manchen Verhältnissen so auf-  fällig, daß es sich der Aufmerksamkeit als das Haupt-  symptom des Zustandes aufdrängt. In solcher Weise  wird z. B. der Ambivalenzkonflikt der Hysterie gelöst,  der Haß gegen eine geliebte Person wird durch ein  Übermaß von Zärtlichkeit für sie und AÄngstlichkeit  um sie niedergehalten. Man muß aber als Unter-  schiede gegen die Zwangsneurose hervorheben, daß  solche Reaktionsbildungen nicht die allgemeine Natur    8  Freud: Hemmung, Symptom und Angst  von Charakterzügen zeigen, sondern sich auf ganz  spezielle Relationen einschränken. Die Hysterika z. B.,  die ihre im Grunde gehafstten Kinder mit exzessiver  Zärtlichkeit behandelt, wird darum nicht im ganzen  liebesbereiter als andere Frauen, nicht einmal zärt-  licher für andere Kinder. Die Reaktionsbildung der  Hysterie hält an einem bestimmten Objekt zähe fest  und erhebt sich nicht zu einer allgemeinen Dis-  position des Ichs. Für die Zwangsneurose ist gerade  diese Verallgemeinerung, die Lockerung der Objekt-  beziehungen, die Erleichterung der Verschiebung in  der Objektwahl charakteristisch.   Eine andere Art der Gegenbesetzung scheint der  Eigenart der Hysterie gemäfßser zu sein. Die verdrängte  Triebregung kann von zwei Seiten her aktiviert (neu  besetzt) werden, erstens von innen her durch eine  Verstärkung des Triebes aus seinen inneren Erregungs-  quellen, zweitens von außen her durch die Wahr-  nehmung eines Objekts, das dem Trieb erwünscht  wäre. Die hysterische Gegenbesetzung ist nun vor-  zugsweise nach außen gegen die gefährliche Wahr-  nehmung gerichtet, sie nimmt die Form einer beson-  deren Wachsamkeit an, die durch Icheinschrän-  kungen Situationen vermeidet, in denen die Wahr-  nehmung auftreten müßte, und die es zustande bringt,  dieser Wahrnehmung die Aufmerksamkeit zu ent-  ziehen, wenn sie doch aufgetaucht ist. Französische  Autoren (Laforgue) haben kürzlich diese Leistung der Hysterie durch den besonderen Namen ‚Skoto-  misation ausgezeichnet. Noch auffälliger als bei  Hysterie ist diese Technik der Gegenbesetzung bei  den Phobien, deren Interesse sich darauf konzentriert,  sich immer weiter von der Möglichkeit der gefürch-  teten Wahrnehmung zu entfernen. Der Gegensatz in  der Richtung der Gegenbesetzung zwischen Hysterie  und Phobien einerseits und Zwangsneurose ander-  seits scheint bedeutsam, wenn er auch kein absoluter  ist. Er legt uns nahe anzunehmen, dafs zwischen der  Verdrängung und der äußeren Gegenbesetzung, wie  zwischen der Regression und der inneren Gegen-  besetzung (Ichveränderung durch Reaktionsbildung)  ein innigerer Zusammenhang besteht. Die Abwehr der  gefährlichen Wahrnehmung ist übrigens eine allgemeine  Aufgabe der Neurosen. Verschiedene Gebote und  Verbote der Zwangsneurose sollen der gleichen Ab-  sicht dienen.   Wir haben uns früher einmal klargemacht, dafs  der Widerstand, den wir in der Analyse zu über-  winden haben, vom Ich geleistet wird, das an seinen  Gegenbesetzungen festhält. Das Ich hat es schwer,  seine Aufmerksamkeit Wahrnehmungen und Vorstel-  lungen zuzuwenden, deren Vermeidung es sich bisher  zur Vorschrift gemacht hatte, oder Regungen als die  seinigen anzuerkennen, die den vollsten Gegensatz zu  den ihm als eigen vertrauten bilden. Unsere Bekämp-  fung des Widerstandes in der Analyse gründet sich  auf eine solche Auffassung desselben. Wir machen  den Widerstand bewufst, wo er, wie so häufig, infolge  des Zusammenhanges mit dem Verdrängten selbst  unbewußt ist; wir setzen ihm logische Argumente ent-  gegen, wenn oder nachdem er bewußt geworden ist,  versprechen dem Ich Nutzen und Prämien, wenn es  auf den Widerstand verzichtet. An dem Widerstand  des Ichs ist also nichts zu bezweifeln oder zu be-  richtigen. Dagegen fragt es sich, ob er allein den  Sachverhalt deckt, der uns in der Analyse entgegen-  tritt. Wir machen die Erfahrung, daß das Ich noch  immer Schwierigkeiten findet, die Verdrängungen rück-  gängig zu machen, auch nachdem es den Vorsatz  gefaßt hat, seine Widerstände aufzugeben, und haben  die Phase anstrengender Bemühung, die nach solchem  löblichen Vorsatz folgt, als die des ‚„Durcharbeitens“  bezeichnet. Es liegt nun nahe, das dynamische Moment  anzuerkennen, das ein solches Durcharbeiten notwendig  und verständlich macht. Es kann kaum anders sein,  als dafß® nach Aufhebung des Ichwiderstandes noch  die Macht des Wiederholungszwanges, die Anziehung  der unbewußstten Vorbilder auf den verdrängten Trieb-  vorgang, zu überwinden ist, und es ist nichts dagegen  zu sagen, wenn man dies Moment als den Wider-  stand des Unbewußten bezeichnen will. Lassen  wir uns solche Korrekturen nicht verdrießen; sie sind  erwünscht, wenn sie unser Verständnis um ein Stück  fördern, und keine Schande, wenn sie das frühere nicht widerlegen, sondern bereichern, eventuell eine  Allgemeinheit einschränken, eine zu enge Auffassung  erweitern.   Es ist nicht anzunehmen, daß wir durch diese  Korrektur eine vollständige Übersicht über die Arten  der uns in der Analyse begegnenden Widerstände  gewonnen haben. Bei weiterer Vertiefung merken wir  vielmehr, daß wir fünf Arten des Widerstandes zu  bekämpfen haben, die von drei Seiten herstammen,  nämlich vom Ich, vom Es und vom Über-Ich, wobei  sich das Ich als die Quelle von drei in ihrer Dynamik  unterschiedenen Formen erweist. Der erste dieser drei  Ichwiderstände ist der vorhin behandelte Ver-  drängungswiderstand, über den am wenigsten  Neues zu sagen ist. Von ihm sondert sich der Über-  tragungswiderstand, der von der gleichen Natur  ist, aber in der Analyse andere und weit deutlichere  Erscheinungen macht, da es ihm gelungen ist, eine  Beziehung zur analytischen Situation oder zur Person  des Analytikers herzustellen und somit eine Ver-  drängung, die blof3 erinnert werden sollte, wieder wie  frisch zu beleben. Auch ein Ichwiderstand, aber ganz  anderer Natur, ist jener, der vom Krankheitsgewinn  ausgeht und sich auf die Einbeziehung des Symptoms  ins Ich gründet. Er entspricht dem Sträuben gegen  den Verzicht auf eine Befriedigung oder Erleichterung.  Die vierte Art des Widerstandes — den des Es —  haben wir eben für die Notwendigkeit des Durcharbeitens verantwortlich gemacht. Der fünfte Wider-  stand, der des Über-Ichs, der zuletzt erkannte,  dunkelste, aber nicht immer schwächste, scheint dem  Schuldbewußtsein oder Strafbedürfnis zu entstammen;  er widersetzt sich jedem Erfolg und demnach auch  der Genesung durch die Analyse.    6) Angst aus Umwandlung von Libido    Die in diesem Aufsatz vertretene Auffassung der  Angst entfernt sich ein Stück weit von jener, die mir  bisher berechtigt schien. Früher betrachtete ich die  Angst als eine allgemeine Reaktion des Ichs unter  den Bedingungen der Unlust, suchte ihr Auftreten  jedesmal ökonomisch zu rechtfertigen und nahm an,  gestützt auf die Untersuchung der Aktualneurosen,  daß Libido (sexuelle Erregung), die vom Ich abge-  lehnt oder nicht verwendet wird, eine direkte Abfuhr  in der Form der Angst findet. Man kann es nicht  übersehen, daß diese verschiedenen Bestimmungen  nicht gut zusammengehen, zum mindesten nicht not-  wendig aus einander folgen. Überdies ergab sich der  Anschein einer besonders innigen Beziehung von Angst  und Libido, die wiederum mit dem Allgemeincharakter  der Angst als Unlustreaktion nicht harmonierte.   Der Einspruch gegen diese Auffassung ging von  der Tendenz aus, das Ich zur alleinigen Angststätte  zu machen, war also eine der Folgen der im ‚Ich  und Es‘ versuchten Gliederung des seelischen Apparates. Der früheren Auffassung lag es nahe, die Libido  der verdrängten Triebregung als die Quelle der Angst  zu betrachten; nach der neueren hatte vielmehr das  Ich für diese Angst aufzukommen. Also Ichangst oder  Trieb-(Es-)Angst. Da das Ich mit desexualisierter  Energie arbeitet, wurde in der Neuerung auch der  intime Zusammenhang von Angst und Libido gelockert.  Ich hoffe, es ist mir gelungen, wenigstens den Wider-  spruch klar zu machen, die Umrisse der Unsicherheit  scharf zu zeichnen.   Die Ranksche Mahnung, der Angstaffekt sei,  wie ich selbst zuerst behauptete, eine Folge des  Geburtsvorganges und eine Wiederholung der damals  durchlebten Situation, nötigte zu einer neuerlichen  Prüfung des Angstproblems. Mit seiner eigenen Auf-  fassung der Geburt als Trauma, des Angstzustandes  als Abfuhrreaktion darauf, jedes neuerlichen Angst-  affekts als Versuch, das Trauma immer vollständiger  „abzureagieren“, konnte ich nicht weiter kommen. Es  ergab sich die Nötigung, von der Angstreaktion auf  die Gefahrsituation hinter ihr zurückzugehen.  Mit der Einführung dieses Moments ergaben sich  neue Gesichtspunkte für die Betrachtung. Die Geburt  wurde das Vorbild für alle späteren Grefahrsituationen,  die sich unter den neuen Bedingungen der veränderten  Existenzform und der fortschreitenden psychischen  Entwicklung ergaben. Ihre eigene Bedeutung wurde  aber auch auf diese vorbildliche Beziehung zur Gefahr   Siem. Freud    eingeschränkt. Die bei der Geburt empfundene Angst  wurde nun das Vorbild eines Affektzustandes, der die  Schicksale anderer Affekte teilen mußte. Er reprodu-  zierte sich entweder automatisch in Situationen, die  seinen Ursprungssituationen analog waren, als unzweck-  mäßige Reaktionsform, nachdem er in der ersten  Gefahrsituation zweckmäßig gewesen war. Oder das  Ich bekam Macht über diesen Affekt und reproduzierte  ihn selbst, bediente sich seiner als Warnung vor der  Gefahr und als Mittel, das Eingreifen des Lust-Unlust-  mechanismus wachzurufen. Die biologische Bedeutung  des Angstaffekts kam zu ihrem Recht, indem die  Angst als die allgemeine Reaktion auf die Situation  der Gefahr anerkannt wurde; die Rolle des Ichs als  Angststätte wurde bestätigt, indem dem Ich die Funk-  tion eingeräumt wurde, den Angstaffekt nach seinen  Bedürfnissen zu produzieren. Der Angst wurden so  im späteren Leben zweierlei Ursprungsweisen zuge-  wiesen, die eine ungewollt, automatisch, jedesmal öko-  nomisch gerechtfertigt, wenn sich eine Gefahrsituation  analog jener der Geburt hergestellt hatte, die andere,  vom Ich produzierte, wenn eine solche Situation nur  drohte, um zu ihrer Vermeidung aufzufordern. In  diesem zweiten Fall unterzog sich das Ich der Angst  gleichsam wie einer Impfung, um durch einen abge-  schwächten Krankheitsausbruch einem ungeschwächten  Anfall zu entgehen. Es stellte sich gleichsam die Ge-  fahrsituation lebhaft vor, bei unverkennbarer Tendenz,    FAemmung, Symptom und Angst dies peinliche Erleben auf eine Andeutung, ein Signal,  zu beschränken. Wie sich dabei die verschiedenen  Grefahrsituationen nacheinander entwickeln und doch  genetisch mit einander verknüpft bleiben, ist bereits  im einzelnen dargestellt worden. Vielleicht gelingt es  uns, ein Stück weiter ins Verständnis der Angst ein-  zudringen, wenn wir das Problem des Verhältnisses  zwischen neurotischer Angst und Realangst angreifen.   Die früher behauptete direkte Umsetzung der Libido  in Angst ist unserem Interesse nun weniger bedeut-  sam geworden. Ziehen wir sie doch in Erwägung, so  haben wir mehrere Fälle zu unterscheiden. Für die  Angst, die das Ich als Signal provoziert, kommt sie  nicht in Betracht; also auch nicht in all den Gefahr-  situationen, die das Ich zur Einleitung einer Ver-  drängung bewegen. Die libidinöse Besetzung der ver-  drängten Triebregung erfährt, wie man es am deut-  lichsten bei der Konversionshysterie sieht, eine andere  Verwendung als die Umsetzung in und Abfuhr als  Angst. Hingegen werden wir bei der weiteren Dis-  kussion der Gefahrsituation auf jenen Fall der Angst-  entwicklung stoßen, der wahrscheinlich anders zu    beurteilen ist.  c) Verdrängung und Abwehr    Im Zusammenhange der Erörterungen über das  Angstproblem habe ich einen Begriff — oder beschei-  dener ausgedrückt: einen Terminus — wieder auf-  Siem. Freud    genommen, dessen ich mich zu Anfang meiner Studien  vor dreißig Jahren ausschließend bedient und den ich  späterhin fallen gelassen hatte. Ich meine den des  Abwehrvorganges.” Ich ersetzte ihn in der Folge durch  den der Verdrängung, das Verhältnis zwischen beiden  blieb aber unbestimmt. Ich meine nun, es bringt einen  sicheren Vorteil, auf den alten Begriff der Abwehr  zurückzugreifen, wenn man dabei festsetzt, daß er die  allgemeine Bezeichnung für alle die Techniken sein  soll, deren sich das Ich in seinen eventuell zur Neu-  rose führenden Konflikten bedient, während Verdrän-  gung der Name einer bestimmten solchen Abwehr-  methode bleibt, die uns infolge der Richtung unserer  Untersuchungen zuerst besser bekannt worden ist.  Auch eine bloß terminologische Neuerung will  gerechtfertigt werden, soll der Ausdruck einer neuen  Betrachtungsweise oder einer Erweiterung unserer Ein-  sichten sein. Die Wiederaufnahme des Begriffes Ab-  wehr und die Einschränkung des Begriffes der Ver-  drängung trägt nun einer Tatsache Rechnung, die  längst bekannt ist, aber durch einige neuere Funde an  Bedeutung gewonnen hat. Unsere ersten Erfahrungen  über Verdrängung und Symptombildung machten wir  an der Hysterie; wir sahen, daß der Wahrnehmungs-  inhalt erregender Erlebnisse, der Vorstellungsinhalt  pathogener Gedankenbildungen vergessen und von der    1) Siehe: Die Abwehr-Neuropsychosen, Ges, Schriften, Bd. 1. Reproduktion im Gedächtnis ausgeschlossen wird, und  haben darum in der Abhaltung vom Bewußtsein einen  Hauptcharakter der hysterischen Verdrängung erkannt.  Später haben wir die Zwangsneurose studiert und  gefunden, daß bei dieser Affektion die pathogenen  Vorfälle nicht vergessen werden. Sie bleiben be-  wußt, werden aber auf eine noch nicht vor-  stellbare Weise ‚isoliert‘, so daß ungefähr der-  selbe Erfolg erzielt wird wie durch die hysterische  Amnesie. Aber die Differenz ist groß genug, um  unsere Meinung zu berechtigen, der Vorgang, mittels  dessen die Zwangsneurose einen Triebanspruch be-  seitigt, könne nicht der nämliche sein wie bei  Hysterie. Weitere Untersuchungen haben uns gelehrt,  daß bei der Zwangsneurose unter dem Einfluß des  Ichsträubens eine Regression der Triebregungen auf  eine frühere Libidophase erzielt wird, die zwar eine  Verdrängung nicht überflüssig macht, aber offenbar in  demselben Sinne wirkt wie die Verdrängung. Wir  haben ferner gesehen, dafß die auch bei Hysterie an-  zunehmende Gegenbesetzung bei der Zwangsneurose  als reaktive Ichveränderung eine besonders große Rolle  beim Ichschutz spielt, wir sind auf ein Verfahren der  „Isolierung‘‘ aufmerksam worden, dessen Technik wir  noch nicht angeben können, das sich einen direkten  symptomatischen Ausdruck schafft, und auf die magisch  zu nennende Prozedur des „Ungeschehenmachens‘, über  deren abweisende Tendenz kein Zweifel sein kann, die  Sigm. Freud    aber mit dem Vorgang der ‚Verdrängung‘ keine  Ähnlichkeit mehr hat. Diese Erfahrungen sind Grund  genug, den alten Begriff der Abwehr wieder einzu-  setzen, der alle diese Vorgänge mit gleicher Tendenz  — Schutz des Ichs gegen Triebansprüche — umfassen  kann, und ihm die Verdrängung als einen Spezialfall  zu subsumieren. Die Bedeutung einer solchen Namen-  gebung wird erhöht, wenn man die Möglichkeit erwägt,  daf3 eine Vertiefung unserer Studien eine innige Zu-  sammengehörigkeit zwischen besonderen Formen der  Abwehr und bestimmten Affektionen ergeben könnte,  z. B. zwischen Verdrängung und Hysterie. Unsere  Erwartung richtet sich ferner auf die Möglichkeit einer  anderen bedeu samen Abhängigkeit. Es kann leicht  sein, daßß der seelische Apparat vor der scharfen  Sonderung von Ich und Es, vor der Ausbildung eines  Über-Ichs, andere Methoden der Abwehr übt als nach  der Erreichung dieser Organisationsstufen.  Der Angstaffekt zeigt einige Züge, deren Unter-  suchung weitere Aufklärung verspricht. Die Angst hat  eine unverkennbare Beziehung zur Erwartung; sie  ist Angst vor etwas. Es haftet ihr ein Charakter von  Unbestimmtheit und Objektlosigkeit an; der    Femmung, Symptom und Angst 125    korrekte Sprachgebrauch ändert selbst ihren Namen,  wenn sie ein Objekt gefunden hat, und ersetzt ihn  dann durch Furcht. Die Angst hat ferner außer ihrer  Beziehung zur Gefahr eine andere zur Neurose, um  deren Aufklärung wir uns seit langem bemühen. Es  entsteht die Frage, warum nicht alle Angstreaktionen  neurotisch sind, warum wir so viele als normal aner-  kennen; endlich verlangt der Unterschied von Real-  angst und neurotischer Angst nach gründlicher Wür-  digung.   Gehen wir von der letzteren Aufgabe aus. Unser  Fortschritt bestand in dem Rückgreifen von der Re-  aktion der Angst auf die Situation der Gefahr. Nehmen  wir dieselbe Veränderung an dem Problem der  Realangst vor, so wird uns dessen Lösung leicht.  Realgefahr ist eine Gefahr, die wir kennen, Realangst  die Angst vor einer solchen bekannten Gefahr. Die  neurotische Angst ist Angst vor einer Gefahr, die wir  nicht kennen. Die neurotische Gefahr mufs also erst  gesucht werden; die Analyse hat uns gelehrt, sie ist  eine Triebgefahr. Indem wir diese dem Ich unbe-  kannte Gefahr zum Bewußtsein bringen, verwischen  wir den Unterschied zwischen Realangst und neuro-  tischer Angst, können wir die letztere wie die erstere  behandeln.   In der Realgefahr entwickeln wir zwei Reaktionen,  die affektive, den Angstausbruch, und die Schutz-  handlung. Voraussichtlich wird bei der Triebgefahr dasselbe geschehen. Wir kennen den Fall des zweck-  mäfßligen Zusammenwirkens beider Reaktionen, indem  die eine das Signal für das Einsetzen der anderen  gibt, aber auch den unzweckmäfßligen Fall, den der  Angstlähmung, daß die eine sich auf Kosten der  anderen ausbreitet.   Es gibt Fälle, in denen sich die Charaktere von  Realangst und neurotischer Angst vermengt zeigen.  Die Gefahr ist bekannt und real, aber die Angst vor  ihr übermäßig groß, größer als sie nach unserem Urteil  sein dürfte. In diesem Mehr verrät sich das neurotische  Element. Aber diese Fälle bringen nichts prinzipiell  Neues. Die Analyse zeigt, daß an die bekannte Real-  gefahr eine unerkannte Triebgefahr geknüpft ist.   Wir kommen weiter, wenn wir uns auch mit der  Zurückführung der Angst auf die Gefahr nicht be-  gnügen. Was ist der Kern, die Bedeutung der  Gefahrsituation? Offenbar die Einschätzung unserer  Stärke im Vergleich zu ihrer Größe, das Zugeständnis  unserer Hilflosigkeit gegen sie, der materiellen Hilf-  losigkeit im Falle der Realgefahr, der psychischen Hilf-  losigkeit im Falle der Triebgefahr. Unser Urteil wird  dabei von wirklich gemachten Erfahrungen geleitet  werden; ob es sich in seiner Schätzung irrt, ist für  den Erfolg gleichgültig. Heißen wir eine solche erlebte  Situation von Hilflosigkeit eine traumatische; wir  haben dann guten Grund, die traumatische Situation  von der Gefahrsituation zu trennen. Es ist nun ein wichtiger Fortschritt in unserer  Selbstbewahrung, wenn eine solche traumatische Situa-  tion von Hilflosigkeit nicht abgewartet, sondern vorher-  gesehen, erwartet, wird. Die Situation, in der die Be-  dingung für solche Erwartung enthalten ist, heiße die  Gefahrsituation, in ihr wird das Angstsignal gegeben.  Dies will besagen: ich erwarte, daß sich eine Situation  von Hilflosigkeit ergeben wird, oder die gegenwärtige  Situation erinnert mich an eines der früher erfahrenen  traumatischen Erlebnisse. Daher antizipiere ich dieses  Trauma, will mich benehmen, als ob es schon da  wäre, solange noch Zeit ist, es abzuwenden. Die Angst  ist also einerseits Erwartung des Traumas, anderseits  eine gemilderte Wiederholung desselben. Die beiden  Charaktere, die uns an der Angst aufgefallen sind,  haben also verschiedenen Ursprung. Ihre Beziehung  zur Erwartung gehört zur Gefahrsituation, ihre Unbe-  stimmtheit und ÖObjektlosigkeit zur traumatischen  Situation der Hilflosigkeit, die in der Grefahrsituation  antizipiert wird.   Nach der Entwicklung der Reihe: Angst — Gefahr — Hilflosigkeit (Trauma) können wir zusammen-  fassen: Die Gefahrsituation ist die erkannte, erinnerte,  erwartete Situation der Hilflosigkeit. Die Angst ist die  ursprüngliche Reaktion auf die Hilflosigkeit im Trauma,  die dann später in der Gefahrsituation als Hilfssignal  reproduziert wird. Das Ich, welches das Trauma passiv  erlebt hat, wiederholt nun aktiv eine abgeschwächte    128 Sigm. Freud    Reproduktion desselben, in der Hoffnung, deren Ab-  lauf selbsttätig leiten zu können. Wir wissen, das Kind  benimmt sich ebenso gegen alle ihm peinlichen Ein-  drücke, indem es sie im Spiel reproduziert; durch  diese Art von der Passivität zur Aktivität überzu-  gehen, sucht es seine Lebenseindrücke psychisch zu  bewältigen. Wenn dies der Sinn eines „Abreagierens  des Traumas‘ sein soll, so kann man nichts mehr  dagegen einwenden. Das Entscheidende ist aber die  erste Verschiebung der Angstreaktion von ihrem Ur-  sprung in der Situation der Hilflosigkeit auf deren  Erwartung, die Gefahrsituation. Dann folgen die weiteren  Verschiebungen von der Gefahr auf die Bedingung der  Gefahr, den Objektverlust und dessen schon erwähnte  Modifikationen.   Die „Verwöhnung‘“ des kleinen Kindes hat die uner-  wünschte Folge, daß die Gefahr des Objektverlustes  — das Objekt als Schutz gegen alle Situationen der  Hilflosigkeit — gegen alle anderen Gefahren über-  steigert wird. Sie begünstigt also die Zurückhaltung  in der Kindheit, der die motorische wie die psychische  Hilflosigkeit eigen sind.   Wir haben bisher keinen Anlaß gehabt, die  Realangst anders zu betrachten als die neurotische  Angst. Wir kennen den Unterschied; die Realgefahr  droht von einem äußeren Objekt, die neurotische  von einem Triebanspruch. Insoferne dieser Trieb-  anspruch etwas Reales ist, kann auch die neuro-       Hemmung, Symptom und Angst    tische Angst als real begründet anerkannt werden.  Wir haben verstanden, daß der Anschein einer be-  sonders intimen Beziehung zwischen Angst und Neu-  rose sich auf die Tatsache zurückführt, daß das Ich  sich mit Hilfe der Angstreaktion der Triebgefahr  ebenso erwehrt wie der äußeren Realgefahr, daß aber  diese Richtung der Abwehrtätigkeit infolge einer  Unvollkommenheit des seelischen Apparats in die  Neurose ausläuft. Wir haben auch die Überzeugung  gewonnen, dafs der Triebanspruch oft nur darum zur  (inneren) Gefahr wird, weil seine Befriedigung eine  äußere Gefahr herbeiführen würde, also weil diese  innere Gefahr eine äußere repräsentiert.   Anderseits muß auch die äußere (Real-) Gefahr  eine Verinnerlichung gefunden haben, wenn sie für das  Ich bedeutsam werden soll; sie muf3 in ihrer Beziehung  zu einer erlebten Situation von Hilflosigkeit erkannt  werden." Eine instinktive Erkenntnis von aufSen drohen-  der Gefahren scheint dem Menschen nicht oder nur  in sehr bescheidenem Ausmaf3 mitgegeben worden zu    1) Es mag auch oft genug vorkommen, daß in einer Gefahrsituation,  die als solche richtig geschätzt wird, zur Realangst ein Stück Trieb-  angst hinzukommt. Der Triebanspruch, vor dessen Befriedigung das  Ich zurückschreckt, wäre dann der masochistische, der gegen die  eigene Person gewendete Destruktionstrieb. Vielleicht erklärt diese  Zutat den Fall, daß die Angstreaktion übermäßig und unzweckmäßig,  lähmend, ausfällt. Die Höhenphobien (Fenster, Turm, Abgrund)  könnten diese Herkunft haben; ihre geheime feminine Bedeutung  steht dem Masochismus nahe.    Freud: Hemmung, Symptom und Angst  Siem. Freud    sein. Kleine Kinder tun unaufhörlich Dinge, die sie in  Lebensgefahr bringen, und können gerade darum das  schützende Objekt nicht entbehren. In der Beziehung  zur traumatischen Situation, gegen die man hilflos ist,  treffen äußere und innere Gefahr, Realgefahr und  Triebanspruch zusammen. Mag das Ich in dem einen  Falle einen Schmerz, der nicht aufhören will, erleben,  im. anderen Falle eine Bedürfnisstauung, die keine  Befriedigung finden kann, die ökonomische Situation  ist für beide Fälle die nämliche und die motorische  Hilflosigkeit findet in der psychischen Hilflosigkeit  ihren Ausdruck.   Die rätselhaften Phobien der frühen Kinderzeit  verdienen an dieser Stelle nochmalige Erwähnung. Die  einen von ihnen — Alleinsein, Dunkelheit, fremde  Personen — konnten wir als Reaktionen auf die  Gefahr des Objektverlusts verstehen; für andere —  kleine Tiere, Gewitter u. dgl. — bietet sich vielleicht  die Auskunft, sie seien die verkümmerten Reste einer  kongenitalen Vorbereitung auf die Realgefahren, die  bei anderen Tieren so deutlich ausgebildet ist. Für  den Menschen zweckmäßig ist allein der Anteil dieser  archaischen Erbschaft, der sich auf den Objektverlust  bezieht. Wenn solche Kinderphobien sich fixieren,  stärker werden und bis in späte Lebensjahre anhalten,  weist die Analyse nach, daf ihr Inhalt sich mit Trieb-  ansprüchen in Verbindung gesetzt hat, zur Vertretung  auch innerer Gefahren geworden ist.  Zur Psychologie der Gefühlsvorgänge liegt so wenig  vor, daf$ die nachstehenden schüchternen Bemer-  kungen auf die nachsichtigste Beurteilung Anspruch  erheben dürfen. An folgender Stelle erhebt sich für  uns das Problem. Wir mufsten sagen, die Angst werde  zur Reaktion auf die Gefahr des Objektverlusts. Nun  kennen wir bereits eine solche Reaktion auf den  Objektverlust, es ist die Trauer. Also wann kommt  es zur einen, wann zur anderen? An der Irauer, mit  der wir uns bereits früher beschäftigt haben,’ blieb  ein Zug völlig unverstanden, ihre besondere Schmerz-  lichkeit. Daß die Trennung vom Objekt schmerzlich  ist, erscheint uns trotzdem selbstverständlich. Also  kompliziert sich das Problem weiter: Wann macht  die Trennung vom Objekt Angst, wann Trauer und  wann vielleicht nur Schmerz?   Sagen wir es gleich, es ist keine Aussicht vor-  handen, Antworten auf diese Fragen zu geben. Wir  werden uns dabei bescheiden, einige Abgrenzungen  und einige Andeutungen zu finden.   Unser Ausgangspunkt sei wiederum die eine  Situation, die wir zu verstehen glauben, die des Säug-  lings, der anstatt seiner Mutter eine fremde Person  erblickt. Er zeigt dann die Angst, die wir auf die   ı) S. Trauer und Melancholie, Ges. Schriften, Bd. V. 193 Siem. Freud    Gefahr des Objektverlustes gedeutet haben. Aber sie  ist wohl komplizierter und verdient eine eingehendere  Diskussion. An der Angst des Säuglings ist zwar kein  Zweifel, aber Gesichtsausdruck und die Reaktion des  Weinens lassen annehmen, daß er außerdem noch  Schmerz empfindet. Es scheint, daß bei ihm einiges  zusammenflieft, was später gesondert werden wird. Er  kann das zeitweilige Vermissen und den dauernden  Verlust noch nicht unterscheiden; wenn er die Mutter  das eine Mal nicht zu Gesicht bekommen hat, benimmt  er sich so, als ob er sie nie wieder sehen sollte, und  es bedarf wiederholter tröstlicher Erfahrungen, bis er  gelernt hat, daf3 auf ein solches Verschwinden der  Mutter ihr Wiedererscheinen zu folgen pflegt. Die  Mutter reift diese für ihn so wichtige Erkenntnis,  indem sie das bekannte Spiel mit ihm aufführt, sich  vor ihm das Gesicht zu verdecken und zu seiner  Freude wieder zu enthüllen. Er kann dann sozusagen  Sehnsucht empfinden, die nicht von Verzweiflung  begleitet ist.   Die Situation, in der er die Mutter vermißt, ist  infolge seines Mißverständnisses für ihn keine Gefahr-  situation, sondern eine traumatische, oder richtiger,  sie ist eine traumatische, wenn er in diesem Moment  ein Bedürfnis verspürt, das die Mutter befriedigen soll;  sie wandelt sich zur Gefahrsituation, wenn dies  Bedürfnis nicht aktuell ist. Die erste Angstbedingung,  die das Ich selbst einführt, ist also die des Wahr-    Memmung, Symptom und Angst 133    nehmungsverlustes, die der des Objektverlustes gleich-  gestellt wird. Ein Liebesverlust kommt noch nicht in  Betracht. Später lehrt die Erfahrung, dafs das Objekt  vorhanden bleiben, aber auf das Kind böse geworden  sein kann, und nun wird der Verlust der Liebe von  seiten des Objekts zur neuen, weit beständigeren  Gefahr und Angstbedingung.   Die traumatische Situation des Vermissens der  Mutter weicht in einem entscheidenden Punkte von  der traumatischen Situation der Geburt ab. Damals  war kein Objekt vorhanden, das vermifst werden  konnte. Die Angst blieb die einzige Reaktion, die zu-  stande kam. Seither haben wiederholte Befriedigungs-  situationen das Objekt der Mutter geschaffen, das  nun im Falle des Bedürfnisses eine intensive, „sehn-  süchtig‘ zu nennende Besetzung erfährt. Auf diese  Neuerung ist die Reaktion des Schmerzes zu beziehen.  Der Schmerz ist also die eigentliche Reaktion auf  den Objektverlust, die Angst die auf die Gefahr,  welche dieser Verlust mit sich bringt, in weiterer  Verschiebung auf die Gefahr des Objektverlustes selbst.   Auch vom Schmerz wissen wir sehr wenig. Den  einzig sicheren Inhalt gibt die Tatsache, dafßß der  Schmerz — zunächst und in der Regel — entsteht,  wenn ein an der Peripherie angreifender Reiz die  Vorrichtungen des Reizschutzes durchbricht und nun  wie ein kontinuierlicher Triebreiz wirkt, gegen den die  sonst wirksamen Muskelaktionen, welche die gereizte Stelle dem Reiz entziehen, ohnmächtig bleiben. Wenn  der Schmerz nicht von einer Hautstelle, sondern von  einem inneren Organ ausgeht, so ändert das nichts  an der Situation; es ist nur ein Stück der inneren  Peripherie an die Stelle der äufseren getreten. Das  Kind hat offenbar Gelegenheit, solche Schmerzerlebnisse  zu machen, die unabhängig von seinen Bedürfnis-  erlebnissen sind. Diese Entstehungsbedingung des  Schmerzes scheint aber sehr wenig Ähnlichkeit mit  einem Objektverlust zu haben, auch ist das für den  Schmerz wesentliche Moment der peripherischen  Reizung in der Sehnsuchtssituation des Kindes völlig  entfallen. Und doch kann es nicht sinnlos sein, dafs  die Sprache den Begriff des inneren, des seelischen,  Schmerzes geschaffen hat und die Empfindungen des  Objektverlusts durchaus dem körperlichen Schmerz  gleichstellt.   Beim körperlichen Schmerz entsteht eine hohe,  narzißßtisch zu nennende Besetzung der schmerzenden  Körperstelle, die immer mehr zunimmt und sozusagen  entleerend auf das Ich wirkt. Es ist bekannt, daf wir,  bei Schmerzen in inneren Organen, räumliche und  andere Vorstellungen von solchen Körperteilen  bekommen, die sonst im bewußten Vorstellen gar nicht  vertreten sind. Auch die merkwürdige Tatsache, dafs  die intensivsten Körperschmerzen bei psychischer  Ablenkung durch ein andersartiges Interesse nicht zu-  stande kommen: (man darf hier nicht sagen; unbewußt  FHemmung, Symptom und Angst 135    bleiben), findet in der Tatsache der Konzentration der  Besetzung auf die psychische Repräsentanz der  schmerzenden Körperstelle ihre Erklärung. Nun scheint  in diesem Punkt die Analogie zu liegen, die die  Übertragung der Schmerzempfindung auf das seelische  (sebiet gestattet hat. Die intensive, infolge ihrer  Unstillbarkeit stets anwachsende Sehnsuchtsbesetzung  des vermißten (verlorenen) Objektes schafft die-  selben ökonomischen Bedingungen wie die Schmerz-  besetzung der verletzten Körperstelle und macht es  möglich, von der peripherischen Bedingtheit des Körper-  schmerzes abzusehen! Der Übergang vom Körper-  schmerz zum Seelenschmerz entspricht dem Wandel  von narzißtischer zur Objektbesetzung. Die vom Be-  dürfnis hochbesetzte Objektvorstellung spielt die Rolle  der von dem Reizzuwachs besetzten Körperstelle.  Die Kontinuität und Unhemmbarkeit des Besetzungs-  vorganges bringen den gleichen Zustand der psychi-  schen Hilflosigkeit hervor. Wenn die dann entstehende  Unlustempfindung den spezifischen, nicht näher zu be-  schreibenden Charakter des Schmerzes trägt, anstatt  sich in der Reaktionsform der Angst zu äußern, so  liegt es nahe, dafür ein Moment verantwortlich zu  machen, das sonst von der Erklärung noch zu wenig  in Anspruch genommen wurde, das hohe Niveau der  Besetzungs- und Bindungsverhältnisse, auf dem sich  diese zur Unlustempfindung führenden Vorgänge voll-    ziehen. 136 Siem. Freud  Wir kennen noch eine andere Gefühlsreaktion auf  den Objektverlust, die Trauer. Ihre Erklärung bereitet  aber keine Schwierigkeiten mehr. Die Trauer entsteht  unter dem Einfluß der Realitätsprüfung, die kate-  gorisch verlangt, daß man sich von dem Objekt  trennen müsse, weil es nicht mehr besteht. Sie hat  nun die Arbeit zu leisten, diesen Rückzug vom Objekt  in all den Situationen durchzuführen, in denen das  Objekt Gegenstand hoher Besetzung war. Der schmerz-  liche Charakter dieser Trennung fügt sich dann der  eben gegebenen Erklärung durch die hohe und un-  erfüllbare Sehnsuchtsbesetzung des Objekts während  der Reproduktion der Situationen, in denen die Bindung  an das Objekt gelöst werden soll. Kö @    “s NET 5) a r  pn nn >    FRI 4 > Ak er nicr  4 i  n mn;  Pan be  En ‚ — ®  Pe    u  “  2,  ”  0  ’3  ni  -  ww."  A  %  ’ > >  „„  7  5  #  - 2  “  MH  4  9  |  &  e-  i P  .  ‚  »  =  D  a  ’  ’  -  ie  u;  i  D    h 5 - & Er 3 a % 0 Pr  r . r.. ’ ) n I F j u er en ur . Bi  i + 2 Le £ > . "u i We ü ‚v i en u j  2 Br 5 er A = hr  Eh 5 Ra IE ION ZUR)  Br. f = en k er u WR LD 1 i ’ „. N  # Dar. . h Pa r r . za & 12 7  Be N A Nr Ra Sl NV  hi DE * im . r „* Ei ne. 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Freud  und Angst    En  un  on  =  In  =  E  u. Massimo Bontempelli. Keywords: il sintomo, “la filosofia pre-platonica secondo Diogene”, “il viaggio di Platone in Italia”, “Il parricidio parminedeo di Platone”, “il platonismo latino” “Boezio e l’aristotelismo”, “ficino”, “telesio e campanella”, “galilei”, “storia e ragione in Vico” “Hegelianismo italiano” “Vera”, “Spaventa” “Jaja” – “idealism italiano” “Croce” “Gentile” “il concetto di stato in Gentile” “Severino e il neo-parmenedismo”, Vattimo e l’implicatura debole, la debolezza della communicazione in Eco”, implicatura sintomatica, sintoma.  “feudalesimo ario” --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bomtempelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bonvecchio – Dumezil e Marte – la scoperta di 1992 dei delinquenti – al Quirinale -- guerriero – la triada Giove Marte Giano -- marziale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo italiano. Grice: “Bonvecchio is a good one; of course, he has philosophised on what Italian philosophers have philosophised most: ‘e amore’ – only he calls it eros --.”  “This is strange: this Italian fascination with the Hellenism: one BAD thing about the Hellenic or Grecian lingo is that they have FOUR words for ‘love’: philos, eros, agape, charitas – Cicero followed William of Ockham’s razor, ‘do nott multiply words’ – and translated them all by ‘amore’ – Now, with Bonvecchio, it’s not just, as with Tonny Bennett, just ‘amore,’ – iit’s amore ‘come simbolo’, that is, as used in communication – as per Socrates with Alcebiades – the daemon, Amore, is the metaxu – so there is a communication of Apollo and Dioniso via love – all VERY philosophical, and actually very Oxonian – vide Walter Pater!” Laureatosi in Filosofia Teoretica presso l'Pavia inizia la sua carriera accademica come borsista, contrattista e ricercatore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della stessa Università.  Dal 1987 insegna "Filosofia della Politica" nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Palermo. Nello stesso ambito dottrinale insegna nel 1990 nell'Università degli Studi di Trieste sino al 2001. Da questo stesso anno è Professore di Filosofia delle Scienze Sociali nel Corso di Laurea di Scienze della Comunicazione della Facoltà di Scienze MM. FF. NN. dell'Università degli Studi dell'Insubria dove dal 2003 diviene vicedirettore del Dipartimento di Informatica e Comunicazione.  Claudio Bonvecchio è stato iniziato alla Massoneria presso la loggia del Grande Oriente d'Italia Cardano di Pavia nel 1992, dove ha ricoperto varie cariche. Dal 6 aprile  è Grande Oratore del Grande Oriente d'Italia in seno alla Giunta guidata dal Gran Maestro Stefano Bisi, nel  è stato eletto Gran Maestro aggiunto.  Dal 5 dicembre  è componente del Cda della Fondazione Luigi Einaudi Onlus.  Altre opere: Particolarmente dedito agli studi sulla simbologia e sulla mitologia politica. “Immagine del politico. Saggi su simbolo e mito politico” (Milani, Padova); “Imago imperii imago mundi” (Milani, Padova); “L'ombra del potere. Il lato oscuro della società: elogio del politicamente scorretto” (Red, Como); “La lanza di Marte; o il simbolico nella guerra” (Milani, Padova). “La spada e la corona: studi di simbolica politica” (Barbarossa, Milano); Gli’arconti di questo mondo. Gnosi: politica e diritto” (Edizioni Trieste, Trieste); “Il pensiero forte, Settimo Sigillo, Roma); “Apologia dei doveri dell'uomo” (Terziaria, Milano); “La maschera e l'uomo” (Franco Angeli, Milano); “Il coraggio di essere” (Dadò, Lugano); “Europa degli Eroi Europa dei mercanti. Itinerari di ribellione” (Settimo Sigillo, Roma); “Inquietudine e verità” (Giappichelli, Torino); “Dove va l'idea di Tradizione” (Settimo Sigillo, Roma); “Il sacro e la cavalleria” (Mimesis Edizioni, Milano); “Esoterismo e Massoneria, Mimesis Edizioni, Milano); “I Viaggi dei Filosofi” (Mimesis Edizioni, Milano); “La Filosofia del Signore degli Anelli” (Mimesis Edizioni, Milano); “Ripensare l'identità. Per una geopolitica dell'anima europea” (Settimo Sigillo, Roma); “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo. Un percorso nella post-modernità” (ScriptaWeb, Napoli); “La Magia e il Sacro: saggi Inattuali” (Mimesis Edizioni); “Eros come simbolo” (Amore, Cupido). AlboVersorio, Milano); L'orologio dell'Apocalisse. La fine del mondo e la filosofia” (AlboVersorio, Milano,. Scritti in onore Simboli, politica e potere. Scritti in onore di Claudio Bonvecchio, Paolo Bellini, Fabrizio Sciacca ed Erasmo S. Storace, AlboVersorio, Milano. Università dell'Insubria[collegamento interrotto]  Grande Oriente d'Italia  Convegno a Matera: Europa, Libera muratoria, cultura  Claudio Bonvecchio scheda nel sito dell'Università degli Studi dell'Insubria. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore1947 20 gennaio PaviaMassoni.  The Archaic Triad is a hypothetical divine triad, consisting of the three allegedly original deities worshipped on the Capitoline Hill in Rome: Jupiter, Mars and Quirinus.[1] This structure was no longer clearly detectable in later times, and only traces of it have been identified from various literary sources and other testimonies. Many scholars dispute the validity of this identification.  Description Edit Georg Wissowa, in his manual of the Roman religion, identified the structure as a triad on the grounds of the existence in Rome of the three flamines maiores, who carry out service to these three gods. He remarked that this triadic structure looks to be predominant in many sacred formulae which go back to the most ancient period and noted its pivotal role in determining the ordo sacerdotum, the hierarchy of dignity of Roman priests: Rex Sacrorum, Flamen Dialis, Flamen Martialis, Flamen Quirinalis and Pontifex Maximus in order of decreasing dignity and importance.[2] He remarked that since such an order no longer reflected the real influence and relationships of power among priests in the later times, it should have reflected a hierarchy of the earliest phase of Roman religion.[3]  Wissowa identified the presence of such a triad also in the Umbrian ritual of Iguvium where only Iove, Marte and Vofionus are granted the epithet of Grabovius and the fact that in Rome the three flamines maiores are all involved in a peculiar way in the cult of goddess Fides.[4]  However Wissowa did not pursue further the analysis of the meaning and function of the structure (which he called Göttersystem) he had identified.  Dumézil's analysis Edit Georges Dumézil in various works, particularly in his Archaic Roman Religion[5] advanced the hypothesis that this triadic structure was a relic of a common Proto-Indo-European religion, based on a trifunctional ideology modelled on the division of that archaic society. The highest deity would thus be a heavenly sovereign endowed with religious, magic and legal powers and prerogatives (connected and related to the king and to priestly sacral lore in human society), followed in order of dignity by the deity representing braveness and military prowess (connected and related to a class of warriors) and lastly a deity representing the common human worldly values of wealth, fertility, and pleasure (connected and related to a class of economic producers). According to the hypothesis, such a tripartite structure must have been common to all Indoeuropean peoples on accounts of its widespread traces in religion and myths from India to Scandinavia, and from Rome to Ireland. However it had disappeared from most societies since prehistoric times, with the notable exception of India.  In Vedic religion the sovereign function was incarnated by Dyaus Pita and later appeared split into its two aspects of uncanny and awe inspiring almighty power incarnated by Varuna and of source and guardian of justice and compacts incarnated by Mitra. Indraincarnated the military function and the twins Ashvins(or Nasatya) the function of production, wealth, fertility and pleasure. In human society the raja and the class of the brahmin priests represented the first function (and enjoyed the highest dignity), the warrior class of the kshatriya represented the second function and the artisan and merchant class of the vaishya the third.  Similarly in Rome Jupiter was the supreme ruler of the heavens and god of thunder, represented on earth by the rex, king (later the rex sacrorum) and his substitute, the Flamen Dialis, the legal aspect of sovereignty being incarnated also by Dius Fidius, Mars was the god of military prowess and a war deity, represented by his flamen Martialis; and Quirinus the enigmatic god of the Roman populus ("people") organised in the curiae as a civilian and productive force, represented by the Flamen Quirinalis.  Apart than from the analysis of the texts already collected by Wissowa, Dumezil stressed the importance of the tripartite plan of the regia, the cultic centre of Rome and official residence of the rex. As recorded by sources and confirmed by archeological data it was devised to lodge the three major deities Iupiter, Mars, and Ops, the deity of agricultural plenty, in three separate rooms.  The cult of Fides involved the three Flamines Maiores: they were carried to the sacellum of the deity together in a covered carriage and officiated with their right hand wrapped up to the fingers in a piece of white cloth. The association with the deity that founded divine order (Fides is associated with Iupiter in his function of guardian of the supreme juridical order) underlines the mutual interconnections among them and of the gods they represented with the supreme heavenly order, whose arcane character was represented symbolically in the hidden character of the forms of the cult.  The spolia opima were dedicated by the person who had killed the king or chief of the enemy in battle. They were dedicated to Jupiter in case the Roman was a king or his equivalent (consul, dictator or tribunus militum consulari potestate), to Mars in case he was an officer and to Quirinus in case he was common soldier.[6] The sacrificial animals too were in each case the ones of the respective deity, i. e. an ox to Jupiter, solitaurilia to Mars and a male lamb to Quirinus.  Besides Dumézil analysed the cultural functions of the Flamen Quirinalis to better understand the characters of this deity. One important element was his officiating on the feriae of the Consualia aestiva ( of the Summer), which associated Quirinus to the cult of Consus and indirectly of Ops (Ops Consivia). Other feriae on which this flamen officiated were the Robigalia, the Quirinalia that Dumezil identifies with the last day of the Fornacalia, also named stultorum feriae because on that day the people who had forgot to roast their spelt on the day prescribed by the curio maximus for their own curia were given a last chance to make amends, and the Larentalia held in memory of Larunda. These religious duties show Quirinus was a civil god related to the agricultural cycle and somehow to the worship of Roman ancestry.  In Dumézil's view the figure of Quirinus became blurred and started to be connected to the military sphere because of the early assimilation to him of the divinised Romulus, the warring founder and first king of Rome. A coincident facilitating factor of this interpretation was the circumstance that Romulus carried with himself the quality of twin and Quirinus had a correspondence in the theology of the divine twins such the Indian Ashvins and the Scandinavian Vani. The resulting interpretation was the mixed civil and military, warring and peaceful personality of the god.  A detailed discussion of the sources is devoted by Dumézil to showing that they do not support the theory of an agrarian Mars. Mars would be invoked both in the Carmen Arvale and in Cato's prayer as the guardian, the armed protector of the fields and the harvest. He is definitely not a deity of agricultural plenty and fertility.  It is also noteworthy that according to tradition Romulus established the double role and duties, civil and military, of the Roman citizen. In this way the relationship between Mars and Quirinus became a dialectic one, since Romans would regularly pass from the warring condition to the civil one and vice versa. In the yearly cycle this passage is marked by the rites of the Salii, they themselves divided into two groups, one devoted to the cult of Mars (Salii Palatini, created by Numa) and the other of Quirinus (Salii Collini, created by Tullus Hostilius).  The archaic triad in Dumézil's view was not strictly speaking a triad, it was rather a structure underlying the earliest religious thought of the Romans, a reflection of the common Indoeuropean heritage. This grouping has been interpreted as a symbolic representation of early Roman society, wherein Jupiter, standing in for the ritual and augural authority of the Flamen Dialis (high priest of Jupiter) and the chief priestly colleges, represents the priestly class, Mars, with his warrior and agricultural functions, represents the power of the king and young nobles to bring prosperity and victory through sympathetic magic with rituals like the October Horse and the Lupercalia, and Quirinus, with his source as the deified form of Rome's founder Romulus and his derivation from co-viri ("men together") representing the combined military and economic strength of the Roman people.  According to his trifunctional hypothesis, this division symbolizes the overarching societal classes of "priest" (Jupiter), "warrior" (Mars) and "farmer" or "civilian" (Quirinus). Though both Mars and Quirinus each had militaristic and agricultural aspects, leading later scholars to frequently equate the two despite their clear distinction in ancient Roman writings, Dumézil argued that Mars represented the Roman gentry in their service as soldiers, while Quirinus represented them in their civilian activities. Although such a distinction is implied in a few Roman passages, such as when Julius Caesar scornfully calls his soldiers quirites ("citizens") rather than milites ("soldiers"), the word quirites had by this time been dissociated with the god Quirinus, and it is likely that Quirinus initially had an even more militaristic aspect than Mars,[citation needed] but that over time Mars, partially through synthesis with the Greek god Ares, became more warlike, while Quirinus became more domestic in connotation. Resolving these inconsistencies and complications is difficult chiefly because of the ambiguous and obscure nature of Quirinus' cult and worship; while Mars and Jupiter remained the most popular of all Roman gods, Quirinus was a more archaic and opaque deity, diminishing in importance over time.  References Edit ^ Ryberg, Inez Scott "Was the Capitoline Triad Etruscan or Italic?". The American Journal of Philology. Festus s.v. ordo sacerdotum p. 299 L 2nd. ^ Wissowa cited the following sources as supporting the existence of this triad: Servius ad Aeneidem VIII 663 on the ritual of the Salii, priests who use the ancilia in their ceremonies and are under the tutelage of Jupiter, Mars and Quirinus; Polybius Hist. III 25, 6 in occasion of a treaty stipulated by the fetials between Rome and Carthage; Livy VIII 9, 6 in the formula of the devotio of Decius Mus; Festus s.v. spolia opima, along with Plutarch Marcellus 8, Servius ad Aeneidem VI 860 on the same topic. ^ G. Wissowa Religion und Kultus der Roemer Munich 1912 pp. 23 and 133-134. ^ Dumézil, G. (1966, 1974 2nd) La religion romaine archaique, part I, chapters 1 & 2. Paris. ^ Festus s.v. spolia opima p. 302 L 2nd who has Ianus Quirinus, which let it possible an identification of Quirinus as an epithet of Ianus. ^ G. Dumézil La religion romaine archaique Paris 1974 part I chapt. 6 end; It. tr. Milano 1977 p. 252. Last edited 9 months ago by Citation bot  Quirinus Roman deity  Flamen Priest in ancient Rome  Flamen Quirinalis High priest of Quirinus in ancient Rome  Wikipedia Content is available under CC BY-SA 3.0 unless otherwise noted.Dal 5 maggio al 14 luglio 2019 il Palazzo del Quirinale ospiterà nelle sale della Palazzina Gregoriana la mostra L’arte di salvare l’arte. Frammenti di storia d’Italia, curata dal Prof. Francesco Buranelli. L’esposizione è realizzata in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, un reparto specializzato dell’Arma dei Carabinieri istituito il 3 maggio del 1969 per contrastare i crimini a danno al nostro patrimonio storico artistico.  E’ davvero un onore ed un emozione per noi guidoniani partecipare alla mostra “L’Arte di Salvare l’arte”. Con un pizzico d’orgoglio siamo lieti di annunciare che è stata esposta la nostra “Triade Capitolina”, fiore all’occhiello del Museo di Montecelio, presente anche sull’homepage del sito del Quirinale all’interno della sezione in cui viene presentata la mostra.   Ringraziamo il Generale dei Carabinieri Fabrizio Parrulli, Comando Carabinieri di Tutela del Patrimonio Culturale, per l’invito a questo prestigioso evento. Una presenza davvero gradita nell’inaugurazione è stata quella della signora Ena, vedova del Generale Roberto Conforti il quale, con la sua instancabile opera all’interno dell’Arma dei Carabinieri, riuscì a recuperare la Triade Capitolina sottraendola alla criminalità.  La presenza della Triade al Quirinale rappresenta un volano importantissimo per la crescita culturale e turistica della nostra Guidonia su cui tutta l’Amministrazione punta tantissimo.   Per tutte le informazioni sulla mostra è possibile visitare il sito: http://palazzo.quirinale.it/…/_art…/arte-salva_home.html Claudio Bonvecchio. Keywords: marziale, simbolo della repubblica romana, simbolo dell’impero, imago impero, imago mundi, Romolo, primo re, la corona del re. La spada, il guerriero. Guerra, longobardo, guerra ostrogoto, bellum romanum, bellum civile, etimologia di ‘mascara’, il concetto di eroe, Europa degl’eroi, italia degl’eroi, gl’eroi, Bruno, furore eroico, Vico, eta eroica, equites, cavalleria, massima stirpe guerriera romana, Mars, Marte, marziale, Marte, padre di Romolo, Marte, emblema della guerra, marziale, campo marzio, Marte, l’archeologia di Boni, mistica fascista, imago imperi, guerriero, Romolo re corona, emblem della republica, eta degl’eroi, fascism, fascist imagery. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bonvecchio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bordoni – grammatica al mio figlio – Luigi Speranza – filosofia italiana  (Rocca di Riva, Riva di Garda). Filosofo italiano. Grice: “Bordon is a genius; my favourite tract is his ‘ludi romani,’ in a piece he philosophised for Silvio’s figlio, whoever he is – but he also philosophised on ‘communication’ – and surely a game is a kind of communication – cf. my ‘conversation-as-game’!” Figlio di Benedetto. L’imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo nominò suo pagge. Si dstinguendosi come soldato.  Nella battaglia di Ravenna, in cui padre e suo fratello sono uccisi, mostra grandi doti di coraggio. Riceve i più alti onori della cavalleria dal suo imperiale cugino che gli conferì con le proprie mani l'Ordine dello Speron d'oro, aumentato con il collare e l'aquila d'oro. Lascia la corte. Dopo un breve impiego presso il duca di Ferrara, decise di abbandonare la vita militare, e s'iscrisse come studente di filosofia a Padova. Laureato, reside al castello di Vico Nuovo, in Piemonte, come ospite dei Della Rovere, dividendo il suo tempo tra spedizioni militari in estate e la filosofia in inverno. Ha quindici figli, tra i quali Giuseppe Giusto Scaligero Bordone. Stampa una invettiva contro Erasmo da Rotterdam, in difesa di Cicerone e dei Ciceronianus. È un pezzo di invettiva vigorosa, che mostra una retorica brillante, anche se carica dell'abuso del volgare, che forse non inquadrava affatto la vera essenza dei ciceroniani di Erasmo.  Una seconda invettiva, più violenta e abusive. Un trattato “De comicis dimensionibus” (Delle dimensioni comiche) e “De causis linguae Latinae” (“Delle cause della lingua”) lo resero il primo grammatico che segue principi e metodo scientifici. Ha acute critiche basate sulla Poetica di Aristotele, “imperator noster; omnium bonarum artium dictator perpetuus”. Considera Virgilio moltissimo superiore ad Omero. Lode le tragedie di Seneca. I suoi saggi sono tutti sotto forma di commenti. Considera “De insomniis” di Ippocrate. Stampa “De plantis”. Stampa “Exercitationes” su De subtilitate di Cardano. Altre opere: “Commentari su Teofrasto De causis plantarum” “Commenti alla storia degli animali di Aristotele”. Combina autentica conoscenza, ragionamento acuto, e osservazione dei fatti e dei dettagli. Anticipa il ragionamento induttivo del metodo scientifico.  Non si può mettere in discussione che non abbia anticipato in qualche maniera il ragionamento induttivo del vero metodo scientifico, anche se i suoi studi di botanica non lo condussero a qualche forma di idea su un sistema naturale di classificazione. Rigetta la scoperta di Copernico. Rimase ancorato ai dogmi di Aristotele nella metafisica e nella storia naturale, così come a quelli di Galeno. Corregge alcune dichiarazioni di Aristotele utilizzando i principi aristotelici.  Le sue Exercitationes basate sul libro De subtilitate di Cardano è il libro che dà a Scaligero la sua notorietà come filosofo. Si lo riconoscoe come il migliore esponente della fisica e metafisica di Aristotele.  “Poetices libri septem”.“Oratio pro Cicerone contra Erasmum” nel quale liquidava Erasmo come un parassita letterario, un mero correttore di bozze. In queste Scaligero analizza il corretto stile di Cicerone e indica 634 errori commessi da Valla e i suoi predecessori umanisti. "Imperatore nostro, dittatore perpetuo di ogni buona qualità nelle arti".  Dizionario biografico degli italiani.  Quem ad modum natura frescante nascir non uno modo circa unam cine isina soubine verfaturrem, ita nec ars. Na sicuti solis vis quercum educit, atque firmat aqua putrefacit ignis absumit. Sic faber eidem quercui formam abaci imponit: statuarius, lovis: architectus; tigni. Par item ratio in scientiis est. Hominem contemnplatur philosophus naturalis ut movetur: Geometra quatenus eum metiri debet. Medicus que a morbis aut vindicet aut tueatur. Natura enim est ut es tartifex quasi quidam eorum quæ molitur: ita artifex tanquam natura quædam eorum, quæ Ampalaya figurat. Hoc igitur quod est materia prima naturæ vt ei formam imponat, id est artifici naturalis vogures cui figuram indat. Res autem quum duplices mralint: aut materiales aut immateriales. Et immate n'arece riales aut extra intellectu ut deus, aut inintelle etu ut notions. Notiones appello rerum species mente comprehensas, Quod utique manus agit in materiam, hoc intellectus agit in notiones. Ergo, ut manibus subiectam materiam habet, aurum faber. Ita, intelleettu notiones philosophus moderatur. Et enim quo pacto manus instrumentorum instrumentum est. Sic ratio scientiarum. Est autem ratio vis animæ, qua id, quod ea præditum est, boncinema comprehendit universalia. Comprehedimus au cinst tem vel per inventionem vel per disciplinam. Ac per inventionem quidem paucis darum est ut divinitus fierent sapientes. Per disciplinam autem pluribus. Sane disciplina est scientia acquisita in Sdiscete. Discimus vero ab alio per auditu tanqua per instrumentum, et per voces tanquam per nostas. Est enim vox nota caru notionu, quæ in ani voce coulmasunt. Vocis affectiones tres: formatiositio, compositio, et veritas. Veritas est orationis æquatio cum re cuius est nota. Compositio est unio partium procarum proportione. Formatio est creation et figuratio. Itaque orationem eiusque partes duo artifices diversis modis conteplantur. Dialeetticus sub *ratione* veritatis tanquam subsine. Grammaticus sub figurationis et compofitionis modo, vocarunt conitructionem, tanquam materiam. Nam tamet si grammaticus etiam considerat si- gold move gnificatum, qui quasi forma quædam est, non ta men propter se id agit, sed ut veritatis indagatori subministret. Accidit autem ei postea ornatus ab oratore, et numerus a Poeta. Nam historia parum ab utroque differt, sed ex utroque potius mista est. Grammatici igitur unus finiset, recte grammas loqui. Quare in duo intendit: in partes ut parios tienen una funt, et in easdem ut interferes pondincat compositione. Nam quod addunt, creía vitedi arte esse: bis peccant. Neque enim ars est, sed scientia neque necesse habet scribere. accidit. Scriptura voci. Neque aliter scribere debemus, quam loqua mur.Illa quo que tertia parte, qua afribunt, iudicandi, non recte attribuêecncque na ettio distinguitur a potestate per differentias forma costitutas. Et enim eo de modo, quo scio, iudico. Fostre mo quod cfficiu interpretando ruautothandu merar ut, id sane grammatici non est, sed lapietis procuiusque rei captu. Est enim oratoru poetarumque, atque historicorus lectio disserta variis artibus, atque scietiis non ad ipsos literatores potius qua in ad veros artifices pertiner. Na quod ad interpretationem ipsam atrinei eadem ratio est; et componendi et composita cognoscendi. Quippe orationem qui interpretatur codem modo eam resolvit in partes quomodo eam qui construxit ex iisdem partibus comparavit. Tresigitur cum sint rationes literaturæ. Prima figurandi. Secundaria significandi. Tertia componendi. Prima quidem diligentissimi viri receviores exactiflimetra ettarunt. Secundam non ita plane. Tertiam exautorum observationibus satis admodum sunt assecuti. Verum quunon solum vsu, atque autoritate partes hæc onftenç sed etiam ratio ipsa naturalis magna multaque loca sibi vindicet. Quæ illi ipsi diligenter sunt executi, nullius nostrum opera indigere arbitrabamur. Quæ vero rationes ab his sunt omislæ vel quasi ignoratæ vel quasi relictæ nobis, necessario hoc opere erunt perscrutandæ. Non solum materia opus est, certify limitibus, sed etiam ordine atque instrumentis. Ordinem duplicem esse. Unum ab elementis ad composita, alterum huic contrarium. Instrumenta item duplcra: altera naturæ notiora, nobis vero mie nous nota: altera bis contraria. Anale Hitler imptam materiam certisque limitibus cir per se ettenosse possimus. Duo sunt docedi, totidem queii dem discendi modi. Alter quo quid suas in partes resolvimus, ut si navim ignoranti cuipiam, primum nome edam. Deinde quid sit edifferam: postremo cuius rei causa structa sit, ostedam, partibus enumeratis. Hæc via resolutoria ab Aristotele dicta est. Is modus nobis notior est, quippe moim totum ipsum repræsentatum specie primum in note scit, a quo ad partes indagandas ipsas possea fya ducimur. Alter modus huic cotrarius est, naturæ ha infille quidem notus atque certus, quem componentem dicimus. Propter ea quod acceptis partibus totum ipsum ex ædificamus. Galenus frustra ad didit tertium quem definitivum vocat. Cum ta men a resolutorio nihil differat resolvimus enim totum res est ipsa definita, definitio autem notio speciei. Præstantior autem via utique cela ea est, quæ componere docet: tum quia naturam imitatur, tum quod excellentiam tradentis ostendit ingenii, quod necesse est omnia habeat in numerato atque ordine disposita ante, quam ani mum ad dicendum appellat. Ad hoc, nisi a primoribus elementis ordinare, necessfario cogêris idem, sæpius repetere. Universus igitur docendi ordo rls is quum lit, singulæ partes quo consilio quamperte se et iffime recenferi tractarique possint videamus. Discere dicimur cum ignotum per *indicia* quædam percipimus animo. Hoc bifariam esse potest. Nanque *indicium* illud interdum est po-Apossterius co, quoddiscimus, veluti cum significatio vocis huius, gloriosus intelligitur posse accipi in bonam partem per exempla lumpta de Cicerone. At sane id prius significavit quam sic Cicero utendum sumeret. Et tamen per Ciceronem ita mihi notum fit. Est alterum in diciorum genus A hun natura prius. Et caussa quasi quædam eiuscerei  thi quam discimus, ut cum per gloriæ significatum acper flexum illius vocis descendo ab origine ad usu meum, quem in Ciceronis libris deprehendi ac prior quidem notior ac facilior est. Alter ut paulo obscurior, ac minus sæpe notus nobis, ita excellentior tanto quanto certius scimus quum per causam quam per accidentia cognoscimus. Hoc igitur duce abipfa philosophia in Latinarum vocum naturam, ad rationes investigandas, deducamur. Duplices partes: alie ex quibus vox constituitur ut ex materia. Ab a tangu species sub genere perfectam scientiam, non definusone acquire sed etiam ex affectuum cognitione. page Sligitur est a partibus incipiendum, propter ea quod causæ sint iplius totius, quodnunc tractanas: 11offeinter est, earum rationem duplicem esse. Et enim cum dicimus, in, Dictione, partes esse alias simplices, cuiusmodi literæ func, ar lias compositas quales videmus syllabas. Ex his iudico elementis integram vocem fieri, atque coalescere. Cum vero dicimus. Dictiones aliæ sunt nomina, aliæ verba. Non has altendo partes Wycius eile modi ut per eas concrescat nomen, sed quæ ipso genere tanquam re universali quadam comprehendantur inde recte pronuciamus, tam nomen, quam verbum dicttionem esse. Cum aute PH*2.poilim genus ipsum intelligere etiam seclufss par mi ne tibus his, quasi pecies appellanimus. Necessario fatebimur, inapte natura i pecies esse illas post genus. Si quidem genus materia quasi quædam spe cieru v cít. Contra, quoniam genus ipsum animo perfecte capere nequeamus, niii partes, quibus constat, perspexerimus. Necesse erit ut primua de his partibus, deinde de genere, hoccli de diction quæ est materia nostræ operæ subie et ta, tumde speciebus fermo noster instituatur. Videndum igitur, quid litera: mox quid syllaba. Tertio quid diction. Postremo quæ species dictionis. Quoniam vero perfecta Scientia non ex sola ha si betur definitione,  sd omnes quoque rei affecttus cognoscere oportet: de ipsis affectibus cuiusque partis quid veteres prodiderint quid nos sentiamus, perspiciendum erit. Definituro litera, nominis prius originem querendam. More peripatetico inde errures multos ecolligit igo corrigit. Ante vero quam literam definimus, sicuti sie ce in omni definitione, nomen ipsum estex- Nimm an plicandum. Quippe ex cuius interpretatione facilius rei ratio nota sit. Togam.n. definiturus, cam si norim ategendo dietam, sane vestigando cius genus sic inveniemus. Esse lana text ad tegendo, ita de litera acturi, vera eiusce nominis rationem ex figura emergere căperiemus, quu eas certis lia Ale! neis contineri videbimus exeptis nanq; cx prisca mily nominis origine aliquor elementis, quu primum di ettæ essent lincaturæ, literæ possea fa ettæ sunt. Scut apud græcos redivirala otlew sexuuris. Euenitde inde ut quoniam album nigre dinea spergeretur, atquei quasi officeretur, ut ea sgnificatio latius fufa fit, et litura inde etiam macula diceretur. Obliterare autēverbum no a literis ut dixere sed a lituris deductu est, versa scilicet vocali. Quem ad modu a fænus fæneror et a pignus pigneror, et a têpustepero: fica lincando, linere, unde lineaturæ, et literæ, etlituræ, ex code fonte æque omnia. Neq enim alituris literæ quiade lerentur. Prius enim factæ, quam deletæ sunt. At formæ potius atque cueras rationem, quam intea ritus habeamus. Ex his constat eosdem veteres, non recte quasi legiteram commentos esse:vtex crema pars vocis ab itinere fingatur. Atque id A iiij. que Huskha Om quoque non geminata consonante ut consueue re, scribendum esse: sub sux nanque originis for ma produxit primam natura. Si igitur a lineis di eta est, et linea minima corporis dimensio est. Erit profecto litera minima pars dictionis. Accidit enim dictioni cuipiam, unica ut litera contineatur, ibi enim est pars et totum idem. Sed sicuti ex elementis constant mista naturalia, sic ex lite mlaliris dictions, unde elementorum quoque no men fortitæ merito sint. Simul ut hinc refellatur veterum sentential, qui falso literas notas dixere, elementa autem pronunciationes. Nam ut litera sola nota sit,  satis habemus at elementum et i plum hoc sit quod pronunciatur non autem ipsa pronunciation et ipla nota æque, siquidem est pars dictionis ipsam constituens sicuti ignis, aer, aqua, terra, corpora naturalia hæc nostratia. Sed et par corūdem error in literæ definitio. Primo nan que partem vocis dixere quare aut non eruntli teræ, quæ script nõdum pronunciantur, aut falso definierint vocem, esse aerem percussum. Sed neque recte neque necessario adducut vocis de carregare finitionem. Neque enim ad literatorem sed ad mus philosophum spe ettathoc, aquo id quod ipse sta tuat accipere debemus. Quin ipse quoque vocem in libro de interpretation non definivit: quum alioqui et coniunctior esset pars illa cum cætera philosophia, et interpretatio vocem habeat pro instrumento, itaque divinus ille vir per vocem definitiones attulit, vocis contemplationem ad philosophum naturalem retulit. Quod si quis pertinacius contendat, necessario definiendam vocem esse in literæ definitione, quasi genus quoddam: cogetur idem fane, quid aer sit quid, percussio, definire, atque porro, quemad modum frat auditus, ostendere. Verum ii ignorarunt, no omnia principia discutienda esse, sed quibusdam eorum certis in scietiis simplici intellectione acquiescendum, ipsam que principiorum rationem ad solum metaphysicum pertinere. Quam obrem grammaticus hic fatis habet vocis tantum nos se significatum: non est igitur necessaria. Non est item vera quum dicit aerem tenuissimum: te a dor Larmes nuenet crassum significat partium positionem. Samorato tenue enim quum opponitur crasso significatrarum. Sic dicimus crassum aerem, raru aerem esse nuem. In aere igitur Bæotio non pronunciabitur litera quem aerem crassum fuisse proverbio quoque circunfertur. Sed illi ut minimam pare name tem literam esse ostenderent eius materiam scilicet aerem, tenuissimu esse voluere ut minimum significarent. Sed tenue non excludit longitudinem. Itaque non erit aer minimus. Præterea in codem genere nullum minimum minus alio minimo est: at litera alia aliis minor quædam enim unico tempore fluit alia pluribus constat, et quædam dimidium alterius est. Nam 1 est duplex ad 0, et ipsa interdum sui ipsius, cuius modi sunt communes vocales apud græcos. Ad hæc aiunt definitionem esse a substantia: at eer vocis substantia non est, sed materia subiecta. Accidit enim vox aeri. Hic enim substantiam pro essentia capiunt at essentia vocis non est aer: neque enimgenus fius est, aut differentia: sed percussio, aut elisio ge AV. nu IvL. nys est summum proximum autem genus, est fo nusis enim ordo est. Sonus e percussione corpo vor a wheru, vox, sermo. Est enim sermo dispositio vocu articulataram ad interpretandum animum.Vox, sonus ex ore animalis. Sonus qualitas obiecta au ditui ex occursu corporu. Ita que n eid quide re et e, strepitum vocem esse inarticulate. Strepitus es nim est sonis pecies, sicut et vox. Neq divisio proba est, cum dicutin articulatas voces eas, quæ nul con lo proferutur affectu: nãomnis vox est ab animi affectu. Est enim data animalibus ad expressione voluntatis ut in quinto historiaru latius disputa uimus. Et multæ voces ab esse et u proficiscuntur quæ sunt inarticulatæ, ut gemitus et sibilus venatorum. Sed neque recte a brutis excludut articulatas: ouiu enim voces adeo clare scribe possunt ut ab ipsis verbum apud nos formatum sit, balare. Literatas aute voces aut illiteratas perinde atque scribi possent vel no possent, etia do et iores dixe re, ut est apud Gelliu lib.xi. Non decreto, inquit, iussoque, sed tacito, illiteratoque atheniensium consensu. Quare articulata sit quæ scripto excipi atque exprimi valeat. Inarticulata, quæ no. Possit Vorige meo autem quis dubitare, an necessaria sit definitio dimisour ettionis syllabæ, literæ per vocem: præfertim cum philosophus in libro siegulweias sic egerit. Quibus respodemus id eu fecisse quonia de elocutione feribebat, qua vocat interpretationem, Sic nos vocem in his libris, prodictiöe scripta accipimus, quoniam vox esse possit: idque ex usu vetera Latinorum. Atisti vocis partem cum dicantlitera, voce ma; acrem percussum litera tantum in aere ponunt. Ergo cum scripta erit non ei competer definition neq; cum in intelle et um recipietur. Poteste nim nunquam fuisse in pronunciationc. Litere definitio. Differentie generica, quibus species litera rum constituuntur. Affecttus generice proprio communes. Quid primum horum natura fa, quid primo loco tradedum. Itera igitur est pars dictionis indiviisibilis comuni Nam quanquam sunt literæ quæ de duplices una tamen tantum litera est sibi quæque certum sonum unum servans. Ita 12 magnum dietum est non autem compositum neque enim duo parva cotinettanqua partes sed duabus temporibus v pas tra et us indivisibilis. Litera ergo genus quoddam est, cuius specics primariæ duæ, vocalis et consonans, quarum natura et constituțio non potest percipi, nisi prius cognoscantur differetiæ forma Eles, quibus factum est, vtinter se non convenirent. Quire de ipsis differentiis in communi, deq affectibus prius dicendum est. Litere differentia generica est, potestas quam nimis rudi consilio veteres accidens appellarunt, est enim forma quæ dami plefexus in voce quasi in materia propter quem flexum sit ut vocalis per se possit pronunciari, muta non possit. Ex hac potestate ortūno men est, qui est affectas proprius, cuiusque literæ, ce consequens cam vim quæin pronuntiatione sita est. Figura autem cít accidens ab arte inftitutum: potestenim etle litera sine figura: pote itque attributa mutari, acque solum per nationcs sed etiam eidem cidem genti aliam atque aliam diversis seculis in usu suifle. Neque vero quod veteres fecere, hæ Olyfolæaffe et iones assignandæ sunt literis sed etor do. Quædam enim natura sua aliis priores sunt neque hac ferie qua eas accepimus ab antiquis Ordgaut ortæ, aut disponendæ. De potestat cigitur pri ha trasmum deinde de aliis scribendum esset. Veru quia a facilioribus semper est incipiendum a figuris, notulis que ipsi spingendis auspicabimur quaru causas possea explicare instituemus simul et numerum et ordinem ex priscis historiis narrabimus quem suo loco tandem corrigemus. Historia literarum, Figura, Numero, Ordine. Iteræ primum fuere sexdecim numero, a more on spiciis receptæ: his notulis, A, B, C, D, E, I, K, L, M, N, O, P, Q, R. Palamedem autem duas adieciffe bello Troiano Duabus ab Epicharmoaudu numerum: 0 Duæ ad Simonidem, tanquam ad autorem, referutur: Alii autem aliter fen sere, duasque eiusdem inuento appositas: Z,  Latinæ haud magnopere ab his abhorrent, his notis -- A, B, C, D, E, F, G, I, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, V, X, Y, Z. Summari adiuifio literarum. Nomina singularun. Arumquæper feipfas possent pronunciari, vocales appellarunt: quæ non, nisi cu aliis, consonantes. Ita que etiam vocalium nomina, simplici sono nec differente a potestate, statuerut, at consonantibus, quæ egerent adminiculo, appel- osa' lationes mistas ex ipsarum fono, et ex certo adminiculo indidere. Itaque vocales sic nominarunt, cu ut scribebant: “A”, “E”, “I”, “O”, et “V”. At consonantes additis vocalibus. Idque non uno modo quibusdam enim præ-posuere aliis post-posuere. Sunt autem hægt “A”, “BE”, “CE” DE, “E” “EF”, “GE”, “I”, “EM”, “EN”, “PE”, “QV”, “ER”, “ES”, “TE”, “IX”. Duas autem reliquas “Y” et “Z”, propte rea quod non, nisi in græcis vocibus scriberent, non mutarunt earum figuram neque aliud no men impofuerunt. Item duabus vocalibus “I” et “V”  cum fiunt confonantes, nullum est nomen factu a Latinis sed a Græcis. Æolicum elementum appellatum est: et vau:habuitquefiguram hanc, 1, Claudio inventam, inuerla, r, atque duplicata. Verum nominis rationem (“di-gamma” enimin denominarunt cum ipsa nominis potestate non conuenire, suo loco dictum est. Ex his constat, quare in verbo Des, necessario inter priorem et posteriorem consonantem interponi debeat e vocalis: cum tamen nomen et mutæ in fine, et sibili in principio eam habeant vocalem. Nequce nim nomina ingrediunturc ompositionem sed potestas tantum. Sola “Q” eadem et poteftate et nomine semper est. Semper enim et pronunciatur, et nominatur fociata obscuræ vocali: sic, pv. Eftigitur proprium tam figuræ, quam no - smo minis, nunquam mutari, potestatis autem mu- poem tari, vt mox videbimus. Hoc autem dico apud veteres tum Latinos tum Græcos. Nam nostra tempestate certis notulis malunt inchoare et ducere dictionem aliis autem terminare. Hebræi autem chaldæique et armenii, et arabes sema per aliquot literarum figuras mutarunt, quibus clauderêt voces suas. A nominum ratione porro diviserunt Consonantes in mutas, atque Semi vom, vocales vt quarum nomen inciperet a consorante; cx Muta essent: quarum a vocali, essent Semi-vocales (“V”, “I”).  Quam sententiam qui essent auto resipfi, nihilo prudentius corrupere. Ita vt mutis ascriberent “EF”  quum tamen inciperet a vocalis verum et hanc fuo loco explodimus, ethicillam emendamus. Principio, non a nominibus species fa ettæ sunt, sed a potestate,a qua etiam nomina fluxere. Igitur iam fundamentum destructum est. Præterea quo modo fregere se ipsos quum rin mutas abiccerunt, ita ctiam sibi luntaduer fati, quum hac cadcm sua regula cogurtur ean dem literam quæ apud græcos sit Muta, apud fe facere semi-vocalem. Nam îi verum est, mutas effe, quarum nomina incipianta conionaia te: E1 græca muta erit ea ratione, quæ tamen apud nossitsemiuocalis: fi quidem huius figurr; qua vtimur, x, pro, cil, nomen Latinis cit, is, Immo vero fi a nomine petas argumentum, multo sint Motæ clariores, quam Scmiuocaics. Quis enim ncfciat clarius pronunciari posse, EE, quam en, aut EL? Ucrum ita faetum eit, vt MuTra tædicerentur, quarum poteftas fine vocali focia, nulla effet. Neque enim quisquam aut, “B” aut, €, aut alias mutas, nulla vocali addita, clare possit one pronunciare: Contra semi-vocales, propterea quod aliquam haberent pronunciationem. Vocalium enim fecutæ integritatem nominis dimi dium obtinuere: nemo enim interposito inter labia spiritu ipsum “F”. nequeat efflare: item sibi lumins, et mistuminx: linguæ autem vibratio nem in r:leniorem autem atque hærentem in “N”. longeleniorem, et libiloaffinem,in “Z”, mugitum vero vel facilimum, atque craffiffimum in ipfo m. Ex his patet error alius corundem quifcripfe re- x, abi, vocali nomen feum apud nosincho are propterea, quod apud Græcos eadem vocali Fillorum proferatur. Etenim fi ea ratio fatisef- Crop set, etiam im, et IN, etif, dixiffemus, qua has vocali græci nominant. Sediccirco fa et um est, ut a præpositione Ex, differret. K, autem lite ram quare is præsentia omiserimus, suo loco di sputainus. Ex his fatis constat, prudentius, quam aut Græci, aut Syri fecerint, fecisse nos; quum vo calium nomina simplicissimo fono eduxerimus, quasi fuo fibi fatu ortæ effent: neque confo nantium fublidiis indigere, ad suas opes decla. fandas, quas consonantes ipfæ fane sua fouerent autoritate. Singularum literarum potestates. Rebus suas species constituebat s affectiones genericas, rationem fpecierum conditaru diximus: superest, vt vnicuiusque literæ vim deinceps ex vsu, atque ratione, eiufque causas ftatuamus: quod negotium non sine magno labore, variaq; controversia expediri potest. Adeo enim dege ' nerauimus a prisca pronuciandi ratione, vt etvix extentipfoin vfu vestigia: etfiquid afferas, quod emendet vulgus,tanto vero ipfipertinacius obfi ftant.Acfuit quidem tempus, quum vsui dabatur aliquid:erat enim inter Latinos. Nunc vero, cum etiam Itali ipfi in patria sua peregrini sintadeo, vt etiam studiose inuenta noua a prisca detor queant Latinitate. Nihil aut Barbaris dandum, aut nobi sindulgendum esse cenfeo. A vocalibus autem incipiamus. Singularum literarum potestates labioru maxime conformatione dignoscuntur. Quemadmo dum non folum ex Martiani ac Prisciani, Victorini, Gellii, Quintiliani, Varronis, Nigidii, Ciceronis præceptionibus, verum etiam variarum usu nationum aliqua ex parte percipi potest. Duobus autem modis potestas variatur,velsonus ipse, vt quum “I” vocalisaliter in voce “Ira”, aliter in voce Optimus,pronunciatur: vel soni modus, veluti quæ exempla a veteribus adducuntur, quibus deni modi eidem vocalis sono attribuuntur: qui ni afpiratæ, et totidem tenui. Brevi fub acuto, et graui:longæ sub iisdem, et fub circunflexo: ex empla sunt hæc: “Hamus, Hamorum, Hami: Arae, Ararum,Ara: Habeo, Habemus: Abed, Abimus. Sed efttertius quoque modus, quum in fine clausulæ aut verlus longam breuemque in differenti sono accipiturita, ut etiam prolongis breues habeantur: etfi auribus suis aliter respondere, dixit Quintilianus. Ac de fecundomodo in historia syllabarum scriptum satis est. de primo  is mo autem sic agendum est. A, non eodem semper apud græcos fuisse via the name detur fono: fiquidem Æolenses iplum pro, Hypo fuere,vixa. contra, Iones pro eo, h, menyua. Ve- Inha rum mihi videtur apud latinos eius literæ sem per idem sonus extitisse, qui etiam nunc auditur vulgo Romæ. Atnon ficcæteræ. Namquee, latius sonat in aduerbio, Bene, quam in aduerbio, Here: huius enim posteriorem vocalem exilius pronuntiabant, ita vt etiam in maxime exilein tranfierit sonum, Heri. Id quod latius in multis quoque patet:vt cum ab Eo, verbo, deducis Irc. Et in eodem casu. dicimus enim, et lis, et Eis: ficut et “diis” et “deis”; “turrim” et “turrem”, “priore” et “priori”. Sicutiigitur hæc inter se com mutabant, fic et v, cum eorum altero habuit af.2 " finitatem: quod est animaduersum in illis vocibus, Optimus, Maximus, Monimentum. Quæ ni hilominus etiam per v, scriberentur. Igiturha buit 1, vocalis sonos tres, suum exilem alterum, latiorem, propioremque ipsi £, et tertium obscu riorem iplius v.inter quæ duoy, Græcæ vocalis sonus continetur, ut non inconsulto Victorinus ambiguam illam, quam adduximus vocem, per “Y”, scribendam esse putarit “Optymus”. Quem so num etiam agnouere veteres græcæ prolatio nis,poft, 1, velv, consonantes, et ante “D”, “M”, “R”, “T”, x,cuius rei exempla sint “video”, “vim”, “virtus”, “vitium”, “vix”. Cæterum neque id nunc deprehendi mus ex vfu noftro, neque illi afferre exemplum possunt, in quo “I” vocalis sequatur 1, consonantem, ante eas literas quas in propofito apote 1. lesmate constituebant: sed de v; accipiendurte eft: cuius erunt exempla “iudex”, “iumentum”, “iuro”, “iuturna”. Verum ante x, non habeas: ne que enim præpositio Iufta, per laanc duplicem scribenda eft: et puto, si Iuro certum fibisonum habuit, Ius, quoque eundem habiturum. Ne “V” que tamen semper codem sono profertur v, sed aliquando pleniore obscuritate, quo modo vulgus italicum dicit “dux”. Interdum hiatu rotun diore, vt in verbo Columna, et Alumnus. quidam sunt ex Umbra et Etruria qui propius o ad ipfius o, accedunt mollitiem. Omnino autem latini cum græcos casus verterent, consiteri coegere nos,fonos illos esse cognatos, au, Priamus. Quo etiam modo nunc pronunciant romani. Quare, quod illi I lEds, noslu ba, Æoles secuti, qui ou oux,wvvia dicebant. Ita que o, duplicem quoque fonum habuit: latio rem, et exiliorem, ut cum ipfo y, conueniret. Productis enim labiis et cohærentibus, “Y” est pronuntianda, quomodo gallorum quidam pro ferunt aduerbium, Nunc. Graca enim vox est yuŰge. Sic etiam in multis aliis, quorum v, breue est, ea prolatio feruari debet, ut Numa, w uãs: Romulus, puur G. Habet igiturv, tot fo nos,exilein ipfius 1, latiorem ipsius o, obscurio rem fuum et medium quendam ipfius y, Græcæ. Quamobrem cumfuum fonum feruare il li volebant veteres, addebant o, ne in exilita tem illam Græcæ vocalis degeneraret: fic enim scribebant, Oufentina: autor Feftus eft. Restat Ali etiam sonusalius, poft G, et Q. et s, a superiori bus valde diuersus, implens scilicet confortan tium illarum vim,Lingua,Aqua,Suadeo. quan quam poft fibilum hoc tertio exemplo etiam a prioribus distet fane: auditur enim aliquantum, ac propius accedit ad consonantis lineamenta'. In prioribusautem exemplis, aut nihil, aut vis auditur: fed craffitudineñ quandam apponit duntaxat: aliter enim dicas Tingo, aliter Tin guo. Germani noftrates pene per digamma Æolicam proferunt, fufpenfo ipso 'c, parum per: Rhenani, et qui in Belgio funt, longe mollius, et fatis Romane.' At Erasmus in libro pri de pronunciatione falso putauit v, eodem ino dolubiiciipfi c, ficPomba ipfit, in exemplo pro nominis cv I. eft enim ibi y, vera vocalis: 1, au tem consonans, vt suo loco dictum eft.' Illud quoque igitur falfum erit, quod veteres prodi dere v, cum pofta, velo,præcedit, aut E, aut 1, aut 2, Græcæ vocalis.Y, vim obtinere ne que enim vllum sonum fimilem gerit. Si eniin ita effet, Græci ipfinon tam laborarent: 'habe rent enim ad manus fuam literam, et fcriberent KTINTOE, quod apud nos eft,Quintus. Sedip fi et fcribunt, KONTOL et pronunciationem il lam nullo modoqueuntaffequi. Quemadmo dum autem i, et v,fiantconfonantes,fuo loco dia ctum eft. Diphthongoru quoq;ratio non constat:ho-cu's die nullam enim ex pronuciatu noftro percipias: lego neque tamen fruftra inucetæ funt. verum non est nunc laborandum; yt ora distorqueantur, ad Bij. ciuf 1 i IvL. I. 1 ciusmodi explendam ambitionem. Satis tamen $ ex constat, “Æ” proximam fuiffc Græcæ “AI” et oe, an vocaliv. Nam et Maros, et Muros, legimus, AV, autem non vt nunc pronuntiant Itali, a quibus audias sonos duarum explicatum, sed declinauit olim ado, quomodo Franci nunc re et iffimey tuntur. Quorum siquis dicat Caurum, etiam Co rum audias. Græci nescio an bene pronuncient: a quibus intelligas priorem vocalem:alteram au tem fono fimiliore consonantis Æolicæ, Sic et WEY,iidem. Nosæquemale,atqueipfam av.Græ cam vero oy,ridicule Galli pene per o,proferüt, them et ineptius adhucmagis cum diphthongos diui dunt ac diffoluunt,earum vt fonus audiarur. Nec defucre qui Græcam inueherent in Latinos, quo niam veteres licenunciabant,Terrai,Frugiferai. Item alteram, EL, iis in vocibus sono tum e,tum 1, ederentur, vt Treis, Parte is: Verum priscos vnica adidlitera contentos fuisse idem Nigidius autor est.  quæ vtriufuis  Origo etcauffa,quare 1, etv, e vocalibus faettæ fintconfonantes. Vanquam igitur mutantur soni, manet il lis tamen priftinæ genus potestatis: at tam 1, quam v, penitus amiffa priori vi, in aliam cefunt transmutata. Nam cum fequente vocali vellenteas pronunciare difundim, fic, Viet or, Iųftus,fubist fane vocalis illa, ac præcedentismu tauit vim. Quorum altero vt Græci carentsci, 12 licet 1, ita ipsum multæ nationes retinuere hebraica, arabica, germanica, scythica, armeniea, illyrica. Quod iccirco a Græcis factam non est, quia longiore femper tractu vterentur, in pronunciando,ipfoque in hiatu confifterent: quod vel ex eo declaratur, fiquis animaduertat la eam literam etiam ante vocales frequentisfime contra communem cæterarum naturanaprodu ci: quare non potuit in alium sonum spurium degenerare. At Latini paruo posito momento obToni gracilitatem facilimeinfubeuntem pro ximam transiliere, vt non penitus abesset ab sono ipfius G, a qua tamen quantum distet,** falo loco videbimus. Quemadmodum illud quo que, An Græci alteram habeant: v, scilicet. ne que enim hîc de his cognofcere possumus ante, i quam etipfius G, cui estı, proxima: et ipfarum 0, acPH, atque a naturam perspexerimus. Hoc i igitur'iam agamus. Consonantium potestates. ACB; quidem Græci hodicaliter,aliter pro «« nunciant Latini. Nam pressislabisLatini, at Græci laxiore labro fuperiore, et inferiore ap plicato dentibus fuperioribus;quanquam veteres Græcos non aliter, quam nos vtimur, vfos effe palam est. Varro nanque cum noftrum balare, verbum magis commendat, quam Græcorum peñdo, fane vtrunque fa ettitium a sono pecudum contendit: ostenditque cos debuifle imitari. Biij. VOS??1P 22 AN vocem auis Balantis, vt Bínov, non uñaov nomen įmponerent. Quod fi vt ipsi loquuntur nunc, nonvtnos proferimus, olim pronuntiaffent, sic quali propemodum per Æolicum digairma, na recte corrigeret eos Varro: nequeenim valant tace Semente pecudes,fed balant. Vafconibusquoquehoc eft vitium peculiare, vt eo modo pronuncient B, quo et Græcos dicimus. Itaque lusimus in cos epigrammate,vt eorum “vivere” “bibere” fit. Con tra quædam nationes nimis crafse pronunciant per p, vt Puliam, praco quod effedeberet, Bull lam, dicant. Multo diuerfior vsus est ipsius c, idque non folum in diuerfis nationibus, fed etiam ipfa in I elktalia. Ac laneidem effe noftrum c, quodGræco rum fitx,iam receptum est:explosaquecorû fen gêtia,qui aliter autumarent. Tantaq magis Scau cow hari Grammatici, qui putarit nomina, in quibusA, scamm secunda effet statim fede, perk, scribenda effe: fic: Kalendæ, Karus. Etenim fi propterea fiat quod Kappa, nomen includit vocalem illam, fa nenulla eiufmodi vocalisaddaturin contextu di et ionis: aut ca consonans nulli præterea voci ab aliis vocalibus incipienti apponerur. Họcautem falsum effe vel ipli oftendunt Græci. præterea ipfum c, eadem ratione non apponeretur nis fequenti E, vt Cepe,cæterorumque elemen torum par item effet ratio. Quin Kappa no men maius eft, quam quanta fit hæcpotestas, ad quam arctare conatur ipsum.Aliiita censuere, em Græcis tantum vocibus attribuendam, qui æ que falfi sunt. Etenim id fi verum esset, etiam Chremetem, per x, Græcum scriberent. Quod sola afpiratione ab ipfok, distat. Nulla igitur ra tio eft.Ipfius ergo sonus c, cum fit idem cu sono ipsius k, cauendum nobis maxime est,neaddatur volan aspiratio (id quod Thuscorum non paucifaciut: sed ii frequentius, qui Arnum flumen accolunt) sed ficcissime eft pronunciandum,non mucrone, sedlatiore parte linguæ interioris adducta ad pa latum,atque aftrietta,vt quamtenuissimus quam que expeditissimus fonus transabeat. Galli turer, alle piffimeper fibilum edunt: vtnon discernas, Cel-tali lamne, an Sellam, audias. Germani noftrates non tam crasso sibilo: at Germani Belgæ, et Hi spani,non aliter,quam galli Circumpadani, et Veneti, etFlaminii, et Ligures, libilo tenuissimo, et balbo. Qui omnes redarguuntur eo, quod in fine di et ionum Græcum seruari fonum fatis patet: ut Hic, Nec, Ac, Alec: nequeenim fi bilo terminantur, fed in ficciorem sonum, qui apposita vocali debuit perpetuari. Acquirit ta- Crayon men craffiorem sonum pro vocalium ratione: çrassius enim dicas, Carus, Collum, Cuma, pro pter latiorum vocalium hiatum, quam Cera, Cippus, propter exilitatem. Eandem inibimus imme "rationem addita aspiratione, ut crațiusaliquan- lagimens to pronuncies zuers xep, quam xew.xic. In tem diphthongos prout ad vocalium certarum sonum propius accedent. Si autem “s”, præcedat se ipsum c, vulgo non audias: atqui yoluntcose mendare, etiam ineptis conatibus vastant pro nunciationem,quamtu e Thuscorum consuetum dinecommodiustemperabis. Şiini 4. 3 B iiij. Similima huic eft, atque adeo, vt ineptiuf cule quidam eandem essecontenderent. " Galli nihilo fecius eam proferunt, atque ipfum, at que etiam craffius, horumque imitatores Ligue res Taurini.Qui vero caste atque integre in pro uincia verfantur pronunciationis,includuntali quantum potestatis ipfius,v, sine quo ca de cauf fa Q, nunquam scribitur. Non minor aliorum error, qui cum hujus vim fimilem esse prode rent potestati ipfius C, male cauffam afsignarunt, menim propterea quod mutuo inter se conuerterentur: hb w quoniam diceremus, “coquus”, “coci” et Arcus, Arquites, et “cum”, “quum”, et Sequor, Secu tus. Etenim mutationis ratio fallaciffima eft, Omittoflexionum terminationes, quibus in m, s,mutarividcas, “Titus”, “Titum” et in D, “Paris”, “Paridis”. hoc enim factum sit discriminis gra tia in cafibus. At pro R,s:pros, t,inuenias: appavy a coev, Jeasanos, Jetlonos. Non igitur a muta tione, fed a fono ducendum eft argumentum. Sed neque, yt ex Varronis authoritate conten r:Aldunt, e, erit a literis potius excludenda, quam aliæ literæ quærendæ: Nam in elementis ita c uenit, quemadmodum in rebus: vt plures ef sent foni, quam corum notæ. Quæ fuit cauffa, vt etiam diphthongos comminiscerentur. Ita que frustra litigant, sıc: fi alia eft, ab ipfoc, propterea quod v, fequente alium percipimus sonum: ergo erit G, quoque alia a seipfa,vel cum necessario sequatur v, vel fi fortuito. Intelligo neceffario propter ipsam, vt Lingua: fortui to, propter vocem, vt Ligus. Hic enim dicimus nos, consultius quærendam aliam figu sam, ipfi, qua hanc capiamus potestatem, quam prudentiffime inuentum, excluden dum. Fatemur enim,, aliud, atque aliud effo non minus, quamipsum v, cum fequitur vel's vel g, aut alias consonantes.Non erit igituridem cum c. Nam si sit: ergo alterum pro altero pona tur. idem igitur erit et Qui, et Cui. cum tamen vtrunque sit monofyllabum: et alterum clauda tur vocali, posterius autem consonante. in priore non audiatur secundi sonus elementi, in altero autem audiatur. Neque vero potiffimus autor Catullus initio statim pulcherrimi, ac diuini poc matis,fiçsçripfiffet, Peliaco quondamprognata vertice pinus. neque enim idem fonat ac fi dicas, Peliaco collissurgitde vertice. Eftautem lonusis et Græcis, et Gallis inimicus. Hispaninon femper, Vascones semper, Itali fa cilime obseruant, Proximum ipfi c, est. Itaque Cneum et Gneum,dicebant;fic Curgulionem et Gurgulio nem. appulfa enim ad palatum lingua, modicello relicto interuallo,fpiritu tota pronunciatur. At Calabri, etCampani, Vmbrigue, atquealiieius tractus, etiam fibilo cius fonum faciunt craffio rem: Contra Flaminii., et extremaPicenorum pars, ac togata Gallia versus z, vt quantum distat Lombardorum c,abipfoc, Thuscorum,tantum Flaminiorum, ab ipfog, aliorum: medio inter vtrofque nos proferimus rectiffime. D, tam Græci, quam Vascones, atqueetiam B V Ara G I Iul. I. Arabesaspiratius pronunciant, subdita fcilicet, dentibus lingua. Nos ficcius, vix appofita ac ce T'leriterabduđa. Huic affinis est t,pertinaciusap $ pulla lingua.at Græca cu his coniun ettae,non ve Galli proferunt,excito degutture fpiritu craffio re,fed vt Græciipfi interpofito fuauiore flatu sub ieet a lingualaxiorespatio dentibus, quamin D. F, PH, V, quum est consonans, tressonos, fuum quæque edunt:fed ita,vt et cõgeneresintelligas, et non vnu. Acdigamma quidem Æolicu, quod noftrum eftv, ab ipfa differre palam eft. Æoles enim, qui haberent, etiam digammaquæli gere. Ita f,ab ipfo o, distare videamus, cum ante F,, ponamus N, atante, et PH, noftrum pona musM. etM. Tullius irrisit Græcum testem, qui primam literam Fundanir, nesciret exprimere. Itaque no defucre, qui Phamam, quam Famam fcribere mallent, propterea quod Græca effet $***vox. Puto autem fuisse F, validiflimum aftrieta fuperioribus dentibus labio inferiore. Mox sequi, dilutiore vi. Quo more etiam in præ fentia vtuntur Græci ipsi. Tertio locomollifli mum v, quomodo nunc quoque dicimus, aut non multo attentius. Par enim eft: vt retincat etiamnum quippiam veteris vocalis, vnde or tum habuit.Quare notat Viętorinus fic fcriptum inueniffe, Seras: quasi duplicis wv, nota elet,ve SERVVS, diceretur. Sed multamarmora barban, riffima fuere innouantibus.posteris in veterum? ram contemptum. Quod autem aiunt v,femper effe fimplicem, nunquam duplicem consonantem, fiuein principio, liucin medio fit: et ipfis habere debeemus fidem, qui tucincorruptas pronuncia: di tenebantleges: et facit ad id, quod statuebamus mollifimofono esse. Quod fi quis obiiciat, præ terițum Audiui, dịcamusmediam fyllabam illam sua, non consonantis natura produci: fic enim 1- Audire,ficOuum quoniam av. Itaque non pro, duxit primam in Que,quoniã non potuit: fuerat enim, šis. quaresonus no fuit multus interpofitæ. L, geminant atque aspirant etiam cum solum er est,Gabali,Aruerni, et Ligures Taurinilocisali o quot. cotra nostrum vulgus vix adducipoteft, vt geminent.Græcinuncsic pronuciant, vt aliquid et aliud intelligas, quali fuccedati, consonans ipfi 1, etsequente præeat vocalem:qua pronuciatia. ņem audias hodie apud Thuscos, quum dicunta ! Gli: et apud Vascones, quum postpanunt aspira tionem:apudHispanos,quu geminant.Sicigitur sebep Græcus,xinasa: Tuscus,Agliada: Vasco,Alhada.. Hispanus. Allada:omnesæquemale,fi ad Latini, tatem sofe conferant. Sed Græcis hoc corrupte dici puto. Quin veteres obseruabant exiliuseffe 46 quum geminaretur, Mella: plenius quum finit fyllabam, aut ante sein eadem syllaba habet cona sonanțem,vt Sol, Flavius:medio sono esse,quum inchoat,vtLux, Cælius, Huicaliquo modo similis estr,fed longinqua com tamen: codeenim oris modo editur. Sed vda est “L” at R, spirituosa: illa simplicifertur tra ettu,hæc vibratur. Itaque ob ea vibrationeaspirationeaca cepit a Græcis,exit enim quasi bulliente voce.A pudnostrate vulgus vix duplicata vsquam audias, Quidă distenta acrigida lingua ignauius efferüt. Inma IvL. LIB.‘L minne Inm,nullam vocem Græciaterminauit: Bar baris,nobisquc modusnullus.Tres sonos habere animaduerterunt: craffiffimum in principio,mi nimum in medio, mediocrem in fine. Sitom nium vnicum exemplam,Mimum: et figemina ta mutatur, Mammam. Initio enim collecta Vox adinteriora narium, mugit;in medio penitus fal lit,obsessa scilicet ac ftipata vocalibus: in fine au ditur mediocriter,abeunteiam voce: etquum ge minatur, prior implet aures etiamnum magis, quam quum est in fine di et ionis. Eft et aliusro nus quum terminat diettionem,et altera di ettio fe qyens incipita vocali: vt, Equidem cgo:neque e Barcnim aut Galli,autLombardireettetum proferut: ita enim proferunt, vt firiem alterius cum initio sequentis coniungant. Nos mediocri sono, et fa nedimidiato,vt intelligas, fi voles, poffeelidi: percipiasque differentiam si dicas Multum ille: et, Multaille. neque enim totum fonum abolebant: neque enim intelligeres,sitne,Multum, an Mul ta,an Multi, an Multæ,anMulto, an Multam, Ita quelibato tantum sono, ftatim transabit yox, et in fubeuntem sese dat. * Nabm, differt gracilitate: claufo enim ore, et effufofono in nares m conformatur: at N, aperto ore, etlingua in palatum repercutiente vocem. BriffSplendidiflimo sono estin fine, et fubtremulo, pleniore in principiis,mediocriin medio, Nino. præcedes aüt feipfum penedimidio minor eft: vt Brenus, etfequete,vel c, fiue exili, fiue aspirato, longe adhucmutilatior,Ancile, Angustum, An çhora. ita vero, yt etiam diuersam literam puta BE rent: nec dignarentur vulgari figura,sed aliam · quærerent, exemploGræcoru: qui vtaliam often derent,inepte alienifsimi soni figura substituere, ipfius fcilicecr. Hæcigitur cum G,aut c, præcedi tur: atquum pręceduntipfum N,optime aGræcis i pronunciatur. Redea Germanis, a Gallismale: fic enim proferunt, vt nihilinterfit,vtrum dicas, Magnus, an Mannus. Itali hoc committuntinn, quod Græciin 1, suo:vt nescio quid fpuriiinue xerint, quod literis exprimi nonpoffit. Videntur cnim omittereipsum G, et aspirare ipsum n: ficuti Infulani Græci faciunt vulgo, fequenter, aut II, autor, auty.Nam Bysantios ego ita loquentes audiui,vt nos pronuntiamus. S,facitima omniu literaru, neq; enim sineipfa eflare posfimus. Quare non estmeritavt a Pin daro diceretur Lavxibdynor. Dionysius quoq; ca Rygenerosissimam vocat,at ipfums, expellit,re-, ïcitg; ad serpentes, maluit canem irritatam imi tari, quam arborum naturales susurros sequi. Pro nunciada vero eft mafculo ac coftanti tenore, no dimidiato, vt Itali, etGalli, quiper z,proferunt. Idem.n.sonus eftin Misi,qui in Miffus:sed duplo maior: non cftigitur alia vis, sed duplicata:distat enim no substantia, sed quantitate. Itaqueipfum x,Latinum male pronuntiant, præsertim Itali in Flaminia, vt parum distet az. Quin iidem pessimo consilio atque vsu adduntiņ pronunciationc, posts,in quoddesinat diet io, et postx. AnT fempercodem fit fono. Acde C de literarum quidem potestatibus hæc Quonia autê quæda funt controuerfæ, eas seorsum tra et arecommodius visum est nobis. As primum quidem de t.Eius,vt diximus, fonus fit Vam appulla lingua ad radices dentium quemsonum apudGræcos receptum est variare cum fequitur N, vt ANTONINO 2. emollitur e nim atqueaccedit ad D, noftrum. Eius rei caufla eft, quiafufpeditur pronuciatio in ipfon, ad pa latum, vt lingua non ita cito demittaturad deti tes: ita potius D,quam T.exprimitur.Sicetiam no 2 tam plene efferatur, quum lequituripfum, Al tus. Ergo quum non semper eodemsono vsuisit; At ayon quæsitum eft, quum præcedit vocalem Ì, atque hanc alia fequitur vocalis, an recte cõsuetudo te neat, vt aut Galliper integrum libilum, aut Itali per dimidiatum edant: vt in exemplis, Iustitia, bo Amicitia. Igitur quimutari contendunt,nitun tur consuetudine, ac præterea Grammatico rum quorundam autoritate, qui Litium, et vi tium, obliquos a Lite, et vite, finefibilo iubent pronunciari, vt a rectis duobus Vitius, et Li. cium differant. Vtuntur præterea argumento de Græcis fumpto: Nam fiillini, suum in 8, fo ni fleatunt polt m: fi apud cofdem r, esttransa aliud formatur: li denique t,ipsum apud Græcoś poft Nfonum mutata poterit et hic mutare. Poterant etiam fubtilius addere: fic, et Ć, crassius ante A, 0, v: exilius ante e, et 1, editur: eodem modo Con etiam t. Contra aliqui ita sentiunt,vsum nunc minimi esse et precii; et autoritatis, multaque 2 > mini 31 ud 4 ). 100 ! 4 minimeintegra haberi.M.quoque Tullium, cum vsui quidda dedit,id iccirco fecisse, quoniã apud populum dicebat quem sibi attentum,non recla mantem volebat: atquenihilominus sibi scien tia reseruaffe. Neque enim, quæ barbaries admi fit,foueda: fed quæ omisit vindicada. Neque nuc extare vfum quempia nobis: Barbaros enim om nes esse nos:atque,vtminimum dicant, peregrinos. Consuetudine,quæ legem habeatreclaman tem,corruptelam effe,non confuetudinem.Non jü, negare fese tenuiorem esse sonum ipfius T, ante 1,quam ante A, auto: sed eundem tamen fonum. effe. Nunc vero nullam effe rationem, quare in fibilum transeat: neque proba esse argumenta superiora. Consonantes enima sequenti vocali au mai nullas mutari, fed a præcedentibus consonanti bus,aut a fequentibus ob sonorum diffimilitudi nem.ficutilonicrassitie quæ in B, et P,fit,effici venjin M, mPombaur. Græcos quoque habuiffe au tores linguæ noftræ nos, quinihileiusmodicom autto menti fint: sed a Gotthis,Vandalis, Longobardis. inuectum sibilum illum. Præterea pudere vehe menter debere illosquiquum alios veniuntop pugnatum, ipfi vitiofa arma afferunt; quorum culpa conuincantur. Licium enim a ligando di et um GcPomba Lictorem, nõ iisdem literis quibus obliqui huius vocis, Lis,scribuntur,scribi.Ratio nem autem huius prauitatis esse, propterea quod Barbari omni in pronunciatione multum po nunt spiritus,ita vt pleraque insibilum degenen rent necessario. Quoerrore ctiam ipfum c,dixi mus ab ipfispronunciari.Hy 1 ma:: ) • 32 IvL. Cas. Scal. I. Cenice. De I, confonante. Consonantem 1, semper in principio fimpli cem effe obferuarunt: in medio autem non femper duplicem: nam in Periurus, simplex eft, in aliis autem multis pro duplici accipitur: Maius, Pompeius. Adducunt argumentum ab antiqua scriptura, pergeminum enim 11, scribebantur, Mailus, Pompeilus, quoru prius priorem claudat fyllabam: quomodo etiamnuncquidam pronun ciant Lombardi: fic etiam, vt supra di et um eft, claudit tertium casum relatiui Cui: alterum au tem sequens fequentem inchoabat. Igiturnoso lum quumincipit ab eo fyllaba,vt dixere,confo nanserit:sed etiam,quod omisere,quum termi nabit,esse possit. Quin etiam fequenteconfona. te vtin pronomine Huic.neq; enim v. hic est co fonans,afpiratur.ni.neque est diphthongus, et eft monofyllabum, atqueidem Iest, quodpriusfuit in fecundo casu,Huius,sicut in Cuiest,quod erat in Cuius. Ad hanc autem naturam non potuit v, aspirare, sed transiit in pleniorem, scilicetin B, celebs. neque enim temere a cælo et vita dedu xitCaius,minimemeritushoc,qui a Quintiliano notaretur:sed sibilussequensincausa fuit:quem admodum e cotrario in eiussonum aliquemmu tatumeftipsum B, Aufero,Abstuli.Proprium au Filipotem eft ipfius Inconfonantis, in pristinam vocalis care formam redigi: etaugere numerum fyllabarum. Hocque communehabet cum v,consonante,vt diximus. Martialis verfus eft: sed Tum rum. Sed norunt cuiseruient. Leones. Ftin obfcæno farmine ita pofitü eft: fed detestadu nõ meruitre citari.In Virgiliano auteversu etiã omissum est, Tityrepascentes a fluminereice tapellas. Fecit enim verbum illud Tribachum extrita A, quæ fueritin origine simplici, lacio. qua sublata, neceffario in veterem vocalis naturam reftitu tum fuit I, quo exemplo etiam in Bilugo, et Quadrisugo,idem euenit. Non recte igitur an- Rajce tiqui,cum Reilce,ita legunt, vt primam cor - quab. pripiant, ftatuuntque i, simplicem ibi consonan tem effe: redarguutur enim quum aliorum, tum ciufdem poetæ autoritatee tertio Georgicon, v rad bi producitur illa fyllaba:consonantis igitur ra com tione duplicis,nam fuapte natura breuiseft: Rejcene maculis infufcet vellera pullis. die Inuenias etiam, quumnatura media quasi quali dam sit inter consonantem, et vocalem:legimus enim Stellio apud poetam bisyllabum, et apud Terentium Iniuria, trisyllabum:item Oppressio, et Beneficio, quadrisyllabum, aliaque talia ple taque,oppresso sono ipfius I, ficut etiam in voce illa Dies,facta monofyllaba. Accidit autem hoc aliis quoq; vocalibus. Ea, Mea, Tua,Sua, mono fyllaba apud eosdem comiços facere cogimur: et apud alios poetas: Unoeodemque tulit partu. Et Propertium: Eofdemhabuit fecum, quibusest elata, capillosa I,indifferens eft nunc consonans, nunc vocalis apud Comicos in aduerbio, lam. 7 tona cel us TlUSE hodk OIL CA a di pleine ma VOC CAP. XIII. Affeettus finalisapoteftate. с Quo ante 34 IYL. 1. Q Voniam vero literarum finis eft, constitues rediet ioncs,iccirco secundum earum pote ftatem factum eft, vt certis significationibus aliæ Sparemmaliis potius seruirent:in metu enim,ac doloreef flamus:itaque A,A, dictum est,multum enim hi atum præstat:eadem decauffa,etiam afpirationes interie et ionib.afcitæ funt, affe ettum enim notat, confertus enim fpiritus editur. Ita consonantib. fietitia nomina suis quæque facta sunt.Quid.n. mollius,quam vox ipla hoc significans:quid im peditius,quam Bambalio, habes, et Baubare? paffiua voca quum protulit Lucretius, etiam plus tumultusexcitauit, Baubantur.s, valde fer, uit ad spiritus elifionem: - Salefaxa fonabant. R,autem rudiotem atquo asperiorem, vtMurmur. vtrunque coniun et tum implent valde, Stridere. et magis cum terminant diâionem, Stridor. Aspiratæ consonantes mul to acrius vrgent his adiunctæ, Fragor.quippe er tiam molliffimam omnium literarum etiam ex asperant, orcio6os, Praw,za01@ {w.Cyseruit hæfi. tantiæ. T, timori, AT, AT. M, vafticati, Malum, Mons, Mirum. etiam fonumipfum audias,quafi præsentem, in quibusdam vocibus,nízze. et apud. Virgilium cuius diligentiam non affectatam, ac diuinum iudicium nemo est affequutus omni um ynquampoetarum: percipies enim lignato rum operamillis vocibus: --fonat i£ta fecuribus ilex.etillud quantumeft --tremitietibus area puppis. Illa autem etiam cum naui dilabuntur. Labitur vnela vadis abies.- $ R 1 Tinni. 35 o Tinnitui fefe datn, Canere,Hinnire.Sed omnia exequi non eft præfentisoperæ, nequein omni u bus hoc inuenias: fortuitæ enim multæ funt vo ces;vtin yltimo libro est disputatum. Vitia potestatum allata vocalibus, aut confonantibus. TOn solum id, quod recteatque ex officio fa ciundum eft,cognoscere oportet,fed etiam quod prauum est cauere: ita in scientiis quoque perfeette proficimus. Ergo postqua meras pote fates perscrutati sumus; ipsa quoquevitia, quæ vitemus ex antiquoru obseruatione, fed moreno fro,hoc est,Peripatetico,sunt declaranda.Depra queste uantur aut vocales, aut consonantes singulæ,aut coniunctæ. Omneautem vitium fit autDefcctu, aut Excessu, autMutatione.Mutatio duplex,aut i literarum, aut locorum. Ita fit peccatum,aut in ubstantia, cum altera pro altera ponitur: aut in quantitate,cum maior,minorve efficitur: autin i qualitate, cumsono suo defraudatur, detorque E turq.in degenerē,aut peregrinū:autin loco, cum trasfertur,vt odayavor, Ox'oryavov.Igitur cum alia spalia subditur,quod faciuntParisienses,comuni » nomine, non proprio,Rusticitatem veteres Lati ni,Barbariem Græciappellarunt. In quantitate autem error per excessum, Labdacismus: cum *** craffius ponitur, ýt diximus, L Locus, pro Low e cus: fic Metacismus, cum m, mugiunt:fiçin voca libus Platyasmus, quum hiatu vasto putantgraui tatem afferri actioni.Huius eftgeneris etiã,lota cismus.cum ipsū I, exiliter maximeproferüt:atq; C2 21 ed CO ita,vtetiam fupercilia collat: eftenim exceffus in Sono:ac quanquam exilitas sit defectus,tameetiã defeetus capit incremetu. Sic cu alias cosonantes aspirant,aut crassius edunt,dicitur Saouras, Cra tes,pro Grates: Bibo, pro Viuo,aut etiam 'Fifo,, sic etproillo, Pipo. Contraria huic io xorysscum defectu peccamus: fice,et o, exiliter nimis pro munciant quidam Germani,quum tamen 1, ver fus et.deuoluant. Eftautem excessuset ille, quum addunt literarn, quemadmodum E,addunt Hil pani,et Valconesipfis, fi coniunctum fir, Escri bere, Esperare,Estare:vt vitarens overyuov; quod vitiuni est cum ipfum s, craffisfimum, ac pene fibilantcs cdimus. Eftetiam in defectu,kond6Wocy id eft,mutilatio, quum aliquid omittimus: quod Galli faciunt, qui multas literas inculcant, vto riginem, vnde deprauatum eft verbum, repræ fentent: paucas autem exprimunt. Contra est Battologia,quiet Battarismus, a Barto, qui Cy renas condidit,hominelinguæ impeditioris.Ge minant enim aut initia, fic, Popons pro Pons. aut fines, Paulala, pro Paula. hoc etiam dicitur jyros, et nouos ab Echo.Vitium autem initio rum vocaturab Erafino Titubantia:commodius Hälitantiam dicastu: hærent enim primæ fta tim consonanti: falso ab eodem rsauriouds.qua-, imf litatisenim vitium eft tecunotu-,fiuc osaurouess cum cauts,non quimus recte efferre:sicutnob. femper defuit linguaadipfius R, asperitatem. hi Latine Balbi diet ifunt: quo vitio laborauit Ari ftoteles. Et Alcibiadcs qui R,in L, detorquebat quanquain substantia poffis etia peccata dicere. X v. UN 10 =2 Sed hi Balbi ab Erasmo male appellantur Blæsi. Eft.n. Blæsıtas vitium oris, ficut et Xo11o5ouía: sed blæsidiftorquet literas,exoris tortura: xoirosopoz aute e palato loquuntur aut e naribus. Brasoos au tēet wbos, funt vitia cruru distortoru, valgiorum etvacciorum, vt apud Galenum videreelt. СА Ртт Vtrum F,fimula, aniemiuoralis. Poftquam vidimus poteftatem,quæ eftforma dicare iarn poterimus F, mutane sit, an semiuoca lis: sic enim Galenus quoque tlw zeciarpriorem mol Toćnepyeżą dicit. Ac mutam quidem effe, veteres med at ficpote contendunt: Principio,inquiunt,nome ! habet tantum semiuocalis, at noinen non mutat fubftantiam: Item si esset semiuocalis, di ettionem 2.. į quampiam clauderet, at nullam claudit: Præte-, 1:a reanullasemiuocalis ante I, aut R, in eadem fyl- **** laba ponipoteft,fed f,ponitur. Quarto,nulla se - t miuocalis ante L, aut R, pofita communem facit fyllabam,at F,facit.Ad hæc, Græcisidem esto, 95 nobis F: fed o apud illosmuta est:igitur et apud nos F. Sextum argumentum, præteritorum ini tia finesque non geminari nisi a muta incipiant: quare cum Fallo geminetfic, Fefelli, non erit femiuocalis. Poftremo F, pro p, et aspiratione acy cipitur,vt olim Phuga, Phama:at P,mutaeft: igi tur et F. Hæcargumenta fepte numero, vtqualia sint videamus,meinoria eft repetendum, quod fupra diet umeft:Murasnon inde appellatas, quod pa-ssou rum sonarent,fed quod nihilnullo: cnim conatuta? ad 11 باز C3 38 IVL. I. adduciqueas, vt B, nulla addita vocali proferas. Neque quod pro ratione adducunt,ratio est:Mu » liere informediettã,pro deformi: est. n. in eo voca bulo, Forma,çquiuoca vox: Nam et prospecicac cipitur, et procerta partium proportione, quib. figura constituitur perfe et ior. Hanc igitur negat præpofitio non illa. Sic formosu, a formato aliud eit:fic locutus eit Euripides: 1īpötov refieidas dēžiov Tupevvidos, Açmutæ nomen penitusvocem tollit, Græcoru fane imitatione, qui d Owe,nõlvoQwva dixere: nό κακόφωνα, non μικρόφωνα, quonia nul lam fibi retinerent vocem. Ea enim funt natura, yt magna pars, nisi clausis labiis, aur dentibus, aut vtrinque conformentur, vox edi nequeat: Idque declarat Mato quoque in Theæteto: αι βήτα,inquit, 'τε Φωνη,δεψάφος, επ των πλείσων stani hysoig eiw. Semiuocales autem fclo eduntur fpiri metodentu:adducta nanque ad palatum,vti diximus,lin gua solo fpiritu pronuciatur:tremula,atquevi brata paulo inferius, R: si spiritus ad nares af cendat introrsum, vt idem vult Plato in Craty lo, n, pronūciatur: fimplici mugitu editurm: i. psum vero fibilum, fatis constat,nullius ope vo calis indigere', quare factum est,vt etiam afpira tionis loco poneretur, leos, sedes. Ex quibus in fumma illud constat, spiritu pene solo enunciari semiuocales, ficut vocales fane solo, a quibus hoc illæ differant: quoniam vocales hiatu simplici, ferniuocales operosiuscula efflatione pronun çiențur, mutę nulla.Hanc autem horum nominū aptissimam cauffam,noftręscientię magistra au toritas Græcorum ostcdit, Nasi propterea essent semiuocales, quodincipiant a vocalibus: pfe et o cum a vocalibus non incipiant apud Græcosea rum nomina, non erut semiuocales. Igitur Lati ni priscicum animaduerterent P,quiděnullu pe nitus habere fonu, nifi vocalis addatur:addita ve ro aspiratione,haberevel maximum, intellexere: quippeinferioribus dentibus ad labia leniter ap: plicatis exiens spiritus, libilum imitatus, ipsius F, imaginereddidit:quo fa et um eft, yt propter:oni sui facilitate, obiret plerunque munera, quæipli s,debebantur. Id quod ite agnofcimus in semiuo calibus: Siquidē paspiratione quoq.positüfuit,,, vt Felena, pro Helena. Atque iccirco etiam, etx, a Græcis semiuocalium in numerü suntre latæ: quarum tamen tenues essent mutæ. Aspira tio enim tenuium literarum naturam animarat ita, vt nullius indigensadiumentisonusappofi tusin aliam speciem ad sese traheret. Eft enim aspiratio quali vocalis quædam, aut etiam vo calium anima ipfa: quare mutæ appofita femisse consonantis illi reliquit, alterum semissem fibi vindicauit, vnde et semiuocaliu nomē fit fecutu. Soluuntur ex his argumenta: Ac primum ato afferuntnon debere vim a nomine mutari: tantu ”, abest,vt, negemus vt affeuerem antiquos ppen sa huiusliteræ potestate, summostudio nomen, quod a Græcis acceperant,inuertisse:ídque indi diffe fecudum vim,quä сompertam habuere. Ne que talem putaffe, quia ficappellaretur: sed no. men impofitum propterea,quod talis effet, Aduerfus secundu argumentu:negamus necef Atz fe efle,omnia nomina omnib.claudi lemiuocalib, Neque vero re ette fic cosargumetari: Cæteræfe miuocales claudunt nomina:igitur fi F, est semi uocalis,clandereitem debet. Neque.n. dictiones efficiunt vt litcræ semiuocaliu aut mutarum natu ra foitiantur: fcd literæ faciuntvtdictiones fint: partes cnim totius caufla funt. Neque fiquali tcra non claudat continuo no fit femiuocalis.Sed caregula constituta eft abijs, qui hanc mutam pu tab-it effe. Præterea hoc eodem argumento a mutis excludam: Cæterarum pleræque mutæ claudunt Lac, Adad, Volup,Caput:at F non clau dit: non estigitur muta. Quid, quod priscorum testimonia aduerfantur neganţibus nomina clau di ipfok.nam vt omitta eos ysosesseAf pae præ politione: ipfius sane literæ nomen suo libifono F, claufere,etia cotra quam a Gręcis acccpiffent, * Tertia ratio negabat vllam semiuocalem ante I aut r in eadem fyllaba ponipolle. At hoc tibi negamus nos: quis enim hoc fibi persuasit, nifi quimutam putaret F? petitigitur,quod proba re debet. Sed et hoc falsum est: scmiuocales enim Græcianteposucre Sadw zepce, Quartü argumentu quo aiunt,Nulla femiuo #calem antelet R pofitam cfficere syllabam com * muneridiculum est.Si nanquefuperius argume tuin verum eft,hoc erit falsum: hoc.n.abilio tolli tur, nam et ibinegabant,nunchicponunt. Quo eniin modo communem fyllabam efficit, quæ ne syllabam quidem facit? Quid? li femiyocalis fa çilitas in cauffa eft,vtmutæ postposita, mora tain pofilla trahatur in fyllaba, vt etiam corripi por tiç, in qua tamen muta sit; quanto aptius atque comin commodius id inter duas semiuocales fiat? Mu tarum enim rationeminimefiericonstat: liqui dem vbi duæ funt mutæ,non id euenit, vtin ver bo, Tracto,quod natura sua dibrachum eft. Sed v bi muta cumsemiuocali vtin verbo, Agrum. aut duæ feruiuocales, vt in verbo ourvui. Quintam rationem, ex iis, quæ diximus,solu-,Asy tam videmus:?,nanquesemiuocalis eit,immuta: ta ipsius P, per spiritum potestate. Sicut etiam, etx, cum tamen T, et K, mutæ fint, vt diceba mus. Quoinstitutoinalias quoque species eædē mutanturmutæ. Addito enim sibilo ipfis C, D, P, fiunt semiuocales, præfertim cum fateantur ip: fius Y, quam ipforum Ps; esse sonum faciliorem. Sexta obiectio seipsam damnat: nam sumpta regula hac, Non geminari præterita, nisiid per 486 mutas fiat: cocludit per, Fefello,mytam esse F, cu tamen inueniamus,Šteti,Spopondi,Scicidi, quæ incipiunt a semiuocali. Nequevero ad id confu giendum eft, vts, nullam ibivim habere dica mus: liquidem eius sibili tanta est vis, etiam ipsis in præteritis Græcis,a quibus hic fluxit mos,at- p? que adeo in verborum initiis ita viget, vtiplam impediat geminationem s« {wěscexd.Atlis,nul lum erat,vtique eo abiectogeminatio admiffa fuisset. Sed quid agunt hi? nonne Momordi,ge minauit? quid enim aliud eftm, hic dicere,mutæ vice fungi, vt aiuntipfi;quam dicerem, mutam non esse sed semiuocalem? Quæ quia diruebat i sum canonem, ad mutæ functiones,atqucvices eos miserrime compulit. Quaresi eis neges verű effeillud apotelesma,probandum erit ea ratione: quia CS 42 Ivl. I. > quia non admittit femiuocales. At ego contra, non folum Momordi, hoc obiiciam: fed illud ip fum etiam, Fefelli. Igiturid, per quod probauit, maiore estin controuersia, quam hoc,quod quæ rimus: vt omittamus Græcorum et prudentiam, etinstitutum, a quibus morem noftrum induxi. mus, quiσε σηπε, dicunt, et λέλαπε, et μέμηνε, et vevu qe, atque alia eiusmodi. puerile enim est abducere a geminandi poteftate semiuocales, mutífque alperioribus attribuere: cum aspe riores literæ prohibcant in quibusdam gemi nationem. AlyPoftrema pertinacia,vtcum quinta cohæret, ita cum illa quoque foluitur spiritu mutatum, in F, etmutatam fpeciem, argumento etiam ip se ordo eft coniun et arum in diet tionibus: quippe ipsum r., ante senon patitur N: at F, patitur, ita vt etiam ipsum m, in fe mPomba, Anfractus, erate nim AM, abuol. Ludicrum quiddam additum ne res quidem meretur, vt diluamus: Audentenim fingere mo som dum nescio quem,vndeF,geminetur:scilicet per albumutationem:vt Offendo.at semiuocales non per, mutationcm, fed fuapte natura geminari, Olla, Flamma, Ennius, etalia. Quafi verointerfit po testatis per mutationemne,an per naturam gemi netur: geminatur enim, quia eius natura ita fert. Quali vero non cæteræ quoq.mutægeminentur: Obba, Acca, Reddo, luppiter, Rettulit: qua fi vero ipsum quoque F, non idem patiatur, Offa. Quafi vero omnibus femiuocalibus idem eueniat ylu: Non enim duplicibus, Quali vero E half somewea la veteres vllam consonantem geminarint. Hoc enim negat cum Feftus, tum Varro: et ta men eo quoque tempore et mutæ erant, et fe miuocales. Viram,, an, H, fit longior, O Vanquam 2, et, Græcæ funt:tamen quią nostratium dietionum aliquæ ab illis profe ettæ, harum vocalium femina retinent: feftiua, nobis quæstio tractanda eft, vtra scilicet longior 9 fit. Duas fententias constituamus: alteram ab origine, philofophice: alteram ab focietate, mathematice. Aborigine, fic: Quæ proportion | materiæ ad alterius proportionem, eadem et compositiad compositum: sed e, est materia ip * fush: et o, ipfius i: ergo fi o, est longius quam E, ita, quamH. Quod autem o, lit longius, quam e, probantper regulam: Quinti cafus fyl.: labam vltimam aut eandem effe cum poftrema - Reetti fyllaba, aut minorem. Igitur wioge, cum non siteadem cum nogos, minor erit. Ratioau, tem Mathematicaestcontra hanc,a proportio- oefening I ne societatis: Quæ est proportio totiusad to en tum, eadem est partium ad partes: fi æqualia in æqualibusdemas, quæremanent, sunt inæqua [ lia:Ergo cum ei, diphthongus sit longior quam 01: exempta vtrobiques, communi vocali; erit: quod remanet E,longiusquamo. Quod autem F1, sit longior quam oIs patet ex'accentu. Nam.p fine polyra Er, nunquam aut antepenultima acuetur, autpenultimacircumfleet etur:at fi o 1, sitin fine,vtrunque fiet. oixos, Pinorogol, Afferre etiam illud poffumus,E, ante L, apud Homerum produetumaliquando,uenwserwera. O autem nu quam: repugnat enim naturæ eius productio. Sole Hæcargumenta etsi sunt magis exercitatoria, quam neceffaria:tamen etiam pertinent ad veri tatem:neque enim illud Quintiliani recipiendu eft: Grammatico expedire etiam fi quædam ne sciat. Nam quem tandem ille fingite quadriuio extra encyclopædian? Dicamusigitur, e, esse breuius, quam o,plus enimtemporisin hac poni zur proferenda.Diphthogorum autem obie et tio illa nulla eft. Nemoenim ignorat, A, esse longius, 1 quam o, ettamen idem eucnit ipsi a i,quodipfi * 01, eucnire dicebant, pofita enim in fineacuitur antepenultima. Præterea eidem o 1, non id con tingit femper:non enim Aduerbiis, non Optati uis, cikol, a novo.Et in fecundo libro vsus is repro batus eft: nam si iccirco non acuitur antepenulti ma, cum poftremaeft longa, quia refolui potest: igitur accentus acutus in quartam a fine recipere tur: quod eft absurdum: fic, turlygues participio fæminino in quarto cafu: idem monstrum se quetur etiam si penultima longa resoluatur, fic 3uTlx00, Nec tamen ad id refpexere. Vfustamen Atticorum, fiaccentu rem metiare, huic fenten tiæ aduerfatur, et fauet priori: dicunt enim, μενέλεως. Locorum affe et u a poteftatibus inueftigantur. Hacferefunt poteftates cuiusque fonifin gulares: ex quibus fi quid præterea in me dium afferatur, pofsit tolli controversia. Neque enim optimi artificis est (vt ait Galenus) omnia persequi. Nunc fecundum loca sedes cuiquede- Loui bitas videamus.estenim potestatispars, comitem aut vicinam literam aut pati,aut nonpati.Igitur efftemed 7 literx'aut funt in dictionibus, aut no funt. Ti sunt, patiuntur mutationem aut in substantia, autin loco. In substantia bifariam: nanque autabolen tur a principio,amedio,a fine.Sic nomina triain uenta sunt, Aphæresis,Latineablatio:Syncope, Latine concilio:Apocope, Latine abscisso.Aut. transmutaturin aliam,Græce,uel Gonne Patiun 1. turin loco. Latinetranslatio, Græce MetJ8075, transpositio. Si non funt,addunt, autprincipiis, Desaters, Latine appolitio: autmediis,ervers Latine interpositio:autfini, Græci dixerunt hac abgerywoles, productionem. Hæc funt genera. Species autem, fic:Nartque aut sunteiusdem no tæ, et poteftatis,autdiuerfæ. Item a numero:vna, aut plures, Affectus autem non omnibus iidem, aut æquales:neque enim eiusdem generis conso aans aut principiis,aut finibus additur:nequedu ptices geminantur, vt nunc vsurpantItali,vt ex primant vitia linguæ degeneris a Latina:ponunt enim duplexzz. Acciduntautem hæc; aut ex v- Aca " fu:vt quafe, quafi: aut ex arte, et hocautex infle xione:vt, ago,egi:aut ex deductionc, et hîc bifa siam:naaut a peregrina,vtPatroclus, margoxiosa Auo, 31 Space kus ) 46 IvL. Cæs. SCAL·Io Auo, Punicum, vnde noftrum, Aue: Marathi Hebræum, vnde Mare, noftrum: aut a Lati nos et hincdupliciter: autenim simplex fluxits vt, a Titulo, Tutus:non, vt aitVarro, e con trario:nam Titulus, age' the rule, vnde et tiey. aut compositum,a luisparţibus,vtabigo. Dequi bus suo quoqueordine, agendum est. Sed quia transpositio facilior est, ab ipfa;cumvenią, inci piamus: nihil enim nocet. Transpositio. Ranspofitione fane interest ytrum intelli pages gas, relatas in prioressedesliteras, an dila tas in posteriores. Nam fi dicas Fretum, quafi Fertum, a Feruendo: vtrum intelligas R, ante latum ipfi E,an E, postpositum ipfi r? Sed omit tamus exemplum: fortaffe enim fuit Feruetum, atque inde nulla transpositione, sed extritio ne, fa et um Fretum. In rem ipfam intenda iusvocalisne,an confonans transponatur. Re etius fane iudicemus, consonantem, non voca lem transferri. Differuntur enim difficilia: difs ficultas autem in consonantibus:quare qui fta tim non poffent,moxin proximam sedem tran ftulere. Eft etiam a Græcis exemplum, opa jev dicimus, vnde Qayavov. quare cum cac gyavov dicatur,consonans, non vocalis tranflata videtur,  Abolitio, Ablatio, Concifio, Abscisso. Propofitio, Interpo fitio; Appofitia Bolitie est, cumtollitur litera.genushoc #beli A ho prius tractandafunt, quam Præpositio, Interpolitio, Appofitio: propterea quod tollimusquod Oro eft: at quod est, prius eft, quam quod non eft:est enim habitus prius priuatione. Si autem ita con. sideres,iam ablatas effe: tuncecotrario et Synco pametalias primo tractesloco.Nesitigiturfrau di, fiue quali ablatas, siue quasi auferendas con templemur. Additur ergo diuersa in principio:Aals Edurus,apud poetam, pro Durus." In medio, Mederga. quæ cuitandi hiatus cauffa inuenta V eft. maximeque pertinet ad V, vocalem: Alcu · mena, Aesculapius, Hercules. I, quoque eius 1 vsus sit particeps: Nauita, Nautris, Nauta enim C primum fuit. et, C, consonans, Sicubi, Combu ro. et 'aspiratio vehemeris: Mihi, Prehendo. et # ante medium, poft principium: Loumen,,P Lumen.et in fine: vt, Comperior,pro Comperio. Additurautem fimilis, A HI AM, in principio:in medio, Reddo: in fine Nausicaa. Quod autem ve teres adducunt pro exemplo ex Horatio: Reducet in sedem vice. itemex Terent. Phormione, Sectari in ludum:ducere, acreducere. hoc est, librariorum manum, non autoris fidem implorare, neque crim in his iambicis velin illo dimetro; yel j hoc tetrametrozneceffaria spodco fedes eft. Sed e Lucretii libro primo poterad afferre: Redducit Venus: aut redductum Dadala tellus. Quemadmodum autem s s,etR R, et L L, ge minata debeantur superlatiuis, suo loco dictum est: contra quam recentiores deprauarunt. Con iner tra autem tolliturab initiis: vt Natus. fuit enim Gnatus, Generor. De medio: vt, Periculum.de loco ante medium qui est:Pratum,quod fuit Pa ratu. Hæc a Nigidio Figulo Intercilio diet ta fuit poteft etiam Concisio dici, vt, fermo breuis, qu vocabitur concisus. Rationc carminis interdum fa et um eft,vtapud Homerum, qums, pro aique πος. etαγροτητα, pro ανδρότητα. etapud Oppiani, μόλυβος, pro μόλυβδος. Ιnterdum ob tedium pro lixæ diet ionis: Periculum. Aliquando ob difficul tatem:vt, eonos, quodaliis eftesãos.Alias ob vtru que:Bruma,ßpoczurua. Aufertur a fine: vt in ple risque verbis, etlusit Ausonius: Qui reminisco putatse dicere poffe Latinė: Hic,vbi Co, fcriptüeft,faceret Corficorhaberet. Sed etin vsu communi a fiiciebantM, et appella batxantar, extritionem. Items, Multi modis. Sed in scribendo. nanque aiunt M Catonem fic fcripfiffe: Die hanc,pro Diem. Pindarus poeta non folum eligit, s, fedetiam eiecit exulem: cum poematium condidit, in quo nullus penitus fi bilus reperiebatur. Mutatio in communi. Vtatio est parte incolumi vel manifefta, 10 qui* M ptioque extranei: neque enim mutaretur fine fymbolo. Appello nunc symbolum, quod philo fophi, communem quandam rem anatura colla tam. Quanqua enim elementum indiuiĝbile eft: tamen quia fonos quofdam latentes inter fe affi nes habent:iccirco ea foni parte incolumi, altera inducta eft. Ac manifesta quidem eftin duplici- nani bus. Etenim, 2, cum fit exs, et D, in Medentio,D, fila remanfit: fibilus abiit hæcmutatio per ablatio. nem, non per transmutationem facta est. At ve riorin verbo Plautino,Siciliffo,s, remanet: Din alterum s, abit.osenicacia Occulta autemia Cari circon - santra, ex Cassandra.communis nanquesonuseft quidam D, T. neque differunt,nisi mollitie qua dam,autexilitate. Alia unutario, ex infle et endi Ja fleiri modo, haud ita vera eft. Cum mutantur ea, quæ habent inter se cognationem, aut genericam: vt vocalis in vocalem, consonantisin consonan tem:aut quæ secundum fpeciem fit: vt,certa vo calis in certam. At participium aetiuum præsen tis temporis a præterito perfeet o cum deduci mus: duas diuerfas consonantes recipi,vocalem que transmutari conftat. Mutatio,qua fit ex consuetudine. Vocales. G.Enerica mutatio hæc,atquehuiusmodi eft: cætcras nunc fecundum fpecies exequa-, mur: ac primum cam, quæex vlufacta est: cer tissimis enim fonis cognationem oftenderunt: nam quod veteribus fuit, Magefter,Amecus,Me- 1 derua, Quase Misc.Sibe Here:puncper1,Magi D fter,;  so Ivl. I ster, et reliqua. Sic olim Leparenfes, postea Li zparenses, autor Feftus. Contra 1, ponebant,vbi nose:Niapud Plautum,et Vergilium,quodnos Ne. et E,prov:Auger,nosAugur: illi Hemona, nos Humana. et pro o,illicompes,nosComjos: Eolummore,vttoties diximus:qui Sortu, quod Attici, isívtz. Siceriam Hilus, proHolus.et He Pmone,pro Homine. Vbi etiam o, pro i, quo niain Homonem, dicebant: NuncHomincm. € etiam E, quod nos, A, Cato enim Dicem, Fa o ciem: quæ poft illum Dicam, Faciam. Item o, in A,vt iam oftendimus. Hemona, pro Humana Et pro e, Amplođi, pro Amplecti: nam eiuf dem fontis eft texa, et wazr. Sed etiam in a liis. Voftris, Vorti,nunc Vestris,Verti: vt primus omnium Africanus emolliuit: nam quod erat Vortex, et Vorfus: ipse Vertex, et Versus, ma luit. Sic etiam in 1, Olli, nunc illi. Item quod Isthuc, nos Isthoc. contra il li Voltis, nos Vultis. illi e contrario Fulguri bus, vt apud Lucretium, nos Fulgoribus, Cun cha, Gungrum, Fretu, Lauru, Huminem, Fruns, Acheruns: nos hæc omnia per o. Dev, et 1, fatis fupra di etum est: aiunt enim €. Cæ farem primum omnium Optimum, et Maxi mum, quod erat apud priscosOptumum Maxu mum pronunciaffe. o, Thuscos, Vmbrosque caruiffe,memoriæproditum est. Quarequi Epi fulam, et Adulescentesmaluntdicere, Vmbros fese, non Romanos profitentur. Nam contra Romani Polchrum, etHercolem, etDauom, et Scruom,protulere. Ex diphthongis autem, illi oe, nos v, Moeri, o aosMuri. adhuc antiquitatis vestigia remanent in Mænia, pofteritatis autem in Munus. origo autem erat ab or: uchege, rata fcilicet cuiusque mouletto civis pars. Apud eosdem Æ, integramanfit,quam nos ini, mutauimus: Exquære, apud Plautuma nos Exquire. Av, in o, ete contrario: Claudius, AV Clodius:Aula, Qila:Plostrum, Plaustrum. Mutatio Consonantium ess confuetudine." Onsonantes autem veterum fic mutauitp. fus: posuiteoim b, prod, Duonum, Bow 3 { num: Duellum, Bellum. quod etin Græcis no I tauimus, dis, Bis. et eandem,pro f:illi AF,nos AB: (illi Sifilum, nos Sibilum. Sicut e contrario, illi Bruges, nos Fruges. 1 D.posuimuspro R, illi Aruena, nos Aduena: illi s Aruocati,nos Aduocati. et eandem pros:illi Af uerfa,nosadversa. Fypofuimus pro PH,Fama, quodfuit Phama. * et Fuga, quad fuit,Phuga. 6, posuimuspro R, Argerilli, nos Agger. il- G. li Argrego, nos Aggrego. Itali die Arger dicunt.curiosenimisVictorinus, vt diximus, Anger:sicut contra, Agchora,non An M,posuimuspro s.Committere,quod illiCofam. mittere. R, posuimus prod, Meridies, olim Medidies..R D 2 quia quoque ho chora. $ IvL. CAS SCAL. L quia uteo, et uloor, et mcdium, cognata crant. Elifimus, Carmena, Camena. et candem pros Odor, Vapor,atque eiusmodi: olim Odos. Sed et abillis Passes,di ettum fuit: quod nos Passer. Vul gatum quoqueillud eft,Valesius,Fufius:nos Va ferius. Item illi Carmena, quod poftea Carme na, quod retinuimus in carmine. ItemUfrcna, posteri Orrena, Æolensium imitatione qui non dicunt opw egw; fed pow. S ś pofuimus pro C.Suscepit, olim Succepit: sed ita puto, a veteri voce pofteros deduxisse, quæ fuerit Sus: priscos autem a communi Sub. Et eandem pro aspirationc: nam quod est no bis mufa, illis fuit Muha. Etpro M, Prorsus,quod eratProrsum. Etiam elifimus: nam illi Calmil la,Celna,Dulmus: nos detraximus sibilum. In quibufdam tamen manfit folus, Strenna: fed cum aliis, Stlites, Stlatum, pon manfit: Litics, Latumi. T, posuimus prop. Adqueilli dixere, nosAt que. fane melior priscorum ratio: nam et mollior fonus eft, etorigo seruatur. præpofitionis enim vis adhuc manet, ut dicamus, Tu atque ego: et sit, Tu et ad teego. Sed voluere discrimen effein ter præpofitionem, etconiun et ionem. Eiusdem modifuit,Sed:nam e contrario olim erat, SeEt: difiungit enim, Tucurris,Se Et ego sedeo. Sepa rata enim efta et io meaab operetuo. adversatur cnim vox illa,Se, ut seorsum, fecurus, segrego, separo, et aliainnumera.Etiam Aud, non aut, et illi dixere, et nos dicere deberemus: nam fi negatiux Haud, addita cft afpiratio differentia cauffa: sane cætera elementa ad quærendum di fcrimen non funt mutanda. quin fortasse potius vtrunque ficciore elemento scribendum fit, Aut, Haut. Græcum enim fuit, art. Omnis autem difiun et io vim obtinet negationis. v,pofuimus, pror, Seruus. at Æolice ficleri - V bebant, Serfus. Aspirationem supposuimus: illi, Belena:noszl. Helena, detraxinus autemmultis, Charum scri bebant,nos Carum,vndeet Carere:quoniam de ficiente annona carebant, atque ibitum illa cara erat, Aiunt remanfiffe in tribus, Orchus, Pul cher, Lurcho. Orchus tota Græca fuerat, et trans lata aspiratione a vocali ad consonantem špxos.vi. detur ex epitaphio Næuii poetæ, aspirate preto, nunciatum: Poftquam est Orchio traditusthefauro. Lurcho, contra analogiam afpiratum fuit: nam Mucco, a muccis: et Bucco, a buccis: ita Lur co, a lura, ob ingluuiem: fed ratio significatio ais potiorfuit, ob fonitum voratoris. Sic Quốir, aspirationem admißt. At quare pulcher aspi retur, ratio declarat: fuitenim Græcum10 auxere, id est, fortis: fic omnium do et iffimus poeta. --fatns Hercule pulchre. PulcherAuentinus. Igitur Romani qui omnia ponerent in fortitu dine, cum demum bonum, et formosum puta runt, qui effet fortis. Itaque fortis quoque pro pulchro positum eft apud Plautum in Milite:AC que sine ratione: exemplo enim Græcorum fa, et um est, qui nænor, æque et formofum, et bonum fignificarunt. at bonus fortis eft: malus au tem,caxos,imbellis:vndeCaculæ,quiin numero militum non effent,age' to xaltats; quod eft ce dere. χαζεο τυδείδη. lidem veteres multa inuertêre: Catamitum, pro Ganymede: Melonem, pro Nilo:Lubedon tem, pro Laomedonte. etiam inueni vbi Sagun tum pro Zacyntho dixerint: quæ nos omnia funditus euertimus,non solum elementa immu tauimus. Mutatio per inflexionem. Vocales. Oteramus fine flagitio, non exequi partem hancabinflexionibus:nequeenim certa niti. tur ratione, etpuri Grammatici interest. Sed ne quidomitteremus,appofuimus: non tam vt om sia comple etteremur, quam vt principia ipfa fta tueremus. ز A. Igitur A, breue in longum mutatur, ve Re et us fert primæ declinationis, et sextus cafus: e contrario longum in breue, Par, Paris. A, breue in, breue, Parco, Peperci: nam parco eft, partem arceo: id eft, continco: Pars autem nagura corripitur, a nop @, quoniam pars præ cedit totum: fumptum nomen a mefforibus, et vindemiatoribus, et lignatoribus, et paftori bus. A, breue in e, longum, Facio, Feci. A, lon gumine, longum, Fallo, Fefelli. A, longum in E, breue, Stas, Steti. A, breue in 1, breue, Ca do, Cecidi. A, breue in 1, longum, Peccata,Pec catis. A, longum ini, longum, liasexto fingu- i 1 " Iari 51 EN T 1 lari primæ deducas sextum pluralem, Bona,Bo nis. E,breuein E, longum, Scro,Seui. e, longum E in E, breue, Fides, Fidei. E, longum in a, bre ue, etlongum Anchises, Anchifa, fexto casu, et Anchisa quinto. E, in 1, breue, Culinen,Culmi nis: ini, longum, Eo, lui., breuein v, breue, • Pello,Pepuli. i breve in 1, longum, Audio, Audiui.1,lon- g. gumin i, breue, Ainbire ambitus. I, breue in A, breue, Siquis, Siqua, rectus fæmininus: in A, longum, Siqua,aduerbium. 1, longum in A,; longum, Qui, Quas aduerbium: fuere enimo lim casus quarti, posteafacti suntaduerbia. I,bre ue in e, breue, Rapio,Rapere:in E, productum, Turris, Turres. 1 breuein v,breue, Rapio,Ra pui: fic enim volunt: nam nos putamus fuiffe olim Rapiui. Sed sunt alia exempla, Alitis, ali tum: in v,longum, Quis,Cuius. 1,longumin v, longum, Qui, Cuius. Sed et in o, quod etprius fuit,Quoius. o, breue in longum, Pulmo, Pulmonis. O, 1 breue in A, longum, Amo, Amaui: in Aj bre =; ue, Do, Dare: in E,produ ettum, et correptums Lego, Legere, Legerunt: in i.correptum, Hon mo, Hominis: in 1, productum, Scindo, Scia di: in v, correptum, Domo, Domui, in v, pro du ettum, Sequor, Sequutus. 0, productum in v produetum, Erato, Eratus: in 1, breue agni 1 * 3 I tum. 7. V 2 v, breucin longum, Domus, Domu.v, logum in v,breue, Penu, Penuris. Sicenim fcripfere pri D 4 mun, s 56 IvL. I. mum, quod nos Penoris. Sed eft et aliud exem plum, Cornu, Cornua. v, breue in A, breue, Cor aum, Corna: in 1, correptum,Genus, Generis: in 1,longum, Bonus,Boni: in breuc, Caput, Ca pitis: in o,breue, Fenus, Fænoris: in o,longum, “bonus”, “bono”. Mutatio Dephthongorum ex inflexione. FOOrtasse etaliæ quædam sint mutationes, quæ addentur, fiquis inueniat:fed fi quæsunt, non Epi multæ superlint. Diphthongi autem fic trans eunt: et in A, Quæ, Quarum:in 1,longumCædo,, Cecidi,diphthonguscnimibi fuit, a Græco kai ww. Contra ex 1,factumestoe,Incipio, Incæpi: quoniam fuit, Cæpio. Inuenias autem etiam interiplas mutationes, fi Nigidium fequare,cui re ettuspluralis fuit, Bonei, ad differentiam fe. cundicafus fingularis Boni.et fecit l'urreis quar tum pluralem,neesset, Turris vnuse singulari bus. Quod fi ita debuit, debuit et variari quar tus pluralis fic, Domous, ne esset vnus e singu faribus, Domus. Sed nos præclara ingenia ad miramur, confuetudinem fequimur. Sic etiam relatiuum variabis: re et us fingularis, Qui: ter tius cafus, Quoi: reetus pluralis, Quei. Vete tes autem etiam tertium fimplicissimefcripfe re, Qui,non Quoi. sic enim legimus illud Ver gilianum: --qui non rifere parentes: Nec Deushíc mensa,Dea necdignata cubili est. eft enim pofitum pro, Quoi fiue Cui. Scriptura autem communis etiam reco, fecit vt etfenfum inuerterent Grammatici, et peffime Hiftoriam, aut fabulain, quam afferunt, adaptarent. Mutatioconfonantium exinfexione. Aior adhuc reftat labor: sed fane sit cum venia,figratia carebit. Boni enim artificis partes funt, quam paucissima possit, omittere.B, B lemi C, D, G, M, N, Q,R, T,mutanturins. lubeo,lulli: Pard co, Parsi: Lædo,Læsi:Spargo Spars: Premo.Pref fi:Pono,Pofui: Torqueo,Torsi:Vro, V ffi:Fle et o, Flexi. Videretur autem etiam aspiratioin s,muti tari in ' I rabo, Traxi: sed acutiusinfpicienti par lam erit, aspirationem in gutture mansisse, at que induiffc proximi elementi pronunciatio nem, ipfius fcilicet c, additumque potius effeli bilum, sicutin,Prefli,m, mutatum, libilum addi tum: in Torqueo autem q.ablatum, atque in cæ teris alia. Contra,s,in D:Paris,Paridis.Item fic di xere: quemadmodum B,ingeminum ss, Iubeo, luffi:ita et D, Cedo,Cefli: et T,Concutio, Concus fi. Scd profe et o prudentius contemplabimur, cosonantesillas in simplexs,mutatas, alterum au tem esse præteriti ipsius. Ita G, mutatur in suam - comparem: vt, l'ingo, Pioxi:nam in ct, mutari quod aiunt,falsumeft,in verbo, Agor, A ettus.Sed eadem proportione affinitatis in C, mutata as fumit t: ficut faciebatin verbo Fingo, in præte rito assumebat s, in supino T, Finxi, Fiet um. apparet id e contrario: namque c, in G, “grex’, “gregis”. Quod autem ftatuunt, c, in v, coe - xemplo, Pasco, Paui, abie et o fibile, puto E DS nou 58 I'vL. I. nonita effe: sed verbum vetus fuit now, quod fi gnificauit et fequi, et assequi: vnde etiam satws: quafi iuwi, vt org: yes. Æoles enim et decurta bant, et tollebant aspirationem:iidem vero adde bant onw, indefactum eftnoftrum Pasco. Eiur dem originis fuit etToo', quoniam in pacato, non in hoftico pascebant:vnde etiam Pax. Aby trouis autem præteritum illud fluxit: neque e nim Palco, fuit primigenium: ficutincqueNo sco,Noui:fedqoxu, fuitgrow,grão Sic ncque in T,mut:tur, vtputabant in verbo, Irascor,Iratus: Fuic enim iralcitus,quod poftca deficum est: etab iecit fibilum, quiretcncuscft alio verbo, Pascor, Partus. Non clt igiturs, quod mPombaur in T, vt prodidere:in conanque verbo mansitincolume: a neque c,in t,mutatum: etenim fuit Pascitus. N, abiicitur, Scindo, Scidi. neque mutatur in v, vt scripsere,in verbo Sino,Siui.Aliquadoenim fuit, 27Siniu.Q in suagermanam, ScquorSecutus.Nec trasitin x,vtvoluere,in Coquo,coxi:sed assumit K fibilum. NequeR,in v, quodaiunt, in Sero, Seui: fuit enim Serui: quodextritu est,ad differentiam eiusdem verbiin alio significatu: vix enim muta tam eam literam inuenias inflectendo. Ats,mu. tatur in n.Sanguis,Sanguinis:quoniam fuit San-, guen. In D, ycdiximus, Paris,Paridis. abiicitur ex duplici remanente altera parte,Perdix, Perdicis. Trastin R,Flos, Floris:in T,Nepos,Nepotis.Sed non eft verum, quod profitentur,in v.confonan temmutarisibilum eo exemplo, Bos,Bouis: as fumpsit enim Æolicum digamma, vt in Oue, et Quo. Nequemutariia I, in verbo Paciscor, Pa et tusy etus,vt sensere,jam colligi poteft ex iis, quæ fupra. diximus, fed t, eft peculiaris ipsi participio, Ama tas, Doctus, Lectus, Auditus, Latus: fedin Pos Poris, t,in x,tranfire, üidem male docuerunt, illor exemplo,Fle et o, Flexi,fed in fibilu,vt fupra dixi mus: quod coaluit cumc, et fccit duplice,xin vox confonatem æque male mutari arbitrantur,in ca voceNix,Niuis: Verum vietw, et Denis, ogTo vína, vnde etiam nostrum Neptunus:non,vtCi cero prodidit, a nando. Inde noftrum,Ninguo,et.. Ninguis in reeto: et niuis,concisum: et aliud con cisum,Nix, mutato in c, etconcreto cum fibi • loin x, in obliquis autem mansirprisca vox. Ne- H: quercetesen scre, afpirationem in CT,transferri, Veho, Vecum: fed ita fuit,vt diximus. Habetaf piratio aliquid fimile cum c: itaq; alicubi in Va fconia quod alii Hodiedicunt,ipfi fua linguaGo die. Ergo Veho, facerer Vehfi, affumto libilo, vt Ć Duco, Ducli.postea,Vecfi: et fupinomutatofi bilo in c, vt diximus, Veettum. v,quoqueabiici v notauere. Citant Solinum in colle et aneis: quali vero is fit antor veteris Latinitatis: eius verba · funt: Tatius hominem exiit,quasi vero apud pro bariffinum quenque Kedilt, Exilt, Adilt, Pre-. " terilt, desideretur. et fortaffe apud Solinu Exuit, 1 legendum est. Mutatur quoque in feipfam, rece į pra vocalis pristina natura: et econtrario, Gau deo, Gauiius: et Persoluiffe apud Tibullum:quo niam Soluo, fuit örovava. Mollescit vero adeo, vt ctiam abeat, vt apud Catullum eundem, Nonita me dini, vera gemunt.iuerint,pro Iuuc rint. quemadmodum etiam in libro de Camicis s dimensionibus obseruauimus 1 1 Pres IvL.Proprium trium liquidarum L,R, N,C, T,non Ligmamutari in quibusdam nominibus:Sal,Salis: Ci cur, cicuris: Tita, Titanis:Halec,Halecis:Caput, LR.Capitis. Proprium et l, et Raffumere fibi alte c ram:Mel,Mellis,Far, Farris. Ipfius autem c, assu mr.sme etiam t: vt,Lac,Laettis: nisi lita reeto pri sco:dicebant enim Lađe, a Græco, amputatis duabus litcris, ranentos. Obfervarunt etiam id, EDO 1.,2,5,x,in præteritisnon mutari:Caelo,Caclaui: Stupeo, Stupui:Laffo,Laffaui: Laxo Laxavi. Sed his adderentetiam R, Torquco, Torli.et c, Dico, Dixi:coaluitenim,non autem mutatum est. et P, Scalpo,Scalpfi: pam si duplicis literæ figuramha beremus in hoc, vt habuimus in Dixi, poluifle Bmus.B autem non mansit semper, ledig compa rem suam mutatum eft:Scribo,Scripfi. X Proprium x, quod mutatumfuerit in compo fitione in declinatione elidi: Effero, Elatus:quo niam verbum quoquemutatum eft. 1 costs » Q que Mutasio in deductis Gracis. Vocales. VæaGræcisdeducuntur, in iisita fiunt vo calium mutationes: Breues autlongæin en æquales:aut in inæquales:contra natura commu nes in illas. Igitur longæ Græcæ in longas no ftras, woy, Quum:breues in breues švos, onus:bre ues in longas,me,ab eo quod fuit ue.longæin bre ues,opoinaAxov, orichalcum: rgra crepida:origo FERA: in natura comunes, qul.Corripitur ma ximæ parti poetarum: producitur Statio,Gatul lo, Cornelio Gallo.Item verba dyw. Communes natura in natura comunes: vt, Pharfalia,Sicania. Eædem in breues perpetuo, Humus, ab i'w.vua' et in longas perpetuo,Vdus,ab eadem origine.sic Whou,sputuin. Idque non solum ob vsum,fedet iam obpartes, nanq; positioneinterdum fithoc: vt co a qua In, natura breuis,aliquando fit pofi tione longa: vt Indigena. aliquando fit natura, propter naturam pofitæ consonantis: vt, Infelix, infolens:abs, aut F,incipientibusquum coniun gitur. Hæfuntin communi præceptiones:sigilla tim autem fic recenfeas. Ain A mutatur,κάλαθος Calathus: in 1, κανατρον, Α caniftrum: in o, fi Copo,azarnos venit:in v,9şi au6ss, Triumphus: payyanilev,stragulare: xpære many, Crapula:non,vtdixere, quod caput graua ret.Quodautem aiunt a, in y, apud Græcos verti co exemplo,savuno,qualionos naufw, falli sunt, eftenimότι όλων πόδας, 3λιτρις, montis nomenob altitudinem: quem quum afcenderent, interro gati quoirent,dicebat,in cælum,vndecæloco municata yox, A, etiam sibi assumit I. more Æo lico, φαισιν, φασίν. Ιta αίσκηπιός,nos Efculapium. E,in e,breue, feos,Deus:in longum,ido Sedes: et per abscissionem.dew,De:fic enun dicunr cixos, "Subir deivtov: nos duodeuiginti. In 1,ryyu, Tin go: In o, et uw, Vomo: in v,dvos, Vnus.Abiicitur #polyw, Rudo: fed puto Erudo, fuiffe fimplex non compositum. H, vt diximus in sui dimidium.xennis,Crepida: H news,Herus.In se totam,tlwenom,Penelope.Nun quam autem h, in I, transit, vt barbari invertere,. atq; etiam corripuerein Paracletus, Eleeson, E leemo 1 IvL. I. 1 leemofyna,Iordanes.Nequequod poffent suspi cari,Vestis ab iis, fed ab Vae, et vuota, Græca origine,Latina terminatione. Male corripuitlu uenalis in Satyra xun CALPE: neque enim fuit vt zpeurs. In Æ, diphthongum nonmutatur Ħ,vt dixcre,fedin E, illo exemplo, ozler, SCENA: si enim dipthongum quispiam comminiscatur, id nulla faciat ratione. fed in A, frequens eius tranfirus est apud Dorienses, et nos folcnsium imitatores, xiboensn's, Citharista. 1, in A, 9.ygoeves, Tango:in e, cx diphthongo, suivr', Pæna: etiam folum:? apriva, Cancer, in I, longū,ai liuidus, Qi G, Filius: etvoce vsitata malit, omnix, Homilia:falso enim transmutandu iudicarunt.fic notes,Litus,quod effet terra tenuis: etnoftrum mitto, au tov wizer, quoniã qui mit tit elongat. Abiicitur, quaesia, Norma,emedio: fic etiam a fine, ei, Per. Additur rau't, Nauita. ' o, in feipfam breue ci,ouis:in logam, G-,So las:in,decreov.Aratrum, ve voluere: fed commo dius a sup.Aratū:ficut Rutrūaruendo.neq;bonu cstexemplum, ab iļus,acus:fed acus, ab a žueor, ta pro arista excuffa, Acus, Aceris proprie, quam metaphorice pro instrumento sutorio. In e, joriy Genu, Æolum more, qui idrs, quod aliiodx.fic Euander, l'avdeo: In 1934620,Imber.in vibles, Iuba: rozpoxa, Patroclus:.ivaseus, Vlyffes.Sicin principio,medio,fine.In vlongum, Boords, Bru tus. In Avdiphthongum, opeixa Axor,Aurichalcũ. Abiicitur ab initiis, odi's,Dens. A fine,Si,AB. Y Y,in v, rusplevos, Turrhenus: Truppos,Purrus: in Avend, Illurius: duw,duo: duw, verbũ, Dumus, tam brevem, quam longum cthis exõplis.In o,cyniex, Anchora: Duici, Folium.In E, zAwue's,Aicedo.in 2,brcue, 270,vimen,vnde no?rum Ligae,non a legendo, vt Varro.In a, muo,Canis. s, in fe totam,woy, Quum, inuidimidium.de fyc.;Ego. In vlongum,oue, Fur: non ve Varosa Furuo. In Ave, Æolicum, scommunc, Aurs, Latinc. In v,brcucije Herus.In e, fparu, F12 tcr: fic enimmutaruntXolcs,quod erat Dp, integrum, Deizturpinon autem plagiariorum fal fæ etymologiæ. Dithehongorum mutationes. A Gracis. AL Æ,cencia ', Ænças.In A, longu, repertuan,Cra At pula,extritor,more Æolensium:ficute contrario quoque, vt diximus. In e, breue,faire,venio.Im perite nanque verbum hocita funtinterpretati, quasi versus nos eo. Habes deductionis noftræ exemplum, in Fenestra,adTo Calvetar. autmu tata,aut abscissa, faltem ab e povov. Non licin Ple gethonte, et Phaethonte. nequc enim ab GeoJo's, diphthongum traxere, fed agese feer, vt ex Cra tylo Platonis, et Ariftotelein primodecoelo, et M. Tullii multis locis diximus in libris de infom niis: neque diphthongum illam redigiad sonum breuem: quippe dai,dixere: sicut etiam 9: etgea, Gcut gaia. Abiccta a, remanet i longum, quo niam Æolenfium more facta est diphthongus.er: a Xands,Achiuus:Æoles enim aze, vndeetiam fine digamma inuenias Acheus.quod ego non per diphthongum scripferim Latinis Ar, fed per, E,exdiphthongo Æolensium, vt Lyceum, que xtos:cos caim maximefequimur. AY, 64 IvL. 1. A ' Ay, manet in Taurus, turīgo:mutaturin v.cau. pec,Surus:qucm et lacertum piscem vocant. Abii citur, haipos, Parum: nisi a parteducatur: nam Pauluin, inde venit omning. E1 E I, ante consonantem,semper in I, filit naru ralis verbo, inces, Thefidcs.at Beveowono fic, nifi Græce loquamur fyllabæ gratia,vtnosin he decafyllabo dactylum fecimus Xeinia.hæcautem mutatio femper fit fequente consonante, non autem L,tantum,vt dixere,illo exemplo, Nilus, Eing. Diximus autem literam naturalem, quæ effer ipsius dictionis, onrai,Grociên: nam in zettw, aduentitia etsiccirco non feruatur a Latinis. An te vocalem ipsum isolitariuin nunquam muta tur,Sophia,Comedia:nequediphthongus sem. per, 1 halia, Alexandria, Nicomedia, Langia, Lampia, Argia,Lycius: sunt enim Goemmel, et ciur. modi: et nuxeios, li Lycie apud Statium scriptum eft: nam ctiam Lycee, legimus. At fæpius in E, productum, vtin Acheus, dicebamus. Dareus, Penelopea, Adrastea, et Seruius Thaleam, dici debere autumat. Eft auteme,longum Æolen fium imitatione, qui Snuosterns pro imposterer din cunt, et nde!, pro idei,et uñov, pro ucior. vnde et her sexinterpretatione Platonis: ettrov,pro W16 ox. Interdum mutatur in E,correptum,more Do rico,expuncto 1: To vixsov,Puniceũ,vt apud Ver gilii πυφωέα,Typhoea, pro τυφώeια, et φοινίκειον, in fine vocum quoque vnica litera scriptum fuit in vetustissimis codicibus,Orphi Calliopea:et V lyffi,quod erat őPeñaduasti. Horatius diuisit, Laboriof nec cohors Vlyfsei. Itaque etiam in meris Latinis pronunciandum monent, Idem, Eidem:lfdem,pro Eisdem,eorundem niore Aco lenfium. Ey, manet, Qeü heu.Abiicity,Achilles,axona v acus. Itaque etiam Achilleus legitur, cuius obli. quum secundum posuit Horatius. Heu peruicacis ad pedes Achillei. Neque e nim verum est, vtaiunt, in v, mutari, illius ver- ym biexemplo,Peuzw,fugio:nam ab aoristo ductum fuit Ouzov.lic epau yw,Ructo,dempto E, etpofito frequentatiuo. oi, inoć, naivino Poena. Patitur autem multa di- 0 phthongus hæc:diuidunt eam Aeolenses,rorov, zoinov. Eorum legib. nos Troia reoło, sicut Maia, z wała, Aiax, sas. Interdum mutatur eius pars,in terdum aufertur, arbitrio eorüdem,month,Poe ta.Vertiturin Ei, vt of her: in v, Poivixetov, Puni 19 14 ceum, 1 and 71 oy, in vnostrum, Musa, uolls. In v, breue, Bu s bulcus.In olongum more Aeolensium,38,3ūsy Bos.In breue, Borqu.co Volo:abiccto y, moreco 4. rundem, qui αμπέλος, dicunt pro αμπέλες. dico, ei abieeto in mora,non in scriptura.nam oynon est illis consonans.Sicenim dicunt Asgatup, sicut lo. nies Buzoriupo Quiautem putant hanc diphthon gum ad Gallos manaffe ex us, et Tou: non femel ineptiunt.Eorundem enim in aliis vitium est, E, vocalem ficdeprauare. Sic enim corrupêre no mina mutarum:fic vulgo quum voluntinterro gare Quid?aut Quæ?sic Rex,Fides, Vicem etalia infinita pene o y eademin E, '885, Dens it's ' Pes, etiam aliquo modo mutata est, cum ex 18'w, E Lauo lu L.E. B Lauo factum est. 121, diphthongus spuria in legitimam o ujxclien Mesidía. Comedia.In o, w8, Ude. 71 T.eiufdem nocæ atque ordiniseft. recipitur in vocibus Græcis integra Harpyia, d'oc. Y sr,Latinivalde distortam, ionib. r'eliquera. Confonantium mutatioin deductisa Gracis. B Græcorum et facile et legitime tranfit: idem enim effe fupra oftendimusBwi, Bos. In v, di gamma, z36x, Auus.In affinem huiusPH: 9play Goss Triumphus. ryingi,zorvs Genu: aut in fimilem'vt Työss, Cam ius. nam quemadmodum apud Athenienses aus Toxhoreca etapud Thebanos ouaplois ita Latinis? vetustate, etOpici, et Indigenæ, et Cail dieti funt. In n, aut ei propinquam, azgeros, Angelus. Abiicitur, gumentua, Norma. A,in D,onos, Dolus. In 2, odvartucy Viyffes. In B, C, Bis. In's » n'am quoflexu illi, tepare.coem, nos eorum exemplo, Arenosum. z, in z, iccirco apud nos etiam figura eadem cum eadem poteftate recepta est. LtPusos, Zephy• rus. In ssuaisa, Massu.In i, tuzo, lugum. e,in TH, tptow ', Thraso. In D beasyDeus. Itt 1,θρίαμβος, Triumphas. K. K; in c, Calare, nonet: Caloncs, varov. In co. gaatam fuam et, Quatuor, xxxpd. prorojen na, line aspiratione apud acoles. nam quum dixiffent, Vnum,Alterum,Tria: pro quarto di mere, et alterum. Sicapud poetam, Alter ab vndecimo. Slove urce Aurea mala decem misi: cras altera mittan Sic etia, Quinque deduxere: vt effet, et vnam præter quatuor; cêrze. In G, xutpvcew;Guberno, Ain L, nit, Libs.In Difeneto, Meditari: falso A enim ncgarunt. Mnegarunt mutari, attulerunt exemplum il - M lud, tabua xes, Telemachus: fed fruftra fuere: nam ex uñnce, Balare factum eft. Etextritum eft ayudc. Amenta: oyuao, Sagus,Sagitta. Nin N, nostrum; Ninus, vīvošo In Djnajvw, Cx- * do, έκανεπ, όκάεπ τον έλλίωων τον αριστν, ex Εu ripide. In L, nam quinquagenarii numeri nota fuit Græcis N, nobis L, fic quod illi veuQxr, nos Lymphas: et apud Virgilium fic legêre quidam: Dant famalimanibus Nymphas. In M; wal gusov, Pægnium. Additur a Græcisnoftris nomine nibus, xatwy Cato. Demitura nobis in illorum commune riuwv, Simo: et in nostris ab illis defluxis addi- sonho Borda tur, idx, Dens: =, falso negaruntmutari:nanq. etbovec, Afleres, non ab aslidendo, vt dixere. Supra declarauimus Acum et Acuruin,vndeduccrerur:itaq. ab Oc; non putauimus fieri Acor: nam potiusabwav'. 11, in B, Tubor,Buxus: mubas, Barrus: 70, Ab: 11 Caij sub: accipit aspiratione:gownlo's Trophrű. P, nimis iprudeter mutari negarut,vtaip,aer: na mutatur, 20 pxūves, Cacer, ne effet Carcer, et in. 1, a cupov, Paulum: sed potius eft diminutiuu, In D, fi raveriw fit, vnde fiat nostrum Gaudeo. 2 2, in D, uesov, Medium.Tollitur non foluin in prima inflexione,vt dixere; quipias, Býrria:sed e tiarn in aliis, aas Sal: et in principio, ouu't s, Cu tis: alibi feruatum Scutum. In x, amo, Aiax. E ij Contra quidam fcripfere Vlyxes.In R, κυβερνήτης, Gubernator: quoniam Aeolenses xubEphy Trip, et xubepvýrwp, qua forma verbalia nostra funt. Quin Eretrieses, vfque ad proverbium dicebant, ouan potm-, quod alis effetsunypotus.quod et in Francis Be notabis. E cotrariossin x,noftrum uc osow, Ma xilla: nam Mala per fyncopam curtatum fuit. Mandere quoque a ux'asw ductum fuit, sed fane non pauca eget interpolatione. T, in s, isa, Offa. led commodius sic dicere, fubductum fuiffe:alioquitranslatitia sunt inter se,33 runos, Theffalus. 9, in PH, popew,Phormio.Ine, quc, Fundus. 0, For. x, in CH, Chromisszevõues,In G, Ay % w, Ango. In Kyroxos,Locus. in Aeye, denan, Loquor. pie neque enim â locis,vt Varro vult. Sicet xxenãos, Montent Aqua. Omnis enim aqua dicta eft eius amnis no mine, et a lauãdo quoniam erat cemenzos: quod et Macrobius docuit nos etVibius Crispus: et non ignorauit do et iffiinus omnium poeta, Poculaque inuentis Acheloia miscuit vuis. neque enim ab æquore aqua: fed ab ea, æquor. 1, in Ps, quasov, Psyllium: et in proximas BS, yť A4, Libs: dexy, Arabs. # Aspiratio manet, ouws. Homo: eft.n. animal sociale:non ab humo, ytsomniarunt. Adimitur, anuwv, Alcedo: tunc,Amentum. Mutatur € dos, Sedes:epTwy,Verpus lumbricigenus,trallata vox ad obscenaob exilitatemi,nona vertendo pelle, vt aiunt: fed mediunt digitum propter gracilita tem significauie metaphorice Manet cum consonantibus, Tholus,4oros. Adimitur, vt Opiaubos,. Triumphus. Additur, oportcev,Trophæum. Dt.C Subtilius autem intuenti etiam id deprehen sudah 1, detur, aliquas etiam fi mutentur, remanere:vt, Aloj Troia, Troia: etenim 1, et eadem etnon eade est. Digamma interponitur, vt diximus õis, Ouis.. et Præponitur, -, Vis. Interponituretc, co bos, Spe Fraau nm. lidla cus. dice Funds DISM Mutatio ex deductione in fimplicibus I Ammultæ operæ prouinciam capessimus:fi- Ralowe Ibi enim quisq. placuit in verboru deductionę.ueJakbosui's Ergo quæipli non inuenere, nolunt effe ita: do ceri enim turpe putant. Aliquiautem, inter quos di Varro,etiam maligneeruerunt omnia e Latinis, com Græcisque fuas origines inuidêre. Nos cum sci vite remus Magnæ Græciæ nomine priscos Auso nes, atque Latinos frequentatos, reddidimus pud fuis qnanquenatalibus vocein. Deducio,eftcreatio noui verbi,exprioris ele quis mētis.Prius igiturde simplicib. mox decopofitis. Abreue in breue,Paro, Pario: in longum, Pa- A 22. ro,Parco: in AE, Aqua, Aequor. a, longum in lon gum, Vado, Vades:in breue,Vado, Vadu: Ater, Atrox: feroces enim fufcefcunt ira. In E, apud Græcos,Baww,Ben... apud Latinos,Pasco,Pecus, non eft:namn zoxoc, Homero fuit lana: quonomi 1 ncetiam nunc fafciculum certum, fiue penfum ta * vocant in Italia alicubi, fed pe Itaque a lana vetusta vox nekos. In o,Vena, Ve nox. In v, Mare, Maria. E, breue in A, longum, Legere, Legare, quoniam adlegendum, hoceft, E iij dicens 24 7.251 " anim mitt genere fæminino, scilit 360 " Son 70 I dicendum mittebantur,au o 7o aegeiv. € Elongum in breue, Sedes, Sedile. In 1, Veha, Via: vt vult Varro, ino, Tego, Toga, Græco tum ex mplo, neyw, neges. Etlongum in o,bre ue, Sedes, Solium. Inv, Tego, Tugurium. In v, longum, Dies, Diu. In AE,Sequor,Sæculum. 1, longum in breue, Dicere, Dicare: in lon gum, Simus, Simia:nonautem w To wuela, vrinepriunt. í, breue in breue, Mina Minax: in longum, Via,Villa,Vilis. In A, non mutatur illo exemplo, Generis, Generatim; sed a plurali re cto fere deducitur. Viritim,Ostiatim. in E, cor reprum. Hlicio,illex. In v, Specio, Specula. o, breue in longum, Vomer, a Vomendo,vt vult Varro; in breue, Volo, Volones. Longum in longum, Donum, Donari: in breue, Moles, Moleltus. In a longun.,Dico, Dicax: in E, lon gum,Tutor, Tutela:in breue, BonusBellus: fuit enim Bonulus,Boncllus. In 1, et longum, et bre ue, Amo,Amicus,Amita. Inv,Tego, Tegula sed Tega, prius fuit:Stclo, Stultus. V. v, longum in longum, Þus, Puridus, in breue, Scutum, Scutulatum: Rus, Rudis. Breuein bre ue, Lutum, Lutofum: breue in longum, Pucra Pulio: Suo, Sutiliş. In - A, Veredum, Vereda rius: nisi sit a plurali quod et puto: Cudo, Qua tio. In e, Pignus,Pigneror,quia fuit Pigneris. In, Cures, Quiritis. In o,Pignus, Pignoratio:sed ab obliquis potius:Decus,Decor,commodiusex sinplum eft. Mutatio in diphthongis exdeduetione. or,in, v,Poena,Punio:Moeri, Muri, vt dixie a mus. Av, in v, breue, Randum, Rude: nam pafos, A. fuit virga dempta ex arbore impolita: inde Raye dumæs: et ab ca ruditate, Rus.Consonant:um mutatio ex deductions 3, in M, Globus, Glomus. B c, in G, præcedente n, Centum, Quadrigen G.. ta.In R, Scco, Serra; sed puto primam syllabam fuiffe originis: canina autem litera geminata, ftrepitum imitatos. Geminatur Pecus, Peccare: non vtgrammaticorum ineptiæ, pedem capere, Din T, Cudo,Quatio.fuitenim vetus verbu, mu'dw,adhucdurat muda wasignificat ftrepere:vn E de xudes, conuitių, et xvocs, gloria, ftrepitus ille po i pulariş. G,in c,Genera,Cneus:Gula:Curgulio: Vi;in ti,Vicesimus:Pertingo, Pertica, rusticum inftru, mentum ad fructus decutiendos. Le in x, non mutatur exemplis illis, Ala, Axile la:Mala, Maxilla, vt aiunt: nonenim ab Ala, Axil. i la: sed ab Axilla Ala, extrita, vt ait Cicero, ele. menti vaftitate: fic enim cenfuit M. Tullius, Veho, Vexi, Vexum, Vexulum, Vexillum,: et cvyxorlu, Velum: Ago, Axo, Axa,Axue a la, Axilla, Ala: Masso,Maxo, Maxa, Maxula, Maxil a, Mala, vnde uauntiños: Pango, Paxo,? Paxus, Paxillus;Palus:vt non parum errent qui aby Ala,putent, Axillam,diminuutum duci. Ašą E jij au 7autem et alia, fic funt dicta, vt Faxo, Graxo. Etia falso mutãtin R,illo exemplo Tabula, Taberna. nam Tabula, fuit diminutiuu nominis,quod nuc non extat, a quo Taberina, vt Suterina, Tonfte rina. Sedin his,E, abiit. in Taberina fublatum eft 1. Omnino autem a Tabula etiam Tabulerna, fi cut Nafiterna, est autem Taba, et Tabula au TO TriLu,quoniam tabulata in ædibus, et vlmis pla niciem extendebant, Nin L, Vnus, Vllus: Vinu, Villum:non muta tur vt dixere. Sed fuit Vnulus: etvinulum. Ins, mutatur Findo, Fissus.In r, Canis, Catulus. sed a Cato, deducunțpotius,etplacet: atiidem, a Ca nis, Catus, ipsum trahunt, Rinn,Murus,Munus.fuit enim Munus, onus muris reficiendis, vbi primum vnum in locum e vicis conueniffent ad condendum oppidum: inde Munimenta. Id oneris cum remittebatur yirtutis ergo Donum dicebatur. Ab Ære au tem non fit AEneus, vt dixere, yt mPombaur R, in ' N: cuiusreiargumentum eft,quod etiam AES neus dixcre. Itaque fuit AErineus. Sic AEter nus, ab AEthcre: et fuit AEtherinus: vnde Sem piternus, quod fuit Sempæternus: mutatur e pin ae, in i, Quæro, In Quiro, etabiecta est af piratio, vt in multis. Sica Vere,Verinus.Vernus. 1, enim abiecere,quod mansitin Matutinus, et a liis eiufmodi. Nulla igitur ratione corripuere fe cundam fyllabam. Mutatur R, in l, Niger, Ni gellus, quia fuitNigerulus, et in s, Ardco, Ar, fum. Aflum ynde Aflare. T, ind, Quatuor, Quadra. 1 xadditum estin Vix, aduerbio, a Vi, quod? negat facilitatem. vnde Vices: nam quod per / vices fit, videtur difficile effe, etvix fieri. Fortar fe etiam rectum ipsumfuit, Vix, Vicis. z, tota Græcorum est. neque a Latinis in La- 2 tina deriuatur. Demitur aspiratio, Fingere, Pingere. Mutatio in compofitis. Vocales. Ompositio, est coalescentia similiu aut fpe-Amis nisi esset,ea fimilitudo, quam Græci vocant or use Banov. Dico autem, compofitionem non actio nem, quæ præcedit ipfam concretionem; este nimin prædicamentomotus:sed ipsam mistio nem duarum vocum,partim diuersarum, partim fimilium. Eft autem modusquidam inter ipfa: Nomina enim nominibus propiora sunt: faci lius enim dicitur, Pontifex quam Proconsul. nam consuetudine extortum hoc fuit: erat enim per initia, Proconsule. Sic etiam verba cum diuersis partibus desinunt effe, vt Mancipium. A, breue in a, breue, Comparo,Paro. In A.. A longum, Indago.etratio est euidens, concreue runt enim vocales dex. A, longum in A, lon gum,Gnarus,Ignarus. A, breue in e, breue, Sa crum, Confecro:Caput, Princeps. A,longum in E,longum,Arma, Inermis. In e, bręue,Ti bia, Tibicen,tibia canens. A,breueini, breues, Ago, Abigo. In 1,longum,Instigo, ex coalescent te 0,et A,infto,ago.Verbum agasonum, et armen tario 1 1 A E V 74 IVL. I. + tariorum. Sic, Tibia, Tibicen, exi, et A. In o, Historia, Historiographus. In v, Sallus, Inful. sus. In Troiugena quoque videtur a, in v, muta tum.In diphthongum,Mufa,Museum: li usation fit, in E,vt supra diximus. E E, breuein E, breue, Ferus, Efferus, Hercise rço, Nouerca, noua diuisio familiæ, non vtnu gantur. In e, longum, a RE. Rettuli. E, lon gum, in longum,Telare, Protelare, in 1, lon gum, Ledo, Collido. Ini, breue, Lego, Col Jigo. o,in o,longum,Solus,Consolari,a viduis, que I cum fe Tolasrelictaslamentarentur, oratio lenia ens defiderium dicebatur, in Homicida, non ver titur in 1,fed ab obliqua fuit, Hominicida. In v, vertitur,a rola,Exul. v v, breue in breue, lubeo, Fideiubeo: neque fere cumaliavoce compositum inueniasa longa tamen fit, Ius hab o, quam quantitatem reti nuit etiam in Iubilo: nifi fit, ab iwin's vocibus triumphatorum:superstitesenim vitam Apollia niacceptam ferebant, cui canerent pæana in vi et oria.iw.BiwiToma'v.v,in e, breue, Iuro, Peiero. In 1, breue, Cornicen. v, in feipfam,consonans in vocalem,Pituita, quadrifyllabum Catulla. con kain Auceps. Diphthongorum mutatio in compositione, AE, in, 1, vt diximus. Aeternus, Sempi the A v,in q:Plaudo,Complado, In F, Audio, O tcrnus. Bedio.vbi ob, nihil detrahit, fed cauffam finalem dicit. In y, Claudo, Includo. Consonantium mutatio in campositione.. Bemutatur in C, F, G, L, M, P, R. Succurro, Suf. B fero, Suggero, Sulleuo, Summitto, Suppeto, Surripio. id Acolenfium more, qui, xatteCON, reclamar; dicebant, præcedentem sequentis vi · pronunciantes. Neque tamen in omnibus his literis femper eadem connixio eft. Malim enim Suslimen, quam Sullimen dicere, et Submur, murare. at Plautus Summanare, a manu, fu? rari, ficut a Vola, Inuolare: item Subreperc. Cum D, autem integrum manet, Subdo: cum N, Subnixe: cum s, $ ublilire:cum T, Subtice re. Ante seipsum quoque non mutari par eft: nam fi aliorum fonos fequitur, ne obturbet, ip sum se fouebit: vt in fimplici Obba, quæ esset obi bibendum: ita igitur dicetur, Obbibo. Neque mutatur ante T, in s, vt dixere, in Sustollo, nanque fuit vctus. VQx, S V $, quæ motum ce lum versus significaret, Ünoder, fortasse autem fuerat, Subs, ficut, Abs: quanquam hoc vide tur fuiffe cit. et a Sus, fuit Susum: fecit autem ex fe Sustuli, non enim a fuffero, venit. Ea dem est ante c. Suscipio, quod veteres Suc cipio, ve diximus, Acolenfium more, quem admodum supra declaratum est, quos prisci e tiam in aliis obseruarunt, vt est apud Plautum, in AGnaria. Supe 1 1 76 Ivl. 1. CI Suppendas potiusme, quam tacita hæc aufe ras.Quod nos Sufpendas.l'ari exemplo,Suspicio, Suftineo, Suscito,Susuin,Cito. Exteritur ante M, aliquando, Omitto. [ c,mutatur in G, Negligo Neglego: ficut Ne gotium, nec otium. d,in c,Quicquid, Quidquid, Accurro, Acqui ro:in G:Aggero:in F,Affero: in L, Allego: in n, Annuo:inp. Appon:nam quod in Aperio,sub flatum est, factum fuit poetica licentia, nam e. tiam Apparere,dicimus.In R, Arrogo: in s, Af sideo:in T,Attollo. Sed inuenias, Adrepere, et Adfum, et Adniti. Consules enim auribus, etma „ teriæ: ficuti Plautus cumiocatur: et maluit Ar fum dicere, quam Adsum: vt Tubinferret, Ate go, Elixu Volo.Antem,manet, Admitto.Eximi tur sequentes, coniuncto, Aspiro, Ascendo, A struo:item G,coniun etto,Agnosco.Contra,addi turinter vocales, vel mutata, altera, vt Redigo, vel neutra, Prodeft,Mederga,Redhostire, M. Min Nanteomnes, præterquam aute B, P, et seipfam. Imbuo, Impono, Immoror, Concio, Gondo, Confero, Congero,Coniuro,Coluţibi lis, Connitor,Conquiro, Conrugo,Consequor, Contueor, Conuolo, Anxur. Sed aliquando etiã fequentis L, aut k,naturam, subit, Colligo, Cor myrigo:fuit enim Cum,præpofitio, no Con, alia ab illa, quæ in compositionc tantum inueniretur: Nam etiam in aliquibus integra manfit, Cum primis, quod verbum, qui diuisere, vt duo face rent, paucæ fuere lectionis, neque meminere e tiam a veteribus, Cumprime. ficut, Apprime. / Item. 77 0 Item fi effet Con, vt dixere, quæ nam illa sit, qua z audimus in Comes, Comitium, et clarius etiam num,in Mecum, Tecum?Præterea fequente vo - 3 cali, quis vnquam adiecit n? atabiicitur conso nans in hac præpofitione composita cum voca lis initiis:ergo talis est, qualis abie ettionem patia. tur, ea autem eft m. Nam alioqui interponimus consonantes, vt diximus Mederga, Redeo: etiam sequente aspirationis craffitudine, Redho stire. At in Cogo, quod fuit Coago, et: Cohor tor, et Coorior, et Cooperio, quid dicant? Postret mo inepte putent I n,aliam effe,cum per n,aliam cum perm,fcribitur.Sed curto fuere prisci Gram matici iudicio, quorum nostri nomen potius, quam merita funt fequuti. Atfatis constat fonu ipfius v,in Cum, rotundioremfuisse, qui etiam nunc manet. Vmbri enim non Latini obfcurio-)) rem illum alterum in vfu habebant, Nunc, Gallis pronunciari,admonebamussupra. Mabiicitur, Circuitus, et Cafeus, fi a cogendo, vt vult Varro,non a Cafa, vt nos iudicamus, dedu catur. Item in Cognosco,nam yaorw, integrum } fuit:nequcenim est additum, G,vtputarunt,erat 5 enim γινώσκω. n, in M,ante B, P, M. Imbuo, fuit enim a Græ- N 60 Buo, priscum verbum buw; etfignificauit in =; fercio. Immortalis. Impono. Inc, etiam volunt illis exemplis, En, Quid, Ecquid: En,Ce. Ecce. Abiicitur qualegem,lupra,Ignauus,Ignotus. In G, non vertitur in lgnominia, vt putabant: fed eft vt Gnomon. Ryin L, Intelligo;hocautem vsu, non lege fa - R Stum o quem in 78 IvL. CAB. etum eft:nam Interluo, et Subterlabor, et Perli tus, etSuperlatiuum. At Politianus, cum mauult, PELLEGO, videbaturin hoc,vtin cæteris fibi, no poffeeffeprinceps literarum, nisi solus effct: fed aliunde poterat diuinum ingenium fibi parere gloriam,quam ex deformatione Latinæ purita tis; Abiiciturin verbo, Peiero. Śs,in'F,Diffundoineque enim fuere duæpræpo fitiones, vt suntarbitrati Grammatici,Di,et Dis: fed Dis: Græca: nam binarius numerus primus est,qui diuidi poteft:quod igitur bis facimus,dif continuata opera fit.iccirco præpofitio hæc ex v no plurademonstrat, Dinido. quoniam quæ fc etta funt,bis videntur. Seruatur in multis, Disco lor, Disgrego, Disiungo,Dispono,Disquiro, Dir fidco, Distuli. Ante cæteras tollitur, Diligo, Di mouco, Dignofco, Dinumero, Dirimo; Diuido; SwohisDiiudico. inuenias tamenDisrumpo: Antee; * Sy haar te nondum venit in mentem, anponatur hæc præ. pofitio: x, ante f,mutatur: Effigio. ante vocales ma net, Exaro, Exeo, Exilis, txoletum. Non abiici turate D,fed ipsum d, tollitür, Exuo, erduci. Ano te alias manet, Excio, Exlex, Expono, Exquiros · Extero. In aliis autem non'eximitur, sed E, præ positio est,non e x, bibo,Edico, Egero, Eiicio; Eligo, Eminco, Enato Eruo, Evado. Inuenias Lampytamcnante F, integrum, Ex: fed in eo verbo, quod quia nolo hic ponere pudoris gratia, aut per te ipfe intelliges: autfi non intelligas, non docebo.Cum vocibus autem abs, incipientibus b -componas, quid facias? tollas fibilum?non.n. ne.? 7 7 1 necessariumest, nanque in x, fyllaba poteft ter minari: sed soni suauitarem fequendam censeo: Itaque commodiusdicemus, Exequor, Græco tum exemplo: qui certis locis em,aliis, l ", dicunt. Sed recentiores, vt fapere videantur, omnia ob -SAYY turbant:at nosveterum fequimur simplicitatem, qui Exul,fcripferc,quanquam ab Ex,et Solo,du ceretur. Hocitaque cum re et e fic fe habeat, pes fimo argumento probandi rationem male iniue re. Nam inquiunt,fi poftx, liceret feruare sini, tio vocum compositarum:pari ac simili lege etia liceret polt Y. fed nõlicet: neque enim dicimus, Abffectum neque Obffeffum: ied vnicas,fuitco tentus vsus. Vbi dupliciter peccant: primum. cum putant s, quod in Excquor est, præpofitio. nis effe non verbi:hocenim falfum eft: nam fi- > gnificatio verbo debetur, ergo et partes, etrema nıt veftigium prxpofitionis Græcorum lege. quos imiramur, Ecfequor. Alterum errorem vi. deas manife'tum, cum putant Abs, esse integram » et natiuum præpositionem, cum tamen fit Ab, 4.5.14 per apocopen, vm, quod et pater in ob: neqreco nim nec ile habeas dicereObs. fed per apocopa ötw.nanquera,fuit fimpl. x.hrw. compositum. Obs tamen fuiffe in quibufdam, videmus illis e xemplis,Obfcurus,acura:Obfiænus,andtoxcs/ you,vnde Cænum noftrum. Atin abfcedo, Abs eft, et Cedo. fed nihil ad rem. 1, mutaturin R, fia patre, non a parente, lic'a' Parricida: fed hoc plus placet nobis. MORdinis nomen Græcum eft. Dicebantmi. Ordo literarum,quatenus diettionis partes funt. Que cuique syllabe debeatur. Rdinisnomen Græcum eft. Dicebant mi: limbus Tribuni: Hactenus tibi licet: Hîc consistes: Eo progrediere: Huc reuertere: Öpor dwindeordo. Acoles autem non aspirant, quo. rum instituto fane libens accedo:nihil enim hel Juonem magis fapit, aut Barbarum, quame gut ture insufflare aduersus eum, quicum loquare. guideft igitur ordo, loci ratio, qua quidaut præit, autsequitur: velante, vel retro, vel dextrorsum: vel sinistrorfum:vel fursum, veldeorsum. Nam prioris ratio est,præeundi: posterioris,sequendi. In militia, vt diximus, nata vox.fic etGræcitoa Žuv, ab aciei directione: Translata in ciuitatem prostatu hominum,liberorum,seruorum. Inde patrum,plebis:additi et Equites. Et Lex Otho nis Theatralis. In plebe etiarn fuit ordo: classia riorum, proletariorum, duicenforum,capitecen forum. Ab hisad corpore carentesres fusum sia gnificatum, vtetiam ordo innumeris dicatur, non folum in rebusnumeratis:non temere. Eft enim et numerus et mensura caufla rei numera tæ, vel menfuratæ, non quidem vt fint, quod funt:fed vta nobis cognoscuntur,aut tot,aut ta tæ, fed hæc altioris sunt operæ. Eftigitur in lite ris ordo,potestatis pars,fecundumquamlicet ip hiefis aliam atque aliam sortiri sedem, propter vim qua inter seautconueniunt,autdissident. Quam uis autem in fyllabis cognoscitur, non tamen a fyllabis 81 fyllabis fit, sed facit fyllabas:eftenim forma fylla- Online sales barum Ordo:ac propterea nonad loca, quæ de fyllabis ftatuunt, referendus, vt fecere vetercs:fed hicretinendus, vbi agitur de elemetis: Elementa enim fyllabarum materia sunt: ordo aute forma, aut poteftatis pars, aut abipfa pendens poteftate. Eftigiturvnum ex duob. principiis fyllabaruin. Quum autem duplex fitordo:vnus ob composi-ceSpeeches tionem quo quid aut præit, aut præitur:alterin difccndo: vt de quo elemento primum lit scri bendun.: prior species ordinis vera eft: quippe ex quasyllabæ conftantur: is enim literaruni finis, qui partium prop: er totu. Alter modus, qui qua lisve sit,suo moxdiceturloco. Eftenim acciden talis quanquam abipfa profeet us fubftãtia. Iam cuiusformaeft eiusmodi, vt prima prodierit in lucem atque vsum sermonis, hoc de lese præstat, vt prima quoque dicatur,proximanamq; eft na turæ communi. Acquanquam defyllaba non. dum dicimus, tamen hic tanquam de principiis fyllabæ scribentes, nomine tenus syllabam refe remus. Omnis igiturliterarum cohærentia, autin ea dem fyllaba fit,quam propterea Græcio 2013 m. 72 Ziarlas nosin philofophia aliquando constitutionem, a liâs concretionem, hic faciliusconiunctione di camus, per quam syllaba, quæ literarum coniun Etio quęda lít, conitat:aut in diversa deftituuntur literæ,nequefub eundem tenorem veniüt,iccir coque Ale saou vocant Græci,nosdiscretionem, diliun ettionemvenominamus:iplasq; literas dis fijas. Id autem vocum dignoscitur proportione: by stay Iul. tit. 1. Renquarum vt quequeinitia observamus,ita et fylla Du bisascribenda iudicamus. quoniam enim ab his incipiunt vocesper fyllabas,ipfæ quoque syllaba incipient.Exemplum eft Conspiro:quia ab NSP; nulla vox incipit, nefyllaba quidem incipiet: fed Nyprioriseritfyllabæ finis in diastasi, cum fequeni te,proptereaquod a cæteris duab. invenias prin cipium diettionis, Spes. Neque vero evenit id propterea, quodex Cum, et Spiro, compositum est,vtquasi in partes pristinas reducatur:fed idem modus erit etiam in Pulchro:erit cnirn Pul,prior fyllaba. Altera autem a duabus incipiet confo 06. nantibus: iccirco quia vocis initium invenias 2. tale, Credo. In Excedo, autemi si quis quærat, vbi sit distinctio faciunda, intelligat non esse neceffariam fcindere x. nam quanquam est du plex vi, figura tamen vna eft, et indivistbilis, quemadmodum supradiximus,alioqui non esset elementum. Neque fi fit facta vis dietioni - bus, per concifionem, ve Extin etti. duarum e nim literarum vltima erit fyllaba, quia Lynx di citur. Proprium autem eft confiunctionis,certas vo cales,certa que admittere consonantes. Difian ctionis autem, omnes quidēvocales,nonomnes confonantes:vtn, non admittit ante fep, aut B. Etin coniun et ione nonaliam admittit, quam V, etad diphthongos cõficiendas non omnes cow currunt vocales. Las igitur fe mutuo anteire, aut consequi diversis in fyllabis, iam declaratum eft. In eadem autem fyllaba præeunt, et, “E” o: sub sunt, E, V. Quinetiamveterein diphthongo eIs fubirs subit, i, vt Queis, pro Quibus: fcriptum a Vergilio esse vnica litera,constat ex Gellianis narratio nibus.In interieetione tamen, Hei, manet adhuc. At Græci postposuere etiam ipsiy, in Harpyia: et 1, et H, et Agriçãow.Sed et post v,in eadem fylla bainvenitur, Suavis, Suadeo. Consonantes autem fic ördinantur: Omnes Conso pene consonantes anteeunt duas liquidas,1, et R. Nathy Duplices autem non atiteeût, præter z:antecedit enim ipsum M si, verum eft, quod placuit quibus dam,Zmýrna.Exemplaliquidarum sunt, Blæsus; Brutus; Clarus, Crassus,Draco,Flaccus, Frango; Gloria, Graccus;Plico, Precor;Stlatum, Trica.AE Q neque liquidas,nequc aliam quampiam prece dit. NequeD,nifi vnam ex ipsis:non enim l. Cx teras B, nullas præcedit; acneipfumquidem n, id verbo Abnuo. Sed in Abdolas, amplectituri psum v; quoniam invenias,Bdellium. Etiam, in Aetna, difiuncta sunt T, et N. Atvero, C, D, G; P, non respuuntur. Exempla funt; duo depes, Cneus, Gnatus; nxew. Igitur coniuncta erunt in Cydnus; da'ruw; Agnus, Sypnus. M, in ca demsyllaba cum nulla sequente est;præterquam cum N: vtin Mnemosyne: et ipsum ante sevnam aut alteram tantum patitur: Di apud Græcos, duwniet s,Smaragdus:et fi verum eftquod aiunt; etiam z, Zmyrna:quod li verum eft hoc,duplicemt præcedere; etiam vtravis eius pars idem munus Obire poterit, tams,quam p. Habet aPombat ipfumi Meandem rationem cum p, etc, etliquidis:vt po ni poflit ante s. Nam quemadmodum dicimus; Fij. 84 Iul. I. Ex,a't: fic etiam Hyems, Sirems, ains, Mes, Ars: Namm, et n, inter liquidasquoque recensuere. Sicante x, tres ponuntur, Falx, Lanx, Arx.quod commune habentinter fe, non autem cum M. E freçontrarioipsum s, antecedere potest B, C, D, F, P, Q. T,obevvu'w's Scaligers codwsquiaeft in z, Coivdo vorulur G Spes, Squilla, Stolo: cum cæterarum *** nulla. Veteres hic quum alios admisere errores, Angelenum infignem illum, qui negarent ante D, po ni: at tanto nobilius ac verius: coeunt enim ad eo,vcliteram cfficiant vnam, z. Nullæ mutæ in Bol ter fe cocunt; nisi B D,vt Bdellium. quod etiam videbatur quibufdam aspcriusculum,iccircoque mitigaruntinterpofitavocali, Bedellium. Sed tamen apud Græcos est 31cmw. Quinegant z, zamipræponiipli Msin Smaragdo, fortaile vera di cunt. Sed eorum argumentum falsum est: sic e nim aiunt: in fine carminis dactylicinon poffet collocari vox illa, neque enim præcedenssylla ba finalis in præcedenti dictione poffet corripi, non enim potestabiiciipsum z, sicut abiicitur s. Sed falla eft comparatio:interpofito enim inter vallo non coniunguntur voces: itaquenon fit positio ad productionem. Quam quisibi con finxere, vt evadanthancincommoditatem,mo do mutam cum liquida excusant, modo fibi lum, modo'aspirationem tollunt: fed totmon stris opus non eft: multa sunt exempla, mul tæ rationes. Nam quemadmodum dicent il - lud Homericum dactylo comprehendi? ai ouncedLwr: aspiratio enim cum ipso R, pro: ducit præcedentem, quod est manifestum in versus 85 versu Theocriti ex Herculillo, özcvet..finis enim senarij da ettylici est. Item I consonansinter duas vocales semperlőga est. Ergo quomodo di camus, Regia luno.Eft et illa ratio invicta si diph thongi finales,non semper corripiuntur fequete; vocali, sed etiam poetarum arbitratu producun tur: sequens fyllaba initio vocum, fines præce dentium non mutabit. Sed hæc alibi propria o pera sunt expedita contra ambitionein Gram maticorum. Dedifiunctione five difsitis literis. Vocales. Ifiun ettio accidit omnibus vocalibus,et mudojme cum cæteris, Aer, Sais, Tetraon, Phaülus.E,cu cę teris,Ei, Eo,Eunt, Ea.1,cum aliis, Fio,Fiunt, Fi at, Fiet. O, cum reliquis, Cous, Coa, Coco; coit. v, cum reliquis Sua,Suem, Sui, Suo. Item cum se ipsis,Nausicaa,Deest, Dil, Coopto, Suus. Sunt hx disiun et iones numero quinque et viginti. Quarum viginti inter se reciprocă sunt:Nam vt quæque præcedit cæteras, ita præcediturab illis. Confonantium difiunctiones. D, disiungitur a B, Abdomen: etquidemmu tuo, Adbibo, B, ab n, Abnuo: sicutm, a D, Ad mitto. B, præcedit F, fed mutatum, Aufero: ne que enim eft,vt ait do et tissimus Gellius: eius acumen laudamus,iudicium non fequimur.Præ ceditur autem a tribus liquidis, idque com, Fiij. 86 Iul. I. mune habet cum suis comparibus, Album, Als bo, Arbor:Alpes, Ampulla, Arpinas: Alfenus, Arferia. sed m, ab hacexcluditur, vtdiximus. l. tem præceditur abipfo c: idque commune ha bet cumMT, s; Pyracmon, Flecto, Flexum: eft enim Fleçsum. Præceditur etiam a G, Egbatana, ídque habet comune cump,Migdonides:et cum M, Agmen. TT,præceditura 'c; et p,siyetenuibus, five aspi ratis: fed plus Græcis, quam nobis,raw, riww, ogą γέω, χθων.quorum exemplo intelligamus Ααασιν in illis, Actus, Aptus,Aphthonius,c'xto Ipfum C, præceditur ab x, Excutio. Item suum par, Ex quiro. Habethoc communecum L, Exlex: cum P, Expuo; cum T, Extulit. M M, præcedit B, et P, vt diximus, etfeipfum, ac præterea nullam,Ambo, Amplum, Ammentum: neque enim antecedit n, vt dixcre:nam in A. mne, est ousmas: exemplum, Mnemosyne. IR L, et R, fere omnespræcedit, Arbor, Arccrra, Ardeola, Corfinium,Corgo, Periurus, Perlego, Permco, Pernox, Perpes, Perquiro,Perrexi, Per, sono, Pervolo: Albion, Alcon, Aldus, Alfenus, Galgulus, Saliuncula, Almon, Alnus, Alpes, Al fiosus, Alcellus,Alveus.Iccirco diximus, Fere: L, non præcedit Q,neque R. Ita n, quoque mul tas præcedit, Anco, Andes,Anfractus, Cõiunx, Angeria, Conlutibilis, Anquiro, Conrugo,Con sul,Antes,Convolo,Anxur, Zinziber. Ante B, MA Pununquam. s,interdum oblidetur ytrinquea c, in ipsadu. plici excipiens adveniensc, initio subeuntis di etionis. Excoquo:idem est Ecscoquo. Duplices nullampræcedunt.nequein cõstan-Shopli 44 tia,nequein distantia: sed vocales semper in con ftitutionç.bínGocmpovefaww.at non retinent eam pertinaciam in subeundo: dicuntenim Ariobar zanes,Perfæ, et Xerxes:et nos Anxius,vtoftendi musiam;Græcixdutw: Arabes etiam Alzit, et Al zibib, oleum, et vua; et alia multa etiam extra are ticulum. Ordo discendi Elementa, 4? $ est ordo, qui est principium, ac quafiforma Syllabæ: nuncautem diligenter ordinem nata-xatire lium,atque vsus earum videamus. Nequeenim re et e fecere prisci,aut Latini,qui quem aGræcis, aut Græci quem a Syris accepissent, ordinem re tinuere. Sed vt quæque primanata fuitlitera,ita Kesan prima quoque sese offert ad pronunciandū. Iccir " la co et a vocali,propterea quod vocalessyllabarum formam feruntfecum,et angtissimaearum recte, omnia idiomata ordinem auspicata funt, Chal dæi, Arabes, Scythæ,Græci,Latini. Eftenim Az prima,notissimaqueinfantis vox, cu qua vitæ hu ius fpiritum primum hausimus: neq; re ylla eget alia, et hiatu oris solo fine vllo cæteroru motu in, strumentorum.Ludunt enim Græci, quia Phe, nicibusAlpha,bovem dictum autumant: cuius, pecoris quali auspicio quodam Cadmus vrbem Thebas condiderit: cuiusque opera feminio illo F iiij fabuloso cives suos, quos ideo awagie's vocavit, collegisse: a terra enim oriundos mentiebantur, co dimetientes, et nobilitatem fuam et pofseflio nemperegrinis inacceffam: quo iure quali paren tem ab occupatorum amplexibus arcerent. Sic et Gai, et Opici, in Italia ab eadem terra sese nuncu parunt. Cæterum Græcorum in mentiendo au daciam fuperavit quorundam ftultitia, non in credendo solum, sed etiam in prodendo. Nosau tem Arabicæ linguæ non totius ignari, fcimus et a Syris hodie, et a Mauris qui inde advecti sunt, Taur, bovem dici: putamusque in Græciam a Cadmo eam vocem translatam, Igitur vocales A O duæquæ effent amplissimi soni A,et o,pręponen dæ aliis fuerant, quemadmodum huic illaeftan teposita: quæ aute essetobscurissima postponen. vy da v, eiusque similis altera ei apposita y. Duæ au E 1 tem mediæ, E, et 1,mediu in locus conveniffent. E Sed dee,posta,primo statim loco scribendu fuit, propterea quod effet magistra quali quædã nium confonantium: Quarum nomina, paucis exceptis, aut in eam desinerent, aut ab ea incipe S. rent. Ante alias autem cõsonantesde Sibilo pri mo loco agedum fuit: vocali enim proximus eft: H fimul et deAspiratione: nam paulo compressiore spiritu Aspiratio,paulo tenuiore Sibiluseffertur. Atque etiam de Aspirationeprius, quam de Vo icalibus dicendum fuerat. Sed quia affe et uspo tius quidam est, quam elementum, poftremam omnium commodius ponemus. O et avo eam lo co Latini conftituere,veterum imitatione. Nam quum a Simonide e, vocalis fonus, vbi perpetuo pro,. 1a tu car det 89 ) produceretur, notatus fuerit figura H, qua Athe nienses vfi essent antea ad afpirandum: atqueille eã post E, cui substituiffet, ftatim reposuisset: La tini receptam ab Atticis etfigura et potestatem, Simonidx ordinem sunt fecuti. Na Latini ipsam F, cum interponeret, fane numerum auxere: cui fedemeam quare aflignarint, baud facile explica- ", polo ri possit. Na et inusitata litera apudmultosGræ corum eft: et fi fpiritum eius impronunciatione respicias, ipli,anteponidebuit: fioriginecon templere,post, statui:fuit enim ex duplici, vn de etiam digammaappellata: partes enim totum anteire debent. Primores autem confonantum in cunnis sunt,B,G,M. quare Arabesatque He- 3 M bræi, Græcique longe quam Latini sapientius, qui ftatim poft a, ponerent B. poft quem, non c, vt nostri. facilius enim, quam c,pronuncia tur: quanquam inter linguæ vitia aliquos inve nias in c, aliquos in t,hæfitantes. L, quoquefaci--- lima fuit, atque inter primas reponenda: la et en tis enim ætatis est: itaque vdam Græci appella runt: minus commode communicato nomine etiam ipfi r.quam equidem iudico postrema in se R derecensendam,sed anteduplices tame, quarum ynaquæque eo loco ftatueretur, quo eius origo fuit: yt Y,prima sit,qa B:at z,vltimaquiac: me chupfe' dia autem z,quia Die, novum inventum Lati norum, autstatim poft c, automniū vltima col locaretur. N, autem poft L: idem eius filum pro N nunciationis vtrique fuit.Neque vero idem or do apud omnes fit nationes, fed vt cuique fre-, quetior est litera,ita prior alia esse debet.Quem FS ! 1 90 Iul. I. neFINjust admodum etiam illud intelligas, apud Vmbros prius de v, quam de o:contra apudRomanos. Figura Elementorum et earum canssa. Vnc de figurarum caussisdicendum eft: de antiquis figuris loquor: quas quiAtticas, Addressto antiquas voluerunt appellare,oftenderuntq etmultum scirent, etparum saperent, Nequees ním Atticarum cognometo circunlatz vllæ vn quam literæ fuere, sed lonicarum: pars enim lo niæ Attica regio fuit. Nam quum in duas partes vniversa effet Græciadistributa, Peloponnesum, Dores, cætera regionem lones obtinuere. Duos super hacreversus ponit Strabo certis incisos co lumnis, quos qui volet leget. Nam iidem quum in Asia loniam recensent,coloniaspro matrice ac primaria regione supposuere.Quorum mores in luxu, ac mollitiam Barbarorum quum abiiffent, puditum est Atticos Ionicæ appellationis. Cætes rum nomen et illorum vfui in literis, et Dorienfis um manfit confuetudini. Iccirco autedi ettæ sunt Anli antiguæ, quia recentiores aliis notulis vti malue quire, quibus etiam maximam horumpartem descri ptam videmus: quare etiam Maiusculæ funt ap pellatz: a notioribus igitur incipiendum est. Rabi Lacfiguraquide acciditliteris,per lineas, Qua= Liudij quam autem figura est spatium lineis contētum, paucæque literæ, aut totæ concludunțur lineis,vt " D, B: aut partes earum, vt P, Q, R: quædam vero e tiam vnica tantum linea describuntur: tamen eft eis attributum figuræ nomen, propterea quod non effent veræ lineæMathematicą, fed potius super Grana ܕܐ fuperficies angustæ quædam. Omnisautê linca, autest obliqua,autrecta.NamquodGalenus di vidit in curvam et cavam,id eftper accidens: ei dem enim lineæ contingit,vt et cavasit et curva; ficuti obliqua dimetiens linea quadratum, infe riori triangulo curva erit:superiori cava: neque enim in linea obliqua cavum a curvo melius diz ftingui poteft, quam in puneto dextrum a fini stro,superum abinfero. Sed eadem linea diftin guitur figurę vniuscavum,ab alterius figuræ curs uitate. Omnis igitur litera, aut linea,autlineis conftat:item aut recta,vti: autrectis, vt h: auto bliqua, vt o:aut obliquis, vt q: autrecta, et obli qua,vt p.:aut obliqua et recta,vtc:autrecta, et o bliquis,vt R, B. Hæc est divisio a substantia:abac, cidentiautem fic:nam transversum,et perpendi culare, etdiametrale, et iugale, et decussatorium accidentia funt lineæ vel re et tæ vel obliquæ. Per pendicularis vna,1: duxw, cæqueiugatæ: Dux angulares ad medium perpendiculum, a: vna p pendiculariscũ vna iugata,:cum duabus, F: cum tribus, e: Duæ perpendiculares iugatx diametro quadrati, n: et alio fitu z: duæ diametrales x.Sunt et curvæ inordinatæ s: na Græca ex æquo respon det sibi, 2: sunt simplices, vt aliæ:cöpositæ,vtwa et F:quarum illa originem suam repræfentat,,0; þæcnullam 5,5, pateftate. CAP. XL Cauffa fingularum, Vnc fingularum cauffas videamus. A, tota ma ipli quidem sine caussa: a Syris enim. Quid Syri? Quidam A 92 Iul. I. Laura Quidam dixere latum sonumin angulu desine 25 Airc,iugumque ipsum præscriberemetaslatitudi nis. Sed corum audaciam arguit et A, Græcorum, a quibus ipsum illud A,Auxit: et A eorundem,cu ius iugum præfcribat hiatum nullum:nam quo pa et o autexore, aut in ore triquetram poffint fi guram constituere, fane nescio. Differt autem y tram ineas rationem.Nam fi propterca fimplicis simum putes elemetum,quia primum eft:ita fane Scribas sicutArabes,quipofitæ lineę perpendicu Jaris calcem linistrorsum versusproduxcre,quali in figuram noftri Lyaut G, Hebrei inversi.Sin hia tum contemplere,patula facies eipotius debea tur,quam ctiam quadratam primum finxiffe He: bræos par est,item Chaldæos:vel ve ante hos fabu:lanturquidam, nescio quos Aramæos. eamque linea dimetiente disfe ettam, fic, quam postea concinnarunt. Sicigitur esto divaricata propter hiatum. Huicautem cum soni exilitate atq;ob Y scuritate contraria esset Y, vndeet Yonor acceperit cognomentum, figuram quoqueopposuerein versam, bifurcatam. Huius itaque sono quu pro V ximum sit v,nostrum,novaldeab eius figuradi versam facie habuit.sed subducta columella, fur cas bivias contrarias ipfi A,retinuit.cuiusnaturæ ipsum quoqueesset contrarium pronunciationis obscuritate.Ac fanealiquando fecit,vtdubitare mus,vir do et iffimus Ausonius poeta, an v,notula fuerit in vfu Græcis, ille. n. Græcam negationem O Yavnicam fuisselitera illis versib, professus est; Unafuit quondam, qua respondere Lacones Litera: irato Regiplacuere negantes. Sed ! 93 Sed videtur allusisse ad fonum Græcu et ad figu... ram nostram: exprobrat enim hocillisNigidiust Figulus, qui nesciverint figuram vnam invenire, qua v,noftratis exprimerent sonum. o, suis sibia natalibusvsq; figuram attulit, ex- (pressa piettaque oris rotunditate: sicut i,sonima- 1 xime exilis,excuffo omni tumore,ac vetre,quam tenuitatem cum e,faciat pinguiusculam, iugula vimus obeliscis quibusdam:quorum sane nume-, rus potius servivitdecori, quam necessitati: sed: aut duobus extremis fatis efficere poterantsic, t: aut medio vno, lic,:fedilla propiusaccedebat ad Csapud nos: hæc autem apud Græcos ad aspirati-> onis nota. Nam quominasfummo tantu essent contenti, in cauffa fuitr, Græcis: quemadmodum Latipiimo solo nequiverunt effe contenti, pro pterca quod eam figuram L,occupaffet:placuiti taqueternis roftrisfaciem efficere pleniorem V si autom antiqui funt longiuscula forma,ipso t,nolu describendo, quum geminaretur:idquedecoris gratia, sic, lulij. Huius consuetudinis litera lon gam vocat Plautusin Aulularia. qua interpretes iccirco,pro L,suntinterpretati,quiaBarbarorum vsu fic nunc fcribimus. B,item Græca est.sicut “M”, “N”, “T”, 2,velsono, vel Greeca figura:atC,ex dimidio Græca est:subtra ettanam -.K que columna ipfiusK.cuspisnuda remanfit, fic 2: 1. cui ad faciliorem scripturam angulum ademere. Sicut etiam ipli, quod fecere vt effect:fic ex I, D creavere sglubdu etta bali, et angulo fiebetato, vt $ non amplius Scythicum arcum imitaretur,idq Notabat Athenæus ex priscis fabulis: fic ex quod abscidissentden7,finxere ipsum p.circulie nim quam anguli du et us facilior: ppterea quod vnica lineavnico abfolviturmotu:at Angulºdua.:bus lineis, ergo duob: motibus, igitur quietein "terposica: hoc enim in naturalibus declaratū elt:: Poftea quum noftrum hoc P,concurreret cũillo rum litera, quanı Caninam vocat Persius,vt a no ftra diftaret,caudam addidere,R, ficut etipfi c,ex G quo cognatam effingerentG.atque eodem cons filio eidem addita alio modo cauda vt fieret Latic Ona litera, qua Græci carent sic, Q,quam postea in huncmodum clausere. Q. Eftetiam ratio, quare fubdidissent caudam:deferendusenim ei femper comes suus fuitilli, fic, Qv. AlimpsoFaet um autem eft,vt non folum Angulorum Grad"hebetatione,et virgularum additione,ademptio ne,Græcasin ysumsuum transferrent Latini, sed ctiam integras fervatas inversafigura reponeret: mdos,e nihil enim aliud eft noftrum l, quam illorum r. quoniam illorum 4; nimis propeeffetipfamAz cuius iugi describendi poffent oblivisci.simultur pe forearbitrabantur,li vocalis nota plus egeret operæ,quam consonans.cum pronuciatio elim pliciori penderetpotestate. Digamma quoque inversum,duplex eft í. Quare non male cxco gitavere,vty,Græcam exprimerent per antisi Andrefagma,E.neque, quominusid reciperent,in cauffa fuit,vtaiunt,fonimollitia, quam ipfum Y, reprę * fentat,noftra ps, non affequuntur.nam quod ar gumentumadducunt, id est nullum.šeguit, qafa cită eg6G estenim vbi no faciat,orisontis:qua re quod officiu præstatillis; nobis no denegaffet. Age vero quid prohibuit, quominus illi aliqua fi gura exprimerentnostrum e: nam quia Roma nis vivendileges accepiffent;etiam loquendi nori negligerēt.erat enimeis in promptu av tixand; x. nequeaddere “V”, quod ne Latinis quidemfue rat necessarium. Nam quemsonum,ipfum cica v, iunetum habet, potuit etiam seorsum, fi attri buiffent,per se obtinere.Ita etiam Angelo, fi non eft n, in cygersnon estr, geramusmorem mo rosisistis, et antigammastatuamussic j. quod ip summet fit hoc quod neutrum illorum quivit effe: Acceperunt autein noh folum eafdem eadem poteftate, et figura,eodem vel inverso situ, sede tiam et figuraet fitu eadem, poteftate vero longe Fishes dissimili:vtx,quæ illis esset afpirata, nobis effet nesting duplex: et quæillis esset media fimplexr, nobis effet aspirata geminatu f.Sed etvocalis notam ab Athenienfium institutis vfquerepetivimus ada* fpirationem, cuius illi vfum invertiffent.H, enim nunc pro e,longa:olim pro aspiratione Acticipo fuere,ita ctiam,vtinfererent:quos Latini suntfe cuti,Heraton:etiam in medio,KTAHS2N.quod ne nos quidem negleximus, Prohæmium. Quare poftea femper tenuit confuetudo, vtcentenarij ! numeri nota eflet H. quod fuiffet illius vocis ini tium. sicut apud nos eadem ratione, c. Ijautem et vsconsonantium figuras nonexco gitarunt,poteranttamen ficfieri, nifi Acolicum illud mayis ti. Literarum nota cum potestate numerorumfignan. dorum, C Nominum. con Flarespotius referenduseft: tamenquiafine et figura cognoscinon potuit, huc,vtopinor,com modissime distulimus. Eftautem duplex: quippe Omployelad numeros digerendos, vel ad certa nomina Nement indicanda.IgiturVnumper 1,fignabant,qñmi nimo fpatio effet virgula, sicut vnitasnullo: Ac repetebant fane vnitates,ad quinque vsq;, quem numerum per v,defcribebant: non propterea ca ea nota esset dimidiumipsiusx, quodenariûde a fignarent: neque iccirco, quia olim fcripferanț QV, et poftea q fuftuliffent: fed quoniam esset quinta vocalis:cum qua repetitis; atqucappofi tis vnitatibus,ducebantur ad numerum Denari jum: quem iccirco x. litera notavere,quia in nu mero atq;ordine vulgari statim ipsum v, feque batur. Quo confilio etiam Centenarium nume rum quum ftatuiffent per c, sequentielemento, scilicet D, Quinquagenariu deposuere. Ratio aut Centenarij a prima litera ipfiusnoininis accepta fuit: sicut et Millenarij,per m. Quinquagenarij autem notam'non a nomine,fed a Gręcorum in yftituto excogitarunt:nam quum illiper N, pinge rent quinquaginta, prisci Latini, quihuius ele menti loco ponerentidentidem L, in hunc quo quevsum substituêre: et monuim ' apud poetam fic fcriptum legi solitum a doctioribus. DantmanibusfamuliNymphas. Sane vero Lymphas a Græco víu on ductum ne-» monegat.et içigan;quasi79igfur,vtvolūt. Io no - Nomorsa minibus quoque designandis vsi sunt certis lite ris,iísque eorum primis:c.Caius:P.Publius:et in versa,vty, Caia diceretur.Ergo Publiam si lege-, remus, etiam inverso d, scribendum fuit. Sed de his suo loco inter nominum rationes, ac præno. minum disputatum est. Poteftas mutua quarundam cognatarum literarum, quas Græci vocant alsoíx85. Pgularum diximus poteftate, nunc elemento rum cognationem quandam videamus. Propriu Arhe's hit? igitur elt Novem literarum, in quincunce, quasi dispositarum triplici serie, costitui: quasiccirco Græci avtiquya appellarint, quiainter se mutua subirent fede. Noselegantissime dicere vicarias poffumus. Cognatæ vero, atque etiam coniu gatæ re ette vocabuntur. Sunt tenues tres, C, P, T: quibus addita aspiratio,totidem creat Græca pru dentia,vnica sua quanquenotula insignitas,X,Q, ©. Mediam autem interc, et Græcam habe mus Ġ. Itaque et dyxuege, et Anchora dictum eft: et Cneus, et Gneus.Inter P, et•, fuit B. quam re et βινάκια, et φιτακια, et πιτάκια dici confue visse,prodidit Athenæus. Intert, et,ficum est D. iccirco curaüta, et cx Jadro dicere Græci fine flagitio insticuêre:etnos Adque in Atquemuta vimus. Quincunx igitur sic disponetur: Tenues tres, Medix sub his, imæ Aspiratæ. Vt quam 2 F 7 1 Gj IvL. Cas. ŠCAL. Lis. proportionem ipfainter fe habent propter fpes ciem, a qua tales dicuntur,ea habeant ad cogna tas propter affectionem. eiusdem enim speciet funt “C”, “P”, “T”, “P”, “B”, quippe aspiratæ funtfemivoca les, tenues funt mutæ, media inter eas. at inter fe habent proportionem affe et ionis,id est potelta tis, quam Græci toidtorg vocant. Hasautem con iugationes quartus ordo etiam augebit. Na ques admodum tenues aspirationemutabantur: ita P Abilum additum in alium ordinem transibut. eo enim duplices evadunt,ex Quincunx c, et s, no ftrum x:ex P, et s,Græca'y: ex T, et s, fieret aliqua pari exemplo:nequerepugnat aut communi po testati pronuntiandi, aut Barbara Vasconu con € P T suetudini, quiltse, proipfe pronuciant.Sed Ma GBD tricem fuam Græciam fecuti funt Opicinoftri: a * ° quibus rccipere vna cum vocabulis quibufdam Ey z placuit vfum diverfæ duplicis,z. Diverfæ fane, propterea quod et media cum'fibilo iungitur,no aspirata: et poftponitur illi, noanteponitur: Du plices igitur in suas compares foluuntur cum in-, He et untur: Faex, Faccis:Grex,Gregis:04. Os Kiefsn.bos. CAP. XLIII. Naturaquedampropria, 1, vocalis. St et natura quædam propria I, vocalí:Nam quum cæteræ vocales ante vocales corripian tur (hoc effecit facilitas pronuntiationis, ni hil enimmoræ inter fimplices hiatus infereba tur) vaatantum obtinuit quadam quafi præro gatiua, certis velocis Græcorumoreproducere Dr tre 1 tur,rovėszíscilu,sit.id quod non penitus fine ratio nefactum eft: Multum namque temporis poni- Comsa musin exilis vocalis pronunciatų, propterea og Aatus cunctabundus exitinter oris anguftias: ic circo Græci in multis, Latini parcius produxerė. Quemadmodum in verbo,Fio:quoin verbove- rx * teres duim legem volunt constituere,errarüt: sic enim dixere, Semperin co producii,nisisequa tur E,vt in ficrem: Hoc enim falfum eft: nam in futuroFiet, item longa eft: vbi enim effet mul tisyllabum multitudine fyllabarum, vocalis bres vitati quali supplementuin milêre. Sed illi per ftantin sententia, adduntque, Non satis effe, vt £, fequatur: sed id quoqueopuseffe, vt et, fequa =! tur in prima persona:at Fies, Fiet, non eft in prima: verum adhuc errant: nam Fiemus,prima eft: itaque addere debuerant et id, Vc effet fin gularis. Sed ne lic quoqueprocederet e senten tia: ita enim priscoseffe locutos constat, Ficm. Cuius rei argumentum habemus ex analozia fecundæ, et tertiæ personæ: eti præsto est Cato ñis autoritas: Qui ita et pronunciavit, etfcri. ptum reliquit. SicPomba illa Dicem, faciem. Eius enim vocalis fonus cum infinitivi Vocali con iunctus eft, Amabo, Amare: Docebo, Docerc! Audibo,Audire: fic,Dicere,Dicem Fieri, Fien. Prætcrca, quam afferunt regulam, non bene exprimunt liceniın dicunt: Produci, natin iis cuius persona prima habebit i, at Fierem, elt persona prima, ipfa autem perfonam primam non habet. Poftremo non est ratio hæc vlla, ked observatio: at observatio neminem cogit, nog fed oftendit,quidinvenerit turpiter autem qui mugedam recentiorum corripuerein Fio. In fecun l 1Ulman dis autein casibus pronominum quorundam et relativorum, quare corripiaturin promptu ratio est,quippe ante vocalem:at quare producatur,fi cut ne aliarum quidem rerum, nullam caufam af signarunt,lllius, istius, Vtrius, Vnius: quare eam fic eruamus nos: Quæ ad hunc modum cxeunt, nonita oliin pronunciabantur: nam confonans inmultis,non vocalis reperietur,Cuius,Eius: lic erat,IlleIlleius:fic qualidiphthongusGræcare mansit, ac longa fuit. Ergo vir doetiffinus Te vrentianus non fuit veritus producere in Alteri us, quum tamen cæteri corriperent. Ncque e nimverum est, quod aiunt, corripi propterca, quod fyllaba vna numerosius fit, quam cæte. ra eiusmodi: neque enim eft Altrius, quemad modum Vtrius: fed fane quomodo fuit Vterei us, sic Altereius. Neque vero eorum ratio bo.na eft: fed vfus contentus fuit communi regu la, vocalis fequentis vocalem. Analogia autem etiam in cæteris conftar. Nam fecundus casus, Poffeffivus dictus est: Poffeffivorum autem mul 1 'ta fic invenias, Petreius, Luceius, Locutulei us, a petra, luce, locutione. Quxautem Græ ca lunt, non solum disyllaba,vtdixere,deChio, Dia, fed etiammultisyllaba', vt Sophia,et lo nium. Theocritus enim illud produxit in Sy ringa: hoc autem etiam omnes Latini. Nam quod addunt a Station Templa Lycie da bis: non facit ad præsentem observatio xem: eft cnim Auxcio,cum diphthongo. Ge 1 minata IOI ' i 7 1 $ minata quoqueet in seipsum concreta,syllabam potestproducerecorreptam,vt in decima satyra Iuvenalis: Eloquiofed vterg,perit orator.effe enimdebuityand periit. Divisa contra passa est moræ divisionem, Mihi, pro Mi. et interpofita alio elemento, mois Tibi: oi,Sibi:quemadmodum fupra diximus: Ti,x enim, et Si, olim fuerant. Cuius rei argumento funt alij casus, Tis, Te, Se. Proprietas quedammutarum,semivocalium et. Ropriumutarum, ve vocales naturacorre rheto prashabeat, Ab, Ad, At.sed c,variat:Lacenim longum est, sic Hic, adverbium: Hicpronomen breve; et Hoc, apud Plautum, vt docuimus in li bro decomicis dimensionib. Disputant,an Fac. Cung brevesit: verum apud Plautum eundemin Cure' Fac gulione longum elt. Sedgrandiorem gradšergofac ad meebfecro.Al tera enim estsyllabaspondei. Sic etiam apud O vidium in primo de Remedio: Duriusincedit: facambulet. Nam litigiosi Grammatici perverterut, cum volunt depravare, vt legatur, Obambulet:ne sciunt enim quid sit, obambulare. Neque e nim in vetustissimo codice aliter,quam vulgole gitur: et ambulantem vult videri, ob vitiu: nam obambulare,nihil eft neceffe. Duo quæ afferunt argumenta,nullafunt. Primum ab exemplis,v - 1 bi corripitur: nam in illis Face, fcriptum est: non Fac. Alterum ab analogia: nam si A pocope2 1 3) ] G iij * 102 Ivl. C's. Scal. Lis. 1. in aliis non produxit vocalem, Fer, quod crat: Fere,ne in hoc quidem debuit. At. n. non fem persequitur nosproportio illa:vtin Fio,Fies, Fi erein, cadem vocalisnunc longa, nuncbrevis est; et vfus extorquetmuta. Apo ope quoquemul ja produxitbrevia, quum moram, quam tubdų cebant ex consonante subtracta, reponerent in vocali; Pecus, brevem habet finalem:Pecu, lon gam. Quare illi iidem dedere manus, addu ai Ovidij manifesta autoritate, in primo de Arte: Hosfac Armenios: hec est Danaeíaproles. aking Quanquam autem hæc corum natura est, ta men aliis quoque camperis,fed vario fane even tu,Mel,Vel: En Nomen: Ver, Per. Mesemper çor one ripitos, Sibilus varius eft,Suus, Suos. Dicimus autem commodius nos,quam veteres dicebant, mutas habere vocales breves; at illi aliter locu malamiti sunt, Mutas esse breves, dupliçes autem lon gas: Neque enim consonantium affectio eft, yel corripi, vel produci: fed quarundam natu ra est y patiantur vocales corripi: duplicium autem efficere, vt illæ producantur. Șienim con fonantes producerentur,aut corriperentur, non « egeremus vocalibus in pronunciationc:ncquee (nimtengres,aut temporain consonantibusfunt; z,enim producit:non est products ipsa. Sic'non reet te dixere liquidasesse breves: ncque illa ora etio proba eft, Liquidæ brevem efficiuntiyllaa bam. Nam quod duplices longam faciunt mo s ra ac difficultasin cauffa eft: at liquidębrçvem facere non poffunt: fi enim possent,vbicunque poney 1 Du fue • ponerentur,faceret:hocautem falfum eft:sequi turenim tam l.quam R, longas: vt uñaoyswow. Sic duplices,aut duplicatæ, non producuntqualibet fyllabam:nam tūkis priorem produçit natura, na positione: sic, yncasa. Nonfaciuntigitur vt fit brevis, fed permittunt, neque mutant:nullami gitur habent a ionem: vtin Patre, nihil mutat, fed patiuntur talem tantamģueelle,quanta ratin Pater. iccirco a Græcis et molles, etvda dia, etx sunt: at mollis non est agere, fed pati. Deaspirationis poteftate fecundum loca, INterestaspirationisomnib,interdum praponia vocalibus:vni autem y, femper,nilimore Aco- tini lico: eam enim non aspirant, vtdiximuseIgmca dio autem inter, A, E,1,0, Athenielium imitatio ne, qui X TAHAN, scribebant.exempla funt, Ha mus,Herus,Hio, Honor, Humus: Vaha, Vehe mens,Mihi, Oho. Præterea anteponi diphthon gis omnibus,Hau, Hcu,Hei,Hac, Hoedus. Hu iussonum mępuero non audisses:nuncmaxime” observant literari:quida erią putide. Indo etti vero etiam locis non neceffariis, ita, vt latrare videan. tur: id et irridebatin Arrio Catullus poeta: cuius fales quum Politianus exultabundus iactar fefe ințel exisse,non est assecutus. neq;enim satis est, cat tam, deprehendereaspirationes,quæibitüessent afcri.charta'. præ:fed opus fuit cautonelepidissimi, poeræ festi vitas refrigefceret.Nam quare, multa verba cum proposuiflict,Chommodaet Hinsidias, clausite pigramma flu et ibus potius lonij maris, quam  I. Adriatici? Sane quia ab Ione cum diet a effet tų regio,tum mare,factum eft ab Arrio, vt ab hiatu, quem aspirando affc et abat, Hionij dicerentur, CongoConsonantibus tribus apponitur, quarum ex na hy emplafunt, Chremes, Philippus, Thraso. Non temere autem dubitatum eft a nobis olim, vtru Ane pia wyr, ab aspiratione antecedatur vocalium more, Cobek restulan antecedat eam ritu consonantium. Ratio du bitandi fuit; nam quum aspirationis loco pone bant, B, præponebant ipli R, vt Bretor: ergo si vices gerit,videtur etiam locum vindicare. Præ terea R,nulli confonantium præponi poteft: er go neque ei, quæ consonantis habetur loco. Sa ne vero aspiratio ante vocales statuitur, neque valde differt ab Acolico elemento." Poteft et il lud augere dubitationem: excogitaturos fuisse Græcos aliquam notam qua concretam afpira tionis et illius literæ significarent potestatem, fi cut cum complexi sunt, alia tria, 0,1,x. Sed no tula imposýta ipli Roostenderunt eundem vsum - aspirationisin co fuiffe,qui et in yocalibus intel Comhaligeretur. Contra tamen Latinietiam in yetustis monumentis postposuere. Causa afpirandi fu it foni volubilitas, atque vibratio, vt diccbamus. In omni autem vibratione recipitur aer per in tervalla: quare intra ipfum potiuselementum a spiratio ipsa, quam præposita percipiatur, La tini autem sprevere illam asperitatem. Na quem noLahiris admodum extra ipsum K, eam deprehendasae ris crassitiem geminetur? enim, quod apud Cræcos fit, non possis præponere fic, Pyfrrus, fcd fi postponas fic Pyrpfrus, non potius video re ros Roiz, re priorem literam, quam pofteriorem onerare. Quidam minus sapienter etiara Romamafpirats cum tamen Romani ipfi de fuo R, omnem exe merint vsum aspirationis. Stultius autem, quie tiam Renum fluvium: neque enim Germani ei elemento apponunt flatum vllum: Leniffime e + nim sua lingua pronunciant,iudice, etannulum, Richter, et equum, etalia. neque par est nobilissimæ gen Ring, tis fluvium a Græculis rationem nominis acce Rf: piffe:fed qua nunc voce pruinam appellant, for tasseaquam omnem gelidam, atque inde etiam Renum nominarint.In opdGautem etOzolucov vidcris quemadmodum præponatur ipli R, fuit enim regedod. CAP. XLVI. Demodo, ac rationescribendi. Ostquam literarum originem,numeru,cauf-tako fas,atque ysum contemplati fumus:interestyuaphone's veri philosophi illud quoque indagare, vtersit modusnaturæ propior in fcribendo:ifne,quein Hebræi fequuntur, a dextra noftra in sinistram introrsum:an nofter, quia sinistra in dextram ex trorsum excurrit: eft enim motus vna ex causis li terarum: quaremotusipsius ratio five modus li- ie terarum quoque generationis erit affeettio. At- 4f. queilli quidem tuentur se mundi origine, quafi cum naturæ legibus omnia inftituta fua tumin corruptąnaet i fint. Cæterum hoc nihil iuverit cos: quippe multarum artium invęta postilla ru dimenta emersere. quare consulta factum sit, vt multis cum aliis corum legibus, hocquoque fit GY d Si 106 IvL. I cmendatum: atqueiccirco arazionibusdeducen da fint consilia huius consuetudinis. Poterutaf ferre, motumcæli effe a dextro in finiftrum: at queita eorum tra et um in scribendo cæleftēmo tum imitari: a dextro enim in sinistrym ducunt. Huic rei fumma cura certis in locis refpondimus; etin libris de Calo, et in Commentariis de In fomniis. Cælum neque dextrum habere,neque Chafiniftrum.Ad hæc multæ sunt rationes,quib.per 1 yerse scribere arguuntur. Principio motusma nus naturalis extrorsum est. quies epimintusad peet us et oculosin fætu. igitur primusmotusex trorfum explicatur. quarepugna quoque ficcies tur, et cætera opera, extento brachio, non retra. z cto. Præterea nobis relinquitur fub oculis ad contemplandum, quid, quantum que descriptum fit: quod illis calamo acmanu tegitur item in « dextrum humerum converfa facic funt ftatuæ, atqueimagines: sic enim etcreditæ sunt opus su um refpicere, et contra hostem stare:quare Aqui larum roftra in fignis ad cam quoque partem fi et a fuere. Ergoobtutus nofter suapte natura plus dextrorfum versum fertur, Illud vero argumen tum invictum est, cosipfosinter fcribendum li: terarum ipfarum virgulasac lineas directas aut transverfas a finiftra inchoatas, in dextram defi, nentes terminare.Quæigitur partis ratio, eadem etiam fidtotius et quemadmoduin linearum tra f et us,ita literarum quoque ordo servadus erit.Sed Notexpripam priusinvenitgens illa, qua scripturam. Textores enim tramæ primum filum introrfum iaciunt:idautcm coaet ti, non natura, quoniam dextra manu cum incipiunt, et finiftræ operavi cissim petunt,fic motus fuit auspicandus. Verum iidem ipsi, vbi cætero opere naturæ legibus ad movendum libere vti poffunt, poliuntque telas, aüt pannos, aut sepum inducunt, et furfures: tum vero extrorsum versus a sinistra in dextram, iure suo vt fruatur manys in excurfum, faciunt. Elementorum affe tus adprincipia fyllaba constituende. A et enus quæ cuiusque esset naturaitteræ, dici- Rako mus,explicanda eft earundem ratio,quam ad fyl labam ipsam cõstitucndam iniredebeamus. Co fonantibus igiturconvenitomnib. di ettiones in Puchonse choare, atque etiam terminare, præter G, Qız:hią çnim nulla præfinitur.nam confeflum eft VESPE RUG, ita fcriptum esse,ficutPont.Max.item FOR TITUD. sicut TERT. et EXERCIT. Dep,non opore çeţ dubitare: Volup.enim etapud Ennium et, a - Y pud Plautum etiamnuocquibusdam verfib. ex tantibus de seipso facitfidem. Vocales autem z que omnes, et inchoant, et claudunt, Ama, Ede, Oro, Ivi,Vsu.Item diphthongi,Ænças, o Ebalia, Eldus, Euge, Aurum: et claudere, Væ, Evæ, Hei, Hau, Heu. Vocalis vna Græca ab initiis exclufa fuit lineaspiratione,nisi moreAçolico,y. A dua bus consonantibus poteftincipere, ficut aduab. vocalibus,vt Cras: fed etiam a tribus, vbifuntli quidx cum c, P., T, líbilo præcedente, Scopus, Scrus s' 0 I 108 Iul. II. Scrupus, Spledor, Spretus, Stalatum, Strepitus. et apud Græcos etiam addita aspiratione, odegyis, In duaspoffunt definere, Hyės. etin tres, Stirps. Quarum quædam iam sunt declarata. sed hîc per conclufionem quandam colle et a fint pro prin cipiisfyllabarum, more Peripatetico. Que fitformasyllabe, quamateria, VEMADMODUM ex elementis primis quatuor naturain vnu coalescentibus fit id,quod mistum dicimus, et ex puneto fit linea; ita ex literarum coftitutione id con fieri dixere, ab ea comprehensione ovina lew Græci vocant: q obcaufam etiam lic definivere: hrib Syllaba est comprehenfio literarum fub vno ac centu,etvno fpiritu indistanter prolata. Quam definitionem et falfam effe, et eius partes male cohærere oftendamus. Nam ficuțlitera ipsa est quiddam indivisibile, non autem privatio divi lud fionis: ita fyllaba erit quiddam divisibile, non au tem ipfarum partium comprehenfio: atqucid ex co manifeftum est, cum dicunt, fyllabam ex bi nis aut pluribus literis conflari:at comprehensio non dividiturin literas: nequeenim vnio mate rix et: formæ corpus ipsum eit. Male etiam dixere prolatam: acciditenim fyllabæ proferri:poteste nim et fcribi, et in mente reponi ipla: quare ita di cantreete. Quæ proferripoffit. Tertius error ex his manifeftuscit: nam G lubyno accentu eft, eric et fub vnospiritu, et fineintervallo: suum enim quæque fyllaba accentum habet: ' vacant igitur hæc. Poftremopessimo consilio putaruntomne mnyama fyllabam multis concrescere elementis: accidit lekerk; enim huic rei,quam syllabam appellant, nume ruselementorum. Si enim essetessentia syllabæ, ergo substantia reciperet intentionem et remif fioncm:hocautens falsum eft: atquehac ratione, pois fyllaba hæc Stirps,effet magisfyllaba, quam hæc, Ab: aťmaiorest p quantitatein, non autem ma gis per substantiain. Nam quodaiuntmonogra matas ' vocales, non esse veras fyllabas, ridiculum est. Quidigitur sint? Imo vero verissime sunt hoc, quod falso nominesyllabæ vocat: quoniam pacaloy nga etpriores funt,et fimpliciores, et hocipfum funt, quod aliis communicant literis. Syllabæ igitur econe i'ne nomen falsum est, atqucaliud quærendum: vte mur tame vsitato vtintelligamur: definieturau tem fic, Syllaba est elementum subaccentu. Ita- alt frankos queetmateriam habebis, et formam: eftenime lementum materia:id autem perquod accentum poteftfuscipere, forma. 1 Acci IIO ivi. L 1 B. IL w.Accidit autem numerus elemetorum syllaba ficut plan is foliorum et ramorum, etradicum,et fibrarum. Nam animalibus quoque satisest, si ýnum instrumentum habeant sentiendi:neque enim desinunt effe animalia. Itaquelianimal de finias, falso apponas, pluribus conftitui. Hos au tem quod dicimusaccidere, aut fitquod Græci proprium vocant, aut esto etiam differentia fpe cies certasdistinguens in rebusnaturalibus:at in fyllaba DĖ, nulla forma eftfeparanseain ab hac fyllaba, e: fedpars illa tantum inaterialis scilicet, Daccidensipli e. Numerusautem est a fingulis ad senas vsquc,a, Ab, Abs, Mars,Stans,Stirps, xi 998: dempta enim diphthongototremanent. Sekrompi. Germanis etiam longe maior. Intelligoautem nunc diphthongorum vocales numero notufa rum,non sono feparatas. Aut igitur fola vocalis Wir helt:aut cum alia,vt in diphthongo: aut confona tem vnicam præcedens, Ab: autduas, Abs: aut tres, Stirps:aut vnum fequens, Da: aut duas, Dra. co: aut tres, Strenna. Quare licet non adinif rit vsus,tamen quantum earuin natura fert, octofte literarurn poteftfyllaba: fiquidem trinis oblideri consonantibusdiphthongi sonus patitur. Eam tamen afperitatem mitiorem fecit vlus,exhilara - A53 ta'tristitia confragofæ pronunciationis: vtalter nis,sitres præcederentcolonantes,duæ subirent.'. ete contrario. Consonans,que interduasvocaleseft, vtriapplicetur. Riore libro de Systali et Diastasi dixiinus: vt literarum ' mutuam cognationem, quæ pars eithe 2 er 21" Do Ĉavsis LInc. Lat. tü Ś.  Erat poteftatis intelligeremus. Nunc vero videnia dumeft, quod et veteres disputarunt; ad vtra fyl labam constituendam conparetur consonans, quæ inter duas vocales fita fit. Ac Herodianus quidem ita sensit, qualemcunque vocalem hæ rere præcedenti consonanti: fi dictio inveniatur, soula ab eadem incipieņs consonante. non quod hoc illius cauffa fit: sed quia per hocillud cognosca tur.vtin verbo Fero, quod bifyllabum sit, R, po sterioris vocalis effe, non prioris: idemque in co. pofitis debere observari.Nam quanquam ex Ab, etAetus, coinponirur, Abacus, tamen vbi duo hęcin wnurn convenere,B, coire cum a; sequenti in fyllabam,non cum præcedenti. Sed adversus C- s, hanc senrenuam fic argumentantur:in abigo, a B, accedit ad fecundam vocalem, ibi primanon ' poterit corrip,propterea'quod iam fit A, præpo sitio, quæ femper et vbique longa est. Item in Circumago, non fieret clirio ipsius m, si sequen ti applicarerur: p ærereain Abhinc, et Adhuc,b, et c,aspirarentur: id quod eftabfurdum,ac nuf quam receptum. In tandem fententiam videos tur inclinare Quintilianus, atque in vocib.com pofitis syllabas dividire pro modo partium, in Arofpice, et Abstemnio. Vt has rationes solvain mus, animadvertendum eft, cum ex duabus vocibus vra fit, non accentum folum, fed litems rarum quoque exigi cohærendiam: neque e. nim ita pronuncies, A bactus, compositum,vt Ab, Aetus, difiuncta. quianam igitur pronun ciatione efficietur, vt B, a fequenti vocali fub bahatur? Adhæc,lipicuita a petendo vitam dom > 2. catur, nisi cohæreat T, cum v, semper sit v, con. sonans:at non eft.Sic in hac voce, Etiam, duæ ef sent fyllabæ, Et, lam: est enim consonans i, in Iam: fed pronunciationis tractus cogit nos ele menta coniungere.Poftremo, corum regula hæc eft, et vera:Nulla fyllabaaspirationeterminatur. Igitur in his vocib ',mbwuszeor, et diximus,apud Lycophronem, et dimostov,quid comminiscen tur? aut enim in aspiratam delinet prima fyllaba, autid fiet, quod nos censemus. Nam argumenta illa omniaridicula funt:ac primum quidem'puti dum.Nam in Abigo, licet B, subtrahaturpronun ciatione,non tamen est A,præpositio, sed vocalis ipsius AB, non enim propter B, sit A, dut longum, aut breve, fed vfus autoritate:neque enim fieret vnum compositione: fed fit tamen: quare quam quisque poteft,fedem occupat. Neque vero dica mus, quod is, qui ita corrupit versum Ovidia num Sive quis Antilochumnarrabat a Memnone vi ettum. quanquamin compositione, five lim pertinacius cavillari, oftendam in voce hac Amarum, etiam corripi,fi illorum trupov sequa 2mur.quoniam aMari,venit:Alterum argumen tum sic diluimus, auferrim,in Circumago, quia subiens vocalis non patiatur, non tolli autem, si nolis. vt apud Ennium, Tumdele etta virum sunt millia militum octor quod et in Comitio, manifeftum eft. Nigamus enim hoc,femper poftremam consonantem acce dere ad fubeuntem vocalem: fed id tantummo do evcnire,cum eiusdem initij reperitur, vt dixi (Inuse mus, vox. Quare cum nulla vox a B, incipiat al piraro,disiun ettis sedibus hæc duo inter fe erunt. Sicut in adbibere, nemo nostrum dicat præpo fitionis confonantem, cum initio verbi coniun gi: impeditur enim. Hocigitur impedimentum etiamab ipsa aspiratione allatum est. Ex his sequitur,in fimplicibus tantum,fifylla- saj n2 ba incipiat a vocali,necesse esseeriam præceden tem vocaliterminari. In compofitis autem non neceffario:Comitium,Coco. Item quemadmodum fyllabarum initiaa vos isa's cum initiis menfurantur: ita et fines a finibus. Quare in voce hacIlhic, debet etiam effe aspi ratio, quammale faciunt,cum omittuntrecen tiores.Cum enim reperiatur fimilis literarum fo cietas in verbo Est, potuitprima fyllaba esfellt, postrema Hic: atin yerbo Illic,non potuit:pro. pterea quod nulla yox in eandem desinit ge minatam, neque ab eadem geminata vlla in. cipit. Illud quoquehinc constat, in quamuis voca- receila lem desinerefyllabam polle, quauis sequenteccoccoon nang fonante, Itemque syllabam non finalem quali bet consonante terminari,quæ geminetur. quod fiduæ diuerfæ fint,in F,G,P,s,nequeuntdefinere, Hisenim nõ finitur fyllaba, nili geminatis.Quod autem etiam addidere, B,etT, errarunt, Abnuo, Atque, Abseco,Ætna. In q,nullam terminarive rum est, quia v, habeat comitem:Sed in c,non estverum,Ecbasis, Ecquis,Eçdosis, Pyracmon. Quod autem addiderunt exemplum Acnc, fal. fumeft. Scd.c, transit cum Noad finalem voca H lenlem:quia dicimus,Cneus, Cnidus. Sicut etillud erraruntidem in A et us:dicimus enim Ctelipho. In'd, autem definit sequentibus fere omnibus li antiquorum more maneat incolumis in com pofitione, Adbibo, Adcurro, et reliqua. In 1, definit, cum mutæ fequuntur, Album, Calcar, Caldus, Algco, Alpes, Altus. etante semiuoca les, excepta R, Calfacio, Almon, Alnus, Alfiosus. etconfonantes duas, Aluus, Saliuncula. Eandem proportionem na et umeft R,Arbor, Arcus, Ar deo, Argus, Arpi, Artus. Item ante femiuocales, etiam ipsol, viciffim non excluso, Arferia, Ar ma, Arnus, Arsus,Perlego, et vtranque confo nantem,Peruicax, Periurus, etiam ante ipsum Q. Arquites. In-H, nisiperApocopen fyllabam exire ne garunt. Ah, Vah. fuiffe enim Aha, Vaha. et verifimile fit ita factum effe: fæpe enim do tentes etiam nunc fic geminatum pronuncia Inm,fi sequatur B,P,Ambo, Amputo... " In N, fubeunte “C”, “D”, “F”, “G”, “H”, “Q”, “S”, “T”. An con, Andes, Anfraet us, AngeronaAnquiro,, Ansanctus, Antes'. et more veterum ante R, Congruo. etin paucis ante duplices duas,Anxur, Zinziber. His rationibus deduci poteft, fyllabam termi. hari poffe quauis confonante, cuius natura lita sptageminati. mory Item constat, veteres ca sententia falfos effc, ss fyllabam finiri ante c, in Abscodo:etenim,Sca tam,dicimus. Ncqueverum effe, inx, delinere fyllabama mus.nis. nem. fyllabam sequente vocali. quippe diximus, Xer nia: et Anxur,eorum fententiam iugulat. Omnis autem litera præcedens i,aut v,çonso nantes, neceffariofyllabam terminat, fi eas con fonantes aliæ sequantur vocales: yt Cuius, Perią. rus,Aduolo, Cauum. Namin Cui, et Huic, nul. la fequitur vocalis. Item fi ipfa geminetur, Maila. In X,autem desinit fyllaba præcedens c, et co.2 parem fuam, q, et P,et T.Excurro, Exquiro, Exzen. pono, Extendo.itemL, Exlex, z, femperinitium syllabæ facit, punquam fi - 2 Nulla diphthongus in duas definit consonan tes: non quod eius natura repugnet, vtdiximus; fed quia vsus fic obtinuit. Duplici enim poteft terminari,Fæx,Faux CARL Syllabarumaffetme Voniam fyllabarum fubftanţia partimex materiafit, quæ funt fiţerxipfapartim: ex unol'est forma, quæ eft ipfa natura recipiendi pronun çiationem in partem di et ionis: fyllaba iccirco affe et us quosdam pa et a eft fecundum materiam, yt numerum elementorum: alios autem fecun dumformam, yt tenorem,fpiritum,tempus.Do pumero igitur primum diximus:materia enim quam formaprior.Denumcri autem affe et ionis bus nupc. Syllaba prepositio, geminatio,appofirio,interpofitio, ablatio,extritic94bleißcran politia Vm igitur ab singulis ad fenas literas fylla ba augeatur: quibus affe et ibus eius partes obic ettæ sunt, iifdem etiam ipsa agitata cst. Nam quemadmodum præponebantur elementa,fic et syllabæ, Durus, Edurus. Interponuntur, Impe rator,Induperator.Apponuntur, Videri, Vide fropiatier.Hocautem amplius, quod abnullo gemina to elemento incipiebat vox:at incipit a syllaba geminata, Pupugi. In nullum geminatum deli nebat:at in geminatam desinit, Scindidi. Con tra, Elementa in medio geminabantur, fyllaba pane vautem nulla: vicissim quoque aufertur, vt apud Vergilium, Inter secoiseviros, et cernere ferro.pro, decerne, re:ficenim legunt, abscinditur, Vaha, pro Vah. etapud Homerum, fwy wpło nima, prodwa,kestis Astorgow, quod et lusitin poematico monosyllabo rum doctissimus Ausonius. Exteritur e medio Deûm,pro Deorum.TransponunturQueibam,, etAdeibam: quod Adiebam, et Quiebam fuit poftea. Mutari vero syllabas vt elementa, omni no constat ex eo, quod vocales mutantur ipfet: quarefyllabam ipfam mutari necesse est. Acque Gura admodum ex vna litera duæ fiunt, Mihi, ex eo quod erat,Mi,et contra:ita euenit fyllabis quo que,Aquai,Aquai,etCui, Cuï.econtrario apud Varronem, Et te flagrantideieettum fulminePhathon.Et sicuti quædam cx clementis semper præponuntur, vt  z, et v.consonans, et q: nunquam poftponuntar: Alia e contrario postponuntur femper, yt, V, quando neque confonans neq; vocalis eft: non nulla fine discrimine vtranlibet fortiuntur fe dem: ita syllabæ quoque, quæ ex illis suntconsti, tuta.Affe ettiones aformasyllabarum. Accentus. Væ vero fyllabæ acciduntpropterformanı per quam syllaba hoc eft, quod eft: ca fub accentus appellatione, tripartita diuifionc complexifunt: Tenore,Spiritu,Tempore. Hoc igiturloco quid fit Accentus, quoquemodohæc contineat, videamus. Canere Latini ab hiata Cana dixere Græca voce Exaver: nam Æoles ab co WS quod eft x cives,non apponuntincrementa præ teritis,sed dicuntyavor,demuntqueaspirationes. quasi rem Barbaram. Est autem canere, vocem modulis certis tollere, autpremere: certilq; tem poribus producerc, aut corripere. Idquod cum in pronunciando necessario eueniat,quibuslegi bus fyllabasmoderaremur,eas legesAccentiones, Acorns Accentus, Accetiunculas,Moderamenta, Vocu lationes Latinivocarunt,Græcos,imitati,qui ea dem de caufla megtudhas nominabant. Cum i.nthin giturvocem quantitate metiamur, et fyllaba in voce fit, vt in fubieetta materia, et quantitas tri plici dimensione conftituatur, Longa,Lata; Alta: $ neceffario fyllaba quoque iisdem rationibusaf fe etta erit, vt Leuatio aur Preffio in altitudine Afflatio aut Attenuatio in latitudine: Tradu Hiij, ia 0 1 Sto 20 M ti Mm et i n3 Ivt. II. + in longitudinefit. Hæcigitur tria interdum vnt cidemque syllabæ aliter atque aliter cum poffine contingere, videmus eandem longam aliquando circunfexo, aliquando acuto insigniri: alteram vero nunc tenuem, nunc aspiratam:non poteft keri,quod quidam profeffi funt, Accentum effe modum quantitatis syllabarum: vnam enim tan tumvim ex tribus compleši funt. Sed nos fic de Eniemus,Modus fyllabæ. Intelligo nunc mo dum, quod Vitruuiuset HoratiusModulum, id eft, menfuram propofitæ rei. Ouomododiftinguantur inter setriansembra diuifionis,o Tenorumratio.,quot dimen fiones: Altitudo, Latitudo, Longitudo. Quare falli sunt veteres, qui Accentum fyllabæ quali qualitatemidefiniuere. Grauecnim etleue in E lementis primarium est. Inde translata ratio eorü ad dimensiones quantitatum, propterea quod locus fit fuperficies ambienslocatum:motusau tem fiat in loco:graueetleue ratione et motus et locorum dicatur. Igitur in voce quæ esset affe ettio aeris, inuentæ sunt rationes quantitatis,fea omnes fundum aeris dimentiones: idquemathematicis incis deprehensumeft nam altitudinis ratio eft w kylineaperpendicularis. Iccirco cum vocemtolle remus, ca liñca signataest. Sed cum eadem linea fecundum superiorem partem indicetaltum, se cundum inferiorem notetprofundum: facien Cum fuit, vtleuatio vocis diuerfam notulam haberet adepressione. itaq; excogitarunt virgulam afscendentem,eo tractu quofcriberemus, index teram scilicet nostri partem sic !. quæ autem de pressam indicaret,quali caderet contrario situ, /. Cadit enim manus noftra cum pingimus eam, Atque hanc quidem suo nomini reliquere,Gra- your vemque appellarunt, ab inftrumentis scilicet vo cis: propterea quod in gutturaut pectuscam de mitteremus. Alteram autem prioremillam ab ef fe et tu potiusnominarunt,Acutam:ferit enim au. res, quarum viribusobieetta eft:acfane plus ponas spiritus latiorisin grauivoce, anguftiorisautem in acuta. Quare et pueriacutius canunt, quorum guttutangustius eft: etlatiora,crafstorague instru mentagrauius fonant: vt etiam ab illis grauem sonum dixerit Pythagoras. Ita omnibus in rebus se certissima ratione libi ipsa respondet natura. E venitautem yr duæ fyllabæ inter se concurrerent, Hilers quarum prior priorem haberet, id eft Acutume altera posteriorem,id eft Grauem: quareex cum coalescerent, concreuerunt in vnum etiam ipli apices,fic, A. quem Græcicum mesco wjfuer dixc re,abusi lunt licentia inuentionis: neque enim circuntractus fait, sed suarwufor rectiusnomi naffent. Nostri quoque Circunflexum cum ap pellarunt, ad celeritatem potiuspingentis manus respexere, quæ vnico motu virgulam arcuatam fecit,angulodempto fic,, Hosomnes Græci tokss, vocauere,translata eneo rationc a fidibus, quarum intentioneautremifm.com fione acutior graviorveredderetur vox. Inde nos Tenores, propterea quod noftrum tenercindea Hiiij. du 0 Move duxiffemus, fcilicetadToTeiverv.nam quod ni xu quodam arceremus, id beneficio TWV TVMVTON fieret: et tranflata fuit significatio ab helcyariis, et aurigis currus inhibentibus: item militibus prædam diuidentibus. Hocpotes ctiam percipe reex maximi poctæ Oppiani piscatione quadam, atqucanteeum ex Theocrito: quorum versibus trahentium tenentiumque nixu primarii nerui TAYOY TIS extantesdeclarantur. Siigitur Latum a Longo, et vtrunque ab Al to distinguitur fpecie, specie quoquetenores a { piritibus, et a temporibusdistinguentur. Ve rum non ita eft: perpendiculariseniin linea a dua bustransuersisdecussatis non diftat specie.Sedin so spire Ziance. corpore quadrato mobilieadem linea nunclati embar yang Xudinis,nuncaltitudinis, nunclongitudiniserit: neque enim differunt,nisi accidente.Id quod fa ne pertinet ad Metaphysicum: et tactum efta no bis atqueexplicatum in quarto historiarum dea nimalibus. Spiritus, Lter fyllabæ dimensus est Latitudo, secun Info dum quam fyllaba est aut Craffa, aut Te nuis. nam præterquam aut producas aut tollas vocem,dilatare spiritum potes, atque adderevel vocalibus, vel consonantibus. In tenui autem pronunciatione minus exit fpiritus: namet hoc Computerrarunt veteres, cumin tenuinegarunt spiritum nouelle: sine fpiritu enim non esse vocem in quarto hiftoriaru,etin fecundodeanimadeclarauimus: Nullum enim animal pulmone carens, vocale eit:fed lonum emitterealiis inftrumentis constat. Iccirco nmin, Græci vim illam vocauere, noftri leuem:propterea quod craffum in corporibus vi- www deretur effe graue: et lene, quia facilius laberc-. tur. Hoc quoque ex philosophia depromptum est. Nam corpora latiora, vt laminæ plumbex, diutius fluitantin aqua: breuiora autem citiuse uadunt ad fundum. At eadem ratio eft corpo rum grauium ad descendendum, et leuium ad ascendendum: Nebula enim angustior citiusaf cendet: sic et fpiritus præterfluit commodius fauces, quo est aret iore superficie. Qui ftudent voculis mutandis, maluerc dicere Læuigatio nem, male: neque enim ipsa fin læuigatvoca lem, sed nota est vocalis læuigatæ. Catullus autem eo, quo diximus, epigrammate vtrunque coniunxit, Audiebant eadem hæcleniter, etleuiter. Alteram Græci sarão, noftri Denlam: ftipa tur enim fpiritus vberior acfrequentior inter fauces: itaqueet Crassam, et Flatilem vocauere. Nam Aspirantem æque perperam, atque illam læuigantem. Atqueolim quidem tu apud Athe nienses,tu apud nos, sola craffa nota,quam fupra diximus habuit, H, quæ in ordineliterarum po neretur: vbiautem deeffet ca vis, is defe et us,de fe et u quoque notulæ fignaretur. Poftea veroa RRatio vsus obrinuit, vt feet a hæclitera, aspirandino-figma tam exhiberet dextra sui parte fic, F: sinistraaut quæcontraria esset, contrariam quoque lignaret sig i. Nequeiam inter literas, fedtanquam apex $ H V. literis imponeretur. Mox ad celeriorem motum anguliilli, vt in aliis multis hebetati,redu ettæque norulęin căpares semicirculosdextru læuumque fic, c,5.Quæremusautem et hoc veteribus indif-. Anger cuffum: propriane hæc affe et io fitvocalium: an criam communis consonantibus: videtur enim coaluiffe cum T, in, etcum aliis duabus. Verum in libro superiore, neomnia turbaremus: secuti fumus priscorum fimplicitatem. At hîc exa ettius interest philosophi contemplari haud ita effe: fia Rosolitus enim craffitudo antecedit vocalem, non se quitur: fic, usagers ergo cum præponitur confo hans ad copofitionem, ide flatus eiusdeelementi cft,newbusegov: non autem consonantis, nisi qua tenus ex ea et aspirata vocalivna fyllaba fit. De tempore Saudi Yllabæ morammaiorem minoremve longia tudinis linea dimerimur: productionecnim Kone vociscomparatur. Itaquetardi sermonis, aut citi dicimus hominem. Iccirco cui syllabæ plus im penderent temporis, eam Longadixere:cui mi nus, Bredem vtrunque autem fub quantitatis ratione continetur:fed ita, vtinter se referantur, atque relatione fint contraria, ficut magnum et paruum. Iccirco vnopluribusve temporibus co Ititutas, dixere syllabas. At omne tempus quan tum. Sed de numero videndum eft. Antiquific dixere:longam conftars duobus temporibus,bre wem ynotempore. Sane reste: cum enim syllaba breuis prior sit et natura ettempore, quam lon gasita eiusmcnfuramagnouere,vt vnum tempus bac dicerent: quod tempus cum protraherent adal terum tantum, non immerito et longitudinis ad ditione, et geminatione tra ettus inetiti sunt. Ita-, quefiguraquoque longætransuerfa linea signa- Fashion ta eftlic,-:Breuis autem dimidio tantum erat ex plicanda: fed inter scribendum excurrentis in terdum manus error fallere potuiffet: quare ed deuentum eft, vt notula; quæ circunflexo aduer faretur, aduersam quoque ei figuram haberet, fic, 9. propterea quod non nisi longa fyllaba circumflcetatur. Noneffeplures accentus,quam quot dietifunts Vm igiturfyllabas non nisi prædi is mo dis tribus dimeriamur, non nisi accentus semper ptem erunt:quoru Primus extrema duo,medium habet vnum: Alter duo extrema tantum, fineme dio: ac Tertius eiusdem modi eft. Iccirco erat ali quid, quod dubitaremus.Etenim relatiua ficain what's rentmedio,graue etacutum,quo modomedium habuere circuflexum?aut fi inter ca hocfuit:quar reinter tenuitatem etaspirationem nõ fuit, quæ erantcontraria per positionem?In vtroque enim exit fpiritus:quarc etiam mediocris potuit. Acde longa quidem ac breui mora iam fupra dictum libro, eft,quemadmodum in musicis,ita in syllabis cer ="ubering ta ratione alia atquealia, plus minusvenoræpo- Jam tant ni. Nam et longa fitmatura, et fubeat duplex,aut duplicata, vttrğusyawarayvideturin ea pluspo ni temporis, quam fi fimplex consonanssequa rur. Itaque etli longum breueq; ratione compa-7 rationismedio carent: ipfæ tamen quantitates, 1 lab OG Tip Lico 124 IvL. II. Cibro de ankitanchalia 1 in quibus litæfunt relationes, possunt magnitu dincaddita aut dempta,medium recipere.Omnis cnim quantitas apta ' nata clt fieri vel maior, vel minor, quatenus quantitas est, Dico autem fe sundum rationem quantitatis, propterea quod corporatione fubftantiæ eius affectus immunia funt. eft enim maior homo, vt est quantus, non vt apheft homo. Sic inter afpirationem extremam et extremam exilitatem spiritus, fiue nuditatem, a liquod fuit medium: veinter T, et, fuitd, et quæ fupra diximus. Id quod manifestum est, liidiomataiplacomparentur: nanque Arabes af pirant suum: et Græcum x, fi ad Hebraicum comparetur, non iam ficextrema,fed media aspi rata: efummoeniin gutture Græcum,Hebra um ex imo pene pulinone prodit.In graui quoque et acuto ratio par:ex vtriusque enim compositione faetum eft tertium quiddam medium, ficut ex e lementis naturalibus corpus aliquod, cuius mc tus extremorum loca non appetat. Harum au mohalgo tem differentiarum notulæ quæ medias illas na mirasxturas indicarent,aliis atque aliis confiliis suntin ftitutæ. Nam in tenore composito figuram ex cogitarunt. In spiritibusmediis non ita,propter ea quod certis consonantibus includeretur,B,Gj D. In temporibus autem omnem tractumqui ve sodiy num tempus fuperarct, breuitati neceffariæ op posuere. Dico neceffariam breuitatem:iccirco quia estetiam breuitas indifferens in breaivoca li,quæfitmutaliquidaqueaffinis. Tros notule abascenensinratione excluduntur. then at Ergo E:non e VA runtaccentus tria illa,quæ Græciv.de,214500 alu, spoca: nos Coniunctioncm Difiun et io nem', Auersionem ' nominainus. Falso autem in ter accentus relatas a veteribus vidcamus. Nam Coniućtio, dictionum duarum affeet us eftcom- Conapone positarum, quoties ex nulla facta partium mu tatione ita cohærent, vt propter feruatam inte gritatem non cohærere etiam videantur. exem pla in promptu funt: Ante-uolans, Ante -ma lorum: et apud Laurentium, Semper- florentis; huic indicio figuram apte attribuere pando fe micirculo supposito,lic, sumpta fimilitudine a b subscudibus carinarum:quibus afferes coagmen tantur. Contraria huic Disiun et io:quæ quas mine voces posses temere componere, distanti pro nuntiatione iubet pronunciari, vt in exemplo Vergiliano, --in litore conpicitur,sus. De vrsus, legatur. Ei itaque eundem locum attribuere quali paric tem hercifccntem familias. ac fatis quidem fue rat virgula perpendicularis: verumne accipe retur pro vocalii, curuam pinxere: cuiustamen cornua præcedentem complectendo di et ionem, præfcriberent ei mctas quasdam. Auersionem Amat autem nostri Conuersionem dixere: at Græcam vocem contemplere, Smespooni, illud non hoc signat: eftautem affectionon fyllabæ nccef sario,fed literæ per se, fyllabæ autem per acci enim semper fyllabæ defeet um o ftendit: sed femper literæ aut literaru quæ cuiuf piam fyllabæ partes lint. Exemplumvtriusq;eft, Mult'illa desiderantur enim duæ partes il. lius fyllabæ,Tvm, vocalis scilicet cum postrema confonante. exemplum syllabæ eft. Dura vi'est, quæ fternititer dominatibus altis. defit cnim A, ytlit, Via. Eftigitur nota defectus literæ: accidit enim vt fit aut literarum, aut fylla bæintegræ. Defe ettus autem duobusmodis vsų venit: aut per Synalæphen, aut per Suspensio milmem: ac Synalæphen quidem dixere veteres, "Tu i cum elisis literis, vicinas coniungerent:vt inex emplis pofitisconstat.Eft metaphora a glutinan uibus fumpta, quum delibutas ferruminatione particulas componunt, vt vnum faciant,hocfuit e neimev. Id quod quum non poffit euenire in fyllabis quibusdam, nisi demptis mediis literis, piccirco LatiniCollifionem affeettum huncappel latum maluere: nam faneaffcctio fyllabæ illius deficientis eft Colligo, non autein Coniunctio: neque ex illis vocibus vna fit. neque femper vnus pes, neque femper continuatur pronuntiatione, vrin altero exemplorum superiorum. Quare me lius nos quam Græci, Alter modus est, per Su spensionem: quoties non excipientealiqua di ctíonc, prior amissa vocali sufpenditur:idque alia quando simpliciterfit, vt apudPeetam, Mortalin'. pro mortaline. Aliquando au tem multipliciter,vtapud Catullum, Vide'n ' vt perniciter exiluere: hîcenim estamis fa non folum vocalis,fed etiã cõfonans: Videsne. Hancaffe et ionem Græci nominarunt rospo plew, quoniam auerfi ab ea litera, quamfuftuli, mus suspendimuspronūtiationem. iccirco įn su hernes periaS periore partequası habenulas inhibendo excur lui dietionis appendêre, eadem forma quam fe cerant Disiun et ioni:propterea quod idem effet officium limitibus præfcribendis. Totum autem genus hoc fapientes aon appellarunt, reote. Sed quum syllabis vniuerfum attribuerent, errassco stendimus. His ergo constat, vtin elementis, tanquã par- emiling,people womanho vor tibus, et corum corporibus, vel fyllabis,vel di et ione nibus, etmateria,fcilicet, figura, et forma estqua, inter se differunt hocipso quo sunt:sicin corửaf. fectionibus,vtrunqueesseiam planum fecimus. Caussa finalis Tenorum primum de Acuti accentu vu Oftaccentuum subftantiam tam ex materia prima quam ex forma, quæ erant duæ caufæ quibus in final constituebantur, nunc cauffa finalis contem planda est: corum ergo vsus,cuius gratia sunţin ftituti, deinceps videndus eft. Ac quod ad no-, ftra quidem tempora attinet, nihil turpius pu tamus, quam cantiunculis, et vocularum tremu lisaflultibus gesticulari. Itaque feruata temporum duntaxat ratione, feuerioribus fæculis omiffus eft fæmineus ille tinnitus, vnoque duetumultæ voces codem tenore pronunciatæ. At veteres a liter consucuere,quorum leges fuerebæ: Syllabæ glo? aut sunt in priuis vocibusaut, in iis quibus ora tio constituitur: priuævoces funt, Amor,Er go, Perco: ex quibus possis orationem to xere fic, Amoris Ergo Perco. Primo modo pallumeft nomca impositum, propterea quod fos di ettio JO ܨܪܐ 12 hi 06 128 IvL. II. L in dietiones non propter feipsas,sed proptet oratio ncm funtinuentæ:iccirco fecundo modo nomen Sampate indidere,ouezreiasque appellauere: nos Conse. menfequentiam dicere possumus: quailli alia vocepau her lo afpcriorc, ou apeglee',et molliore owerowy GTV TWO niw ". Nos commodius, Ordinem conti, nuum orationis definimus. Quum igitur Græci tam in vltima fyllaba singulariu feparatarumque vocum, quain in altera,ac tertia a fine fede acu tum imponere confueuiffent:in consequentia si necontextu orationis, quos accentusin fine po gonfinebantacutos omisere, proqueeisgrauessubsti tuere: idque eo egere confilio,propterea quoda cutus accentus videtur tellere fyllabamita, vt fequens fyllaba prematur: qua tanquam fini fuo quiescat vox. Quum igitur nihil haberent, quod fequeretur, nihil quoquemetuêre:arcum effet vox,quæ lubiret, cauêrene taquam vna fie ret cum præcedente. Id quod etiam in Encliti cis euenire videretur.Igituracuuntmouc,etmli, et Tav: quæ quum contexuere,grauibus infigniunt, Chitous,dei, tov überrv.Nos vero hanc eandem ani maduertentesrationem,quaacutus accentus tola litvocem in fyllabam, quam acuit, vt fequenspre matur, in fine vocisnoponimus,neexpectemus aliam fyllabam fubeuntem, in qua vox conquie scat: id quod Latini suis libris omnes testati sunt, Nullam apudnos fupremam syllabam acui. A cutusenim pofitus,autexigitaliasconsequentes syllabas, aut non. Siexigit, igitur non est ponen dusin fine vocum separatarum: fi non exigit,era goin consequentia quoqucponi potuit.Sed falfi Graeci sunt, cum putarent, gravēaccentum nihil ad vocem pertinere, fed ad syllabas tantum,vnde hand etiam Syllabicum vocavere.lccirco addueti funt, vt crederet, turpe effe,ederedictionem, quæ nul lo accentu insigniretur.quali quum iura quoque absurdum celent, hominem inteftatum mori. Id autem eveniebat, nisi acutum in fine faltem rcpo fuiffent: cum dictio in fyllabis præcedentib. neq; illum haberet, neque circunflexum. Sed ca ratio, aut perspiciendafuit etiam in consequentia,vbi y gravemcollocaffent:aut nein primis quidem you cibus admittenda. Apud nos igitur aut in penulisse tima, aut in tertia a fine sedem ei ftatuere.Occupa re autem alias initio propiores, Græci sibilicere noluerunt:quos etiam prisci Latini secuti casdein posteris, imitationepotius,quain confilio ducti, leges præscripsere. Nam quainobrem non liceat mihi vocem tollere in quarta a fine, nulla ratio pobyt musica potuit persuadere: poffunt enim eode te- Pain nore tain in voce,quain in tibia,aut fidib. deduci multæ vel breves,vellongx. Quod fi iccircono lucre, quia duabus fyllabis fequentibusimmine reacuta fyllaba videatur, in quibus tractus yocis non immorctur:quod fieret; fi eflentplures: vi deamus quam non recte servarint hæc. Esteadě ratio tam apudGræcos, quam nobis,fed diversus modus. Nam vtriquenegant ante tria finaliatê pora lingula, id est, antetres breves fyllabas, a cui poffe fyllabam. quare li duæ poftremæ line longe,quoniam solvi poffunt in quatuor breves: non potuit in præcedenti vlla syllaba acucuscol locari. Ratio hæc vna communis. At modus I j. di. 21 126 Iul. Kolodiversus fic: Græci, fi vltimalongasit, et penult. a brevis, vltimæ longitudinem, ex quafieriduç bre ves poffent,observarunt: at si penultimaloga sit, et vitinrabrevisymiseræ huiuspenultimę,tanqua ibi nulla effet, nullam rationem habuere. Latini contra, vltimæ longitudinem non curarunt: pe nultimæ ius fuum attributum retinuere. Ergo ia deprehendimus accētuuin horum cãtillationem ridiculam, non natura, sed vsu quodamn gesticulatorio constare. Videamus vero, quod et fupra tc wurde eindigimus, quamipsa sibi suisnon constetlegibus. milla Principio Græci diphthongos aliquot,quas pdu cebantin pronunciando, quodattinebat ad ac centuum ledes, pro brevibushabuere, 8t ritu fce. præterea Latinieadem ratione vltimis omnesne glexere. Poftremo antepenultimas omnesGræci longas nullo detracto tempore, acuto accentui poltposuere. Quare fi vna ex his vel in fine, vel in -proximafini sede folvatur in duo tempora, fane in quarto a fine tempore acutus ille Gręculus, quem ab ea sede exulare iubent,invenietur. Qua refapienter a posteris factum est, qui præterqua in quibusdam partib.orationis, vtin exclamatio nibus,indignationibus,interrogationibus,nulla huius puridi servitij iugum ferre voluerint. Nam fi ante acutum in eadem voceplurimæ fyllabæ gravi pronunciantur, xong QALXR67e's: quare poftillum totidem non poffint? Quodfi refpon deantinclinari nequire tantum numerum: qua re,vbi nulla eft quæ inclinetur, hunc eundemip sum ftatuêre?vtin præsenti exemplo, nulla fylla ba fecuta, fit Soloihin qua tini pe bi lem ula itch pus. pidu 26 sne ill bre Gravis accentus sedes. GNRavis accentus locupletissimus fuit vsus: Nam quum acutus non plures duab. Tedib. occupafset, hic qualemcunq; premit fyllaba:qua re fyllabicum, vt supradiximus,appellarunt. No; vt putarunt,propterea quod no interesserdiction num: sed quia paffim quamcunque syllaba vindi caret:funt enim dictiones quæ præter hunc nul lum habent. Omnis igitur diaio, aut habet acu tum, vt A'mor:autgravem, vt Fax:aut circumfle xum,vt Mîles. Quare præter eum accentum tam e non præcedentes syllabæ, q quæ fubeunt,grave susci piunt, sic, A'moris. Nonre ette igitur Quintiliani præceptores,quos ait ipsesicfe docuiffe,vepriore ham in acuta pronunciaret,A treus, quo neceffario poftea Walico rior gravem susciperet. nam ad huc modum gra- Cho halmas vem susciperetper accides: At ipfa hæc vox, Atre's bit per se gravi terminatur: vt non solum syllabæ sit accentus: sed etiam dictionis: quemadmodumul ta alia quoque proferuntur, Antonspolis; cEw tísmen weid. Quamobrem gravem accentum inter dum primarium cenferinec effe eft: aliâs autem ac cefforium. Cuiusetiam proprium fit quantam- loin cunque fyllabam nullo discrimine admitcere: et quotamcunque sedem accessorie. Poftremam au tem legitime, et primario. Devfulocifý circumfleti. Ircunflexus accētus fi, vti diximus,ex vtroq; grans illo conftat:neceffe est, nulla nisilögafylla. 12 bam Tad nitu clo Can: Qui squi 2010 Tull Nabi quar POR 982 m ! Tylls CM Acondiversus fic: Græci, fi vltimalonga sit, et penult. brevis, vltimæ longitudinem, ex qua fieriduçbre Fes poffent,observarunt: atli penultimalogå fit, et vitiorrabrevisymiseræ huius penultimę, tanqua ibi nulla effet, nullam rationein habuere. Latini contra, ultimæ longitudinem non curarunt: pe. nultimæ ius fuum attributum retinuere. Ergo ia deprehendimus accetuun horum cãtillationem ridiculam, non natura, fed vsu quodam gesticula torio conftare. Videamus vero, quod et fupra tc auntien taligimus,quamipsa sibi suisnon constetlegibus. medla.Principið Græcidiphthongos aliquot,quas pdu cebantin pronunciando, quodattinebat ad ac centuum fedes,pro brevibushabuere, $t titulo. præterea Latinieadem ratione vltimisomnesne glexere. Poftremo antepenultimas omnesGræci longas nullo detracto tempore, acuto accentui poltposuere. Quare si vra ex his vel in fine, vel in -proximafinisede folvatur in duo tempora, fane in quarto a fine tempore acutus ille Gręculus, quem ab ea fede exulareiubent,invenietur. Qua refapienter a pofteris fa et um est, qui præterqua in quibusdam partib. orationis, veiñ exclamatio Inibus,indignationibus,interrogationibus,nulla huius putidi servitij iugum ferre voluerint.Nam fi ante acutum in eadem voce plurimæ fyllabæ gravi pronunciantur, xangoaguardze's: quare poftillum totidem non possint? Quod fi refpon deantinclinari nequire tantum numerum:qua re,vbi nulla eft quæ inclinetur,hunceundem ip fum ftatuêre? vtin præfenti exemplo, nulla fylla ba fecuta, ore lit Lini gefehing C. em lla. tc. us du IC ne xdi tui. Gravis accentus sedes. Ravis accentus locupletissimus fuit vsus: 1 Namquum acutusnonplures duab. Tedib.pole occupasset,hicqualemcunqs premitfyllaba:qua re fyllabicum, vt fupra diximus,appellarunt. No; vt putarunt,propterea quod no intereffet dictio num: sed quia paffim quamcunque syllaba vindi caret:sunt enim dictiones quæ præterhunc nul lum habent. Omnis igitur diaio, aut habet acu tum, vt A'mor: autgravem, vt Fax: aut circumfle xum,vt Mîles. Quare præter eum accentum tam præcedentes syllabæ, ğ quæ subeunt, grave fusci piunt, fic, A'moris. Non re et eigitur Quintiliani præceptores,quos aitipsesicfe docuifle,vepriore sament acuta pronunciaret,Atreus,quo neceffario poste Walica rior gravem susciperet. nam ad huc modum gra- me habus, vem susciperetper accides: at ipfa hæc vox, Atre's per fegraviterminatur: vt non folum fyllabæ lit accentustsed etiam dictionis:quemadinodu mul ta alia quoqueproferuntur, Antanapolis, Ew tñsee WETTE. Quamobrem gravem accentum intera dum primarium censeri neceffe eft: aliâs autem ac cefforium. Cuiusetiam proprium sit quantam- low cunque fyllabam nullo discrimine admittere: et quotamcunquesedem accessorie. Poftremam au tem legitime, et primario. Devsulocifý circumfleti. Ircunflexus accētus fi,vti diximus,ex vtroq; illo conftat:neceffe eft,nulla nisiloga fylla. bam INC "IIS ua 10  art -11 g1 p I 2 128 Iq bam admittat. Nam ficuti affectus is compositus est: ita etsubiectum corpus compofitum agnosce nius. At vero oinnis brevis syllaba simplex est:E ius autem ortus ad hunc modum iam declaratus eft. Cumaliquando dux coaluiffent, prior acuto elata alteradepressagravi.vt dad: certe etiam af feetusipfi in vnum coiere, sic disc,exlegib. aute, Loungquas supra recitavimus, non poteft nisiautin fi ne, aut in proximafiniconstitui.in præcedetium autemnulla porest. fi enim diffolveretur, acutus in quarta inveniretur, lic, Aêneus. Aeneus. Qua renein penultimaquidem ponitur,fifubeat su premalonga. Hac enim diffoluta dissolutaq; cir cumflexa, idem error´eveniret: vt quartam a fine acutus accentus tolleret. îi autein lubeat brevis, tum vero circüfle et itur.quoniam in ea etpenul timacum gravi, etantcpenultimacum acuto fit. intelligo autem hoc apud Latinos,quinullam fi nalem acuunt: namapud Græcosinvenias lon gam ante brevem vltimam, quæ longa accentum nullum proprium habeat:fed vltimaacutum,ox w...Hinc fatis constat, quod dicebamus, gravem accentum etiam addictionem pertinere, non fo vt demonstrabamus,fed etiam in compositione citra consequentiam:ex eo.n.et a 'cuto fit circunflexus.Item non, folum in eade di ettione,sed etiamin eadem syllaba et acutu et gra veinveniri:lic enim quidã pronunciant gwasa, et eiusmodi vt etmeram intelligas, etin eadem fyllaba et levatum etdepreffum lonum audias in luo quenque tempore fic,yaodosa. Cõstat et Era commalfmi lapsus, qui Plane, adverbium, quum aperte signific lum in we 70 mradt to ti significat, et quum affirmat,differre fic pote pro-.. didit, quod illud priorem circunflectat fyllabam; hoc, quod acuat pofteriorem. vtrumque.n.cum fit spondiaca dictio,non potuit penultimacircu fleetcre. Adverbia enim eiusmodi femper produ i ömrm's xere vltimam quæ afecunda fuere declinatione apie plant 1. iccirco quod erat Apprime, Vergilius coactus est Apprima, dicere. fuere autem eiufmodi ad verbia pleniore sono,et originis analogia, a fex - ' exe to casu, sicut Fallo, Raro, Cito, fic etiam Plano. quorum quædam ad arbitrium poetarum cor repta sunt interdum, Sero, apud Martialem, et Cito apud omnes. Atin E,quæ defineret,nula lum,præter duo,Male, et Bene. et a tertia totidem Sępe,Pene.quibusiccirco facile potuit brevitatis fyllaba contingere, quia in ipfis nominib.brevis us 2 ni quoque fuit. De Αρστι et Θέσει. Syllabæ igitur modus quotollitur ineavoxa- #they cutior, di et us eft a Græcis cegor, re ette Tane. in alteram autem fubeuntem cum demittatur vox, gear appellarutminus commode. Principio Jens Otay morn significationem habet latam:namin acuta quoq; la'2 * ponis vocem:eft enim positio, collocatio:itaque melius xc tuh: dicta fuisset. Sed neid quoque cuiusaccentui gravi conveniebat: nam initium quadrisyllabæ dictionis gravem accentum ha bet. at nucquis dicat mevocem deponere, quam nondum levavi? ergo Æquabilitatevocis potius appellafsent.yndeetiã in musicis overra quidam I wj. di Iul. 11. dicuntur tractus,in quibus apois est nulla. Quemadmodum accentuum leges foluantur. aut acutus autflexusaccentus.claudit:fed in eum locum introdu et us acutus est a Grammati cis pro aduerbiistantum, et præpositionibus, in Exc.cæteris veterum mansit lex. Tres igitur cauflas assignayere grammatici, quib.aduersum prisca puritatem nouam inueherent pronunciationę. Ros? Distinguendi ratio,ypafuit; altera, Ambiguitas 3 vt poffet euitari: tertia, Necessitas pronuncian di. Nam vt Pone, aduerbium, a verbo Pone, di stingueretur, accentus mutatus eft: codem mo do Coram, adųerbium, a Coram, præpositio ne. hæc funt exempla primæ rationis. Ambi guitatem autem fuftulerunt in voce, Interca loci, translato accentu in tertiam a fine: vt ne quis duas putaret partes. Tertium confilium fuit a peceffitate pronunciationis: vt quum encliticas ponimus, præcedentis dictionis po strema fuit acuenda, Hominesne, Feræ'ne. Has tres partes fiquis acrius contemplețur, inueniet duas esse tantum; vnicam enim priores duas, v. trobique enim vitamus ambiguum: in fecun da partium, in prima,vocum. Ita in duo mem, bra diuides, ficut et tertiam in duo. Namne cefsitas pronunciandi, aut per fe eft, vtin en cliticis: carum enim natura ita fert,quod et no, men,vtinclinentin sefeaccentum: aut per acci, dens, vt cum exempta fyllaba, decurtata diettio ne vol 2 3 13 oce din nati s, in auffas prisca ationę. iguitas uncian Pone, di dem mo æpositio ne coeuntibus in vnum extremis, fitcircunfle xus. Cuiusreiexempla multa funt, Arpinatis, Arpinâs, Noftrâs, et alia eiusmodi. Sic etiam pu taruntin tertio diuini operis legendum, vtre. fpondeatcæteris præteritis. --cecidira fuperbum Jlium: t -omnishumofumat Neptunia Troia. vbi circunflexus potius manfit, quam concreuita. In Græcis autem fæpenumero creatur ex dua bus, vt diximus voos, vous. An admirrenda fint quafuperioricapite a veteria bus recepta sunt, Aecveteribuscum placuiffent,qui contra- Cantare diceret, nullu habuere. Verum interest phi lofophi placitis humanisanteponere ratione: Ni hil enimpretiosius veritate:eaenim hominis fo lius sola meta est. Quæigitur ratio foluebat acce tuu leges, ob cöponedas voces,cafalfam efsecondo for uincimus exeplis eiufmodivoçu, quaru syllabæ fequentes tranflatum illum accentum,longa Jut. funt, vt in Malefanus. Si enim acui potestyl timaprioris vocis compofitæ, poterit etin sim plicibus: fi non in illis, ne in his quidem: ncque enim fubftantia rei mutari poteft ab accidente: neque id quod drov Græci vocant, mutabile eft, ab effentia enim fluit:cumque illa mutuo conuer titur,quippe cui soli, et femper competit. Quare do ettiffimus quoque vir Gellius ita fenfitlibro fe ptimo. Igitur inistis vocibus, quas nos non acui diximus,eacauffaeft, quod fyllaba insequitur na țura lõgior,quæ non ferme patitur acui prioremin Ambi Interea ine: yt ne confiliom vt quum ictionis po erz'ne. He tur, inuenit nores duas, n: in fecun in duomem 10. Namne eft, vtinen ert,quod et Mo m: autper acci Tecurtata dictio I jij in vocabulis syllabarum plurium quam duarum: intelligere voluitpriorem penultima. Dixit au tem, ferme, quia Grammaticorum istas regulas tum obfervabant. At enimvero ficam cauffam, qua suntadducti, probavero nullam efle, etiam legem ipsam probavero nullam: sublata enim Le caussa,tolletur et effe et us.Ergoin vocehac, An I temalorum, et Prævolantes, et Antecursores,et Anteambulones si ratio hæc fruftra est, et tamen vna di ettio intelligitur: codem modo et aliæ in telligentur. Quid? nonne ctiam tribus parti bus quædam compositæ sunt? li igitur Dona 2 tus, aut aliusquis in hac voce Exadversum, yult acutum transferri fupra Ad.quod erat fupra Ver, in Versum, antequam componeretur: eaque ra tioneadduettusfuit, vt vna di et io videretur: non absolvit consilium suum: adhuc enim extra feptū illud istius accentus,pofita est particula Ex.quare frustra laboravit, vt rerum confunderet natu ob co tram. Atque iccirco intelligct 1 $ inventam a Græcis, cuius figura duceret oculos ad compo fitionem:forma autem, id eft, continuatus fpiri. tus pronunciationis, cogeret aures vnum audi re. Hoc quoque e Græcorum observationis bus constat planius: nam quum #xdloudov di huc cantmaiore non audent ambignitate έκδουλουςcreolezenou, 1ed έκδούλους: et ad veræ partes constructæ non coniun ettæ poffint intelligi. Præterea quis dicit Mustela cum a çuto in prima? Quis hoc modo, Compono? Quis etiain Præcurro, et eiusmodi? Quid,. quod idem moncnt Tepçfacis dicendum na pocua as gnat. Habemus es, et imen parti- از هر Dona n, vult ora Ver, aque ra tur: non trafeptu Ex.quare eret natu aventam a pocutovws, et cætera a facio? Quare vbi fylla ba patitur, transferendus accentus erit, quem admodum vbi numerus syllabarum non repu quoque Feftum autorem gra am uem, veterumque sententiarum accuratum et narratorem, et interpretem: is in abuerbio Adeo An mediam præcipitacuendam: ergo,vtfaciat differ re a verbo Adeo quo tollit vnam ambiguitatem, alteram ponit, dicam enim duas effe partes, sicut Vsque eo, Cum aduerbiis enim iungebant præ positiones veteres, contra quam negantGram matici, Derepente, Infimul, Inibi, Vltimam a- migar, cuunt quidam in tribus tantum, pone, Ergo,Pe- 4 ne: alii nullam excludunt:non defunt,qui prisco rum adoratis vestigiis, pro illis pugnent: verum memoriæ proditum est, Acolenses, quorum exe. plo aciudicio peneomnia Latini compararent ad loquendum, nullius vocis poftremam acuiffe, præpositionibus exceptis. Egomalim Latine, quam curiose sapere:putoquemaioresnostrosin ter fe, cum loquerentur,fineistis legibus peregri nisintellexiffe. Nam fihæ distincionesfuntarenizin har hon cessendæ: fane longe plura inuenias,maioreque nema?... yel ambiguitate, vel necessitate. Nam pręposi tiones a nominibus ipso contextu, ipfoquesen su valde differre illico intelliguntur, Vt omittam Face, verbum,FACE et nomen, aliaque infinita, Gundæ pollin quib. modis difcernes cafus, et numerosbinario rum, et ternariorum nominum adeo vt cum di -),Compono xerint,Mea interestsapere:pofterorum multii mnodi? Quid gnorarint pronomen MEA, Vtrius eflet casus: quartine pluralis, an fexti singularis. Quid? differ ad compo vatus fpiri vnum audi bfervationis Ex.dloukar di cuhous: et ad ww: duæ enim Mustela cum a 5 dicendum ferentiæ iftius cauffam, quam ftatuebant, misere fubuertêre. Cum enim præpofitionem hanc Circum, vltimaacutapronunciarent, ne “Circus” la cusadludos esse videretur; Vbi cam postpone rent casui, Mistíque altaria circum, translato in primam accentu, sublatam prius, vt putabant, contra quam putabant, redintegrarunt, Fu mat, autem Vergilianum præsentis temporis est, non præteriti, vt dixere: euersas enim incendiis vrbes complures dics fumare, mi wu, ferrimis exemplis experti fumus.et Nostras, at qucaliaeiusmodi, Sarlinas, Arpinas, perapoco pen reli et o tantum fibila, in quonullus effet ac centus, factum dicimus. Itaquetransferri accen tus potuit, Græcorumexemplo, nos a good a'a Nam ficuti illis turpe fuit, vocem fine accentu esse: ita apud Latinos supremam syllabam acuia, Id quod etiamex præteritis quartæ coniugatio pis deprehendi poteft:nam audîuit, mediam cir cunflectit: concide, vt sit, Audilt: nonmediam accentu afficit, fed transfert in præcedentem, et tamen acutus ibi potuit poni, vtin z pW TO TONCS, Sic in Mercuri, remanserat acutus suo loco, licet Grammaticorum faperstitione tranflatus fuerit. Usus Temporum. ' Emporum vsusfatis ex iis, quæ fupra dixi. mus,patet:quod simpliciffime tum pro rei, locorumque rationediuifimus inlongu,et breue. Quædam igitur vocales erant femper breues, 1 mg T 1, Os Do ac 1 cen xda Centu, o, his fingula tempora funtattributa: carum coparibus longis bina, H,12, Tres sunt comunes, 1, 1, Y: ita vt quibufdam in vocibus semper sint breues, vt neatra pluralia, xana; in aliis semper longæ: vtin cafu quarto plurali primæ: uovares; in quibusdam indifferentes, vtin odpornis et - 1. svią. Varientur quoque perdialectos:nam Da. res vltimam illam quartiusoses corripiunt: exem pla multaapud Theocritum,quare profuo qua que captu, vt sors feret, tempus aut tempora na ciscetur. Hæc eftipfarum substantia; a qua,na tura fluit certa quantitatis, quæ natura est moi dror, neque vnquam fallit. Quod fiquærat phi- ane maula iatti ļosophus, quomodo erit propria hæc ipsarum communium? incerta enim est. Primum refa pondębo, vtnumero, fecundum totum genus, vtrunque competit, par,et impar: sed certo nu mero, alteru tantum:fic communib. vocalib.in generę vtrunque conuenit, corripi, et produçi: at vni cuipam designatæ, alterutrum tantum. Præterea acutius adhuc: hoc ipfum cffe earum proprium, variari; hocque ipsum quod est, va riari,perpetuum effe:nec variari: ficut effe corru ptibile, est affe ettio rerum naturalium, quæ hace ipsa scienția comprehenduntur, quod corrupti bilia funt:hoc enim ipsum, esse corruptibile, no corrumpitur:semper enim tale eft. Accidit au tçm extrinfecus augeri ipsas produ et iones, vt Tu quoque monuimus,perconsonantium con. cursum, quam pofitionem appellarunt. Additæ muta et femiuocalis breui vocali, femiffem tem poris afferet: duæ mutæ geminatæ tantundem, fed acui gatio am cir mediam denterk. TPW TOTEKOCHA fuo 6 loco tranflata Has the pra axfupra dixi ongū,et breu e tumproro cmper brenes 1,1 136 sed necessariam productionem, quam illæ folam contingentem:nequeenim neceffario produce bant,RR geminatum plus afferetmoræ. Sicetiam longæ vocali hæc elementa fuperuenientia com ponent pro rata, plura tempora. Ita atio modo producit media:Tenebra:alio Abba:illa.n.potest etproduci, et corripi: hæc corripi nonpotelt. Ita que in illa posuere vnum tempus ac semis:in hac duo tempora. Si autem longam natura sequatur muta cumliquida, non minus apponent tempo ris, quam duæ mutæ, neque enim poteft corripi. Sed addentæquevnum tempus. Scio alitera ve teribus pofitum esse,fed nequere et e, neque per feet e:nam sequente simplici,vnicaque consonan telongam, voluere affici duobustemporibus ac { semis.Ergonon plene dixere:debuerant enim o ftendere,nulla fequente consonante quanta ef set. Et ridicule putarunt ab vna consonante addi tempus. Omnino autem hæc omnia ad oftenta tionem litcratoriam suntinuc et a. Spirituum officium, etloca. may Vpererat officium sedesquespirituu, quæ de clararemus:fed quimeminerit, qua deh, de queconiugatis dixerimus cõsonantibus, is facile intelliget commodius abs sese hucea vocari pof fe,quam a nobis repeti debuisse. Accentuum ra tio,figura,vfus,tribus cauffis expedita funt:For mali,Materiali, Finali.Absolutaquecontempla tio partium inaterialium, quibus dictio, quod eft subiectum argumentü præfenti operæ, constitui tur. Nuc de ipso toto quid fentiedu fit, videamus.  camillæfolum Marioproduce orz Sicetiam  nientia com Ita aliomodo illa.n.p potcft. Ita “LATINÆ”, LIBER ernis in hac TERTIVS ra sequatur ent tempo eft corripi literave eque per onloman oribus et enina teade anta el P ftenta. Dictionis nomen, atque definitio. ARTIBVS, partiumque affecti- 0. bus inuestigatis, quib.subiectama teria noftri operis componeretur: nunc de ipfo toto agendum est. Quod Græci dixiw vocant cauffam zostaj nos appellamus: quare addito iuris vocabu. Bad lo, etiam Græcum fonum mutuati fumus, etlunarea dicium nominauimus: Qua in Causla, fiue lu dicio propterea quod orationisvsus maxime vi get, Latini poftea verbum Dicere, fumpfere ad significandum, quoties loqueremur. At sicuti vox hæc Dicere, contextum magis verborum, quam fingula verba significat: itae contrario, verbale nomen hoc Dictio, non folum dicendi actum, vt eft apud Liuium, sed etiam vnicum quoduis notauitverbum: ex qua origine, atque vfu, cum definitionem fatis commode poffimus elicere: tamen vt fapientius agamus, paulo altius eft contemplandum. Sicut in fpeculo ea, Pen quæ edet de cili 21 3 Origt quæ videntur, non funt, fed corum species, vnde etiam nomen obtinuere, vt Species appellaren tur, atqueiccirco a Catullo diettum est imagino fum, að rerum imitatione, quas obiectas repraa Tentaret: ita quæ intelligimus, ea suntreipfa ex tra nos, eorumque species in nobis.Eftenim qua firerum fpeculum intclle et usnoster, cui nifi per fenfum repræsententur res, nihil scit ipse. Argu mento funt muti, qui nutibusloquuntur ex vsu oculorumiaures, quaru officio sunt destituti, non potuerunt conferread vocum receptionem,quas exceptas redderent vicislim. Itaque fuit quali, quod Plato de aliis rebus dicit,emuayeão quodda intelle et us nofter, in quod res ipfæ certo modo recepte conderentur,promerenturque ad huma nam,divinamque fapientiam communicandam. Igitur harum rerum notionessuę cuiusque fiunts in cuius intellectum recipiuntur. At enimvero cum homo animal fit non folum sociale, vt for Home Pornomica, fed etiam divinum:opushabuitofficio quo dam atqueinstrumentis, quibus hancfocietatem non forte autinstinctu oblatam, fed prudentia, atque consilio quæfitam, comparatamquecofer varet: quare et doceri debuit, et docere. Necessa ria igitur fuit illa quoque naturæ facultas, qua i. pfæ illa notiones, quæ in intelle et u fitæ erant, sensibus concipipossent.Per fensilia ergo eruen dæ fuerunt illæ species: at ineptus ad id fuit Ta Etus: non enim ad eum poterantelici res immate riales, qui maximematerialis est. Ineptus æque Gustus: quicum ta et us quidam sit, tanto minus potuit fervire,quod minore ambito, qua ta ettus, pre præscribebatur. In odoresquoque transfundi non poterant, quibus exceptæ, adiscente perci perētur:eft enimOdor res minimepofita in po testate hominis. Duo igitur senfilia reliqua fa etta, funt,Color,et Sonus:acSonusquidem interpresauce fuit animi dupliciter: vel vt sonusfimplex quip pe fupplosionepedum, et applausu manuum, et crepitu digitorum, atque aliis eiufmodi declara mus cuipiam animi nostri affe iones: vel vt fo nus in specie,fcilicet vox:eaque fuit duplex:al-Voy tera rudis, Sibilus, Vlulatus, Gemitus, Cachin nus, et reliqua talia: altera conformata, vt Vera ba, et Nomina. Alterum fenfile fuit Color: 04 colon mnis autem color cum figura, vtrunque enimin corpore eft:Igitur duobusquoque modisfactum eft:nam aut rudi,vt nutu,et gestu:autperfecto,id que dupliciter:aut Pictura,aut Scriptura: vndea pud Græcos vterque artifex dietus est communi nomine regol. Ergo rerum notiones a rebus in mentem primum per sensus fine medio huma no profe ettæ sunt: intelligo autem per fenfuso. mnes,eague scientia autodidagis dicta est:aut per medium humanum,quoniam non ab rebus,fed a notionibus, quæ effent in docentis intellectu, prodiere in duos sensus. Auditum per locutio nem, Visum per scripturam: vnde poftea in in tellectum ipsum insinuarentur. Quemadmodum autem res naturam non mutant fed eædem apud moboma's omnes sunt, ita et carum notiones: tam enim Equus ipse, quam eius species apud omnes est: nequehominisolum, fed quibufcunque anima libus tribuit natura aptum sensum ad percipien dum. At nomina rerum, et literæ non cæde suntnen i omnibus. Sicutigiturimagines rerum suotno tiones intellectui:ita voces suntnotionum illaru notiones, et vocum ipfarum scripta quoque sunt notiones,vt talis ordo naturæ fit: Equus,equi spe cies in intellectu,equi nomen in voce, equirepo masgan sitio scriptura. Prima igitur duo a natura sunt: nam equiprincipiu et forma, et materia, et finis natura eft:Equiquoquefpeciem ab equo educta intelle et us agens in intelleet um possibilem im ant pressit.Ataltera duo ab arte,aut cafu sunt: quan quam enim natura fecit vocem loquentis,et atra mentum, calamum, manum: tamen et vocifle ordy, xuum, anfractuum, articuloru, temporum,fpiri tuum, orde ac fedes fortuita fuere: et eodem ino do scribēris manus,cursus, mora, series.Multa sut in operibus noftris naturalia: velipfa Ambulatio: ac forte fit,vt tantum faciam spatiorum, vt recta inMilani, vt properem, vt sublistam, vt alternem, vt diuaricem, vt vacillem, vt suspendam gradu, ytreuertar. Poffum etiam hæc aliquando simul miscere,quæ coire queant. Itaque equi crus sem: " per fuo loco eft: at e litera in nomine equis apud Græcos nulla. quare arbitrio cius qui hoc primu nomen inucnit,factum est,vt sic appellaretur.Ex his itaquedefinimus Didionem,Nota vniusfpe ciei, quæ estin animo, indita eirci, cuiuseft fpe cies, fecundum vocem,pro arbitratu eius,quipri de moindidit.Dico Notam vnius fpecieiiquoniam oratio multarum specierum eft: et dictio compo: fita rei composita cft: omneautem compofitum pro vno accipitur: ita eximitur hæc dubitatio. Sed quæremus etiam fuper definitione s vna enim eft resomnis definitio:non copula:non alio iubim bor inftrumeto,fednatura: neque enim aliud eft,A- vefinn nimal rationale mortale,quam Homo. Quare si in definitione vna est notio, et plures dićtiones, videbitur diettio notionis pars, non totius tota i mago. Sicest respondendum: in rebus fingulis effe multa fuapte natura, quævnum fiunt ab vna forma:vt effe,vegetari,sentireintelligere:hæc o mnia ab vna anima vnum fiunt in homine: in quo ita sunt, vt vnum alterum complectatur, et capiat:quam feriem et in octavo historiarum, et ", in xii.Metaphysicæ satis declaravimus.Ergo de finitum vnum eft etre, et nomine: ipfa enim res est yt est, definitio autem vnius rei et vnum di cens, quia dicit definitum: fedpermulta dicensit perdefinition illud vnum, quoniam vnum illud permulta efter at have one conftitutum. Non recte vero veteres definive -berehitabis re, qui Dictionem partem orationis dixere.Prin -'Emory cipio malefactumest, cum per partem definive re: eft enim dictio etiain extraorationem: ita que coaet i funt addere, Constructæ: ergo non constructa oratione Dictio nulla crit. Præterea eft dicio quædam, quæ etiam fitoratio perfecti fenfus, ac quidem tota,vtimperativa,Lege,Scri be:et interiectiones, Hev. Poftremopeffimo con filio fecere, vt adderent, minimam: quis enim dicat minimam partem hominis manum? Nam ficuti in multis rebus naturalibus, ita in oratio ne partes sunt, non vniusmodi: aliæ enim funt divisibiles: aliæ non, vt literæ. Divisibilesau tem duplicis sunt naturæ: quædam dividuntur in consimiles, quædam in condissimiles: vt anguinis parsfanguis est, et ossis os:at pedis pars: non est pes. Hæpartes non possuntminimæ dict in homine, quę in alias vltimas fecantur partes: i ta neque dictiones in oratione: quare coacti fue rescipsos interpretari:Minimas,inquiunt,intel ligimus quo ad sensum.ergo male omisere in de, finitione, quod per interpretationem addendum fuit. Dubitare possit aliquis fic:Nomina,quęno tiones funt figmentorum,non esse dietiones: rei Danksy enim nulliuslunenotæ.Hocfic eft accipiendum, Hoc quod dicitur ens, aliquando verum effe, vt Deus:aliquando non verum,et hoc dupliciter: aut enim eit Privatio,aut eft Fictio. Privatio, vt Vacuum:Fictio, vt Phænix. Itaque fane horum nomina non significant codem modo, ipfa, quo inodo Deus Deum: fed privationem per habitu De* fic: Quia Plenum significat locum tacium vbiq; a corpore: eius contrarium Vacuum fignificabit: quod quanquam non est, tamen per illud, quod est, intelligitur. Fiet a autem faciliuspercipiun. tur, funt enim quafi orationes fallæ: idem enim eft Phenix, et oratio hæc, Avis rediviva, suicauf far Dietionem Græci.negav, vnde noftrum Lege. re, etab hocLegati, quorum scilicet officiumef fet, dicere. Utrum Dictiones a natura fint,an arbi. trio inventoris. Samo v Erum quoddiximus, itaindita effe nomi na vt inventori libitum eflet: primum a nobis inventum est,et olim commovit huius fentetiæ autor Aristoteles quofdaPlatonis de 143 ma Hefensores,cuius sententia in Cratylo videtur ef fe hęc:Sermonem rem esse naturalem,non ab at te.Id quod cogebantur ita sentire,quippeq nihil fcientiarum adipisci nosprofiterentur, fed remi nilci tantum. Quod et ex eo dependebat, cum di cerent animasin corpora alia atque alia transini grare, quemadmodum e Pýthagoræ institutis re ferebatipfe Platoin Atlantico.Habebantauteria que etiam, vt fibividebantur, rationes:nam loquendi, huma instrumenta, et materia funt naturalia,Pulmo,Se ptum, Guttur, Palatum Lingua, Aēr, ergo et ipfa e nomina. Trahi præterea nos a rerum cauflist quibus moti du et ique, sic potius quam licloqua mur. Quod fi contingit vt eandem rem aliter nos, Græçialiter appellent,nihil mirum:diverse enim cauffæ funt eiusdem rei, quarum vna illi, al gera nos agamur ad nomina imponenda. Verum Sæmoræ defenfiones errorum sunt.Atqueequi. Com ho dem sæpenumero miratus sum mortalium velau Haciam, vel pertinaciam, qui cuerentur errores, dosij, qui commisere, fi viverent, emendarent Neque enim erraffe turpeest: eft enim initiami pientix: si non eiipli qui fallitur, at aliisnon ilendi. Verum errores fovere, id vero vel ex ema dementia eft: vel vt i ti faciunt; qui semel que iterum deie etti, malunt confodi, quâ con tari. Principio argumentum estnullum:Ma- As, cria et ioftrunienta fünt naturaliajergo et figura mposita. Quis enim dicat,currus aut carpentifi uram naturalem effe,nili Anaxagöras? Isita di cebat, nisicarpenti figura fuiffetin ligno, non uifle futurum ytineffet. Sed nugabatur:neque enim inerat,sed inesse tantum poterat. Itaque a maioribusnoftris Facies dietta eft afaciendo: fit enim quod non est:itaque etiam pretium persol vitur artifici. Et accidens a Latinis appellatur, quoniam casu factum est, vt dei imago potius fieret, quam scamnum e ficu Horatiana: si enim naturalis facies fuiffet illa, omnibus ficubusines fet. Sic etiam Vocem efle naturalem fatemur: i tem Flexus, et Tempora, et Modos: fed eorum se riem, aut misturain forte,aut arte factam constat. 7 Sienim natura eorum effet autor,vnusomnium {moduseffet, vna enim natura: velutin aviculis manifeftum eft:cæ enim sua in specieæqueidem cantillant omnes. At quod ab arte est, et discunt. As, et dedifcunt. Quod autem aiuntin rebuseffe que dam peculiaria, id fane vcrum est:atcum addunt iis nosexcitari ad certas voces creandas, fallun tur. Nam quæramus sic: aut nota sunt nobis ca propria et peculiaria, aut nonsunt. Si non funt, non ducimur: fed non funt nota maxima ex par te: nam quotus quisque rerum ipfarum naturas compertas habeat: fatemur fanenos, non pauca effe diet a a certis caussis: sed ipfx cauffæ, quæro porro,an cauffas habeant.Sinon habent,ergo no mina erunt fortuita:sin habent, ad vltimas tande procedendum erit, quę pręterea nullam habeat. Si dicant ab effectionibus cöparari nomencauf Læsergoerit circulus,vt cauffa ab effe et u,effe et us a caussa dicatur: quare vtrumque erit fortuitum. AHis rationibus repulfi aiunt et Providentia regi RespinosNugx..Si enimnrebus civilibus,in bellis,in | redivina, deftituimurrectis confiliis, atque adeo ill2 La Providentia: sane putida illa fuerit, quæma mis in rebus negleetos nos, apprehensos manu ahat in nominum veras cauffas. Sanevero pul- 2 hram Prouidentiam, quæ Canis et Vrsa etiam ab homo i diis placet) caudatæ nomen in cælum tulit. mymini uid Canicum cælo:quia herbas exurit. At ne ue exurit Canis, neque herbiuorum animal est. tque vni quidem rei diuersa nomina impofita3 nt, vt Ventum a veniendo dixerint Latini, a irando iveuer Græci. Esto: diuerfi,inquiunt, af etus totidem nomina exegêre. At diuersas res uare iisdem vocibus disfitæ nationes appella ant? Quænam?inquies.Illyrica, Arabica,ludza, Germanica,Latina, Scythica. Air,vocantScy -nos aen? næ quam pro calamo aromatico circunferunt: Veneti arborem quandam, quam puto esse al am populum, non enim mcmini, fed arbor est. ith oleum dicunt Arabes, at Græci ex hordeo otūm. Gelon, Hebræismigrans, at cum mi rabantflebant: Græcisautem ridens. Manecít lis numerus, nobis parsdiei. Num,est nobis in rrogationis particula, illis piscem notat. Bagoa omen est Perfis et Medis impurum: at in co pud Hebræos est et cellitudo, et excellentia: Fantabri autem fic appellant glandem fagi am: pulchræ vero cauffæ cohærentes iisdem rincipiis, Rex, Glans, Eunuchus. Illyrii Flu ium eodem nomine vocant, quo Itali diuitem. Jolo dicere quid Mauris lignificet zve fed lon diuerfum eft ab Illyrico significatu, Dentes nim sic appellant. Abbaelt nomen quo Deum eneramur, Syri appellant sic ilsonier's Rub Liguribus Taurinis numerum significat vice num quiqum, Illyriimappam intelligunt.ȚIA Græcis quid sit, etiam pueri sciunt, Illyrii Ca nem fic vocant. Vaccam iidem Craua vocant, at Ligures tic Capram. Age vero quot Latina aliter accipit Germanus: Araneam vocat Spi nam: Vicem, Malum: Altum nominantsenem: Album, quod nos medium: Glut, appellant prunas, nos collan: carbonem, Collü.n.Quid quod etiam contraria iifdem vocibus funt com prehensa. Nam Germanis est Caldum, quod { nobis,frigus. Scd iam modus fit.vt etia inteligat certis nationibus Illyricis, et Cantabris notas at formatiuas, aliis gentibus negare, quare etiam eandem vocem contraria fignificare pasii sunt Latini, Vefcum et Obeffum, etalią. Et iidem » Pythagorei mutanda nominasuasere malefortu natis: propterea quod cum eoruin genio iamim posita non conuenirent. In quosi nos illa proui dentia deserit, quanto magis despicabitur, cum matellam pofcemus?Vtrum nominasint penitus fortuita,an certo,confilio. Vm igitur nomina arerum naturanon flu xerint,reette definimus, notam eflerorum stenbyDiettionem,vtlibuit inuentori. At fibido duplex elt, vno modo, cum impetų a ettus primum quod que obuium sumam: altero, cum iccirco libitum mihi fuerit ita facere, quia id ratio quæpiam per fuasit. Ergo cum priores orta cum rebus nomina cötenderet, suntexplosi. Alii cõlalțius accepere. Natura quidem non ortas, sed arte, ac prudentia factas Diet iones. Nam subftatia,inquiunt,fenfu non appreheditur,sed affe et iones:puta,Magnity laho do, Qualitas, Motus, A et io,Passio. Quare hisaffe et ibus motiatque instructi nomina imposita sunt. Afferunt igitur exempla duo: Lapidis, et Petræ. Nam Lapis,inquiunt,a pede lædendo di etus est, habuitigiturnomen a duritia, et aetione; Petra vero, quia pedibusteratur: ab eo quod p? titur inuenerit appellationem. Hinc deindedia gressi,multa millia monstrorum conficiunt. A. lii contra, omnia cafu facca nomina, multo au - conha dacius affirmant:Nimirum quibus vniuersi mun di compago, series, temperatio, cafu, ac temere prta conftituuntur,seruantur constituta. Atque hos posteriores, poftremos esse sinamus: neque enim merentur dici homines, qui ipsiessenolut. Nam quod ad vocum attinet rationem, quis me tis compos, ab amando amatorem negabit esse diet um Illis autem fic respondeamus: Principio, fola pon neceflario concluderetribus quatuorvee xemplis omnium naturam vocum: Deinde,ridi cule attribuere pro caussis Latinas appellationes. Lapis enim, et Petra,vtrunque Græcum fuit,nes, et metga: nam Laterem,pro quo solo barbare pe tram capiunt, nivfov Græci vocant. Sicigitus çensemus: Multa nomina temere extitisse pris mum, fine flexu,fine ornameto,quo tempore no quiero dumrerum naturæ cognitæ fuiffent:ab his mulram sana, a fimpliciffime ducta, vt flexiones:alia immutatis cela quins particulis, vt denominatiua, et alia ciusinodi: un son moment, nulla distorta sütcopositjone. Quodautinque forants horsen Ver sout. Bigualta strapwiWAS own Shait plovek, bug comlimani Referencia recent home songs unr, formis principia deducantur, in quibus neceffe fit fifte re intellectum, id etex rebus patet naturalibus, vbi nullum est infinitum, et in vocibus ipsis fic conftabit. Amaritudo ducetur ab Amaro: Ama rum a Mari; Mare ynde deriuabitur?ab Hebræo, Marath. Quæro porro, vnde sit hoc. Vt finigas quod velis, diuertendum est ad vnum, in quo conquiefcas,quod aliorum cauffa fit:ipfius nulla sit caufla. Plures esse voces primarias.. Si igitur ad certasvoces cæteras referimus; lepimpice operæpretium fuit quotnam effent illæ, inue mimmeinstigare. Etenim si quemadmodum res ab re, ita nomēanomineprocedat: ab hoc nomine DEVS, potissimum omnia deducerentur; at ab hoc pau ca deducuntur. Duo igitur modi testant princi piorum:vnus in Materia, et forma:addeetiam fi vis tlustenay, fiue Carentiam, vt delicatiores, fiue Priuationem, vt ex Topicis M. Tullii colli gere potes, voces.Verum extra hæc omnia, inue nias multa, Calidum, Magnum, Filium, Arma 2_tum, atque alia eiusinodi. Alter moduseftin de cem prædicamentis: sed neque asubstantiali no minededucas substantiale, nequea relatiuo re latiuum,nequeab aliis generibus eiusdem gene ris alia. Nam a Cæfare cum dicis Cæsarianum, potes tam prudentiam intelligere, quam equum. sica patre patrimum cum deducis,a filio eadem lege non potes. et quæuis dictio in prædicamen to rclationis efto eft enimnota, cuius eft. verum sha hoc) che hoc ipfum nomen relationis,non eft relatio: ne queab ipfo relatiua ducta sunt.non enim Quis, aut Qualis, quicquam cum verbo refero, tanqua cum origine sui,habet affinitatis. Certus igitur atque finitus primogeniarum vocum numerus eft: sed nuncquidem, non autem semper: multa enim finxere veteres: vt etiam apud Pindarum inauditum alias conquerantur Gramatici,le iniz? pro eo quod alii wiecuo dicerent. Satis autem nobis fit, scire, multa a Græcis deducta effe, in quoru principiis fani fuerit hominis acquiescere. Non eodem modorem abreduci, et nomēa nomine Vævero deducuntur, non necessario rerum ordinem seruabunt: vtquemadmodum res mody 1 ab re, ita illius nomen ab huius nomineexcipia tur. Nam quantum a quantitate est, li rem Ipe ettes. at contra quantitasa quanto dicta est, vox a per voce,non quantum a quautitate. Ratio huius rei Ratio eft, propterea quod cognitio nostra contrarium habet ordinem,quam natura; prius enim natura notam habuit quantitatem, quam eam poneret: in quanto. Contra, nobis ea, quæ concretavo lini cant notiora suntiis,quæ abftra et a nominant. Ita que antiqui, Quale, dicebant: Qualitatem non dicebant. M. enim Tullius primuseam vocem commentus est. Et adhuc in multisabstracta de siderantur: vt in pingui, neque enim fereante Plinii tempora, Pinguedinem,legimus. Nunc masa cameo quoque animum hostilem dicimus: Hostilita vero tem an dicat quis, non memini. lllud fcimus, Quid COM n oll nu: rm n de in uon gen anun quus header aprobatis antoribus Ingratum vfurpari, Ingra titudinem explodi. Harumlegum rationes cum ignorarent recentiores, fallo putarunt, eundem ordinem deberi nominibus fignifịcanţibus, qui fignificatis rebus inest. Dictionis affectus. DLitionis affectus secundum definitionem nel teriæ rationem: nam ficut in syllabis literaru nu: merus recenfetur, ita in diet ionibus fyllabarum, Accidit autem vt dictio fit vel monogramma, vel polysyllaba. Exempla autem suntcoinitio, atque ordine. A, Amor, Amator, Amatores, Ama rorie, ad superlatiuorum, atque adeo dithyram bicorum vsquenumerum: neque enim Græca rum audaciæ lex vlla certa polita fuit, qui veli. psos pedes poeticos ad qdonas fyllabas produ huisere.Patiuntur quoque diet iones ficut et literæ, et syllabæ: commutantur enim:et appellatur in genere cvcentags: quemadmodum cum ponitur declinabilis proindeclinabili, et e contrario.Flos apprima tenax. et Meurngo xanoswv, pro divas, et καλός σοιών, pro καλώς. Dico autern in generc; nam li particulas ipfasspectes,dicitur avmuspid; vt cum nominapro nominibus, verba pro ver bis, et alia fuo quæque in genere,suis congeneri-. bus supponuntur,de quibus omnibus locis scri ptum eft.Item transponuntur,vt fiquis dicat, Plebis Tribunus, Patriæ Pater, Conscriptos Pa çres. Et quomodo fyllabæ præponebantur di etionibus, M ret. ettionibus, aut poftponebantur, aut interpone. bantur: ita di et ionesorationi. Anteponitur a lu reconfultis:Ecce: sic, Precium ob cauffam da tum, cauffa non secuta, condici poffe.vt:Ecce Me nius decem dedit, vt tuta fibi in foro effe lice Citra illam vocem, Ecce, oratio perfecta erat.Sic adduntar pronomina sine emphası. Ega amo,vas militaris. In medio, coniun et iones com pletiuæ, Tu quidem aberas, ego feriebam. Etin fine,apud M.Tullium ad Atticum: Triginta erat dies, ipfi:Geminatur, Ah Corydon, Corydon. Eximitur, Quos ego. Mutantur autem vt lite - umfolie ræ ac fyllabæ, quatenus illæ quoque mutantur, Adhæc et diuiduntur, vtapudEnnium, -Cerering. diminuiç, brym. Ete contrario componuntur, Malefanus. Et ficut literæ atq. syllabæ incolu mescoiungutur interdã: interdu vero vitiatæ:ita et diet tiones. Nam aut ex duabus integris vna fit; vt, Manucapio.aut duab.corruptis:vt, Mancipi, aut integra et corrupta: vt Cumprime. aut e con trario:vt,Omnipotens.Hoc autem fit, aut in dua bus Latinis: quales eæ sunt. aut duabus Græcis: ut, Menelaus. aut Latina et Græca: vt, Mustela. aut Græca etĻatina: vt, Epitogium.  Diet tionis fpeçies,qua rationefintinuestiganda. Iigitur dictio rerum nota est, prorerum spe- one cicbus, partes quoquesuas fortietur. Videamus mus ergoin magnaautorum controversia, quot, hag van quæ've lint.Quod Græci, o, vocant:apud nosaucamais çem vsitato potius, quam Latino caret nomine; id (Scien • ab quot, gothe SO I 1. Jli. Ju Buaid partim significat res permanentes:vt, equum, album, decempedam:quarum natura poftquam perfecta est,diu perstat:Partim fluentes,quarum natura est, esse tandiu, quandiu fiunt: vbi vero funt absolutæ, non sunt amplius. In hac partitio ne tota vis orationis noftræ confiftit: complecti tur eniin etiam Deum: nam poftquamperfectus eft, diu eft: hocautem diu fine caret. Costantium Nomerigitur rerum notam. Nomēdixere:corum vero, quæ fluunt, Verbum. Nam tametsi nomina quæ dam rem fluentem significant, vt Annus, at non reifluxum. Quin hæc vox,Fluxus,quanquam vi detur a ettum fuendiindicare: non tamen mensu ram ipfius fluxus connotat: id quod verbaipfa fa ciunt. Quoniam vero hæc omnia ad orationem comparata funt, quæ quippam alteri inefle o ftendit, ve Amorem in Cæsare, id aliquandofe juncta nota signatur: vt, Cæsar currit aliquando propius ac felicius naturam imitari instituimus: sicuti nanque Cæsar ipfe, et ipse cursus vno eo demque corpore continetur:ita inuenta est a pri fcis notaidem efficiens suo significatu, quæ qua fi infitione quadam vnum ftatueret. Quarevelut ex Equa et Asino fit Mulus, feruatis vtrinque a liquot vtriusque naturæ particulis: ita ex Nomi ne et Verbo confectum est Participium:quod fic appellarunt, vt hac quoque in parte Græcos,qui us to wdixiffent,imitarentur. Atenim vero vo cabulorum ratio diuerfa eft: nam Græca vox a * et ionem significat:vt,ezoxrapudMathematicos, cæli pars quæ fidera continet: et Pyrrhonis affe {tio, qua in dubitãdo mentis cursum inhibebat. Verum participium non fic videtur: Analogia nanque alia eft in Mancipio,paffiva fcilicet quod manu caperetur.fed fuit sicutMunicipium.Ino ratione autem etiam pro modo vsuque loquendi deeratadhuc aliquid: interdumenim inomine no Prono suppetente, aut iam semel dictum nerepetere mus, nutu aut digito indicavimus aliquid: exem pligratia,Lanceam si petam, etimmijhentib. ho fibus clade sociorumturbatus præci pitem con silia suppetiarum nomen non edam:fed indica tam petam: huius quoque rei nota i nvenienda fuit,nutus scilicet ipsius atqueindicationis. Qua re Pronomen invētum est, quod esser Notarum, id est nominum nota: ficut indicatici digito aut capite fa etta erat nota lanceæ. Nisi enim licinve stiges, non potes, quin veterum errcirem com mittas. Quorum definitionibus neque asNomen a Pronomine distinguere. his positis, illud quo queex rebus explicandum fuit:Namomnequod 'merlin elt,aut fit, aut elt caufa, vtDeus: aut elft effectus, ytridere: aut vtrunque, vt Homo. Ca uffarumi gitur naturam per nomina indicabant; at cauf larumodusnonpotuit: itaque excogitandæ nails fuere notæ, quibushoc quoq; explicarı:tur: quas a situ nimis ruditer veteres appellarunt, præpoli tiones:fed de hoc suo loco. Igitur Cat 5 quu esse posset efficiens cauffa, etpoffet ide esse finis, hoc nomen Cato efficientem cauffam indicavit fic, Cato ædificat, ratione verbi intelligisi psum effe cauffam:at finc verbo fi sit, nihil intelliggas: quare addita præpofitione A statim efficient em decla rabit: fiautem apponas Ad, aut Propter, finem explices. Porro vthis notis Nominum modi de hai clarantur,ita verborum quoque modi, qualita cu telquetemperandæ fuere: Nam quum signantur ex res, quæ dum fiunt, sunt:aut temporis finibus certis præscribuntur, vt Hodie lego:aut qualita tis modum recipiunt, vt Bene curro. fccirco hic quoque notas suas habuere, quæcum verba ipfa moderanda fufcepiffent,verbis ipfis appositæ,ad verbia dici meruere. Restabat etiamnum aliquid; quodinrebuspositum deberet etiam notis infi-. ho gniri. Nam res vna est,autforma,vrAnimal ra tionale:aut accidente,vtLacalbum:aut subiecto, vt Album et dulce in lacte: autmistione,vt oxy mel:autcumulo, vt acervus. Ergo quæ fierent v num, vt vnum quoque dicerentur, commenti funt fapientes cõiun ettiones, quarum natura fuo loco acutillime explicata eft: Sicigitur in præsen tia fatis eft dicere, Lacest album;et dulce: Atque his quidem feptem partibus vniversus rerumam bitus, modusque contineri videbatur: niliani way morum affe et us quidam fuperfuiffent, qui nie masbequeiunguntur verbis, neque nominibuscohæ rent: fed eorum vis in animo totafibi confiftit. Nam voxhæc, Dolor, affe et um fignificat: fed Heu, nonhocipsum,quod dolor eft,quir !: re affe et i animi nota eft. Igitur quune c. nes indignatione; atque dolore, atque et yentis interrumpi soleant, maluere interpone re, vnde et interie ettio eft appellata. Acpotuit quidem etiam anteponisetiam poftponi:fed qar Zanteponerets temerenimis,no redditacauila aut Lirasci, aut minitari videbatur: quipoftponeret; leviter dolere.Itaqueet consulto interposuere, et perturbationi animiserviere. Exhis vt patet partium numerus, ita excludu- Em tur falso ascripta: etenim Appellatio, idem quod tay nomenArticulus nobis nullus, et Græcis super fluus, nisi quum rem notam repetit subiicerein tellectui. at tunc est relativum. Idem enim eft, O doûnos pous quod down avoidta: alioqui otio sum loquaciffimæ gentis inftrumentum eft. In finita quoque verba a verbis receptis feparanda non effe, ex definitioneconftat. Præpofitiones au tem idem effe quod Coniunctiones, negamusex his, quædiximus. Nam Vocabulum quiaddide re,ne meriti quidem funt,vt refellantur: genus e nim est ve Diettio,non nominis species,vrinepti unt.Nibilenin diftar a voce Vocabulum, nisiqa flexus atque articulosin voce habet. Idem enim est Mendicus etMendicabulum, Saburra etSabu lam,Statio et Stabulum. Eruptigitur Dictionis fpecies odo: Nomen, Verbum,Participium, Pro nomen, Præpofitio, Adverbium, Interiectio, Coniunctio. Quaratione investigande finispecies,quainfle ettatur: et quarenon pluresfintautPerfona, ant Numeri HAArum autem partium quædam cum infle- Ongo ctantur; quædam exdem, eademque facie perpetuo fint: quæ etquare ita afficiantur dein ieps dicendum erit: tiprius inflexionis ipfius ra uiones,atque necessitates eruamus. tlocutioab vno,pluribusve proficiscatur,nihilinterest: fed vnum plurave significet: fcilicetvnius, plurium **** $ venota fit. Forma enim orationis, Significatio eft: Significatio autem, a recit, non a loquente: Chamadoquens enim efficiens est. Omnis autem nume mil rus ternionecontinetur: nam Vnum numeri i nitium tantum eft: Dualis primus numerus imp - fectus: Ternio autem primus numerus verus. Quod enim æquales in partespotest dividi, Fini ti habetrationem: quod non potest, Infiniti. Et Ternicipfe et numerum continet, et numeri principium:at Dualisnon nisi in principium,id quevnum, resolvi poteft: itaquePotentialispo ciusnumerussit: quippe numeri potentiam, id eft, Vnitatem biscontinens. Ternio autem actu alis, qui quidem divisibilem fecerit indivisibi lem. Quare Græci quoque mbifor nominavere: Nempe quem si dividas; invenias infiniti habere aliquam imaginem, quæ supersit. Ergoin rerum naturaseparatus in corporibus noreperitur pun et ifluxus,vt lineam efficiat, quæ prima dimensi one obtinet vnitatis proportioner: neq; lineæ fluxus, vt superficiem seorsum designare nobis liceat, verum quum ad Tertium perveneris,vtsu perficiem ducas in seipfam, corpus efficies, præ ter quod nihil est, quod, quove metiamur: Vi demus igitur omnia principio,medio, fine con tineri: fane hæc tria funt. Motuspretcrea,aut est a centro, aut ad centrum, aut circa centrum: ne queab his vllus est alius. Nam qui in animali in venitur voluntarius, ex his compositus eft.Sed et in facristam veteribus, quam noitratibus, ter ple raque 2 taque aut fiunt, aut dicuntur. Et unam Dei substantiam tres, neque plures personas effe verd credimus. Et Grammatici ipfi genus illud, quod tres caperet articulos, omnegenüs appellarunt. Quarequum deduobus loquimur,dicimus, Am bo: quum de tribus, Omnes. Hæcita sunt Trias Sed et hæc eademi tria, dugsunt. Nanqueprin cipium numerị vnum eft: Numerus autem in pre, plura. Ergo in oratione quod significatur aut vnum est, autplura: quare duo tantum nu meri inuenti sunt,quibusdi ettiones afficerentur. Nam Dualem Æoles vt fuperfluum omifere. Acordo significandi accepit Ternionem,a cause mi,assome abow sea fa efficiente: ea enim quum sit principium, re et e Prima dićta est: itaque cum de fe loqueretur,Pria mam conftituit personam. Finis autem eius est communicare quod fentit cum quopiam: ergo Secundam reetet dixit. Materiam autem ipfam,de qualoqueretur Tertiam, Eftigitur Primaeffici ens doctrinæ: doctrinæ enim caufla oratio: See cünda Finis. docetur enim: Tertia materia, de ea enim agitur: Oratio autem Forma,sunt enim Propositiones forma coniclufionis. Quarta au tē fub tertiæ ratione coprehenfa fuit', propterca quod aprimafemper effet tertia: pro materia e nim habebatur. Verum Personæ vocabulo abusi Sharan funt veteres. nam Primam quidem veloqüent- Jy? * ". tem, Secundam vt audientem agnofcimus: hæ fane personæ fint, ar Tertiam quarepeta v. 174, mas i fonam dicam, quæ muta res fit: hocfa et um eft tab omalo,inane propter rei nobilitatem. Eft enim Homo fie biipse omnium rerum regula quædam, fi fefe antimp  M Oi ted -y Ljn rintedmusic IVL. - III. intueatur, quare, etiam Paruusmundusappella tus eft: itaque deseipfo semperloquendum præ cepit, qualı dere cognita subratione regulæ,cu ius menfura cætera cognofcerentur. iccirco per gain fonæ nomen ad ea, quæ perfona carerent, non temere translatum est. Sane Persona intelligi, tur status hominis ab animo, aut fortuna. Ne que verum eft, quod aiunt, fignificare indiuia duam fubftantiam rationalem, vt vulgo vtun tur, cum Itali numerant turbam nomine perso narum: sed accidensnotat, vt feruum, liberum, ingenuum, Heroem, Senatorem, fænerato rem, militem. Itaque cumdefiniuimus ab Ani mo, virtutem et vitia comprehendimus: quum Fortunam, libertatem et dignitatem,et contra ria. Sic enim semper locutisunt probati autores, Nam M. Tullius in octauo ad Atticumin episto la ad Pompeium cum dicit: Mea personaadim proborumciuium impetum semperhabuiffc vi detur aliquid populare: nonintelligit suum cor pus fimpliciter, sed virtutem, ac fortunam suam, quæmeritorum nomine iam commemorat. Ita que in primo Rhetoricorum loca a personisex plicat,nomen,naturam, viettum,habitum, etalia eiusmodi. et in oratione pro Sylla fic locutus eft: Si mihi propter resmeas gestas hancimponis per fonam. Cum dixit Mihi, intellexit subftantiam: aìm dixit Personam, intellexit accides:cum dixit Resgestas, intellexit caufam perfonæ, et circun feriptionem.EtSuscipere personam boniviri:et, Suftinere idem alibifæpedixit atneque suscipit substantiam, acqucmutari poteft fine interitu, Igl.7 UL RIO ut Igitur idem eft, fi dicas, Persona Ciceronis: et, Status consularis: fic enim ad Atticum fcribens, quum negat effe edignitate consulari, di et a quæ dam iacere in Clodium, poffis interpretari, Non pertinere ad personam eius. Vnde autem dicatur, contraquam Gellius fenferit, quotque significatibus audta sit,in libris Originum amplis fimenarratum eft. Fuitet aliud imitandum,quod com extabąt natura: siquidem intererat, vt quodmas, ro fæminave effet, et quod præterea neutrum, indi caretur. Quare quod per marem fæminamque propagarentur genera, genusid diet u fuit: quod autem extra hæc dugeffet, non dire et o fignifica tu generis nomine accipi debuit (ytiocatur fux per ineptiis Grammarici lepidiffime Ausonius ) DrTo sed per negationem. Neutrum enim, genus elt, Nisha quianon estgenus: ipsum enim nomen indicat, non essegenus. Hoc igitur est,quod non eft.Hoc enim habent negationes, vt non ponendo per nant, veluti cum dico, Nullus homovenit: hic 1 actio eft, finepersona; fi enim non fubeft homo In aduentui, non eritactio. Nam præceptores mej S hoc errabant,cum moremedicorum Neutruge nus ex vtriusque participatione constituebant, use Temporum autem rationem fuiffe necessariam Rum, no spe intelliget, qui motum, quid fit, fcit. Sed illud ia fuitanimiofficium, opulque perfpicacis. Nam plentas quum affe ettus varii fint in functionibushuma # nis,puta Optandi, Imperandi,veritatem designa i diverba ipfa,quæ a ettiones significarent, inflexê Cipre,eosquefexusModosappellauere; propterea i quod aliter, atque aliter animi propensiones Lij. teme in COM 260 IvL. III. temperarent. Videndum est igitur has diet tionis affectiones,quæ, quotve partcs orationis,quibus Vede caufis sibi vindicent. com Substantias,quæ seipsis constant,cade semper effe,qualicunque animi affe ettu notentur, mani festum est. Nam Equum pronunciarovel optan do,vel imperando,non mutabo: itaquecum ne que meianimi mutatione, neque temporismen fura mPombaut, quin idem equus sit: nequenomi na,nequenominum notæ pronomina, tempore aut modo variabuntur. Simpliciores autem no tæ,quævincula tatum essent orationis, non ma. gis potuere mutari, quam vin et io ipsa in rebus.Si enim Cæfar cum Catone bellum gerit, neque per fonam possis ei hosticæ conuentioni, neque nu. merum, nequealia apponere, vt varietur: ideme nim femper eft to umegye evcvartiov. Sic reiectz funt Coniun et iones, Præpofitiones,Interie ettio nes, nudæ enim,etfimplicis rei notæ sunt.Vnum venit in cotrouerfiam. Aduerbium:nempecum dico Heri, Cras, videor temporadiscernere. Sed non ita est,haud magis,quam quum dicam,Dies, Annus:tempus enim significatprimoftatim fig nificatu: at verbum non tempus,led subtempore. Itaque non vna eademquevoce, sed diuerlis di versa temporasunt aduerbiis significata: itaque ctiam a numeris exempta sunt: cum enim efsent temperamenta quædam verborum, verborum numeros sequifatis fuit. Erunt igitur Nomina variata per Numeru, et Perfonam, ficut et Verba: peculiaria autem illis alia,alia his,dequibus suo loco.Nuncenim cauffas 161: 1 1 US ep CD fas declinabilium, etindeclinabilium vt perscru taremur,fatis hæc hîc habuimus declarare. Affeettus specierum dictionis alterius modi. Tquehis quidem affectibus rerum ratio ex -plicabatur:fed et alii fuere potius, vtita di- maksi cam,materiales: Figura, et Casus. Cafusenim ad diftin ettionem intellectionis funtinuenti,nonex ipsarum rerum mutatione. Figura autem non femper a re. Namquoniam vel mistæ, vel com politæessentsubstantiæ,composita quoqueno mina fuere quædam,vt Tragelaphus, Vulpan ser:aut substatia et accidēs,vt Equiferus. At quæ dam fuere figuræ, quæ nihil ostenderent in re compositum,vt personare, insistere, et alia talia. Despecieautemdubitari poflit: nam quemad- Spremni modum qualitas intellecta per fe, a nullo tunç dependet, puta. Iustitia: at in Cæsare eam fi con templemur, videtur ab eo et constitui et pen dêre, iccirco videri quoque possit deriuatum nomen lustus, substantiam iplam tanquamsui principium confignificare. illa omnino eft in verbo materialis,Coniugatio: nihil enimrefert (omu quodnam in elementum abeat,modo a et io, aut gako passio fignificetur: quare diuersæ inueniasCon iugationisidem verbuin, Lauo, Denso: Lauare, et Lauere: Denfare, et Denfere. Ordo vero,ne-owo que a re fumptus feruatur, neque immutat 0 rationem, nifi certis modis transponantur: ne que enim codem dicasmodo, Omne viuens est animali et Animal eftomne viuens: fed structura L ij. et Ini 20 1 D mk Too Us atac elle  eni mi 701 om  IvLi III. BON omnino nonmutatur.Anautem fit proprius af fe et us cuiuspiam,suo loco dietum eft. Hinccolligere poffumus, cum alii sinterebus hati,alii materiam ipsam vocis potius sint fecuti, ex quibufdam conftare neceffario veritatem, ex aliis non neceffario: nanque vitiatotempore,fal sa fit oratio:vt, Vergilius iterum nascetur. Siau tem vities genus; non fiet falsa, Vergilius bona: Figura autem etiam falfam facit orationem, vt si dicas, Vergilius est poesis. Modorum autem fo lus Indicatiuus pertinet ad veritatem. Sed de his fuo locos.  QuodPerfona, etNumerus accidat omnibuspara tibus, quomodo: et An Sexus Verbis addi debeat. STatua intelle etionon vniufmodieftita, ned voces: ftatuam enim interdu agnoscimus, vt eft fignum Cæsaris; interdum vtmarmor eft:po fteriore modo, percipitur vt substantia: privre, vtrefertur. Sic imago in speculo et res eft quæ dam per ses etsignum alterius rei. Eodem modo *** quüm voces rerum signa funt;eatum quoquena turar imitantur:vbivero per seaccipiuntur,ipfit na quoquetanquam res quædam intelligutur.Qua retum aduerbia, tum Coniunettiones, aliæque eiufdem modi, cum Nominibus Verbisque et fecundas perlonas, et tertias obtinebunt: fed non codem modo: nam Nomina Verbaque res lignificant,personasconsignificant: Coiun ettio nes; atque cæteræ tales partes; rerum odos asn't figni. 16 € bi U:. -50  nh let poli significant, perfonas non confignificant,fed ipfa snb persona consignificantur. Exemplumrei huius hoc eft: tra et abo naturam huius coniun et ionis Quanquam: in ca narratione femperap ponam verba tertiæ personæ. Exclamabo adi psam oratorum more: vtin fabulis, O coelum, a terra, o maria Neptuni i quæ nihilo melius re spondebunt mihi: apponam fecundæ: confi ciam Prosopopæiam addentur primæ. Eodem quoque modo vox hæc, Patres erit numeri plu ralis,quum lignificabit: quum significabitur,lin gularis: quaratione etiam pluralis numerus, dicetur singularis. Sed restat quæstio, Quam ob rem Verbo sexum non addidere, id quod fece runt Nominibus. Atfieri debuiffe vel ratione vi tur posse comprobari: Nam quumVerbum sub tempore id significet, quod Appellatio fine tempore: ficuti Appellationes fecutæ sunt fixo ram naturam, ita etiamVerba fequi debuere. At Appellationes fexum, iuxta fexum nominum fixorum, id eft, substantiuorum, mutant: igitur etiam Verba mutare debuere: Curro enim corsum significat sub præfsnti tempore, et albesco, album. Siigitur re et e di et um eft, mulier alba, quo in loco, album, mulierem fequitur: eodem modo Albescit, quoque mutare genus debuisset. Satis igitur eft colligere, fieri po. tuiffe: breuitati autem cor sultum effe, quum, factum non eft. QuareVerbum, quum trans it in Participium, facile ipsum genus recipere quiuit. Diuiditur igitur in Declinabile,etin Ladecli nabia LIS, ultra ique ma ujen are F.Q Liza que R;/ Zule! nd ma L iiij. 164 IvL. IV, nabilem, quaternis dispositis fpeciebus:ibiNo. mine, Verbo, Participio, Pronomine; hîç aduerir bio, Præpositione, Interiectione, Coniunctione, Kase Nominis essentiam, tamabappellatione,quam a reipsa, statuit. HACTENVS postpartes,diet io: nis Substantiam ipsam venati fumus, eiusqueAffeet us: tum Species, earumque affectiones incommuni quibusque essent cauffis in vium profectæ. Nunc iam deinceps fingulis libris fingulorumratio ex Onio plicandaeft,codem ordinequotesipfas,quarum notæ habebantur,funt fecutæ.Nomenigitur pri mumexequamur:efseenimnotam rei permane. tis,ex iis,quæfupra diximus, fatis conftat. Itaque iniplaappellatione comprehenfa est vis quædam ađionis: quasi ipsam esset cauffa quædam notio Vox pis Namyt aMouco,moui,motum,Mouimen, Mor ne 1 s Momen; sica Nosco,noui,notum,Nouimē,No men:eft enim imago quædam,qua quid nofcitur: instrumentum quali quoddamcognitionis: ac veteres quidem rectam yiain institêre, cum dice- Vol. rent, quasi notamen. Verum minus recte bonam ser ntiam explicarunt: Notatum enim poftc mi reft, quam Notum: sic Notamen, quam Nomen; vt e contrario ab hocillud potius fit. Fuit prius Noo,a quo Nosco:vtnetucaw,a quo niespoo onu,apudTheocritum; Æoles enim ficloquicon fueuene. Multo minus audiendisunt, quia Græ co όνομα,φuodωρα το νέμειν, ficut et νόμος, dedu. Α. Αν xere: quoniam quo pacto lex suum cuiq; tribuit: ita et nomen fuam cuique imaginem rerum red dit, nequeenim reette deductum intelligas ex ip * fa, quam temere auferunt,vocali. sed övojce, rei vc titulus fuit, a iuuandoquafi o;eopa: cuius vsu rem agnofçeres. Hæc est vocis origo. Res autem lis fic fehabet in definitione, Didio declinabi- Sey per cafum, significans rem finetempore.O. mnes enimpartes fiue species diet ionis, per ge nus suum, fcilicet per diettionem suntdefinien... Test dæ: vt constet error gramaticorum,qui eam par tem grammatices appellassent. Aliud enim eft le grammatica, aliud grammaticæ subie et um Di et tio fue Oratio.Sicut neq; verum eft quod aiunt alii,quiGrammaticæ partes quatuor fecere, Li teram,Syllabam,Diet ionem,Orationem. neque enim est grammaticæ pars Oratio, fed totum ip fumargumentumquod vocante'moxeipfuor.Quis enim dicat Archite et uram diuidi in ædes? Diffe rentiæ autem illæ neceffariæ funt. nam Præpo L y fitio to Da tuca 2017 TUI pri gh t10 hel Com > Sitio non declinatur:Verbum remouetur per ca füm, Participium per temporispriuationem:Hac tamen definitionenon differt aPronomine, nisi adhucaliquidagas; sic primo,vel finemedio rem fignificans.Nam pronomen hoc,OVI, Cafarem fignificat,sed nonstatim: primum enim refi psum nomen hoc CÆSAR, deinde rem ip haveteres autem vt in cæteris definitionibus, fail li funt,cum dixere fignificari, substantiam aut qua litatem, propriam,velcommunem.Nametiam aliud quamsubstantiam significant, vel qualita tem:quippe quantitatem, relationem,fitum, pri vationem, to egely,to. Illi vero etiam ridiculi fint, quiin nominis definitionerem a corporedi ftinxere, nihil eniminfelicius grammatico defini tore. Nominis affectus etiam accidentia appella vere, quoniam Græci ovubsExxotoko verum itain telligas; non xouvai, fed idhis, quæ Quintilianus recte propria vocat: sunt autem sex, Species,Ge nus,Numerus,Figura, Persona; et Casus.Atque horum quide quinque a veteribus confeffa sunt, Puumapersonaautemturpiter omiffa.Principio,ficcir. w >2.90.co reiecere, quia eadem vox finevlla variatione, quamlibet confignificetpersonam, etiam a pro nomine auferenda erit:neque.n.hoc pronomen Ipfe, vt primamaut aliam notet, variatur: neque hoc pronomen Ego, aliam, quam prima indicat Sed hîc quoque acrius iudicandumest:namPro nominaperfonam fignificant.Ataliud est signifi care,aliud cõsignificare: vt hoc nomen Tempus, significat menfuram motus,verum non cöfigni ficat motum.atnomenhoc Persona,id quodfu  pra  ra H, TE enhers i OL 11 lin ope veli pra diximus significat, sed personam certam non consignificat,sic Pronomen hoc Ego, personam significat quamlibet:pro quolibet enim nomine ponitur,fed primam tantum consignificat:quare cum per personas non varietur,non allignabit af feet um perfonæ Pronomini. Poftremoid falsumbern videmus esse, quod de Nomineafferunt: ideme nim nomen vtalioflexucasum, numerum, figu ram mutat, fic etpersonam. Nam fecundæ per fonæ quinti casus omnes sunt,quos dixere Voca tiuos. Verum neq; hanc fubtilem sententiam illi intellexere, et omnino tertiæ tantum persona nomina putarunt, adeo inepte, vt nisi adiecto Pronomine,negarintpoffe dici,Homocurro. At aamce o bone,quod Pronomen agit, vicarius quidam: herus ipse,Nomen scilicet pro quo illud ponitur, non ager? ergo non Pronomen a Nomine, fed Nomen a Pronomine dependebit.Atfuit aliqua alt. do, quum nullum effet Pronomen: tum miseri mortales de feipfis nihil poterant enunciare Co cedunt pudentiores vsum verbi fubstantiui,et fi milium,Homo lum,homofio, homo nascor;ho mo dicor: at quid est, Homo curro, aliud, quam Homo fumcurrens? Itaque paulo modestius alii sunt nugari, Appellatiua huic vsui concessere, Propria fuftulere:vt nð nominiin suo genere co- poruci petat variatio per personas, sed eius fpeciebus ali quibus,proprio autem no.Verum qui intelligat; quid grammatica fit, facile corum reprimat au daciam. Eftenim Grammatica fcientia loquendi ex vsu:neque.n.conftituitregulas scientibus vfus modum:fed ex corum ftatis,frequentibusq; vfur patio 2011 tan.G fuera  pationibus, collegitcomunem rationem loque di, quam discentibus traderet. Igitur cum tam a Ex. pudGræcos, quam apud Latinos prima verbi persona cum propriis nominibusposita sit: idque eta probatiffimis, et frequenter fa et um fit:debue reabillis isti legesaccipere fibi, non de suo finge re potius, quam figere. Omitto illud Euripidæ, jww nonu'dwpas. et inoratione Demosthenis con tra Midian, παμμένηςπκμμένεςέπαρχος,έχον χει oog acicu ciw, roixa @zizuorech ag eghalomgy. Venio ad noftros: Ouidiussic loquitur:Hospita Phyllis queror:in epiftola Heroina.In fine comediarum Terenţii verba illa funt:Calliopius recenfui. Sue tonius C. Cæsaris verba refert: Tantis rebus ge stis C. Cæsarcondemnatus essem. T. Liuius in primo, Romuli hæc: Hæc tibi victor Romulus Rex regia arma fero. Idem in perfona Anniba lis: Annibal peto pacem. Sallustius in oratione C. Cottæ confulis:En C.Cotta conful facio. Ne Rs que vero fubeftratio,qua possis dicere, Homole go: et non poflis,Cæsarlego.Imoveromultore et tius: Cæsar enim ego sum, non alius.at alius ho mo æque, atque ego. Quare in tertiam potuit transferri appellatiuum:propriumautem reman fit mihi in prima. Eft et illud validissimumargu mentum, Nomenessenotam rerum, siue igitur pe tempusinspicias,siuedignitatem, primum feip fum nominauithomo: at in homine, priino per sona, et ab eo aliis communicata. Quidillud? fi Nominiin communi,vt nomen est competitca { us: et tamenqaluuma variatio defecit aliquotno mina;erga quid dicendum?Respondebut, etreas et lo Ete casus quidem effe, vt in nomine Cornu,sed per diuersa elementa non effe manifestos. Ita et iam nos,perfonarum ordinem in nominibuseffe indiscretum, quem in vocatiuis aperte pofteaex plicarent. Ex his constat Linacri lapsus, qui ita scripsit, Sinc certæ personæ adsignificatione fi gnificare: quintus enim casus certam fecundam præscribit. Et ipse in participii definitione dicit, Capere a nominenumerum et personam. Est autem persona primo nominis affecttio, secundo verbi quod iplum fit Nomen secutum, vt dixi mus, quod,Prima:ad quod,Secunda:de quo, Ter tia, Efficiens, finis,materia. Hæcestigitur nomi nis effentia,fignificare rem permanentem:atpri sci id effe proprium eius ridicule prodidere; qua inscitia etiam in aliis fubftantiam cum accidente confudêre. Quoquifque ordine affectus traltandus fit. Rdinem quoquehorumaffectuum veteres on UL uc T neenatus fluxit:ita debuit explicari.Ac nemode bet dubitare, quin et Numerus, et Persona pri mas sibi sedes occuparint:sednumerus prior fuit. Rummus Nam primum etsecundum, quod eftin persona positum,eft relatiuum:prima enim dicta est,pro pter fecundam. At Numerus non eft relatiuus, sed absolutus: absolutum autem prius relatiuo. Poft perlonam autem genus cditum est: videmus cnim in pronominibus primitiuis genera con fusa. Poft Genus emerfit Casus, quem expressit  ambiguitas:cum primum ficcssentlocuti, Cața interficit Cæsar. Itaque ve distinguerent oratio nem flexumapposuere. Vltimæ fuereSpecies, et Figura: ac Species quidem multo magis necessa ria, itaque Figuram præcedet: fine Figura enim constabit oratio, lineSpecie non omniscõltabit. Neque enim dices, Cato cft iustitia. Atque ipfo Socquidem Cafu Species fuit præstantior: materiæ pi bel enim affectio simplex cafus eft:Species autem et iam ipfi Teineceffaria eftad fignificandum:mu tat enim Species modum fignificationis, Cafus autem nonmutat. Sed fere et a philofophis ipfæ funt Species introductæ, Denominatiuorum, et eiusmodi: at Cafus vsu tantum exorti facile funt, ac propterea priores fuere.Sicigitur recensebun tur:Numerus,Perlona, Genus,Cafus,Species, Fi gura. Sed prisciita peruerterunt: ficuti cum ante Verbi, aliarumque partium definitionem, pro pria eorum narrant.  PeNumero, C depersona quidem iam diet um eft: coas et i enim disputationeid fecimus:'de Nume ro autem est hîc agendum. Numerus eft quanti štas, quæ per fe ipfa diuisa ac cumulate vltimo kermino ab aliis distinguitur. Eft enim Binarius numerus duæ vnitates, Ternariustres: quæ sua natura non sunt fimul, fed cumulatione,liueag gregatione, fiue appofitionedicas,nihilintereit. Distinguitur autem omnis numerusab alio nu: mero vnicotấtum termino, coque vltimo: vnam A ind enim No TE Song ILL C enim habet dimensione quantitas discreta, quip pe longitudinem: fuit enim vnitas discötinuata; nequeenim recte dicitur fluere. Cumigitur om nis numeri vnitas initium sit,non differet nume ri inter fe hoc termino vnde fluunt, fed eo in quo fiftuntur. Hoc enim Quaternio a Ternionedi ftat, vnitate scilicet poftremo apposita loco. Occu patum autem eft confuetudine, vt Vnum, ctiam numerus diceretur: quare id quoquefecutu fuit, yt numerusalius dicereturSingularis, alius Plu ralis: neque enim mediu vllum estinter vnum et plura:quoniã plura ex vno frequętato fa etta funt,similar Quarelones non re ette fecere, qyi Dualem nummon merum a plurali discerpsere: atq;iccirco feuerio res Æolesnequerecepere,nequein Latinos tras misere. etnugacitas illa Ionum in multis tempo ribus verboră personas aliquot nõ potuit eruere in eo numero:in nominibus autem pauculosca of sus expressere. His autem, quæ diximus,infelicif simegrammatici obstrepunt:egrelli enim esep pris suis non poffunt quin ineptiant. Singularis, lwg.mo inquiut, numerus verissimºnumerus eft,propter when a ea quod repetitus facitnumeros, inque eum ipli resoluutur. Principio, hoc est disputatu in divina philosophia, Unitatem non effenumerum, ficut neq; pun et um quantitatem neutrumque; efle in bet prædicamento quantitatis,nifitanquãprincipia. Multis autem argumentis deiiciuntur de staru 13! fuo. Si enim numerus eft quantitas discreta, id est a quantitatesdiuise per superficies, et coniun et x te per comprehenfionem,imo vero ipsaquantitatī. ratio comprehēsarum: non erit vnitas numerus, non TIES m2 nas le IyL. IV. non enim diuidi potest: idem enim eft diuisum, etdifcretum: ficutidem cocretum etindiuifum. Sumptis quoque eorum principiis direeto aduer fus eos colligamus. Numerus, inquiut,singularis 2 reet edicetur: quiageminatus,aut multiplicatus cæteros omnes creat. Ergo numerusnon eft:hac enim ratione punctum esset linea, linea superfi cies,fuperficies corpus. præterea Binarius, Tere narius, Quaternarius,non esset vnusquisqueñu merus feorsum:sed Binarius, duo numeri:Terna rius tres:non effet igitur quantitas, sed quantita tes: numerus enim quantitas eft,ergo numeri qua titates. Nihil vero mirum hoc errasse qui eu ma Ale iam definiuerant, Numerus eft dictionis for ma, quæ discretionem quantitatis facere poteste | Principio male assignaruntdiet ioni:nequeenim competit diettioni,vtdiftio est; omnibus enim competeret dictionibus: hoc autem eft falfum. 2. Deinde formam dixere, cum tamen numerus fit 3* accidens. Et male dixere, discretionem quantita tis facere; sed potius discretæ quatitatismodum, 44 aut differentiam notare.neque excluduntur Ad verbia illorum definitione: Nam Bis, Ter, for mam habent dictionis, quadistingui potest qua Propmatitas. Proprium autem eltfingularis,finitumef fe:id eft,certum:quiafcimusquantum sit homi num, cum dicimus, Homo. At pluralis infinitus est,non quod fine careat,nihilenim in natura in finitum:sed quia sitincertus. Sienim dicas, Ho mines: quotsint, nefcias: itaque addituraliquid præscribens, vt Decem, viginti. Accidit autem interdum, vt eadem vocediuersus numerus in telligatur: quemadmodum eft in fecudo casulina gulari fecundæ inflexionis, et in primopluralie iufdem: in neutris pluralibustribus, ac hngulari fæminino: vt,SACRA. In quib.autem evettiat, in capite decafu dictum est. Secutus autem eft nu NE merus grammaticorum, suiipfiusnaturam in reo busiplis: par enim etdispar, vt diximus, non si muladfunteidem numero: ficneque pluralis, et fingularis: fed satis est alterutrum vni voci ineffe. Ac quemadmodum numerus quivisaddita vni- Awesome tatc acquirit rationem pluris, ita aut numero ly ! labarum, aut temporum, plurales numeri nostri maximaex parte,lingulares fuperarunt: Poeta, noule Poetæ:Dominus,Domini:Pater, Patres: Cornu, Cornua: pauca enim aliter invenias. Sed et ina liis cafibus fereidem invenies. Quare cum idem numerus non poffit esse vnus, et pliires, et idem nomen vtrunque significare queat, ut “Amor”, “Amores”, consultum elt huicrci,vt per fyllabarumi aut temporum appofitionem, idem nomen effet seipso maius, et aliquo modoa feipfo diverfum. Hocautem, vtdiximus,maxima in parte nomi num est, non in omnibus. Sermo enim teme re inter agrestia ingenia primum örtuš refraga tur aliquando legibus doctiorum. Igitur quæ - yna v hrun dam sunt nominä сiusmodi, vt numerum v trunque obtineänt, qualia diximus: nonnulla semper singularia: quædam semper pluralia: et in his quædam pronumeri natura numeru red dentia: quædam non: fed alia singulari nume to plura fignificantia:alia plurali numero, singu la: Semperigitur fingularia,aut semper pluralia 46 T 7 Mj: Vin vteffent,effecit aut natura,aut vsus. Natura sunt singularia, quæ certa sunt individua, ut “Sol”, “Czsar”.Item pluralia, quæ multa sunt; vt sunt hoc; quod effe dicuntur,vi Gemini,Pisces. Dico autem, Et funt hoc, quod effe dicuntur: propterea quod colle et io illa plurium fingularium maxima ex parte pendet ab intelle et u:vfus autem tyran nide extortum est, vt quædam sine ratione essent fingularia,vtfumus:nam quare non dicam duos fumos?et duos sanguines? Hæc igitur sine ratio ne. Quin etiam contra rationem: etenim Pul verem, et Arenam dicimus, totum illum cuma. lum, cum tamen ipfarum partiumminutaru po. tius effe debuislit. Pluralia autem quare dicas Lynum dicm, Saturnalia, Floralia, ratio subest Comprehendit enim et ludos, et ioca et merca tus,et comeffationes,et alia. AtCervicesquare dicebant,cum Collum quoque dicerent:aut qua re Colla,vnius tantum hominis: Emendat ramen fefealiquandopublicus vsus tollēdo quod statue rat, probatorum autoritate: quibus aliter placuit 4 poftea dicere: vt Cervicem primus Hortensius pronunciavit: item Farra, et Mella, et Vinaalij: et quibus placuit idem nomen proprium diuersis imponere:vt, mihi, et lulio CæfariDiet tatori. Ea dem quoque autoritate coacti sumus verum fin gularem in plures dividere. Vna Gallia eft,fin. gulis vtrinque montibus, totidem maris limiti bus, etfuvio Reno præfcripta. quare igitur in tres, quatuorve Gallias divifimus? cum vna Græcia, yna Italia diceretur. Ac fane commo. idius Italia in plures potuit distingui a namvetus Ausonia, quæ et Oenotria,et Italia nominata fu= 4/2010 it,ne Tiberim quidem attingebat.Poftea Roma-> ni ne Barbari ellent, vi extorsere,vtad Rubicone vsque fines extenderentur. Octavius rerum po-). titus,ctiam nominum dominus effe potuit: atq; etiam, li Diis placet, ad Varum vsque propagavit: ut Alpes ipsas quoque, quas natura fixerat com munes, a barbarie vindicatas Latino nominiat tribueret. Sanevero, quí Nicæam in Italia transtulit, potuit Italiam ipsam, ad sociam et participem velnominis,vel gloriæ Romanæ Maffiliam pro rogare. Sed de his aliâs. Eft et illud contemplan- Rana dum: Nihil referre, vnum pluravelint:an vnum plurave putemus. Ita cum ex divisione provinci. arum acpræfe et uris,Transpadanam, Cispadana, a Cisalpinam, Transalpinam,Belgicam, Celticam, Aquitanicam dixere,propterea quod ita effe ar bitrabantur: fic philofophorumquidam cuplu r'es Mundos, Soles, Lunas intellexeretquodano bis numero fingulari prolatum fuerat,ab illis no heeft vitiofiusin verbis quam in rebus multiplica tum.Itaque loues etiam dicimus, et Veneres, et Cupidines. Itaquefcribunt, Orbem terræ:et,Or bem terrarum. NamTerra nomenproprium est in singulari vnius elementi, quæElementum est, atque idem semper in sui fimiles partes dividitur. Cum autem in plurali ponitur, eitidem nomeli teřis, et materia,sed non substantia. Neque.n.ex W proprio fitappellativu,vrdixere:fed aliud estre, 1 licet voce coveniat. Sicut in Caet Numeris in 1 dem quoq; evenit:Nam,facra generis fæminini, Mij. numeri numeri singularis, non eft eademyox cum plura libus neutris:accidit enim, vt iisdem fcribatur e lementis. Terræ autem divisionem aufpicati sunt a familiaribusoccupationibus, et ius ipfam iniu riam'appellarunt: neque enim melius Terra de buitalijatque alij attribui,quam aer. Itaq; natura vindicat fefe, et mortuos Tyrannos nonmaiore tegit tumulo,quam vnum ex oppreffis, fefe om. nibusæqualem oftendensmatrein.Quęvero lin gulari numero plura fignificant, naturam ipsam in eventibus rerum funtimitata: quippe vnuscu mulus,vnus acervusdicitur: atid vnu, plura funt: edita Populus,Turba,non fine ratione fimplici nu mero, multiplicem significatum comprchende Thebae.Nam Thebx,et alia eiufmodi,fecura sunt con ventum libertatemque civium:quorum omnium nomine, non vniusgererentur res: alibi enim a pertius hoc declaratur vt in Commentariis Cæsaris, Helvetij, Menapij, Arverni. Multitudo enim in populis, nonmania in vrbibus explicaptur. Harum autem vrbium numeruscu fingularifle. xu profertur, vt apudStatium, Theba,fequitur v nionem ipfam in fignificando. Quæ igiturperti. nent ad numerorum naturam, affectus, vsumý;, hæc funt. De Genere. Bon Aturalia quofdam habent affe et us propter fe: vt,moventur animalia, quia fentiunt:er govt evitentnoxia, etvt commoda consequan turymovendi facultate prædita fuere. Alios affes et us or 7.2  DIC Aus habent propter alia non propter se: ut excrementa sunt, vt cujus Tunt,ipsis exonerentur:ne que enim aliqui pili quibusdam in partibus ho minis vllum propter sefinem habent: nulli enim ysui funt: fed ve fumofis exhalationibus illis va cet intus ibi corpus. Eft et alius modus, vt genera tio affectus enim animalis eft non propter ip sum,sed propter speciem. Nisi enim indiuidua certa producerentlibisimile, interiret species ip fis deficientibus. Quare generandi facultas eis da ţa est:atque aliis quidem alio modo:perfe ettis au tem per fexum:in quibus mas, et fæmina distin guerentur. His de cauffis, quæ voces fexus effent notæ, qua rationcidiudicarent, eam rationem en Genus appellarunt, a poteftate earum rerum, ', que significarentur.Sexus enim cstalterutra po- liceret testas generandi. Neque recteantiqui dictioniSlim? isl attribuere: Trium enim tantu in partium eft,non autem Dictionis.Sed ipfi falfi funt, cum non ef fet nomen pofitum ei generi, quodpeculiariter has tres folas partes capit. Alii addiderunt fic,Di * et ionis declinabilis:fed falso:neq.enim Verbiest, pc Eftigitur illius fubalterni: fic enim media va i cant: generis affc et tus terminatione fexum notas. Sita enim eft in fine vocis, vt Cælar, Mufa. Ne que vero impedimento cít, quod ctiam masculia na terminatio cum fæininina concurrat: vtMu rena,Aurata, quæ funt cognomina virorum.Hoc S. op enim accidit a cognominibu sanimalibus: sic Syl nila, aprudentia, quasi Sibylla: et alia, quorum ra tio fuit hæc secuta. Neque Barbara obsunt, Iu i gurtha, luba: illis enim ca fuerit terminatia ad hoc le M iij. 178 Iul. IIIL 1 hoc officium,yt postra nobis, Quod si qua eft ve triquefexui communis,non destruitur iccirco de finitio: vt, Legens, et Felix: intelligis enim vtrum quegenus includi: quod non facies in Leetus, Le Ćta:aliter enim terininantur. Iccirco fapienter diximus, Notans, non autem distinguens:non enim semper distinguit, ob verborum scilicet pe nuriam: funt enim res plures, quam vocabula. Cætera autem, genera aut non sunt, aut hæc funt. Ac deNeutro quidem diximus:nomene, nim hoc, Neutrum, negat ipsum cffe genus, Cum enim dicis, Neutrum genus est, significas wipfum effe,quianon est. Sicutsvavulla quædam herbæ di ettæ funt:quæ quianomen non haberet, che nomeniņuenere. Eft autem Neutrum duplex: vnum, quod vtrạnque fimul reiicit genus: vta Scamnum. neque enim autmas, aut fæminaest, Alterum, quod ncquc rejicit, nequeftatuit: vt, Gubi Mancipium. Addidere autem, quod Incertum vocarent; vt, Dies: fed hocabipfa re, neutrum quoque eft. Sexus enim non nisi in animali, aut in iis, quæ animalis naturam imitantur, vt arbo res. Sed ab vsų boc factum est, qui nunc mascu linum sexum, nunc fæmininum attribuisset, hocitaque nonulli eţiam Dubium appellarunt. At illud ferendum non fuit, cum animalia quæ, dam suis generibus non notarent; hanc ncgli gentiam Græci vocarunt genus etiroivov, pessi me: nam xovov, id quod Duocomprehendereç genera nominabant. hoc autem Alterutrum tan tum cum recipiat, no potuit habere præpofitio pēem:addit enim quatitatēmathematicis. Vt emia rippv,Noftrimelius promiscuum, quod differret I  1 lad. avt cius pics ns3 LIC cam ma co FC 010 ego com-, GUE a communi: quoniã comuneidem æquecaperet vtrunq. fexum, et effet vox generica autspecialis capies indiuidua:vt homo,cui aliquando femini num,aliquando masculinu apponeres adieet iuũ, vt homobonns, homo bona. At Promifcuo non item: fed alterutro sub sexu captę voci, vtrun-, que sexum affignares: vt paffer albus, ctiam de femella. Is autem defe et us cum in vsum furtim irrepGifset, timiditate quadam fotusest. Nam vt$$ Mulus,Mula, Ceruus,Cerua, quare no Aquilus, Aquila, et cum haberesfuucs, Fwvis, quamobrem non dixisti, Thunnus, Thanna.Namquçadmit, tuntcommunes terminationes, ausim muni quoq. genereinsignire: vt hic et hæcouis potius dicatur,quam aut hæc,aut hic vel hæc, vt etiam veteres pronunciabant. Atque illi quidem, cum Taurum re et e dicerent, etiam ad conuiciu Tauram, comentisunt. Quare igitur voluptatis diuerticula quæfiuere: necessitati autno inferuie re verum nulla ars repete perfecta extitit. Ille ve roin multis vocib. ficin vocu terminatione fata Opuze lis defe et tus fuit, cum tria genera vnica vnius vom cis terminatione coprehensa sunt, vt Felix: vng enim vox est,materia fifpectes; at si formaintro. spectes,tres sunt vna facic.llludquoque ex anti quiseft cautius accipiendů: Nacumdiscrimogenos a Nerum statuut, per notă Pronominis, a pofterio - riaccipiunt cognitionem:nequeenim Cæfar, eft generismasculini,quia ei præponitur hic:sedco gnoscitur ita cffe,qaita præponitur: præponitur aute,quia eft. Hæc de re ipsa. eorum autevoces etia sunt declarandæ.NaMas,Ofcadiettio fuit că la cifa a Mamerte; Mamers.n. et Mauors, et Mars, forrem apud illos fignificarut;non quodma na UIT CIT IO MIC Sil m voca vorteret vtaiunt: neque enim Latinæ voces fue re. Fæminina antem a fætu:fætusautem cause to Coitur: nam hocverbo veteresrem Veneream fi, gnificarant pudenter: ficut Latini, Coire: quid enim purias,quam comitem esse? item consuetu do: ' lic Græci owevci, et vyzivela, et alia mplta, quæ in libris historiarum diligenteranno * tauimus. Disputarunt autem Grammatici Ma pufcula Lante genera anMasculina dicenda effent: et Fe stus in xii. Masculina mauult, quoniam Græci quoque apravixa Hai Inaura ', non autem appara, etFraua. Idem Feftuşin primo, Fæmineum di citGenus, non Femininum. Recentiores deli cati malunt dicere, Generis neutrius, quam peu tri,fed antiqui fiçinflexêre Vter, vtri, vtro; fi cut,Vnus,vni,vno,vnum,vne: vt es apud Catullum. et Terentius, Mihi solæ. Et vt nomen gene ris differat a communiilla vocenegatiua, pruden ter, qua potuit,effectum est. Proprium autem Ge nerum effe,pati mutationem,fatis patet ex genc en reincerto, vt etiam Armentas, dixerit Ennius, quæ nos Armenta. Sed de his in historia originu faris dictum est,  Cafors. Vncco ordine, quem præcepimus,de Cafia bus agędum eft,operoso fane negotio.Ca pildusigitur, per veteru definitionem, quid sit,non bolle med fatis cognoscipoteft:quippe, et Nomen per Ca fum, et Cafum per nomen cuin definiant neque þæciņter felintrelatiua, circularis erit cognitio: 1 sic Pt fic cnim vocant philosophi, quum ignotum per æqueignotum explicatur. Nam fi nomen eft de clinabile per casum, Quæro, quid fit casus. Eft declinatio (aiut )nominis, quareper hæc nihil ng tum mihi fit. Sed addidere, vel aliarum casua lium dictionum, quæ maxime fit in fine, At vero, Cafus non eft declinatio:Declinatio enim duo fi gnificat: A et um illum inflectendiprimo fuo fia, gnificatu:motum.n. notat ciusmodi verbalia, ve ambulario.Id nõ eft casus: no erit igitur hocmo do declinatio: fecudo,significatcaputquoddaad,, quod reducuptur eiufdem flexionis nomina:ve primam, secunda, et alias dicimus: ne sicquidem erit casus, declinatio, Casus enim ipsi ad ea capi ta reducuntur. Quod autem ad aliquid reducitur, non eftcum eo idem. Reducere enim notat mos tum:at omnis motus statuit priuationem: igitur liidem effent, idem careret feipfo. Voluitigitur Ĉ intelligere declinationem ipfam mutationem terminationis; sed Casus non eftilla mutatio, fed hoc ipfum quod iam mutatum est: Casus enim Vocatiui est, Bone, quod iam est mutatum a Bo nus, non nunc mutatur. Itaque vox hæc, Cafus, elt præteriti temporis,declinatio præsentis, Præa terca Species est declinatio nominis, hoc mo?? doper terminationem: vta Iustitia luftus: hæc enim est definitio Denominatiuoru. Quidquod illa verba, Quæ maxime fit in fine: perturbant. pon declarant. Nam vox hæc,Maxime accipitur Fc pro eo,quod est potiffimum. Atpotisfimum re mittit interdum amplitudinem fignificati: vt quum dico. Potiffimum hyeme pluit: significo. -DV 7de ene  you non semper æquepluere: quare oftedunt ca vet ba, euenire aliquando, vt Calus non fiant in fine vocum, sed alibi quoque. Quod ficoconfugiant, vt dicant,Maxime,idem esse quod,Semper: ad derent potius vocem manifestamSemper. Ve rumneid quidem faciunt do et i: Definitiones e nimita funt natura comparatæ, vt hocaduerbio neegeant. In ipfis enim ligna vniuerfalia, tum nu merorum, tum temporum neceffario,et femper intelliguntur. Idem enim dicas, Homo eft ani mal:Omnis et homoest femperanimal. Cum e nim a fubftantia confiant definitiones, ipfaque abeslenequeat: etde omnibus, etfemper dicen turserit igitur casus terminationis effectusdiuer fus aprimaimpositione:eft.n. idenomealterius, atque alterius cafus, quiaalia atq.alia terminatio Hemutatusest. Isautem affe us eftin prædica mentoQualitatis, in capite de figura. Intelligo figuram mathematicam, non autem iftam fåt Sam dequa mox. Eft enim Figura terminusqua titatis: igiturhæc voxPoeta,quantitate certa, et figura eft:a, enim vocali clauditur. At vox hæc Poetarum,alia quantitate, alia figura terminatur. Som Eft autem affe et usis Nominum primo, etvero: Pronominum autem, quatenus illorum vicarii funt:Participiorum,vtin ipfis Nominum natu fa ineft. Sicut ego fum calidus, quia ignis calidus est, quiin meelt:ita proprium accidens alicuius, poteft effe hoc modo comune:quonia subftantia illa,cuius eft proprium,eft fubftantia imperfecta, et comparata ad vlteriorem fine,quam fuu: cu jusmodi sunt elementa, que nonfunt propter fe GcutEst en Eatin nfugi Tipe: per. Egok adaa 2, tur etts Cor o ipa erdic Caso ficutneque materia prima.Illud in memoria ha- Countro bendum eft:Siquę voces cafu distinguuntur: que tamen non funt mutatæ, vtMufa, in Recto, et Vacatiuo, hoc defectu materiæ, non formæ eue nire: Quæ fuit ratio, vt etiam æquiuoca nominaw sa orta sunt. Dico autem diuersam a primaimpoli tione; inuentores eniin nomen indidiffe Reco patet ex vsuloquentium,qui præfentis temporis primam personam, 6lua appellant,et Reetum ipsum Jog. nominis. Casus eflentia hæc eft:igitur de numero corý, aut deque appellationibus nunc agendu. Caderedi çimus moueri deorsum naturaliter:intelligo na taraliçer, secundum graue. Nam alia, quęingres su aut volatu,aut alioquouis modo deorsum mo uentur, non ferutur naturali motu grauitatis, fed voluntario: quo motu etiain fursum subeunt. At naturalis motus ad vnum tantum fit. Quare pa, luserectus,aut columnacum ruit, caderedicitur: non quia totadeorsum feratur,Ted quia plurima eius pars. Translatum eft deinde, vt quoties aliter quidauțesset, aut eueniret, quam aut prius erat, aut fperabatur verbum hoc vsurparemus:'vt Ca dere caussa, in qua erat: Cadere fpe: Excidere memoria. Corporis enim folius interest natura liter moucre: fed ad res corpore carętes translatu fuit. Huius verbi arigotora Græca esta prætevov rito medio?oūmaiat. quo sono integropræsen tis etiam nunc Valcones pronunciant. Cum igi ţurapud Homerūdicatur verba excidere ab ore, a mente quoque cadant neceffe eft. Quare cum a cadendo Casus sit, paffiua forma, vt Occasus Sol MI10 prad Deck tami ODISI serti Post TioN etTE n 110 na34 Scak alice biter esti uus: ople 184 Ivl. IIII. Sol,quemadmodum fupra diximus,qui iam oc. cidiffet, in x 1 1. tabulis legebatur: Casus appel latione etiam Rcctum ipfum afficere aufi funt, quia a mente caderet imponentis. Sed quum nos ILCR wdeaffectu nominum fcribamus,non erit ea recta, fententia: reliquæ enim quoquepartes Casus di cerentur: igitur non esset nominum affectus ex mutatione finali, sed fine mutatione cuiufuis vo cis: vt Hev: vtappareat, quam negligenter fibii pfis istiaduersentur. Sed ferendico erant, quod In vera dicerent.quanquam non fecundum ea, quæ proponerentur. Atcontra,quiita sentiunt, Ca sus omnes efseRectos,quia a generalicadunt no mine:landineptiunt.nam quid est hoc,quod ge nerale nomen appellant? Nomen ipsum? Atquis dicat, Cæfarem anominccecidiffe, in quo nun quam fuit: quis Sputum? cuius ne vnam quidem habet fyllabam. Materia igitur huius, ab illius non cecidit.Quod fi hoc ab illo contemplantur, quia illius speciessit, sane non cecidit: quis enim dicat fpeciem a genere cadere? in quo eftvt pars comprchesa prædicatione: et in qua illud eft vt pars constituens essentialis, vt omittam tempora verborum futura casus, quoniam a verbo gene rali cecidiffent. Erggalii subtiliffime dixere,Re to ctum effe Cafum,quoniam ipfecft quicadit,cum definit effe Rectus, et fit cafus. Si cnim Rectus est, quideclinatur,qui ficditur, nepe eritCasus. Itaque Aptota vocata nomina, in quibus rectus non caderet. Verum ne hi quidem funt audien wie di:Nam quæro Reetusantequam cadat, Casuf ne fit? fr est casusante quam cadat, ergo finc cauf fa,  CE, nts ode 20 sa, id est, fine mutatione etflexioneerut obliqui cafus. Sin hicasus funt, ille non fuit: mutatum e niin non eftidem. Quidam.vbideiectisunt his rationibus, ad alia commenta confugere:eundem effe poffe et Rectum et Casum quia stylusema-na nu poftquam cecidit,fectus adhuc elt. Hîc falla- john cia eft keci et Eredi: iccirco duplex fuit vox, Cria, et 60). interpretamur primam vocem re Etam,alteram erectam.Reettæ ratio eft a partibus, ne extremorum tenorem egrediantur: nam qui fic definiunt,Breviffima extensio,per proprium, non per esscntiam definivere.Erectæ autem ratio esta litu, etrelatione vniversitatis: cuius fcilicet partes extremæ non egrediuntur lineam mundi perpendicularem. Ita etiamcuruus stilus poterit erectus effe, et ftilus rectus, iacens: opponitur e nim Recto Obliquum, Erecto autem lacens.Ic circo dicimus in definitione Erecti, cuius extre mæ partes non exeunt liticam mundi perpendi cularem. quoniam etiam curua erecta effe pof sunt. Vere autem Erectum sicintelligas: nam Nutaris licet non fit lacens,non tamenvere Ere et us eft: fed eft,vt aiuñt, in fieri: definitiones au tem rerum sunt perfectarum. Hinc Nominati vum vocabimus L. Jeñor Rectum,quia brevissima nominis extensioeft: vt linea recta: iccirco Clu apud Græcos significat statim. opJw autem,quia ftat:nequedum flexa est: erectum dicas,silubet. Ceteras autem partes inflexinominis,a Recoq dem Obliquas,ab Erecto autem casus. Sed reci us fiat,vtobliquorum nomeomittas: nullo enim modopotest competere ratio curvitatis. Casum autcm DHI NIE ch ZA CN -,R Cat ca die 24U Cealus autem appelles illam terminatam mutationem; exemplo Aristotelis,o milosa Alge Pepdv oz'Tx quivua Mam 75wrotua. Enumerantur Casus:explicatur vfies:re cipiuntur Tomina: Asus, vocelargius cu recto quoq; comuni: cata,vidcamus quotsint et qui,etquare no write plures, Ğ a veterib.traditi sunt, neq;pauciores.In mm. omniactioneestid g agit,id quod fit,id quodfa et u recipit, privatio, et finis cuius cauffa fit. Quin quecafus fuerenecessarij: Agens, Rectus: quod fit, Secundus: cui fit, id est finis, Tertius: quodreci pit, Quartus.privatio, Sextus:Agit enimfaber, fa cit formam freni in ferro, facit Cæsari, recipit for mam ferrum, quod carebat ea. Ita constitues o rationem, Faber cudit ferrumi Cæsari ex catena. Interroges igitur, Quid facit ferro?Formam fre au Patuni: ex catena in catena enim nonerat. Ac quan quam videtur formailla effe finis: imposita enim fony conforma,ceffatartifex; tamen non eft finis vltimus: eft.n.finis operæ, id eft, a ettionis; non autem ope ris.fit.n.propter equu Cæsaris. Sic et super Quar i ti natura poterat dubitari: videtur.n.formam no materiam fignificare, cum dicimus,Ædificodo mum.Atrudib.philofophiæ hoc veniat inmen, tem: Domus.n. et materiam dicit et formam:Vo. cabulum igitur hoc facit,non autem Casus. Cui' rei sigrueft,dica, Cædo lapideszhic nihil est, præ ter materia: Cæsura autem forma eft, puta lovis, aut Cæsaris. Ita in domo, fi formam a materia intelle et tione distinguas, siç dicas, Lapides cuius sunt e mi quod erha Erfa reso teni funt? Domus: a forma enim hoc habet, vt define Pontis,aut alterius rei. Mutantur autem locutios nibus Casuum rationes, aliter enim accipias in passivis: sed simplex inventio rerum talis ab ipsis principiisfuit. Quoniam vero fermo institutus est, vt dicebamus, quocumaltero sententiam no stram communicaremus: iccirco Quintus cafus inventus est, cuius officium vocandiellet.Sapien -Nomme tius autem a nobis fit,quam fit fa et um ab antiqs: cum ordinis nomen indimuscafibus. Primui; ndt Secundum, Tertium,non aute officiorum. Nain Duis cum in varios vsus fusi essent, non folum diversa nomina, sed etia supervacanea sunt sortiti. Quid drea enim Vxorium cafum dixerunt Secundum? mo destius alij Patrium,prudentius Poffefforiu. Nam Hectoris Andromache, non eft Vxorius,fed Ma ritalis: sicut apud Valerium, Terentia Cicero nis. Ita cum dicis Cæfar Sylvij pater, Filialis fit, si sit Patrius ibi, Sylvius Cæfaris. Sic enim Cicero: Cato, huius pater, qui Uticæ sese interfecit. Qua ratione etiam Genitivu nominarat. Quid? nonne erit etiam Carpentarius cum dicam, Car peatum opus Epei? Sed grammaticis nullus finis ineptiendi.Dativum non inepte dixere,Acquisi mitivummelius: nam quodcontraria natura inve nitur: vt, Aufero tibilibrum:hicetiam acquisitio nem intelligamus: nam recipitablationem. Ac cusativu peffime Latini,Græcimitius, aile Tixlu vt cauffa fit non accusatio. nam fic oportet dicas PPA Sextum casum, Defensorium: namquemadma dum eft, Contra Vatinium: fic erit, Pro Vati nio. Sed et ridiculum fane:etenim ytelt, Accufo Clo i fire 028 OS DIUS opt do 009 Vo Col 017 tera UARY um 188 IvL. CClodium: sic, Defendo Clodium potior autede fenfio effe debet.Salutatorium etiam Vocatiuum non male: sed hoc generalius: etiam falutas, vo cas: neque enim Vocare primo significatu fuit, arceffere, aut ciere:sed,vocem edere: poftea fuit, nominare. Sic clamare vocem contentam ede re, poftea appellare:vtapud Plautum tranfitive. ienon absolute,Clamahominem, koneix. Ablativi quoque nomen non femper fervit,sed etiam dat: A Cæsare daturregnum Antonio: nisi dicas, au ferri ab eo quod dat;id quod datur, et reette. Se ' S ptimus autem a Sexto non magis distat,qua Ge phimnitivus afeipso,quumaliudquam gignere,et Dativus aliud quam dare fignificat. Isautem ca fus Septimus,vt voluere,vtnosSextus, habuit ra tionem instrumenti:nam hoc quoqueinter caus sas numerätu est. AcPlatonici quidem,interquos etiam Galenus fuit, instrumencariam cauffam ab aliis distinctam posuere: at Peripatetici(vtom nia) fapientius ad genus cauffæ efficientis: eft e nim Malleus efficiens Annuli: neque ipfe fine Aurifice, neque fine ipfo Aurifex: fed ita vt fi Malleo non agat, agat alia re, quæ illius loco fit. “ Adeo vt Aristoteles etiam ipsam motionem inter efficientes víumerarit. Igitur in rećtonon potuit esse, propterea quod simplexelt. In fexto casu fuit, quomodo eft efficiensin paffiva locutione: vtidem fit; A Cæfare, et a Laricca vulous fictum est: vtrunque enim eft agens. Itaque et a Lancea et Lancea: quare quum neque Cafär fine Lancea, nequc Lancea'sine Cæsare vulnus pos fit facere, et tamen Cæsar muito potior fit, quip. pe 189 tam Abi erine idios reche 0,00 honek در و habu peages a feipfo, tenuit priscusvsus, vt præpofitio hæc Cvm, adderetur: ficut, Theseus cum Hercu le. Verum quia non erat focietas æqualis, fed ve rusmotus a ettivus in agente,motuspallivus in instrumento, sustulerunt præpofitionem, qua verus comitatus in aliis indicaretur.Ratio igitur, et vsus sequens rationem priscus ad hunc modum fuit. Nuncvero cum grammatici negantinveniri di tum a doctis cum præpofitione, falluntur. Nam in quarto Fastorum,in antiquisexemplarib.Flo rentinis fic fcriptum fuit: Hecmodoverrebat raro cumpectine terrum. Verum itain codicibus do et iffimi viriGryphije mendatum invenimus: Hacmodo verrebatftantemtibicine villam. Necdisplicuit festivitas priscæ vocis, fulturaque casætenuioris. Sed is loquendi modus fuit pecu liaris illi poetæ: cum alibi,tum in primoTrãsforo mationum, --concuffitters,quaterý Casariem:cumqua terram, mare,fidera movit. Plinius quoq; in lib.ix.demolloquenspisci bus,fic scripsit: Cæteri çirri, cum quibusvenatur. Proprium autem est Sexti,etSecundi mutuo 64 subire sedesquasdam. Quædam.n.verbaæquei-comide oppsos refpiciunt,vtEgeo, et eiusmodi:fed etalio va su loquendi:vt,Imperator miræ fortunæ:et Mira fortuna. Vbi fi multa iungantur cola, idemcalus fere repetitur:Bonæindolis, summæ spei,raræfi dei. Pliniusvariayit vii. Chromandorum ģentem fyivestrem, sine voce, stridoris horren Ai, hitris corporibus.Alius dixiffet, Stridore hor Nis rendo: intar INITI caula ci Otis: + 2 108 ed in is lori nema. ustig cal Sine اrendo:vbi etiam vocem a stridoreoris mald seps ravit. Sed etCicero eodem modo elegantia con divit varietate: Lentulum noftrum; eximiafper fummæ virtutis adolescentem. Vbisemper inve nies adiectivum:nam exemplum ex invectivain Sallustium falso adducut,sic, Quos protulit Sci piones,Metellos et, ante fuerintopinionis:legut enim docti, Tantæ, et re ette. Rectus autem et Quintusapud Atticosidem quifuit:quosetiam poeta imitatus eft: Corniger Hesperidum fluviusregnator aquarum. etin plerisquevocibustam Nominu,quam Pro nominum, atque etiam Participiorum adhucita est. Iccirco in oratione vtrunque fimul iunctum invenimus: vt apud Plinium in vit. Salve omniu primus, parens patriæ appellate. Namca verba, Primus, etAppellate fimul coeunt in coftru et io ne. Illud autem ex Virgilio, Nate, mea vires,meamagna potentia folus, Natepatrisfummi,quitela Typhoea temnis: duob. modis aptari poteft,vteximatur ex eomoi do dicendi:primo,vt folus sitmagna potentia:fe cundo, qui folus temnis tela.Cafuumordo,quaretalisfit. х öm nium mam habuit pofituram, Secundum locum forma occupavit: eftenim ftatim in animoefficientis,vt materiæ eam imponat: quippe, vti dicebamus, operæ finis est. Proximam huic sedem vindicavit is, quivlrimumfinem significavit. Rcliqui erant duo: w.. Emilum primum,Reetum habuit:et quia primali duo: alter materialis, quem Accufativu dicebant: anti alter,qui signaret privatione: iccirco merito huic m illum præpofuere.Vocativus autem poftremolo co fuerat collocandus: veruın Sextus quum totus Latinus fit,atquc ab ipfis, cæteris additus, omniu oculis vltimus fuit. Neque enim verum est,quod aiunt, bas: fueJer, Je, Sextum fuiffe Græcis: non. n. flection for love tur: sed est, ficut apud nos,coelitus. Itaqueetiam 1.0il alios ficinvenias,segvavde, d'egvos.quare etiã pla res cafus fint.cęterum adverbia locifunt,vt fuega 16. Quid quod illa addita terminatio non femper Lad distinxit,nam etiam præpofitio addita eft, regvo adh fo me.ficut et $ quæ particula omnibus additur Ljuni casibus, nequeipfosvariat: et omnibus numeris: sec id quod ab Vrbảno diligentissime ex Homericis obleryationibus collectum est. Deiis,qua vnico cafu constant, “ pluribus. an Aptota inveniantur. Vemadmodum igitur interdum videmus volimo nomen quodpiam, verbumve voceconyes puna nire:vt, face: neque tamen eadem est natura: ita quanquam quidam casus eiusdem vocis, limitib. iisdem contineantur,nihil tamen impediet,quin mi suiquæq; vox Casus naturam vsumq;fervet.Sunt qua enim quædam nomina per omnesCasus variata, quæ iccirco Senaria dicta funt, vt Solus. Quædam jes per quinquevt Pater:quæ,Quinaria, Quaterna cebut ria: vt, Puer.Ternaria:vt Turris.Simplicia,quæ v india num tenoremsemper obtinent:vt,Frugi.Binaria mut que autem: live Bipartita quidam fecere, adduntque Nije Siffres Sell mm exeo ! DICOD Q umtu பொய் - exemplum a Genu: propterea quod in Secundo, et 'Tertio, et Sexto producat, in Recto, Quarto, Quinto corripiat vitiam fyllabam. Apud poe tastamen eam semperproductam invenias: Nudagenu, nodog,finus collecta fluentes: eft Gcnu, Quarti cafus, ficur et Sinus fluetes. Ne que necesse cítinveniri defectus hosin omnibus numeris: vt quoniam fint,Singularia, et Terna ria, et deinceps, etia Binaria statuatur. casu namq; non consulto hec evenere: quin etiam siconsulto factum esset,adid non cogerentur, siçutin patu ra animalium, sunt Bipedes, funt Quadrupedess Sexpedes,Octopedes, I ripedes autem non sunt. neque in arte.nam culinarij Tripodes sunt: qna drupedes vt effent,non placuit. hoon Antiquiigitur fic minutatim collegêre. Sena ríaModum habent vnicum, vt Solus. Quinaria duos, Rectum eundem cum vocativo: vt, Mater. is primus modus est: Alter, cum idem eft Tertius cum Sexto: vt, Marcus. Quaternaria fex primus, Genitivum cum Dativo, etVocativum cum Abla tivo: vt, Aeneas, Secundus, Nominativum cum Vocativo, Dativum cum Ablativo: vť,Aper. Ter fius,Genitivum cum Vocativo, et Dativum cum Ablativo: vt, Iulius: Genitivum enim vnico I, fcribebant. Quartus, Nominativum cum Vo. cativo, etGenitivứcum Dativo: vt, Dies. Quin tus, Nominativum cum Genitivo, et Vocativo. Sextus,Nominativum cum Accufativo, et Voca tivo:vt,neutra, Sidus, Scamnum. Ternariaquoq; sex fiut modis: Primus, Nominativum cum Ge nitivo, et Vocativo: Datiyum cum Ablativo, vt Turriso bi Hi 16 UK Turris, Secundus,in iis, quæ sunt sicut Portus. V biantiqui Datiuum eodem sono quo ablatiuum proferebant. Tertius in iis, quæ funt ficut Poe ta: nihil enim habent præterea, nisi Poetam, et Poeræ. Quartus in iis quæ funtficut THISBE; in quibus idem est nominatiuus,Genitiuus, Da tiuus, Vocatiuus. Ablatiuus. Quintus,in Græcis fæmininisin o, antiquorum more. Sappho, Sap phonis, Sapphoni.Sextus, vtinneutris Secundæ, scamnym, Veterum di etta examinat diligentius. As minuțias omittere aliquando in animo fuit:fed ne quid desideretur,apposuimus:si mul vt veterum errores caftigaiemus. Primum, i fingularcs tantu casus sunt profecuti: at cnimue ro plurales aliter fonant: iccirco tota hæc via non folum inutilis, fed etia falla. Præterea capita quo 2. que ipfa non omnia verasunts, inter quæ illa e mendes: nam Ternarioru fecudus modus ideeft. cum primc:nam in Portu, et Turri, iidem sunt ca. fuum modi,fi literas fpectes, Nominatiuus, Ge nitiuus, Vocatiuus, vnus: Datiuus, vt prisci,Por tu, et Ablatiuus ynus. etTertius, accusatiuus. Ar enimuero differt Genitiuus, Portus, a nomina suo fyllabæ finalis produ et ione. Itaque ad maio rem numerųm referenda hæc erunt: ipfi enim Binaria agnoscebant, ex eiusdem vocalis diucrfam quantitate. Quare Tertius quoque modus ' Ter nariorum reiicietur in Quaterparia: nam Dea,a liter fonat, in Nominatiuo, aliter in Ablatiuo, Quartus vero etiam ridiculus est. Quis enim di catin Thisbe: eundem effe velGenitiuum, vel Datiuum cum Recto? quem ab eo diphthongus longediuidit:vtståspicari libeat, iam Diomedis tempore defitas effe diphthongorum pronun ciationes. Quintus quoquemodusexplodendus eft: Nam si veteres fequimur, vt Sapphonis, et Sapphoni dicamus: etiam Sapphoncm, etiam Sapphone, addernus, integrum.n.declinabant. sin cultioribus feculis obfequamur,in aliam mox formam erunt redigenda. Hæcigitur omnes fibi habent cafus,corum e nim vsusomnibus præsto eft: atcasuum formam desiderant: verum inueniuntur nomina multis defecta cafibus: quædam etiam omnibus, præter vnum: vt, Sponte is enim Sextus cafus quum fit, fui vfum cum aliorum nullo communicat:quare hæc Græci recte Moveiew. dixere.alia vero qui bus duo tantum relieti effent,Diptota:vt, luppi ter, rectum tantuin et vocatiuum habet, reicctis antiquorum, Iuppitris, luppitrem.alia,Triptota: vt, louis, louem.reiecoRecto antiquorum, co verfu, Quem fouisipse tremit. In quo Apuleiussecu tus est vetus carmen, quod recitatur a Martiano, Mercurius louis,Neptunus, Vulcanus, Apollo, Et Tetraptota, et Pentaptota, a numero quoque dicas fi inuenias: vt pronomen Ego, caret enim Vocatiuo. Hexaptota autem etiam Ilavta wide nominauimus, quoniam omnes cafus comple eterentur. Siigitur, vt oftedimus, aliud est, esse Bipartita, Tripartita, Quadripartita: et aliud Diptota, Tri ptota, Tetraptota: fatis constat veteres non re e inuexisse, Aptotorum appellationem. Namim Qilol? Frugi, et nihili,non carent calibus,vtdixere:fed Nihili,Monoptotum est, casus scilicet Geniti ui:vt sit homonihili,sicuthomonullius precii: et Frugi omnium casuum est.omnibus.n. cafib.iun gitur,licetvoce non varietur. Si.n.id tolleret ca luum naturam, non posses dicere,Turrismagnx: quoniam Turrisin nominatiuo ius sibi certum occupaffet, quo excluderet Genitiuum. Verum vt dicebamus, materia tantum, id est voce fola conueniunt, forma autem distant: vt homo pi etus, et homoverus. Illa vero etiam idsus est inuicta: Si nominis definitio eft, p casus variari: ergo cafus eft,aut essetia nominis, aut ab effentia Auens: Omniigitur nominicompetet. His aute capitibus vfi fumus appellationibus vulgaribus, Genitiui,Datiuiet aliorum, nefi Primum et Se cundum, etTertium, vt polliciti fueramus,dixil, femus, confusa esset oratio,in qua identidem ca dem nomina inculcanda erant, Primus modus, Secundus modus. Singularum casuum ratio, qua pertinetad terininationes, 21 CH. 100 acquiescit animus:reddenda enim cauffa eft ipfiusterminationis: fiquidem casus Termina, tio est. ac pleraque sanead Græcos referre, no-rang bis satis sit, a quibus pene vniuersa linguaflu. xit. Tres igitur ordines declinationum potiffi. N iij. mum 19 ) 196 IvL. IIII,, mumsicuti sumus. Nam ex primaet secunda v 2 nam conflatam videmus: ex eorum tertia,fecun dam noftram: ex quinta illorum,tertiam, quarta tim. etquintam. Igitur tertium casum vt illi per diph thongum spuriam fcribebant: fic nos per legiti quasimam zonty,usor, poetæ, mufæ. Quartum casum Aeolice pronuciauiinus, montar, On6 « v:Poetam, Sterom Thebam. Seundum autem quare non secuti su mus,fane miror. Nam in v, monlou,vt Genu, efle potuit.Musas,autem in fecundo, ficut Aeoles, nõ diximus, quia concurriffet cum plurali Quarto: atque illi distinxere fic, vt is vltimam produce ret, Quartus autem corriperet. exemplasunt pe tenda ex Pindaro, et Theocrito. Et fane veteres Latinos sic quoque locutos constat: quod etiam » patet ex Vergilio in yndecimo, -Nihilipsa, nec auras, nec fonitus memor. Sic enim legendum: non vtimperiti mutarunt, Auræ. Cum igitur ex duabus vnam fecissent, quam ob caussampo tius vocalem secundæ, quam primæ retinuere? propterea quod rectius et facilius ex a, huius Redi Poeta, facies Poetæ quam Poetų. Plu plur. rales autem casus duo integri sunt, Reetus et nh. Quartus, montaj, monta's. Tertiusautem abie cite diphthongo priorem vocalem muintus,poe tis. Quumtamen Acoles valde amarent diph και thongtum illam “Φαιστ” pro “φαστ”, et Αισκληπιός, pro sal. Apoxanes, vt diximus. Secundus autem casus, ut evitaret consonantiam cum quarto fsngulari, distortus fuit, folytoiv. poetam: non tūv,poetarum. propterea quod accentu non potuereapud nos distingui: neq; enim vltimas accentu afficimus. ItaqueD rta ul. um ITI fu elle no to ce re Top 20 76 Itaque secuti funt alterum modum eorundem casuum, Tourtowy: sed effugere hiatum illum dum » volunt, R,interposuere:maxime enim accedunt» vestigia huius elementi ad hiatum: nam etiam qui ipfum non possunt plenepronunciare, idemio nant quod obscurus hiatus. Secundæ autem de senere clinationis casus peneomnes Græci sunt: solusse cundus effugit illam obscuritatem ipsius v, vt Ho meri potius,quam ocarp8 diceremus: fed ita pu-» to efferri solitum, ficuțin Optimus, vt aliquid er set, quasi etiam in Optumo. Nam in veteri exem plari Terentiano,quodvidimus in manibus præ-. ceptoris nostri Calii Rhodigini, fic fcriptu fuit, Apollodoru. Quartum autem pluralem contra " go han euenit, vt pronunciarent: Cum enim ex oʻurpos feciffent Homerus, contra ex Ourpes, fecere Ho meros: sicenim proferebant,vt diximus, Acoles » Ouvipusi. Secundi autem cafusratio eadem quæ vete. in prima, et altera longe maior.nam cum diceret, o umpov,nos Homerum, et olemow in secudo, no bis non licuit feruare.eadem non fuiffet vox, ita que caudam illam addidere, Homerorum,fane infuauem, quam etiam caudata litera explerent, R, scilicet.acper ipitia quidem, vt Græciloque bantur,fic Nos locutosputo:vt censeã,et Meûm,» et Deum, et Liberûm,dixisse:pro Meorum,Deo rum,Liberorum:adeo,vt contra omncs sentiam, non per Syncopen sic enunciari, sed integras fuis, se voces. Tertia maxime, vt diximus, a Quinta Taka pendet,fed exilem literam maluimus nos: marcos, patris:sicut etiam in Quarto patrem, ex mate,et: addito illo mugitu ex priscis,vt opinor,opicis: fic N V CH 0 re 10 IL så 00 ob JIO VI 11 7) JO enim LIC 198 IvL. IIII. pher, enim Græca fuauitas fuit contaminata. Pluralis cautem fecundus non coactus fuit exirein cauda illam,nequeenimcum quarto fingulari conue he's thonjniebat.Sed ea infelicitas contigit Tertio plurali, vt Patribus, barbaro fane exitu dicerent. nam • Patris,non potuere: crat enim iam occupatus so spus a secundofingulari. Quarta autem decli natio sub hac fuit per initia ipfius linguæ. Sice nim dicebant, Anus, anuis,anui: poftea etiam breuioribus vocibus, Anus, anus, anu: fed mista fuit cum Secunda,Anum enim dicunt. Sic etiam in plurali cum Tertia conuenit, Anuum,anubus. qawlaAtquinta longe diuersa fuit: nam terminatio quoqueipsius Kecti, fua ipfius priscæ Italiæ fuite Dies,Fames,Spes. Secundo cafu pluralisecundæ declinationis terminationem est secuta. Tertio autem cafu Tertiæ,: Diebus, vt Patribus: fica ut etiam Secundo fingulari,Secundam: Domi ni, Diei: quam tamen bis mutarunt: nam et Dies, et Die, in codem cafu dixiffe, ' autor est do et iffimus vir Gellius: vt vel hinc pateat, ar " bitrio loquentium et nasci namina, et inter rire. De specie. yu Pecere vetus verbum fuit. In compofitis auc culari:vox saneipfamilitaris.Cum politis insidiis aut e specubus contemplarentur agrestes olim Latini prælia inituri:aut fupra Specus ipsas, edi. to faxo stantes obferuarent, quid rerum agerent pro.  sh ec TILS tiae 1ats fur procul hoftes. Specusautem Græcum.est.cmee.com IndeSpecies,prore visa, sicut facies,prorefacta Ipla igitur imago rei quæ in fpccendi instrumen tum reciperetur, Species diđa. Ergo fi reserit primi status, eius imago species primaria dieta perana est: vt, nomen Ilus, Regem Troianum repræ fentabat, quiprimus ita diet us eft:iccirco Primi, tiuam fpeciem appellarunt. Quæ vero flueret a priore, Deriuatiuam, quoniam nomen alterum Itv. a priore per eius vim deriuaretur: vt ab llus, Iu lus. Quod fi figura est decomposita, quæ a com pofita deducitur: erit fane vltra speciem Deri uatiuam alia fpecies, cui nomen non posuere, propterea quod ad eam animum non aduerte tant a lulus, Iulius: et item alia, Iulianus: et a lia porro, lulianius: Verum de figura illa,mox. Hîc autem consultius dicamus, multos esse mo-onlama's dos, ordinesque in deriuatis, vt quædam primo fint: quædam deinceps. Duobus autem modis Primum dicitur: aut quod ante alia omnia sui ordiniseft: aut ante quod nihil, licet poftipfum, nihil. ita etiam primaria, feu primitiua:aliqua enim sunta quibus nihil dedu ettum sit. Quod fi hæc duo inter fe comparentur,præstantiore ra tione dicatur Primum, ante quod nihil est, quam quod alia præcedit: prior enim ratio eft absoluta, et longe validior. Deus enim ante quam quicquam crearet, erat Primum, priore ratione. Nomen tamen tam Græcum, quam Latinum pofteriorem rationem indicat: et faci lius Græcum wpūTOV (est enim opo, tov ) etiam » in duobus poteft efle.vnde et m potepov,76e ÊTepov, fue DIE art, d Lor cher pri 200 Iul. IIII, 1 siçenim orta sunt comparatiua, ab enepov.Latinu autem morosius,superlatiuum enim est:nam Pri, vetus vox fuit, ficut N I, poftea latiore vocali fu · fæ sunt, Ne, Præ: vnde aduerbium, pridem: comparatiuum, Prius:superlatiuum, Primum; nam ab aduerbio Pridem; Primum qui ducunt, çrrant. De Figura. coxupaab Sole cea dixere,linas ducere.Pi et ura primum et vmbra orta est, vnde μονογραμμα Tos: poftea addiderelucem et vmbram: a potiori Latinis visum est denominare.vt a peygos, dice rent Fingere, et detracta aspiratione, Pingere, Eftigitur Fingere, exprimerç imitatione veram rem:iccirco dietta Figura in signis, ettabulis:atq; hinc porro in grammaticis, Figuræ physicissunt, quæ extrema quantitatis ciusdem subiiciunt ali ter, atque aliter oculis, quatenusextrema sunt. " Reinaturalis diuinadefinitio.Principio in plura li definiuimus vt facilius intelligeretur. Et dixi mus, Quatenus extremasunt:quia colores aliter atque aliter etiam obiiciunt quantitatcm oculis. Et quanquam etiam tactu comprehenditur figu ra: tamen primarium obic et um oculorum eft. In Amilo re literariamodusidem; Nam ficuti coniunctio ne certarum partium corporacoalescunt, ita no tarum notiopumveconiun ettione voces compo nuntur, ita, vt alterius modi fiat alia vox, ex Ma gno, et Animo,Magnanimus. quareMagnum, Simplicis figuræ dixerunt, item Animum:at vti ū que quest. LI a C queiunctum, Compositæ. Dubitatur: fi nomen, elt notarei, an nomen compositum fit nota rei compofitæ.Duplex est compositio: vna vera, al- 2 tera nonvera:et prior huiuspofterioris regula est. Connectuntur enim interdum res duæ, vt Ani mus; et Magnitudo: ergo nomen compositum, coniuncta illa tanquam vnum significabit. Alter modus eftin iis,quæ sunt, ficut Indoctus: signifi cat enim compositionem, pofitioniset privatio nis, quæ in re non funt:intelle et us autem eas non potest apprehendere, nisi aliquo cöponat modo. Non re et te addi Decompofitam. HÆC Æc sic veteres: quæ a nobissunt perspicaci us contemplanda. Igituretsicrescit quanti- m.la tas,non tamen neceffe eft,vt mPombaurfigura. ve luti cum additur quadrato Norma, quam Græci,, Jiwuova vocant:augetur quatitas: figura no muta tur. Interdum vero mutatur,vt fi eidem quadra to apponatur Triangulum. Eodem modo ali quando crescit vox eadem, ncquemutaturfigu ra: vt magnanimus, eadem facie est,qua “magnus animus”, licet maiore.Siautem addatur Animitas, fit diversitas a diverso: neque enim semper compositio figura mutatur. Quod etiam in re bus liquidis, et in prima Elementorum mistione conftat. Quare hocquodappellarunt veteres Fi guram, mihi potius vocandavideturSpecies,id eft facies quædam:quanquam enim vsu, Animi tas, non dicatur:at Analogia hoc non respuit,sic at Pietas, Felicitas, et alia. Quare duæ tantum TO le. 1 brunt quantitates:Simplex, et Coposita.Decom ter positavero,quæ aGræcisdiet a eftagerw'JETO, s non video, quare tertium faciat membrum. Ne que cnim Magnanimirasa Magnanimo deduci tur:ficut neque ab Impio Impietas, fed ex in, et Pietas, factum est. Quædam enim simplicia non inveniuntur,queinveniuntur compofita.Exem (ploest Epitogium:nonenim Togium dicitur. I gitur non erit compositum, cum partium altera nusquam extet separata. Item alia multa eiufdem modi sunt:Mustela. Confpicor: quaru partesde fiderantur.Sed facita effe,vt voluere: fpecies erit quædam potius derivata a Magnanimo,non aute Figura diversa, si spectes compositionem: nihil enim priori voci additum aut demptu eft. Qua re decompositum esset aliter: cum priori compo fitioni, aliqua vox apponeretur porro: vt, Incūra. viceruix. Redit adfuperiora, ob Figura vsum. Va rationecomponereturdictiones, inter earum affectus commemoratum est: is ve: ro attcet us totus nomini competit, quanquam non soli.Evenit duobusintegris: vt, lufiuradum. Duobuscorruptis:vt, Benevolus. Integro, etcor rupto: vt,Extorris.Corrupto, et integro:vt,effe rus. Componuntur autem nomina et inter se; vt diximus, et cum aliis. cum Verbis, Luciferi cum Participiis, Omnipotens: cum Pronomini bus, Eiufmodi: cum Adverbiis, Benevolus: cum Præpositionibus, Imprudens: cum Coniunctio mod Q nibus, 203 Out 16 4 010 ent Lidl den ca Ar ! UB ibi hibus, Vterque: cumInterie et ionibus, VæIovis. Partium autem numerusin compofitis,a duobus ad plures, Semiuir, Imperterritus, Cuiuscunquc modi: etilla faceta vox, nulli Græcarum cedens, Incuruiceruicum pecus: vnica enim diet io est, non duæ, vt putarunt, et illa vetus, Solitaurilia:no vt funt interpretati male veritatem, Sue, Oue, Tauro:neque enim in voce hac, Soli, est Ouis: sed, sic fuit per initia,Sue Soloce, Tauro: fic enim per. cudem lana tectam prisciappellarunt, quam ad facrificium egregiam habebant, ideftegrege fe gregatam: integram, non tonsam: vnde et no men, quoniam cum tota lana esset. Solon enim Osci dicebant totum, vt Græci onov. Igiturnon ” in fimplices solum, sed in compofitas quoquepar tes resolventur: sicuti diet iones non in literasta tum, fed etin fyllabas: etnaturalia corpora non in materiam modo et formam, fed etiam in Eles menta. Quoniam autem tam Rectiquảm Obli qui inter fe promiscuo componuntur,Reet us fle Hyis Etetur, Obliquinon flectentur. Quare falso ex cepere, Alteruter, quoniam in secundocafu faci at, Alterutrius.Nam tametfiin Quinquagintali, bris,itemque apud alios legitur, vtin libris Origi numdi tum eft:at M.Tullium, et in Protagora et in Epistolis, ipsumque Catonem in oratione de Ambitu, alteriusutrius fcripfiffe conftat. Itaque » cum dicimus, Alterutrius: vox illa Alter, hocloco no eft Reetus, sed Genitiv casus, et prisco modo amputata vocali cum sibilo, Sarti'tcatis,teetti'frau, ais.Ergo nö debuit excipiab calege,qua dicebat. Rectum semper flecti. Illud quoque errarunt: fic eilim aiunt,Obliquũ hoc Alterutrius,livefæmi ninº fit;sivea neutro Recto, neceffario exclusifle syllabas poftremas prioris vocisAlterius, quonia iain idem fecerant in Kecto.fic alterutra, et Al terutrum,non Alterautra, et Alterumutrum. At cnimvero hoc ridiculum eft:Nam pin Rectis fa actasit collisio,paffa est vocalis,et confonansm, id quod patitur altera vocalisubeunte: At diffimilis ratio in Obliquis, quod etiam fua ipsorum ratio ne debilitarunt.Nam in rectis ob hiatum evitan dum,elisam aiunt vocalem, ergo in obliquis cum nullus fit hiatus, nulla esse debuit elifio. Neq;.n. quia elides fic, Patrem eius, vt dicas in carmine, Patr'eius: iccirco pro Patris eius,codem modo au deas, Patr' eius. Quid quodhæ vocesduplici vsu a receptæ funt:nam Alter fuit, et fuit alterus:amos SiteGu.Itaquein fæmnininis etiam duravit,Astera, alteræ vt diceretur aliquando apud priscos: quare foni commoditati fervientes, molliffimam quan queflexionem sunt secuti, vt Alteruter,potius di cerent,quam Alterusuter: et Alterutrius,ab eog effet Alteriutrius. Elisionis autem exemplum ha beas ex Amphitruone Plauti, Culeftquidonum dedit: pro,qualis est. An alia fint nominum accidentia,fi-. ve affectiones. Æc funtab antiquis Accidentia numerata. 4 alle lame cosynum omififfe: Nam cum deciinatio fitaffe ako et us genericus quatuorpartium:imo vcro differentia essentialis,habuit etiam aliam fignificatio nem.priore namquemodo communisefttano mini,quam Verbo: eft enim mutatio quæda ter minationu. At in verbo,et in nomine aliud qd dam estvtriquesuum et peculiare. Quorum alte rum,quod cilet Verbi, vocarunt Cõiugationem: quod effet Nominis,Declinationem. Eftautem declinatio non illalolainflexiocomunis, fedcer ta etpropria:vt aliter dicatur Poeta,aliter Dies de clinari.Ergo affectus nominum quidam eft, ficut et fpecies.Quare cum Verbo attribuerintconiu gationem, et recte: Nominideclinationem cum non assignarunt, inconsulto fecere: cum frustra timerent, ne quod effet genericum, Nomini ad fcriberent. Wominium species venatur ex elementis philosophia. STatim poft definitionem Nominis,eius affe-.'n'o etus posuimusmerito,antequam species enu meraremus: sicut animalisaffectus sunt, moveri voluntarie etsentire, priores ipsis fpeciebus,Ho mine, Ostrea,Leone: in quib. poftea per differen tias disponuntur.Atveteres more fuo in hoc quo que nobis negotium exhibuere, cum Species rio minum prius, quâipforum affectiones tractant. Nosigitur his castigatis, eas deinceps, carumque origines atque cauflas contemplemur. Reru nu- latha merum pene immenfum totidem vocibuscum non. affequi nequiverit humana mens", neceffario comparavit, vt non folum quæ eiufdem fub ftantiæ participes eflentres, codem quoque no Oj mine significarentur, vt Equus etHomoanima. lis nomine, cuius natura cõltarentcommuni: fed etiam quæreipsa diversa effent,veluti,Canis co Aparmi lestesidus, et Canisanimal. Quarum sane rerum Msubstantiæ apud Averroem, vtaiuntphilofophi, etiam plus quam generedifferunt.Nos autequid sentiamus,aliis libris di etum est, inevu uc Græci vocant: noftris recentioribus aptissimo vocabu lo Æquivoca libuit appellare: qualivocis bære ditate æqualirem inæqualem repræsentarent. Si nomina quis Vnonima velit dicere, nihil vetat: sed Græ fort ca appellatio magis sapit, juãsenim simul significat, non autem. Nam profecto vtin re non sunt eadem,ita nominissignificato alio, atq; alio funt. Itaque fic vere poflis dicere,Canisnon eft Canis: id est, res Cæleftis, non cftres Terrestris: at nomen et materiam habet,ipfas literas, C, A, N, 1,5: etformam,id eftsignificatum,ergoCanis cæ lestis materiam eandem habet Elementorum,a Canis terrestris, formam autem, id est significa tum,non habet:ergo non eft idem nomen: a for maenim est,quod eft:iccircoGræcicuws: at La tininon ita recte, cum æquitatem illam interse. ruere. Itaque commodius fortasse nos Vnonima, vt vna, fit adverbium, simul.Hæcautem non vno Bruggh.modo orta funt:fed quædam temere,atq;vtfors tulit: qualia funt Alexander, et Achilles, tam in Regibus, quam in Nautis nequam. Alia autem consulto: vt cum cuiuspiam similitudo ad impo. nendum idem nomen alteri fimili traxit: ea fimi litudo fuit aut Substantiæ: veluti cum dicimus, Xiphian piscem, et herba ab inftrumento bellico. AutZA 1. Mannana Dimmane. JI 10 Aut Quantitatis:vt eft inproverbio,Motes et ma tia polliceri: et apud Callimachum os a'd code tor Geld in hymno Apollinis: et Mare Solomo nis.Aut Qualitatis:vtcuinmetallo et præviæ diei parti, fulgoris nomen inditum eft Gręca voce xi çov: prisca enim est, quod teftatur aweso, fcilicet sequens mane: quod et Germani imitati sunt, et Hispani, et Itali. Item ab aliis prædicamcntis: vt Mörgen. cum arboresmasculas aut foeminas, et Thura ma scula, etvites masculas, et nigra toxica,ab actione, et relatione: et Regem, divitem quempiã, aga To Ezdv: Delphos, orbis vmbilicum. Hæc omnia nomina fibi aliqua imitatione fünt consecuta. Acreliquis quidem generibus evenire fatentur. Subftantiam autem hoc vt admitteret, dubita - font: runt. Cum enim non intendatur, non remitta - quare tur,non videbatur dari gradusad similitudinem in ipfa. Verum facile id intelligimus,eandefub ftantiam non intendi: fed genus communemul tis, arctariin species multas.quare non poteftfie ri, vtæquales fintillæ,æqualitasenim in substan tia,eft identitas. Quod et in octavo Historiarum dixit divinitus Aristoteles, Species sub eodem ge nere coniun et ione quidem generis illius vnum effe: differentiarum autem fucceflione, harere. Effeenim tum in materia, tum in forma, turn in compositis certas aut affe ettiones, aut differenti as inter fe vicinas, et inæquales. In materia, vtof sain Homine, in Leone, differreper medullam: in Delphinopaululum abeffe: in cæteris piscibus prb offespină:in Sepia esse,aliud:in infettis aliud quod nomine careat. Sic et in formis, Rationem, o ij. Ni 70 11 5, 7 in 208 Iul. IV. in anima Hominis: Instinctum naturalem in For micæ anima. Sicin compolitis:Artemin Homi ne: in Ape quomodo dicas vim illam favificandi: in Pfittaco mirificum nidum texendi? itaq; fpe cies suntæquales in genere: inter feautem com paratæ, inæquales:ab ipsarum differentiarum in æqualitate. Adeo enim sunt inæquales, vt altera 2 vnum genusinterdum conftituat subalternu, al terain multa distribuaturgenera.exempligratia: Korpus dividitur per differentias, Mortale, et Immortale:hoc ccelum tantum conftituit: Mor-, tali autem cætera omnia comprehenduntur. Sic intelligas Voivocum,quodidem genusdifpertit,: reque omnibus:vt Animal. Analogum,quod non zque,fed ordinequodam:ytsapere.Æquivocum, Juodnomen folum communicat: yt,prataride Mareiralci.Haec postrema diximus,quomodo appellarentur. Analogaautem a Latinis Propor tionalia: ficut civium iusnonidem omnibus, fed suutn cuique attributum, Senatori, Equiti, Plebi. Quod C.Cæfar dicit,pro rata:nos,Pro portione: Vecuiufqueres fert:id eft, rata pars,live portio. Ditiores enim plus obibantmuneris. vnde apud Athenienses, owridons. Vnivoca autem a Græcis 2x qwvus,prudentiffime: cum nomine enim rem communicabant: non enim Toow, coniungit ea fub nomine: fed nomen etnominis rationem. La tine Cognominarectiffime dicas. Cum autem res non omnes codem modo Ant:sed aliæ per fe, vt Substantiæ: aliæ in aliis, vtAccidentia: atque Accw9. hæcdupliciter,vt hocfunt,quod funt: et quomo udo funt, quod funt:Dam Albedo etiam fine nive pex ilaw alie aliquid est: intelligimus esse, q est: et Albedincm appellauimus, percepimufqueeffe vniuocã, quia eadein genere esserin niue,et in la ette. Aliquan do intelligimus ipfam esse, quomodo eft:licet e nim aliud fita niue: tamen non poteft effe sine aut niue, autalio corpore. Is igitur cft modus, per quem est, id quod eft:quoniam inhærentia, est essentia accidentis. hoc quoque opus habuit frane. nominealiquo:iccirco ab albedine, Album de ductum cftnam: id quod est, pofterius est,quam id quo est.igitur etiam nomen hocabillo ductu. νηde ortafunt “το έπαθώνυμα, quαολαέπρoν” deri uarentur, fula terminatione a priore differentia: Latini denominatiua commode vocitarunt. Co traria autem aequivocis quædam sunt: nam vtil- forong the Ja vnam voccm multa habent: ita multas voces in his,vnum:Ensis, Spatha, Gladius. Græci hæc πολυώνυμα:quidam Enoftris συνώνυμα Falfo. for- ), tasscautem explicatius eífent locuti Græci,si uo vwvelda appellaffent, quæ solo nominc cxtarent indicantia res diuerfas. Igitur colligamus sic: Comunes res,quæ aut sua natura per se funt, vt Homo: aut licet fintin aliis, fi intelligatur fine eo inquo funt.vt Albedo, Vniuocis nominib.sunt indicatæ. Sin quomodo in aliis infunt,accipiantur, Denominatiuis: vt al bu. zenuw'www.ce autcm cadē suntquę Vniuoca.Res aurefingulares quaru natura ab aliis dissita est,k lownonen porn codēdomine,quo illæ appellentur:nomen iilude erit Aequiuocu:vt Cæfar:neque enim quicquam mei in altero qui dicatur Cæfarcrit: neque sola fubftantiæ, sed etiam accidentia, quæ in ipsisin di i faham Paper hrin more Adiuiduis sunt vt hic rubor, hæc cicatrix, Aequiuo marie ca est propria Cçsaris vnius: ficut et substantia ia qua cít.Quare tamnomen hoc Casar, quam hoc Cæfaris cicatrix, plurali çarebit: fed cius pluralis numerus crit vagus:velut quum dicis, Homines: at,Hic homo:caret numero plurali: o'rqua enim facta sunt, apud Græcos:apud nos, Indiuidua, shape?Itaq.in Declinationibus, qpræponitur prono incn nominibus, Hic homo, Hæc cicatrix, non elt nota indicans etpræscribens indiuiduum, sed fexum tantum. Nam quo modohæc cicatrix indi cata, poteft fieri cicatrices? Quinimene in eode quidemCæfare si plures sint,pefisiccirco ficcte read numerum pluralem. Etiam fac vt cætera pa ria sint, Tepus, Qualitas,Magnitudo:at loco dif ferent. Comunia autcm,Gue Vniuerfalia loco na præfcribuntur. Hęc omnia tam Vaiņoca, quam Aequiuoca veteres Subftãtiua,fane ambigue, vɔ cauere.Substantiæ,n,appellatione abufi lunt, pro Effentia:ficuti Græcinomincxalasin prædica mento.Nanq.s'oia etiam conuenitreb.estrapię dicamenta,vtDeo. At Substatia neq; extra præ dicamenta, nequein omnibus: sed in iis tantur, quæ fubftant accidentibus.quarc nomen hoc Al bedo, non erit Substantiuum, quia substantiam nõ fignificat.iccirco alii Fixum diceremaluerüt, propterea quod rem indicaret,quęnon mucare taralio atq; alio fubie etto. Sed anceps ea quoque vox fuit:nam Fixum viderctur effeindeclinabile, opponitur,n.Mobili.Itaquenoslongeconsultius Effentialenome appellauimus:quippequodtam fubftantiæ, quam accidệtishocipfum quodsung? Gigne ZII S Onnk: 2. T significaret, Denominatiua autem eadem quæ Adie et iua: quęctiam Accidentalia dicere posses, nisi nomina differentiarum impedirent: nam a “Ratione”, Rationale duces: hoc est Denominati uum,sed non eft Accidentale.Anvero fit Effen - Gubis tiale? Iccirco intelligendum eft,:0106,fiue essentia triplicem esse: Materiam, et Formam, et Coposi tum.Forma igitur dicitur Effentia quia dateffen tiam:Materia, quia dantem gerit: fed, pprie dich esttotum ipsum: a qua g Substantiuum vocabat,« nominauimus Effentiale. Denominatiua intel lexere variari, ac poterça Mobilia vocitarunt:vt conueniat idem nomen viro et mulieri, fi litva riatum: Albus, Alba. Hacdecauffa in oratione antes semper Denominatiuum pofterius effe debuitEs fentiali: vir fortis, equus celer: verum vsus obti nuit elegantięcauffa, vt aliter quam vulgus loqui tur,loqueremur. Neque vero penitus temerefa etum eft:namq;vt equus potefteffe celer,ita celes ritas effe poteft et in equo,et in non cquo: quare olubibit,moderabitur.Quod fi eft Denominati uum pprium,vt Sentiens, est,pprium animalis: nihil refert vtrum præponatur: paria.n. sunt: fed natura ipfaEffentiale priuscft.ridiculecnim pro conheça feffi sunt, Fixum sequi Mobilis natura,1,præce dat Mobile.idcm enim est,Animusperuerfus: et Peruersus animus. Scd ita intelligebant differre, fidicamus,Corrupta mente etcorpore,et,Mente etcorpore corrupto. Verum hoc non eft Fixum sequi Mobilisnaturam:ncq;.n. mutatur: sed ex duobus fixis diuerfis genere, et numero, alterum apponiipli adie ettiuo, quod ei fimile tit. Verum fidis 1.  ridicule negatur possediciæque Corruptamen tes: et, Mēte corrupta.Neque verum est Substan tjua obsequiAdie ettiuis: sed contra, Adiectiuum prospicere ad vtrunquc Substantiuum,aut ad id, quod propius eft: et ipfi contra hanc male expli catam fententiam etiam ex Ciceronis Philippica, dicendi moduin obferuare. An vero Adicctiuum etSubftantiaum sit affectus, aut species folius no minis,in fexto libro declaratum eft. subThe cio elt.Fixum autem aliud Proprium,quod vnius Nominis igiturvelFixi, vel Mobilis hæcra tantum est: aliud Commune fecere: atque hoc Appellatiuum quare vocarint, fane nefcio. Ve rum neque diuifio bona eft,neq; nominis impo sitio. Nanq; etiam Mobilia,fiueadieet iua,partim funt communia, vt candor:partim propria,vt hic candor quiin Cæsare est. Itaque diuisio nominis qin Fixum etMobile,eft ficutdiuisio rei,in effe, et, in modum quo eft:Diuisio autem in Commune, et Proprium, nõ estFixorum tantum: fed gencri ca nominis:sicut diuisio rei in vniuerfalem, et in diuiduatam. Appellatiuum autem quare dixcre? an quia lub fe vocat multa? at etiam Adiectiuiid interest: nihil enim diffcrt Concretum ab Abstra eto, nisi modo significationis, non significatio ne: at etiam propria rjominasuam rem appellant. Hoc autem ipsum quod suntautPropria,aut hogy 2.0, Comunij,aut Fixa, autMobilia,recētioresQua litatem nominis vocarunt:eaque inter accidentia cum fpecie, et genere cnumerarut.Item Compa rationem, atque alia eiusmodı,magno errore.Na Homo et Cæfar, no differüt qualitate: neq; albū ab homine qualitate differt,sed effentia: neque enim qualitatis qualitas est. Comparatio autem atque alia eiufmodi non sunt nominis qualitates genericæ.omnib.enim nominibus conuenirent, At propria non recipiunt Comparationem:ne que substantialia: fed Denominatiuorum affe ctio est. Sicut Patronymicum, non est Nominis qualitas, vt nomen est:sed vt Nomen proprium. Illud quoque contemplandum eft, Nomen hoc, Sol, et Luna, et alia eiufmodi, Communesit, 22. an proprium. Nam fpecies prior est indiuiduo: sa igitur lì vnum indiuiduum explet totiusambitu fpeciei, id quod facit Sol, erit nomen speciei, no indiuidui. Nomen enim priori inditur. Hoc fic fenfere veteres falso: nam qui nomen impofuit ferhat's rebus, indiuidua nota prius habuit,quam species, you may f Romanus enim qui vnicum Elephatum primus motene, vidit, ei nomen indidit, Lucam bouem: nihildu4 mp4, с. metitus animo vniuerfalem naturam illam. Sic page bratom't etiam Soli, quod folus efset: et eiusconsortiope ging en geri ris, Lucinæ, quam poftea concisa voce Lunam Freien, dixiinus. Eftigitur nomen hocindiuidui indiui- m poyi tu? duo impofitum per se,speciei autem per accides. Itaque quum dicas ex Democrito, Mundos, et Soles, et Lunas,fietquasiquum appellabis,et me, et Dictatorem, Cæfares,aut si fpeciei tunc voles, vt fiat: erit. indiuiduis autem alia tibierunt quæ renda nomina. Quid quoque loco statuendum, deg propriorum natura, atque affeetibus. O v. b. Væ res vt diximus, hoc habeant vt sint aliquid prius, quam sint alicuius: ea nomi na quæ eas res fic significant, primo quoquelo co tractanda erunt. Quoniam autem Singularia sunt notissima: propria item nomina quibus fignificantur, notiffimo, hoc eftprimo loco, ex plicanda funt:vt Cæsar, Bucephalus, Athesis, Ro ina quæ nomina bina trinave sunt yni homini conftituta,an propria fintap. pellanda? Hocsicagamus. Voces, quibusRoma na capita recensebantur,fuere hę:Prenomen,No Bomen,Cognomen,Agnomen.Horum autem na. tura, atque origo fic fuit: raptis per initia Sabina rum virginibus, atque ea de caufa conflato bello, ipso in confli et u earum interuentu vterque po pulus conciliatus, nõ solum animos mutuo bene uolentes conciliauit, fed etiam nomina commu nicauit. Sicaiunt: puts queira fuiffe in aliquibus: Boston Ternam in omnib. noncoitat: quippe ipfi Hersilia youm nomen et fuit, et maplit folum: item Ro mulo et Tatio:Numę Pompilio Sabino, et Me tio Curtio itē bina: Hoflio Hoftilio Romano to Nom tidem: Itaq; hoc fentio,a virtutecuiuspiam nome primum mutuatos, vt ab Iulio, Iulii, dicerentur, quoru Iulus autorgenerisfuiffet:iccirco, Nome appellatum vnde Nobiles, id eft noti essent. Inde vt dignofceretur,additum aliquid notę ab euetu: ftatima; Cognoinen orcum fuisse: vt Pompilii, a ceremoniis,Nume:Hoftiliiab reb.geftis, Hostio: Curtii,a celeritate,Metio: Herdonii, a ftrenuitą te, Turno:l'roculi,ab cuentu natalium,lulio.Po ftca Atea nobiliores quum liberos procreassent, et ne- Hammas que Nomen possent, neque Cognomen auferre vellent, aliamnotam excogitarunt:quamquonia infantibus imponerent, quos sola ca appellarent, præposuere; atque iccirco dixereNomen. Hac inde fatis constat,quod quę primo loco cssento lim Nomina, poftea secundo fuere:vt lulius Pro culus:Iulius prius fuit:at C.Iulius posterius. Quæ Prænomina ab euentis quoque orta funt, aut na talium, aut alterius fortunx: a fortitudinc,Mar cus:ab antiquitate, Caius, raios, a terra fcilicet, quasi suzby boves effet: ab honore et dignitate, Ti tus:abGenerositate,Cneus: a generisdefrauda tione, Spurius: a numero liberorum, Quintus, Decimus: a decore, Decius; a cultu populi, Pu-. blius: a rempore natalium, Lucius: et item alia, Qux sors etiam aliis obtigit nominibus. Nam Marius, a Manc dictum fuit. et habuit præ nomen, Quintus, Aucta autem Republica, numeroque ciuium illustrium, factum eft, vt aliorum nominum nguæ cauliz cxtiterint. quæ nomina, quod accederent ad priora, cumquç eis vni attribuerentur, Cognominadietta funt. Horum origo fuit, a corporis habitu, Labco, Crassus,Longus, Varus,Valgius,Sedigitus, Buc culeius, Plautus, Plancus, Varius, Pansa, Ruf fus: ab cuentis aliis, Posthumus, Praculus, Ge minus: a rebusgestis, Aphricanus, Nero,Celer: ab a ettis, Salinator, Venox, Seranus, et alia eius modi. Quæ posteri a maioribus suis honoris cauila accepta quum retinerent, aliqui etiam auxeres ogh. Aon auxere,additisaliis insignibus,vt Publius, a po pularitate:Cornelius, a viro forti, qui eam fami liam primus illuftrauit: Scipio, ab opera,quam pa ' tri præstitit seniori: addidit his vir summusab Aphrica domita, titulum Aphricani: hoc quonia tandem accessisset,Agnomen merito appellaue re. ficut Agnatos dicimus, qui familiamaugent accessione fua: et Agnata membra, apud Pliniu, quorum additamento corpus auctius fa et um eft. Vor Quidam recentiorum affentiti sunt negantibus vocem hanc Agnomen, probam esse, sed grani maticorum superstitione commêtitiam: verum a M.Tullio in fecundo rhetoricorum pofita eft. Hæ sunt romanorum caussæ nominum atque Rahi effentiæ, quæ fic definientur: Nomen familie ! nota: præ-nomen, proprium cuiusque: cognome, quod euētu accessit. Agnomen, quod eventus accessionem notat. Ordo patet ex ipfarum vocum mapevi: Materia autem nominum fic pote eft, vt quu fcribuntur, cætera omnia omnibus fuis elemen tis explicentur: Prænomina non omnibus: fed aut singulis: vt, C. aut binis: vt, Cn.aut trinis:ve Sex, p:o Sextus. Ex his patet, non re ette aliquos prodidisse, Nomen effe vniusillius cuius eft: re tius ab aliis Gentilitium, et ab illis ipfis nomen 06: Familiarum. Græci Prænomine carent: fed po fito nomine vnico apponutpatris nomen: Aae Gudpus o Dininu. Hoc idem etiam Arabes fa ciunt: fed ctiam autoris nomen subticent, et patris tantum ponut: A uen,rois. Auen,pace. Auen, zoar. Græce vcro etiam cognomine vhi funt, fed rariore,vt Ευ πάτως, φιλαδελφος, κεραυνός, Χαλκίνη foi. gos. vtmulti putentDejanov et A'zapeuvova, et A " degsor, et aliamultafuisse cognomenta a militib. excogitata: ille quod filij cadaver redemerit: al ter,quiadiu ad Troia sederit:hic, quia re infecta ' ab obfidionereversus sit,vt dicantur. Quin etiam diis iplis a potestatibus quibusdam sunt attribu ta:vt, 'πόλων, Παιαν, vtraqueappellatio et Φοίβου. crogiya evNeptuni: [lzatais,o textuvidosagde gode φέντης, Ερμού. Ηoc έτσώνυμον Greci, Agnomen βασα και να autem Depurvuon appellarunt. Videamus nunc scans affectiones.Proprium estPrænominisin virisiis, Affet hel quisibicognonien illuftrecompararunt,aliquan do fubticeri:vt,Cæsar Diet ator:intelligis enim c. E contrario positum,necelario interdum alioru appositione declaratur:vt,c.apponesCęsar:item addes,Dictator: aut, Dictatorispater: Proprium item etid, certis familiis certa ascita effe Prænomi na:vt,L.et c. Cæfarum:P.L.et c N. Scipionum: L. et M.Crasforum. Legimusetiam quædam quibuf dam interdicta: veluti m.Prænomine cautum fu it s.c.ne quis,Manliorū appellaretur,ob M. Man lij Capitolini mala merita in Rempub. quaquam Senatus Consultum illud poftea abolitum elt ve tuftate.Illud quoque patiuntur nomina et cogno mina, vt fedem inter fe mutentin narrationibus: invenias enim et Cæsonem Fabium, et Fabium Cæsonē. Etiam in Pacuuij Epitaphio Prænomen poftpofitum est. Hicfunt Pacuuij Marcisita offa. Vțiam definant altercari paucæ leettionis gram matici super verba Quintiliani, Viet ori Marcelles Iut. IV. le: an, Marcelle Victorifcribendum sit.Illud etia est observatum, multa Nomina facta effe aliis Prænomina: vt, lulij Dictatoris nomen, mihi: quum ita PaulusMideburgius, qui poftea Foro semproniensium Potifex fuit, Mathematicus in comparabilis, Divorumque Friderichi, atq; Ma ximiliani et alumnus et altor, persuasiffetpatri. Verum ab antiquis quoquefactitatum fuit:Nam 9.Tulli yox,fuir Regi Hoftilio Prænomen: at pofte risin nomen recepta est. L. Sergium legimus:hîc Gentileest: at aliis Prænomen. Etiam Romæin monumentis fic fcriptum, Ser. Et in xxxIII. apud T. Livium, PacuviusCalanius: hîcest Præ nomen: at Nomen est poetæ, poft Prænomen: » M. Pacuvius.Proprium et illud Cognominis,at que Agnominis, li post Prænomen, aut Nomen, patris Prænomen ponatur, postremum locum obtinere:sic,C.Iulius,C. t. Cæsar: C. Cæsar. C.F. Dictator. Item duo prænomina præponentur v ni Nomini,aut Cognominipluralis numeri: fic, Pons M, et, qv, Tullij Cicerones. Itaque Prænomina vere non queuntfledi numero plurali, cæterao mnia queunt:suntenim generis,non viri: nisi sit Cognomen, aut Agnomen eius cui primum eft attributum: eius enim folius esttunc. Agno men autem ab Antiquis etiam Cognomen dia et um fuit: Africani enim Cognomen vocat M. Tullius in Sexto de Repub. Proprium etiam » Prænominis, vt idem et patris fit, et pri mogeniti: vt, M. Tullius. M. F. Quod autemait energyProbus grammaticus, Prænominanon esse solita imponi pueris antequam togam sumerent viri lem 219 lem, puellis antequamnuberent falfum eft: fed 1 feptimodie,quam natieffent, quum luftrabatur, Prænomen inditum fuiffe conftat. Sicut etapud Græcos, vt ait Aristoteles in septimo historiarum. Et ridiculum fuerit sex liberorum patrem vnum 2. appellare,omnes respondere:hoc enim faciat,ni fi nomine distinguantur. Hæredes esse non pof fint,quos ille non poffit nominare. Eft etia præ. ter hos certos legitimosque modos, vfus alius qui dam nominum communiorum. Maior,Minor, Superior.Quætempora perpendunt femper, vir • tutem non semper:vt nolint dici Dionysium Tya rannum Maiorem,sed Superiorem. An vero in. feriorin ea significationeinveniatur,non sinera tione disceptatum est: luniorem enim dicimus, Inferiorem autem nondum memini. Ex his pa tet, male a Servio dietum, lulo Ascanium fuiffe Agnomen: patet id quoque,la wivulavetiã Lati nis Diis attributam, vt Græcis: Marti,Gradivi: Romulo, Quirini:Hersiliæ,Horæ. Si igitur verum est carereplurali Prænomina, et AgnominaetCognominaparta, excludentur etiam ab eiusmodi locutione, Alter Cæfar, Alter Tullius: virtutes enim etfortunam poffis innue re, at Nomen non eritidem: fed fic dices: Cæfar alter a Cafare. διωνυμαautem etτριώνυμα non 4 recte dices: nullum enim nomen eft Binomen:vya fed res ipsa. Omneenim quod eft, vnum nume- my. ro est. Itaque Irum Ovidius, Ausonius lstrum bi nominem dixere.Ita Xanthum, et Alexandru vo. ces. vt etiam quæ woawwna fupra dieta a veteri bus legas, male fint appellata: neque enim Ensis 1 nomen est nonuwvwpov,fed ferrum hoc: quoniam ethoc, etaliis nominibus recenfetur. Defixis,five Essentialibus communibus,eorum quefpeciebus. chungen., Elxacommuniafunt. 'Ixacommuniasunt, quævniversalis,vt vocat, mune, sicut supra diximus, sumpta fignificatione a civili consuetudine. Quod.n.aut opus aut offi cium faciundum fuerit omnium civiuin opera, antimpensa, id dictum sit, Communi studio fa et um iri: quoniam munia fua quisquein vnum conferrent. Itaqueid opus vt compleetitur om nium civium functiones, Commune dictum est: ita nomina quæ eadem ratione vniversitatis præ amini ditas resfignificarent. Hocfummum genus divi am fere veteres in multasspecies, non omnes neceffa rias, et temere digestas. Nam et falso fub Appel lativo posuere Adiectivū:et incondito,actumul tuario vocum numerorem difficile effecere. Ac fiomnia rerum genera, qux Subalternavocat, fe quivelint,et nequeant, etconfundant artem: sin nolint,necongeriem quidem cam affectent. Ex vero funt: Ad aliquid di ettun, Cuasi ad aliquid di et um,Gentile, Patrium,Interrogatiyum, infini tum,Relativum,Demõstrativum,Similitudinis, Collectivum,Dividuum,Factitiu, Gencrale, Spe ciale,Ordinale,Numerale, absolutum, Tempo rale, Locale. Has dixere effc Communes nomi num et Principaliu et Derivativorum: proprias autem fcorfun Derivatorum has, Patronymi Gum Am cum.Poffeffiuum, Coparatiuum, Superlatiuum, Diminutiuum, Denominatiuum, in quo, aiunt, intelligimus cum multisaliis, Comprehensiuum, Verbale,Participiale, Aduerbiale. Hæceft eorum farçina: quam vțintrofpiciamus, publicanorum more folucnda eft. Principio male dixerunt, has omnes Species mory esse Appellatiuorum;nam etiam sunt Propriorum: Vafriti. enim Vlyssis, Adiectiuo nomine indicatur quæ ei propria est.Item ejus locus,in quoeft,eius solius eft.EtconfundütAdiectiuum 2 cum Substantiuo: ergomale diuisițnomệin heç duo, tanquam in genera, Nam fi Populus eft no. men Substantiuum, et MagousAdiectiuum; qua re Adiectiuum fecit speciem Appellatiuorum, Substantiuum autem non fecit? Species igitur attribuere non fuo generi: et species confude. 3 recum suo genere cum dicunt, Patronymicum, et Denominatiuum; eft enim Denominatiuo, rum species Patronymicum: apertius autem ip fum Comparatiuum; denominat enim gradum, ficut Positiuum, qualitatem. Sicetiam Absolutu quum sitgenus multorum, vt Factitii, Tempo, ralis, Localis, in eundem ordinem cum fuis infc rioribus redegere; Nihilo feliçius genus ipsum Adaliquid cum suis speciebus miscuere: vt Or. dinale, et Patrium, et alia. Sed etillud falfi sunt, quum dicunt, Ad aliquid diet um; nanqucapud 4 Philosophos etMetaphysicos fic excogitatum est,alia effeAd aliquid:alia non effe, fed dici,vt hocipfum,quod eit, Effepater: habet naturalem reciprocam Coniun et ionem cum hoc, quodest, Effe filius: etiam fi nulla extet oratio, quæ hoc di cat. hoc aüt quod est,Effecaput:no habet ex sei pro reciprocam Coniun tione cum Corpore:sed ex co quod est, Effe pars, ad Totum. Itaque hoc lixere,Diciad aliquid: non autem Effe. Quare it res sunt, ita notæ rerum: igitur nomina quæ Adaliquid fignificabunt, erunt,Ad aliquid:quæ ignificabuntAd aliquid dicta, erunt Ad aliquid dicta. Iccirco etiam bis errarunt: nanque idem Ś eft, Ad aliquid diettum: et, Quasıad aliquid: quæ cunque enim nõ sunt vere Ad aliquid,funt Qua fi ad aliquid:per formam quandam accidenta lem, attributam ab intellectu. Hoc autem eft dici Ad aliquid: id est,referri per intellectum subcer to modo, quia reipfa per feipfa referrinequeunt, 6 Quin vero videtur nihil dici Ad aliquid, fed esse. neque enim intellectus facitCaput, effe partem Totius:fed ipsum ex sua natura pars eft. et quem admodum Caput ipsum non refertur, ita neque Cæsar refertur: fed ficut illud quali pars, ita hic quafi pater. Sed de his alibi: coaeti enim sumus detergere horum rubiginosam orationem. Præ 7 erea li ponunt Intcrrogatiuum, quare non Responsiuum?hocenim nobilius illo est: constituit, ' nim orationem verum velf alsum significatem. --)mnis enim Conclusio nobilior est ipsa Quæ ione. Numerale pofuit,quare nöposuit Dime onale? Continua enim quantitas nobilior eft, uam Discreta. Numerus enim accidit quatitati iscretæ:neque quodcunque est, vnum est: neq; nim discreta quantitas est genus distinctumre sa a quantitatecontinua, vtphilofophi veteres putauere: sed affectus quantitatis. Igitur hanc per Quantum,illam perQuot,explicamus. Tem porale quoquequum dixiflent, addideruntAd verbiale: atHodiernus, eft Aduerbiale et Tem porale: non igitur sunt species distinctæ, fed Temporali accidit, vt ab Aduerbio deducatur. Localerecensuerunt: quarenon Situale? vt Supinus, Pronus, Ingeniculus, que Græci lygovariv dicunt? Quare non memorarunt alią neceffaria? NomenGrammaticum: vt, Deriuatiuum, Geni tiuus, Modus, Figura: Nomen Logicum: vt, Consignificatio, Conclusio; Nomen Mathematicum, Nomen Metaphysicum,et alia? quæ alia alio modosignificant, quam hæc vulgata nostra, Poftremo pessimeíensere, quum dicerent, prio- 3 res illas species esse, təm Primitiuorum, quam Deriuatiuorum. Quis enim dicat, Patrium nome aut gentile, græcus, “romanus”, “latinus”. Atti esse Primitiua? Vbi error maximus eorum patet,qui putarunt diuerfum effe Denominatio nem a Deriuatione, propterea quod fic in aliqui businuentum effet: vtalufto luftitiam deduce bant. Athocaccidit contra rei naturam: nam Iu ftitia prior est, quam Iuftus, fed ficut res a re,ita vox a voce: quare vt Romaprior fuit quam Cæ far, ita a RomaRomanus dictus; vbi etPatrium, et Deriuatiuum, et Denominatiuum vnum sunt. Has nebulas Gramaticorum quu discussimus, duo supersunt,quæagamus: primum emendabi- Erhome mus eorum definitiones, qua opus fit: deinde cxa ettiore iudicio ad certa capita reducemus. Pij, Ada cus, MW Pre TE RH cíten Qus Diner liorat uatirati gra? 1: 1 Qume Veteris puch 224 IvL. IV. 2 Arte Adieettiuum,inquiūt,quod adiicitur propriisvel appellatiuis, et lignificat laudem, vel vitupera tionem,vel mediu,vel accidens,vnicuique.Prin i cipio definitio hæcnoestabessentia, sed abacci. dente. Essentia enim Adicetiui est, significare a. liquid alicui quod insit: at hoc, quod est Adiici, accidens eft: poteft enim vel adiici, vel non ad jici: accidit enim voci vt conftruat orationem: quanquam hoc accidens est proprium fluens ab ipsa essentia, Sane etiam extraorationem hæc vox Bonus, dicetur Adiectiuum: nec tamen adii cietur. Itaque peruerse quoque data eft defini tio hæc: cum præpofitum fuit hoc quod eft Ad iici,huic quod eftSignificare. Peruerfa vero et iam alia ratione. Cum enim Laudem etVitupe rationem posuere,addiderunt Accidens:quasi ve ro ea accidentia non fint:atque est,veluti li dicas, Coruus est crocitans animal,nigrum,coloratum. Accidesigitur fiuefignifcet σύμπτωμα, fiueσυμ 667xws, live codexerfov, genus est comprehen dens Laudem, et Vituperationem, non minus quam Album, et Nigrum, quæ ipfi pro exem 3 plis apposuere. Male etiam apposuere Vnicui que: non enim dantur definitiones indiuiduo rum, fed folæ fpecies definiuntur. Verum poft hæc maiorem errorem commisere: nam (omit 1 to alias ineptias ) ficftatuunt, proprium elfe Ad ieet iuorum, suscipcre Comparationem: At hoc est falfiffimum: nam quisaudeatdicere hoc no men Medius,intendi poffe,etremitti gradu Co parationis? Quis nescic, Hodiernum,e fse Adic diuum? quis alia multa. Negligentia quoque illa non parua: etenim de iis, quæ Quasi ad ali quid dicuntur,vbi scripsere, interponunt deSy nonymis nescio quæ, etDionymis, atque eius. modi, etfalso, vt diximus supra, et non luo loco. Interrogatiuum, aiunt, est quod cum interroga tione profertur. Leuiter lane nimis: quippeet Verba cum interrogatione proferuntur. Deinde dixere, infinitum efle Interrogatiuo contra- Juf. rium, profe et o inanemmodum docendi: Nihil enim est contrarium interrogationi: nisi non interrogare: aut fane Respondiuum appellandum n'y. sit, vt aliquid affequamur:Responsio nanque non est vere contraria Interrogationi:quippealiquan do eadem:vt, Venit? respondebis, “Venit”. Neque forma ipsa interrogandi est vere contraria for mæ respondendi: alioqui quæstio effet contraria conclusioni. At quæstio nihil affirmat: ergo non contradicit. Sed vsus tenuit, ut dicamus: Contra respondit: quia ex altera parte item eum esse dicimus,qui refpondet. Infinitum vero quo... modocontrarium faciant Interrogatiuo? neutru cnim quicquam ponit: alterum quærit, alterum nescit. Quid quod Infinita dixit esse Relatiua? della qua oratione nihilturpius. Relatiua.n.omnia Fi- **3 nita sunt. Fiunt autem infinita appositis verbis non finientibus: vt Nescio,ficis, quitam indo,qui et e scribit. fed ipfa Interrogatiua sunt Infini ta:n: hil enim statuit,qui interrogat.Diuiduum, hun Jan inquiunt,est, quodaduobus, velamplioribusad fingulos habet relationem.vel ad plures in nu meros pares distributos: vt Vterque, Alteruter, Quisque,Singuli,Bini, Terni.Omitto barbariem Piij. upo DD CH Arche orm quum posuere. Amplioribus, pro eo quod effet, Pluribus. Rem ipfam agamus. Male expressere vim horum exemplorum: neque enim hæc vox Vterquehabet relationem a duobus ad fingulos: Ted åfingulisadduos transfert significatum. nam quum dicas,Vter? vnum intelligis ex duobus.Ita quecolliges-ambosin responsione fic: ethic, et hic, per coniun et ionem. Que: Vterque.Itaque non eft Diuiduum, fed Diuiduo contrarium. Dividuum potius erit, Alter uter, Utercunque, Vteruis. Præterca non puduit distinguere hæctan. Nouve quam in specie, divisa a specie numeralium. Imo vero numerale est genus comple et ensduas species, dividuum: vt: alteruter: “indiuiduum” -- hoc autem rursusdaas: distribuens, vt singulus: Non distribuens, vt unus. Itaque potius affectiones numerandi, quam species sint sicut: et Ordinale. Hæcita fe habent.Nos autem hęc incondita prudentius digeramus, recepta prius nominum fi hangi significatione. Omne quod est,aur est Absolutum, mgo aut Relatiuum. Absolutum est quod a nullo de pendet. Relatiua, quæ mutuo naturæ nexu con almolol ftant. Eftautem Abfolutinomen minus consul to pofitum. quod.n. aliquando vinctum fuerit, quả defiit vin et ữesse, Absolutu diet u est. Verum verborű inopia interdum premimur: vtemurau tem receptis, vtintelligamur, Videamus igitur, an vllu nomere ette dici queat Absolutū. Absolu tu pluribusmodisintelligitur:Absolutű a cauffa: vt, Deus: amateria, vt motrices mentes orbium coeleftiű: a fubie etta fubftatia, vt fubftãtiæ omnes: a relatione, vt quæ ad aliud non referuntur. Igi tur ICH D 1 V tur ipfiusnominis naturanullo horum modoru vlnu absoluta eft:caussasenim habet, primum sui auto Tours tem:promateria,vocem, scripturamve, aut quid fimile. Quu autem reru notæ fint,fiue figna quæ dam arelatione,non erut Absoluta. Nomina igi tur omnia in prædicamento Relationis funt qua tenus significant. Verum omni in relatione eft ratio referendi, et termini ipfi relationis, et res subiectæ, quæ deferunt relationem: vt, Cæsar fi Catonis filius eít, tria hæc oítendentur: nam ratio qua Cæfarad Catonem vt filius, et Cato ad Cæfa rem vt pater,est vis illa procreandi tum actiua, tu paffiua.Resdeferetes relationem, funt duæ fub Itantiæ indiuidux. Terminus relationis filii, est Cæfar:patris,eft Cato.Igitur filius in prædicame to Relationis eft: fed connotat fecurcm absoluta scilicet substantiam. Non longe diffimili ratione Nomen dicas ipfum quatenus significat, effe Re latiuum. quatenusabsolutam rem fignificat,effe vt figna Absolutum. Sic dicas, Cæfarem effe filium mili tarem: vt relatiuu filius,etia militia consignificet rem absolutam. Ergo fic Nomina certis generi. Gomora bus partiamur:auta Reftatim deducuntur,aut ab ' A 2 alia voce. A Re autabfoluta, autrelatiua. Si a vo ce, yt Hodiernus, ab aduerbio, Hodie,vocisillius naturam fequentur. Quæ autem a Rebus dedu centur,rerum naturam retinebut. Oportet enim fignum æquari rei cuiusfignum eft.Itaque fifub- Goreng ftantiam indicabit, ant quantitatem,aut quali tatem, aut alia, inde fumetappellationem. Per. sequi autem tot species, easque certis nuncupa tionibus affequi, difficileest. Summa autê genere. Relatiuorum funt hæc: aut æqualia, vt Socius, vicinus: aut inæqualia, ut “servus”, “dominus”. Absoluta substantina decorum generaat species. Absolutorum genera hæc sunt, quædam subsantiam significant, ut, Ensis. Quædã quantitatem eam queduplicem: continuam: vt, Magnitudinem, corpus: locum, forum: tempus, Annus. Et discretam, vt, numerum “unus”, “duo”. A lia significant qualitatem: ut, “candor”, facies.Ex quibus ducas nomina generum, ac reddas suum cuique: Temporale, Locale, et quæ supra. Facti Atia autem ad genus qualitatis, quatenussic sonat, Murmur, Turtur, Sibilus, Fremitus: quanquam significatus ad alia genera referatur.Sic etiam Ad verbialia diet a,non quodaduerbium fignificent: sed ab origine:quoconstat, has denominationes non sempera significato produci. Generale aute et Speciale potius ad dialecticum spectant. Sic Corporale et Incorporale reduces ad fubftatiam et alia genera:vt, Deus substantiale eft, incorpo rale: Candor qualitas incorporalis. An verd id, quod aiunt,verum fit, Orationem esse incorpo ralem? Nam de vocali, aut fcripta oratione si fic sentias, falso intelligas. Eft enim orationis For ma significatio: Materia, papyrus atramentum, aer ipse: Figura,ftru et ura illa. Absoluta diminutina. th.Horum affe et usquorūdam,Diminutio est:ita vtresipfæ quibant autintendi,aut remitti. Quare in substantia non videbatur inueniri pof- Am se fignificatusDiminutionis. Verum ab affeet i- ' W4L. bus, siue accidentibus circumstantibus effe ettum eft, vt reciperet Diminutionem. Sicuti etiam di cimus, Maiorem equum:eft enim quod ad quan titatem spectet,non quodfubstantiam. Igitur fic resoluimus, vt dicatur, Plus quantitatis in eque, non autem plus cqui. Ita dicimus Homuncione, et Homulum,quantitatem respicientesin homi ne, non hominis substantiam.Atqueis lane error a vulgo, non a sapientibusprofectus est. Puellus autem ætatem significat, non substantiam:ætas autem fub tempore collocatur. Compofita etiam ex vtroque inuenias. vt, Pumilus, et Pumilio, ex Puero et Homulo conflatum fuit. Abufi autem sunt veteresnomineDiminutionis:namMinue- vox rt, est tollere quantitatem: Diminuere igitur, Vtranque quantitatem statuit in diuersa: at ab Hominecum ducis Homulum, decurtaspotius, quam Diminuis. Quæ fuit cauffa, vt aliiconful rius Deminuere dicant. Eftenim Diminutio affe etus consequensDiuisionem. Omneenim diui sum ita minuitur, vt eadem quantitas minor di - sot catur,quoniam partes feparentur: at in nominis Diminutiui significatione nullæ extant partest fed Deminutiuucstquod fignificat minus quam Primitiuum.Quoniam autem eft fpecies Deriua tiuorum, et Deriuatio est Figura, et Figuraeft af feet us nominum generalis: igituretiam Deminutio generalis nominuaffeet us erit: iccirco et Absolutis, et Relativis, et Appellatiuis, et Adiectiuis, et Communibus, et Propriis competit.Quarcna tweet elteise PY. in. emir Quis 230 IvL. IV. inter genera nominum,sed inter accidentia pro. pria recensendum fuit:vt, Homulus, Pulchellus, Romulus, Meliusculus est, Antonilla. Nunc igi tur de Abfolutis. peromeQuantitatem quædam imitantur, quædam non,fed ei cohærent tantum. QuareDeminutia fecundumhæctria dicentur: competit enim ma ins,vel minus soliquantitati. Dicimus tamen ma iorem calorem analogia quadam fignificationis Igitur primo indicabunt quantitatem: secundo foco id, quod hæret ei:tertio,quod eam imitatur. Quantitatem ftatim dicunt,Tantulus: et proxi mahuic in ipfa fubstantia, Auicula, Capitulum, Fraterculus, quæ ci cohærentia sunt. Sic Annicu lus, non diminuit annum, sed notat paruitatem  fubftantiæ,cuius motum,anni quantitasmeritur. Ea vero quæ quantitatem imitantur, sunt ficut Regulus,cum Regēparuium significat:propterea quodquivasto corporesunt; cæteros anteirero borevidentur,item imperio:ita ii, quorum in po testate populares funt; eam magnitudinem imi tantur:atque iccirco deminutione notantur. hnutil. Quum autem variis terminationibuspræfcri bantur cæ non funtpræfentis operæ. Sedillud a nimaduertendum, quædam quibufdam flexibus Deminutiuorum efferri, quæ ad ipfum genus nal laratione adduciposlint:vt,Cuculus,et Cænacu lum, aliaque eiusmodi aliquot: nam quæ veteres afferunt exempla non omnia verasunt. vt Auun culus Deminutum ab auo eft: Abba enim auum appellabant:item patrem, et patrisacmatris fra trema. Illi cum patrui nomen quasi patrem alte rum pitud ntiapfum attribuerent, matris fratrem quafi remotio alchesiem pusillum auum appellarunt. Nunci · Finis igitur Deminutiuorum is, Tollere quan titatem,aut alia quæ remitti possunt:sic Regulus, quxparuum regem imperio, Veraniolum dixitCatul ninusus vrbanitate: ficut Romulum, et Sergiolum, nimpueros: non adulatione,vtaiunt, qui id a Græcis imen fumpsere:Romani enim non fuit adulari.Frater catio: culum quoque gigantum iidem male dixere ab fecus vrbanitate:sed refpexit ad Gigantum vaftitatem, imit: Probro:Meretricula,Pusio.Imitatione:abAngui, et pri Anguilla. Minus reete etiam,qui contendunr, a Redo Fidis,et Apis, Fidiculam et Apiculam,du-fericia Ans Eta: falla enim ratio eft. Si a Fides, effet fidecula. cuit Primum videntur negare mutationem vocalium meni in dedu et tis: Deinde fatis constat commodius fie Eunti ri si Reet tus a fecundo casu differat. Itaque si non ropli inueniatur apud autores Fidis, rectius facias, si ne teir ges vnquamfuiffe.Et Ouidiana Apis, ex deterio imi re deprompta vfu fit. Verumegoarbitrorinter v emi trunquefonum pronunciari folitum: vtin Nise, Nisi: Here, Heri. Itaque quum “Ædes”, non “Ædis”; “Sedes”, non “Sedis” in recto legatur, tamen Ædicu łam et, Sediculam diet umlegimus. His autem no erat hic locus,nisi huius quoque rei cauffa nobis reddenda fuisset. Ex his, quæ diximus,conftat,Nominain Aster,we'arts a veteribus re et e inter Deminutiua effe colloca- sene sont A ta,temere a recentioribus ablata.Eoru argumen ta sunt hæc: Si essent Deminutiua, non fuisset a Terētio addita altera nota paruitatis, apud quele gimus, Parasitaster paruulus.Ite Pullastra, grandi uscu atu pra  Case TIK ETU mula IvL. IV. ad usçulam potius significat pullam ':Præterca Apia ftrum est miræ altitudinis. non igitur erit demi nutiuum: quare Imitationem non Dcminutio solinem dicent. Adhæcficrespondemus:omnemi mitationem indicare deminutione: quare quod tollunt idipsum statuunt. Et quod additur ase rentio paruulus, significat corporis quantitatem ætate imperfectam, vt fitdeminutio corporis: at parasitaster est artisdeminutio:vtis sit, qui haud magnacum re parasıtatur: et quia agit, fiue imita tur parasitum, citra parasiti modum est. Apia ftrum autem non est diminutiuum ab Apio, sed ab Apibus ductum, vndeetiam uersaroquior,id est Apifolium dicitur a Græcis, Citraria enim cst: quin ea Apium neque imitatur,ncquefimilis eius est. At quod Apiastrum est ab Apio deminutum fane eo longeminusest. Verba Plinii suntin xx. libro: Nasci in Sardinia herbam fylueftrem Apii fimilem,quod fit A piastrum,Apio minorem. E Sallustii historia sumptum videtur. In Sardinia, inquit,herbanascitur, quæ Sardoa dicitur, Apia stri similis: hæc ora hominum, et rictus dolore contrahit, etquali ridentes interimit. Pullastram autem omnino minorem Pullam intelligimus: quippe Pulla, et Gallina iuuencula:idque tam contra eos,quam pro eis facit: neque enim Pul te laftra, aut fylueftris est, autpullam imitans: vt trupi want quid enim minorem maior imitetur? aut quomo doimitatio in substantia, autin quantitate natu rali fita fit, quæ affeet us animi, autin ipso affectu posita est? Surdaster quoque qua rationefurdum dicetur imitari? sed enim idem eft, quod fubfur dus. Cauffa autem huiusce terminationis a Græ cis constituta eft: 017:Tmile,I'vtwwwxleiv, cst Philippum, aut Antonium agere:sicwsgarrile:v,vn de Antoniaster, et Paralitaster; fic oyxisnis,apud Galenum ageto oynilev: agortashs, et Æolice 1 verso líbilo in literam vibratiorem. Qui igitur imitationem tantum attribuere, non memine rantsurdaftri:quisustuleredeminutionem ob Te rentium, non videbant duas paruitates eidem s poffeeuenire,corporis, et artis: qui omnino non putarunt esse Deminutiua, nesciebant imitatio, ne significari inæqualitatem duorum, quorum. minor sitis altero, quem imitatur. Proprium Deminutiuorum habere dcriuata. si non a primigeniis,Hortulanus. Collectiua, etcomprehenfina. NGcnerequantitatis, quæ reliqua funt,ponc mus ea, quæ vocant Collectiua. verum voxa ri? y definitionediffentit.Colligerenanquoeftaliquo * chin modovnuex multis facere: at, Populus,aut, Vut gus, quod dat signum nobis colligendi? potius, Vterque, et Ambo, et Omnis,funt figna Colle etti-,,: ua:illa autem,quæ ficabantiquis funt dicta,Cog prehenfiua potius iudicabuntur. At ipsi Com - 3 3 prehenfiua dixere his non abfimilia: cuiufmodi o est, Vinetum, Rosetum, et eiusmodi. Verum hæc i nihilo distant, nisi modoipfo significationis:nam Populus rem vnam e multis constantem notat: pie at, Vinetum,vnam rem multas comprehenden Pietem. Non est Colle ettiuis diffimile, Arena, Scopa, Scala, Scala, et eiusmodi, quæ frustra plurali duntaxat en numero dicidebere contenderunticcirco, quia multa essent. Nequeillisin mente venerat, quod cunque eft,vnum effe. Atquod eft, aut est vnum Subflantia,velutdicebamus, ut Homo et Equus: aut accidente, ut homo et Albumiaut Subiecto, ve Album et Dulce in lacte:autMistione, vt Pos sca:aut Aggregatione,vt Aceruus. Igitur in fingu lari si pronuncies, rectius designes vnum effe: vt, Cumulus, Grex, Turma, Thesaurus, vt etiã in plu rali diuerfislocis pofita fignifices: vt, Cumulosaa renæ,Italicæ et Ægyptiæ:Greges,tuum etmeum, Eft præterea vnum Mathematicum:vt Quadran talis figura vnum cst ex multis lateribus: fic Qua drigam debes dicere, vt et Alcibiadis et Hieronis Quadrigas possis. Est etiam unum dialecticum, vel metaphysicum, ut definitio, quæ constat ex genere et differentia, et Species quæ constat exif dem defignatisa definitione: quæ tamen singularem in numero proferuntur.Quaremulto usuinomi na hæc Comprehenfiua fuere. Multoque consul tius est hoc excogitatum, quam fit admiffusmos pluralium, vt Thebæ, Pifæ: namfi fic neceffe fit dicere, illud quoquencceffe fuerit, vt ciuitates,  non autem ciuitas appelletur. Sic grege legato, wna res legata est, vtait Paulus, neque pars potest recipi,pars fperniRelatiua substantina. Elatiua aut sunt Substantiua, vt feruus: aut RA, nomie lur U nominis aut genus vtranquecopleettensspeciem,rakis fubstantiuorum, et adiectiuorum: nequemirum: neq; enim substantiam significant, fed essentiam referendi:itaque accidentis semper notæ funt. In priore genere continentur Ordinalia, Primus, So cundus:aut his fimilia.Centurio,præfe et us: et a lia talia quæ diximus, vt Ciuis,Vicinus:Nepos, Fi lius:quæ vnum tantum terminum significant. Vi dentur autem etGentilia, et Patria ad hæc referriq.m fub adiectiuorum fpecie:nequeenim dicas Græ- pohon cum, fine Græciæ intellectu: fed tamen Græ ciam, sine Græci intelle et ione poffe dicere vide ris. Verum non ita eft. Plato Græcus fuit: Regio Attica,Græca:sisubstantias ipfas respicias, nõre feres: si nomina impofita, quæ gētem significent,q non possis, quin referas. Terrailla non est alicu-} ius terra: sed patria eftalicuius patria: Græcia autem Græcorum eft, et Græci Græciæ, Itaqueo mnium nobiliffima fuere Patronymica, quæ in contents voce substantiua, adie ettiuorum plenitudinem sunt consequuta. Adieettiua enim significant acçi dcns et modum quo in hzret substantiæ: quare aliqua ratione etiam ipfam connotant subltan tiam. Hoc etiam amplius Patronymica, quæ et iam certam fubftantiam consignificant:nam in certum quidem filium vel nepotem, at certum vel patrem,vel auum, tanta vi,vtetiã propria no mina referri penecogant. Videtur enim Priamus b'lari referri ad filios hocnomine Priamides: verum non ita eft: nam tametsi terminum nominat,non tameneum refert ad hunc quem primario figni ficat: significat enim filiu Priami, quead Priamu refert:consignificat Priamum, sed adfilium non 1 1 qua? 236 IvL. IV. 1 * refert. Cæterum eo præstant cæteris, vt diximus, pas here quod vtrunque terminum relationisfimulsta tuunt voceipfa non soluın significatu.illud quo » que mirum fuit, a proprio ductam vocem perde nominationem,non effe Adiectiuam,fed Fixam: quaksid quod non potuerunt obtinere Poffeffiua.Ap pellatiua autem fuere amiffo iure proprietatis. Nequeenim potius Hector, quam Helenusintel ligetur co nomine PRIAMIDES, Non pro pter camrationem,quamafferunt, Singularia no referri: hoc enim falso dixere philosophiquidã. Nam Relatiua quoquesua habentindiuidua; vt, hiç filius huius patris. Proprium vero cumfuisset per initia Patrony. VM micorum, Græcis tantum in nominibus fieri: v sus Romanus ad sua transtulit commoda, vt Ro. mulides. Falso enim dicebantquidem Patrony. miciloco vfostum Poffeffiuo; nemo enim hoclo git nunc.Auxerequoque inscitiam,cum Latino, rum tantum effe dicerēt poffeffiuum:qui fi Græ caignorabant:at meminiffent ex poemate,quod legerent assidue, Troja, et Typhoel, et Euan drius. Quoniam vero etiam Materita refertur vt gum ea, tum Pater vnico nomine Parentis com ple ettantur:iccirco ab ea qudq; dacta sunt;vt Co ronides,Æsçulapius apud Ouidium.Item eodem filo abauis maternis, quo a paternis trahebantur: Atlantides, Mercurius. Poft hæca fororibus quo que, Phaethontiades, forores Phaethontis. Hora tius etiam a faet is, non ab fanguine Tyndaridem dixit eam, quæ Clytæmnestræ more diffidiffet bipenni caput viro. Moderatius veteres,qui ciues omnes, tametfi non erant a principe civitatisge niti, ab eo appellarunt, Cecropidas, Athenienses. Mobilia, five adiectiva absoluta. Vem ad modum supra diximus, Mobilia sut alia Absolutarum rerum, alia Relativarum Garten nota.Abfolutæ sunt, Vivus, Exanimis, Annicu lus,Sesquipedalis, Albus, Calidus, Frigidus, Cir cularis,Forensis, et eiufmodi:genera ipfa rerum si spectaveris. Habentautem affeet us hos,æqualiam L. effe ei,vndefunt denominata: vt a luftitia,luftus: iuftus enim est, qui iustitiam æquavit. Secundus affectus fuit,minussignificare:vt,Bellus.Tertius,2 augere significatum:vt,Gloriosus,Populabūdus. 3 Propriumautem fuit Mobilium, transirein natu ram Fixorum:vt,Pluvia: fuit enim per initia; A. qua pluvia.id quod etiam ex Ll.libris deprehen ditur, De aqua pluuia arcenda. Eadem analogia fluuius,vt poffisdicere, Fluuium Rhenu. Ducta enim funt, auta nomine, vt Cadidus: aut a verbs, vt Bibax:aut ab adverbio:vt Hesternus.Fluere igi tur quũ significaret ipsum accidens per fe: duđa eft ab eo verbo vox,quæ in alio effe indicaret, Flu men vius. Itaq; vehemeter fallifunt, quiscripfere, quę.comhet bus dam Nomina esse neq; Substantiva,neq; Adiecti atrop Ďa: vt Verbalia, et alia quædã: cuiusmodi eft, Ci vis, et Servus:quæ proptereaipsi Ambigua appel larunt.Verum res fealiter habet: Verbalia.n. fue ' re Adiectiva, nihilo fecius quam Participia: fed brevitatis caussa omissum estSubstantivum: quis aj. enim La 16.01 RE tert: tiso tivo/ OLISI is.H dari Title qui Lt $. IIII. enim neget non Thew,fuisse primum appositum, tu widet: sicut et Homerus dicit, inteos cuine: ficuti 04.810. avvie: fi enim Bellare habet naturam Ad icativi,nonne Bellatoritem habebit?significate nim bellandi scientiam in Cæsare, aut alio Itaque variatumfuit, vt etiam Bellatricem diceremus Ca millam, et Arma victricia.Sic Servum, et Servam, Dauum, etSyram: et Servum imperium, quod a lij parêret.Sic pauper, Irus, Ilia, Regnum, at seor fum ponitur ab Ovidio, Pauper vbique iacet.No sunt igiturAmbigua: nihil enim medium inter sabo ea,quæ diximus in rebus: ergo nequeinnomini abus: fed sua naturaAdiectiva fuere: vsusautem que no me nonmutavit,vt efficeret Substantiua,fed Substan tiua sustulit: non vt hæc essent, fed vtilla fubin » telligerentur.Sic dixitperinitia Pluit Deus:poft ea fuftulit Nomen. Sic dixit, Amatur a Cæfare: postea tacuitnomen, et paffus est verbo nullam certam attribui personam. Quodautem addunt his, Ciuem, et Regem:vtdicatur, et vir Ciuis, et Ciuis bonus: et Populus Rex, etRex bonus. hoc sicincrebuit,quemadmodum apudGręcosquod perarticulumdeclaratur, ανηρο πολίτης, λαόςοβα arnolis. quanquam Rex quoquefuit Adie ettivum primo, et Consul, et Prætor. Namquod vnum Jobu.tantum genus obtinuerit,id non ipfius nominis, sed rei quam notaret cauffa fa ettumest. Quum e nim hæc accidentia non nisi in viris inveniren tur:nonnisi virili genere potuere enüciari: qua. quam etiam Reginam dicas. Sic Autor, vtrun quegenus complexum eft,cum terminatio Masculi I att culinitantum analogia præfcripfiffet. Sic Græci per initia dixere,nwandywiv, pauidum lepo rem: at ysus to taxa dixit, naywov, subticuit. fis DonBor Stonwa, Phæbum perditorem:at fimpli citer Stonwy, substantiui sui nomen obtinuit. fic u hier porta onkuardigov žantov, quod pecora flavescerentes forly ius potu: at Xanthi sola appellatione Scaman drum intelligebant: vt hocfane magismirum fit, et Adicet ivo fa et um Proprium substantia EN vum. Olle 101 ICH molt dos LIN Secundum rerum genera quum Adiectiva di ftinguantur,non paucaeorum certisterminatio.hmm. nibus insignita fuere. Quæ igitur substantiam fi- Subit. gnificarent,multas facies funt fortita:in Aceus:in Itius:in Inus:in Eus.In Accus,materiam signifi cant:Panis hordeacens:Interdum totam: vtMer.. Tis triticea: et, Pila cretacea. Alias partem:vt,Pti sanahordeacea:nam etiam ex aqua constat,noTo lo hordeo. Etiam fusa significatio ad cohærentia, ytacino contentum granum,Vinaceum: quem admodum imitatus elt Gallinaceus: quoniam ex gallinæ materia ac satu esset. Huic proxima ter minatio, Cratitius paries, et Cæmentitius: idem significavit. item materiæ cohærentia, vt Mul titia vestis: neque enim Multitudo materia est, sed Linum, autLana:fic Multatitia pecunia,quæ ex Multa: år Multatio materia non est, sed forina potius, quapecuniaexigatur. Vt et hoc erra rint, qui folam materiam, non etiam formam dicerent significari: et male scripserint, Icius,» non Itius: nam vt est a lufto, luftitia: fic fuit a Crate, Gratitius. Atque hæ duæterminationes şij. Lati os Hea r  tres. Latinis suntpeculiares:Alteræ duæ a Græcispro fectæ, Cedrinus, Cupressinus, in Inus: et in Eus, Ferreus jordmedG Æolice,exemiptosve diximus t, ex diphthongo. Abiegnus autem fuit paulo coa Gius dictum, ab Abiete. lantinusvero et Ame thystinus videtur colorem, non substantiam fi gnificare:verum ita fuit, vt quafi ex ipsa Viola, et Amethysto confecta esset vestis.quoniam ex suc cis herbarum tin et turæ perficiebantur. Quæret a liquis, An Tribunitius, atquealia eiusmodi in su: periorem ordinem redigantur? Saneita est: ete we: nim Tribunatus quasi materia eft eius loci in Re ini publica, qui Tribunitiis debebatur: fic Patritius Civis, cuius dignitatis materiam præbuerint pa yrazo Quæ vero qualitatem fignificant; alia exeune fimplici,communique finitione:vt, Bonus, Ce ler.Alia Græco flexu denominativorum:vta Py thagoræ sapientia, Pythagoreus, et Pythagoricus. Sunt etiam duo alijmodiverbales,Tufazozistis,vt Grammatista: et mutuyoeuntuisy Vt Touc74:: et ove - UTAS; Acolice. Sic nescio quo felicissimo com tento Franci etiam ounc poetam, patria lingua, Factistam dicufit. qua voce nulla meliore analo gia Græcam potuit et excipere, et exprimere. E narratores Theocriti agnofcuntinter eas termia nationes differentiam ad significandum, quam qui volet s inde petat. Sunt et alia quæ ipsam zum.qualitatem fub excessu quodam notant, exeunt quein os vs: ea habuere originem a Græcis, vt appeticsciv syss estenim oradns qui plus vini appetit, quam par sitšaue quiplus viniobtinet, scilio qub w fut AK 1 6 EN fcilicet autsubstantiæ, aut faporis, aut odoris, aut coloris: vt apud Homerum aliatermination intowany ne, vivo nece moV TOY. ni ww Sic duo quoque modi signifi candi apud Latinos fuere: ingeniosus, qui mulță ingenii haberet: Mulierosus, qui multum mu lierum vellet habere. Trahunt autem origi nem a hominibus, græcorum eorundem exem plo: non a verbis,vtputarunt:his exemplis, Sto. machofus, “studiosus”, “quæstuosus, Sumptuofus Sed a Stomacho:quod apertius patet in aliis:nam a Studio, non a Studeo, habet vocalem suam studiofus: et a Sumptu, et Quæstu, suam cætera. Itaque M. Tullius fic loquutus est: Non yt mihiftomachum facerent, quem nullum ha beo. Quare a Criticis notatus fuit Nigidius Figulus, qui Bibofum dixit, fuam enim habent a >> verbis terminationem pari significato, Edax, Bie bax, Emax,Vendax, Loquax,Diçax,a nominib, raro,Linguax. Et aliam infrequentiorem, Bibo nes, Comedoncs, Calcitrones: et a nominibus, Catillones, Popinones: quanquam a Catillando et popinãdo quoque duci poffint, vt a Lurcan doLurcones. Sed quædam omnino sunranomi- nibus, vt Ciliones a Ciliis, et Labeones a Labiis. Horum item Græca origo fuit: fic enim effin gunt illi nominaComprehensiua: vt, opv.TW as» dd Duwvec Tia cvwx loca plena Auibus, Lauris,. Platanis. et vnum facetum fane,xerecv «, partem corporis, quæ ilia a quibusdam putata sunt. quo; niam igitur plus vacui ibi effet, quası multo va cuo plena effet, keveuve fuperiorum analogia ap pellarut. Eorum autem Gignificatus alius aqtiuus,suono some vt Studiofus: alius paffiuus, vt Formidolofus: alius indifferens, vtMotosus: qua fuit cauffa, vt a verbis deduci poffe putaritNigidius.Habue Huse autem modum significandi, vt diximus, ex ceflum. Exceflus autem omnis vitiofus: Virtus enim aut medium, aut in medio. Verumnomi, ņum quorundam vi factum eft, vt etiam virtus tis limitibus continerentur: eius rei cauffa fuit, propterea quod omne bonu difficile paratu est: vt est apud Hefiodum, et Vergilium, et Plato. nem, et Aristotelem. Ergo conatus ille frequen tium atque affe et atarum actionum intra laudis metas constitit: vt, Studiofus: nemoenim fatis pro restudere possit. Quin media quoque voca „bula, vt Fama, et Dolus, in deteriorem partem flexa fuere. Famofam Mạcham, Dolofum mer catorem: propterea quod facilior habitus, dete rior eft. Iccirco diuinus poeta Famam, malum definiuit. Hæc pertinentad cauffas et Originis, market et Significationis. Materia autem fic fe habet; Quædam fimpliciter deducuntur, vta cerebro, cerebrosus: quædam cum additamento vocalisa vea cura, Curiosus; quanquam non fine ratio ne: Sabina vox fuit,non vt ineptiunt, quia Cor vrat. Quirites dixit Plebem Romulus,se Qui rinum, Senatum Curiam:omnes eodem voca bulo,vario flexu. IndeCuriolus diet us, quifa tageret Confultorum Senatus. fimul Curæ no men deriuatum qua diligentiores patres voca rentur. At apertiffime affumpsit Formidolofus a Formidine. Monstruosus, autem quod dicunt quidam, puto esse barbarum; nam inmanu scri pto TIL  Holok cani Halk < -US, 6 - Vir non 7 yint la fi atud Plan ceque land imga you Dante mi me pto Martialis exemplari, quod de præda Fonta rabiz nacti sumus, fic fcriptum eft, Montofa decus Vmbriæ. Tortuosus quoque et Saltuosus nihil assumpsere: sed a Tortu, et Saltu, ducta funt: ficut a faftu Faftuofus. quanquam igitur videnturquantitatem fignificare, tamen non ita est, sed intentionem qualitatis:nam tamet fi Mons significat quantitatem, at Montosus, habitum illum montium notat. Sic euenit e tiam in alia terminatione, ™ND vs: Magnitu- View they dinem nanque indicat: Cæterum non folius Quantitatis, immo vero, vt fupra dixi, Habi-. tum quendam. Neque vero dubium eft, quin a maris excefsu naturam nacta fint, quippe ab Vndis. Nam Maris nomine antiqui pro ma- » gno vfi funt. hinc Pelagus, quia n'hasdize'. lam enim to renæs significat tractum ipsum. Ex Callimachus quasi prouerbio vtiturin Apolli nis hymno: Ου φιλέω τον αδέν και δδ δσα πονος αείδε». Et apud Latinos,Maria acmontes polliceri. Vul goetiam dicimus, Maria, dere immensa.Sic Ca tullus quum multa propofuifset etiam maiora fi de,subdidit, Cætera suntmaria. Sed de his alibi, Eorum autem Materia talis eft, vt quædam Bha-mana beant, alia c. Populabundus,Iracundus, Rubi cundus, Verecundus: quorum origo a futura Trom. verborum ducta fignificatum expressit perpc tuationis: vt,Populabundus, non folum qui pa pulatur, fed etiam populabitur. Pauca ad præ lens respexere: vt, Iracundus ab eo quod est, Ifasci,exempto sibilo,quafi quifemper irascatur: Qiiij. R4 s,de malo igini haba Tehn oat rati Tal VOO wik PM vou plai Rubicundus,qui semper rubricet:non,vt vulgo vtimur,actiualignificatione transitiua, fed abło Muta, aut usor, quemadmodum cum dicimusLa uat, id eft, Lauatur. et apud Poetam, lam venti posuere. Verecundus autem originem paulo ha buit obscuriorem, propterea quod abolitu ver bum est Verescor: sicutcontra, Adipiscor fuum primogenitum amisit,dicebant.n. Apere, and To ZTTHY, Ynde Apex, et Apes,etExamen, cuius fimplex non inuenitur sicvoceprimaria. sed in Amento. verum de his alibi. Continuationem igitur dicimus,quia Rubicundum no dicam me, sed Silenum, cuius facies multi atque aperți rubo ris fit: Nireum non dicam iracundum,Achillem dicam,multæ iræ, et quam ipse præ se ferat. F2 cundusliteram mutauit, fi a fando,non ab effica cia ductum sit. Fæcundaa fætu, per concisione. Rotundum quoque,si ab eruditioris iudicio con cedatur mihi, videtur non abhorrere. Neque ve ro habitum illum cum excessu folum indicant, 2 fed etiam vehementiam quandam,atque extan tein præter modum exuperantiam in rebus ina nimis: quasi quum dicas M.re fluctuabundum, vel vtaitGellius, Vndabundum. In rebus au 3 tem voluntate præditis, etiam Oftentationem, fiue Professionem,atque etiam, vtita dicam, Sa tagentiam, nam quemadmodum differt Verbale a Participio, ita a Verbali genus hoc nominum. Pugnare poteft quiuis,atque erit Pugnans: Pu gnator longe alio modo idem fignificat: addit.n. habitumsciendi pugnas. Sic,Populans,etPo pulator: at Populabundus hoc apponit insuper, vt palam præ se ferat animum acfpiritum Popula toris.Iccirco veteres non male dixere: quum imi. tarionem quandam his nominibus attribuêre,si mulet fimilitudinem:quippe gestuotaquodam modo quæ fint. Propterea dixitSallustius in lu gurthino: Qualı vitabundus: id eft,quasi is, qui præ se ferret mețum, vt hostem eliceret, quemvi. tare Gmularet. Eft alius moduseiusdem terminatiois in Invs; Juul nam supra correpta vocali pronunciabatur, Fa ginus axis: et Materiam indicabat. at in quibus dam producitur,et Qualitatem consistentem fi gnificat: vt Libertinus, Et in llis,Seruilis,Heri lis, et vnum correptum Pugil.fuit enim Pugi F lisperinitia, siçut Ciuilis. Et quemadmodumsu pra in Itius Materiam notabant, Cementitius, Cratitius; ita etiam Aedilicius, et Tribunitius, quasi materiam, non veram,analogice enim Tri bunatus dicitur materia dignitatis, ac status ho minis. Qualitatem igitur indicant, id est condic, tionem, amateria,aut quasia materia,sub ratio ne quadam pafsionis: vt Afcriptitius, qui esta scriptus:Fiđitius,qui eft fiet us:Dedititius,qui est passus deditionem: Deditio enim quasi materia de quædam est Capitediminutionis: eft.n.affe et us deditionis, amisfio libertatis.Eiufdem modi funt in Alis: vt Triumphalis, qui ex Triumpho gra dum adeptus est in ciuitate: furialis, furiis ca A ptus:Mortalis, eadem ratione dicitur, quimor te affc ettus eft: nam quod ad aptitudinem trans latum fit, hoc vsus occupauit. Cæterum de mortuo primum fic sunt locuti, Mortalis fuit:» deinde etiam quum ad viuentes refpicerent, pro pterea quod essent eiusdem naturæ,cofdem quo que Mortales vocauere: fic etiam Capitale cri men dixere, quodcapite lui meritum esset:quo fignificato etiam quç nondum vocata eflentiniu omdicium intellexere. His fimilia in Orius:Censori us, Prætorius: hæcfequutum illud fuit,Vxorius, Nam Cēsura ac Prætura acta cortislimitibus vi tæ præfcribebant ciuibus:ita vxoris imperio qui coħiberetur, eodem vocis flexu significatus eft, Verum quia certa nomina eamterminationem nonadmittebant,aliam eundem in vsum excogi and carunt,in Aris:Consularis,vicino fono fuperiori, quæ eratin Alis. Verum huiusmodus late fusus eft:dices enim Roburmilitare,etiam in Remige, qui nunquam miles fuerit, quoniam in milito repertum iam eft. verum a cauffa efficiente du etâ funt: vt Viam militarem: etiam in prædica mento toixer, yt Sagum militarem. ASingulo quoque Singularis diet us. et alia quædam,quæ ad philofophum fpe et ant:de quibus exa ettiffime in primo historiarum a nob. est disputatum. Alia Ahe naturaeorum est, quæ in Aticus, habitum a na tura inditum notant, Venaticus: aut etiam sub ftantiam, vt Aquaticus: fiue, vt malis, habitum in aqua, autpropter aquam agendi. Mutuatica pecunia apudGellium quæ, a ettione mutuicon dici poteft; Mutui enim naturam induit ex ftia pulatione,aut pa etto, aut eiusmodi. Alia eorum, humma quæ in Trimus, in prædicamento?oü yev, vt Patrimus,Matrimus,qui patrem etmatrem ha. **bet: Aeditimus, quiædem: atLegitimus,potius paffiue ri.  rapha 01. 57 net 106 palliue, qui a lege constitutus est. Finitimus vi detur relationem notare, verum id non a termie nationesed a significatione nominis huius finis, factum eft: et lignificat eum qui fuos fines ha- lo bet. Hæc omnia corripiunt terminationem. At Catuler Bimus, Trimus, Quadrimusab anno ducta,noni.2 facile eft dicere, falua verecundia ineptiendi, lengan quare producant, nisi propter concisionem. In Arius, eundem habitum ad agendum: Sagitta - anie an rius, qui fagitta vti scit: Bustuarius, qui busto præeft. Quædam etiam paffionem notarunt: vt, Tumultuarius, qui tumultu sit conscriptus. Etiam ad ætates vsus tranftulit, Sexagenarius, vbi nequeadio, neque paffio, sed 7o exeur: ficut Centenaria vsura,de qua suoloco: quomodo Bi. qarius, Ternarius. Atcarpentarius etiam opus fa cit: carrucarius non, fed facto vtitur, vt Armenta rius.Nuncalia duo videamus: Quodaptum naturalian eft quippam autagere, aut pati, id nequrevoy dixe- appogg. runt Græci: propterea quod rei ipfius Quor fe queretur affe ettus ille. Duas autem habuere apud Latinos,totidemapud Græcos terminationes:in Iuus,actiuam.in llis,paffiuam:ficGræci il yaixovgimas ilaj id quod aptum natum esset ad fentiendum ali quid: angoy, id quod aptum natum esset ad sentiendum ab aliquo. Praue a Barbaris ex vo 9" ces translatæ funtin Latinitatem: fic enim inter pretati fuere inscriptionem libri Aristotelici, de Sensu et Senfato,nam danas fenfus eft:MjIyTixdy, 19 quod sensu præditu eft.eoģ. aptu est vti: antov, etsensu perspici potest. De Seluo et Sęsilidicen du fuit:aut molliore, fi reperiaş vocabulo, led ad huns fo THE T' Iul. IIII. 1 hunc modulum apto: vtin libro de Inscriptione a nobis declaratum est. Nam etfi Sensio passio quædam est, tamen fub actionis rationem rece pta eft eius fignificatio:vt Tango, etGusto, et Audio: fed de hisalibi. Adiua igitur terminatio Græca maximaprudentịa constituta fuit. affinitate quadam coniun et a cum verbis illis, tunie's Bitntio, vt affeettus a verbo, et aptitudo a nomi NE TUTTIXO, MyTixo habeant cognitione. Molli® tamen ducas a præterito,quasi lita tuuni (W TRT imy napixov. Noftriin suus,vt diximus, hoc expreffere, fumpta occasione ab Aeolensibus. nam quædam nominadedu et a communi pronuciatione inter posito pprio elemento pronunciabant. Apybos alii ipfi A'PȚEIFO £. Igitur vt ab eo quod eft vetes, dicitur vorcios, quiAuftrivim habet: fic ab cog est,Actio dicetur A et iuus, quiagendihabeatpo testatem. Exempla sunt multa: Internecium bel lum vtrunque bellatorem necat. Fugitiuus ser uus, qui fugit, quoniam fuapte natura ad id pro pensus fuit: Genitiuamembra, apud Quidium, G' zfurntixa. Tempestiuus quoque,non, vt dixe re, significauitoccultiorem actionem:sed fane fu augsmanjitis.qui tempore temperaret. At enimuero passi Boilers Winesquum qua ratione diet um fuit? Terminatio a et io has un talles qui mal nem,pafsionem notat significatio. Græcos male Hrovat secuti suntqui ad Innuov,potius zaIntov.nam pas fiuum eritid, quod faciat aliquid pati:hocautem fuerit potius actiuum. a ettio enimetpaffio quum vnum tantum fit, sed differat ratione: vt vulne ratio a ettio fit Achillis, et paffio Telephi: pafsiuu et actiuum idem erit,quoniam et fignificatio est eiufdem huis ciusdem rei, et modus idem: Nam et terminatio in luus, significat actionem, et ipsa passio ab a et i one non distinguitur re ipfa: igitur significabit rem ipsam in agente. verum Grammatici sero fapientiam cum vocabulorum vsu coniunxere. Quævero significant passionem, in llis exeunt, 1 ks præeunte secundum verbi naturam consonante: umie vt, Habilis, Facilis; Agilis, Plicatilis: in quibus ele mentum verbianteit:Habeo, Facio, Ago, Plico. Quædam autem a futurisducta sunt:vt,Amabin lis: et a fupinis:Pensilis,Flexilis, non fine rationes aptitudinem enim significarunt, quænon est ne cesse vt in a ettum producatur. Acrecentiores au dacter nimis iam actus significationem attribue re, idq; frivolis faneargumentis. Fictile,inquiut, Vas quod eftiam fictum.coctiles lateres,qui iam ecoctiatque alia multa eiusdem modi. Auxere er rorem pertinacia: Navis, aiunt, Agrippinæ folu tilis,quia non beneeratconfuta, sed soluta. hoc autem ridiculum eft.fcimus enim etfatis nautaru continuisse: et diu cursum vsquein altum tenuis se: fed quia lolvi poterat, folutilis diet a fuit. Sic Versatilis scena, quæ verfari potestmachinis,qua lis illa Marcelli fuit: quod si est Versatilis quia versatur: quum nơn versabitur, versatilis non e rit. Sed Aristotelesin nono Metaphysices dispu Cat hoc adversus Euclidæ sectatores,quos ibiMe garicos vocat: ij fic profitebantur, nonposse nos moveri nisi quum movemur. Verum de iis am $ pliusin Oratione de Endelechia pro M. Tullio. Quaitem ratione facient, vt vpupæcrista ipfis fa Veat? neq; enim semper plicataeft, sed quia ali 21 quando poftquam fuerit ere ettasplicaripotest.Fi Etile autē,atquealia eiusmodi, fi talia funt,nonne talia fieripotuere?Omne.n.quod est, ab eo g vere est, factuin fuit:Omne quod est,præter Deum,ab aliquo fa et um fuit:omneq fa et um est, ab aliquo fieri potuit. Coctileslateres dicuntur,quia crudi neousfic primum suntappellati, quoniam coqui potue re. Sic Rafiles calathi, et Tapetes, et alia:Lychni pensiles, antequam pendantur:potestatem enim pristinam fignificat: fic Vva, Balnea, Horti,quo niam in superiora eorum vfus transferri potuit. Flexiles rami,lenti:quia possuntfle et i.hæcvoxe tiam additamentum paffafuitin formatione, Fle xibilis.Aurum,autęs ductile,quodex massa in la umellas duci potest. Selfileslactucæ,quarum natu ra est ad fedendum poftquam creverint: vbi ab soluta significatio eft; non transitiva ad paffionē, quasi quas sedere cogat natura.Ansatortilis, quæ inter fabricandum ex directa torta facta est. "A. pertile latus,quod quiuit aperiri. Altiles gallinæ; quæ poffuntet ali, etnon ali. Horum igitur ratio shup duplex:namque poteftas hæc, aut a naturaest, ve flexilis iuncus: aut ab arte, vt coctiles lateres: er gonaturalis illa vis nunquam deficit: nami ctiam quum flexisuntiuaci;retinent nihilominus pri ftinam flectendi facultatem: coniungitur enim a et us cum potentia, ettales sunt,quia poffunt ef fe. Huiusrei ratio est,quia ab effentiæ principiis fuit potestasilla. Scire potest infans Musica. Ad ultus scit nunquis dicettunc amififfe soiendipo • teftatem?Quæ autem ab arte proficiscuntur,non fic fe habent:neque enim codi lateres poffunt coqui: qñ co et io accidensest, extrinsecus adue niens, non a primordiis laterum. Sed hæc qarte fierent fecuta sunt rationem eorum qfuerent a patura. Sic.n.consultiusfietą garecentiorib.fa. - et um est,vt qa lateres coqui nequirent, idemque in ipsis etcoctum etco et ile effe videretur:iccirco flexilem ramum eundem putarent et flexum: Et fissileroburidem cum fiffo. Nam quu Plinius in quit, Alia fiffilia,alia celeriora frangi, ğ findi:no neintellexit,aptiora,quorumquenatura præuer teretur citius fractione, q fiffione? Sic etiã Theo. phrastus,vndeille guisa'y Frasa,Ipausa,quæipfeac ceperat a præceptore diuino fuo, vbiloquitur de crustis ac testis Aquatilium. et in 8.Metaphysices. Poetica licentia dictum est, Penetrabile active:(1-7 ) cut Porrum fe et iuum,vulgus cotra paffiue.Hing constat male reprehendi Boetium a curiofis re centioribus, qui Jencesıxov, Kisibileinterpretatus, eft. fecit enim exemplo codem et analogia, qua Sefilis lactuca dicitur, absolute. Quantitatem autem quædam simpliciter de- quanta clarant,quædam non.Nam tempus,et locum submenuanla quantitate quum intelligamus: Tempus fimpli- Gadone anom citer quædam fignificarunt:vt Bimus. at locum non simpliciter,id estsub quantitate,fed fubindre com a apk Posen neque enim Montanus,eum significat,qui mon- et Ettiva. tis inftar eft: fed qui montem habitat. ficut In- midogopts teftinus loci habitum.Hæc multas cu aliis comu nes habuere terminationessin Anus Sylvanus:cu Anul ius affea propri fuit,vt ex adie et ivo fieret sub N ftantivum,Cælestis:Terrestris: addito elemento ficutPalustris:nam Paludeltris, afperum eft, et for when fortasse barbarum. Supra posuimus, Aquaticam, a qualitate non male: fequitur enim qualitas sub. ftantiam, et loci rationem.Cognatio enim eftin ter locum et locatum. ac fane ipsum hoc genus, to egetv, alij cum qualitate,alij cum relatione mi scuere: quidam neque habitum fpeciem qualita tis a relatione: fed hæc sunt alterius operæ. Habes and ctiam alia: Litoralis,Marinus,Maritimus, Pelagi us, Fluuialis, Fluuiatilis; Aquatilis;Tartareus,Ae rius, et eiusmodi. Et a partibus terrarum, in qui wfubus etiam id diverfum fuit: in Ensis,vt peregri num incolam,non indigenam declararet: jane Martialis mavult librum suũHispaniêfem, quam Hispanum:vt Romanus sit,quiin Hispaniam a nimi gratia diverterit. In aliquibustamen Nati vum est:vt,Veronensis. longediversa ratione di etus est Cato Vticenfis,quum Vticæ periit, non " est natus. Etampliorelimite, vt Pratenfis. ficut Subcinericius panis, non ex cinere, sed sub cine re:adiuuatur autem a præpositionc. Græca funt Tarchaniota, et Drotoniata. Prisci ita constitue re, vtanimadverterent, quædam excedere nome " loci:Creta,Cretensis: quædam non,fed alia equa re: Macedonia,Macedonicus: quædam fupera woonri,Italia,Italus. Hæca regionibus. Aboppidis au temnegarunt. Itaque a Venetia, Venetus:a Ve netiis, Venetianusmaluere. At Barbari quidam nihil discriminis faciunt inter Venetiam, et Ve netias. verum vt illoruin consilium placet, Venetiani enim a Venetis distinguendi sunt ficuti Patavini a Venetianis: Veneti enim Patavini quoqrie funt: ita regulæ fervitus displi cet. Idem enim ab oppidis quoqueeuenit: a Ro ma, Romanus: a Tiferno, Tifernas:a Camerino, Camers: quare a Lauinio oppido, etLauina et Lauinia reette ducas. nequeagrammaticis vtrum legendum sit apudVergilium, sed quemadmo. dum poeta fcriptum reliquerit obseruandum, Proprium horum est paticoncisionem. Sarsinas, quod fuerat Sarsınatis: et literas transferrc:vtä } Velitris, non Velitrenus,fed Veliternus: quan quam demptam potius iudicarim, vt fueritVeli trerinus, deinde vsu vox expolita sit. Exhis col ligitur non esse verum quod aiunt,in Ensis ea ef se, quæ a Græcis oix aquatixa vocantur: namety, iam suntinindigenarum, Coloniensis,Lugdy nensis. denique pratensis, Tempus autem etTeporis partes, fic Extem- thoma poraneus, nam Tempestiuus,vt diximus,potius omny temporis habitum significat. ficut Intempeftus, upil quod concisum tempeftiui. Hora, habetHora rium,quum diei partem fignificat: atGræciqua ternasanni partes sic appellarunt. vnde Latini Hornum, quod huiusanni effet,nequcinalienas trasıfset wpusanni sequentis. Diurnus,a die:No. aurnus a nocte:Vespertinus,Matuținus,penulti ma producta.itaque etiam Diutinus et Serotinus pronunciandu eft,cotra quam prodidere. A Co ticinio, et Diluculoet Crepusculo, no suntdedu et ta, fed Aduerbiorum forma vtuntur. Perdius, et Pernox cöpofitione adiuta sunt,quominuscoge rentur in communem terminatione: ficut igeue por animal dietum ab Aristotele. AMense vulga ris voxMenftruus,durafare:itaque emolliuitilla Rj. Cicero; et Mens urnu fecit. Annuus no solum an ni habitum significauit,vt reditum statum indi caret:veluti quudicimus, Annua sacra: fed etiam totu tempus idque vnicum:vtapud Iureconsul tos, Annua; Bima, Trimadie, Anniculus ætatem subtempore,ficutQuadragenarius, etciusmodi. mamme Discretam autem quantitatem fignificant his terminationibus, Centenarius, Binarius, Terna rius, quæ etiam fub exerreduximus:neque enim Som solum numerum, fed etiam habitum ponderis, aut ætatisaut, ordinis connotat, resenim valde sunt complicatæ:ncquenisi a philosophis digno sci plane possunt,ficut Bini, Quaterni, eteiusmo di:quæiccirco carent numero lingulari, quia plu racomprehenfa ad totidem referunt: sed licentia poetica pleraquetorfit. Relatinorumfpecies recenfentur. yawan R ne, enim Elatiuum fignificat vt diximus, aut Aqua Locum,vtfalso lcripfere: fedRelationem in loco. Aut Inæqualitatem: hîc suntipecies tres, Poffel fiuum,Coparatiuum, et Superlatiuum.Deminu tiuum autem comparatiui species eft: dequibus omnibus iam cdicendum. prorsun Den funt enim Po hleffiua quæ id denomi Enominatiuorum species censentur Poffel grice unt,cuius funt:vt,Enfis Casarianus:Ac quzfitu quidem alias a nobis eft, quamnam ad cauffam iwia prion reducentur: nam Cæfar enfis sui nequemateria est, nequc efficiens, neque forma: videtur igitur juv. potius effe finis. Sic Pompeianus ager, Seianus equus, in vsumPompej, etSeij. Sic Olympij ludi in honorem Iouis eo cognomento: fic Circen ses,et Megalenses ad Pofteffiua redigendisunt:fic Florales, et Robigales et Saturnales primum fuc re, fiue Dies, fiue Ludi, fiue Vacationes. deinde tenuit consuetudo,vt potius Robigalia, et Satur nalia dicerentur, propterea quod honeftiorcco filio Sacra,quam Dies intelligerentur. Quzsiui mus illud quoquc, An amateria: vt,cretaceus: a shorti forma:vt,ftatua Herculea:ab efficiente: vt, Venuscm art. Appellæa: ducerentur. Et non videtur: fed fim. pliciter Denominatiua funt: ac quanquamvide tur quædam relatio, tamen non correspondent. Neque enim Creta Cretacei eft,fed parstorius. Haud enim fere inuenias præter Deum, quod non aliquo modo referatur. Omniaenim faltem abillo dependemus:Solus enim vere eft. Differunt autem a Patronymicis Poffeffiua: 94.c. primum quod Patronymica fixa dicuntur, hæc pohorito mobilia:illa patrum,aut auorum,automoinoge, neris habent fignificationem:hæc cuiufuis rei no tæ funt: illa a propriis,hæc a communibus. Ex quibus colligi possunt rationes, et cauffæ repo nendarum specierum, quæ funt a veteribus pro ditz. Neque enim aut Cardiacus, aut Mathematicus, aut ciusmodi, funt Possessiva, vt putarunt, sed denominaziwa: sicut et alia quæ funt fupra enmoi declarata. Comparatiuorum superlatiuorumg, natu, ra, et caulja, da ufus. St hoc receptum e scientiis tain quæ Magnitudines, quam quæ Naturam contemplantur: e nihilo nihil ficri. Ita e rebus, quæ carēt cor pore coniun et is,nuquam quicqua corporis fieri, Nam ne coniungiquidem poffunt, Coniuncio enim extremorum, extrema autem corporum, Quere a incrementa fiutex Quantitate, et omne Quantum divisibile est in semper divisibilia, incrementa quoque ipsa diuidentur: igitur quæ sifignificarunt quantitatē, primo receperuntmodu tum incrementi, tum diuisionis. horum imitatio neitemea, quæ indicarent Qualitatem: propter ea quod intendiac remitti poflet. Iccirco De nominatiuorum, quæ referuntur, duæ fuerespe mihi cies conftitutæ, Comparatiua,et Superlatiua,quę QuantitatisQualitatifve, dicerent incremetum: etDenominatiua, quxincrementidicerent cer tam ablationem. Oecurrunt autê primoloco deminutiua: lirei naturam fpectes. pofito enim nomine Iustitix: fiquid adiungatur accessionis: perpropiores gra 'dus ascendemus ad excessum: Verum quia non suat specie diuerfa a coparativo, Ted modulo tan tum quodam, atquciccirco posterius excogitata posteriore loco tractanda iudicauimus. Etenim fi dicas Meliusculum effe Triticum Siligine, et iam Melius, poffis dicere. Comparatiuum autem etSuperlatiuum fimulftatuemus, haud enim ab Gmili funt natura: Nequcenim distant nifi quate Ono 1 nus pars a toto.vt quemadmodumDeminutivu modus sit comparativi, ita coparativum Super latiui: vt qui sit doctissimus, etiam doctior. An vero etiam possit dici Doettiusculus? Et videtur. Amated Toto enimpartem contineri verum eft. fi enim qui lit do et ifsimus, etiam doctus effe dicitur: et iam doctior:quare non etiam doctiusculus,quod * inter docum et do et iorem intercipitur? Verum res aliter fefe habet. Deminutiuum enim non fomnono lumpartem notat, verum etiam eicertospræscri-1} bit limites. Nequevero solo hoc differunt: fed et alia caussa subest. Nam superlatiuum etiam abse }, lute poni potest:vt, Cafar fuitfortiffimus.Signi ficat enim adeptum fortitudine, omnes eiusnu meros absoluifsc. Ar fi dicas, Doctiorem,neceffa rioquempia, quicu coparetur, autponas,aütin Je * a he or lacus * telligas.Prius autem cöparatiuum inuentum eft. kogoofmus Eft igitur Comparatiuum species diet ionis, Camper exceffum significans ad alterum relatum. Dicom autem quantumcunque, et qualemcunque ex ceffum:non, vtdixere,mediocrem; neque dico speciem nominis,utnomen eft:fed vt nomen est6ans species dietionis. NametParticipium et Præpo sitio etAduerbium comparantur. Hi duo erro res veterum fuere: quorum alterum moxexplica. bimus. quiverocontaminauit definitionem, fic conftat:Omnem exceffum totumq;etiam a comasign.one. paratiuo significari,non autem mediocrem. Prier celles mum, fallumestmediocrem effe. poteft enim fal-, tem citra summum,sed proximecofiftere: vt do ettior tantu fit,cuiillud tantum desit, quod fit do et iffimus. Deinde hoc quoque falfum est.Nam 2 R iij. qui qui fit do ettiffimus, ide etiam do et ior dici poteft. vt Nigidius aut Varro,li fitdo ettiss. Romanorum omniu, nonnedoctiorcæteris Romanis effe po terit? Quare Coparatiuum a Superlatiuo non di Itat specic,vtdiximus: sedestaut Gicut pars in to Pro,Giuc ad totum: aut idem cum ipso in re, diuer sam autem in modo: relatione ipsa scilicet. Igitur fi eius naturam acrius contemplemur, haud fane noriurpro renomen inditum deprehendemus: ncque in your enim satis ipsum diciCoparatiuum: multa enim funt nomina Comparatiua, quippenotæ Cum parationis: multa Aduerbia: vt,Similis, Disfimi lis,Propinquus,Qualis, Quantus,Velut,sicPomba alia eiusmodi. Neque vero omnis Comparatio exceflum significat: quarcab hac differentiapo. tius nomen consequi parfuit, quam a communi seyin est cummultis naturailla. Itaque commodiusumaga Jepanon, quam quyx stixovappellari potuit. Ne tuy queenim superlatiuam recte a Græcis umeeJeri Laith ar di et um fuit, Nanque Touti non significat rdõrov, fed ipsum habet suos gradus: sed consul tius orogetskov, aut cxpo Jetixo.Latiniautem hoc etiam amplius crrarunt,quineque præpositio nem emendarunt, et verbum Feroinmiscue runt, quod motum significat Græci fapientius constantem qualitatem aut quantitatem per ver bum nibvert ita ctiam constat, minus prudenter finixov dictum nomen vnde hæc fiant, vt Iu itus:nam ctiam Iuftior, tugmor: ftatuit enim lufti tiam. Cuius rei fignum est, quod etiam superla tiuum di et um eft, ni devou umrig mod Jetixov.præter ca quiluftuseft, potest elle lastiffimus. Omnem enim wak Tic CHE 4 1 ITA enim Iuftitiæ habitum habet. Itaque a beisov po -u tius dici debuit Indefinitum. neque enim decla rat graduum præscriptionem, Comparatiuum autem, wieJetixav superatiuum. superlatiuum autem, airgo fetixor a Græcis, a nobis aliquo AQ mine, quod vltimum exceffum indicaret. Ex his definitionibus videmus, veceres nore ste dixisse, Cöparativum significare pofitiuum, cumMagis. Primum peffimelocuti sunt. Nequem.Roy enim Denominatiuum fignificatnomen, vnde: ducitur, sed rem aliomodo: fic Comparatiuum rem, non nomen significat. Deinde,Magis, esta Comparatiuum: quareidem refolueretur in sei psum,atqueelset resolutio infinita.In quod enim refolueretur ipfum Magis? vbi fifteret resolutio nem? Neque vero prudenter negarunt, Magis namate effe coparatiuum. NamMagnus fecit,Magnior mangeung Magnius et Magius, ac tandem Maius. Aduer. biumautem volueruntvariare,retentalitera pri stina, ac fecerc, Magis. At quod argutant, non differre Aduerbium a neutro in aliis: fatemur. » Quodaddunt, nein hoc quidem esse faciendum: ridemus. Libenter enim in aliis item feciffent, f quiuissent. Fecere, vbi potuere, vsigue sunt et li bertate, et commoditate. Errarur quoquein Su perlatiuo, in cius intelle et u inesse Multum, auteng Valde. Nam multum magnusest, cumquima ior, quam qui maximus. AtValde, quideft, nifi falling Valide? Igitur Validiffimus erit valide vali- posten dus.Bisigitur validus. At Superlatiuum ter vali-'pro for dum potius fignificat. Id quod Galli ncq; temeres, neque imprudenter in patriam linguam recepta TI Title ch eri des 17 oli pe mit Riiij ctiam nunc retinent. Hæc igitur ipsorum nomi na atqueNaturæ: nunc caultas,ac tandem Affe ettus videamus. mafm. Ergo materiam a Græcis mutuati sunt Lati niin Comparatiuis, imitatisonum sub r, licera: ououtrgos,Sapientior: et in Aduerbioadhuc propius, sapienter, superlatiui autem terminatione græcam repudiarunt, propterea quod conue niebat cumpaffiuo participio, Nam vt a ocoas's CWTOC TOs; fic ab eo quod est Incitus, deduxif sent, factum esset fane incitatus.Itaque alius fle xus placitus eft. Geminarunt autemlibilum fic, Incitissimus: iccirco quia etiam Græci produxe re mutatam vocalem, quæ esset breuis postbre uem, vt fuperiore in exemplo patet. Tractus e nim vocis longioris id exigere videbatur. Quare codemexemplo etiam aliam terminationemco ftituere,Vberrimus:tanto facilius, quod iam alte ram literam ex geminatis ibi inueniebant. Atin tertia terminatione,quare recentiores vnica tan? simtum liquida pronüciarunt,lic, Similimus? quum tamen proprium eius fuerit geminari obfoni le nitatem, et producatur apud poetas semper, et in antiquis exemplaribus omnibus ita scriptum çit et fublit, tum analogi, tum analogiæ cauffa, quare lit geminanda. Communis autem termi. nationis caussa etiam a Græcis quandam habuit originem: ngoQocov enim eftaltile, quod scilicet naðum sit naturam, vt alatur. Naturam igitur cam quum plene poffideret, mutauit fimilemlo zoubt num aliis quæ summum illud a depta effent. Fiut forro igitura nominibus incrementum luscipientibus. Ha? Qua  el 2.0 CE 2u chi HIS Quare a significantibus fubftantiam non fient: nam aw to CTO etIpfisfimus, mera licentia Poetie: ca fuit. Natione vero indicantia ita demu exorie tur,fi non ftatum hominis, fed gentis oftendent mores: vt quia Pani perfidi legemusPæniorem apud Plautum. aut etiam ab alio significato. Qua re et, Neronior,nö a Neronis fubftantia, fed a fæ uitia comparabitur ad fignificadum. Confeffum etiam ab omnibus est, Comparatiua duci ex ad verbiis quibusdam: vt, Dodus. Nec deest ratio: verborum enim qualitatem fignificant Aducr bia. Abcæteris autem partibusnegant. A partici piis non fiet, qui tranfeant in nomina, nequea» Præpofitionibus,quiaamittant vim, qua casibus præponuntur. Nos cum his aduersus veteres di cimus, a verbis non duci, Exempla enim falla mort Deshomme sunt: Nam a verbo Potiri, eftridicule dedu et um Comparatiuum Potioret, Superlatiuum Potiffi mum:neque enimsignificata valde cohærent.fed a Potis,fiue Pote, fiunt. Parinscitia, quum Dete ro verbum ex sese aiunt gignere Deterior: quip pe Deterior, paffiuam habet rationem significan di,vt quod fit plus detritum, deterius sit. etvox vetufta fuit,Deter: sicuti,Dexter, Citer, Exterja pud Catonem, et Statium:quæ nunc exoleuere. Contra hos autem cum veteribus viciffim fentia mus, A participisduci:Giquidem non omnia par A partir ticipia in nomen tranfire poffe. nam Expugnare significat aettionem fubtempore.Cuifi addasca fum nominis non verbi, amiffo tempore nomen fit, retenta sola Participii terminatione: vt, Ex. pugnans yrbium,sicut Expugnatoryrbium,nul R. mi 12 Ar 1 UK ei 1 gui apoirs F IvL. Cas. SCAL. IV. lum tempus designat. At Participia pafsiuaquo *modo nominum naturam asciscant:neque enim fimili ratione casus nominis apponipoteft: itaq; Expugnatum, semper præteritum indicabit. Et Honoratiorem atque Honoratissimum, nunqua de aliotempore, quam de præterito pronunties. Immo vero quibusdam horum nominum ctiam casus verbiadditur: vt,Expugnatus a Cæfare:ita etiam Expugnabilis a Cæfare: tantum abeft, vt Participiis ipfis derogari id ius poffit. Sic locu. tus eftM.Tullius ad Cornificium: Cæteris, in quit, omnibus rebus habeascosamecommenda " tiffimos: id eft, qui maximea me commenden boyme sur. A Præpositionibus quoque deriuari, mul tus exemplis conuincuntur, in quibusmanetvis Præpofitionis casum exigencis: vtapud Liuium in primo: Duo corpora propius Albam. Neque ac fine ratione: Interuallum enim in poteft: Cuius interualli conditionem ipfa Pra positio declarabat. Ex quibus,vt diximus,acutius contemplanticonstat: Comparationem essedif ferentiam, quagenus sub diet ioneconstitutum compleet itur non folum Nomen, sed etiam Ad uerbium, et Præpositionem, et Participium, quæ inter fedifferunt specie. Idemque de Superlatiuo intelligendum. Affe et usautem corum vsu cotinentur,verum non fine controuersia. Cum enim ncget nemo casum Sextum debericomparatiuo, Secundum Superlatiuo, etpluralem semper numerum: Du em Jochorbitatum cst, An pluralis casus Secundus Compa: patumivaziuo apponi poffet. Quarc non defuêre, qui Com partes fecari 3  Es, AC Comparatiuum inter duos tantum, cum Secun do cafu ponipofse contenderent: idqueHoratii exemplo, quidixit: O maior iuuenum.Sextum au tem inter plures duobus diuerfi gencris: vt Cx far fortiorGallis.Nosvero sic fentimus:Compa se ratiuum cum semper aliquo modo referatur,non semper tamea ad fequentem referri calum: fed ad eum qui subintelligitur. Igitur fi dicas, o maior iuuenum, dire etta orationcad duos Piso nes, non redditur casus ille fecundus Compara tiuo. Neque enim fieri poteft, vt alter Pisomaior sit, quam Gnt iuuenes: fed refertur ad fratrem alterum fic, alter iuuenum, quialteromaior es. Sic etiam dicimus explicatius: Elephantorum Indici maiores Afris:etiam fi Afris, fubticeatur, constet oratio. Exponitur autem ad hunc mo. dum: Elephantorum alii Indici, aliiAfri:quæ* rum Indici maiores Afris. Sicut ergo cafusille Quorum, non eft Comparatiui, sed Distributio-4, nis: ita erit in exemplo quoque fuperiore. Ex hac natura constat ratio, quare poni qucat cum præpositionibus Inter, et;Ante: vt Inter alios, dodior. Ac sane quum in comparatiuoduofiat, Relatio,et Excessus:præpofitio Ante,non abhor reat ab cius natura. Altera vero quæ eft, later, languidiorem operam præftat: nisi enim mul. ta luppleantur, non exprimit vim exceffus,fed potius æqualitatem: vt, Cicerointerciues fuos do et ior: potius enim tendit ad Naturam abfolu ti, quam comparatiui: nisi subintelligas distribu tionem ad fingularia, quemadmodum in Se cundo calu exemplorum, qux fupra diximus. Guin's 21 20 file HT ni CO cre 264 Ivl. IV. و suplalincuius Secundi cafus natura partitionem item di anstpantsheitin constructione Superlatiuorum: quæ fuerit cauffa, vtsemperinter congeneres fiat significa tio. Quæ vero patiuntur, quæquedistribuuntur, eiufdem generiseffe neceffe eft: quemadmodum fi dicas: Cæsar clementissimusRomanorum: in telligitur Cæsar vnus e Romanis, qui aliis cle mentior fit, quoad fieri poteft. Quare videmus eorum,, porn siccum Superlatiuoponipolle. Si enimdicatur,in quiunt, Cæsar do et isfimus omnium: Cæsar non excladitur ab ea vniuerfitate,quin vnus omnium fit:igitur fieret, vt fe quoque efter doctior. Atque hi falli sunt:cum non intelligerentSecundiillius cafus partitionem.Idem nanque eft, Do et tiffimus hominum:et, Do ettiffimus homo. Comparatiuu Wero cum Sexto casu ne fic ftatuas,quemadmo dum poctæ tum Græci, tum Latini ausi sunt: Cun et is doctior. hic enim fit relatio do et rinæad cun et os: non autem fola partitio fine compara tionc. Itaque vocem excludentem addendum est, cuius vires comparata excipiatur. Id quod fecit doctissimus poeta: -Ante alios immanior omnes. addidit enim Alios, nesub'voce Omnes, Pygmalion quoq;comprehenderetur. quãquam idem alibisubticuit,cum fcripsit: Sed cun et is al tioribat Anchises. Præpofitiones igitur ipfæ at tulerunt vim partitionis,non folum Ante, et in - ter,sed etiamEx: vtapud Liuium primo: Sextus filius eius, quiminorex tribus erat.non enim po tuitdici, Minor tribus. Tres enim tantum erant: ipfe enim secum compararetur: effetque feipso. minor. IT IL 19 Ulo minor, Illud etiam aduersus veterum fententiamgoo eft animaduertendum: Siad secundum illum ca nefna fum referatur Superlatiuum: aliam quoque ab iis, quas supra posuimus,cauffam esse,propter quam illi fuperlatiuum maleinterpretati suntperMul tum et Valde: neutrun cnim horum aduerbioru refertur. Poftremo id quoquefalso eos prodidif se constatGræcos, arrogantia quadam commifif- fotbal fe, vt non niliadidem genus Superlatiuum refca he latest ratur, quoniain præ se vnis, cæteros omnesbarba ros appellassent.Atenimuero in suatantum gen teid obieruaffent: nunc vero videmusetiam in ter Barbaros legis rigorem tenere. Sed in cauffa, vt diximus fuit, Partitio acDistributio. Itaque hoc loco, vox hæc Genus non solum gentem aut nationem indicauit: sed etiam diffudit significa tum ad aliamulta:putamores,artes, et eiusmodi. Dicam enim, Epeum Tolertiffimum fabrorum. hu Sicin primo de Oratore M. Tullius, de Craffo, et 13 Scæuola; alterum parcorum elegantiffimum, al terum elegantium parcissimum. Neque enim ad Due diuersa genera relatum est: in vtroque enim erat elegantia cum parcitate.At Martialis in duode 121 cimo,multo effufius: Pones, credemihi bonus.quidergo? Vt verum loquar, optimusmalorum. Inter " as bonos enim et malos nullum commercium eft, contraria nanquesunt: sed suo more lusit. Neil lud quidem reće prodidere,Comparatiuum po- comeframtiden ni aliquando absolute: semper enim habet ali o quid, saltemoccultæ, relationis. Sic seniorem A celtem dixit Poeta: aut quam alii, aut quam fue. M WW ! LOG Sert rat, aby mirat, aut quam videretur: tantum abcft, vtminus Ignificent, contra quam scripserint: exemplum enim Vergilii, Tristior,deVenere, fignificat cam plus quam tristem. declaratur id tum lacrymis, tum dolore qui exprimitur in conqueftione. Multo vero minus significabunt contrarium:re latio enim est inter participantia igitur: Mare Ponticum qui dicunt effedulciusceceris:non in telligendam proponutamaritudinem, sed dulce dinem miftam in omni mari, in Pontico autem maiorefluuiorum incremento, neque enim ma re extremæamaritudinisest: igitur contrarii,hoc eft dulcis admiftione remiffum. Quod autem in Sarahithe mari firaqua dulcis,in quarto historiarum decla. ratum eft.και πτιμω τρέφεσθαι τεςιχθυς. Sic etiam Theophrastussenfit, et verum est.Eodem modo locutus est Philosophusin codem quarto: nati προνο επτο οξυ των πυθών. Nii enim το οξυ ha beretlatitudinem, non dixisset WAKTU TEQOY, Et idem neuxonege dixit, quæ effent minusnigra, colores enim inter fe mutuo congressu diluunt pitorem. Etin o et auo comparauit ourgov, cum aniru. Lombate a Hisitaconstitutis, intelligemus cuenire poffe sobysi valvt Comparatiuo Superlatiuum excedatur:non sua natura quidem, fed ob fortuitas rationes: quum enim Cæfar vnus e Gallis non fit, non dicara Cæsarem Gallorum fortiffimum. Igitur si non omnes numeros fortitudinis expleuerit, nihinter Romanos: fic dicam. CæfarRomano rum fortiffimus fuit: Maximius autem fortior. Fit enim hoc,non natura Comparatiui, sedquia additur Natio.itaqueliquisapponatgenus, qua professio fiuears, fiue scientia comprehendatur, non poterit abvllo excedi Comparatiuo: veluti quum dicam, Bellatorum omnium fortiffimum Maximium. Huius rei cauffa eft in Radicibus philofophiæ. Siquidem primum perfeet umque moi duplex eft: quippe aut vere,et quodaiuntapuwosoaplicate vt Deus:aut in genere, vt circulus: eft enim suo e tantum in genere figurarumperfe ettiffimus: ic circo extra genus fuum altericomparatus inuc nietur inferior. Atprofessio est affectusgeneri cus, comple et ens variaaccidentia,velgentium, vel nationum: itaque comparari porro non po terit. Nam Bellator eft affectus hominis, nc quecoercetur potius limitibus Romanis, quam Germanis, ac proptereatota fummam exhaufit. Quoniam vero, vt dicebamus,hi tractus incre mentorum gradus habent suos: iccirco ctiam multos Longue's notas excogitarunt, quibusvel Comparatiuum, vel etiam Superlatiuum ipfum augeretur:vt, Longe, et Multo. Nam etli Superlatiui significa tus summus est, non tamen in pundo versa tur. Vt etiam hinc appareatleuiffimapugna Grammaticorum, qui ex poeta litigant,anpo tuerit ab eo dici, Diomedes Danaûm fortiffi-,, mus: quoniam Achilles fuerit fortissimus. Nam ctiam Aiax fuit fortiffimus: etiam alii effe potuere. Quare illud quoque a veteribus omis lum fanciamus: non folum in diuersis generibus, sed in eodem quoque duo Superlatiua pofle ita comparari, vt alterum reda ettum in Compara tiuum fuperet: fic, Fortiffimus M. Manlius etfor EMI > Si opy ire fak et fortiffimus Sicinius Dentatus, et fortissimus Scæua Centurio C. Cæsaris: at Sicinius vtroque fortior. Vtrum vero e reipta ita ortum fitan v. 20fu occupatum, quærere operæ pretium eft. Nam fi fortissimus est, qui omnem ambitum explevit e fortitudinis; multi effe poterunt fortissimi, sed nemoalio fortior. Quare cõsuetudinepotius,at que opinione fa et um eft,vtita loquerentur:neq; enim statim erat omnibusnominibusfortis, qui fortissimus creditus est. Ergo alterum cum ani maduertissent meliorem, non omisso priore iudi cio, coparationem addidere. Nam sane aut prior non erat fortissimus, aut fecundus non erit for Chung tior. Nonsolum autem gradusipsi conferantur, vt doctior, et multo doctior: fortissimus, et longe fortissimus: sed etiam diuerfa significata inter fe: poffum enim esse fortis, et non tam doctus:ergo cro fortior,quam doetior. Interdum igitur exx quo ponuntur perinterrogationem: interdū no exæquo per affirmationem: nam Interrogatio dubitat: itaque ex æquo proponit iudicandum, non ftatuit: affirmatio autem non quit duo Com de web vooraf sparatiua inter fe collata æqualia facerePrimo. modo locutus est Cicero in secunda Philippica: Impuriorne, qui in senatý:animprobior, qui in Dolabellam, et cætera. Alio modo omnesloquu tur, Cæfar clementior,quam iustior. Nam quod addunt Magis fic: Clementior magis, quam iu Atior: Qullum autorem habent, quem adducant, In hunc enim modum foluitur oratio, Clemens estet iuftus eft: fed Clementia est maior quam Iustitia: Iustitia non eft maior, quam Clementia. At met 2JUK curt 18 2: m 04 Kic At Comparativum si vtaiunt,significat Positivū, cum magis resolvatur Comparativum in eorum oratione, fient fane ridiculi: CæsarClemensma gis est,quamiustus. Nam quod poetæ dicunt,Ma gis,atque magis:idfit per avadianworr: sicut, E tiam atque etiam. hicautem hocnon quærimus. At non addidit Livius in libro duodetricefi mo: Vt propiusfastidium eius fim, quam desi derium. Quoniam vero vsus etaffe et us reru, substan tiam earum naturamque demonstrant, manife -wwgegebenen sto colligimus, Magisesse Comparativum, çon traquam, vt diximus, sint arbitrati. Id enim ex o rationisvsu patet, quum dico: Hoc volo magis, quam illud. Eft enim idem modus comparatio nis, qui in Philippicis apud M. Tullium: Hocci tius, quam hoc. et quo vulgo vtimur,Hoc potius, quam hoc. Ex quo vsu illud quoque a veteribus, tanquam peccatum animadvertamus: quinega- ' come rint, Complures,esse comparativum: dicitenim perangnya Terentiusin Heautontimorumeno: Nemome liorem agrum habet: nemo fervos complures.Et ratio etiam iubet:compofitum enim eftapræpo fitione,et Plus. Quodfi Compluria dixere prisci. contra Comparativorum analogiam: flexionem novaminvexerint potius, quam vocis naturam depravarint. Proprium autem eft Comparativo rum, pati vt Adverbia sonu mutentneutrorumon Maiusenim, vtdiximus,fa ettum eft Magis. Inter dum etiam vtdeficianturpositiva,etaliunde pe nitusmutuentur, tam in Adverbiis, quamin no minibus: vt,Parum yiriu,Minusaudaciæ: Parum Si A, WITH 06 ol Paul ! mo 21 cen 270 Iut. CÆs: Scat. IV. census, Minorepudicitia. Item quomodo aNo. minibus Adverbia fiunt,etcorum affectus com << parandi: ita e contrario ab Adverbiis, Nomina superlativa:vtapud Catonem Nepotem, Sæpissi « mam discordiam. Etficuti quæ a Præpofitionib. ducuntur casus servant suos:vt Proximepontem: ita etiam quæaNominibus,corum Nominu ca sus admittunt:vt, Moræ patiens,More patientissi mus:Similis Neronis,Similimus Neronis. Proprium eftautemSuperlatiuoru, fixa fieri:vt, Pro. ximus, pro cognato: Erapud Liviū libro primo: Proindigniffimo habuerant fe patrio regno tuto risfraude pulsos. Etin fecundo: Necambigitur, quin Brutus, qui tantu gloriæ Superbo rege cxa eto meruit.pessimo publico fa et urus fuerit:Iccir co etiam comparationem fuscipient: vt apud Vl it has Para pianum,Proximior. Sicutautem sunt compara tiua fine superlatiuis,vt Anterior:ita e contrario apud Plautum,a Pene,Penisfime. Privatim autem u proprium est huius comparatiui,Prior,etiam po ni pro Primo:vt in Titulo;de Remnificari: et apud Varronem,cuius verba refertGelliushæc, Quo ties magistratus pluresessent Roma, qs prior ef set. Sed ita accipiendum eft, vt tota lummain duo dividatur.Primus enim vnus est, qui præit: cæteri quafi vnus,qui przitur. Malim tamen abstinere. de, Potissimum, etiam nonnihil obseruauimus. Armm. Restant Deminutiva, quæ cognofcere facile eft: comparatiua enim fequuntur, vt pars totum Att. Deficiunt tamen in plaribus nominibus, veluti in eo quod mododicebamus:a, Prior, enim non duciturDeminutiuu:neq; ab aliis eiufmodi.Hæceft MODE EX est eorum forma et origo. Quodautem pertinet ad cauffam materialem, non inutilisquæstio eft: Quare a neutris potiffimum orta fint, vt non po tius Doctiorculus, qua Doettiusculus, haud fane patet ratio: nisi ab Adverbiis primum ducta in on telligamus.Fortiuscule fecit,vtlitorigo vocis mi it - Jitaris CAP. CII. 100 ota ok > 0 PPLE vilgiu ged Grille bud! TI Nominumaffectuscommunes. Affeet us hi:generales aut,Affe et iones mul, tæ in ipfa accidentium mutatione. Mutatur aute mail.com aliquid multismodis:fed ad duos reducuntur. Nã aut Substantiam amittit, veluti quum e terra fit herbaaut Accidens. Idque fit autin Quanto,va pie deeftaugmentum: aurin quali,gamoiwon Græ ci nominant, noftri Alterationem,voce novaqui il dem, fed elegantissima, etmaxime neceffaria, sut interpretati:aut secundu locum,quidicitur Mo - ** tus.Ergo sicevenit ei,q mutatur.Autipfum fit 2 non erat:cum mutatur substantia: aut in ipfo fit, gnon erat,incremento,et ano:woriiautipsu fit, in quo non erat,scilicetin loco.Suntetia mutatio nesin aliis generib.prædicamentorum.Quin etiã immutaturaliqd non propterfuam, fed ob alterius rei mutatione.vt mortuo Catoni vnico filio, de fat ipfc Pater effe. Etequusqad dextram Cæfariset est constitutus, fi ad læuam transmoueatur: ipfe Cæfarqsinister equo erat,fit dexter. Quib.igitur modis nominum mPombaur accidentia videamus. Sij. Spes  S, Jim odif  Species quidemipfæ non mutantur, vt quæ pri mitiva effet, fiat derivativa:sed alijatq; alijcom. paratæ, eo modo mutari intelliguntur. Amator, derivativum ab Amo, eft. Primitivum autem eft ad amatorium. ut Philippus Amyntæ filius, idem et Alexandri pater. Quoniam vero Primum dici tur, aut quum anteit, ve vnitas: aut cum etfi non VL misen antcit, tamen ne anteitur quidem:quippePrimo comes genitus etiam vnicus dici poteft filius:iccirco rri mitiuum quoque fic intelligiqueathac ratione: non a quo derivativum sit, fed quodipfum a nul lo:hocenim neceffe eft aliquando fuiffe, vt ab a more nihil duceretur. Ita poftea mutavit specić, vt ex primitivo absoluto relativum primitivum fieret.Etquemadmodum primitiva vera no mal tantur, ita vt fiant derivativa: itane derivativa quidem vltima: ab his enim nihil fit, ficut illa a nullo. CAP. CIII. Nominum Genera quomodo mutentur. Omninum quoqueGenera mutantur adco vt privatim librossuperhac re veteres con 2fecerint. Alterum argumentü eft ex iis, quæ Du bia, sive Incerta vocant: fic enim dictum est, hic 3 ex.vel hæc Dies. Tertiumtestimoniumeftin qui bufdam,nam Plautus collum masculino dixit. i. temlubar, Palumbem, atque alia diversis, quam nosvtimurGeneribus esse aprifcis pronunciata. pafit etiam aliomodo, cum attribuiturgenus ei,ad quodminus spectat:veluti quum Masculam Sap phodiximus.Sicquum fæmina sola possit effep gnans: tamen Gravidum equum Troianum, et Prrægnans louis cerebrum,et Fætum eiusdem fe. murdicimus.Sicin in quinto historiarum de Ci cadis Aristoteles, is j'appeves oi Soutes cv alue Doti ρο 5 τοις άνεση. θήλεις και οιεπρ2•.dixit enim θήλεις no Irjaetajo vt significatum eller fæminæ,vocis aute modus Masculi, quoniam dicuntur oi se lizes. Numerorummutatio. Vmeros mutat, vt apudHomerum Irelus Vonino 23 P:1 INCO rallor: et ma 1163 TIVT dicuta Ttur30 eresa Hortensius primus Ceruicem dixit, vtfupra fcri ptum est. Vascones etiam fua lingua Iecora di cunt, quod nos Iecus: et Dorsa non dorsum:fi cuti Pulmones Latini. Figura mutatio. guram mutari,ex ipsa Figurę definitionema tozu ang ta quum fiant,mutari oportetneceffario.Compositor hat tum autem non vno modointelligimus: nam et fascem dicimus e virgis compositum: sicuti An- sirina driam, etPerinthiam iisdem ferecompofitas ora tionibus. Is modus loquendi est vulgatior: alter diac verior, cum dicimus virgas essecompositas ad co dist ficiendos fasces: virgæ nanque suot simul politæ. 18, que Sic Antenorem dixit doctissimus poeta cöpositu quiescețe:quia quibuscum degeret, cius imperiū iis non effet durum. Primo igitur modo non fit mutatioin figuris:nunquam enim quod simplex eft, fựt Compositum:nequeenim Simplicis par S iij. qur! muncia luser hams Titel Mun tes nomina sunt. Sed altero modo, ut “magnum” et “animum” dicemus composita in “magnanimo”, ita vt e simplicibus fa etta fint Composita. Nam quanquam Magnanimum Compofitum dicimus:tamen nonelt ira mutata vox vt priusip sa fuerit fimplex:atipsa Simplicia,exSimplicibus mutata funt,vt fierent Compofita,id eft fimul po fira. Vbi illud quoque veterum incuriæ afcribas, qui fimplex Compofito contrarium fecere: nam *Simplex Multiplici aduerfatur:eft enim Simplex fineplica, vnde Duplicatum dicimus prociden tis Turni poplitem. Hocautem,quodlaxe nimis compositum appellamus, conftat ex iis, quæ squia lunt simul posita, Composita erunt:quia ex multis non constant, erunt Simplicia. Nobis autem vtendum eft vocibus acceptis ab antiqui tate. fapientis vero partes sunt, illam libi faltem emendare C  Persone mutatio. Persona ita mutatur, vt facies mancat in pluri mis, visautem mPombaur. Ut poeta “cano”, “canis”, “canit”. Neque enim vera mutatio est, sfed communis terminatio transfertur, atque accommoda. tur, non mutatur. At in quinto casu mutatur: aftringitur enim legibus secundæ tantun. Cafus mutatio et ordinis. und Vm terminatione casuum costituti fint Or menolar dines atque dispertiti, vt alia atque alia inflexion, sive declinatio dicatur; altera inutato, al terum quoque mutari neceffe eft. Mutabitur.n. a Cafu Declinatio, Cafus a Declinatione: fed ita vt ad cognitionem nostram tantummodo fpe ettet hęcreciprocatio.scilicet cognofcemus quem calumintelligere debcamus, li pposita fuerit Declinatio, Sic declinatio mutabit cafum.Nam vere casus mutat Declinationem, non mutatur ab ea, Verum ne id quidem semper: nam Fru et uis, 9 Jako fucrat,Fructus, fa ettum est: neque tamen mutauit Declinationem: at Tumultus,quum fa et umfuit Tumulti, mutauit. Sic Fames, Famis, nunc dici tur:olim quintæ fuisse, Famei,manifestum estex, Sexta casu, Fame,cuius finalis syllabaproducitur,i Proprium autem eft Casuum etiam alio mutari a la modo. Quemadmodum ambigui vitandi caussa, quum aiuntFęci,diphthongum impofitam, quo differret a verbo Feci: eamqueinde tatinomini communicatam, Fex, Fæcis. Omise a veteribus Affefliones. Vnt et aliæ Affe et iones: neq; enim solum ra tione nominis deriuati; Primitiuum dicitur nomen:sed etiam aliarum partium cauffa. ANo mine enim Nomen, Orbis,Orbicularis: Verbum Sylla, Syllaturit:Aduerbium, Doctus, Docte: In tericeio, Infandus, Infandum:Præpofitio, Circus, Circum: Coniunctio, Verus, Verum. Nominis sus loco aliarum partium A caur S V ti $ iiij. 2 IIII. forma AA Caussa quoque finalialium affectum nacta 24 คน funt Nomina:veluti alias partes transfertur. Pro verbo enim poni tur, vt apu ! Plautum: Qux, malum, tibi isihanc taetio est? Sic ex Thucydide Demosthenes fre quenter loquitur. Pro Participio: Magnificus, pro magna faciens.Pro A duerbio:Lucretius, Al peracerba tuens. Nam timida tuebatur,quippe incutiebat pauorem: itaque eft pro acerbe. Pro Præpolītione:Virgil. Plena fecundum flumina. Pro Coniunctione: Vero. Pro interiectione, a pud Catullu, Doctis, luppiter, et laboriosis. Hanc veteres αντιμερίαν appellarunt, alii μεταλαγα. baciti fubticetur etiam: vt apud Sallustium in Iugur tha:Quæ poftquamgloriofa modo, nec belli pa trandi cognouit. fubticuit enim Cauffa, Græco more,Tēroniev:subticent yaon. Iransmutate tiam in fefe alias partes, quod Dialectici positio nem materialem vocant.quum dico, Propter, est que voxpræpofitio. Vox hæc Propter, nomen eft. more patet apud Græcos, qui præpo Whemi alarmisms Xe nuntarticulum to akce.. fic O e muito me uidius, Sæpe, vale, Osta heti a o zmenyvodicto. 'Store DECEK S, v s. LIPS fi midi Grat nutar: pterje policia. Ha Ordopartiū.Nominisvox,aforma.Verbi vox,ama มา teria. Tum autem Derbi Ratio universa, en Augu Divisio. celli po Ost Nomen, verbi natura ponen Oo da est.Non defueretamen, quifta tim secundum Nomen ponerent “Pro nomen”, fecuti rationem ciui, lem, eadem in. potestate erat “pro-prætor” et Prætor. “pro-consul” in prouincia, et consul Romæ. Verumaliter contemplatur philolophus: Res enim necessarias primo quoque i loco ftatuit:accessorias aut, et vicarias mox. Igitur fi partes hæ coparatæ suntppter orationeora et tionis finis, eit-animi interpretatio: Interpre tatio autem Nomine et Verbo explicetur: et Pronomen poft hæc inuentum est: fane Ver bum anteibit. Quinetiam Verbo vnico ftabit 2 oratio, atque affirmatio affirmatio.. Pronomine autem nullo. Quare verbi natura potior eft: vt, “Amo”, “Lego”, “Scribo”, ac tantum abeft, vt Pronomine posterius sit, ut etiam ipsum secum referat. Verba quoque multa sunt adeo absoluta a Pronomine, vt mirum sithocgenus hominum ita fcripfiffe. Nam,Pluit,Grandinat, p Pronomen nunquam interpretere.Dei enim certa sunt nomina, Prono,,minanulla ipli Deo, fed nobis craffiore ingenio mortalibus. dicit enim nobis Deus fic ego: quia hoc quod est, E ç ointelligimus: hoc est Tetragrammaton,non intelligimus. Præterca 4 Impersonalia, Scribitur, Pugnatur, nonne plena funt fignificatione?nec tamen propterea vllum nomen explicatur, nedum vt præfit Pronomen. Omiffo igitur horum errore, Verbiipsius sub ftantiam videamus. Duabus his vocibus Nomi ne Verboque, communiappellatione omnia fi gnificantur. Nomine enim comprehendi fupra The docuimus. Sic etiam Verba dicimus data, quum orationedeceptisumus. Ac de Nomine quidem, ve vfusita sentiret, suasit ratio: a notione.n. du. cumest,quæ eft cognitio: vt etiam interpretatur Vlpianus, qui emendat prætorem in Titulo de Reindicata. Itaque vox nominis, a forma duda eft:eft enim Forma dietionis Significatio:Signū, autem, et Nota,idem. At Verbivocabulū ab ipsa aeris materia, quæ verberaretur,proptereaquod vox esset aeris impulų fogus. siç Plaut. in Amphi truone voce facit verberariaures Mercurii. igi,vti diximus, res duplices fint aliæ, quæ constarent:aliæ, quæ fierent:illasmerito perex celletia Signi, Notæquevocabulo indicarut; bas aute fluetes ipso aeris fluxu. Quasivero,id quod fane ita eft, nihil effet partium præter istas duas; cxtera autem omnia abhis duabus duceţengur, etad tur quum,  1 GO ten ime OP niho 113: fup etad hæc reducerentur. Cæterum ipsum Ver bum nonsolum earum rerum nota eft, quæ fic rent: verum etiam quæ effent, fed ita, vtipfum hoceffeignificaretur:dicimus enim Cæsar est: » per Nomen declaratur res, quæ eft:per Verbum indicatur ipsum esse. Tertius quoquemodusin » !! ipfo verboreperirividetur:nam quum dico, Ceea far eft Clemens: ipsum Eft, non videtur aliquid id fignificare:sed effe nota coniunetionis, quaCle= » mentia in Cæsare prædicetur.Ex his patet,falsain effdefinitionem veterum, quiVerbumpræfcrip sere agendi, vel patiendi significatione, atquead huncmodumdefiniendum effe:Verbumeitno. In ta rei subtempore. Hæc autem res aut fit,aut eft: vt Curro, dicit cursum nondum expletum: et Gi gno,dicitimperfeet um animal.at fi dicam, Cæsar i eft: perfectum hominemintelligam.reducitur au * p tcm illud ad hoc. du enim Curro, cursus ipfe ali quid eft.Verba autem Priuatiua,vtDeeft:et Ne- prole de gatiua,vt Nego: etiam aliquid significant. Recrű enimest menfura Obliqui. Sic Affirmatio est mẽ sura Negationis. In Verbis autem imperfe ettæ figuificationis est res ipsa quæ fluit: vt in Scribo, bonga Scriptio:at Scriptio accidens eft:ergoin aliquo, fumptismal vor et ab aliquo: quare et a et io et passio compre hendentur, vbiacriusintuenti, aliter eueniat v fu, quam euenit antiquis. Nam fi dicam, Scri bolibrum: non rectevidentur accepiffe librum pro pafliuo:non enim huius a et ionis receptio eft in libro: tria quippe sunt:quod scribit, quod fcribitur, quod recipit fcriptura: at liber non scribi tur, fed fcriptura, Itaque prisci Attici huius rei gnari dixere, Seruire feruitutem, Viuere vitam. Řecipit igitur liber fcripturam: scriptura autem recipit actionem scribendi. Intelligo nuncfcri. spturam opus ipsum, scriptionem operam, scrip: torem L. Flauium, Membranas vero, fiue Tabu kelas, in quibus opus ipsum extat, fcripturæ nomi ne, puta ipsa elementorum lineamenta. Verum Denimuero qui primi fermonem inuenereagresti (canimomortales, vt quæquefese dabant, ita exce << pere. Sapientia vero vix tandem fero ccelitus de (miffa eft: vel ad hanc vsque diem quanta latita uere? quot adhuc latent,quæ pofteritas eruet ad iuta? Ac veteres quidem simul et recentiores non malo consilio in variasdistraxere terminationes, diuersaque genera constituere. Nobis autem fa Spoemat eis fit, vniuerfum Verborum ambitum in duo di Igua uidere,quæ A ettionem,et quæ Paffionem fignifi cent: atque eo cetera omnia, tanquam adligna, recipere:quemadmodum horum vtrunque adv num, quippe adipsum Eft:nam tametfinon fig nificat άεργείαι,tamen nota cft ενδελεχείας, qua eft finisActionis et Pallionis. Agimus enim, vt tandem fit: et dum agimus, hoc aliquid iam cit. Actio autem duplex eft.Quod enim fit, aut tran. se poatefirabeo, qui facit,in aliud:atquehæcvocabimus Iranfitiua:vt, Amo te. Autnon tranfit, fed rema net in eo, qui agit: vt, curro: quæ vocabimus Ab soluta. lta codem modo Paffiua intelligentur: quum explicabitur a quo fiattranfitus, etquum unon explicabitur:vnde Impersonalia orta sunt. Eft autem supra declaratum,Actiuum aliionem dicere, et aetionis modum:at Passiuum passione fignifi. 1 281. 1. D DO significare, fednon passionis modum. Nam a et i vum indicat id quod facit passionem. Paffivumaha tostay autem ostendere debuit id quod recipit paffio rather parts nem, vt passibile potius fit. Sunt igitur omnia A điva, quæ declarantaćtionem:Palfiva,quæ passio nem.Quib.manifestum est,verba Neutra nõ esse ») 1907. ab Actiuis seiun et ta, nisi ob formationem, ppter eaquod ab sefe passiva non edunt: nequeDepot memen nentia, nisi ob diverfam terminationem. Hac autory tem divifionem neilliipfi quidem negabunt: qui tot genera funtcominenti. Etenim communium appellatione quu terminatio nihilimpediat, quo». minus tam Аctiva quam Paffiva recipiantur:duo tantum erunt capita,quibuspromiscue termina tiones comprehendantur. Hortor enim cum in Or,desinat, nequcfiat abactivo, Passivum tamen dicitur: etActivum, quum Paffivum gignat nul-. lum. Hæc igitur vera Verborum effentia est,ve ræque species. Delinentiæ autem sunt accidentia materiæ: id quod constat ex eo, quod abolentur,» restiruunturque incolumi tamen Verbipristina natura. Idem enim eft Comperio et Comperior. Quædam autem falso a et iva, quædam peranalo- okto giam di etta funt. nam quæverba Sensionessigni ficarunt, vt Visionem, Auditionem, Tactionem, eteiusmodi, ea paffiva effe decuit: Sensio enim passio est. Analogia autem dictum estillud, Lau-. do Deum, neque enim Deus paritur: sed exem ' plo diet um eft illius,laudo Cæsarem: et poti us ad Diale et icum, aut Metaphysicum spectat. Non beneigitur recentiores Ađivumsic defini vere, q transmittit in aliuma et ionem: neque.n. nomine 20 a1 D I S; Com 9 qui olfacit, transmittit olfa et um in rosam. Et fi dicam,Amome: eft a et tio reciproca: ettamen A etiuum eft. Item poteft abfolute proferri, Cano, Curro. Quædam igitur verba funt, quæ omnino non transmittunt: vt, “Vivo”. Quædam quæ omni no transmittunt:vt, Ferio. Quædã, quæ etfi tral mittunt, tamē absolute proferri queunt:vt, Amo Lucinam: et, Amo. Amamusenim aliquado im Cipromprudentes ipfo primo ingreffu. Quare quæsunt trabloluta femper, non reet e Neutra dicta sunt: quafi vero in hisnulla esset aetio. Nam qui Vivit, (hocipfum,quod Viuit, agit:vnde, Age vitam, di cimus. Quoniam vero quodcunque constat ex materia,dum agitypatitur ab co, in queagit, hoc autem in philosophia probatum eft: iccirco sia etio trasmittatur, fietreciproca passio aliquomo do. Quam ob cauffam fapientissime Atticiverbis Passivis etiam ad a ettionem significãdum vfi funt. Si non transmittetur,nihilvicissim redibit: sed in agente refidebit: adactionem tamen reducetur, ficutalia adpaflionem: vt, Ditescorneceffe enim estad illud prædicamentū reduciiaut ad prædica mcntum cf.Sed hoc haud valdeabiliodicra fum eft, ac fortasseidem. Passio autem nõ vnom ) do intelligatur:nam quædã est perniciola:vt,Oc cidi: quçdam perficiensivt, Creari,Gigoi,Isauda ri.hoc genus passionis eft, gresidetin agente:vt, Viuo atqueid fit dupliciter:aut palam, vt hoc ex emplosaut occulte,vt fupra monuimus. Verbaea nim sensum significantia, habere videntur mo dum quendam a et ionis:inftrumento. n. agimus: Sed 1 De Causts 2m; E Sed tamen occultam passionem significant, quæ resider in eo, cuius actionem Verbum ipfum fi. ignificat. Quæret porro aliquis: Sia ettio et Pallio funt correlativa, et Absoluta ponuntura nobis in ter Actiua: vbi erit Paffio? Lam est relpõsum:Pass i fio hæc perficies est, et residet in agente:eiusmodiu sunt Gaudeo, et Lätor,et eiufmodi.Huncigitur Verborum affe et um Latini Genusappellarunt. Omar le Quos equidem ab incuria defendam, fipoffim. Sane hocaul sunt: quia a et ionis species,esset ge Šneratio, et pallionis. Græci communi nimisvo cabulo noQ.Omniaenim accidentia mcm di-> et a sunt. aut nimis speciali, neque enim folum fi gnificant 'siv, fed etiani įvapzieivo Commodio. reautem nomine Alogeny. afficimur enim adam gendum,vel patiendum. Nequenobis solisdif plicuit veterum licentia:itaque quinon probarat: consilium,quo Genus dictum fuiffet: maluerunt Significationem appellare. Verum vtillos hizita hos reiiciendos censemusnos. Significatio. n. 0 mnium dictionum forma est. Tiw Ali'ton igitur noluimus disposicioneinterpretari: ordinem. n. significat,non propenfionem: sed ita cēsebamus, magna difficultate poffeindicari vnica voce affc- )) et ionem hanc: propterea q nephilosophi quide" ađioni et passioni vnum cõmune nomēinvenis fent, quo summum id prædicamentu declarent. Conftat hinc a verbis omnibusin o, pafsiua pofse que posar fieri:modo ne ipfa illarecipiant residente passio- fribisgarsą. nem:vt, Egeo, et ciusmodi, Argumentum noltra fentenrir fumiture multis, Aro, Seruio, Vivo, Curro: quæ veteres delicate nimis activa dicere metue. 284 Iul. IV. metuerunt:propterea quod obfcuriusculein qui busdam paflionis extaret vis. Sed fane in tertiis p fonis quin fit, negari non poteft:idquod fatis eile potestad Verborum naturam constituendam:ne queenim deest hoc verbis his, fedres quæ ipfis lint applicandæ. Facterrain loquide se, inve nies illico priiņam paflivi personam. Quis ho rum non pPombaEo, verbum effe neutrum atpal sivum exfese format non folum in compositis,fed etiam in fimplici: -amatum ire, amatum iri. Sic ce nihil impedimentoeft, quominus verbumPluit, primam perfonam habere dicamus, fi modo lo quatur Deus. Quare,vti diximus, res ipfæ potius, quam Verborum naturæ defecere. Igitur vt quæ fint Activa aut Passiva intelligamus,minutiores Viony antiquorum fectiones funt retractandæ. inter more on Neutra, statuêre Neutro passiva: vt, Exulo, Va pulo: ac Neutra quidem, quoniam exsese Paffi yum non crearent: Palliva autem, quia significa. tiorecideret in eum de quo verbum dicebatur. Igitur ab accidente,boceit, a voce.Neutra: a for ma, hoceft, a significatione, Passiva dicta sunt Quare non recte alij Transgressiva nominarunt Tantumenim abest, vt tranfgrediantur, vt in fe ipla ralidant. Quodfi intelliganttransgredi na turam neutrorum:multo plura, ac pene omnia, Neutra talia inveniat: ut, Egeo, Gaudeo. Quin etiam Aệtiva: quid enim eft Amo, nisi patior? Item Intelligo,Video, Tango, Audio, Gusto, Sentio, et alia innumera. Etiam Deponcntia transgrediuntur: quippein o R, paffionem non actionem significare debuerut.Alteram (peciem 1 285 posuere, autoeregulxov, vtuaxopeo, quasi quod aliai fuapte natura activum eflet, siper vocem liceret. Cui contrarium ftatuunt onozu Jes fub Seow, tanquam fubgenere communi speciem cotra di ftin tam,propterea quod passiva tum voce, tum significatione sit. Item autotaJvLxov, vt neqw, per vocem stat, quominus sit Passivum: in eo e nim est, vt censeatur p significatum:et a'viooden gov, vt 01,8TW, quia voce A ettivum videatur, at:: sit Neutrum. Et alteram neutrorum fpeciem ÖRoEverymli:cov, iccirco quia quarti cafus habeat i constru et ionem,quæ a ettiuorum propria videtur esse. Etripiegov autem et Inringivov voce passiva, communi vtriusque significato. Atque hæ fpe- Exp: cies si veræ sunt: tamen ada et ivapaffiuaque redu cuntur. Verum et frustra, et incolulto commen tos esse hec videamus.Constat igitur p duo nomi na tractas hasce compositiones,ökov et auto,quo rumnatura vbi perpenfa erit, eorum constabit, consilium. Igitur öror est, cuiuspars extra ipsum cc nulla eft: hocautem duobus modis invenitur, aut a fimpliciter: vt; Mundum onov dicimus,quippe ex tra quem nihil eft,aut in genere:veluti quu quip piam adiicimus:Hominem enim nonmancum, Totum dicimus, id eft,integrum. lccirco voces i hæmodo quodam differunt: in neutro genere aov significat ipsum vniversum: in alio genere a.adiectivum eft. Sic etiam zūv etmus.Ergo ho mo integer non dicetur esse Totum fimpliciter, fed Totus, aut Totum suum. Non igitur verum, erit nomen 7 oorvegglisar. Nam id fi est A etiuum, quod et vocem habet, et fignificatum, a Boca 1 I j. ve aiunt:ergo totum A et iuum tantomagisvtrun quc obtinebit. Sic enim öronagi's dixere, cuius 0 mnes partesessent passivæ, quippeet vox, et ligni fcatus: νε γίνομαι.igitur ολοενεργηλικών non erit Neutri species.Omnis enim fpeciestotam gene ris naturam continet: ergo fi neutrum genus ab ađivo genere distinguitur, quomodo alterius species tub altero,etiam addita differentia percefectionis, collocabitur? MuseveEmkov potius di xiffent:constructionem enim quarticasus, et vo cem activam habet. sed quia ex se passiuum non formabat, non erat įvegzolenav. tanto ergo mi nus öner evegzalekev. quod enim non eft aliquid, U tantominus illud effe totum potest. auto au tem fignificatsubstantiam: et id, quod hocip fum quod eft, per fe eft. vt aronegros, outeau dis. etapud Aristotelem, autoetes quod anni cir cunscribit spatium,aut quod per se agit hoc,quod agit: vt αυθεντιά. Quare αυτοενεργήικών ηδfunt commenti probe: vtuaxquel. non cnim ab se habet agendi formam a Toeveggnuxev. neque e. nim est evegylaxen, per formam: caret enim ter minatione, quam ipfi Aetiui formam ftatuunt. « Commodius et verius, etreporvegnkvor. ab alio enim habet vim activam, fcilicet ab vlu. lif adem rationibus auronzo Jhxcv, vt migas eorun dem excludet superstitionem:wrogderegov vero, quare non sit idem cum 'de regu;non video: nam fi vocem hanc are addiderunt ivepzelerei, quod haberet pafsiuam terminationem: et r « Jakina, quod haberet activam: quare addunt xdetegco quod alienam terminationem nullam habet quodquegeritnaturam totam 'derepov? Ineptiut autemquiPluit,et ciusmodi putabant aurezdets-Plagen, eg.quum tamen fit Aetiuum veriffimu. Pluitfan-, guine, etlapides dicimus in historiis, et terra co pluta est. Diomedes vero quu hæc Supina vocat,3 veteres recitat fineratione loquentes,atque iple} nihil aliud,quamloquens.Fuitet tertia vox,istory õ adderent vni speciei,g vocarentidor Jhx et: vt » Ferueo: non fane inepte:fignificarunt.n.passione intus manere.Sed tameacute funtintelligeda.ne. que enim a feipso quicquam patitur: neque pro pria est passio agentis ab selepatiente. Omne..). quodmutatur, ab alio mutatur. Distinguuntur autem multis modis: Loco, vt Ensis a Cæfaremo vetur, et loco distat:aut Substantia,non loco:ídq; multis modis.Aut enim duæ funt fubftatiæ, vt ma teria etforma:aut fubftantia etaccidens, vt Cæfar et Calor accefforius. Materia autem non vna: aut Dic, enim prima est,aut secunda. Itaqueanimamovet ble corpus per fe,differutenim eflentia perfe et a: afte forma ignis materiam primam movetalia ratio. ne quęinoetavo Physicorum estdeclarata.Igitur Cæfarli feruet, a fole, aut ab igni fervebit: aut fi ab intus cauffa est putabilis: omnino quod fervebit, etquo fervebitdifferent. quare nonerit paffio ab seipso. Latini consultius Neutropalsiua, quacom » positione et terminationem et fignificationem sunt complexi. Ex hissatis constat, noftrorum verborum nonnulla fapere aliquid e ue.dig Græ-)) corum. Cum enim dico, Lauo, Tondeo, et e iusmodi,idem repræsentatur, quodin dome.cs, et Leigohuet 18ojfuor,quu Lauaret:subintelligimus. 10 CLEAN 1 quei A tuneTij. enim,Se. Ita enim Nigidius loquebatur apud Gel lium: Syllaba mutat, pro mutatur. Quare Attiva Passivis præponantur: etdema teria Verborum. CHVm igitur omnia verba,autAativa, aut Pas siva sint, ad hæc duo principia omnes illz species, emendatis tame priscoruin nominibus, mo lang referentur.Priora autsunt Activa Paflivis,pon vt dixere,quia is, qui agit incipiat:qui patitur,sequa tur:actio enim et pallio simuladco sunt,vt vnum multi existimarint. ages quoque ac patiens simul sunt secunduin formam. Quin criam fecundum subiecta corpora,non neceffario præitagens: ne que prius existit, quam patiens. Trabs enim ante WIonel, quam ignis excitetur, nasci poteft: fednobilitate naturæ id faet um fuit. Eft enim Ages pro cauffa: Patiens autem,vtdiximus, aut perficitur, autma le habetur ab agente: igitur vtrovis modo nobi lius est.Itaque ctiam Grammatici id fecere,vtPal fivum ab Activo ducerent. Hæcigitur eft eorum Makari ratio a formaet fine significandi. Materia autem varia fuit iccirco, quia non est neceffaria: sed ad arbitrium tum primi inventoris, tum ipfiusvsus instituta,vt in o,autin or, delinerent.Habuere tn 2Aetiva originem terminationis a Græcoin o, tua 1w. Passiva autLatini aliter formarut, neaccede rêt aut ad oratione, aut ad fimilitudine nominu. Si.n.yteft ru 700w, fic dixiffent Amome, videre * turoratioex Verbo, et Pronomine. Si aut fuiffet cudiphthongo: eadem crat nominisdesinetia in na hurco prima declinatione. Quare expeditius addito R. G negotium confecere: “Doceo”, “Doceor”. Verbi Svm, Es, EST, declarat necessitatem. Gitur Verbum corum nota eft, quæ funt, aut fiuntin tempore. Oinnisautcm Quantitas par tes habet: Motus autem et Teinpus, Quantita - Pengimo tes sunt: partiuntur igitur. Caletadio cnim ha buit, frigidum non efle, vnde ccepit primum: itemque calidum esse,quo tendit:ergo etiain me dium.Iccirco verba quxdam inuenta sunt,vthuc motumdicerent: quare necessaria quoquefuerit Erits inuentio cuiuspiam, quod illud extremum figni- mons ficaret: quodque formam illam non ainplius flu entem, fed iam consistentem indicaret. Fluentes 3. autem formæ illæ duplices fuere; alteræ accidenta fles,vt Candor: alteræ fubftantiales, ytHumani i tas: iccirco duplicis quoque naturæ Verba exti tere, quibus ex declararentur. Candor enim acquiri dicitur a verbo “candesco”. Humanitas au tem, id est formahominis, aut Equi, autplaptæ, aut metalli, aut alterius substantiæ, indicata est subire in materiam per verba generationis, vt ); Fio, Gigno, et eiusmodi. Quæ etli pofluntetiam accidentia significare,vt fit albus,fit pater, tamen o primo significatu pertinentad fubftantias. Gene? ratio enim primo dicitur de substantia; fecundo loco deaccidentibus.Acformarum quidem Au xus his Verbis oftenditur: consistenția autem » vnico Sum, Es, Est, tam accidentialium, quam substantialium, Dicimus enim, Est albus Cæfar Tij. nunc 290 IuL. V. nunc, qui heri albescebat, aut fiebat albus. Et di cinus, Eft nunc Carbo canis qui his diebus fie bat canis. Quare hoc verbum tam accidens quam fubflantiam quum fignificet, peffime a Gram zmaticis Verbum Subltantiuum dictum eft. Et Femisautem fupra diet um a nobis,duobus modisponi Verbum học: aut Nomini (oli folum adiacerc; autinter duo extrema quafi fequeftrum. Exem plum priorismodisic habemus: Cæfarest: exem plumfecundi sic, “Cæsar est albus”. Ac primum quidem modum significare existentiam in rerum ste natura ab omnibus receptum cft. Altero autem modo Divinus vir Aristoteles animaduertit nihil significare, sed quasi nexum, et copulam esse qua albedo iungeretur Caesari. Hæcost forma et fi nas nis huius verbi: Vfus vero etiam latiuspatuit, ve etiam verba alia quasi animaret: ita additum fuit criam Passiuis verbis; Doctus sum, Doet us fui; TETEA COPEv Ověsu, cum perfe ti operis fummam declarandam instituimus. Sicut inchoatum idem opus alio verbo motum, vt diximus,fignificante notabamus: fic enim locuti sunt veteres, Pugna zum ire, Amatum iri: sumpto a Græcis vfulo quendis prouci ipewr. Galli quoquchodie sicve tuntur per verbum Eo, is, It, cum volunt dicere, materiaFit diues,Fie phthisicus. Materia aute huius ver ubi duplex fuit. duplex enim eft, nam a Quws Fuo noftrum, et ipfum Fio. Sum autem ab ciui. Es,,, totum Græcuin eft, abiecta vocali, esi, CAP. CXIII. Temeporum Natura,Numerus, Ratio, Nomina Tempoorisigitur partes diuerfasdiuerfis Ver Puigo rum partiunminutiores quoquepartessunt:hac de caussa diuisa sunt Verba certismomentis: quæ Grammatici re et ifsimetempora nominarunt.Diminy my 1 uisereigitur ad huncmodum:In partem,queiam abiit: in partem,quęiam subibit: et in id,quo hæc duo coniunguntur.Anvero id ita fit in natura: et vtrum tempussit, cuius partes non fint, necne, - non est præsentis operæ: sed ad philosophum fpe et at. Cumigitur tres hæ temporum partes fint: cam quæ abiit, quare paffiua vocedixere veteres nett. Præteritum: nam fane Græci Actiua mpwxnuis. w Anvero ita dixere, quia huius verbi Prætereo,no, habebant Participium actiuum in eo tempore, fi cut Græci? An quemadmodum in testamento di 2 citur Præteritus filius,cuiusnullam fecitmentio nem pater,quafi eiusfuerit oblitus:ita nobis gex ciderit tempus, Præteritum dictum est? ita, Præ. teritum Laterancnfem in comitiis, ait Ciceros qui non esset creates præter: quasi non fueritin memoria tribuum. Ansubtilius cöremplabimur? Itio motus quidam est: tempus autem non mo-3 uetur, fedeft ipfamenfuramotus: at nosmoue-); murac mutamur. Itaque dicimus,Fungi vita, et Obire mortem, et Abire ex humanis. iccirco ipa sum tempus permanere, nos præterire, illud præa meninos teriri.Quæ vero nondu effet pars,eam Futuinteactie, pusappellarut:Græci ukra orą.Tertium quod has interiaceret partes,partem nequeas dicere, indi uiduum enim est. Præsens eft dictum: non fane praze. comode:nam fiest, Præ, relationem notat: ergo ! T iiij. quan T 292 IvL. V. Og'oquum vtrunque coniungat et Præteritum, et Fu turum: nonpotius debuit accipere appellatio nem ex eo q futuro præesset, quam quod præteri 2 tum fequeretur. Quin etiam certior natura Præ teriti est,quam Futuri,a quo Preterito consultius 3 nominaretur.Iam vero fi poffet diuidi, prior eius pars esset præterito iuncta, posterior aute futuro. quare ratio eius cõiun et ior eft præterito quam fu (turo. Verum ita intellexere. Præfens, effe Præ, id eft,ante oculos:non autem ante Futurum. Alij vero Instans, appellarunt. fed quidam sunt male there iuterpretati, quasi instabile esset, et abiret momen utancum. Sanea Græcis mutuati sumus quićvesu, dixere, quodinstaret cedenti Præterito: non autem quod non ftaret. Imo vero cætera tempo ra non stant:fed Præteritum iam non eft, Futu rum autern nondum: vnü præsens semper est: na uetsi abit tempus, tamen hoc quod est, præsens eft. Hocautem in libris naturalibus eft comodius de claratū.IgiturhocTempus, quod effetindiuiduu non diuisere.Duo reliqua cum latissime pateant, Græci alterum, id eft, futurum fecuere in eam partem, quæmox esset fubitura, jer onigov uen hora dixere.Nosquoniam incerto ferretur euen tu, non diuisimus.Niliputemusin modo Subiun Ĉiuo extare vestigia, etvim huius fignificatus: hennaivt, Fecero. Hocautem etiam in Promiffiuum. pern wit partiti sunt Nasceturpulchra Troianus origine Casar. Verum nunquam desinent nugari Grammati ci, Sic enim dicas etiam,Minatiuum, Cædam te: et, Aduletiuum, et alias nugas. At affe et us non mutant species. Præteriti autem amplitudinem, forazie b quantammemoria late metiri poteramus, partiti » rz: sunt veteres in partes treis, Perfectum, Imper P: fe et um, Plusquamperfectum:ac perfectum qui de dem adduxe-refiov male vocatum fuit a Græcis: » e quod enim abiit, non cft: at wequeijfvovspecies ut eft g TupwX9u6los, quonam igitur modo, li non ca eft, poteltasqueisasdiffertenim colerot ai,apos "12 TO Xaveil ou tanto magis, w; os to un'eivce che riuri A noiv. Noftri dixere Perfectum, propterea quod em absolutam actionem oftendit, cuius pars fuperfic com nulla: vt Pugnauit: nihil eius pugnæ reliqui fa bis etum est. Mutuati autem sunt appellationem » sibi hanc ab iisdem Græcis, qui alterum tempus, cm quod adderet huic spatium, uweprewleninovnomi Fit narunt, 7TEP UP TO DATEnerov lwar. Noftri hoc el: Plusquamperfe et um: vtriquemale. Nam Perfe- ense ctum, etsi recipit comparatiuum, et Superlatiuu: hocrerum genera patiuntur:vt, Canc homo per fectior est; at quouis tempore aliud tempusperfe Etius non eft. Defendendi tamcn suntsic: aba-» inü. ettionibus temporadenominaffe:vt quod agerēt, neque dum perfećtum effet,Imperfectuin tepus, fubquoageretur denominarent. Verum Græci Subs cautius, qui Præpofitionem notarunt tractum, ficati umep, quod effet transperfectum, id est, præscri Cilici ptum tempus: noftri ridiuscule p Comparativu Plus: melius Vltra,aut Super aut Trans. Quippe ita differunt: vt Perfectuin nihil præterea notetun Scripfi: Transperfectum indicet et ipfum Perfe-> Etum, et tra ettum interponat inter ipsum etaliam } non cohærentem actionem, Scripferam,Cæna quum lusc Liit atent Cænabam: non cohæret cæna scriptioni, qua " Icriptio est absoluta. Igitur non, vt aiunt Perfe. v etum, et Tranfperfe et um distancinter se tempo rislonginquitate. Dicam enim, Ris iam quin quaginta tribus annis: et dicam, Legeram versum heriantequam biberem. Eft igitur idem cum « Perfeetto,tanquam species cum genere,nodistin. etum tanquam species a fpecie, vt fecere: vbi cunque enim pones Transperfe et um, poneres e tiamPerfectum.Imperfeet umautem Græci com umodiffime, aqtutuev:protenditurenim inter præsens, et quod sequitur:operæquefignificat co tinuationein:vt, Legebam, quum venisti:nihil.n. interualli interlectionem, et aduentu fuit.Iccirco philofophi hoc va sunt ad declarada ev eteaezetar, uquæ perpetuatione naturæ defignaret: wvIw TO, Erat homo: vt fignificet etiã effe. Er doetif fimus poeta: Lauruserat: id eft, Lauri ipfius vera species. Quod Plinius quoque estimitatus. Cicea ro in reetiam penitus infecta vsus est: fic enim scripsit in quarto ad Atticum:Ad eum poftridic manevadebam,quum hæc fcripfi:et Perfeet o pro Plusquãperfecto. Alius fic dixisset, Poftridiequa hæcfcripfiffem,iturus eram.Præterita autem pri maaut fecunda, quod effent ad vsum magis vo cum, quam ad fignificationu discrimen inuenta, non fumus imitati: temperatam breuitatem im. mani copiaditiorem arbitrati.Vnumefttempus, quod Præteritum infinituin appellarunt Græci, doposolin hoc veteres putarunt a Latinis ignoratu: extat tamen in quibusda, vtin Palsiuis:năm, Ca 'fus fuit:id eft quod, erdP34: Cxsus est, TÍTUTTIH: Ex his constat Instans cum indiuiduum fit,no reetedefinitum, cffe fic, cuiuspars præterit, et in the dimi pars futura cft:ad hunc enim modumnon effentwilanki tria tempora,fed vnum tempus: fed et Præteritu, etfuturum Præfentis partes. Sed falsi sunt Gram matici,quum dicerent Scribo yerfum:neque iam * expletus cffet verfusfcribendo. Vis igitursuntin telligere Præsentem fcriptionem habere partem in parte versus perfcripta, et partem in scriben da,quaspartes scribendo coniungant, cotinuent que.Atvero hic non vnum præfens est,sed multa Præsentia, quemadmodum quum dico, Flumien fluit: quis dicat hoceffe præsens, quumiamanna aut amplius fluxerit? Quare ficuti dicimus Præ sentem diem, Præsentem annum:vt multa instan tia complectaranimo:ita dicam,Scribo: quodic circo præfentis temporis eft, quia quum hoc di co, fub eo sum temporequod huiusceverbi effe intelligo. Non enim lignificatpartem prescripta, neq; cam quæ scribetur:fed hoc,quod fcribo.Di. cimus autem Scribere versum,quoniam eius par. tes scribimus. Conftat etiã hoc apertius in extre mis aetionum. fic præfens erit initium currendi, cuius tamen pars nulla aoteceffit: fic finis, cuius pars nulla futuraest. Instans igitur femper adeft, vnde et Prafens dietuin fit:Futurum et Præteritű imperabsunt. Iccirco de Præfeori poffumustria, una pellarunt,exemploVergilii: Verum anceps belli fueratfortuna:fuisset. V iij. Quum 0 598 in 010 306 IvL. V. Quum tamen, Fuisset, Subiun et iuus fic codem, quo fuperiori,modo. Si fuiffet, mallem,quam ficą quumnulla belli fortuna vincor,etmorior. Opa tatiuus autem et subiunctiuus inter fe fimiles, ab Indicatiuo no differunt, nisi quatenus hoc quod hic ftatuit,Optatiuusnõ ponit, etponivult: Sub. iun et iuus ponit,fi ab alio ponatur. Iccirco tepo raomniafant coniecuti, verum non omnibusin verbis:neq; enim par eft, vt omniaoptemus, quæ « possunt euenire.Igitur Futurum ab Optatiuo no tollut doctiores: quu hoctempusverissimum, ac maxime proprium huius sit modi, no discreuere ce tamen a Præsenti Futuri vocem: propterea quod in ipso quoque Præsenti abest optata res,veteres autem illud putarunt Futurum Optatiui: · ce Hac Troiana tenus fueritfortuna fecutaq Quod quidem valde placer. Sic igiturerit Op. fatiuum et illud, quod fupradicebamus: Verumanceps belti fueratfortuna: fuiffet. Modorum Ordo Ndicatiuum autem nobilitate, acrerum natu. ra primariū intelligimus: nobis non item: stas tuit enim id, quod poftappetitum, ac delibera, * tionem euenit. Neque verum eft, quod autu mant, Rem çertam redubia priorem esse, Quin ante, quam scias,quæras. Quinamquesciam, Ha minem effe animal: nisi quid homofit, quæram? + Præterea qua ratione res çerta, erit prior feipfa dubia? Etenim poftquam adeptus es scientiam, non potes amplius dubitare. Scis enim per cauf | laa 3. quarum contrarias Iisficcando Em cua Trorior. O elimiles: ushora nipuli otem us! inimum Ōdiscrer plereaga res, kom tu: ecutao fas primas,immediatas, neceffarias, notas,immu tabiles: putas falsas: alioqui non scis. Sed ob nobilitatem pręiuitIndicatiuus, folus modusaptus scientiis, folus pater veritatis. Cæteri fermoniaccommodatiores,quemadmo- 2. dum suoloco dietum eft: ii vr quisque nobililli. mus fuit, ita potiffimum locum occupauit. Ita Circot omnibus que Imperatiuusprinceps eorum extitit: mox Optatiuus, quasi seruilis ingenuum eft hunc se - zima quutus: Subiunctiuusautormultiloquentiæ po Depreciate tremam in sedem reie et us est: compofita eniin fimplicibus pofteriora. Infinitiuus autem fane adeoModusnon eft,vt etiamn Verbumne cffet,fit dubitatum. An Infinitiuusfit verbum. C Modum quidem non effe ipfum,fupe rioribus rationibus fatis constat: Verbum off. autem efle, Verbi definitio clamat: significates nim rem fub tempore. Qui autem ipsum exclu- (. ) sere,addu et ifunt,vtfentiret ita, proptereaquad fui verbi efset significatum: fic enim interpreta cur Verbum suum, Socrates exulat, dico Socra temexulare, Socrates estin exilio. Præterea no- 2 minis habet conftructionem.apud Græcos enim etiam articulos recipit, to spxTuyau mane, vt Ver gilianum illud. -Pulchrumg, mori fuccurrit,in armis. Verum hæc argumenta leuia sunt:neque enim art, magisipseelt Verbi fignificatum, quam Verbum miesnota? ipfius: neque magis exprimir Indicatiuum per boo42 interpretationem, quam ab eoexprimitur; Viiy. Kureri A.COM US: fastfel ruma diItem: edehr uoda fle (Ciami QUITO Torle cient pero IN. ERR mutuaenim esse quit explanatio vtriusque ora tionis fic, Dico Socratem exulare:id est,Socrates ab 2 exulat. Articulus autem non tollit significatum fub tempore: naapud me, to spa Traje COMESTxa aov: sed no espotazmeyou. Itaq; fibiipfi fubiicitur, tanquam Verbo, plusquam Verbum, fic, Video Apo leo mi emeditari currere.Itaque contraStoicifolum mawh Infinitiuum Verbum esse professi sunt: cætera θα λογαuterm κατηγορήμαG,ideftappellationes, και συμ metin the Beijualc id est accidentia, quippein infinitiuum tanquam in formam fuam, et quasianimam re folui cæteros modos. Igitur Græci etiam pro a ce liis fupponuntmodis, quorum naturam expleat, OHOT EIV,Jewgev. Sic etiam nunc Itali loquunturs quum negatiua utuntur oratione, Non legere, pro nelegas.quæ cauffa fuit, vteadem sit forma « actiui Infinitiui, et Imperatiui passiuiapud Lati senos. Quinetiam pro Indicatiuo: Illerubere,ter giuerfari, abnuere. Cæterum apud Græcos de est dã in superiore oratione;apud Latinos,Cæ pit, aut tale quid. Quinetiam pro Participio et Gerundio vsum subiit tam apud Græcos, quam apud Latinos: vt apud Poetam: -Dederatque comam diffundere ventis. Erin tertio de Natu ra Dcorum: Magnammoleftiam fufcepit Chry sippus reddere rationem vocabulorum. Pro prium autem est Infinitiui, receptum in Futuro fuo Participium sibi fimile efficere, vt genus a mittat, et numerum: Amaturum effe tam defce mina, quam depluribus: exemplapetes deGel lio, Valerii Antiatis, Catonis, Q.Claudii, M. Tullii ex quinta in Verrem: Hanc libirem præsidio COLE i fidio fperant futurum. Illud quoque habuit pe culiare,duo verba fibivtasciscat, Esse, et Ire,quo rum societate formet Futurum suum: Amatum ire: Amatum iri. emporum, Modorumq, inter se mutatio. Filout Roprium autem est Temporum Modorum queinter femutatio, quuaffectui feruimus. Il Liuianus Annibal: Sitales animos in prælio ha bebitis, vicimus. Nam quod fperabat, procerto man iam afferebat: quafi dicat, Tam certa eft futura vis 1.90* et oria,quam iam extitiffet. Nihil enim Præterito create certius:ne a Deoquidem mutari poteft, quia sim » un plex eiusvoluntas eft:tantum abeft, vt fit contra-); leger ria fibi:non poteft,quia non vult:neque vult pos ciami se, neque potest velle effe diffimilis libi. Modus Le item Subiun et iuus pro Indicatiuo: In fexto de gryn Repub.Etquod deviafeffus effem:dixiffet, Cum de via feffuseffem. Quemadmodum autem illud Isla Iuuenalis sit accipiendum, Greculus efuriensin cælum, iufferis, ibit: fupra diximus. Sic est,quum Græca oratio per avdwwnn TIKoy exprimitur: vt in tertio Officiorum: Male Hi etiam Ĉurio, quum cauffam Transpadanorum Cm æquamesse diccbat,femper addebat, Vincatnti Pipo litas:potius diceret,non esseæquam. id est, negle ov: dicere poterat: aut, debuerat. Horatius Indi catiuo pro Subiun et iuo vsus est: Metuentis illa deta pluscerebro lubftulerat: nisi Faunus ictum dex Cele tra leuasset.Et quod fupra diximus, ex secundo Georgicon, Lauruserat: quod et Plinium imi tatum monebamus.  cipiol QUA Futuro NUSZ V v. gro Perfonarum vfus, et affectus. Videffet Persona, quorqueeffent, etquare affeettiones in verbis videamus; nequeenimre xae veteres dixere, Primam et Secundam fanitas effe,quiaprasentes demonstrantur: Tertiam infinitam, quia absens eft: cauffa enim quam affe runt, nulla est. Non enim omne abfens infinitu: nequefemper Secunda præsenseft: et Tertia præ fens aliquando est, et fempereffe poteft:no enim aduerfatur fermonis vfui, vt adsit semper id de quo loquamur, tametsi hocin rebuspofitum est. Ita igiturintelligendum eft, Primam, et Secun dam finitas effe,quia certædesignentur: lego, fižno me: Legis, ligno te: Legit, nullum cer tam signo,nisi quippiam addatur, Cato; Cæsar. Hamms and illud quoque crraruntquumdicerent, opus este aminimomoPronomineadpræfcribendam Tertiam.Nam ct alime nesima iam fidicas,lllelegit:nointelligas qui sit, nifi aut preferat, aut demonstretur coram:ergo non fietvi higmi hann eema San.Pronominis sed Relationis, aut Demoftrationis, Sed et Primam, Secundamque Pronominibus tantum iungi, iam eftfupra refutatum: Vocatiuis nanque etiam fecunda adiungitur:vbifinalub intelligitur pronomen Tv, ne in cæteris qui dem fubintelligetur. Eft præterea aliud argume tum: Licet, inquiunt, dicere, Cæfar fum: er go Cæsar, est persona primæ: neque enim Ver bum variabit Nomen, ied NominisrationeVer bạm sequitur:Numerum fçilicet. et Perfonam. Quo pofupoint mir teachers Quoniamigitur Cxsar, estpersonæ primæ:potes " dicere, Sum. nam fiinco Verbo ea effet potestas, vt Persona Nomini attribueretur: efset etiam ea, qua numerus quoque affignaretur, etliceret di cere, Cæsar sunt. Proprium autem estPrimæ nondependereab » aliis. Caussa huius rei eft uia ipsa loquitur fem per: ergo etvtranque fibiaddicet: vt,Ego, Tu,et Ille facimus. et feorfum alterutrum: vt, Ego, et Tu:Ego, et Ille.Falsum estigitur, quod dixereve teres, Secundam fibi coniungere Tertiam:illo exemplo, Tu, etilli facitis:;et Tertiam feipfam, fic, Ille, et ille faciunt. Sed eft Primaquæ coniun. git Sccundæ Tertiam, et Tertiam sibiipfi: cac nim coniungit quæ loquitur, licet nonexprima, çur:quum de aliis loquitur,nonde feipfa. Numerorum Ratio etcauffa. Vmerusidēqui in Nominibus, ficut et Per fonæ. Cumenim Verbum fequaturnomi nis rationem, et a ratione proueniant affe ettus: af fectus quoq; eosdem efle par eft. Significat enim Verbum aut Accidens, aut substantiam Nominisstheti Cæfar currit,Cæsar eft.Ergo neceffario auta No mine dependet:aut etiam idem repræsentat. Pro priu autem Verborum eft, nullam vocem vtriq;» numerocomunem habere.Hoc apud nos:Græci imprudentius quitantã copiã haberent Teporu, defecere in difcernendis Numeris, et Personis.na in duali confudere personas: meter, turistev. in primasingulari, et Tertia plurali confudere namo  y numeros inszor. Soli Æolenfes, quorumpars fuere Dores, pluralem fine incremento posuere. In Nominibus autem et Pronominibus non i dem eft: vt, viri: sai.item Participiis pafliuis: vt, lecti. Hoc autem dicimus de Verbis eodem in genere:namin diuersisgeneribus voces inuenias communes: Docere palliuum Secundæ personæ; Docere actiuum Indefinitæ: cauffam autem su pradiximus. Infinito enim Græcipro Imperati vo vfi funt.  Affectuum ratio, et ordo. Orum affe ettuum quatuor tantum necessa rii (lineiis enim verbum noneft ) Tempus, Modus, Persona, Numerus: ac Personaquidem et Numerus,quemadmodu dicebamus,propter ea quod Verbũ a Nominedependet,neceffe fuit vt aliqua in recouenirent:conuenirêtautein Per fona,quia a Persona proficifcitur oratio. Item in Numero cadem decauffa:aut enim vnus loqui tur, autplures:et aut de yno autdepluribus. Quæ rebamus igitur vter affcctus effet prior: ac Nu vinerus quidem amplior est, complectitur enim omnes Personas: præterea accidit Numero Per fona. Equidem vnussum:poteftigitur, vt et Pri mæ, et Secundæ, etTertiæpersonæ subeam mu. unus. Tempus autem non videtur effe affectus Verbi, fed differentia formalis, propter quam Verbumipsum, Verbum est. Modusautem non fuit neceflarius: vnus enim tantum exigitur ob veritatem, vt dicebamus, Indicatiuus: cæteriau., 1 tem emob commoditatem potius.Genus autem an Gwojno it neceffarium? nam videtur, feclufa omnitum et tione, tum pafsione, conftare Verbum prima rium ipfum, Eft: nequeenim solum per Partici pium refoluimus, Cæsar pugnat, Cæfar est pu gnans: sic enim poneretur verbum Pugno necef sarium, quare Genusipfum quoque cffet necef sarium, in multa verba distributum, non intra vnum contentum: non igitur ficresoluetur, sed in Nomen, Cæsar est in pugna. Hærationes acu tiores sunt a philofophis profe ettæ. Verum non fit vera resolutio: poterat effein pugna, nec pu gnaret. Verba ipfaAdic et iua neceffaria funt, fic ut et Substantiuum: quemadmodum Acciden tia, ficut Subftantiæ. Vter vero affe et tus sit prior, Genalne, an Modus? Acgenus fane prius eft,vt qomus pouvez aliud fignificet A et ionem, aliud Substantiam: Modus autem generi accidat. Tres reliqui affe et us cuiusmodifintvideamus:nam Coniugatio Connig. eft, quod Nomini Declinatio: certa meta ac facies terminationis. Hoc autem cõpetit quatuor fpe ciebusdeclinabilibus. vt supradictum est. Com petitigitur Verbo, vt diettio eft declinabilis: ficut et Species quoque, et Figura. Coniugationes au tem quatuor fecere: sed et prima cum Quarta in multis eadem fuerat,Audibo, sicut Amabo: ad hucenim dicimus Ibo. Et confusa indifferenter Secunda cum Tertia: Ferueo, Feruo. et Prima cũ >> Tertia:vt,Lauere,Lauere. Etnonnulla extra ord))** e dinem:vt,Sum:cuius neque Præsens, neque Fu. ) turum, neque Infinitiuus cum cæteris conuc nit, vt ad caput certum reducatur: solum præteri € 10 id IDE All temi gir 2007 " tum Irl. V. tum gerit aliquam fpeciem, Fui:fed incertam: nam dicimus, et Explicui, et Docui,paricumillo analogia:sed inter fe diuersa.  Figura zeiasg, caussa. Figuram nominarunt partiu compofitionem: orta autem eft ab ipfa oratione, etceleritate vt;Versus facio, quod fuerat;fieret Versificor. l gitur prior fuit, quam Species: ex ipfa cnim oraa tione quæ essetex primitiuis nata eft. Placuit au tem vt eodem modo quod non effet compofitu; Figuratum diceretur: quu tamen fatis coitat per initia,ante quam Compofitio inuenta effet; Sim plicia ipsa nullius fuiffe Figuræ:quare per relatio pem potius sicdicta sunt. Proprium Figuræ est, mutare interdum genus: vt a Facio, Versificor: a Specio, Conspicor. Item Coniugationem:Stera nere, Cöfternare: quod etiam fine compositione fit,vt, Legere, Legare. Si a Fio passiuo ducas Suf: fio adiuum, etiam significatum mutari constats. Species;earumg significata,c. cauffe V Erboru Species, vt diximus, duæ: Primarioz rum, et Deriuatiuorum: fic.n. melius;quam Deriuatiua dicere: deriuantur enim, non deri Joeyguant.Deriuata duplex:alterain quanon mutatur * modusfignificationis: vt Albeo,Albico. Altera Tisho in qua mutatur:cuius funtfpecieshæ, Inchoati ua,Meditatiua;Frequentatiua:Dcfideratiua,De frinmi.minutiua: Inter hæc Deminutiua non funt con trouerfa: nemo enim dubitat in Lo definentia cho promis. Ne Deminutiua: qualia,Sorbillo,Conscribillo. Errorautem antiquorum eft, qui dicerent mutas x ri significatum: non enim verum eft:idem enim fignificant,fed alio modo. Cauffaautem huiufce » terminationis fuit Græcus fonus: fic enim quæi dam Deminutiua fua pronunciarutueregexvideo At Inchoatiua, quæ in Sco, facerent: vtFerue- sco sco:recepta quidem sunt ab omnibus: sed recen i tiores in iplis negarunt inchoationem,idemque que no velle, quod ea, quæ a Fio componuntur: vt fit michoani Calesco, quod Calefio:quorum Præterita expo - 1 nantur per Fadum effe:fic,Macruit,macrefa et us eft: quæ Præterita, si fiat a Primitiuis, per Fuit, interpretemur:sic,Macruit,id est,macer fuit:quo nia Macreo sit, Macersum. Igiturnon significare Inchoationem, propterea quod apudVirgilium sit, Incipiunt agitata tumefcere.Cæterum eorum? Sententia ficelt perpedenda: Tumere,alio modo Examp. accipitur, alio Tumefcere:naqueMonstumet.no, tumefcit: at Fluctus et tumet, et tumefcit. Item Ignis calet, non calescit:at Ferrum igne calescit. vt fint verba, qua habet significatum perov, qua-» le seguovipou,calesco.Ergo,quemadmodum di cebamus, Qualitatcs,aut Accidentiailla,quæhis. verbis fignificantur, interdum sunt in fluxu,et,vt sitPlato in Craylo,ca Tu Cee interdum iam f xa. Quare per Primitiua dicuntur, quu sunt fixa: etenim in monte tumor iam non mouetur, iccir cocumtumere dicimus.At dum fluunt,per Ver. bum in Sco, explicantur: iccirco vbi erit Ver bumin Sco, poteritesseetiam Primitiuum, 861) non e contrario: propterea quod habitus iam rV. introdu et tus est, quem habitum ipsum Verbum significat: fed non est idem modus: nam motus ille augefcendi,aut procedendi, a Primitiugde claratur. Igitur fluctus, et tumet,quiain eo eft tu mor: et tumefcit,quia tumortenditad alium gra dum: fic Crescere, eft Creafcere, id eft,accipere augmentum in Carne, agetoxgeas. Ex quibus conftat, non inepte di etta a veteribusIncohatiua, nondum enim explerunt vltimum fignificatum. Quod et in quibusdam verbis Græcis fatis per cefpicuum eft: xuw, est Vterum gero: atzvionw, eft Cõcipio, quasi, Incipio gerere vterum:significat enim incohatam xunav. quo verbo et Hippocra tes vfus eftin quinto Aphorismoru, et Aristote les in fexto historiarum. Quod autem tamper, tinaciter affeuerant, vt per Fio, interpretentur, idadeo mutilum eft: Si enim hoc verum effet,er verba actiua hac terminatione penitus care bunt, fignificatio enim eis nullo modo compe ter: atextant tum apud alios, tum apud Teren tium in Adelphis, Atque edormiscam hoc villi: quare per Fio, non sunt exponenda: sed conti nuatio. etaugmentum potius ineiusmodi agno fcenda funt. Pliniusautem in libro xxv. etiam u mollius loquutus est,Radix vasta, rubescens,te nera. quafi Centaurii radix non sit vere rubra, Curcu sed incohata rubedine. Carent autem Præteritis non propter fignificationem, vt aiunt,nam et i » psum Incoho, habet præteritum: sed quia non patiturformatio: quum mutuantur a Primitiuo, facilecõfunduntur interpretationes: vtsMacruit, Macer fuit, et pro eo, quod eft, Macer factus est. Vir: go th couha 1.41" Vi Virgiliusautem addidit Incipiunt: vtPlautus di xit,Pergispergere. EtMedici initium quarunda» ægritudinum diuidunt etia in initium,etaugme » tum, et ftatum: et multa fimilia inuenias iteratan tung Ergo igitur: Adeo ad eum: Longe fortissimus:et, » Cauencneges:apud Terentium, Sallustium,Ca-» tullum.Delideratiua quoque damnant, aiuntque itestonte genima corporis motum fignificare:vt, Viso,co ad vide dum: quale illud. Nam memini Efionem visen cti tem regna.Non enim cupiebat,quod agebatiam;remony ea nanque cupimus,quibus caremus: vnde Cor pora desiderata, quæ cæsaessent. Etqui Lacessit, plusquam Lacerat: et qui Vexat, plusquam Ve hit: non igitur desideratis, qui plus agit: Non sunt igiturqualeapud Græcos, itew. Nosvero sohez? ita cefemus:verba hæc parum differre a Frequen g. tatiuis,habent enim eadē et origine, et termina-> tionem,a Supino enim fiunt, vehemetiam igitur aetionis significare: quorum aliqua explicēt cam, per actionem cötinuatam.cuiusmodi dicta sunta veteribus Desideratiua, propter affectum animi intentioris: aliqua per actiones iteratas,cuiusmo di sunt Frequentatiua. Indideruntigitur nomen meteen consequenti rei ab antecedente deliderio, Re centiorum autem quidam Inchoatiua etiam au - x fi funt appellare:quoniam Viso, dicat, eo ad vide du.Sed quomodoincipiat videre,qui eat ad vide dum?nondu enim videt. Sed geftum,vt diximus,, significat animicorporisq; ad id propensioris:sic Cicero ad Petum. Vt videre te, et viserē, et cæna rem etiam. Quoniam vidētinter fe etiam qui no lunt videre: at visunt, qui cum cura. At, Vexasle. X 1 rates canibusmarinis: quo modo tantum inchos asse exagitationem, quum inchoare imperfe ctionemdicat, horum autem sentetia etiam frizmimpugmento fit. Alia autem frequentatiuain To, sunt: quoniam eorum Supinaeandem nacta sunt terminationem, Ventito, Vecto.neque frustra a fupinis du etta funt: nam alterum fignificattermi num ynde fit motus. Itaque Veet o,significat Ve ho, fed ita, vt semper in ipsa fim actionc, quæ ad „ finem tendit, quali Vectum co: nunquam igitur ), absoluit, sed iterat a et iones. Dormito autemino est frequenter dormio: cuius significati cauffa eft, quod qui leuiter dormit, repetit fomnum inter ceptum,aut interruptum. muzica Meditatiua autem optime fic funt a veteri busappellata,quæ in Rio, exeunt: vt Efurio, Co naturioapud Martialem: quibus formis tantum affeet um oftendimus, tamque intensum, vt nihil aliud meditari videamur.Non igitur nomen mu tandum eft, quod fecererecentiores, vt Delide ratiua potius vocentur. Nam desiderii cauffa co gnitio exmemoria. Desideramusea, quæ in po teftate noftra non sunt: at Meditamur ctiam ca, quæin nobissunt, vt ea exequamur. Itaque non defiderabat Cæsar proscribere, poteratenina: fed gestiebat. Iccirco dixit M. Tullius ad Attic. IX. Ita fyllaturit animus eius, et profcripturit iam diu.Horum autem caussam, etoriginem æquei gnorarunt: neque enim a Supino veniunt, seda » Futuro participio aetiuo: Quo tendis Gnatho? ad Pamphilum:Cuius rei ergo? Cænaturus, inde Cænaturio. Fue X 319 he a ne 10 al Fuere vero etiam alia verba huius ordinis, non ignota quidem illa antiquis: sed in hanc claffem min quum non redegere, minus re ette ab ipfisfa et tum fuit. Sunt igitur ea, quæ Imitationem quan dam significant,de quibus supra diximus: AGræ cis orta,in zo. Tres autem modos in ipfis animad vertimus: Aut enim fignificant apertam imita-; tionem: vt, Atticiffo. Aut minus apertam: vt 0-2 dinmw. neque enim Æschynes potius imitaba tur Philippum, quam fequebatur. Tertiusmo- 4 dus est quum dicimus Cyathiffare. neque enim autimitamur, aut sequimur Cyathum:fed trans latum est significatum a cauffa efficiente in in strumentum. Imperfonalium Natura, Ortus, Caussa, Vfus. Væ prisci tam Latini, quam Græci dixere primum quidem constat, quum et Numeroca - vox rere dicantur, et Persona: atque Numerus,vto stendimus, quam persona potior fit:dubitandum esse, an comodius Innumeralia, quam Imperso nalia dici debuerint. Verum illud maioris mo menti eft: quum verbum sit fpecies diet ionis,de-An? clinabilis per Numeros, et Personas,ab ipsisdefi nitum, tamen verbi fpeciem comenti sunt, quam vtroque carere putarint. at Generis fubftantia tota in qualibetspecieest, igitur et genericæ dif ferentiæetaccidentia propria inerunt Quierror vt clarius pateat: priuatim de his, quid illi sense rint, videndum eft, Xij. Im veni Des.  spany Impersonale, inquiunt, duplex,vnum Actiuæ vocis,quod imitetur aetiuorum tertias, vt Placer: alteru palsiuæ, quod repræsentet tertias passiuo. rum,vt Amatur: vtrunqueautem carere tum nu. meris, tum personis: nequeenim primæ, aut fe cundæ, auttertiæ effe, fed nullius. Hæcigitur vt Exam.sefutentur, paucula repetamus.Oftendimus Ver ba aut transmittere fignificatum in appofitum, aut proferri absolute: lic, Cæfar amat Lucinam, tranfmittiturhicactioamadiin Lucina: eodem que modo paffiuum quo pacto proferretur inue tum est, “Lucina amatura Cæsare”. Abfolute aute fic, Cæsar amat: et, a Cæfareamatur: nam tametfi scia' quidamet,tamen non edisseram:itaque cue nit, vt aliquando nulla explicata persona fignare tur:at enimuero nequeprima,neque fecunda, ne que tertia excludebatur,poflum enim intelligere lic, Cæfar amat Me, Te, lllum. Títum vero abeft, vtin paffiua voce nulla persona intelligatur,vtet iam neceffario tertia fubfit, fed incerta. Alii igitur vthoc euitarent, plus errarunt,Imperfonale dici, * propterea quod nulla persona, a quo id fieret, ex plicaretur:quu contra cõstetapud omnes, neque sit digna fententia quæ refellatur. Na a Parmeno ne dictum est dese,Statur: et a Vergilio de Ænea, Ventum eratad limen: et a Liuio de Tarquiniis, Reditum Romam. Præterea hi non re ette refpe xerunt ad obliquum: vt quoniam a et io, a quo pro diret, non indicabatur, personam subiectam ne garent. Non enim cum Obliquo verbu cõuenit, » led cu Recto.Igitur cum Rectu subintelligamus, fubintelligitar et Persona. Nequevero ad neutra confugiendum est, qualia agnouere, StaturCur, ritur: nam Stare ftatum, et Currere stadium, et Vitam viuere, et Ire viam dicimus: et Decurfa spatia, et Vitam euitari, et Mortem obita legimus. Alia enim etfi videbuntur absurda consuetudine reclamante,suapte tamen natura talia funt. Quin etiam legimus Tellurem inaratam, et Pyros insi+ 1 tas. Quare quæ Verba non patiuntur eiufcemo-, di constru et ionem, ne hunc quidem loquendi « modū admisere, qualia funt, Egeo,Gaudeo. Quu enim Obliquum poftulent, non potuit dici, E getur: quod poftulat Rcetum: quod fi aliterre periatur, hoc fiat, propterea quod prisci aliter quoque fint loquuti, quemadmodum Cato, Ca reo pecuniam. Si igitur fubie etta Personaintelli gitur, Numerus etiam intelligetur: qui etsi non » præfcribatur, tamen ad singularem referretur:vt, Quid fit Gnatho? Editur.licet multa esitet,tamē fingula disponas ad intelligendum. Quodfiquis a verbisin or, aliqua ducta pro exemplo habeat, is animaduertat, quod esta nobis diettum supra, Verborum mutataesse genera, Opperior, Nu., trior, Pascor, et alia, quæ a Nonio in libellum re dacta, recenfitaquesunt. Atinavocisimpersonalix. ws WE E A doirrepsere, quãdo Reettus, cuius auspiciis » Verba in Numeros, atque Personas circumagu tur, latuit nos. Nam hoc, Placet mihilucubrare: idem sitatq; hoc, Placet mihiamor præsens. Iam so Qindivorce to Pianua idem effe docuimus: quare X iij. fatis s sus fatis patet,nehæc quidem vocanda esse Imperso. nalia. Aliquot tamen sunt vfu potius distorta, quxintegra nihilominus aliquando fuisse necef Rc feestinter quæ ea numeratur,Pænitet,Piget, Pu det, Miseret, Tædet:nam Obliquis coniungutur: sicut etiam distorsit Plautus in Captiuis,Nã post quam Rexmeus est potitus hoftium. Noseam af peritatem in meliorem receptam legem emolli », uimus, et interpretamur verbum Potitus est,pal fiue:subintelligimus,vi,aut opera:sicut xxięnv sub intelligunt Græci et Sallustius, vtsupradiximus. Ita, Miseret mefortunæ tuæ: id eft, vis tuæ fortu facit me miserum. Sic fuit in verbis integris, Misereor tui: miser fio tuigratia. Argumentum huius rei maximum eft,quod horum vox singu lari numero remanfit, vt fit του το αρέσκει μοι, ήγειω To Qingv. Duorum autem naturam male funt ve teres interpretati,vt Interest, et Refert,quum sex to casu putarint ftatui, quum pronominibus ad derentur: Interestmea,vt effet,In re mea eft: et, Mea refert vt effet, Fert re mea, nunquam.n.fue ccre Imperfonalia: nimis enim delicate potuitve nire in mentein istis, vt verbum Substantiuum fa cerent Impersonale: quod tamen necessario sem wper aliquid vere statuit. Sed ita fuit, Interest mea legere, vt meæ partes suntlegere: Intermea,hoc est quoq;legere. Et alio verbo, Legere fert mea, id est,repræsentat mea negotia. Sicigitur tam aetiuæ, quam pafsiuæ vocis hæc verba fefe habent, verum in vtrisque eft quæftio: nam dubitaruntan dici poffet, et quomodo, Vi Anbi deturmihite fuiffe Romæ. Multi enim magis * do et i  16 ly doeti ratione, quam cxercitati le et tionc, Latine dici pofse negarunt: verum ea loquutio etapud Græcos, etapud Latinos inuenitur passim,et han bet rationem: totain. oratio illa infinitiui depen det ab articulo, fic, Videtur mihi hoc,te fuiffe Ro mæ. Ita Liuius de Gallis: Eam gentem traditur fama,dulcedine frugum, inaximevininoua tum voluptate captam. Xenophon quoque, * ğ xvpor “σεις ταύτιν Σποκρίναοθαι, λέγεται”. Ιtaloquutus est Aristoteles quoquein x. historiarum. Altera dubitatio est in his verbis, Pluit, Tonat: nondefuereplanie? enim qui Impersonalia ausi sint dicere, nimis fa neleuiter: eodem enim more subtra et a persona est, idque facile, vnus enim eftqui id agat, quare absolutæ potestatis appellatasunt ab aliis. Proxi ma his funt Germinat, Florescit, quæ ad terram referunt, atquealia in anima, quæ feipfa in pri mam personam recipere nequeunt: fed de hissu praquoque ampliusdictumest. Affectus verborum communes. P Roprium Verborum eft, non folum mutare Genus,Coniugationem, Modum,Significa - A tionem, etNumerum, vt tu Wa essvēra uza: fic ut fupra diettum est: sed etiam Casus: Ausculto seni, et fenem. Item vt confundunt Personas, Statur:fic confusasexplicant, Cæfar scribo, Ca to fcribis, Cælius audit. Proprium etiam creare 2 ex fefe alias partes, vt Nomen, Creo, Crea tor: neque femper pleno fignificatu, nanque a mouc TOMTS, coar et atur ad carminum tantum Xiiij auto De e LI 2 1a. in 324 IvL. V. autorem, Latinum vero, Faetor, ad eum qui o leum faceret, folummodo. Aduerbia, Fere,Age. Item creari a Nomine, Strues, Struere:Imperiu, Imperare.Sed et creare aliâs generis nomina, quę verbalia non dicantur, vt a Do, Dos. Illud etiam obseruauimus eorum peculiare accipere fignifi * cationem ex alia actione, riw, eft cibum capio. Atquia e cibo oritur fitis,iccirco Latiniea occa fioneid verbum recepercad significandum quod fequebatur,quippe, te doebav. Igitur patitur etiam amuegia. Etponitur proAduerbio, Age, Sodes, Amabo: pro Coniun ettione, Licet: etin compositione, Quam uis, pro Nomine, vt dixi mus ex Ouidio,Sæpe Valedicto. IV LII Asia. 1 Pre Un Pronominissedes inter partes,Ratio, Diuifio. PARonomen qaidam ante Verbum ono. posuere, alii etiam poft Participiu tractauere: vtriq; male. Priores co redarguatur, quod Verbum necef faria vox est in oratione: Prono men non eft neceffaria: nullum enim Vicarium neceffariu. Igitur si Pronomensemperloco No. minis ponitur:posito Nomine, Pronominis vsus nullus erit. Quod autem Pronomen przcedere 2 debeat Participiū, sic demonftramus: nam Parti cipii Ognificatio ad Verbu reducitur, modus sig nificationis ad pomen:Pronominis auteet figni ficatio, et modus, ad Nomen referuntur: plus ha bet Participiū Verbi,quam Nominis:Pronomen penetøtu nomen eft: atNomen eft prius,quam Verbum: igitur et Pronomen,quamParticipiu. Definitionem aute more noftro ex vi Nominis X V. clicia 1 316 IvL. VI. 1 Vox. eliciamus. Pro præpofitio,vtin libris Originum plenius narratum est, quum multa significet, id u habuit genuinum,vtvices indicaret. Pro Milone dixitM.Tullius: id est, obiit munus, quod Milo debuerat exequi. Fuit eius etorigo, et vfus a Græ cis. Nam tametfi frequentius fignificat Ante, to awes, tamen apud Herodotum in Polymnia legas etiam aegav digtns: sicut nos pro caftris, etpropa tria pugnare. Ergo videture nominc oriri defini shyo tio,vtPronomen (it, quod pronomine ponatur. Nam quemadmodum dicebamus, quædam re rum notæ sunt: vt, Nomina: quædam notæ « Nominum. quippe ad hanc vocem Nomen, si quæramus vt aliquid reddatur: fic, Cedo mihi Nomenaliquod:cotinuo dabo vnum quippiam, Cæfar, Equus, Enfis. Item Cedo Participium, Orationem, ratiocinationem: ad hæc non res, fed voces reddentur. Ab horum igitur natura non videntur abhorrere Pronomina: nam fi di xero, is, aut ille, aut, Ego, non ftatim interpre tentur perres ipfas:per sed Nomina, fic, Is, Ca to: Ille, Antoninas: Ego, Cæsar. Græci autem rem ipsam hanc candem expressere, sed paulo licentiore voce vfi funt. Etenim avtwuia non estipsumhoc quod pro Nomineponitur:feda et tio quædam, qua ponimus Nomen pro Nomi ne. Cæterum acrius, profundiufque intuenti fortaffe aliter res fefe habere videatur: tantum enim abeft, vt pro Nomineponi quis pPomba, vt + etiam prius, vetuftiusque intelligamus Prono i men quam Nomen. Quum enim quædamfint demongratiua, vt Hoci ctiam ignoras irei Nomen demonstratæ aliquid significabit. multæ res carent nomine, per Pronomen demonstratiuum intelliguntur: ergo pro Nomine non ponitur, quod nomen fane nondum extat: eodemque modo significabit,quo modo significant Nomi-" na hæc, Res, Ens: vtcommunis nota quædam fit. Dico autem, codem modo: quia communi quadamæque circunferutur significatione:nam modo alio diuersa sunt: quoniam illa simpliciter significant, Pronomen autem Hoc, per demon-” strationem. Non igitur pro Nomineponetur, nihilo magis quam Řes, aut Ens: sed to ti statim acfinemedio notabit. Præterea Ego, et Tu,in-2 diuidualitatem ftatuunt magis quam nomen Cæ faris, et Catonis: neque enim quum dico, Ego, potes alterum intelligere, neque cum altero com municare: quum dico: Cæsar, etiam in alterum transmitti poteft intelleetus: vt non folum non ponatur Ego, loco nominis huius Cæfar: sed et iamecontrario, nomen ipfum Cæsar, per Pro nomenad certama substantiam præfcribatur. Vt etiam plus errarint, qui sicsentiut, Ego effe Pro nomen, quoniam pro Proprio nomineponitur:* fic enim etiam nomen Appellatiuum esset Pro nomen, cum dicam,Homoloquor:ponereture nim pro Cælare: fed fubftantiam meam ftatim fignificat, non nomen meum. Præterea fibiipfi cõtradicunt: negant enim poffe ficmeloqui, lu lius scribo: fed fic, “ego Iulius scribo”, ergo pronomine non ponitur vt vicarium, sed ut primarium. Neque Verű est, quod aiüt, appellatiuu in Propriu resolui.sunt.n.nomina quædam generica, et specialia seorfum a propriis,quæ nunquam resol uuntur:vt Piscis,Auis, Homo: quibuspotestattri buioratio, et ad eaetiam conuerti: veluti quum humanigenerismiserias fleam, ficinstituam, o homo,genus infelix, Tutibi paras infortunium. PronomēTu, eft fpeciale. Eadem ratio sui comparis, Ego: respondere enim faciam hominem pro tota specie, sic, Deus me talem creauit. Sed etalia exempla sunt commediora, vt in nominis bus Collectiuis, Auditu populus Albanus: Hæc dicit populus Sabinus: Ego non ceda tibi lare pa trio.Quid igitur? aut nihilintererit inter Nome etPronomen: aut etiam Pronomen erit præstan Joba, tius Nomine?Minime:fednomina inuenta sunt, quia resnobifcum ferre nequimus: itaque sem per significantfine adminiculo. At Pronomina, w autreferunt Nominaiam pofita, aut egent præ sentia loquentium: et per se nihil ftatuunt, nisi u aut Nominibus adiuta: aut præfcripta demon uftratione: iccirco communis hæc natura'eftinda ganda. Sicitaq; alii definiuere, Diet ioinflexa ca Libus,indiuiduam maxime effentiam fignificans, fine vlla quidem temporis,fed nunquam fine de finitæ personæ differentia. Verumnequaquam 1 Aduerbium Maxime,inferendum fuit:æquabilis enim est omnis definitionis vis: neque recipit in tenfionem aut remiffionem: neq; plus fignificat effentiam indiuidualem Pronomen Ego, quam Nomen hoc indiuiduum, ne quis dicat Aduer bium illud positum esse ad nominis difcrimen: Neq; essentiäfignificat potius, quam ipsum ens: quum enim dico Ego, no significo mcam humanitatem: id eft, hominis formam,qua homo fum: fed totu hoc quod sum: ncque potius effentiam, quam essentias.habent enim etiam pluralem nu merum. et relationem æque multa significant, non essentiam: immo etiam plura. Nam ab Ego, duo habes, Meus, et Nofter:a Tu, totidem: a Qui, item duo,Cuius, et Cuias. Præterea cætera relati ua, qualis, Quantus, atque eius modi, omnia di cunt accidens, non substantiam. Quin etiam obliqui casus illorum rclationem notant, sic,Ensis Illius:non significat hîc ensem, fed poffeffionem, etcnsem consignificat. Tertius error, cum ne - 3 gant vnquam Indefinitam perfonam a Prono minestatui. Omitto quod vocem hanc Nunqua, male inseruerunt definitioni: nam definientisa tis est,dicat,Est hoc, aut hoc: sic,aut sic: definitio enim intelligitur competereper se, et omni, et vni, et femper. Sed demus hoc Grammaticorum fupellectili curtæ,at illud falsum est, Multa funt, Pronomina, quxcuiuis adhæreant personæ, Is, lllc, Ipse. Ille ego,qui quondam: Ipfefubibo: Is fum Quirites, quem me effe voluistis, Ergo non definiunt personam,fed ab aliis definiuntur.Item Meus fum, Meus cs, Meus eft, et vt ait feftiue Plau » tus, Noster sum: in quo nihil a nominibus diffe runt, quæ non variata voce varias recipiuntur in personas. Igitur aliter quoque definitum eft: Quod certius, quam Proprium nomen signifi- soc. cat.Hoc autem falsum est:certiorem quidem rem poteft significare, scilicet præsentem: at certius non poteft: Etenim sine medio Propriu nomen fignificat indiuiduum suum, præterea non cuiuis competit Pronomini: quis enim dicat, Meus, Tuus, certius fignificare, quam Dauus, Syrus?. Immo nisi aliquid apponatur, nihil significant: Quum enim relatio non in vna tantum reinue niatur, fed intes plura, nisi aliquid addas ad quod Resoben illa referantur: corum fignificatusvix extet. Nos igitur aliter sentimus: Pronomen a Nominenon differre significatione, fed modo significandi. Hæc autem differentia eft triplex:acquemadmo dum,Par et Impar, non cuiuis numero vtrunque fimul, sed certo alterutrum competit: ita hiaf fectus, quos Modos significandi diximus, alius alii competit Pronomini. Primus est, quod rem præfentemindicant loquenti: id quodnon facit Nomen:vt, Ego: aut etiam ei,quicum loquitur: cevt, Tu.Atque hæc poffuntponi, nullo nomine fubintellecto:rem enim ipfam ftatim per fpeciem intelle etui repræsentat, non per nomen. Alter 2 est, quod pro Nomine ponuntur, vt Relatiua: Cæsar bellum geffit, isvicit:idem estCæsar vicit. Tertius est quod non folum pro Nomine ponun 3 tur, fed etiam cum Nomine, vt ipsum repræ fentent: Ego Cæfar. Ex quibusipfa Definitio colligi poteft: atque ex Definitione Diuilio cer tas in fpecies, quæ de manu veterum afferendz funt nobis, atque vindicandæ: ipfi enim Relati prone vum Quinegarunt Pronomen esse, peffimo qui dem consilio: quum fecundum eorum definitio nem, quænihilaliud ftatuit, quam pro Nomine poni, totam eam naturam,ac multo melius quam Ego, et Tu, fibiassumat. Nam fi Is, Pronomen est, quare Qvi, non crit? idem enim Vfus vtriuf que, etForma, id est significatio, et materia: nam fuit real d's,Quis:ro, Qui. Par error etiam quum » + Relatiuum substantiæ appellarunt, refert enim etiam accidentia: vt, Calorem, quem vides,con traxiex ira. Quare alio modo ex diuisione nun cupandum erit: non ficut fecere. quibus Prouo- + cabulumpotius dicere placitum est. Nam Voca bulum eft quodcunque in voce consistit: etiam ipsa Verba Vocabula sunt: quis hoc neget: nifi superstitio Grammaticorum? potius nutus quif-» piam,aut oftengo aliqua.Prouocabulum dicatur, quibusloco Vocis,et Vocabulivtamur. Diuifioautem fiet,ficPomba Nominis:nam alia Sprej dicentur substantiua (vtemur enim vocabulis re ceptis ) alia Adiectiua, non quæ Substantiam Roho tantum significent,fed etiam Accidens: vt, Isco lor. Sed quia non repræsentant modum acciden tis, alia autem ftatuunt ipsum modum, vtMeus: nam sicutSeruusfignificat poffeffionem, etcon ť fignificatsubstantiam: fic etiam Meus. Quare er iam Relatiua, alia dieta funt Subftantiæ, vt Qui, as Is: propterea quod line fubftantiam fiue Acci dens referrent,modum ipsum apponerent Sub ftantiæ: quum enim dico, Is color: tametlico lor in corpore est, tamen non indicatur a me, I quatenus eft in corpore. Alia dieta funt Acci identis, non folum quæ Accidens natarent, fed Anhmpi etiam quæ consignificarent Substantiam. Nam Quale,significat Accides vteftin substantia.Re centiores autem leui nimis de cauffa Qui, inter + Pronomina recēluere: propterea quod,inquiut, quorun: nlah IvL. VI. quorundam Pronominumdeclinationem feque Į retur, Hoc autem eft ridiculum, Affectus variare Subftantiam accidit enim Declinatio Pronomi ni. Itaque etiam vsu mutantur. nam quod dici mus Alterius, fuit olim, Alteræ,in fecundo cafu 2 feminino. Præterea multa Pronomina Nomi num fequuntur Declinationem, Nominaigitur erunt.Ego,Mei: Tu, Tui: Meus, Mei. Et contra, NominaPronomipurn: Vnus, Vnius: Solus,So grozilius. Ex quibus constat Pronomina Relatiua ac cidentis resolui in substantiuum cum ipso acci dente quod referunt. Nam Tantus, eft nomen confulam fignificans magnitudinem. Sic Tan tus Aftyanax, Tantus Hercules: id est, hac, vel hac magnitudine. et fubdam, Quantus Syluius, Quantus Cæfar: id eft, qua magnitudine. Ea dem ratio et in cæteris:Qualis.quo colore: Quo tus, quo ordine, etreliqua. Proprium Relati omuifubftantiui eft fle ettere naturam fuamin ora tione, ficuti de modo Indicatiuo dicebamus: id fit ei tribus modis: Interrogationc, Quiestis vos? 2 Negationc,Nescio quam in gentem veni:vbiec 3 culta est quædam relatio. Occultior autem etiam in illo, Quid hominis es? vbi vim quandam No minis fubiiffe aiunt: fed vfus hæc flexit. Hincet iam elicimus,quod veteres omifere, Adieetiuum + etSubftantiuu, non efle Nominis affectiones aut differentias, vt Nomen est, fed vtest Dictio.com petit enim etiam Pronomini. Atque erroranti + quorum patet, qui putarunt Pronomen a Nomi ne diffcrre: quoniam Nomen nullam personam determinet: Pronomen autem certam ftatuat. Nam et Vocatiuus Nominum certam ponit: et, Ipse,llle,atquealia non certam.Illud quoquecon topresent templandum est,quod aiưnt, Pronomesine Dest monstratione, aut Kelationenihil significare.Act fententia quidem vera eft ipsa, sed oratio minus at bene compofita: vsi enim sunt voce demonstra mulher se tionis,pro repræsentatione. Neque enim qui di Evden cit, Ego,semper demonstrat: nam quemadmodu meablenti tibi demonstrabo, quinungmgmuli?Iyon a casa lus vides? mispoloma 1322878 Ambigitur autem etpræter hæc, Alter, et Neu asygoiza delo ter,atque eiufmodi,sintne Pronomina.nam qui dam ipla vocarunt nomina Partitiva:sicut On nis,nomer Distributiuum. verum enimueroli Si quiseorum ortum fpectet, inveniet effe Prono-so', mina. Est enim Neuter, non vtero et Alter; alius yter: at ipsum Vter, Pronomen effeconstar: non / enim differt a Qui,nisi per modum: quoniã duo bus tantum apponitur Vter: Qui, vero pluribus., Quareetiam Alius, pronomeni eritidiffert enim Ali ab Alter,sicutQui,ab Vter: atq; exponuntur per nomina lic, Vter fecit? Cæsar?Non: Alterfecit. Quisille alter est? Cato: neque enim alio mo do ponitur,quam fi dicat, ille fecit, non hic. Est autem Vter, oĚTERG'Alterjan GuerepG itern cę=> ter, ngungo. Quare etiam Omnis, et eiufmodi Ommi erunt Pronomina,suntenim signa Nominuine-, quenumerum significant, effent enim Nomina, vt Vnus,Duo: sed niotæ tantum funt Nominum. Quum enim dicis; Quis homo disputat? et refa pondes,Omnis hocsignificat;atque si fingulos homines nominatim redderes, vfque ad vnum Y jo ýitie int nh T. 334 IvL. CÆs. Seal.VI. vltimum. Videbitur autem quibusdam absurda hocpropterea quod fignificet Quantitatem: fed non ita est: imo vero hignificat Distributionein a etionis,aut eiusmodi in quantitatem.itaqueper Pronomina quoque cæteræ propositiones expli cantur, Quidam, Aliquis. Dubitabit autem quis. * wley piam,Nullus, Nomenne fit; an Pronotnen, ete nim ab Vnoducitur: at Vnus Nomen est, quãti tatem enim, siue principium eius significat. ad shoc fic refpondemus: Nomen esse,etinopia ser wimbonis vsurpatum pro eo quod effet, Non quil. quam. Eft autem origo ipfius Omnis, Greca, couco, vt Collectionem et Distributionem, non Quantitatem accipi intelligamus. Pronominum affe tus. Ronomina afficiuntur quib. et Nomina, Speranter. Primæ Speciei, “ego”, “tu”, “sui” Deriuatx, “meus”, “tuus” “tuus”. Genera in quibusdam distin et ta, “meus”, “mea”, “meum”. In quibusdam conueniunt, Ego, “bonus”, “bona”, “bonum”. Numeri duo, “Ego”, “Nos”. Personæ: tres: “ego”, “tu”, “ille”. Figuræ duæ: simplex, Ego: Composita, Egomet. Casusalii alijs, neque numero æquali. Ac de Specie quidem, met Genere, Numero, Figura satis conuenit: de Ca duautem non in omnibus. Circa Personam quo que non idem sentiunt omncs. Ad hæcigicur in telligenda, vsus ac ratio corum cxaettius suntper perso fcrutanda. Signantur igitur duæ personæ,Prima, ac Secunda duobus tantum Pronominibus: at Tertia pluribus.Non quia Prima, et Secunda, prę fentes funt, vt dixere: non.n.id verum eft: nam quamobrem Epistolæ sūħtinftitutæ? Sanein his abfentes loquimur deTertia etiam präsenti al $ terutri scribentium. Sed quoniam et qui loqui- » mur, et ad quem loquimur, vnico intelligimus modo: at tertiam non vnonam aut monftramus, aut absentem referimus: fic enim distinguimus, vt alia fint Demonstratiua, alia Relatiua quæ fia ne discrimine vtriusque naturæ vices fubeant, Demonstratiua autem laxa, vt diximus, voce: nã aut præfentem sensibus,aut intelle ettu:Non quệ. + i admodum scripsere, fic, præsentem autad oculu, aut ad sensum: quasi vero oculus senfus non fit; quali vero si de voce loquar, oculo percipiatur. Itaque demonstrato colore,aut sono, aut fapore, aut odore, aut retactili, sensu constitui ostensio De nem dicemus. fi dicam, Hic motor, cujusvolun 16 tate orbis rotatur: intellectui præsens demonstra i bitur. huius generis est Hic. sub quoetiam alius moduscontinetur:interdum enim quod non vi I demus nos,alteri,quicum loquimur,demonstra al mus. quippe rem iplius præfentem fenfibus, aut y notam intelle et ui:huius generis est iste: absen-> ti enim fic scribam, Ista tua cura, quæ te angit: Iftud Mufæum, in quo scriptitas. Neque enim prisci re ette fcripfere, Pronomen Iste, lignificare + præsentem personam: fic enim fcribam, istud tuum prædium, in q diuerti fessus de via, abest ab vtroque noftrum mille paffibus. Præterea i pa pfi fibicontradicunt:aiunt enim, Primam et Sccữ + for dam non variari per genera, quoniam presentem Y iji rem semper indicarent: ergo ifte, quomodo per genera variatur, fi semper præsentem perfonam + indicant? Alter quoqueeorum error, quum HIC, appellarunt Pronomen præpofitiuum, iccirco, quia fignificet primam rei cognitionem: id est, " quod reddaturinterroganti,fic, Quis fecit? Hic. lam omitto pessimum loquendi modum, neque enim significat cognitionem rei, fed nota eftco 2 gnitionis, significans rem. At enimvero etiam subiungitur relative ficut etiam Is, frequenti vsu Cæfaris, et Salluftij, nimirum vtriusque origo ea a dem est.soxiglfee:oxe, Hice, a quo per Apocopen, Hic:nam lones:, pro o, dixere. q An vero, q aiunt,verum eft? Primam et Secu dam non variare vocem per genera, propterca quod præsentes semper fint: 1 ertiam variare, il lella,illud:quianon (int præsentes; quæ sub ter Rc tia circumferuntur. Atquehociam a nobis reie ' ettum eft.Namque quod appellantPronome Demonftrativum “hic”, “hæc”, “hoc” variatur, ac præ fens tamen ab ipsis femper ponitur: itaque suis ipfitelis pereunt: pereunt vero et noftris: non e 2 nim semper præsentes inteľ nosloquimur. Quid enim ex vltima Germania fcribat ad me puella, atque ego refcribam? Amo te,inquiet: ia hicge nus neceffarium eft: vt fciam, amicusne ani amica bene de me fentiať. Quærunt etiami, qüum Pri. ma, etSecunda certis feratur numeris,quamobre Tertia non distinguatur: Quoniam,inquiunt,ex antecedentinumeromoderamurfequentisper • fonæ intelle et uri,sic, Ipfe se interfecit:ipfæ fe in Renterfecere. Atenimvero ratio hæcnulla eft: nam priimum dicam, Græcos non carere numero plu rali, ex tOY, łauto's. Deinde hoc modo foluentur- 2 oinnes quæstiones; Mobilia enim Nomina, non erit pecesse variare: intelligimus enim fexum ex præcedenti substantiuo, et Casum, et Numerum: lic et verborum ratio vnica voce eadem fit, qua. lis qualis præcedat: Cauffaautem huius rei fuit Græcorum imitatio: nam tametfi in composito distinguant, vt posuimus: tamen simplex vox, tou vnde noftrum Se, communis vtrique numero fuit: id quod non tam consulto fecere illi,quam cc euenit forte, vt etiam in multis: Nam quid limi leințer fyw, et nueis: rv, et vues? defe et u igitur multa funtinnouata, fuis deftituta, aucta alienis, ficapud Latinos, Ego, Nos, Tu,Vos. Quare vt eum errorem emendarent, addidere alterum Pro nomen quod afferret et numerum, et genus.Grę ci antes; nos, ipse. Ealov, seipsum. Quod autem chicafferimus,verum effe fatis constat,quum in ca » ulibus quoque non inuenere vocem, qua differtent. Nihil.n, intelligas diuersum, cum dicis, Se interfecit Cato: et,Seauthore voluit Cæfarem in kerfici. Orationis enimvi percipiasCasuumdif Kerentiam,vocis autem fexunon percipias. Assi egneatigitur rationem, quare duorum Cafuum, esnaxime'diuerforum, idem fit fonus. Relatiuaautem funt Is,etQui,vno modo: ree nila tina? cerunt enim rem jam positam. Altermodus este quum relatio fit per reciprocationem,hæc vnica Elantum, ocem habuit in Pronominibus, SE. Exemplum veriųfq; esto fic, Cæfar optimus.jma.» perator, atque vir fuit clementiffimus. is Gallos pue Out Y 'iij.  VI. pygnando, et seipseignofcendo,vicit. Inter hæc. connumeraruntetiam ille. Nonpessime sentiut, fed exemplo vtunturnon bono,e feptimoÆnei. dos, -- Sic Juppiter ille monebat. At enimuero in exemplaribuslegitur Ipse, non autem ille: neque enim refert Iouem, cuius no men ibinufquam positum eft: eft enim Ule, Iste: non dicas igitur hocloco, Sic is luppiter mone bat. Quis tandem füppiter? nullus enim ibielt. Quod li in quibufdam fcriptum inueniatur, vt volunt, Emphalim intelligamus: vt, Thais illa Corinthiaca. Eft autein miltæ naturæ, atq; indif Ce ferentis,tum ad Relationem, tum ad Demonstra tionem primi exempla frequentissima. -Teretesfuntaclidesillis. ato -Ille etterris iactatus. Oftendit autern in Sexto, Ille triumphata caputolta ad alta Corintho. demonftrat enim Mummium. Differunt autem Demonftratiua abRelatiuis, quod Demonstrati uaftatuunt primam cognitionem: vt, lste tuus animus C.Cæfar te perdidit. Relatiua autem eam iterant fic, Is te reddet immortalem. Nam quod Gaiunt, boc Pronomine Bíte, propinquam rem fi pang gnificari: hoc Pronomine lile, longinquam; non plane verum eft. fed ita accipiamus,vt Iste 11. semper referatur ad rem,aut perfonam,adquam loquimur, vtin Secunda in Antonium. Iltis fau cibus, ista gladiatoria firmitate: id eft, tya. Istam vrbem appellabo cam, in qua agit is, ad quem fcribo: illam autem, ab eo remotam,aut istạm vrbem de qua locuti fumus, Quoniam eius ori, gouls, parem vsum habet. Sed et aliquid præsens» $ E Iitud, appellamus,vt apud Quintilianum, lite iuuenis.Et de eodempaulo post,Hic iuuenis.Se cundo modo vsus est Gellius: Brundufium ve ni, atqueisthic offendi quendam: pro, Ibi: atque fi dicat, Ifto in oppido offendi:vt,æque dicatur, Isto oppido, et Eo oppido: quoniam ifte,lit, ls, Te Atipse, commune omnium personarum est: upan dicimus enim, - Ipseferam teneralanugine mala. et, Ipse vides: et ipseratem contofubigit. Quare quuin Tertiam assignarint, minus verea Prima, eta Secunda 2-, mouere.nequeenim recte probant sic: Dicimus, inquiunt,Ego feci,Tu fecisti, Ipfe fecit: quare si cut Ego,est primæ;Tu, fecundæ: fic Ipfe, Tertix. Huic nosad hunc modum et refpondemus, et obiicimus: Si Ipse, non effet omnium personaru,» noniungeretur Primæ, fic, Ego ipfe. Neque vlus) lam figuram effe in toto ambitu literaturæ, quay: Prima cum Tertia iungipossit. Item dicimusno effe verum, sic poffe dici, nifi prius aliquidsub- ») + fic quod referat: exempli cauffa. Quærit Anto nius de O auio, et Lepidum alloquitur: Quis patrauit parricidium Ciceronis? nonpoteft dice rede Octauio,Ipfe fecit: nis O et tauium nomina rit.efteniin relatiuum: fed commodius etiain si senon nominat, potest dicere, Ipfe feci. Sednul- + gantur etiam cum dicunt, Verbum ipfum Primæ perfonæ habere intellectum Pronominis Ege: quoniam si sic dicas,Feci:neceffario intelligas, E go.igicur poffe ponicum primaVerbi,quia pria. maPronominis fubfit.Verum de Tertia quoqne idein CIE 16 1016 7.50 del adi Y iiij. VI. bigo ling 0 idem intelligas,Fecit, habet intellectum prono 2 - minis Tertiæ. Præterea Gcut Relatiua cætera o mnium funt personarum:fic etiam hoc: nam eius see metha ho qual harorigo est ab Is: Ipse. at, is sum,dices: et, ls es: et, is est. Addunt alterum augmentum. interro ganti, Quisfecit? nüquam respondebimus, Ipfee pro, Ego:aut pro,Tu:sedpro Tertio. Hic eft'fal lacia fimul et falsitas: Fallacia eft,quia fi dicas lp: fe, et oftendas Tertium, recte dicas: fed etrede cefite oftendas, auteum quicum loqueris: Nutas enim et ostensio statuunt primam cognitionem, quam iterat Ipse.Si autem nullum oftendas, fal sum est,fic poffe loqui nos. Quis enim eft ifte ip se? Acutius etiam intuenti apparebit ratio: nam ce interrogatio est in tertia persona verbi: itaq; fa cile reddas Ipfe fine verbi repetitione. At fi dicas fic, Iune fecisti hoc? possim refpondere, Ipfe fane: etiam nullo verbo repetito. 2'Præterea quis nescit; Affirmantis, et Interro: ganuis, et Respondentis orationes non differre nisi modo quodam? igitur Aeneas quum dicit, Quæque ipfemiserrimavidi.nonneinterroganti Reginæ fic, Vidifti ipfe?refpondeat, Ipfe. Respon demus tamen certius, et commodiuspalia, Hic, w ] ste,ille, ficut et Græci, što, deiva, cileivG.Pru udentius igitur fecere, qui Fi@ yuanxov appella uere, propterea quodomnibus subiungeretur p fonis, quasi ordinarium additamentum intelli e gas. Consultius autem etiam,qui dm et Tixev,pro pterea quod intenderet significatum. certame nim rem ftatuit, atq; circūscribit:plusenim est, Ego ipfe,quam Ego.Iccirco pro Solo,etiam sunt  interpretati: at id euenit pro structura orationis, atque yi verborum: yteoversue Sexto diuinio peris, Iple ratem conto subigit. Quum enim ne- > - minem, præter Charontem, nominaffet, retulit = eum in fingulari. quare etiam folum intellexit Sed fi duo aut plures fuissent, poteratetiam fic, Ipsi ratem subigunt: vbi nihil effet solitarium: Sed nunquam Grammatiçidesinent ineptire: ve slutiquum ausi suntdicere, effe hoc versu Nome, + non Pronomen: et tamen eftloco eius nominis, Charon. Sed æque est, atque sidixiffet,idem.In terdumvero etiam additum nihiladdit:vt apud Ciceronem, Quiante seipsum Consulfuit. Vfos autem fuiffe veteres aliter hoc Pronomine, quam ab istissit obseruatum, oftendimus in O triginum libris. vtaliquando quasi loco Adner.no satiuæ, autSubdifiun et iuæ capiamus:velut apud Catullum eo versu, Namcaftum effe decet pium poetam _ Ipsum: verficulos nihil neceffe eft. Etapud Virgilium in Tertio, Portus ab acceffu ventorum immotus, etingens Ipse: fed horrificis iustatonatAetnaruinis, Eodem modo in primo Achilleidos Statius, Vacuisque reliquerat antris Ipsam: sed carulos afporiat: Plinius quoque id obseruauit, vsusque est libro, decimofeptimo: Vites,inquit, Aquilonem fpe ctare debent ipfæ: sed eorum palmițes Meri diem. In vicefimotertio Liuius non cum Aduer Satiua, sed cum Copulatiua iungit: L. Pofthu mium consulem dilignatum, ipsum atque exer citum deletum.Eftigitur trium personarum con munis vox,tam sola,quam addita:tam Relatiua, quam Demonstrans. Pronominaderiuata. 20 D Eriuata Pronomina;a Primaet aSecunda, bina sunt, a fingulari, etplurali, eaque di ftin etta vocibus, quia origines distinctæ: Ego, Meus:Nos, Nofter. Tu, Tuus: Vos, Vester. Vbi fecudę facilior esse videtur analogia, a “Tu”, “Tuus”. At Primæ non item, fed ab obliquo Mei,nõ are LIĆto,Ego: In học Græcos sequuti sumus, uzzeući, allli autem non temere pofseffiuum pronomen Cerâ poffeffiuo cafu deduxere: neq. enim diftat fues lembuos, nisi ficut Albedo, etAlbum:quare neque « Taysa Turecto, vt putarunt, fed obliquo fecun do casu ortu est.A tertia vero persona non fuit de ductio,ppter numeros variata, ppterea quod ne primitiuum quidem variabatur.cauffa autem pro pter quam ab vtroqueNumero deriuentur, hæc eft,Quod Græcidicunt apos, ti, nos relationem: fignificar duo,rem ipfam,et terminum quendam ad quem refertur:igiturpoffessiua pronomina et Grem poffeffam, et poffidentem consignificabunt Square numcrum pronominis poffefui accipie, mus a numero reipoffeffæ: etnumerum prono {minis primitiui,vndeillud poffefauum du et um est a numero poffidentis. Igitur quum dicamus, Ego polsideo libros:dica, Librimeisunt.et, Vos poffidetis librum:dica, Liber vester est. Hincli. quçt qua ratione a pronomineprima persone du ettum sit pronomen tertiæ. Equustertiæ peren sonæ eft: itaque Meus equus si dicam, tertiæ quo que erit, et a ME, quod est primæ perfonæ, due ettum est. quoniam relatio eft adprimam: figni-. ficatio ad tertiam. Natura, et vsus prominz Sui,Snus,etreliquarão porei ori Vanquam non est presentis operæ,decon-? structionis vsu,autlegibusscribere: tamen quia natura primitiui, et deriuatiui Terrix per fonæ multæ præclara ingenia vexauit: alia etiam jelulit:a multis confuse aut perplexe tractata funt: videamus hîc quæ eorum fit ratio. Relatio du. ou gone splicimodo intelligitur:nam aut habet terminum i extra rem quæ refertur: vt Dominus refertur ad Seruum.Aut habet terminut eundem cu requæ refertur, ratione tantummodo differentem:velu ti quum dico, Cato fe interfecit:Pronomen Sereia et fest Catonem ad Catonem: ratione ab fefe diffe rentem, non substantia: propterea quoddifferta seipso tanquam agens a patiente. Iccirco Græci a vpexAcest, quafirefra et um dixere: funt.n.oria's fia, sellæ plicatili in feipfas reciprocatu. Verum ea vox dariufcula eft, reditenim in agentem para fiointegra,non fracța.Itaque alia w Toma Desa fed et communis hæc nimis:sunt enim yerba quar "dam talia, talique nomine censita, vt Bereo: et al terum tantum terminum dicit,Paffionem.Noftri autem melius,Reciprocum:qua appellationemx tuam rationem referendi complexisunt: semper.n.redie vis reirelatæ in feipsam:Ipsefui memor: Ipfe fibi hostis: ipseseamat: Ipse de se hoc exigit. Ætas noftræ proxima in cæteris cafibus optime uvfa eft: intertio cafu frequentiffime hallucinata; apud plerosque enim inueniasfic, Ego dedifibi: etiamin oratione diserti yiri Agricolæ. Græci cautem veteres abusi sunt in poematis fuo opě, co dem modonon reciproce,fed transitiue. prome? Cumigitur idem sitmodusorationis, etnar rantis fimpliciter, et referentis narrationem: ea dem quoque erit ratio dicentium fic, Portia fe interfecit: et fic,Portia rogauit, vtse interficias, Refertur enim in prioreexemplo,Interfe ettio: in pofteriore,Rogatio interfectionis: at Interfe ettio.. femper in Portiam recidit, hæc est natura Pri. mitiui. Quod autem ab hoc deriuatur Suus, parem naturam, vfumqueeft conseeutusa: vt quocun que loco primitiuum poneretur, in eum locum ius fuum haberet: sic, Portia fe interfecit: et fic, Portia fuam vitam intercepit. Differtautem a Primitiuo ficut Adicctiuum a Substantiuo: Ita que etiam reciprocatio differt ab illius recipro cations namin deriuatiuo redit reciprocationo inrem a quaprocedit a et io, sed in ea quæipfius rei funt.fit hoc exemplum:Vidi Cæfarem homi nem:hîc fubftantiam ipfius Cæfaris intelligo: at, VidiCæfaremhumanum: intelligo hoc, quodis pliushominisest. Sicin Pronominibus. Vidit fę Cafar: Substantia reciprocatur:ar,Vidit fua Ca farareciprocantur ea, quæ Cæfaris sunt. Acquan uquam hocquoque modo potest Substantia reçi aprocari,vt fi dicat, Vidit Cæsar sua crura: tamen non permodumsubstantię refertur,fed alio præ OC dica EN 1 pro, vestrum. 00. 101 dicamento, 58 l'adv, per poffeffionem fane: quare Poffeffiva bæc di ta funt. Intelligo autem pofler fionem, quæ aut fuit, aut eft, aPombaiam futura eft: vtsuum regnum hæres dicat, quo nondum poti tus est. atque ipfam negationem:vtapud Vergil. Non fuapomia. lidem tamen Græci licentius vsi funt:vt Hefiodus, o nepov za tele vureisoa. suum, Sed loquendivfus maximus Tyrannus elt:Surving replit enim etiam Latinis, vt vbiponeretur veras, bumSubstantiuum.eo quoq; fubiret Pronomem hoc: vtapud Vergil. --Sua femper apudme Munera funt Lauri. Et alibi, --Sunt hic etiam suapræmia laudi. Neque abeft ratio: per verbum nanque Substan tiuum nihil extra effertur, fed in eodem quiescit: ! itaque par est reciprocationi, quali stenow,licu tidicimus quædammembriscarentia,Sedere:qa' non moventar.Paulatim tamen invaluit, vtad - ll lia verba transferretur: Nam quum dicendum effet,Suo gladio feipfe iugulat: tamen Terentius, Suo gladio iugulo,dixit: Eft apud Martialem a pertius: Etsuariseruntsacula Maonidem.Id autem pau lisper medio quodam loquendi modo invedums eft,qualis apud Catullum: Snus cuig, attributus est error: eft enim ibi et Substantiuứ, etParticipium. Quarepotuit præ terca dici,Suus cuique innafcitur error. Ita fcri ptum est in inveđiva in Sallustium: Quod fi i Te ftius vitam memoria vicerit; aliam P. c. non ex DOS 017 eti 7:6 2:07 701 Ja idi QUE W oratio 2 346 Iul. VÍ. oratione,fed ex morib.suis fpe ettare debetis. Eiuf dem modi eft illud Ouidianæ Penelopæ, Aspice Laertem, vt iam fua luminacondas. Ita que ridicule nimis ausi sunt accusare folçcismi Diuinum poetam eo verfu: Namg;fuam in patria antiquarintsater habebar. Eftenim eiusdem rationiscumfuperioribus. Ne -mo vero dixit vnquam solæcismum eum, quo do etti viri vterentur.Sicenim omnes sunt loquu ti, vt pure, nonruftice loqui putarentur:quemad modum M.Tullius pro Sylla:Sylla,fi fibi füus pu dor, etdignitas non prodesset,nullum auxilium + requisiuit. quem dicendi modum temere nimis inusitatumappellarurit:quum etiam Plautus, qui Romanæ linguæ lex quædam fuit:etiam Teren tiusqui veteris nouique Latij limaquædam ha bitus eft, ita etfcripferint, et feripta totiusvrbis iudicio approbarint.Plautus in Mercatore fic,Is " bet faluêre suusvir vxorem suam. Terentius aute etiam fine vllo responso mutuo, sed absolutene que solum deriuatiuum, verum etiam primitiuus Suo fibigladio hunciugulo. Quare feretur illud Ver gilianuin eadem prudentia: 1 Viuitefelices, quibus est fortunaperalta Iam fua.Id est, iam sua cuique, ficut eft clarius in Sexto: Quiquefuospatimur manes. Tria'kinc colligimus:Primogeniüm nuquam fineaperta reciprocatione poni præterquam mo doillo Terentiano: Deriuatum autem occultio re, sic, Sylla si fuuspudor fibi non pdeffet:id eft, prodeffe intelligeret. Alterum est, nullum efle 1 dia  terbietet CIOK 0 CUTIQUE 1101 umaut emeret etiamTe y quedar tatorin discrimen, fiue vulgarem teneat significatum, et ue pro eo, quod est proprium ponatur: præterca recte dici,Suus Cæizris, et Cæsarum.quoniam la primitiui voxa numeris non variatur,et SuusCæ fari:quoniam verbum orationis obliquz dux est, atque ipfam regit. Eft et illud manifeftum, Distributiuo Prono mini additum circumagi per omnia Genera, Per funtia sonas,Numeros,et Cafus, idque fieri vi distribugg tionis: Non folum igitur cum Quisque,vt dixere: sed etiam cum Omnis, et Quicunque, et Quil quis, et eiusinodi: Suum omnes Nationes tuen tur morem: Quemcunque suæ originis pænitet, Plats eum oportet effeineptuin: Suus omnib. A fiaticis dicendi mos eft: et alia talia. Sic etiam additis Pra politionibus: Starum fortunarum ergo nauigac Lufitanus. Etiam in Sexto casu, contra quam sen fere:Suo quinis genio potelt acquiescere. Hoc etiam eliciemus, quuin Scintelligamus el se semperreciprocum, fi duæ lint perfor:ą,tolle- zimmunocom dæambiguitatis caussa, alio Pronomine vsos ver que teres. Diligenter itaqueobscruatum eftin decla matione Quintiliani: Non sic nuper repugnafz fct, fi illum i ribunus voluiffet occidere. Si n.dia ! xiffet Se, haud intelligeret Marius, vtrum accipe ret, Reumne,an Tribunum. Par exemplum est, Rogauit Nero Epaphroditum, vt fe occîderet, Nescias vter sit occidendus; Nero, an Epa phroditus. Verum hoc loco fi illum, pro Se, fubdas, minus commodeloquare. Ita est:Rogat Philumena te Pamphile, ne fe deferas. Ergo i dem crit: Rogat Philumena Pamphilum ne fa desea crcatoret serenie dablole tampre returille serafta. licurelt enium Di przterea autem or cht,ouli deferat. Verum hæ orationes maxime funt fu giendæ. Cuius consilij modum in primo librod exemplis eloquentiæ a nobis dictum fuit:quili ber mihi vna cum duobus pofterioribus iam per fectis aut a Carnuto, aut a Provinciali surreptu est. Mr Eft etiam aniniadvertenda locutio illa, Inte fe: fic, FratresThebani inter fe dissident. Grad anon tam feliciter: sannous, alius alium: non. n. complectuntur illum mutuum responsum vltra citroque: at nos,Inter se, quali dicas, Medium in ter cos diffidium eft. Itaque Se, eft casus pluralis, vtrumque componensfimulacdisidium:iccirco distribuitur, deinde ad duo singularia partitum hincinde. Animadvertimus autem Ciceronem in primo Officiorum sic locutum: Homines au tem hominum cauffa essegeneratos, vt ipsi inter se, alij aliis prodeffe poffint. Declarat enim, In ter fe, per dimonous. Etin eodem alius loquendi soruyu mamodus est, Qua focietas hominum inter ipsos, et vitæ quafi communitascontinetur. Idem enim eft, Qua homines inter fe fociati continentur: imacon Colligitur etiam lex dicendi hæc, Suacaussa feci:recte.Suicauffa feci: non re et e:non enim re ciprocat. Sed, Mei caussa feçi:Sui caussa vt face % rem,rogavit. Quæram igitur,andicam, Tui cauf fa feci:Mei cauffa fecisti.Etfanepoteft:non enim sunt reciproca, fed personam tantum deli egnant:fed passivesemper accipiuntur.Tuiamor, quia tu amaris: Amor Tuus,quia amas: vt apud Ciceronem: Quod desideriumtui ferre non pos fet.Etin proæmio sexti Quintilianus,sic,Amore i inci Tolbe ab 01:18: G INH Donicos Vledes. callspice 12 DATE diues arian in Cicent · Homia IS, VEINIL arateuis mei vicitetiam matrem fuam. quod plusamatus fuieta filio quam a matre. Et Vergiliusin xila Viettus amoretui. Quare vbierit reciprocatio, ni hil eritambi uum: vrNarcissus Ouidianus,Vtor amoremei. Est enim ibi autoQinawlia. Atque hæc quidem natura horum Pronomi- Exay numeít,vtfuum quodqueobtineatlocum: quod fi eadem fine discrimine sedem ineant, id non ipforum natura fit,fed vi partium aliarum, qui bus oratio constituitur. Sunt enim quædam No mina, vt Cauffa, Fama, Imago, quibus vtrum ad dideris, idem fonat:Cauffa meafecisti: et, Cauffa mei: propterea quod vox hæc Cauffa, vim habet tanquam pafsiua.fic,Imago mea, et mei.quia Ima govno tantum accipiturmodo,de eo,cuiusest: 2 ethabet vnam tantum rationem relationis: fic et Fama. At non fic Poteftas, non Memoria, non aº lia ciusmodi:nam habet Potestas duplicem rela tionem: alteram adme, qua possum: alteram ad alium, qua in me poteft.fic et Memoria, etVlus, nistel et Copia. Copiamea,quam posfideo, quasum diues:Copia mei, qua quis in me vtitur. Sic Fa-> cultas, etVtilitas, et alia talia:vt, Accusatio mea, qua drwxws ago enim reum: Accufatio mei,qua Qevywagor enim reus.Sunt etalia Nomina, quo rum natura non repugnats sed vsus tantumnon sur le icam, I admittit:vt,Seruitus.Nam fi Dauus estmeus,eius otelio feruitus mea est: ille autem sic loquetur, Mei ser uitus: ettamen correlatiuum eius non respondet ntur.Tu pari ratione: dico enim, Meus Dominatus: et 12 am2; Dauus ad me, Tuus, inquiet, mei Dominatus. i ferreno Caussa autem eft,quia funt relatiua inæqualitatis.-) Z j. Yeriant alius.log at. Idea: continent 26, Sama e:noner ni caullari tuy tantum anus,liidid Iyl. VI. ti et CI Verum,vt dixi, vulgus non ficloquitur,vt Domi nus dicat, Meaferuitus: sed feruus. At philofophi orationi vsum illi concedunt, fibi reseruant sapi lentiam. Quædamapertius etiam cumnominibus iuneta eandem naturam declarant, vt apud Sallu © ftium, Metus Pompeij:non, quem metueret: sed, b quometueretur. Quemadmodum igitur Nomina sunt,quibus gmin mofine discrimine assignentur:ita et Nomina,in qui bus vnumpro altero ponctur. At non e contra P rio,vt vbicunque erit Primogenitum, effe possit etiam Deriuatum.Ea vero funt, Pars, Totum,Di midium, et eiusmodi. Hec.n.tam ad corpus meu, quam ad alia transferri queunt. Quoniam vero a duplicem habent relationem, vnam qua declara P ceturpoffesfio:alteram, qua fuis correlatiuis respon dent: iccirco duplici quoq; Pronomine præscri bi sese patiuntur. Effentiapartiseft ad Totum,et Totius ad partem, igitur per essentiale Prono E amenstatuetur:vt, Pars mei; ego enim sum totum per partes. Poffeffio autem partis accidentalis ceeft:itaque mei pars poteft effe non mea,puta vn a guium resegmina: autos e cicatrice, quod ferua uit sibi Chirurgus,vtoperam ostentaret. Quo in loco falli funt, qui hocnegabant: pars igitur bo mednot'ei uis,qua vescor,mea est possidentis:non vt pars, fed vtres poffeffa. Sic Ouidij parte fruimur nos, nuncipfe non fruitur:idest Nomine: itaque fica fcripsit, Partetamen meliore meifuper altaperennis 9 Aftra ferar.qum viueret,poterat dicere, Parte vmca etMei: nunc non poteft dicere, Parte mea, quan nullam habet: fed mei, quæ pertinetad to tum hominem, cuius pars Fama eft, quasi anima rerum geftarum. Atque hoc quidem vfitatum ac frequens est.. Quod vero e Plauti afferunt Pseudulo, non pro bant:id eft eiufmodi: Duorum hominum labori parfiffem lubens,Meiterogandiset tui refponder jeg dendi mihi:aiuntquedicendum fuiffe, Meo, et us Tuo.afferuntque a Ciceronepro Gabinio exem plum: Dico mea vnius opera seruatam Rempub. et p Murena: Extuoipsius animo conie et uram ceperis. Ego vero puto Plautum non folum Lati ne,sed etiam purelocutum: neq;defuisseilli, aut, vfum produce, aut rationem psuasore. Principio Græcisicloquuntur,monGous. Deinde lepoto nitidio restorationis: Tum priscos vfos effe pri- i mitiuo prius, quam deriuatiuo,verum est.Poftreal mo Cicero quoque fic fcripfit ad Curionem, 1 Eam vnius tui studio me affequi poffe confido.» Neque enim est Librariorum mendum,vtaiunt: temere enim nimis expungunt, fiquid non arri det.Nequeverum est,quod profitentur,cum No minib. numerum præscribentib. fic faciundum effe: fed qualecunqneapponatur,ordinem esseau torem diuerfitatis, feruitumque auribus exipfa concinnitate. Si præcedat Pronomen, cõfueuere admittere Deriuatiuum; sic; Tuoipfiusstudio:fi sequatur, ponere Primitiuum,Vnius tui operai ); quoniam nomen Vnius vagum est ad plures,cir- » cunscribitur essentiali pronomine fubeunte:vt quærenti quis fitille Vnusrintelligo, Tc. Quum autem præcedit poffeffiuum, fic, Tuo studio: Z ij cir Ivt. V. 1 ر cecircumscribitur Studium, et exemptumemultis attribuitur yni. Tuo studio vnius,exclusa opera aliorum. In tertia vero persona etiam fi præce. udat Pronomen, primitiuum fit:Cicero aiebat sui vnius opera seruatam Rempub. Quoniam autem affeuerabant, passiue sem + per accipi eum cafum fic terminatum, Mei, Tui: a conati funt alias terminationes reddere actiuis, Mis, Tis. Verum longe falsi sunt: ficenim dice ' tent Tertiam perfonam Sis; etiam a etiue intelli gi: id quod nemo auderet: eft enim, ve diceba musai'rowaIesi citantporro versum Ennianum: 4 Ingenscuramis eft concordibus æquiparere. Vtfitucí Sed fic fane esto: non cötinuo illa pas. fiuis tantum addicent. Maiore quoq; curiositate + negarunt poffc dici in plurali, Milites noftrum: Ticuti, Milites nostri, a nofter: fed facile redar. guunturratione. Adeo enim re et e dici putarunt; * t cafum eundem Primitiui duabus cfferrent citerminationibus, Noftram, et Noftri: quoru al terum effet a Græco, nuwr, alterum idem effetcứ deriuatiuo plurali.Quare etiam Sallustius in Ca catilina, Maiores vestrum: pro Vestri, pofuit: fic enim legit Gellius. Et Plautus in Mostellaria oftendit Vestrüm,effe concisum:vtvescovo quum cedicit: Verum illhuceffe maxima pars veftrorumi intelligit. Sicut Æolenses dicuni, vućw! postea factumeíturwis etvestram. Cæterum vsus obti nuit,vt Ego, Tu, Nos, significarent quiddam to tum, quod distribueretur: non autem possessionem: ut Vnus vestrum, qui tamen non effet ve ster: Vous veftrum et RomanioceupabitRem pub. DECarsts  pub. Cæsar non erat illorum vt res poffeffa: sed vt pars toțius. In plurali quoque candem inue nicmus variationem, apud Ciceronem in tertio de Oratore, Veftrum omnium voluntati paruit; pro, veftræ. Sic enim loquitur idemad Brutum Scribens, Veftris paucorum respondeat laudi bus. Sicut autem dicimus, Ego Cæfar video te Ca tonem:ita dicam,Ego Cæsartui egeo,o Cato.Siç ctiam igirur, Tu Cato eges mei Cæsaris. nam quid hoc prohibet? aut quare negaruntid poffe dici? Nequeenim satis probant suamsententiam illo exemplo Virgiliano, Siquatui Corydonis habet te cura,venito, este, nim per Apostrophen a feipfa in aliam: quafi gura frequenter vțimur, exemplo ergo ponit: •. hoc,illud non negat, Non est autem verum,quod aiunt,differre De “ riuata a Primițiuis, propterea quod Deriuata ver bis iuncta imperfeetta lint: Primitiua perfecta Sed quemadmodum dicebamus, Adiectiuum, et Substantivum sunt differentia non nominis fo lius, fed actionis genericæ communes Nomini ac Participio: Nomini quidem simul vtraq;, Par ticipio autem altera tanțum, Adie ettiuum, Pro nominiautem ytraque, nam Primitiua substan țialia sunt, Deriuataaccidentalia. Deperfectio ne autem praționisamplius iudicandumeft: pole sum:n.fic dicere. Meusfcribo: fane oratio pfecta » eft: ficut, Fortis pugnat. Et Sofia Plaucinus festi uiffime, Certe nofterfum. Tertia autem Primi, tiuorum adeo imperfecta eft:, vt nihil magis Z iij. neqi  IVLvic 2 1 + 1 Ongs M ! *. VI. neq; enim poni poteft fine adminiculo: Cæfarfe macerat:fi.n. dicas, Semacerat:quid intelligas? Quare fi iccirco imperfeet a funt Deriuata, quia egeant adiumenti: hac quoque ratione illud erit imperfeet iffimum. Alia duo deriuata Noftras. Veftras. Ira vero deductio duorum aliorum: Nam veteres Aruspices atq. Augures quum ter ram diuiderent auspiciorum cauffa,fic instituêre: Agrum omnem efle aut Romanum,aut Gabinu, aut Peregrinum,aut Hofticum,aut Incertum.Ic circo Amatam do et issimus omnium Virgilius fe citiudicare Turnum externum, qui Latini agri ce non efset:et Cæfar, qui id non ignoraret, Gallias diuisit in partes treis: exempta ex ea partitionc Prouincia, ppterea quod continebatur agropere grino tunc:Galliæautem tres, Hostico. Ideacauf ce lafecit, quia eadem effentauspicia in Peregrino, etGabino, quæ etiam in Romano. Ergo iidē Au gures agrum, qui nondum effet difpe et us, quib. ccauspiciis designaretur,incertum vocarunt: vbili queretRomanum effe, non fatis habuere fic dice cre, noster est: nam multi agri pacati peregriniita abiplis poterantappellari,quum eorum esset po pulus potitus.Itaquc excogitarunt vocem a voce, qua coarctarēt fignificationem ad Regiones:quæ ** fuitcauffa,vt eflet analogia terminationis comu. nis cum nominibus regionum: Sarsinatis a Sark po: fic Noftratis, Nofter: et per exemptionem duorum elementorum Noftras. Nequcfine sa sont d. tiano PA tione a plurali duxere: quoniam de Ciuibus dici:7 tur, et ad ciues refertur. Ita habes cauffam etvo cis, et terminationis, et numeri.Vsus autem obti- Dokta nuit poftea, vt etiam ad familias transferretur: n etiam ad fectas Philosophorum: quæfane fami liæ quoque diettæ sunt. itaq. Noftrates Peripate ticos poterimus appellare. Cicero etiã verbavul garia,Noftratia dixit:non quafi Romana, omnia enim Romanaerant: fed quafi ex sua fupelleet ili. Quæremus autem nosmorenoftro,quam ob new name cauffam a Tertia persona nullum deriuarut: quis 5* sweet enim neget rectea nobis ficexcogitatum, Roma ni fuates captiuosAnnibali dedendos censuere. di Imo vero et concinna oratio eft, et neceffaria.Ve rum duo in cauffa fuere, quominus id factum sit: 6 Incuria gentis illius, quz manu promptior per i initia, dịcenda facere, quam diceremaluere: Et vasta, atq. inexplebilis animi libido ad Imperiu: e inuitus enim Romanus hoc pronomen Suum, a gnoscebat:omnia per Meum,aut Nostrum, meti ri cupiebant. His autem duobus deriuatis etiam Græcorum copiam superarunt. Articulus. Is declaratis, fatis constat, Græcorum artis culosnon negle et osa nobis, sed eorum vsű u. fuperfluum. Nam vbialiquid præfcribendueste, pense quod Græci per articulum efficiunt, ěrecev o AG:expletura Latinis per ls, aut Ille:Is, autille feruus dixit:dequoferuo antea fa et a mentio fit, aut qui alio quopacto notus fit: additur enim articulus ad rei memoriam renouandam, cuius. DS 7. iiij. antea 356 Iul. V I. 1 antea non nescij sumus, quiipfum ponimus: aut componente am ad præscribendum intelleet ionem,quæ latius mamime met paterequeat, veluti quum dicimus, C. Cæsar, is qui pofteadictator fuit. Nam alii fuere Caii Cæ fares,fic Græce, Kajoup o au Toxpatwp. Numerus. Vitautem numerus necessarius, vti supra di co nomine, quoilla res significatur, a numero au tem vno numeri duo deducti funt propter relationem. Nam Vos, pluralis est: deduciturautem abeo singularis, Vester: quia fignificat rem fin gularem admultos relatam, vt dicebamus. Persona, Erfonæ quemadmodu distinguerentur, iam i Pronominibus, amodo in Nominibus, Namin 11 Nomine omnes personæ quinque casibusconti pentur; in vocatiuoautem vna. Atin Pronomine vna tantum persona in prima, etvna in secunda. Itaque inNominibus variantur propter cafus: in Pronomine non variantur. Tu,enim omnibus in calibus secundæ personæ eft: et, Ego primæca, ręt enim vocatiuo. Se, folam habet tertiam: De: riuata, omnes. Casus: Vmhocita fit:igiturQuintum quoque ca Clumsum non solum habebuntipsorum aliquaz verum etiam quædam constituent: vt, Tu, Vos, Vester. In poffeffiuisantem non immerito dubi tatur. Nam ficuti Ego, caret Quinto cafu fingu lari, quia nemoseiplum vocet:ita Meus, quod ab eo ducitur, carere quoque debuit, e contrario Tuus, casum illum habebit, quiaTu, ipsum ha bet: et Sui,quia caret Suus, quoque deficidebue rat. Atenimuero quemadmodum aliter contin- holone gat, videndum est. Omnis Vocatiuus cafus duas personas designat neceffario: significat in. Rem insecundapersona, et consignificat primam lo quentem: atque tanta facultate eft, vi videatur » folus constituere orationem. Si.n. voces, Dauc: Dauus refpondeat: igitur res vocata nisi distin guatur ab re vocante, eius cafus nulli vfui erit. Meum seruum igiturcum appello, çu alloquor, quialius est amesubstantia:accidentęautem re fertur ad me, iccirco potesta me vocari, quia eft alius, etvocatur per pronomendeduậum ame, quia eft quodam certoquemodo qualı ynu me. cum.Eft enim ynum relatione: ideo relatiuum al terum sine altero nullum essequit. Atin, Tuus, non idem effe potest; Nam etlieft diuersaperso nayocata a vocante: tamen significatam rem ap pello, et terminum relationisad alteram pfonam dirigo, ita diftra et ussermo, ad feruum tuum vo catum, etad Te, ad quemrefertur ille, non po teft cohærerc. Videamus vero subtilius, an huic quoque cafus ille attribui possit, ac fic dicamus; Poffeffio excludit aliam poffeffionem, iure enim meoius alienum tollitur.Meus enim ego fum,non alterius: quare Ancilla manumiffam liç yocabo, ZY O TuaGedimino Tua. quia etiamfic possim, quum eam libera: pollo mine Abi iam tua çs. Vfustamen infrequens non po 719 fuitlegemhanc loquendisic.De Suusautemfic ftatuamųs: Contradicere fibiipfis, qui hæcduo di cant:Suus,semper reciprocumeffe debet:Suus ha Sbet vocatiuum. quæ enim reciprocatia pofsit in teruenire inter vocantem, et vocatum relatum ad aliam perfonam ab vtroque? Itaque nos etaffir inamus,haberevocatiuum: et negamus, femper efle reciprocum: sed recte dici, Sui ferui eum In ftulere: et, Suiserui eum sustollite. Figura. more Implicia, Hic,Is, Ego, Tu,Sui.Componuntur autem partįm secu, fcilicet geminationepu. rä:partim aliquo interpofito:vt,Identidem:quod etiam mutauit naturam. Item cum diuerfis: vt, Isthic. Etiam cumaliis extra genus suum: vt, Tu te, Egomet, Idem, Suapte, Hocce. Sic cum Præpo fitiõibus, Nobiscum Mecum. Cumnominibus, (Reapfe, quod aiuntpro, Reipfa, pofitum aban Stiquis.Ipfe, quoque compositum effe diximus, et lifte, et ille,ab Is, Doresimitati, quitaddebant, lones te.Acoles etiam dicebant fe pro o, et coru pars,Dores. Sic Theocritus in quarto Idyl lio: maile spußdav.Atenimuero quum inficdan tur Illius, Isțius.Ipfius,non videbantựr composi ta.Sicut Tute noflectitur, neque Hoc, nili interi a tus,Hyiufce.Composita funttamen,quçvfus suo arbitratu deflexit. Cum his autem alia quoque ingenias:Egoipfe:et numerosius, Egamětipfe. Cape Excludit apresenti opera.confilia antiquorum. Vlta alia de Pronomine ab antiquis di etta sunt, quæ alterius operæ indigent, partim enim pertinent ad eam contemplationem, quæ docet inflectiones: partim ad conftru et ionis le ges: quæ omnia fimulcoaceruata minus recte ve: teres confudêre. Materialis caussa Pronominum. Vorundam materia patet, aliorum non ite. Nam obliquiquorundam secutisunt nomi num tertiæ declinationis terminationem, Mis, » Tis, Sis. Quædam pronominum, Huius, Eius, Illius. Obliquus autem Tui, Atticos secutusest, Tü: additumiwla, vt T8786. Tibi,interpofuit con fonantem,non aspirationem,vt Mihi, Toi, Moi.;) Nos, et Vos,non habent elementa, quæ sequan turGræcam originem: sed Nigidius conatus eft deducere materiam a cauffa, non penitus inepte. eam,quivolet, e Gellio petet. Inter Primitiua est Is, et Hic: alterum sine aspiratione, alterum », fine sibilo, ab eo quod Græce erat.o, addito ke, » et adempta vocali prioris obliqui aliam fibivo çalem asciuere,Is,Eius, Ei. In quibusdam com munem habuit. In plurali, li. In cauffa est fonus affinis vocalium, quem fonum foli Belgæ hodie » incolumem,vtpleraquealia, feruant, Contra,quam feceruntPrisci,quade causa prius de Pronomine, quamde Participio egerit. ETMTG huius libri initio fa ettum eft, vt declara remus ordinem, quo cffet Pronomenftatuen dum: tamen hîc quoquenonnihilconfilij capia mus. Pronominis intelle ettionem esse priorem Participio, ficfatis constat: Sinomen anteit alias species, etiam Pronomen præponetur. Nam fi partes anteponuntur toti, eaquoq; quæ partium vices geruntpræibunt id quodtotum fit: veluti carnium, ossiumque fubftantia primoloco nota synt: item Pedis, Cruris, Oris ratio potior quam totum animal:puta Homo,Leo,Canis:ita etiam harum partium vicariæ partes quæ dvofnoga, vo cantGræci, antegredientur intelleet ionem ani, malis ex ipfis constituci: vt,quæ loco sanguinis funtin Infectorum genere, et a Græcis dicuntur, ixapes,quæ pro ossefuntin Piscibus, etvocantur, Spinæ: quæ pro ore sunt in Plantis, etnominan tur Radices:hęcomnia anteerunt cognoscenda, quam aut Inseđa,aut Pisces,aut Plantæ. Quam obrem quum Participium quiddam site Nomi ne, Verboqueconflatum; non tantum poft No. men: Verbumque, sed etiam post Pronomen ex. hibetfefe nobis intelligendum. Præterea (vtar e nim quibusdam falsis, sed quę illi ipsi pro verisha buere) oratio perfeet a effe finePronomine nulla poteft:constitui enim personas a folo Pronomi. ne arbitratsunt, faltem primam, et fecundam: atsine participio poteft: vt etiam Pronomina fint adorationem,quam Nominamagis necessaria. Affectiones quadam. Roprium Primitiuorum vagari, ac diftribui in multa, putauerunt.co exemplo. Neuetibi adfolem vergant vineta cadentem. aiunt enim omnibus dictum eo Pronomine Tic " bi: verum res fefe aliter habet: Alloquiturenim Mæcænatem: libri enim didascalicimaxima ex parte certis nominibus discipulorum nuncupan tur. Ita etiam aiuntad ornatum orationis poni fi apud Ciceronem ad Brutum, Ecce tibiPom-» ponius nofter:nam tum aberatBrutus. Egove to aliter cenfeo: Aduerbium potius Ecce,positu, ad ornatum, ficut et apud Iureconsultos: at pro * nomen Tibi seruire legenti epistolam Bruto. Proprium autem Pronominum etiam alia ex i fefe parere Pronomina, vt Is, ille. Et Aduerbia. illo. Quodvero fcripsere,oriri abipsis etiam No. + mina, falsum eft:neque enim Noftras, nomen eft: fed vt noster ad poffeffionem communem, ita Noftras,ad communionem poffeffionis. Nonnc dicis, Meus ciuis, etMeus popularis? Siç dicet Solia,Nostratem Getam, apud Terentium. Ita que ij, quinomen putauere etiam inter Prono mina recensuere: fed alio exemplo vtendum fuit. Nam a Quisquis, Quisquiliæ diettæ sunt.fuit enim quicquid, so tugav, vile,et obuium forte, non consilio. Proprium etiam,vt diximus,etinter fe etcum aliis iungi, et geminari, et inter se construi ad ora tionem:Mea tu. Etiam inter fe referri: Is,qui ve mit. Item amittere significatum p casus ratione. Del more Æolico: n. interdum enim nihil significat apud Theocritum. Sicnos, Tute folus loqueris. Plautus in Milite etiam amplius, Tute fcisfoli te tibi. vtpofsis arbitrari effe potius additamentum, vtin alio pronomine, Iste. Proprium quoq;, poni pronominis significa. to:Suus, pro proprio, et agnato. Apud Iure conful ços.at exemplum quodadducuntno feruit, Sunt etiam sua premia landi. hîc enim elt poffeffiuum Sicfalluntur altero exemplo:Is, pro Talis: Non ea vis animo, etapud Ciceronem, Pro eo quanti te feci:imo pronomen est relatiuum. Pro Aduerbio etiam ponitur: Quidmaiora fequar.estetiam ad uerbiuminterrogandi:non,vt putarunt,Coniun ettio.Coniun et io potius illa sit, Quod scribis te venturum, vt voluêre: mihi vero acu tius videtur effe relatiuum,Hoc, quod scribit,te venturum scripsisti enim hoc Veniam. ni IVLII 1 36 bilgai lus lour tamien I Talis:11 eo quart eruir,s Aduer nt, Com 1 ft etiam Non recte feruatum a veteribus ordinem ini disputando de Participio. odica oack VEMAD MODYM perturbarut 6 ördinem partium, ita quæstiones non suo quanque loco tra et auere. Duo cnim foliti sumus quærere. prior quæstio eft:vtrum fit,necne? ) Altera hac fequitar, Ouanam sede id de quo quæ VI litum est,lit collocandum. hæcilli cobiæret, tan quam effe et us causa:ex ipfa enim subftantięno “ ), tione eliciuntur rerum prærogatiuæ. Quare per uerse tractauerunt prius fedem Participij: poste rius autem, an Participium esset pars, et species diet ionis. At enimuero si Parçicipiū res nota eft, quorsum tantęcongeries argumentorum.li non eit nota, imo vero linonnullis ne pars quidem o rationis vllaab aliis separata iudicata eft, quo co Lilio ei rei, quz nusquamextat, fedem ftatuunt? Quo 5 364 Iul. V.. quum dici Quoniam vero nullusartifex, pbat fuum subie et um effe: fed fuperiore scientia prolatum, pro certo ftatuit:iccircovideamus, qua ratione parti cipium, quod subiectum est libri huius, efle pro betur.Triplex modus est probandi, per cauffam, per effeet u, predargutionem. Primusmodusest per demonstrationem, fic: Diet iones quædam funt declinabiles, quia omnis sermoeget aliqua variatione. Alter modus est, per conuerfionem de monstrationis,fic: Variatur sermo, quia di et iones funt declinabiles: caussa enim hîc probatur per effectum. Tertius modus est,quuma pertinacib. negatur subiectum ipsum esse: veluti 2 mus, Ideas eflenullas. Autsubie et i ratio forma lis:veluti quum dicimus, Metalla quidem esse,fed transmutationem no inueniri arte humana, qua re Alcumia nulla erit. Aut quum agnofcimus quidem et fubie ettum, et rationem formalem,fed negamuspertinere ad eam scientiam,cui attribui tur: veluti quum Grammaticus de voce vult di sputare. Horum modorum duopriores non ad mittunturad probandum fubieet um effe, fed fo lus Tertius. Ratio autem huius legis eft aliis libris anobis explicata.Nuncautem aduersariorum ra. tionesperpenfas diruamus.  An participium sit Diettionis pars ab aliis separata. Vi Participio partium numerum non au gent, appellant ipsum avavaxna son at poor siue övTISpe@ xoxv, id autem fonat, re ciprocam itidemque altera ex parte respon « Qah den. I gopicer  I dentem appellationem: quoniam fic dicatur,Cur rens est cursor: et, cursor eft curres.Præterea nul- 2 lum deriuatum aliam a primogenio naturam for tiri: nam si Pater Nomen, etiam Patrius nomeno Ferueo Verbum, etiam Feruesco. Quarequum Participium a Verbo fiat: fub Verbi veniat ratio nem. Vt horum argumentorum videamusvim, quid Reciprocum lit, etquemadmodum fiat, et quomodo deriueturaliquid a primitiuo, intelli gendum est. Ac quanquam superiorelibro de 1 Řeciproco diximus, id tamen co fpe et abat, vt * Nomen acciperemus: meliusque a nobis, quam a Græcis expressum effe. Nuncautem paulo ac. curatius contemplemur. Reciprocatio, cft par priori ex eisdem, aut ex contrariis transpositio ex eisdem: vt, Conful est, qui consulitsenatum: et, Qui consulest, consulit senatum. Excontra riis: vt, Philosophia est, eloquentia disputatoria: eloquentia est, pbilosophia elocutoria. Oratoria est, diale ettica diffusa: dialeetica estoratio pressa. Palma eft, pugnusapertus:pugnus est,palmaclau fa. Hinc dicta reciproca, quoniam procreentury, retrorsum: idest repetant.Sicrespondere opinio, ni, atque expectationi,quum par estopera indo li. His constat, non reet e dictam reciprocam ap pellationem. Neque enim pares hæ suntoratio Aes. Cursor est currens: etcurrens eft cursor:nam Cursor designat robis naturam, ingeniumque ad currendum: Currens autem dicitactum cur rendi nunc. At non omnc currens eft habilead currendum: habilem autem dico ad celeritatem, non ad conatum, Tev aequxota. Curritsuo modo Aa teftudo,non Curforis. Idautem manifeftius aliis nominibus apparct: Non enim omnis Pugnans, #Pugil est.Et quum Orare, fitore pronuntiare: ve teres verbuin illud omnibus conceffere: orato ris autem nomen sui vnius in L. Crassi persona a gnovit Cicero. Neque carentratione hæc:vise nim horum nominum inde manauit, quod ex 'frequentibus actibus habitus fit. qui igitur vicio vrfüm semel, fortaffe casu factum eft, vt debella ret:at Carpophorus Domitiani, et Vergilianus Picus debellatores appeilabuntur. Si igitur essent eiusmodi appellationes eiusdem substantiæ, v. niuersalienuntiatione vltro citroq; efferrentur, 2 atquereferrentur. Deriuatum autem vel fequi tur Primogenium, vel excedit,excediturve: Sife quitur, ciufdem speciei cft (intelligo nuncfpe ciem contentam fub dictione, tanquam sub ges nere )vt,quia Rex Nomen, eriam Regius:nõex cedit enim, neque exceditur. Ata Bono, Bene quum deriuetur,exceditur numero, et aliis Qua re Participium quum excedat casu,et genere Vera ba,nullo modo effe Verbum poterit. Falso igitur regabant, desciscere Deriuatum a primogenij ratione: quin etiam Deriuata quædam vel man ciora funt,vel ampliora, vt ipforummet vtar pla citis. Aiunt enim Tuuscarere casu Quinto,quem tamen cafum Tu, constituit. Contra Suus, et * Meus, Primitiua excedunt fua: hoc Quinto ca su, quo caret Ego: illud etcasuum, et nume rorum variatione, quo caret Se. Ad hæc lia cantando, erit cantor, Verbum erit, non No. men. Quod autem Participium, Nomen nonlite ODAVATE LESZT 1 mantis fit, inde colligimus: habet enim Verbicostrudio,wenn nisheyet nem: Legens librum. At Nomen nullum his lc gibus fruipoteft: fed fiquem casum nanciscun for tur, id euenit aut vi drationis, aut yerbicuiuspia uliopelo merito: vt PotensLyræ,poffeffionem quandam significat, sicut, DominusLyræ. Quodfi quis sit, cui dicat, Appetens gloriæ, non significare polles fionem (quod enim appetit, non polider )is File intelliget eo modo dici, quo Auidusgloriæ; est Pepe enim iç'ter.sad possessionem. Alij autem casus in attribuuntur Nominibus per defeet um fupple-, menti: vt, Amicus illi: id fic est, quoniam litae Pern micus, adfit illi, ac faucat: Superbus pecunia, et fa et us a pecunia. Debile autem eorum eft argu ekrok mentum, quo excludunt a Nominis ratione, quum dicunt, Quiano significantadionem.Ma. le enim elocutisunt,quod recte sentiebant:nam etiam Nomen hoc Adio, actionem significat, Ergo Participium ab aliis fecreta erit orationis Tipars. Nequc impedimento fit,quod nome suum, acceperit a portione Verbiac Nominis: Tere ziumenim quiddam factum eft. Neque enim ex verbi nominífque coitione fa etta eft Tertia sub ftantia; fed ortum a Verbo traxit secum tempo ra etfignificationem, adiunxitque generi etcasio · bus: plusenim Verbi quam Nominis obtinet; id quod fane non potuit exprimi ipso nomine, quod nomeactiue intelligi voluere,quiacaperet, AtMancipiu, aliam sequutum eft analogiam, vt fignificaret,quod manucaperetur.SedParticipiu, că Municipiocouenit.Minus vero bona oratio neyli sunt, quiliç diceret, Partem capitaNoming7 NO E B 4 och 368 IvL. VIT. CXA: 1 partem a Verbo,partem ab vtroque. Quis enim fic, Partem a Cæsare, partem a Lælio,partem ab vtroque? nonnciam ab vtroque accepit? Sed ita intelligendum eft, Accidentium quæ funtParti cipij, partim esse a Nominefolo, partim a solo Verbo, partim ytrique communia: dummodo il lud quoque meminerimus, ipsum habere cum Nominecommunem differentiam Adiectiuo rum. Substantiuorum autem nullam. Participii necessitas. T vero ne ad orationis quidem volupta tem solam inuenta ea species eft, quemad modum partes quædam coniunettiuæ: sed necessitate quadam, ac vi naturæ. Quum enim declaratum iam sit, verbum significarc aliquid,quod significato nominis adiiciatur, sic, “Cæsar pugnat”, coacti sunt sapientes aliquid excogitare, quod non folum recto casuiadneet eret, vt hoc exem Uplo:sed Etiam Obliquo.Neque enim si dicas, “Video Cæsarem”. addas eiusmodiVerbum nisi addi to relatiuo, fic, Qui pugnat. Quare Participium commenti sunt, quod et significationem obtine ret, etadderet modum adic et tionis: quafi quum dicas, Cæsarem pugnantem: eadem sit ratio, ac fisic, “Cæsarem pugnacem”. Quod siquis ob iiciat ita dici poffe etiam per verbum. “Video Cæsarem pugnare”. lane intelligat verbi illius vi factumeffe, non infinitivi: si eius loco substituat aliud, fic, Verbero Cæsarem: ncque enimfi militer apponere queas infinitiuu. Eft præterea cauffa 1 ola ! tan sonra. caussa alia nõignobilis. Quo modo res vna dicco 2 retur, fupra docuimus te: nücquaratione yna fit oratio, videamus: Quædam enim eft yna, Natu ra: ut, “Cæsar amat Lucinam”. quædam Coniunetione: ut: “Cæfar amat Lucinam et pugnat” at que huius quidem modi species libro undecimo declaratæ sunt. Quæ vero Natura vna est, vnum de uno dicit: quæ coniun et ioneyna, secatur in plures. Nam et Amor et Pugna in Cæsare, et de Cesare dicitur, nihilo fecius, quam si dicas, “Cæsar amat, Caefar pugnat”. hîc sunt seiun. etx orationes duæ, carent enim tam artis, quam naturæ coniunctione. Quare manifestum est, Artem coniungere in oratione, quæ natura coniunxit in corpore subiecto. Hæc autem aut seriatim sese consequuntur, aut difiun etta sunt. Si sunt dissita, natura, ut Candor et Dulcedo in Laet te, per ipsum corpus, quo deferuntur, coniunguntur quoque. Ita in oration per copulam coaguntur sicut per corpus in re. Siseleconfequun tur, ea funt, aut substantia aut accidens. Neu trumvero eget artificiofa cõiun ettione:sed que admodum natura vnum funt fibiipfis fubeuntia, continentiaque alia aliud, tanquam quum est triangulum in quadrangulo: ita etiam carum rerumnotævnum sunt, hoc modo: “corpus animatum, sentiens, rationis capax, vna res est, ita yna oratio hæc: “Homo est corpus animatum, sentiens, rationis capax”. Nihilo secius in accidente, sic, Aptum natum admirari, discere,fcire:neque enim scimus, nisi discamus: ncque discimus,nisi admiremur: quæ hæc ad hunc modum vnum Az iij.  Ssunt: neque vllius artis egent ad coniugendum. Quævero disiun essa sunt, ea per copulam coniunguntur, ut, “Lego et scribo” quam obrem sicuti per subiectum a natura coniunguntur: ita fa etum est, ut per participium similem nanciscerentur coniunetionem, ut, “Legens scribo”. Tertiam vero necessitatis caussam ut intelligamus, hæc prius sunt perpedenda. Caussarum quædam seextra rem sunt,quas Galenus vocat w goxata näs, recentiores, primitivas. Quædam interiores, atque hæ duplices: aut enim sunt, aut non sunt coniun ettæ. Ea vero diuisio secundum Accidens, non fecundum Substantiam fit: diuerfæ enim Yunt aliquando a se ipsis secundum situm, vel fecundum Tempus: neque vnam tantum fpe ciem cauffarum fequuntur:fed tum in efficiente, tum in materiali inueniuntur. Ac illa quidem quæ extra rem anobis agnofcebatur, est: veluti, Ferrum, fiue ferri illaactio: e percussione enim fit vel tumor; vel fanies, vel eiufmodi. Quæ au tem interior est,nondum coniuncta, opony syfucr KaGaleno, a nostris antecedens dicta est,tam a pte,quam a Cicerone quü dicitur in Officiis, An tegteffam esse honeftatem: vt, succus hesternus, qui poftea putruit, cauffa febris factus est:caussa coniuncta estis, quinunc putridus eft: atque hic quidem nonsolum tempore, aut situ tantum differt a seipso, sed etiamsubstantia. Aliquando autem, vtdicebamus, non fubftantia, fed Lo co: interdum enim fuit fanguis probus,atque incorruptus, qui tumoreeffidiat,cuius ipse caussa kit materialis. Adhasigiturcauffas significandas  quam sit Participium fabricatum.maximum fui vlunı videtur præbuiffe. Quippe sidica, Percussi, et yalncraui: non necessario adducor,yt credam ' vaincris caussam esse percussionem, quam intel ligo ex verbo, Percutio. Quod fi dicam, Percu tiens vulneraui:iarn planecostat. Si dico.. Sanguis putruit, et febrem fecit:Putret, et Facit,non tam clare explicat, atque fic,Putrefcens facit. Præter hanc neceffitatem, etiam mirum afferunt oratio nidecorum: cuiusmodi in futuro passiuo vtitur Liuiusin xxiv.Et fibi pedites comparandos effe: id eit, qui poffint cum cæteris committi, neque cedant. Gerundi Cauffa., per piumabsoluerctur, maiorü noftrorum pru dentia factum eft, vt haberemus,quomodofor- oniga mæ finísque eadem orationis commoditate ex plicaretur. Quare ex his Participiis tempora quæ dam elegêre, quæimitarentur quidem Græca illa λεκπον,μαχητέον, amplioritamen, vberiorique vsu circumferrentur. Hæc Gerundia appellaue re,tribus præscripta casibus, “pugnandi”, “pugnando”, “pugnandum: quorum medium seruauit vires, Participij: sed tanto aptioremodo, quanto supe rabantur a Participiis Verba. Sicut enim apertius editur cauffa, quum dicas, Cædens vulneraui: quam cecîdi: sicexcellentius quum dicam, Quia cæderem vulneraui.hocautem Gerundio conci pitur totum, Cædendo vulneraui. est autem Aa iiij. mely Emultis in rebus forma, et finisidem. Finis autem 1 partim extra nos eft, vt Nauisextra fabrum: par tim intus in animo, vt ea quam idear vocant, qua mouemurad eam quæ extra nos futura est. Vtru quesapientiffime explicarunt. Nam et Pugnan di, et Pugnandum,finem fignificant,fic,Pugnan codi cauffa equum afcendi: et, Pugnandum eft ex cquo: fed illud est medius finis, hic autem illum so por consequitur. Exhisautem patet eflcParticipia, *Co tum natura, tumvfu non abfimili, atqueetiam | forma. Habentenim Casum, vt Advefcendum, apudM.Tullium: et, Ob tacendum,apudGrac 2 chum, Neque tempus,vt aiunt, amisere:nam ta ir metfi cum præteritisponütur,fic,qui ad pugnan dum:tamen pugna futura fuit, quæ nondum ef set: alioquinequeasdicere, Marius deduxerat le giones, fa etturas hoftibus pugnandicopiam. Pu gnando autem paulo liberius, elapfum eft: Pu mignandovinço: id est, dum pugno: ac potiuscauf sam præcedit, quam constituat: vincendi enim cauffa pugnamus. Significationes quoqueita te nuere, vt cafusfuos expetant: Studiovisendi vr bem. Sed ita fane fa et um eft, vt quum forma fit paffiua, infrequentius passiue accipiantur: a deo vt quidaman re ette ponerentur, dubitarint, Atcnimuero corum vsum primuın formæ ipfius rationem sequutum effe, par est. Justinus tam in prooemio, quamin xvii. exipfo Trogo et iamprimum casumpaffiue pofuit: Athenas e cerudiendi caussamissus.' Hac quoqueparte Græ ci funt a Nobis superati, quibus Infinitiuus cum Articulo mendicandus fuit. Veteresautem bre uita. 8 373 2 uitatis studiosi frequentius vsi sunt, etiam in i. psis Titolis,de edendo,atque eiusmodi. M.Tul. sius in tertio Officiorum feftiue, fi discendi labor potius est, quam voluptas, non enim posuit pro Infinitiuo, vt dixere: fed abstinuit ab repetenda voceilla Labor, fie:Si discendi labor,potius labor est, quam voluptas. Hinc do et iffimi viri college re, nenos quidem paffiui Participij præsenti de- a luna • fici tempore, Verberando sum defessus,Pugnan winny do vici, Legendolibro:idem est, Verberans, Pu Ignans,Legens. Etiam illud Vergilianu,Voluen da Dies, præfentis temporis inuenere: ficut et lusiurandum. Sed fane Iusiurandum, futuri fuit amine 2 temporis,antequam daretur,fic dicebant, Iuran mė dum tibi eft: fic, Voluendadies,quæ attulit, quod the nondum fuerat. Poftea vfu deflexa suntin præa Du sens tempus, atque etiam in præterito,vt diceba Pus mus, Cæsarignoscedo auxit hoftium numerum, I quia ignouit.cauffa autem eft,qualis quum dicis, Di Pugnaturus fum, et fui.Quoniam vero transitint ca variatione,ficut, uaxcutt'ovetuagtia, iccirco alia bir partem a Participio nonnulli penitus negarunt: quia idem fit, Legendislibris, etLegendi libros. c Alij vero, hocipfo affirmarunt effe aliam, pro atis pterea quod constructio effet diuersa. Sed nos candemcum Participio diximus, vfum autem; non semper eundem: Accidentiautem nonmu tatur species. Proprium autem eft recipere Præ. positiones, Adagendum. Vergilius etiam aliam Gf apposuit, Ante domandum: et,Inter agendum: quod Græcijste tu dywv, et, Obtacendu:et apud mbat M. Tullium: vtrumque dietum eft ab amandao Ava OITE Star goe 028 ISCU co ωςτο φιλεϊνοποτε φιλεϊν. Εt Quintilianum,ra fio fcribendi iuncta cum loquendo eft. Ausi sune quidam dicere. In capiendum hostem vado: fed hocmon memini. Propriū item carere variatione Personarum,Generum, atque etiam Numero ram. id quod traxere ab Infinitiuorum natura. * «Cæsar it ad oppugnandum Massiliam: Camilla pergit ad fugandum Aruntem. vt commune sit ad vtrunque, Oppugnandam Maffiliam, et Fu gatura Aruntem. Sic Numerum communem a pud M. Tullium: Stoicos Epicureis irridendi sui facultatem dedisse. et Liuiusin primo: Vestri ad Xhortandi cauffa. Falluntur antem quiperDebet, aut Oportet, putant interpretari Gerundium, vtin illo, Pacem Troiano ab Rcge petendum. Omnenanque futurum,authanc,auteiuscerno direcipit interpretationem: ducimur enim, aut vtili, aut necessario. Quoniam vero caussam sta tuunt,iccirco plus indicant, quam Verba, atque ctiam Participia, lic. Video futurum vt vrbs expugnetur, Video vrbem expugnandam: euen tum solum narrassac fic, Dico expugnandum yf bem: proponiturnon solum finis, fed etiam deli beratio. quare Græci dixere Aduerbia Jecses, 2πλευρέον, τυραννοκτονη τέον. Latini autem ctia mo tum illum animi, qui in finem duceretur,como adius declararunt, quum Gerundia appellarent. vocis flexułeodem fane quicorum natu ccfræ fons fuit. ve quia gerendæ res elsent, quæ vo ces hocindicarent Gerundia dicerentur.Alij ab eorum vsu, Nomina participialia: neq; enim esse pura Nomina, quæregerent casum:neque pura Sed quo Partis. Participia, quæ passiua voce gererent a et tiuam si gnificationem. Cauffa autem qua ducti sunt, vt defraudarent significationem, atquein actiuam demitterentur, hæcfuit: quod passiue intellige bant ex parte appofiti, non suppositi, fic: Eoad oppugnandum vrbem: quoniam prius fuerat, Ad oppugnandam: et eodem modo di etum fuit,fic uti notauit Gellius, et nos diximus in capite de Infinitiuo, Hancrem præsidio futurum. Alij et iam Gerundiua yoluêre, quæab illis petes. Supirorum Ratio. 1 0 bi gemaioreaffeetu notant:na, Eo ad pugnan- this dum,futurum significauit: Eo pagnatum,ita po fuit futuru, vtiam abfolutum sit. Ita est,quono do apud Homerum, ra tetenequevověsw:Signifi -1) catigitur aettionem cum A et iuis,pafsionem am» Palliuis. Eo factum iniuriam: Iniuria mihi fi et u itur. Sed lane femper pasfionem quandan sa- ) ) pit: neque enim est, Eo vt faciam: fed, Eo vt hoc fiat.quali, Eo ad rem faciendam quidem,fed ita, yt faettum iam sperem. Sic Sosia: Diąun puta. Quumigitur hîc finissignificaretur, norimme rito altera voce alterum extremorum Ignatum est,Inmotu enim est, et vnde fit,et quo re et iflime dicitur, Venatu venio: ficut Venatum Vado. Sextum n. casum huic vsui effe coparatum diximus.A meitur:sic,Venatu itur: cætra quam putarunt. Plauti. a. estin Menachmi, Obfonatu - 10 redco: ft.Itaque 1 376 IvL. VII. 1 redeo. etCatonis in libro dere Rustica, Primus cubitu resurgat. vt hæc fit vera constructio huius Bupini. Nam ea quam ipsius putant, Expugnatu « difficile, Mirabile dictu: fortaffe non fit, sed No minis. Vocatų Druli, id eft, vocatione,fic lussu et Permissundicimus enim, Facile expugnatu,id eft, expugnatione. Quareautem supinum di et um sit, haud fane conftat. Nam quod aiunt veteres, id ca cauffa fa et um, quia a præteritis paffiuis du et a essent, quæ præterita veteres supinaappellarint: non folum non foluit quæstionem, sed etiam auget. Nam quam ob rem Præterita, caque passiua tantum hoc nomine dixerint illi? Nos in libris historia rum Aristotelis ostendimus quid Pronum, quid Supinum sit. Neque recte aTheodoro towmocy effeacceptum, vt Latinis auribus satisfiat. hîc ve ro ita placet fatagere: Gerundium a supino ita cidifferre, ficut Futurum a Præterito: vt aliud fit, Faciendum: aliud, Faetum. Itaque quod geren dumesset, ftrenui viri ac fortisiudicarent: con tra, quod iam esset gestum, minus excitare nos adagendum.Itaque Tityrum supinum facit poe ta sub arbore,lentum scilicet,acrecubantem:Me liboun certantem cumfortuna, acres fuasma gisftrerue, quam feliciter gerentem. Igitur, Eo ad pugnndum: gerendam rem significat in viro diligenti: Venio pugnatum: rem geftam in ho mine qu possit otio parto frui. Hæc esto cauffa, quæ persuaserit antiquis vt Præterita pafsiua Su pina dicer:ntur,vt poffet in vtranque aurem:at que ctiam upinus cubare.  Q1 Pugnando. Non excludi Modum a Participiis, sed Modi variationem. Vemadmodum Gerundium idem diuersis Temporibus accommodatur: vinco, vici, vincam:sic etiam idem Participium,! diuerfis Modis: adeo, vt in pafliuis etiam Modos ipfos constitucrit:Do et us effem, fuiffem, fuerim, fuero. Vtinam pugnans vincerem alio modo di citur quam sic, Pugnans vinco, hîcenim eft et Pugno, et Vinco:ibiautem,Vtinam pugnarem, Vtinam vincerem.hoc quoque a veteribus omis fum est. Nonreette Generum cauffam a veteribus affignatams. Enera tria eadem vox compleetitur, hæc,hocpugnans. neque id natura potius quapia,quam forte: nihilofane consultius,quam in nomineFelix.Falsam nanqueaddducuntcauf fam: Quum enim Verba,inquiunt,omnibus fine + vllo discrimine iungantur generibus sub eadem voce:Vir,Mulier,Mancipium sedet, eiusdem ni mirum effe debuit naturæ Participium, cuius fuit Verbum, a quo fluxerat. At enimuero fal luntur: Quippeverbalia quoqucnomina, quæ a, verbis manant, nihilominusgenera variant: Vi cor, Vi et rix, atque etiam Viet tricia, apud Luca num. Præterea quisnefcit apud Græcos tria genera in Participiis totidem fignari vocibus? Po Atremo ne in noftratibus quidem variatio illa i gnota est: vt in paffiuis patet: Amatus, Amata, A matum, et inadiuis,Amans, Amantia.  Figura. Pcomposita a copositis Verbis deriuari: iccir co Figuram ab illistrahere, non ipfa illam confi cere. Hoc autem falfum eft:multa enim sunt quę suo genere Compofitionem admisere, non aba liis traxere; vt, Omnipotens. neque enim a Ver bis tantum composita fluuntomnia. Ergo figura Participiis per fe competet,vt cæteris:non per ac cidens,vtdixere. empus. Empora quædam fimplicioris intelle et us, quædamamplioris habuit Participium:nc que secutum Verbi eftintegram rationem. Nam Futurum, quod erat diffutissimum atqueobida Græcis scissum in duo vnica voce coplexum fuit. Item duo Pręterita.At Præsensquod effet simpli ciffimum cum intelle et ione Præteriti imperfe et i.coniunxit vnica nota.vt Amans effet,quiamat,et cequiamabat.Neq; caruitratione:oftedimusenim apud Philofophos naturale quandam continua tione significari per Pręteritů imperfe et ű,vt non multum a Præsenti dissideret. Illud vero maxime quæretur:quumapud Græcos tria hæç Tempora tam A'diuis, quam Passiuis fint attributa:quam % obrem Latini Præterito actiuq, paffiuo Praesenti defe ettisunt? Atq;in quibusdam fanehæc omnia. Rc sunt:Hortans, Hortatus,Hortaturus,Hortadus. Atin aliis, quæ simplici constant forma, vt Ama, quare 379 2 quare non possedere præteritum: vt Amor,qua re non possedere præsens? Sane hîcnihil habcas, quod refpondeas, præter negligentiam: adeo, ves af in illis quoque,in quibus omnia esse videbantur, vocem quidem videas, significationem non vi 2 deas. NamSequens præsens quidem eft, et Hor- tans: sed significatus actiuus: ac fane ab codem it., verbo Sequor, si potuit deduciet Sequuturus, et za Sequendus: quare no potuitin præterito distin cum effe,Hortatus actiuum, ab Hortatus,paffi uo? Si potuit ab Amo, Amans: quare ab Ainor, nihil potuit? Significatio. Vemad modum Verba manent, aut muti. tur,fic et Participia. Nam Lauant recensen Na bamus interuíça. Sic Voluentibus annis, eadem fuit significatione, qua Volućda dies,vt eft apud de Homerum:withoueYWV EVIAUT@.Sicmutauit O-, riundus, nõ rationc fubeftautem cauffa vtigno rata, sicacuta. Eftoriundus Roma quiBononiz ) ortus,Romæ oriri debuit quo in loco lares habet patrios. itaque idem eft Oriundus, quod Oritu rus. Futurum enim hocnon defignat quod erit. fed quod non fuit, et futurum esse debuit.In paras fiua autem voce declararunt: quoniam ipse iam per se no poteratoriri,aut agere,vtoriretur:sed fato, autsenatusconsulto,aut rescripto, aut re cenfionc affici muneribus ciuitatispoterate 0: June. Affoftus. Program que 380 IuL. VIL leret: 1 Tutus alos to 10 Huis ca mus, tilusa ttiam Gnar tarctu P Roprium eft Participii,fieri a quibusdam teftem Verbis, quorum nõfequatur significatione: vt Sequendus, a Sequor: paffiua fignificatione ab a et iua. Id autem propterea euenit, quia hæcom cnia, quæ vocamusDeponentia, olim Communia apes. cefuere:atque iccirco Deponentia dieta, quod de suape pofuiffent alteram significationem, quam habu iffent. Sic verbi significatio vetus abolita in Ver bo,mansit Participio, quemadmodu deleto Ver 2 bo toto, mansit Participium:Laboratus, Regna tus, Erratus, Triumphatus, Decursus. Sed adhuc longinquiore ratione, Auritus, Pellitus, si sunt Participia. Quæ autem exempla afferunt muta tæ fignificationis, fortasse non omnia carent ra utione. NaDiscretus, fac significet viru modera tum: nõ eft quiadiscernit, sed quia a vulgo fapie. Cetu fentetia fecretus fuit. fic Circufpeettus, no qui Circuspicit:sed,vt Homer dicebat, qui circunsta tiu ora,atq; ocul sin fe conuertit:id quod quum fiat ob eius pr stantiam, actum admirantium tranftulêre ad significandum caussam, propter li quam admirarentur. Sic Beatus, diuitem notat, qui multa bene, ac benigne poteftagere: at Bea quad guu` ' tuspaffiuum eft Participium, quem bonis,vt ap cxpellat GræciBiov, Fortuna voluit beari. Sic Cau tus,quem cauendum dicerent:quem,vt ait ille, a trumagnoscerent, aut fænumin cornu gestan caem. Falsum, quoque quis neget passiue femper et accipi? etiam quum falsum est testamentum: ic circosic dicitur, quiaipsum fefellit,fcribat:Falle rcenim eftoamen. diffusa significatio ad fal kumteste, quareactiuehîc accipi putarut, qa fal aque Pre etiam poffit mus, et priur nega ave men men age. و ووو et CUE Iereto cato ation hecco Ommy CHO amba tain clerol Seda tus, unta I İeret: verum analogia transtulita Testamento ad Ebulda testem, quoniam vtrunque corruptum esset. Tutus quoque fem per paffiue: Tutus portus,qui», alios tueatur, propterea quod ipfum tucantur rupes: Ita alia nonnulla eruentur, et reddentur suis caufis: neque enim nostra nunc intereftom nia persequi. Quædam tamen omnino, vt dixi mus, mutãt significationem: vt Disertus, et Pro fufus apud Sallustium:neque enim mirum, quum etiam Nomina ipfa hoc pafa fint: fic enim et 15. Rio Gnarum,quinosceretur, et Nescium, quiigno rarctur sunt interprctati: Sicut etiam Euidens; atquealia animaduertêre. Propriu item eft Futuri temporis pafliui,poni// etiam prore, quænon fit futura, modo effe aut poffit, aut debear: vt exemplo Liuiano diccba mus, Milites comparandos,et alia eiufmodi. Pro prium etiam nondeficiCasibus, et carere Specie: negarunt enim prisci vllum ab alio deriuari, fed uodą aVerbis deriuatisfieri:yt Gemisces non fit a Gea mens,ficutGemiscoaGemo. Ite, Tranfire in no n, pre men primogenium,vt Pugnas pro Pugnator:ali Caren: Ηπιους ulgole CUS, DC, circuit quado in deriuatum, vt Çöfidens.Interdu ambi guum eft vtrum sit, vt Horatianum illud: Me tuenstanga.Etiam creare Nomen: Amas, Aman tior. Ettransferresignificatum a re patiente in agentem: nam etsi dicimus, Cænaturrhombus: tamen Lucullus dicet, Cænatus fum: fic Pransus et Potus. Hoc factum eft, vt in Pasco, Pastæ oues: et,Depaftasali ta: vt fuerit Cænor deponens, fi cut Pascor. Et euadere Nomen substantiuum:vtn Sene et a: fuit enim verbum Senco, quo et Ca. tullu's whirare temas ere: ar oni.com 17. SiG. vtaicik Tapete Tueles entum ribat:E atio21 Bb j. TUI  tullus vsusest: cuius paffiuum participium, fuit hoc. Itaque veteres fic dicebant, Sene etta ætate. Eademlicentia, Occasum dicis locum, vbi Soloc cidit:at paffiuum hocfuit Participium; vtin XII. tabulis: Sole occaso. Præterea etiam aduerbium gignere:Indulgens,Indulgenter.Proprium etiam I fequi Verborum naturam qua deficiunturcertis modis orationis:nam fi Pario, foeminam tantum fpe et at:ita Pariens, vnico tantum genere præscri berur:nilifigura quapiam in ordinem redigatur: DE ficuti dicimus, Mulierern foecundam: ita etiam Ventrem fæcandum: quare etiam Ventrem pa- L rientem, quominus dicamus, vis Participii ne quaquam prohibet. '. Antimeria in participio fit quum pro Verbo « ponitur,vtin Hecyra: In arcem transcurso opus eft. Et apud Sallustium, Mature facto opus eft Sed non finecaussa hoc factum eft: plus enim di cit Transcurso, quam Transcurrere: et Facto quam Facere. Illa enim rem abfolutam desi gnant, vtiam totum iter quod inter Pamphilum etarceminteriace bat,iam effet tranf cursum. Quar partes licatio Num. IV LII Prop Lii num re QUX 3 quos imm cuorent.  tQuatuor partes reliqua,quarefintindeclinabiles; etquare aliis postposita. DICTIONE tanquam ex genere fummo,alteraque differentia,quæ rol. lit inflexionem,fit species inedia, quã vocant Indeclinabilium: fub ea funt partes quatuor, Præpofitio, Aduerbium; Inter iectio, Coniunctio. Quare autem Persona, aut Numerus his non fint attributa, quærendum est. Propterea quod hæ partes erant notæ connexion can be what · num, quemadmodum fupra dicebamus: at ea, quæ conectebantur eratiã pradita his affcetibus: quos affcctus si hæ quoq; effentcõlequutæ; fane immelus fuiffet numerus fimul,et fuperfluus:ali quotque earum a suis primogeniis nihilo differ rent. Si enim Bene fcribit et Cæsar, et Corinna, Bb ij. Et Mancipium. adde genus ei Aduerbio, iam fier mod Nomen Bonus, Bona, Bonum. Quædam tamen co partes fequutæ suntautTempora,aut Modos, aut 2 Casus, tanquam affeclæ propter significationem, non tanquãcopotes propter niodum significadi: vt,Heri,lignificattempus, itaque addetur modo significanditempus,Amaui:fignificat enim non tempus, sed actionem amandi cum tempore. Ita eft, Vtinã Ame,Siames,Ad amandum, Ob pug nandu, Dereducendo Regem.Quareautem sunt Com aliis poftpofitæ? Nă suntlimpliciores:ergo prio 2 reluco erant cognofcendæ. Item funt nobiliores quedam quibusda,nonnullæ omnibus:magis ne? ceffaria eft Præpofitio, ğ Pronomen: perfe et ior est Interiectio quam velVerbu,Yel Nomen, in De tegra enim oratio cft,Heu.Hîcita respondemus: at 2 Facilius cognofci potuiffe Pronomen cum No St?, minė, quam fi differretur. Simplicitatem autem illam mancamesse, neque poffepercipi illorum rfaturam fine declinabilibus:quia hæ illarum con iungendarum notæ sunt. Præterea non eft Sim plicitas, carere Declinatioessed Defectus. Quare non poffis intelligere, quemadmodum Aduer biū Personis careat, nisi sciasprius,quid Persona fit. Nefcias quid Gt Persona, eft enim accidens, nisi noris effentiam eius cuius ipsum accidens eft. Harum autem partium nomina a fedibus, quas in oratione fortitæ effent, dietta funt a vete ribus: qui et hoc negligenter nimis,quum perac cidens effentiam definirent: et inepteprius inter fe partes has compararunt, quam quæ qualefve effent ipfæ declararent. Nosautem, proptera quod 17 WIB. TE D20 quod compositus intelle ettus a simplici anteitur, etcoparatio eft fimplicium cöpofitio, sigillatim quæ cuiusque ratio,atquenatura sit, videamus. Præpofitionis definitio, et fedesinter cæteraspartese Ic igitur definiuere, Præpositio eft parsora- + tionis, quæ præposita aliis partibus,lignifica tionein earu aut complet,autmutat, aut minuit. Complere, vt Intercipio,Demiror: Mutare, vt Aufero: Minuere, vt Subrideo.Verum et confusa eft, et ab accidenti, et non omnibus competit et luperfluis particulis. Nam quod fit confusa fatis patet, quum nodesignat quibus partibus præpo natur:pars estorationis Interięcio,atei nulla vn qua Præpositio præpofita fuerit. Abaccideti data 2 eft: neque enim est Præpolitio, quia præponitur: fed præponitur, quia est Præpofitio. Non omni 3 bus çõpetit: nequeeniin cöpositæ Præpofitioni, Mecum, tecum. Particulæ autem quædam vacanta fic,quod çöplet, autminuit,mutat:eftenim mu-.wo. tatio, effectio vt aliquid differat ab eo, quod erat, Voluêre fic intelligere, Mutare, id eft,destruere significatum:sedexemplo inutili vsi sunt; etenim et quiadfert, et qui aufert, fert. Commodius dic' xissent augere, minuere, et alia talia. Fortaffe veros falfa quoq; fit,neq; enim effentia Præpofitionis eft præponi,sed vsus:liqua,n. vnquam poftponce retur: ergo eo desincret esse præpofitio: quarea lio cofilio eius definitio eftinuestiganda. Rerum in genera summacætera fuperioribus libris recelula ius, fubstantiam, quantitatem, qualitatem, et m nila? Bb. iij eiusmodi.vnum in præsentia nobis reliquum eft. philofophis tantum notum,aðGræcivocat:qui bus autem rationibus cum loco conueniat, aut ab eo differat, aliis libris dictum est: hæret fane semper etloco, et corpori: nullum enim Corpus inuenias quod alicubi non sit. Porro Oinne cor pus aut morietur,aut quiefcit: quare opusfuit ali qua nora, quæ to 78 lignificaret, fiue effetinter duo extrema, interquæmotus fit: siueeffetin al tero extremorum, in quibus fit quies. Hinç eli ciemus Præpositionis essentialem definitionem. comp Affe et usautem præponendihincfluxit, propter ea quod terminum lignificaret: Adforum: indi cat enim interuallum, quod ante forum eft: fic, Apud te: designat spatium a meadte:quem ter minum quum nactaeffet res mota, etquiesceret, merito etiam præposita est: pendet enim a mo tu. itaque eadem Præpofitio vtrunque munus obiuit: dicimus enim, Eoin vrbem: ac tandem, Sumn in vrbe. Quæram tamen, quare præpona. Por fimmturea, quæ locum, vnde fit motus,designat,fic, quo ab vrbead villam: fi enim interuallum notatin quo res mouetur, debuit illa prior postponi. Hic ita respondendum est, Cõceptam animo fenten. tiain priino quoque loco exponi debere oratio. ne: igitur quum dico Vrbs, vnum vno modo intelligo. Quum destinaui futurum, vt vrbssit terminus, vnde motus futurus sit, ftatim hoc occurrit intellectui: quod, quum ftatuatur per præpositionem, primo loco ponedum fuit. Hxe cm fuit fedes in oratione. Locus autem in partium e. äumeratione, quæ inflexione carent, primus da ce tug 10% ca 387 a tus est non immerito: eft enim maxime neceffa-, ty ria.quippe Natura omnis constatautmotu, aut,, a quiete, Præpofitio autem harum rerum nota est. et Interieet io autem,quanquam exprimit perfecte Com animi quasdam affectiones:tamen ea,vt diximus,', i potuimus carere.Coniunctioautem tanto poste rior eft Præpofitione,quanto est prior simplexo ratio,compositis.Aduerbiivero neceffitatem suo. loco declarauimus,verum supplementum potius orationis effe,minore prerogatiua,quam qua vti tur Præpofitio, videtur. An vero họcita fit, fe. quenti libro acutius perspectum est. Prepositionum generica diuifioredu et ta adcauffas. Ifputarunt Philosophivteresset prior,Mo-'" tulne an Quies.ac fanein noft: atibus Quies prior eft: non quod fit priuatio Motus, vtaiunt, (Motus enim item Quietis priuatioeft ) sed quia nobilior:mouemurenim vtquiescamus. Contra” videatur cuipiam Motum effe priorem: tu quia, (vtipfi credidere)semper in cælo fuit: tum quia si vult Auerrois, Motum effe perfe et ionem cor- > poris naturalis. Verum vt de cælo loquamur, di cimus ipsum mouerivecertis quiefcat.Intelli-> gonuçQuiefcere,adipisci quod non habebat hac vel illa parte. Deinde fatis patet, ipfum toto, loco quiescere: quiescere igitur propter fe:mo utri autem propter nos noftraque: at finis fui perfectior eft. Auerrois autem non debuit ina telligere vltimam perfe tionem, sed perfectio nem per proceffus: et quam vocant evtu ya senen 1 1. perficimur enim mouendo, propterea quodad quietem propius accedimus. Quum igitur quæ dam Præpofitiones motum, quædam quictem indicent,quædam vtrüque: hæ ambiguæ vltimo loco tractandæ fuere: quæ autem quietem signi ficant,primo.Verum vnam tantuminuenio, quæ Pecfolius quietis nota sit, ea est, Penes:significatenim potestatem immobilem ab co, cuius eft: itaque est: itaquemaximeSubstantiuu verbum sibi vin dicauit. Plures funt motus indices: Terminum quo vnde fit motus notant, a, De, Ex: quæ ad com moditatem orationis sunt interpolatæ, Ab, Abs. Het ateş E. Alterum autem terminum, Ad,Ob, Víque. Eft etiam vna quæ tres terminos comprehendit ita cevt terminum ad quem fit motus, nominet,atque interuallo statuat; ea est, Trans: Curro trans montem ab vrbe: supponit vrbem,nominatmo zemas tem, et petit aliud. Aliæ vtrunque significant pro verborum,quibus iunguntur,ratione: In vrbem co: In vrbe sum.Itaqueetiam casusmutat, quo. rum rationem suo loco diximus. Sunt etiam cfimul vtrunq; miscent:vt,Apud;sic,Apud te cur- Biu Tentem curro: est hic cursusmistusçũ quiete. No dimoueor abste: hæcest quies: Moueor æque el actu a carceribus: hic est motus. Eft autem qui 2. dam motus verus, vt in corporibus: quidam,vt eaiunt Græciavanogenes, vt quum dicimus quem piam mente motum. Sicigitur etiam loquimur, E Daug audiui: motus quidam est. Et, Ad me redeo: et, A libellis, A manu: ex eius enim manu proficiscitur actio ad officium. Sic Ob et Pro pter,oliin locum significarunt:Ob Romamobe GIC 012 ner quæ gu tans I.C V coda quitans Annibal: Athelim propteramanum. Tou Nunc deflexæ funt ad cauffam tantum decla, lite randam. Things Affecttus præponendiratio, atg; vfus. Eter: Idendum igitur quid fit Præponi, quotque Traces modis quidquam præponatur:tum præpo bir 'nendi vsus quibus partibus communicetur.Quu nin: igitur voces ad eum finem sint comparatæ, vt aut 7 dicat ex duabus vna fiat, aut ex duabus feiunctis vna o ratio, atque vtrobique neceffe fit, vt altera alte I ram sequatur, vtroque modo Præpositio præpo ni debuit. Quamobrem fatis conftet: minus con fulto veteres alterum modū, Appofitionem ap-» pellaffe:aliud nanqueest Apponerc,aliud Præpo nere:ac fortasse hæc inter fecontraria: sic enim dicimus Appositum, quod eftin extrema fitum orationis parte.idem enim est Addere, et Appo nere. Quum,postquam res videtur perfecta,iufta quippiam ponitur: atque eodem modo Aduer bium nominarunt, quod verbo tãquam præscri ptio quædam apponeretur. Quare non rectein telligemus, Appofitionem, esse speciem præpo nendi, fed oppositum quoddam genus:sed vtrū quepræpositionem;eiusautem species, Seiun etta, et Coniun ettam. Ergo quum prius fitseiunctim, sayangan quam coniun et im præponi,de eo prius quoque dicendum est.Seorsum igitur præponiturNomi ni,Participio,Pronomini, Ad Cæfare:Adipfum: Ad pugnantem. Coniunctim autem et iisdem, et Verbo, et Aduerbio, et Coniunctioni.Præfortis, Bb y. Adddo,Subies,Perinde,Absque. Quod vero aiutą, mo mom cum Coniunctione vim suammutare,falsum est: ithoor etenim A BSQVE, tametfi motum verum non dicit, tamen ita est, Abvrbe distamus mille passi bus:ita, Absque te Triumphaui.Significat absen tiam, et interuallu, quod poffit effe locusrei mo Cafe tæ inter duo extrema. Cafus autem duos certos fibi destinarunt, Quartum, et Sextum:ac Quartu quidem, quoniam cauffam finalem significat: A mo Cæfarem: Cæfarcauffa amoris est. Eoad Ca. farem: caufla eft motus. Huius natura fecutus eft Secundus quoquecafus,fic enim dicimus, Vin cendi caussa pugnamus: significat enim termi num quendametiam in poffeffione: Ego fum?Dei, non Fortunæ. Itaque etiam hunc cafum ad eundem vsum traxere, Crurum tenus, apud Ver gilium:Nutricum tenus, apudCatullum. Alter u casus Sextus designauitre et e terminum yndefie ret motus, eius enim natura talis est: Abvrbe. Et uquia tempus cum corpore, etloco, etmotu,mul. tas habet affinitates, iccirco eadem locutioncin, terdum sicloquimur,A prandio, Aborbe condi to. Sic etiam caussain materialem indicauit: De iurc disputo:quia abipfius contemplatione mo tus, in eo declarando versor. Quæret quifpiam acutius, quamobrem Sextus cafus etiam quieti fignificandæ attributus fit? k Haudfane præter rationem hoc fuit:nam Græ uci Tertium cafum ei aflignauere, even signifi cat'enim acquifitionem:nihil enim fimilius loco, quam locatu:acpropterea Latini, quiex Tertio Çafu fuuma Sextum progenuere, illius in hunc prærogatiuam transtulere. Eft præterea quod in ueftigemus: quædam enim sunt Præpositiones,q. quæ Quartumcasum exigunt et tamen terminu, vnde fit motus, denotant: Poft hyemem: Post prandium. Huius rei ratio est, quæ et in Trans: significat enim motum ad prandium: atq; etiam » vltra. Par caussa et in Circa. Quartum enim ha bet:Circa vrbem. Nam omnis motus, aut eft ad » centrum, aut a centro, aut circa centrum. Ergo centrum tametsi non eft meta motus circularis, tamen eft præscriptio quædam: atq; iccirco eun-> demcum Meta ipsa casum admisit. Ratio autem qua sunt addu et i,vt eidem Præpofitioni duos ca fus apponerent, iam dicta est.In vrbe, quietem di cit: In vrbem, motum. At vero quæ porro cauffa, vt etmotum, etquietem eiusdem effe paterentur: propterea quod in, loci significat rationem: In vrbe,tanquam in loco. Itaque cum motum ita si gnificares, vt etiam terminum no folum pro tera mino,fed etiam proloco ftatueres, eadem vti po tuisti:nam, Eoin vrbem, ita dicimus, vt etiam in vrbefuturus fim. Aliæ autē pari confilio ad cauf fas reducentur: Sub terra fum,fub terram co. Su per,fcxit significatu,vtponeretur pro De: quo-» niam argumentum,de quo loquimur, diettum est abantiquis, Materia: at Materia defert,itaq; etiã moleselpos,vtsupra fcriptu fuit,appellarunt.Ve rum de his sigillatim, quid vfusftatuerit, in libris Originūdiximus adeo,vtfit prætermissam nihil. Nuncnö est huius operæ, sed vniuerfalia philoso phorūmoreinuesligare. Sunt autequædam,que femper fcļūđī ponutựr:vt, Apud, Circiter, Secus. Quat  Quædam cotra: 'vt,Dis,Re, Se, Am. Quædam in differentes:vt,Ante, Cum, et eiusmodi. AcSeius et tis quidem qui casus deberentur,diximus.Con iunguntur autem cuiuis fine discrimine. Neque ex folum, quæ abfolute poni poffunt:vt,Ante,in verbo, Anteuolans: fedetiam quæ casum exigere cevidentur, qualis est.Pro:quodmanifestum eft in + voce hac, Pronomen.Quare non recte dixere re centiores, Magistratum, qui præsit prouinciæ, auspiciis viri consularis, fine vlla inflexione no aminari in Sexto casu tantum, fic, Cælar pro con lule, Cæsarem pro Consule. Nos vero vt nonne gamus recte dici, ita affirmamusetiam pro cuiuf que sententia variari, nõ minusquamprimariam vocem Consul. Nam præterquam quod superio ribus rationibus ac fere omnium vsu liquet, Græ cxcis quoqueid defenditur:quippe dicunt a'rgora mov. Et nos, Proconfulatu,nihilominus flectendo vsurpamus. Nonnepernox Luna dicitur? Atque huiusquidem vsumcommoditas potius persua fit,quam ratio docuit Sanenos, quia caremusar ticulis,arripuimusoccasionem ça'm breui sermo ne vtendi: fic enim relatiuum esset interponen - dum,Dignitasproconsulatus: dignitas, quæ pro Consulatu est. 1. Proprium autem quarundamest, vtsignifica ta varient, qualis est, Aduersus: quarundam,vt suum perpetuo feruent, qualis est inter.Quædam femper cum casu sunt, vtCis:quædam femper fi ne casu, vt quæ componuntur: circumagunture "enim per omnes casus. Quædam vsus fentiunt vi çiffitudinem, vt Pone. Quædam femper præpo nuntur, cie. P 1 tia 5 DO Büntur, vt Ad. Quædam femper poftponuntur. vt Tenus. Quæ litratio vt(quemadmodadice - camy bamus ) non re ettein definitione pofitum sit tan quam essentiale, Præponi. Neque enim Aduer bium est,vtdixere: iungitur enim cafu. nam fi i ies sit Aduerbium, quid ad nos? Tenus enim est » uezes. vt apud Aristotelem in fexto historiarum, nezee zopkw: et tot locisapud eunde:mezeitiali." quatenus.Quædam nunc subeunt,nuncpræeut: * Cum Cæfare: Mecum. Nequefolum in compo fitione, fed etiam alteromodo: vt apud Teren-> tiumin Eunucho,Vnaire amica cum Imperato remin via. Hinc fatis conftat, nullum effe vsum + tertium,quem dixere,interponedi,his exemplis, Qua dere, Quam ob rem. signat enim Relatiuu,sı cuipostponitur:non Nomen: quod manifestumn estalia locutione hac: Res, qua deagitur. Pro-, prium et illud,vim amittereconstructionis, quu componuntur: præpono te mihi: Tertius furre pfit proSexto, quali Verbum esset fimplex. Sed etaliis modis, Prxeo Cæsarem: vbi Quartuspro Sexto. Sed etin ipfamet compofitione:Quapro pter, Quocirca. Sed et seiunctim,fipoftponatur, Multo poft tempore: et fit Aduerbium,atqueab folute ponitur,fine vllius cafusofficio. Superflue etiam additur, Adeo ad Cæsarem. CAP. Ĉiv. Prepositionum Efficiens, etMateria. Æcde carumforma, et fine,hoc eftvfu:nuc. tant igitur feipsas interdum, vt A, fa et a eftex alia, -1  10 C c alia, quæ eft Ab: quæ a Græca fuit mutila, izos Gainis, ab llio. Sic ex Dis, facta Di: et illa a Græca d'esquod enim bis fit, feparatim fit. Quiæ u dam a Verbis, vt Sine,Pone.Am, tota Græca eft, "et apud nos non nifi in compofitione: Theo critus autemetiam feorfum posuit, ajega. Et quemadmodum Græci vfitatum additamentum Laddidere, xuqi, sicutBingo: fic nos noftru Te, « Ante: ficut Ifte, Tute. Nam Ante, caftrenfis vox cfuit:quum obsiderent oppida dicebantseefsean ute oppidum. Vsque,a Græca ws5 The pro eo quod west, wess. Coram tota Græca, ob oculos, nogue aEtiam a participiis, Aduersum. Cum et Con, v nam eandemque effe, aliis locis diximus: Con " fonantem finalem mutari pro natura sequen tium se, vt Compono, Confero: Vocalem au tem, vt auribusplus feruiat. item mutari, vt Co mes,Comitium:Cumprimis, Cumprime. quod autem fit Com, non autem Con, patetexclufio che: vt Coorior, Coco, et in Contra. eft enim a Cum: sunt enim contraria relatiua, ergeli mul. Fuit autem Græca, ughes,nam,fuit par ticula completiua, huw. Ea igitur genuitCon tra:sicut,in,Intra:Ex,Extra: Cis, Citra:In, Infra: a Sup, Supra: fuit enim fic prius: poftea Sub, ab wiat:vt Ab, X. Sed antea orta sunt, “Inter”, “Infer”, “Super”, “Exter”, deinde, “Intera”, “Infera”, “Supera”, “Extera”. Qemadmodum ex Phänomenis Ciceronis obseruari potuit. Tornu Draco ferpit,subterfuperag, retorquens. Fuit et alia terminatio, Subtus ficucIntus. Pasize autē sunt oenor apud Græcos: nam Aristoteles et Thucydides, etPlato, etalii Attici, ita vtun tur, cows procures. Ex Di, factum est De,ficutex Pri,Præ: vnde Pridie: et ficut ex Ni,Ne.Aliquan do putaui a Græco je,Deductum:neque ineptū® est. Hæcde origine, et materia: nunc de aliis affe et tibus: Etiam a Nomine,Circum, ab eo quod eft ” Circus,xiguo. Accentusprepositionbus,quemadmo. dum attribuatur. VEterumÆolenfium;vt faepe diximussix » quam plurimis autoritatem secuti: vt a no minibus, vcrbissueabiecimusa fine accentus v fum: ita in præpolitionibusrecepimus. Sic enim prisci prodidere: Omnes extrema fyllaba, nili poftponantur, Græcorum ritu, acui: codemque tipoflponantur, accentum transferri, na jurnami jual x mc men. Ita noftris placuit, vt dice remis Penes Cæsarem: et, Cæsarem pencs. Quod fi vfu veniat, vt Præpofitio fit ambigua yox, aliique particommunis:ne postposita qui dem transferri: vt femper dicatur: Altaria cir cum: ficut Circum altaria: necocurrat cum Quar to cafu nominis huius Circus. Quædam vero et iam amisere accentum, quippe ex quæ Encliti- st. carum naturam induere, vbi postponuntur; qualis est Cum: dicimus enim Mecum, sicut Mene. Verum deAccentibus, deque Cantilla tione illa fatis fuo loco di ettum eft. Eofdem fo lensesrefpexereyeteres, quum nullam aspirarut: ». Illi enim ito, et uzeg, dicunt. Caussa autem huius Sobre DS rei Ivl. VIII. t f rei festiua esto: quum enim motu fignificetma xima earum pars, celeritate opus fuit,nonmora et craflitie spirationis. Item quæ dicereritquiete, suauiteret tranquillecamindicandam fufcepere: Afpiratio autem animi eft affe et i nota. Aly affeettus. cong. Popriumitemcomponiet inter fe, Circum I circa:vtapud Homerum, ucineispo© x ante cõueet to: Et cum seipsis, vt apud eundem, wes xududozefia:Etcum aliis partibus: cum Nomi ne,Incola: cum Verbo,Impono: cum Participio, quod a Verbo venit:cum Aduerbio, Abhinc: cu sogn. Coniun et ione,Absque.Interdum autem retinet significatum, vtDeinceps, Coniunx: idqueaut fimpliciter, vt his exemplis: aut auget, vt Impo tens, Infra et us. Interdum amittit, idqueaut tor quet in contrarium, vt iniustus: aut in diuersum trahit,vtPerbonus. Ratio autem huius poftremi 1 a Græcofluxit:nam mei significat Circum:quod fi autem continet, id maiuseft, quam contentum. Abeo noftrum Per,du ettum eft.itaque Perbonus, est o wexey.ww To digatov: Quæ autem intendunt fignificatum, cauffam hanc habent: funguntur Huenim pene officio eodem,quo in difiun et a oratio ne. Impotens,vt lit, potens in alios:Infractus, qui ipfeintus fractus sit. Atvero quæ in Contrarium transformarunt, qua ratione id efficere potuere? nam fane priuatiua Græca habuit cauffam, ad G:nam to d,eft ficut to do, vnde noftru a:figni ficat enim motum, vt sit, qui mouetur a iustitia: C و 0 ac at noftrum In,significat locum, et habitum:qua renon satis manifesta cauffa est. Sunt et aliæ prę pofitionesaugentes, vt Adprime: motum enim et propensionem notat ad id cuiiungitur. Con tra, sunt quæ minuunt: vt Subrubidus. Suppude bat: non immerito: est enim respondense con trario tb w € lo quod enim sub aliqua reelt, abea tegitur: ergo eft illa minus. Proprium etiamfupponere aliquidad significandum, quod in caco > pofitione non fit,vt Internecium:hic Nex figni ficatur. Inter,autem est nota relationis ad duo: at ea non ponuntur. Græciclarius, annodovovat repov. Et mutari in eodem verbo Effero, Elatus. verba tamen duo sunt. Proprium etiam creare ex fe Nomen, Ante, Anticus: Verbum, Prope, Propinquare. Proprium etiã, vt altera pro altera ponatur:di- Enak cimus.n.Ajpro DE,et ecotrario:fed non re et evti lagi Lin sunt exemplis quibufda,vtide sit Ad oppidum, et In oppidum. Barbare item dicunt, Per vrbesum, ficut In vrbe. Barbare Apud Balilea, sicut Bafileæ: falsianalogia alteriuslocutionis, Apud foru: licay.. n. dicebant prisci, vt Terētius in Andria,In foro n.homineslitigant: etannona est.Tu Donati in terpretatio hæc: Verba,inquit, Dauide forove nietis.voluit dicere, simulatis venire de foro.qua re autem fic aufi fint, haud fatis coftat: aliud enim eft ωδα,aliud ν.1llud “το έχόμιον” hoc “τε ω ιεχό-“ refror notat. Falso quoque putant Propter, poni alieno loco pro eo, quod est Prope: na hæc illius parens eft. weydiximusalio libro,Græca effe mee. Itaq;Prope,fuit pro pedib. ita Græci loquuntur;» Сс ј. med İVL. VIII. meg moduko at a Prope, fa et a est Propter: sicut ab In,Inter: a Sub, Subter. quare Vergilius cum di xit,Athesim propter amænum:fincero;re ettoq; significato vsus est. cum autem nos referimus ad vlum causæ finalis, translato vtimur significato: quoniam finis cohæret actioni, mouet enim nos. (Apud autem fuit, ad pedes,eodem modo:itaque Ad, et, Apud, proxima funt et fignificatione, et v ufu.Ad Leccam velle cænare, vt fit etiam pragnas oratio: ad Leccam cogitare cænandi cauffa. Ad Capua caftra habere quoniã eo cõtenderat prius, Confequens a præcedenti. sic mutila oratio, Ad febres facit: immo Adægrotum, cotra febres.sed Ad, accipitur pro qualicunque termino, etiã ho ce stili. messzonw Tl- proco quod eft, aduersus. Cæ tera omnia exempla ad hunc et motum, et termi num reducuntur. Quodautem aiunt, Apud ma iores, pofitum pro eo, quod effet, A maioribus, falsum cft:fed eit ficut,Ætatenostra hoc fit:quip pe ab aliquo apud cæteros, quod ad feculum hoc pertinet:præsentesenim sumus tempore. mitter Proprium. et illud, Ponå absolute, atque inter du ficri Aducrbium:vt apud Virgiliū, Pone fubit coniunx. nam oratio fimplex eft ex Aduerbio, intelle ettus autē Præpofitionis. Poft, enim figni ficat relationem: quod enim eft Poft, habetali icquid Ante.Eft autem Post, pone est. Interdum # quod plus eft euadit Verbum,vt apud eundem: Omihifola meifuper Astyanaĉtis imago.proco, quod eft, quæ fupereft:vt quodammodo sit quafi Participium: atque hoc quoque Græcorum imi ai tatione factum est. Frequens est apud Sophoclem locutio,nie prowlkesi: et ev«,pro šviş. Quo » rum legibus nostri quoqueaccentum translatuma voluere. Obferuata est avauseia his exemplis, pro Ad=ffining. uerbio, apud 1 erentium, Fortunatus fum cære-> ris rebus,abfquehæc vna foret. apud Sallustium pro Coniunctione, Præter rerum capitalium, condemnatis. fic Varro, Præter fi aliter nc queas. Sed mihi videtur caussa huius loquutionis in promptu esse: nam prxpositio illa præter, to tum quodfequitur excludit: fic eftin illo exem plo Enniano, Præterpropter vitam: id eft, viui- » mus ita, vt videamur propter quiduis potius; quam propter vitam. Aduerbiy necessitas: Sedesinter partes:Nominisraa tiofalfa:Item Definitio, Ortus, Species. Cc ij. Dy Ivl. IX. organa DyplexAduerbii neceffitas fuit,ficPomba, duplex est vocum temperamentum per adiectionem. Nanque aut adiicitur accidens substantiæ, aut gradus accidenti. Exempla hæc funto, Vir fortis: hîcaccidens substantiæ addi.. tum eít. atquum dico Fortior, tuncgradusacci denti additus eft. Igitur quod faciunt adicctiua substantiuis, vt fecum affcrant accidentia: hoc vt a agantAduerbia Verbis, excogitata sunt. neque enim fi dicas, Velox fcribo, aut, Velocia fcribo, intelligas scriptionis velocitatem: fed Velociter fcribo, fi dicas: intelligas. Sic igitur quum ex plesset Verba, adhuc fupererat aliquid agen ce dum. itaque etiam gradus illi dengnandifuere. Quare quum bonitas, atque aliæ qualitates in tendi, ac remitti qucant, neque Comparatiuo, ba aue Superlativo ita plene poflint explicari, Ad uerbii ope factum eft, vt explicarentur: Valde bonus, Nimis fæuus, Lorge alienus,Multo for- ni tiffimus: vt etiam illa ipfa nomina gradus signi ficantia, hocindigerent, Paulo doctior. Quare a Vox non folum nomen Aduerbii male fabricarunt 6 vite feteres,fed etiamimprudenter assignaruntdefi- a nitionem: Neque enim folius Verbi tempera mentum est, sed Nominis quoque. Sed nimis fe- cure fecuti sunt Græcos, qui æque inconsulte Strafpnua ipfum appellarunt.Hinc constat ratio w originis, et fpecierum. Nam sicut Adieetiua ap ponuntur Substantiuis: ita quod verbo appo unendum fuit, ab ipso Adie et iuo deduci par est. Si enim dicam, Celerem scriptionem: dicam et iam, Celeriter fcriberc, quæ fanefortienturno at POO 4 specierum a natura ipsorum Adiectiuo-,; rum: vt si Bonus qualitatem, Magnus quanti tatem fignificat: can aduerbia ab his deducta aut qualitatem, ant quantitatcm dicere intelli gentur. Propterea vero quod a et tio et locum, et » tempus exigit, iccirco horum quoque præfcri ptio ad Aduerbii vim relata est.Temporum enim et locorum vaftiorem ambitum certis limitibus intercidi oportuit. Itaque necessario inuenta sunt,Heri, Cras,Hîc, llluc: Cum igitur gradus quasi quofdam deducat per Verbi Nominisque tractus:eiufdem quoq; interfuit, cofdem gradus,, detrahere ad nihilumvsque. Quare fi dicain, Cur rit çeleriter, tarde: et Albus plus, minus: debuit etiam poffetolli eodem inftrumeto, quominue batur: itaquedeuentum estad negationem, tum eam quæVerbis præponitur ad cotradiettionem affirmationis: tum eam,quæ præponitur Nomi nibus ad efficiendum id, quodvocatAristoteles, cioessov: Non çușrit, Non homo. Quæ negatio cum folo Aduerbii genere compleettatur, fane ef- " ficere potuit, vt contra, quam veteres putarint, omnium partiu indeclinabilium princeps esset. Omnisenim oratio ftatim a suis primordiisin af firmatiuam, et negatiuam diuiditur:quæ fiofficii meritum putes,illico poft nomen, ac verbum Ad uerbium ftatuendumeft, Deducuntur autem Aduerbia alia aperte, vt home Bonus, Bene: alia obfcure, vt Senfim, a Sensue Item a Verbis, vt modis quibusdam seruiant, vt, Age,Fere: illud hortando Imperatiuum exi. git, militarę verbum fuit, ab Ago: alterum non + Сс 11] eficia  I e a eft finilitudinis,vt aiunt,fed diminutionis:quoda enim fimileeft, cum dico, Fere poetæ nullo ho nore funt? fed fic intelligo,apud paucos pauci fi poetæ sunrin honore: intelligo autem diminu utionem non magnitudinis, fed præscriptionis: vt aliquid detrahatur firmitati sententiæ, vt ne- (queat dicere, Nullus poeta: et item nequeam, Omnes. Sic Fere fingulos parit mulier: vt fit, ne- V que semper, ncquenunquam. Tractum autem ce est a philofophiæ radicibus: quod enim fertur, in motu est:itaque terminum nullum attigit, neque enim a Feris ductum fuit,vt aiunt, quoniam ferz fint celeres: nam etdurum eft, etnugantur, cuın dicunt, Feras esse ccleres, quia fint quadrupedes: nam etAquilæ funt feræ, et celeres, nequequa drupedes; etmultæ quadrupedes feræ sunt,'nc queceleres, vt Elephanti: iroda et quædam ce lerrima,vt Angues.nequeCanis fera eft, et eft ce- fa ļer.sed de his alibi. Belli autem,et Domi, et Vef peri, et Tempori, ad alia reducuntur. Loci, et Temporis, et Sortiapud Vergilium (vt voluere) Aduerbiis qualitatis annumerabitur. a nomini bus omnia. ct Quæ igitur tempus notant, alia funt Infinita, vt Aliquando, Olim: alia Finita, vt Cras, Hodie. Sic et Loci,quippe a Pronominib. deducta sunt: Hic, lllic, delignantcertum locum: Alibiincer tum et Viquam,etalia. Falso autem putarunt, Prorsum, Rurfum, Sur a suim,loci effe:neque enim locum significant, fed motum ad locum. Illa autem, Oltiarim, Vica Ketim, Viritim,quantitatis discretæ sunt. Quædara autem, vtdicebamus, ad modos relata funt. Sed cum dicunt, O, esse optandi,tantum abeft vt af- er 05p fentiar, vt etiam Vtinam putem effe interiectio - hiho nem: neque enim modum vllum apponit Verbo:) pie idem enim est, Ainarem, et Vtinam amarem: et, ji Omihi præteritos referat si Iuppiter annos: idem est, Heu quaremihi non refert? Neque omnino Vocandi vllum Aduerbium fit: nihil enim detor quet, aut addit, aut tellit a Nomine: quare qui Præpofitionem agnouere, propius ferunt veri-», tatem. Nam tametfi neque motus, neque quietis indicatrix est, tamen disponit admotum, Sicut punctum non eft quantitas, sed tamen ad prædi camentum reducitur quãtitatis: sicin hac,neque enim dicas, Ad me veni: nisi aut voces, aut voca tum intelligas. Loci ac temporis Aduerbia maximo ambitu feruntur: quare placuit veteribus ca inter sese co parari. Sed turpiternimis lapli sunt: Nam quum limfowla dicant,Aduerbialoci ampliore esse significato, adplecia quam temporis: quia Nusquam, plusampleet aringen tur, quam Nunqua:non animaduertere,fola cor, peste pora deberilocis. at ea fimul cum aliis rebus mul- 2 tis,quæloco nullo cõrinentur, fub tempore effe. Non estin loco, Qualitas,non Relatio, nonalia multa prædicamenta. et tamen subtempore sunt, aut fiunt: igitur Tempus multo plura circunscri bit: Locus pauciora.Quod igitur nunquam est, nufquam item est: at non ecotrario, multa enim nufquam sunt, quæ aliquando sunt. Quippenul lo in loco eft hicactus scribendi meus; at aliquo tempore quin fit fieripoteft. ou Figur ain Aduerbiis. N Aduerbiis figuræ sunt,simplex, vt Diu: Cõe posita,vt Interdiu. Componuntur autem vel tre poltquam Aduerbia sunt,vel ab ipfis compofitis au fiunt, vt Hodie: fuit enim,Hocdie: et Nuper,fuit Nouo opere: Semper,Semiopere:Toper, Toto copere: fignificat.n.cito, et expedite:ita vt opera absolutasit. Itaque Semper,ei cotrarium eft,pro pterea quod liquid dimidio tantum opere fit, id non abfoluitur, fed continuatur.Geminatur,vbi vbi. Componitur cum Nominibus, Vbigerium: Te cum Verbis,Vbilibet:cum præpofitionibus, Per- L diu:cum Coniun et ionibus fimplicibus, Vbique: VE cum illis et fecum,Vbicunque, Profe et o, etiam, et illico, fuere composita, vt Hodie,  ac NE Antiquorum Error in Structura. SligiturAduerbiumVerbimodus eft,fatispa tet, quam inconsulto veteres ita præcepere, onto præponendum esse Aduerbium Verbo,vțita di camus, Bene currit. At enimuerocontra est: ac ceffio enim significatus fit ad yerbum ab Aduer- G bio: et quemadmodum prius fumusviri, quant fortes: etprior natura Curlus est, in genere, quam Cursus çeler, in specie:fic erit pri?Currere,quam Celeriter cursere. Nonenim hîc loquimur de fer monis elegantia, fed de caussis ipsius. Acquan quam ars atq; vsus dicitur natura imitari: tamen in quibusdam rebus placuit varietas. Itaque ele gantius acceptum eft Verbum in fine orationis ÇON on 0 die va U lee ic 40$ Opera 110. ziur ge DUSA Vbiz, ft contra, quam a natura ipsius reisappeditaretur, quo more præpofitum est Adiectiuum Substan tiuo: et Verbo Aduerbium.Sicin Tripudiis finiz, ftro pede mouemurprimum, quum natura dex-} ") trum primum moueat: vt arteid factum,non cu jusuis communilegevideatur. TAffeettus Aduerbii. Roprium est Aduerbiorum quorunda, afsu - ioni mere sibi quædam Nomina, Vbi gentium, Terrarum,Loci:eiusdem naturæ, Nusquam, et Longe: respexere enim significatum: eft enim Vbiquafi, dicas, Quo loco terrarum? Sed et tem, pus cum loco communicatum, Intercaloci: co gnati enim inter se sunt. Magna autem affinitas Aduerbii cum Nomine, vt diximus: Itaque et a Nomine fit Hoc die, Hodie: etfacit NomenHo diernus. Adeo,vt etiamcafum retincat Nominis,}»: funn Verbi,vnde fiebat: vt apud M. Tullium in tertio Officiorum: Conuenienter naturæ viuit. quia etiam conueniens.hocautem,quia cõuenit: Græcorum imitatione fa et us Atticismus, ouobws » 00. Eadem affinitate casum quoq; pristinum re tinuere: In Recto, Fors: a quo compositum per dubitatione cum An, Forsan:et Verbo interposiz, to, Forssitan. In Secudo casu, Belli. et apud Cos micumiocose,Foci.In Tertio, Ruri. In Quarto, » Romam. In Sexto, Forte: qua formafuere, Ci to,Falso,Şero: et horum secutum analogiam ver þum ynum, Præste. Interdum etiam mutantur, Gatis ecen VIID ad vt, ار Сс у. 1  IvL. ITE DE BE ER vt,Modus, Modo, Mox. Sic etiam retinet naturam transformatæ in sedin !! Præpofitionis, cuiufmodi est Cum. coniungit e nim tempus, Cum veneris faciam: vt officium meum cum aduenta tuo coniungatur. Itaque re clatiua quædam facta funt, Cum do et us,tum pro bus:id eft,quotempore doctus,eo temporepro bus:coniungitcum doettrinamutuo probitatem. Sed hæc minutius in libris Originum dicta sunt. !! Proprium etiam inter se vsum commutare: fic « dicimus, Illico, pro tempore: fed fuit,in loco:et Hefternum panem atrum: pro pridiano. Refert venimHeri,loquentem tantum:sicut Cras, et Ho pl die, et Perendie. Imitati funt Græcos, qui xtes ad hunc modum dicunt: vt eft etiam apud Lucia num,in cunviw. Proprium item, habere comparem, vt Haud, Non: et non habere, vt Ne: prohibetenim, non u negat:quanquam in compositione pofitum inue nias negatiue, Nequaquam, Nequicquam,Ne- ir frendes: sicut Non,prohibendo, apud poetas. In Item habere feriem teporis, Hodie,Heri,Nu diustertius, Quartus: et vt fecit Plautus, Quintus, Sextus: Cras, Perendie. Item minutiora: Nunc, Modo, Dudum,Nuper, lam, lamdudum, lam pridem,et futurum Mox. Præterea quemadmodum amiffo cafu Præpo fitiones abeunt in aduerbia: fic aduerbia in In ceterieet tiones, Euge: nam hoc fuit eje, at Penė, Aduerbium eft. Item communicare eidem terminationi di perfum modum significandi; vt Gælitus,delocoeft u 11 est,r gvoder, Diuinitus. Jebjev: at Publicitus non, dusjer, sed dnu61: habet tamen motum quen dam a populo:sic Primitus,a Primo. Falsum autem est, quod dixere Cafum habere no con Aduerbia. vtponebamusönucler, Snuovde, ånuolio noted fed a Casu ducta, co caruere: quare etiam contra ria additur Præpofitio. sexvb. ges. Item Perfo nam attribuere ausi sunt ridicule, Mecum: oratio enim eft facta vna. si enim fit Aduerbiu. ergo di cas,Egocum: Aduerbium.n.nullu casum exigit. Falluntur æque quum dicunt,Heu esse notam responsionis ad Heus: nam fane nullum exem plum afferunt. Ponitur autem adverbium pro nomine: Sic bine erat confilium: id est, Tale: aut fit Pronomen, Hoc.Et apud Vergilium,Terrorum ac fraudis a-,, bunde est: id est, copia. et Græce scit, pro Græ-, ca. Pro Pronomine: Hinc illæ lacrymæ: id est, ex hac cauífa. Sic, Vnde: pro, A quo. Pro Præ pofitione, Intus Templo, apud Vergilium, pro » În templo. Sed est expofitio in voce Templo yocis Intus: sicutiquudicis, Fcram leonem: po terat enim esse,Intus,alibi quam in Teplo. Quod autem dicunt, PridicCalendas,effe Aduerbio po-, fitum, pro præpositione, falfum eft: nam Pridie, estoratio copofita,sicutMecum: Præ die: et,Ca lendis, est vox termini in quem tempus abit, fic, Eo die, qui ante Calendas, et ad Calendas, (ve ita dicam) it. Itaque etiam dicimus, Pridie Calendarum: quanquam durius in quarto casu. Sed factum est analogia aliorum, vt quia dicere tur, Quarto Calendas,id eft, Quarta ad Calendas, ita etiam,Pridie Calendas.etfi non erat ante eum diem qui iret ad Calendas. Huius motus ratio et cauffa elicitur exmodo loquendi Ciceronis: In ante diem nonum Cal. Pro Coniun et ione: Qua do,pro Quoniam, ett ce re filI mo et mi In CE Interieetionis natura, Ratio. feri te 1 te ef fis Vog INTERIECTIONEM veteres quum a situ et nominarint, et definiuerint, nequaquam aa cæteris cæteris partibus distin xere: nulla enim pars orationis non « interponitur. Sed ita intellexere,Interponi,qua fi alienam a cæterorum structura: ficuti dicimus Interuenire. Verum nomine paulo liceatiore leyfi sunt: nam et, lacere, est duriuscula vox: et wa ettionis significans terminatio. Nam Coniuctio sit,quæ cõiungit:atPræpositio? nequeenim præ ponit,sed præponitur;ita Interiectionõ inţeria B que cit, fedinteriacitur, et interiacet. at a Iacendo, la ettus,autLactio non ducitur: vel G ducatur, rarius, vt diximus,fanesit.Antiquoru simplicitatem re centiores castigare aggreffi accuratius definiue re fic,Interiectio cst, quæ sub rudi,inconditaque + voce affe ettumanimi demonstrat. Verum hæc et falsa est, etcum aliis quibusdam partibus comu nis.nam quid appellamus rude? quod vocem pro nunciantis exasperat, vt dupliciconsonante, E I uax: aspiratione, Ohe:mutarum obscurioru ter minatione,Atat. Verum enimuero aut tales, aut eriam duriores alibiinuenias offenfiones. Verbo rum persone eadem muta aliquot finiuntur, at etiam obscurius fane in plurali, Dormiut. A spiratio per omnes pene partes comeat: Honor, Haurio, Heri.Duplices onerant frequentius no mina, Felix Xenopho: quid rudius,quam'Extra, Intra Infra? Quid simplicius,quam o? Præterea 2 quid est Inconditum? quod incompofitum suam fedem amisit:Inconditæ ædes, Incõditæ fluctua tes acies, Agmen incoditum. At nullus locus In teriectioni fraudi est: quare falso a priscis di et ta est Interie et io, quæ etia præponi,etiam postponi, etiam sola ponipoffit. Quodautem animi aiunt fignificare affe et ione, non eft ab eis declaratum: nam vox hæc, Dolor, animi affe et um significat: at Heu, non significatdolorem.quemadmodum Balteus ab Imperatore militi datus non signifi cat militia: Deque enim vox,ncque a et io inciui lis Cimonis, significatftoliditatem: fed notæ ta men etligna sunt, illud militiæ, hoc stultitiæ. Sic Heu,dolorem non significat, sed ofdolentisani-" minow 1.  10 be Paylminota, itaque fola posita explet audientis ani mrb. mum indicio fuo. Quæ cauffa fuit plena optimi confilii, quamaiores noftriab Aduerbiis distin grouxerint. Elt igitur Interiectio nota animiaffe et i, quæ nullius orationis indiget adiumento. Quare fequiturilla natura, vt careat inflectione: Gbie nim vnufquifque affe ettus præscribit certos limi tes: non.n.continuatur dolor admirationis, sed penitus distinctus est. Quare diuersarum quoq; Spacesmiaffectus, tot eruntinteriectiones. Minamur, Væ: admiramur, Papæ: fastidimus, Ohe: dolemus: Hei: paucmus,Atat: indignamur,Vah: percelli mur,Au:abhorremus,Phy:optamus, vtinam:ab iicimus, Apage: Laudamus, Euge:Attestamur, Doctis,Iuppiter,et laboriofis:ficut etapud alium poetam,Nauibus,infandum,anillis.etHomeria I u cum illud qera G, in fineperiodi: mirificusc enim ornatus orationis est, et augustiores cilius animi motus, quemadmodum in libris P coices a nobis exaettiffime dictum est. Sic chiapud ch. dcm diuinum poetam: Hunc ego te Euryale afpicio? tuneilla senecia Seramearequies:potuisti linqueresolam?? Perfecta erat oratio: at incomparabilis ille vir non fatis habuit, addiditque. Crudelis. Nam etfi nomina sunt, tamen vim illam plene obtinent. Iurantis quoque animus Interie et ionis potius, quam Aduerbii nota ex plicabitur,Profecto. Mediusfidius: et affeueratis, aut sciscitantis, vt Sodes: et illud Terentianum; 1 bu v Els T, Indicentis filentium: quemadmodum et iam apud Plautum. Ex hacessentia atquevsu, il ludenatum est, vt etiam casus quosdam quærant », fibi: in cauffa enim eft efficacia significatus. Vx me, Væ mihi. Certos aliæ sibi calus vsu potius, quam ratione asciuerunt, Heu mc, Heumihi, O ingentem confidentiam. Voces quadam ab Interiectionis natu ra excluduntur. C.Vm igitur affeetti animitota fitinterie et io, quærat aliquis, an brutorum vocesin hunc a. ordinem fint redigendæ, Cra, Vhu, Crucu, Be, Pau, et eiufmodi fortafle carum aliquæ fint, nihilo minus, quam noftrum Au: fed non reci piunturin orationem,ficut ncque alia fi etta a poe tis,nifi periocum, aut figuram, Bosxszexet, Jp877- νελω, τίω ελα. Caufa efficiens etmaterialis, et affeettus ab bis etab essentia. EssentiaInteriećtionis, et finis eft:origo alla tem multarum ab ipsa ftatim natura elt: Inn metu enim vocem edin.us primam quanque la tiffimam, Hu: in dolore Hoi, Hei,apud P autum: aliæ autem ab aliis partibus fubductis ex integra oratione, vt dicebamus, luppiter, Infandum, et eiusmodi. ltem ab Aducrbiis,aut Coniunctioni bus, aut Præpofitionibus: nanque 0, avocan di munere acceptum, transferimus fine calu in admi  IvL. X. Tim admirationem, aut vota: Omihipræteritos referatsiluppiterannos. Vtinam Coniunctio fuit Vt, et additum eft Nam:ficuti in Qujanam: significat enim Vt, fi nem, quem in optando animo concipimus sem per, non semper orationeexplicamus. Coniun c ettio est At: geminata in metu, nonneaduerfatur imminenti periculo? A verbis quoque manarunt: Sodes. prisi Proprium ergo est aspirari iisdem de caussis: Aspiratio enimexplicat fufpiria, et difficultatis nota est. Itaque a Græcis sumptam seruarunt, cePhy, Qeū, Heu: non inuentam addidere, ci, Hei, Hor:quibufdam initio, Hau:aliis in medio,Eheu, Vaha:aliis in fine Proh, Oh, Ah. Veteres tamen negant, vllam vocem in fineaspirari: quare fuit, ceaiunt, Ah a. nostra nihilinterest, quidfenferint agrestes Opici: nam meliora secula ita pronun ciarunt, Vah, Ah:quare etiam plus afficit Proh, quam Pro:et,Oh,quam O. « Proprium etiam cơmponi, vt diuor, Mediusfi dius. Heuheu: quare non re ette omifere Figuram. « Proprium etiam, nullo ordine statui: et ratio cofane subest valida: perturbatus enim animus,aut præuenit affe et um oratione, aut affc et u oratio nem: quare non reete Ordinem veteres assigna Proprium etia carere specie, contra quam di xere: neque enim vna ab alia deriuaturnanque: Eheu compofita est,nondedu et ta. Igitur hoc erut conscquutæ, vt interfe dicantur Infe ettæ:fic enim toces primitiuæ a Varrone appellantur in se cundarunt. cudode Analogia. Dico autem,inter le:propter ea quod ab aliis,vt diximus, deriuantur partibus. Åntimeria autem nulla afficitur alia, quæ di etta eft, vt pro integra oratione ponatur. Catullianum enim illud,Jupiter:fic est, OIuppiter, tu testisesto. Women eteffentia Coniunctionis. RÆCORYM secuti quidam libentius Vox interpretationem, quam vocis con cinnitatem, Conuin ettionem, quam." Coniunctionem dicere maluerunt. At vero etvfitatum nomen aptius fonat, etdu ritia translationis prohibet sic innouari: lenius e nim dicimus lungere, quam Vincire: quanquam Sextus quoque Pompeiusowideouco potius Col- » ligationem dicendam censuit. Coniunctionis au tem notionem veteres pauloinconsultius prodi dere:neq; enim, quod aiunt, partes alias coniun Dd j. gits  Ivl. XI. git: ipfæ enim partes per se inter seconiungun tur: Verbum nanque Nomini iungitur affinitatc nito numeri et persone. Sed Coniunctio eft,quæ con iungit orationes plures, fiue aettu,fiuc potestate: nam, Cæsar pugnat, Cæfar scribit,duæ funtora tiones separatæ, quæ Cõiunctione in vnuin coa lescent: actu igiturduzsunt: at Cæfar et pugnat, et scribit,poteltate duæfunt: quoniam Cælar bis cft repetendus. Inuefiigatsubtiliffimecauffamfpecieram. bonjo IGitur hæcConiunetio quum fieripoffevidea dum verba tantům, autfecundum vtrunque: ex ipsis rebus,quemadmodu hæc reete fiant, videa mus.Res aut neceffario cohærent, autnon neces fario cohærent,aut neceffario non cohærent.Ne cessitas autem duplex: autabsoluta, ve Deus eft: necessario enim est non ab alio, sed quia immuta abiliter eft:eft nanqueNeceffe,quodnccesscaliter 4potest. Theologiautem abusi sunt hac voce, vt eam a Deo excluderent: quali idem effet necesse, et coaetum: at enimuero ipfis vt libet: vocis vero ufatioeft, Perfectio: contingens enim pertinet ad imperfe et ionem. Alia eft Necessitas dependens: hæcin Deo nulla eft: Deus enim eft, Primum,et Simplex, etPotens omnia, et Omniu cauffa. Hu ius Neceffitatis duæ sunt species, siue modi: Dam ipfa cauffa, quã aliquid fequitur,autextat suapte natura:aut no extat quidem,sed per wohoovsta tuitur.cxcmplum primi est:Homo,ergo discipli na nguna montare Btellare Luntora uin COP Calarbi ! he capax. hic, Homocauffa eft, et feipfo extat in oratione. At non ita in fecundo modo,cuius exe ux complum hoc efto: Siambulat,mouetur.hîcenim no Hatuitur Ambulatio. ex his igitur coniunctio num species sunt eliciendæ. Ergo secundum sen sum tantum quæ coniungant, non reperientur, pugni propterea quod sensus notæ voces funt: quare omnes verba coniungunt;fed earum quædam et iam sensum, qnædamnon. Copulatiua. Ut ergo sensum coniungunt, ac verba: aut pino verba dif unque: iungunt: “et, fifensum cõiungunt, aut necessario, aramelo int, vida aut non necessario: et, fi non neceffario, tunc fiut nondes copulativæ, quas connexiuas vocat Gellius li erent.N bro decimo,et funt hæc: “Et”, “Que”, “Ac”, “Atque”. vt: vt Deuset Cæfar doctus fuit, et pugnax: nõ enim neceflario ja immuti cohærenthæres, appofita negatione,Cæsar do et us etnon timidus: fic,Nequecrudelis,neque timidus. His addidere sufpenliuas,hoc exemplo, Et fu-)) E: vociste git; et pugnat:fed frustra: merito enim verborum a pertinet fit hoc: vt,Homo eft,et inhumanus. Saneeftsu = depend perflua curiositas. Continuativa. TAMY osle vide autfecw A ccelcali 720 VOCE, Elletneret Primum īcaulla, i emodi: textatfun aut præstituunt, aut subdunt. Præstituunt riwayam cæ,quas Continuatiuas vocant veteres:recentio tes autem Conditionales: vt, Sistertit, dormit: cauffa crgo dilo Dd ij. 416 IvL. x 1. cauffa nanq; dormiedi, etfino eftipfum ftertera fed e cotrario: tamen ipfa Coniun et io necessario huic rei,quæ eftstertere, subdit dormire: vt que admodun res are dependet, ita intellectus ordi. Ine contrario. Prior eft Morus, quam Cursus: Ita que posito Cursu, etiam motus poneturabintel lectu: eft enim Cursus cauffa intelle et ionisMo tus: hoc autem eft neceffarium, non absolutum, neque pofitiuum, fed iweJenxor. Fit autem quia cotinetur a fpecie genus: item comes eft affectus. + Quare non re ettefcripfere, Coniungiab hissen; sus imperfectos:sunt enim perfeettiffimihi, Dies eft,Luxeft:Addunt etiam id,lungunt,inquiunt, fine subfiftentia. At hoc eft falfum:aliquando e nimsubsistunt,vtNunc,quum scribo:Nox eft. et dicam: Si nox eft,Sol subterra nobis est. Ergo nuc nox fubfiftit, et tamen eft continuatiua. Sed ita cedicere debuere,Sinesubsistentia neceffaria:potest enim fubfiftere, et non sublistere:Vtrunque enim admittunt. Sub eodem genere funt Abnegatiuæ: vt, Si interfuiffem, pugnassem: ostendunt enim effe et tum abeffe, quia defuerit caussa. Hoc autcm non ex Coniunctione fit, fed merito Modorum, et Temporum: fimile enim eft id, Si intereo: pugnabo. Quæautem nonex hypothesi, sed ex eo quod soba subsistit, coniungunt:Subcontinuatiuasdixere. Cauffassubdunt hæ, sic:Movetur, quoniam am bulat. statuit enim ambulare atque iccirco moue ri: Continuativa autem non ftatuebat,ambulare. Vox Male autem a veteribus ita dicta sunt: nam Præ positie E pofitio Sub, in hoc nomine aut fpecić significat, vt hominem sub animali dicimus:aut diminutio 12 nem poteftatis, vt hypopheten fub prophetein telligimus. At neutrum conuenit: nequeenim EI species efse quit certa res incertæ rei: et Subconti nuatiuz poteftas maior eft, quamContinuati ux.Sed ita excufandi funt:amplitudinemConti-, tinuatiuæ percipi ex co quod ctiam impoffibileali quandopræfupponit. Exhac quoq; claffe funt Adiunctiuz: vt, Pu- » gnadumvires.Et quægeneris nomine Caussatia D. uas appellarunt: ve, Pugnaui, quia læsus fui. Et E Approbatiuz: vr, Pugnaui,equidem lælus. Col->> ad le et iuis eadem natura, sed diftant ordine: pra ein ponuntenim cauffam:vt,Homo, ergoanimal. 00 Simileshuicsunt, Igitur,Quare,Itaque, Quod: od fic, Cæfar fuit Diet ator, quare omnia occupauit. Exemplum vltimą, Veniadte euocatus: Pugnaa ui iusfutuo, vici:Regnum recuperasti,miser pro pterea sum:Quod te per communesrerum vicif, litudinesrogo, fubuenimihi.deestenim Præpom, ofitio,fic. Propter quod:dicimusenim etiam Pro- " pterea, et Iccirco, etalia. Er omnino quæ aliquamcaussam apponunt adintelle ettum: Efficientem fic, Quiaiubes, faciagn tu enim mouesmead faciendum. Finalem fic, Do, vt des. eftenim Vti,. Poffuntautem et hæ, et etaliæ tranfponi:Quia dabis,do.Has antiqui Per -Zoo fe ettiuas, etAbfolutiuas nominabant: inter quas. etiam Quatenus recensuere, et Quo. Quium au tem addunt prohibentem particulam Ne,luduntta:): operam:Aduerbium enim eft. Ddiij. a2 CO d ĈResolutioin Copulatiuas. aft.REEsoluuntur autem in Copulatiuas omnes ptenatura coniuncta est: itaque dicemus, Et do, etdabis:Etdies eft, et lux eft. Sicloquutifunt pri cefci Audieras, et famafuit:quia fuit fama. Habes igitur caudam huius quoqueloquutionis.Quum autem Copulatiua duplex fit, affirmans et negans. Negativa in affirmatiuam resoluetur, Cæ ledar neque timidus, inequcayarus fuit:fubeftenim (habitus contrarius, Et fortis, et liberalis. Difiun sgit autem negativa propter negationem non propter seutt; Vis vincere, nec pugnare:est enim, et non pugnare. Hoc autem percipitur exinte gra: Nec mutila est. Neque integra est autem Neque et Non. Disiunctiva et Subdisiunctiva necessario, Caussativæ; quarų species duz; aut ex hypothesi, aut absolutæ. Quæautem ne Siceffariono coniungunt, Difiun et iuæ diettæ funt: nawis “Aut”, “Vel”, “Siuve” a quibusdifferre fecerunt Sub disiunctiuas,propterea quod hæ vtranqueponce rent partem ad eleậtionem: Difiun ettiuæ autem alteram tantum. SicutContinuatiuæ alteri in certæ, alteram positam continuabant: Subcons tinuatiuæ vtranquepositam, alteram alteri sub Ves-continuabat. Et fane nomen Subdifiun et iuarum. secte acceptum est: neque enim ita planedisiun. Il git,quam Disiunetiuæ:Nam Disiun et iuæsunt in contrariis, aut Politiue,vt,Aut fanus est,aut æger; aut Priuatiue, Aut dies est, aut nox; aut Relatiue, Autpater eft,aut filius. Subdifiun et iuæ autem et iam in non contrariis, fed diuerfis tantum: vt, Ale xander,fiue Paris. Differunt igiturinter fe fecun dum cotextum orationis: propterea quod difu Stiuarum partes nunquam cohærent,sed sub co tradiettione politæ sunt; at Subiun et iuæ no item, cauffa eft, quia Subdifiunetiuz ortæ sunt a Con. ditionali,quæ etiam impossibileadmittit siç, Situ " homolis,fi,ve Equus, si,ve lapis:neceffe eft çor pore præditus fueris:fic enim vsusestTerentius. Quas autem vocant Dubitatiuas, ex ad Disiu ettiuas reettaaccedunt: ac magnum faneambitum na et x funt, quippeex omnioratione potestoriri dubitatio:adeo vt Scepticietiam tciğimua G po nerent in difceptationem.Poft dubitationem fiet quæftio perinterrogationem. quaremodusqui dam estorationis, non species, vt quum dicam, Eloquar, an fileam? intelligo mihi aut loquena dum, aut filendum. Quoniam vero alterum capimus pro certoin difiun et ione:iccirco vsus rapuit Velad vtriusque o partis affirmationem, vt et separata intelligas na tura, et vtraque pofita, veluti alterum tantum ponebatur a Subcontinuatiuis: exemplum hoc esto, Vel quia eshomo, velquia nobilis, vel quia:y. Romanus, noli pati seruitutem. vnam ex his ca. pere possis cauffam, at tres ipsas omnes afferre queas. Terentius etiam folam posuit semel: Vel ' ) Rex mihi gratias agere. fubintelligas, vel alii Dd iiij. sed potiorem parte satis habuitponere. Immergia amox's Græcivocant, nos Electiuas. huius ex quo que generis sunt:vt,Malo Cæsarem, quam Cato nem.Nam etfi alterutrum non capiunt, fed desi gnatum tantum fumunt, latiore tamen difiun gendi voce subiiciuntur,quemadmodum dice bamus deVel,apud Terentium. Commoda vel mulum,velequum,maliş tamen equum: neque enim copulatiuæ sunt, abiicitur enim alterum irmembrum disjunctum. Quid fi Aduerbia hæc fint Comparationis? nam dicimus, Tam volo Cæsarem, quam Catonem: quia Nomina siciu. bent, Tantus Cæsar est,quantusCato. Vsus po ftea inæquali Comparatione etiam retinuit, ve ficut erat Tam,quam: sic fit, Magis, quam. thely Aduersatiuæ quoque ad Difiun ettiuarum na turam accedunt:propofitæenim rei aduersantur; difiungunt igitur neceffario: Quanquam Cæfar nobiliflimis auisortus est, tamen deterioris im perio paret, feruitus enim aduerfatur nobilitati. Huius notæ funt, Quin, Imo, Atque,At:vt apud Liuium in Tertio, Si plebciæ leges displicerent; « atillicommuniterlegumlatores etexplebe, etex patribus finerent creari. In eandem fententiam Mo"admittitur etiam Saltem,fic,Saltem meinterfice fice. Sic, Quanquam potes liberare, tamen mor te hoc li facias, gratum erit, Diminutiuas appel uflant has Latini, Græci enet/wixa's. Completina. Con Dega Menu D C HA Completiva autem et si ornatusmagiscaul.de tur:tamen augent sensum orationis:atqueita au Adela gent, vt pene cum Subdifiunctiuis incant socie lo fatem: Ego quidem scribo,tu vero legis. disiungit: dis enim fenfum appofitæ orationis ab intellectu nder propositą. Summa. Æcigiturfic fe habent certis concepta gea neribus,quæab antiquis etfuse, etconfuse hi prodita fuerant: iungūt enim aut verba tantum, lupo aut etiam sensum: quare tribus claffibusdispofi uit tæ funt: autenim iungunt necessario,aut non ne-, ceffario:aut neceffario non.Neceffitas autem, aut ima est propositione priore subGftente, aut ex hy in potheli, Cauffa efficiens, etmaterialis. Ssentiam finemque Conjunctionum fatis a 'pte explicatam puto; nunc earum originem, va bo' materiamquç videamus. Neque vero sigillatim percurrereomnesin animo est.In primis nanque libris Originum exactissime pofita ca opera a no þis fuit; fed ytvniuerfalis natura plenius decla retur. Quædam igitur a Græcis du ettæ funt in tegræ, quædam interpolatxe, Integra eft NL. » renodes cnim dieti funt a Græcis pisces, vtapud Oppianum; vnde etiam noftra Nepa, pedibus » enim minime valet: nisi mauis effe vocabulum Punicum, nam a barbaris ita di etta fuit. Vticft DIY mus Call 31 erer di 2012 or 1 kemutata, ti,sicut šti, Et,ficutQue, na, abie ettodi: wphthogi sono, quemadmoduse, da. Multæ cum Aduerbiis communem sonum habent: Vt, Qua. quam.atque etiam naturam, etenim Vt, Aduer bium fimilitudinis, et eftcausfxfioalisindicatiua Coniunetio: nihil enim fimile magis rei mota (quam finis.Sicaduersatiua Quanquam,Aduerbii vestigia refert in comparatione: Quanquam es nobilis, tamen es prauus. idem est, tam es prauus, aquam es nobilis.Sic Aut;fuitHaud:eadem enim vis occulta, Aut da,autaccipe. negat enim omnis difiun et io,quoniam femel'ponebant, Da, aut ac cipe.fuit enim fic,Da,non accipe: et,Accipe, non reda postea miscuêre, Aut da, aut accipe. ItaVc, a et Vel, proximæ funt. Si fuit e!, addito fibilo: < cqua du et a eft Sic: fuit enim Sice, ficuti Nece! Nec. Sic est Aduerbium fimilitudinis. Condi cctionalis aute Si, affert fimilitudine inter cauffam, et effectum. At, fuit Adaccessionem enim dicit. Affectus. Aduerbiis, Etiam;fuit enim Et, lam::et tri (< fyllabum Etiam, quia lam, bifyllabum, vtfre quenter apud Comicos.Quædam compositænus quamcomponuntur in oratione:vt,Nequidem: semper enim per tuño, quanquam alicubi aliter legitur:fed parant do et iores mendum effe. Cum Præpositionibus, Abfque.Cum verbis Quamuis, Quædam semper præponuntur, Quanquam quædam fubeuntsemper, Que, Ve,Ne: quædam vtrunque patiuntur,Igitur, Nanque. Cum Pronomine, Ideo, cum nomine, Quare. Proprieatem, ut diximus, ab aduerbiis multum naturæ mutuari, adeo, ut Aduerbio proipsis vtamur; Quando,pro Quoniam: necimmerito, nam Quoniam, Aduerbium est, Quum,lam caur fa translationis fuit temporis efficacia, est enim, mensura rerum naturalium. Et abundare, Etet iam, Atque etiam. A'etilisehvad hücmodum in Coniu et ionibus famio obferuata fuit; Commutanturinter fe:vt, Item prosic, apud Ciceronem:Vel, pro Etiam. Pro Nomineponitur, Illius ergo venimus; sed fane nomen fuitiplum, igor: Pro Pronomine, Pro-, pterea quod:id est, propterid, quod.sed potius eft numerus pro numero, ficutquum dicimus Ad hæc,et Ad hoc.2.112 Epilogus vniuerfalis. ngo Xhisfatisconftat, non plures esseparteis,que admodum autrydiores, aut acutiores arbitra tifunt; non igitur recteadditum,Vocabulum ad significandumea, quæ fub sensum caderent: vt Paries, et Lapis, essent Vocabula:Virtusautem et Anima,essentNomina: propterea quodintelle et tutantum caperentur. Patet enim,Vocabulum effe genusad omnja:nametia Amo, quu pronus ciatur, Vocabulum est: vt Stabulu, vbi ftarur:Pa. bulum:vbi pascitur: Tintinnabulum,quodfonat: Vocabulum quodin voce est. Eiusdem supersti-> tionis, et plusquam Græce, inminimadiuides re,quæ vnius corporis sunt:vtin Affeuerationem ea quæ effentInterieet ionis, cuiusmodi putarunt Heu. Et Attracttionem, ea quæ ad Aduerbium attinebant,quale eftFasceatim: quæ enim Attra dio sit, Viritim cansulere, quos non trahis,sed addis?Quæ omnia iure optimo a do et iffimis ante nos explofa funt. Confiliumopera ampliariaseta de Figura, Am fatis videbatur elaboratum vel mihi, qui fortaffeetiam quz nufquam effent excuffiffem:vel aliis, qui coaet i funtautaliter sentirc, quam effent ha et enus professi:aut irridere cariolam noftram di ligentiam. Verum interest accurati procurato ris,non folum eorum tenere rationem,qui infa miliafünt: sed etiain agere, vt fiquid furreptum, autextortum, aut alioquomododebitumlit, co recuperato census augeatur. Itaque quum vete Frumleges, corumque consilia a nobis hactenus explicata sint: fupereffe videtur, ve fiquid extra easdem leges receptum fit,morenostro et recen fcamus, et eiusinstituti røddamus rationem. Igitur loquendi modosquofdam Figuras priscima. Vox le nominarunt: omnis enim oratio figurata cft: eftenim Figura qualitas extremitatum in corpo re:Oratio in voce eft,vox in aerc,aer corpus: er go quasi lincamenta funt quædam huius corpo ris,vocum elationes,depresiones,productioncs, correptioncs,aspirationes, attenuationes, ince ptiones,terminationes.Quarcquocunqueloqua ris modo, non aberit Figura. veteribus tamen ita libitum fuit, vt non quæuis loquutio Figura præ. fcriberetur: sed aut in materia ipia aliquid quali peregrinum, aut in forma quod esset, Figura dice? retur. Ac Quintilianusquidem quemadınodum et senserit,et scripseritdehis, palam eft. Tebar52 nim, et gempaa, vtifierent,docuit: sed adeoipse perplexus fuit, vtquum distingueret, eadem di Itin etta non agnofceret. præstatautem ficinteili gere, quæad formam pertinerent orationis,id est ad fententiam,caeffe Algvos,et tropos dici: quz autem admateriam, ea effe nezew, et schemata:)) namgchua corporis est:reemos, animi,quare eos, quasi mores, modosque orationis, quibus ipfa quali et animatur, et mouetur fimul, acmouet, oratori relinquemus. Quæ autem verborum iioning ncamenta sunt, ea aut suntvfitata, et ad numeros pertinent,vtSimiliter cadens, eteiulmodi: aut ad ftru etturæ variationem. Illa igitur ad poliuiorenu i { pe et abunt scripturam, hæc ad scribendi loquen díve leges:vtraque autem Figura continebuntur. Quareillas oratori, historico, poetz deslinabi di mus: harum nos caussas præsenti opera inuesti gandas curabimus.  Bu uf If  rah. Appositio. Auffa,propter quam duo Substantiua, non ponunturfineCopula, e Philosophia pe tendaeft: neque enim duo substantialiter unum esse possunt, ficutSubstantia et Accidens: itaque non dicas, Cæsar Cato pugnat. Si igitur aliqua Subftantia eiufhaodi eft,vtex ea, et alia,vnum in telligi queat, carum duarum Substantiarum to tidem potæ,id eft nomina, in oratione fine Con iun et ionccoherere poterunt. Quarepropofitum nomen amplioris intelle et us, fubeuntis nominis U præscriptionemoderabimur,fic,Vrbs Roma: po sita enim Vrbis vox, deducet meum intellectum per omnesvrbes, donec addito Romæ nomine caftigabitur. Est autem amplitudo huius intelle 4 etionis duplex: aut enim est Vniuoca, vt Vrbs, 2) Arbor:autÆquiuoca,vt Lepus, Lupus, Turtur: fignificant enim et piscem, et alia animalia ge * neris diuerfi: itaque in præfentia sunt maioris fignificatus,quam Piscis: quod tamen eft nomen Jatiffimi generis: Comple ettitur enim plura Pi fcis, quam lepus. Sed iccirco fit hoc loco, quia Æquiuocum nullo certo genere ponitur: eft enim Lupus, et in Pifcibus, et in Terrestri bus, quæ duo fumma genera funt. Eft et alius cemodus moderationis adenominatione: nam fi dicas Cæsar, multas virtutes aut vitia poffis at tribuere. Itaque temperabis eum cursum tam vagum,appositisnominibus, Imperator, Diet a tor. Et alio flexu fic, Catilina pestis rerum romanarum: Procas Romanæ gloria gentis. Fir etiam luat. phia cerrt cur2: larus opot 500 $ Tomate 2 etiam quarto modo, quum transferturfigurare set denominatio in primitiuum. Zoilus vitium, pro vitiofo. Cauffa aute huiufce loquutionis fuit are ansa ticulus Græcus; naywsoix Jus, Kairap o autoxegia tw. Euenit autem aliquomodo,vtvtrunquealaz tero maius sit. quare fine vllo discrimine com- " mutare fedes inter fequeunt. Exempli gratia,Le The pus piscis:et, Piscis lepus. eftçnim lepussub pilce, tanquam subgenere. Iccirco pesfime errarunt, cinsl cum putarent tic dicendum Fratres, gemini:non to lic, Gemini fratres. Etenimfratres effe poffunt, nec gemini: etgemini, nec fratres. vt omittam, non esseappofitionem hîc ex Substantiuo et Ad icctiuo. Sic dicas, Flumen Renus:quia alia quo- » quefumioasunt: et, Renus flumen: propterea quod nihil interest, aliquid ita fit, anita effepu-come tetur, itaque etfi Renus, non eftæquiuocum,ta-i ima men ncfcienti quid Renus fit, æquiuocum ef se potest, quemadmodum fane eft: nam etiam Bononienfis fluuius Renus est. Sed par fit alio rum quoque ratio: nam Taxusæquiuocum non eft, et tamen ad explicandum eius naturam, ad ditur Arbor: poflim enim herbam, aut etiam montem intelligere. Hoc per initia ita fa et um eft, ac poftea etiam non necessariatenuit con fuetudo: ficenim fitin vsu ciuili quoquc, et mill tari, vt Cristas etiam in pacegestemus. Vergi lius autem commutauit fedes ob carmen, Ca Atancargue nuces. omnis enim Castanea nux eft. Nam posita specie genus non debet appo ni, vt diximus, nifi ad explicacionem: quodfi apponitur, decet ipfum coartari ad angustiora, Ti mai ft.no Terra Cts. ScA L. LB. xt. where 4 vt quum dicas, Cæsar homo imperterritus. Eftes nim Homo genus: at quum addis “imperterritus”. Cogis in ar et iorem significatum: quia poffit effe, etnon esse Imperterritus. An vero fit Appositio ab Adiectiuis? Tectum auguftum; ingens, centum sublime co luminis. ec Non ita est, sed Tropusdow getov: et repetitur intelle tione, teetum: Hinc patent nugæ Gram maticorum, qui negant recte dici a Vergilio,Vr bem Patauii: quum tamen omnes ita fint locuti: In oppido Cumarum, Palladius:In oppido An tiochiæ,Cicero: et eodem filo Liuius, Vrbs Ro semana: est enim in illis casus Pofseffiuus, in hoc nomen ipsum. ac quanquam poffidens etpoffef fum diuerfa effe debent: tamen hæc duo, quz v inum sunt,Vrbs,etRoma, duo esse aliquo modo intelligentur: quasi vrbem Patauinorum dicas et Romanorum. Etfane duo sunt: nam Vrbs, est appellatiuum: Patauium, proprium:quafipro prium possideat appellatiuum. ficuti dicimus, Vrbs nominis inclyti: sic, Vrbs nominis Pataniis Euocatio. " E Vocationem dixerunt, quumtertia persona euadit prima, aut secunda, quafi hæ euocent illam de suastatione, aut ex hybernis:vocabulum enim est militare. apponuntexemplum, Ego Ca far scribo:Tu Cato legis.verum hoca nobis iam improbatum eft: Onine enim nomen cuiusuis perfonæ cft,fed non variatæ: ficuti Felix,cuiusuis generis eadem voce: ridiculum enim est, Cæsa remin me effe perfonæ Tertix: nunquam enim loquens, aut fcribens de me, effem personæ pri mæ.Nequeposlem dicere,Ego sum Cæsar. Nam si esset perfonæ Tertiæ: pofsemitem dicere, Ego fum ille:et,Ego fum persona tertia. Conceptio. Vemadmodum vna fieret oratio, in supe riore libro et alibi dictum est.Coniun et io nes enim fit vna: Cæsar etCato equitant.Equita tio hîc vna eftin duobus. Itaque aliquando sub ie etta intelligis: quæ quia fant plura,pluralem nu merum appones. Aliquando prædicati vnitatem communem vtrique accipies: quare numerum attribues vnitatis, Cæsaret Cato equitat.Malue- m.9110 runt igitur illam effe figuram in plurali, quam mig. hancin singulari. Et ratio est, quia Coniunetio repetitnumerum singularem: ostendimusenim, duas esse orationes potestate, quare ytraque erity singularis. Nequevero sola Copulatiua hocagets ö fed et Disiun et iua, sic, Aut tu, aut Cæsar date mi. hi facultatem scribendi. Paulo figuratius eadem oratio in obliquis versatur,fic,Cæfar cum Cato ne disputant. Cuius loquutionis necessitas eue nit ad euitandam ambiguitatem. fi diceres, Cæ sar cum Catonedisputat:non vnionem,fed con trouersiam pofsas accipere. Sed illalonge figura tiorapud Ouidium; fliacumLaufo de Numitore nati. Neque enim Ilia eratnæi, fed nata cum Lauso Itaque ante quam reddasVerbum Recto, Redus cum Obliquo ita sunt coniungendi, yt vnum fite pluribus, quibus pluribus Verbi numerus re fpondeat.Recte vero putarunt illam esse figuram apud Poetam, Cana Fides, et Vesta, Remo cum fratreQuirinus -Iuradabunt. Sed nos etiam vtroque modo figuram intelligi mus. Fides etVesta iura dabunt: etalteram in oba liquo, Quirinus cum Remo. Fit autem hæc ynio non folum in Numero, fed etiam in Persona:vt reddatur verbum prima; et secundæ, non sine cauffa: Nobiliori cnim de. betur. Quæ loquitur, nobilissima eft: facit enim orationem: et libiipfi, vt ita dicam, proximaest: mox secunda. Itaque cum feipfa pofuit, non po teft ad aliam transferre verbum: fic enim definie batur., Quæ de fe ipfa loquitur: ita igitur loque mur, Ego et tu fcribimus: Tu et Cato pugnatis. Eadem nobilitatis ratione in genere fit Figura, ut masculino reddatur at feminino. Cum ergo et in numero et in persona et in genere fiac conception. Ilud habetproprium sibi, ut in numero solo poffit fieri. Cum autem fit in Persona, aut in Genere,semperetiamFigura numeri adsit, Ego et Lucina læti viuimus:Tucum matre lauti cænatis. Atque iccirco dieta conceptio eft dua bus decaussis: aut quia minus a maiore: aut quia minus nobile a nobiliori continebatur. Quem admodum vero autores ea vfi fint, adGramma sticum cum fpeetat, qui docet componercoratio Grand nem.: 435 TO.RO i vnumer - umerus K kias D minteli eramini nNume 1 Dum pri OFICNIMA: facies proxima:. it, fick Jugatio. Roxima huic lugatio est,quam Zeugma Grae vox co vocabulo maluerunt appellare, quum ta men Latinis ahis vterentur. Nam quemadmo 7 Onni dum in Coceptione quodvniuserat,commune cuadebat: licin Iugatione, quod vnius est,ita ad cum pertinet,vteius lignificatuiadiugat alterum.l. Per Conceptionem fic loquare, Tu et Lucina mihi cari estis: per sugationem sic,Tumihicarus cs,et Lucina. Non igitur hîc cocipit, sed permit tit tantūdem. Eftitaque coceptionis visdimidio maior. lugum igitur quodda quasi est Adiectiuũ quo in vnum coeunt significatum extrema duo: quare medio in loco fedem fibi iure vindicat.Ve rum vsu extortum eft, vt vocum stationes com mutarentur. Itaque tribus modis excogitarunt: Primo loco,sic; Carus mihi es tu, et Lucina, Me Fopulls dio, fic, Tumihicaruses,et Lucina. In poftremo, ft. Tu mihi; et Lucina cara eft. Græca Latine ad huc o.Cut modum interpretere, σείζευγμα, μεσύζευγμα; Gener iwozuyuc:Præiugatio, Interiugatio, Adiuga tio. Fitautem quemadmodum et Conceptio per in Per Numerum,Perfonam, et Genus: Tu, et mulieres umen bonæ sunt. per Conceptioncm diceres, Bonih estis. Quare pessimeaggressi sunt emendare Vir ocio elogilii carmen illud: -Nihil hic,nifi carmina desunt. et male in singu, ur.Qläri deeft:Sic enim dicas, No quicquain, fed car Gruuminadesunt:idem nanque. Sinon desuntcarmi: na; nihil deest,verissimum hypozeugmaest. Anticipatie An umda ziturloc Ti, vein matres re:aut! Tercolor home A CE zaho A Nticipationem triplicem accepimus, Poe ticam, Oratoriam, LiterariamPoeta. ante capit ex sua perlona intellectionem communem auditoris: vt, -Portus reqnire Velinos. Hinc enim de sua persona occupat personam Palinuri poēca:neque enim tunc Veliniportusdicebantur, quum Pali nurus loquebatur: lic, Lauinia litora, dixit. Ora Utoria est,quum antecapimus locum in animisiu. dicu, refpondêtes tacitis obiectionibus. Literaria est, cum præcipimus toto partes,fic, Ciues nati ad interitum Reipublicæ,Pompeius superbia,Cæ far magnanimitate. Eft autem maxime coniun et ta figura hæccum Conceptione,quatenus totu concipit partes suas: neque ab ea differt, nisi di ftributione:et eft contraria ordinatione vocu Ap positioni:Paftores compulerant gregem,Thyrlis oues, Corydon capellas: distributio eft per anti cipationem, conuerte sic,Thyrfis, et Corydo pa stores:appofitio eft.hanc Prolepsin Græce appel larunt, quafi præceptionem. Compositio. Voxes Vid effet Componere, fatis superioribus Jaho libris declaratum eft: quod fiquis aut me minerit, aut animaduertat, intelligetnon conue nire huic loquendimodo, quem fic nominarunt: Efterim hæc loquutio, quu significatū voci co trariū, voceipfa ducimuspotiorem.Populus vnu fignificat e multis confectum:multaigitur figni a ficat per se, vnum per accidens: quare liverbum plurali numeroattribuatur,fignificatūrespiciet Q dos takoa uttert, foneva mus,fi non vocem. Figura igitur sane eft non longe a pocue Cõceptione: Idun enim est Populus, et hic ciuis; ommun et hic, et ille. Vetefc » autem coposicionem nulla vera ratione diccre potuere,nihil enim componi crimde tur, fed trãsfert:!r. Ita quu dicis,Fætupecus: co» peus ponis genuscum genere,et transfers lignificatū. gurum? Nam pecusgeilereneutro quý Mares et Fæmel. civil las comprehendat, affectum fæmellarum tranf julia tulit ad femellas comprehensas. Eft igitur po stius Tranilatio,aut Conceptio, quam Composi 6, 6 tio. Sic variaturGenus etiam: vt, Parsper agros finestra dilaplı: quia Pars, sitidem quod,Milites. Sicelta net pud Homerum, rezvov pins, Sic elt, Tristelupusº stabulis: vt illud, In Eunuchum fuam: quoniam Eunuchus sit comcdia: Lupus autem res: vtlit, Triste, Tristis res. Comprehenfio. Vic non abfimilis Comprehensio.Græci quing owersoxlu vocat quum ex toto excipitaffe,i et um partis, cui toto eum affectum attribuamus; Elephas curuus dentes. Hoc tota figura coniistit in denominatione totius a parte. Nain verum est,s ) Dens est pars elephanti curua: ergo Elephantus est curuus et tous oðovæs.In priore figura significa tus concipiebat vocem, in hac pars toti in ligni ficatu.in voce e contrario Totum concipit partē Igitur Græcum nomen multæ efficaciæ eft; nam ) out, significat totu et partē fimuleffe: -u, significat excepta qualitate,autaliud a parte, et toti attribu tū. Sexeaiz, fignificat ipsum motum translationis. Antiptosis. Ee iij. Non gem,7. cocte et CCT Guinea Hid Ilipent oliquis a 1 etПодії CONI sicacuva 7. Pope ta izier lare LTE bicarum go On possumus vnico verbo latine græca exprimere, αντίπωσιν: que figura multis modis fit, cum Calum pro calu ponimus: ac fit: quidem veteru autoritate:carea pecunia, et pecu: 1 niã. Sed fane hîc Figura nulla est:vsus enimextor fit poftea,quo antea placitű erat. Aliusmoduseft ifque multiplex, et Attici longediuerso more v tuntur, quum relatiui casum eundem faciut cum a antecedête, weinogesvg ev eneža.quo modo etiam Gellius aliquando vfus eft: Latini cæteri vix vtun tur. Mollissimum fuit genus illud, Quam vrbem 6c ftatuo,accipite:at duriusculum, Vrbem,quam fta tuo, vestra est. Iccirco non inepte nobis pueris præceptores noftri lic interpretabantạr, Vultis canis regnis confiftere: vultis vrbem, quam ftatuo? vestra est. Verum hîcita sit, sed profecto veteres nimis multa liçere sibi voluere, velut Plautus,Au edularia, Picidi uitiis,qui aureosmontescolunt,egoso ļus supero. Cauffa huius orationis fuit, aliorfumin tentus animus,deinde defịcxus filus loquutionis: id quod patet ex eodem Plauto in Captiuis, Hos quos videres ftarehîc captiuos duos,illi quistant,bistat hic ambo, non sedent. Diet urus enim aliud videba tur alio verbo,quum fubiunxit festiuecotrariu. Hæ funtcauffæ extortæ orationis: non quem: admodum folute prodidere sine vlla ratione.Mo dos autem ampliores non eft præsențis instituti contemplari: sed pertinet ad construendi leges, et obferuationes autorum: reducunturq; ad hos, quos descripfimus: veluti quum ex affirmatiua sfacias aut negativam, aut dubitatvam: aliaquç eiusmodi. Pocum caussas duplices esse Essentiales, Accidentales, ir. frunz ACTENVS fingularum partium Foreonha H mam,  efficientem, finem, materiam, Affe et us declarauimus: quique Affectas effent abipfa Essentia profeet i, superiorib libris di et i funt: quive vsu extorti hocpostremo.Nunc aute cömunem.omnium vocu natura videamus, ex instituto sic repetentes: Vocum et Materia, et Formaeft, et Origo:qua pro efficienteacccpimus femper: igitur cauffas quoque duplices habuere: alteras essentiæ, alteras materiæ et accidentium essentiales etymologias græci vocant. Nam E quamobrem, Amodicitur:quia qua, et cuda, et aw Essentialisest. Quare Amo, Amas, Amat? Quia Canto, Cantas, Cantat, Materialis, et Accia dentalis est. Quas cauffas propterea quod veteru aliqui aut reiecerunt, aut negauerut, in præsentia a nobis verioribus argumentis agendum est, ki Ee in merito etreceptæ, et probatæ videantur. Id quod operis initio non fecimus eo confilio,quod iupra u narrabamus: quum enim subiectum suum effe nullus artifex probet argumentis, neque Tcdoti, at ne z o'ri, quidem:fed tantummodo redarguen do pertinaces, iccirco in hũc poftremum librum hæc opera destinanda fuisse visa est. Veterum argumenta, Cbox ETymologiam Græci vocarunt cauffam vnde socesancte fint:veriloquium Latinis placuit is interpretari, led quain frigide, videamus: Nam yoritasin orationeest, nou in verbis priuis. Præ torea ify it in hac voce significat rationem, non aucm loquutionem,vtvera ratio potiusdicenda fu fit: quare nos, Vocis rationem, transferre malui mes sautifam autê accidentalem iidem ovanoziar Jor coco confilio nominarūt,id est, rationem pro- na ennportionis. Easfic destruere nonnulliinstituêre, Nominum, inquiunt,naturæ,nisi per nomina de monftrari nequeunt; nomina enim rerum sunt notæ. Intelligunt autem nunc per nomina,voces omnes: ficut per Tignum immittendum Iurecon fultus etiam lapidem. Quodcunque igiturdecla- di Fatur, per notiorem quampiam rem notü fit. Er goilla nomina,per quæ nomeillud definitur,no mine ipso notiora erunt. Ea pomo nomina, aut nota habebimus, aut nộ: at absurdum est ea igno- di rari, per quæ aliud notum facimus; itaquenota ni sunt: et fi nota, per aliud fane nora, per aliud igi- ta tur nomen. Quare vsque in infinitum: hocau tem absurdum eft: non eft igitur verum nomi an m num vllam esse cauffam.Præterea nomina essein- 2 finita, aut omnino, aut propemodum, atqueic circo ignorata: infiniti autem finita natura no stra capax noneft. Ad hæc, quæ vsu mutantur af 3 fiduo,partimqueinteriere, partim quotidie sub nascuntur,ea ignorari neceffe eft:quuęternarum tantum rerum fcientia fit: eft.n.Scientia habitus animæ certus:at corruptibilia incerta funt. Postre maratio hæc fummos adduxit viros, vt integris contenderent libris: Quæ nullis, inquiunt,cer: 4 tis inter fe cohærent legibus ca nullo modo sub certas venire leges. Eiusmodi vero esse nomina. Quum enim duæ, ut diximus, caussæ sint, etymologiam ignotam esse, velex eo conftare, quod super eodem vocabulo diversa senserint autores. Aalogiam autem, quam æqualitatem vocant, omnino extare nullam. Quareipsaquoq; nomina per caussas nunquam nota erunt. Argumenta dissoluuntur, Tprimam rationem diffoluamus, ita acci-. piendum est. Intellectionem noftram esse duplicem,Reettam,et Reflexam:igiturnomeob uium excipimus recto a ettu intellectus, fimplicia; fini destinatum ad fignificandum. Exempli gra tia, Lancea,atque ibi pro nota, aut figno rei,vti dicebamus,habetur nobis.Reflectimus deinde a nimi cursum ab ipfa re super nomen, ipfumque tanquam rem quandam contemplamur. Quæri musigitur tum eiuscauflam inter ea quæiamno ta habemus. Quemadmodum autem duæ essent nominu cauffæ, dictum iam esta nobis libro ter tio: quædam enim erantDeducta, quædam Pri mogenia.Deductorum igitur cauffasesse Primo genia: Primogeniorum autem caussas cognosce re easdem non est necesse, sed calum, aut arbitrium inventoris pro caussa habere fatis est. Est enim duplex cognitio nofsra, aut positiva, quum el cognoscimus hoc esse, aut priuatiua, quum cognoscimus illud non esse: hoc enim est esse illius, quia non est. Altera vero, ac tertia ratio simul fic W 2 e, diluuntur. Scientia specierum est, et singularium,  ut subspeciebus continentur, Ea igitur, in quæ conueniunt omnia singularia, Diciones appellanimus, Earum essentie, atque affectus neque corrumpuntur, neque mutantur, puta Species, Gen ra, Casus: semper nanque Calus, Casuseft, fem per Modus, Modus. Quæ autem singular sunt, aut unon corrüpuntur,fed perstant:quare nihil faciüt difpendii:multæ enim voces sunt, quas nullus yn quam aut distorsit vsusaut, aboleuit. Aut si cor crumpuntur,æque scireintereftnoftraea corrum pi.Quamobrem etCorruptibilium, et Incorru ptibilium scientessumus.Corruptibiliumautem rerum corruptionem non sequiturcorruptiosci entiænoftræ:hoc enim scimus nos,Corruptibi lia effe.Idipfum igitur,quod est Corrumpi poffe, non interit, sed semper eiusdem naturæ eft: fem per enim hoc habet,vtcorrumpiqueat. Quarti argumentisuperiorisprobatio nes ab aduerfariis. Hæc sic expediuimus, vt exa ettius quartam rationem, qua et Analogiam et Etymologiam tollunt, perpendamus:quare videndu prius est, quibus vtantur rationibus ad confirmandu, QuumAnalogia, inquiunt, fit æqualitas.quædam secundum quam fimilia ducimus e similibus: vt, a Fructu Fructuosus: sic, a Gestu Gestuosus: pri mum oftendere nituntur, quod non fitnccessa ria: deinde quod nullo modo fit. Vtilitatis cauffa nou mode inuentus est sermo: magis igitur refert,vtbre:. ! uis, et re etus, et simplex lit, quam longus, et va rius: atæqualitas deducendi variatmulta:noni gitur admittenda. præterea Ab eodem rerum ysu 2 reiicituræqualitas,eo nanque consilio muliebris mundus a virili ornatu differt. itemq; in ædificiis Corinthia structura a Dorica, et Thufianica, et Ionica longe alia est. Neque vero id ex artibus so lum conic et ari,fed ipfa quoque natura late cospi ci potest. Etenim membrorum compagem aliam atque aliam esse vsui fuit. Æqualitas igitur non folum non neceffaria eft, fed etia officit. Quod fi quis ita dicat:non Vfum folum quæri,fed Elega-porok. tiam quoque: is adhucintelligat, magisreiicien dam etiamnum similitudinem; nihil enim pro pius fastidio,nihilelegantius varietate. Ad hæc, aut Artem fequemur,aut Consuetudine: fi hanc, 3. nihil opus eft æqualitate.fed quæcunque vsusug gerentur, ea nobis eruntfatis. Sivero Artē,ac prę çepta, vtæqualiter omnia ducamus, pro insanis habeamur,nequeenim id fiat, vt quemadmodo Lupus, sic Lepus fle ettatur, sed hoc leporis, illud lupi faciet. Non eftergo necessarią Analogia. Quodautem nulla fit, fic conantur: Abestab Woh omnibusorationis partibus: igitur nusquam est. Ac fane in Generibusnon eft: quædamnanque trium vocum sunt,Humanus,Humana, Huma num: quædam duarum, ceruus, cerua: quædam singulis contenta, A per. Neque ipsa Genera simi litudine vocum afficiuntur:canMartia, et Sisen pa, diuerso sexu, eadem vocis forma sunt. Item eadem Genera vnica voce confusa,atque ignota, vt,Passer,Aquila: quum tamen et ibi fæmina, et z hîc etiam mas sit, Aț nenumerus quidem agno uit Analogiam: nam quamobrem non dicimus Cicera,ficuți Farra? neque Olea, ficuti Vina? No enim re et e responderunt antiqui,ob generum di uerfitatem in vino multitudinis numerum rece ptum effe:quia aliud efset Chium, aliud Lesbiu, aliud Falernum: nam Ciceris quoque valde sunt diversæ species, folio, Siliqua, Semine. In temporibus item desideratur: quippe a Fleo, Fleui: a Sero, Seui: a Fero, Tuli: vbi a diffimilibus fimilia, a fimilibus diffimilia orta funt. Item a Pafco: Paui; ab Amasco non eft. ModiquoqueAnalogiæ im munes funt; multi enim carent, vt Forem. Nec Figuræ ducuntur Analogia: nam quare diço Æ nobarbum: non Ænibarbum? aut quareMagni loquum,noMagnoloquum?Quinetiam in deri uando ipfas speciesæqualitatis nullam curam ha bemus.Siquidem a Boue, Bouile:ab Que Quile: a Sue nihil ducitur. Et Bubulam dicimus: at ab O ue, Ouillam:a Scribo, Scriptor: a Bibo nihil tale: fed cotra, a Bibo, Bibacem: a Scribonullum fimi 7 le.Itemin Comparatiuis,et Superlatiuis: clarus, clarior, clarissimus: similis, similimus: bono, melior, optimus. Sic nequein Diminutiuis: A nus, Anicula: manus, manuscula: a Pufione, Pu fillus: a Morione nihil. Quid quod ne Accentus9 i quidem ratio vlla eft fimilis? Etenim Hectorem, et prætorem eiusdem formæ nominaalia et qua titate, et foni qualitate pronuntiamus. Sed et ea dem nomina variis quatitatibusalias, atque alias 10 i proles generant: a Lucco Lux longa,Lucerna bre uis. Immo etiam eadem inconftantia in eadem voce deprehendetur: nequeid apud poetas so lum.Pharfalia, Italia, Sicania:fed etiamcommuni ysu. Nam in lege fundi venditionis, Ruta.cæsa ita v pronuntiabant prisci, vt prima vocalis produce retur,alibisemper correptaesset. Quod fi non eft neceffaria:neq; est in acciden tibus partium: quippe nonin Primariis, non in Deriuatis, non in Declinatis: immo in vno eo demque inæqualitas: Analogia nulla erit. Argumentorum dissolutiones. HI, quifese literature hoftes profiterentur, Can potuiffent a nobis ferri fane, nifi pessimum tve facinus ausi effent. Neque enim solum caussas ra tionesque proportionis tollere in re literaria, fed etiam totam naturam ipsam demoliri videntur mihi. Diruunt enim æqualitatem et similitudinem, omniaque casui subiiciunt: contra quam fa ciebat Plato, quietiam Nominum ac Verborum" ) ftatum, fexumquc naturæ certis legibus confta re, atque duci arbitrabatur. Nosigitur vtrunque extreeue na quo na de PE lu I red 011 m tia ui LE te: 1 extremum tanquam vitiosum reiiciamus. Acdea cem quidem principes rationes,quibusaliæ que annectuntur, scio a veteribus obfcure fimul; et pluribus verbis inculcatas: quæ hîc tam clare patery, tamque ordine digestæ funt:vt quod illi orationis fuco, nec fatis apta copia quæfiuere, id hac nos serie, vt quam efficacissimæ appareant, confecuti videamur. Quibus vt refpondeamus, paulo altius ordiendum eft. Fumit Naturam rerum omnium autorem,quæcunq; agat, propter finem agere receptum eft:quare ne ceffario fit,vtcertum quiddam agat: vndemem brorum, quæ in animalibus sunt, causfx, officia; opera luculentissimis libris a nobis funt explica ta. Propterea vero quod interdum aliis, atquea liis circumuenitur impedimentis ita, vt aberra re cogatur: quibusdam præuenta anguftiis non id agit, quod intendebat. Itaque homini aut addit fextum digitum,aut tollit manum, aut de curtat crus, aut aliud quippiam eiusdem modi monstrorum parit. Cæterum quia maxima ex ceparte reete opus suum peragit, nequaquarn ci de elle operi,quod proponit, dicimus:neque iccircơ riaturam negare debemus. Verum nonnulla re ete, atque ordine in lucem prolata deprauat Co suetudo: quales funtii, quos vsusadegit, vti Val gii effent,aut Vari, aut Compernes. etiam Cafus multum potuit, quo aliquis Claudicaret, aut Luf cus effet, aut Strabo. Ætas quoque, atque imitatio detorsit pristinum quorundam institutum, quo detraetianatura sua degenerarent. Quem admodumigitur vel cafu,velvfu, natura aut per ce CE all 2 fe cy Pu liu T bo di 1 al 9 9 Herti NU Pm edeme uertitur, aut immutatur,nequepropterea tamen naturæ opera neganda sunt:ita non cantinuo Аnalogia, quæ natura quædam vocum est, ficuti ureline desit, ab omnibus tollenda sit. Est ante oculos KMC Phalaris, Dionysius, Nero, alia monstra: in his quo iustitiam, atque animi moderationem deside res: igitur nusquam hæcerunt? Alexander rau pparea cius loquebatur, obstipa ceruice erat; non a pri mordiis natalium suorum, sed pædagogine qui tia distra ettus fuit a simplici illa regia indole. Hominis igitur fuerar integritas, consuetudinis pra qua vitas. Species enim per singula corpora propa gantur, inter quæ nullum formæ difcrimen in Ez,c uenitur: ita etiam in verbis fit. Sicut ergo in natu utepi ra dedu et io triplex, fic et in vocibus. Triplex au-, 5,244 tem ad modum hunc: propterea quod ea quæ tabe deducuntur tribus diueria sunt differentiis:nam uliset aliquid dicitur effe diuersum ab alio Forma, vt 2. equus ab homine. Aliud Materia, vt hic homo Col.ab hoc homine. Aliud Accidente, vthic homo me sedens, ab se ipso stante. Quare in vocibus quo ai que aliud erit nomen hoc, Homo, a verbo hoc, Pugro: forma enim distant. Secundo modo a Leica liud nomen hoc homo, a nomine hoc equus: nuk Tertio; aliud nomen hoc Homo, a nomine allal,hocHominis. Possunt autem ea, quæ vel for milima, vel materia fola distant, etiam accidente um C differre: vtHomoniger, ab Equo, et Homine Walbo: fic nomen hoc homo, et a verbo hoc Se tout quor, et a nomine hoc equus diftabit accidente quoq, id efs lineamentis elementorum. Itaq; et Quiam inflexione diftare poterut. Acquemadmodu eiuf Image 1300C ' s iterum  eiufdem nationis viri duo, etiam fratres, etiam gel mini, etiam pares facie, etiam colore,tamen ma nuum aut crurum flexu diffimiles effe poterunt: neque tamen auferetur,quin duo peregrini inter se similes fint: hoc enim accidens est. Ita in voci bus: Equus et lupus convenient accidente, Lepus non conveniet: sed Analogia erit inter lupu et equum quia cum lepus non est. Non ergo tolletur propterea quodinter lepus non est: sed ponetur, quoniam inter lupus est, et equus. Sed cehabet suam cauffam Lepus, qua desciscat, sequa turque aliam proportionem, vt faciat Leporis, propterea quod Græci Dorienses ita et appella bant,et flectebant:quare generis quoque Analo giam fequutus est Lepus Græcam, non Latinam Equi, ongu valtoers: neque folum Lenusinde, fed vocis in re etto cafu lineamenta Latina fibi affum psit, ut efset Lepus, sicut equus. Quare hoc etiam intererit analogiæ, vtaliis atque aliis caussis par tim talia, partim alia sint. Neque enim quem uis hominem decet “robur”, aut celeritas: qua re “robustum”, et celerem non fequetur ea dem membrorumAnalogia: at omnes Robu stos eadem, eademque alia seorsum Veloces omnes. Si quem autem membrorum proporzio ne præditum inueniamus, officio autem illiinu tilem: hunc casu, aut alio quo fato separatum ab ea proportione iudicabimus, non propter vnum tollentes cætera omnia. Itaque fic eftacutifsime Cornelas.cos inficiari Analogiam,nifiin quibusdampo nant:eftenim Habitus priorPriuationenõ tem pore, Bu pore, fed cognitione: ficut Affirmatid Negatio ne. In paucis non efle calu, in ceteris omnibus cofilio limilitudinis. Euenit autem interdum vt deficiantur nomina proportioneilla, propterea 2 ) quod res ipfæ deficiuntur: nam fexus et princi piis quibufdam, et officiis discreti funt:itaqueal teri quod designes nomen, alteri non conueniat. Proprium fæmellæ Nubere est: iccirco non tranlibis a fæmina ad marem ipso Participio, vt tantummodo Nuptam dicas: vbi non tolletur Analogia, quia Doetum et Do et tam dicas: sed po- » netur iccirco, quia Analogiæ pars eft, sequi signi-» ficatum, alia quoque quoque pars pars eiuseft, fcquiconcin-), nitatem: ficuti hominis officium feruare deco rum.Ergo liquid scabrum critin deducto, maluit ars abstinere: quum tamen natura non repugna ret. græci ovu Dwriavnominant finem hunc,nos etiam Habilitatem possumus, non folum Con cinnitatem. Sic reiecta sunt multa. For, Faux, Prex, Metuturus, Nutritrix, atque eius modi, ve fuppreffæ potius ab vsu, quam negatæ a natura vocum sint. His legibusdiruuntur argumeta omnia:Nam 67, friuolasatis sunt,quæ negant necessariam.Ac pri mum quidem admodum ridiculum, quod breui tatis ratione tollendas curat inflexiones, quum tamen per inflexiones tollatur ambiguitas. Aliæ quoque rationes nullæ sunt.Varietas enim,quam 2, afferunt, nequaquam reiicitæqualitatem. Eft e tim æqualitas interdum inter duo, propterea quod ipfa funt aliis inæqualia. ita distant aqua liter duo triangula, ab vão quadrato:quia inter Ff j. sex fump ! inea fe æqualia funt: Acfatis eft,vt varietas fit inter speftatue cies,non diuersitas in fpeciebus. res cis diner assertio etymologia che atque analogiæ quidem ratio acnatura grelli sic constat. Etymologia vero et si in multis detur obscura est, superque eadem voce alia alii visa: certa tantum tamen absft ut tollenda sit, ut tam maxi- sæpe me fit investiganda, quam maxime latet. Quide- quoc nim occultius veritate? at multis in rebus ca im- pica primis defideratur: neque tamen quispiam tam dam. fitimpudens, qui eam neget. Nam qui semper niac dubitabant Pyrrhonii, vel propter hoc id age bant, ne a veritate, quæ in altera parte contradi- da,y u et ionis latitabat, aberrarent. Ita materiæ primæ natura præterieratveteres omnes Philosophos, quæ donec a Platoneinuenta, ab Aristoteleomoium Qu sapientum principe eruta eft in lucem. Quare itiu omni opeatqueconsilio nitendum eft,vt ne plus ab i illa operæ latendo exigere,quam nos inuestigan- que do ponere videamur. Que pri Quidde inceps agendum, quoque ordine. V Ocum principia, causas, elementa, affeectiones, quemadmodum uniuersa natura comprehenderentur, hactenus declarauimus:de 94 owo inceps ad ipsas voces priuas cursus flectenduseft. Sic enim philosophus naturalia corpora sub modi tu accepta deducit communi intellectione ad historiam singularium: cuius exemplo nobis quoq; statuen Præp Prae nu. qu litt tra statuendum est, quo usu privæ voces apud auto res circunferantur. Quumigitur quidam per or- reno dinem Elementorumhoc profeffi fuerint, alii fumpto autore interpretandi munus magnis di gressionibus contaminarint,vnusVarro mihi vi detur confultius fecisse, ut verborum connexum. certa serie explicaret: alioqui diuersis locis eadem fæpe repetasnecesse est. Verum enim vero ipse quoque M. Varro suorum librorum initium auspicatus esta Temporis, Locique diuisione qua dam, perinde quasisub vtroque,alterutrove om nia continerentur:ac non infinita pene fint,quæ in eam partitionem vel reluctantia lint arceffen da, ut omitta particulas minores, cuiusmodi sunt præpositiones, coniunetiones, interieettiones, quænullam habet cum nominibus affinitatem: Quarelonge præstiterit a primariis vocibus in -joset, itium fumere,atqueab his deducerecæteras, quæ ab illis ortæ sunt. verum inter casce primarias quum quædam steriles sint, ut interiectiones, et præpositionum, ac coiunetionum maxima pars: quædam sintgenetrices, quæ aliasex sesepariant: primo quoque loco tractare steriles decet, quæ nullam cum cæteris habent coniunctionem. Et quoniam non omnes voces elementorum similitudine aut significati cohærent affinitate ne quaquam absurdum fuerit, si interdum in contrarium transeamus. Neque enim qui de motu dixerit, de quiete quoque non poffit loqui. Advnum fignificatum cætera reducenda, Ff ij. Vnum 448 Ių L. Num pterea quod fignificatorum similitudoyni eidemque voci attributa fæpius est, aut fcriben tium autoritate, aut prodentiam curiofo iudicio; principem omnium fignificatum indagariopor- a tere cenfeo,ad quem,tanquam ad tesseram,signa que cæterasreducere legiones: sed propofitis sem per caussis,sine quibus tam stultecredimus,quam arroganter profitemur. Nam quum hoc inter pretandi munus Vlu, autoritate, ratione con itare'dixerint: lane intelligendum est, vsum sinę ratione non semper moueri, veluti si atpirat trophæum, et Anchoram, quæ leniter a Græcis aliis uproferuntur, Atheniensium exemplo sciamus fa P Etumesse. Autoritas vero quid aliud, quamVfus eft?Nam quodautore M. Tullio dicimus, ex cius 1 vsuid habemus. Atfi ab vfu recedat, tum vero auctoritas nulla est. Quare etiam Cæcilium reprehendit Cicero, etiam M. Antonium, qui tum aliter, quam ex vsu loqnerentur. Ad rationem igi, tur, quoad fieri poterit, erunt hæc reducenda, e tu C Nonrecte z'ni vocifignificatorum multitudinema a veteribus assgnatan. ForVerunt antem do ettissimi, multarum quelite rarum viri, qui propterea quod niinis mulca variis observationibus comporta sciuissent, multa item significatorum monstra unicidem q. Voci designarunt. Quoru in opera tantunabestveca moda sit, ut maxime etiam libria duerseturinleria ptioni. Nam specioso titulo de sermonis proprietate edidiffent, nihil minus quam quod pro fitebantur, effecere. unius nanque vocis vnatan tum sit “significatio propria”, ac princeps. cæteræ aut communes, autaccessoriæ, aut etiampuriæ, non enim ab reidem verbum adiecit vfus Nominibus diversorum significatorum, sd quia co rum natura conueniebat, sic dicimus Scindcre vallum: Scinde re adamantem non dicimus. Non enim natura fert. Ac verbum quidem pristinum recipit significatum sed non cohærent. Non igi tur potuit mutari significatum huius verbi, in ca verba quæ cum adamante convenire possunt, puta tundere. Nam dicimus, scindere in lue tu togam; ergo erit hoc loco idem scindere, quod Lugere: et scindere vallum,erit, Castra occupare. Ita que male plurima sic ab illis distorta funt, quæ a nobis in libris O. iginum certis appofitis cauffis correeta fuere. Nam quis putarit verbum hoc Potiri, idem effe quod Condi? propterea quod poetæ versus est, Potiuntur Tybridis alueo, fic Subigere, acuere, et stringere, percutere, et spectare, Dirigere: et ventus, odor, et alia innumera, quæ omnia longe accuratius ad sua quæ que principia reducenda fuere. Est autem viri et boniet sapientis non solum alienos errores de tegere, atque arguer sed etiam rationes suas atque consilia aperire. Quare quo sitindagandum modo, sicinftituamus. Si Condi, significat Potiring loco verbi Potiri ponatur verbum Condi: fipatitur sedes, bene est: si non patitur, non significat. Quis igitur dicat, Conditus sum libro? Et Conditus sum Turdo? et Conditus sum Ense? Item si Premere, Defodere est: dicamus igitur Fossam premere. Sic, Premere, Tegere significat: igitur Colo premi, dicamus nos, quos non attingit tamen. Nolo nunc duciper omnia, quæ suo loco in originibus exactis fime persequuti sumus: sed satis lit icciffe fundamenta scientiæ tibi, more principis nostri Aristotelis, cuius sapientiæ luce grammaticorum tenebræ discutiantur. Scaliger''s main essay on language is his “De causis linguae Latinoae,” a grammar he wrote for his son Silvio, and which was published by Sebastiano Grifio. There Bordoni tries to establish a philosophical basis for a science of grammar. Bordoni approaches his subject en philosophe. In order for logic to qualify as philosophical logic has to deal with eternally true and necessary analytic statements about a language such as Latin or any system of communications that a Roman used to communicate with another Roman. This is a problem which confronts speculative grammarians like Bordoni or Grice. Bordoni tries to establish the ‘cause’, or four causes of language, because in an Aristotelian context, a cause (causa, aitia) is that which always and by necessity brings about one specific ‘consequentia’ or effectus, or result. The discussion of the cause normally centres about the central passages of the “Physics” and the “Metaphysics”. In the grammar for his son, Bordoni does not devote much space to the discussion of the nature of ‘cause’. His philosophical presuppositions remain for the most part implicit. Thus, in order to understand more fully his philosophical stance on single problems, it is necessary to draw extensively on his other essays as weIl, especially those he did not write for Silvio! The ‘formaI cause’ (causa formalis) of language is traditionally identified as ‘significatio’. It is clear, therefore, that ‘significatio’ poses a series of problems which involves not only language. The most fundamental ontological and epistemological problems are clearly at stake. A fundamental essay from which discussions of ‘significatio’ arises is a passage from the beginning of Aristotle''s   De · interpretatione: “Now a spoken sound is a symbol of an affection in the soul. Of what this is in the first place a sign or symbol – the affections of the soul -- is the same for every man. Of what this affection is a likenesses – a thing –is also the same. If an expression ‘signifies’ an affection of the soul, or through an affection of the soul, we must know how the latter relate to the thing in order to be able to account for the full process of ‘significatio’. Central problems will be Bordoni’s ideas on the nature of the universale, on the conception of individual phenomena, on individuation, and on the agent intellect. We find useful hints of Bordoni’s position scattered in many of his essays such as the commentary on the Hippocratean De Imnsomniis, the dialogue on Pseudo-Aristotle De plantis, and in the commentaries on Theophrastus''s botanical essays. The most important text is,  however, the Exotericoe exercitationes, where a section is devoted 'to a series of problems concerning the soul. The Italian scholar Paganino Gaudenzio is rather sceptical about the value of these exotericoe exercitationes as a source to Bordoni’s thought. Gaudenzio thinks that the work was too marked by Bordoni’s polemic against Cardano, which occasioned the essay. Gaudenzio was scandalized by sorne un-Aristotelian views of Bordoni’s, and he tried to dismiss the essay as being not seriously meant. 1 do not think him right in doing so, although I do admit that it can be difficult to use Bordoni’s “exotericoe exercitationes” because its choice of subjects is determined by the polemic, and also because the language is notoriously obscure. Our senses are immediately presented with the singular and material thing. What we sense, however, is not the substance or essence of a concrete phenomenon, but its accidents, such as its size, colour, position, or its number. The intellect removes these accidens, and what remains is the essence (substantia), i. e. the   species universalis which is therefore in sorne sense produced by the intellect. Bordoni does not take this to its nominalist extreme of calling the species or the universals exclusively a mental phenomenon. He gives an ontological status to the two. ln order to solve the problem of the nature of the' universals, Bordoni briefly analyses a passage from the Analytica priora (Al, 24a 25), and concludes that an universal is a thing (res) whose nature it is to be predicable about many things. A universal do not exist in the soul. A universal is discovered there rather than created. What the soul does to an universal in turning it into an affection of the soul is merely to make the universable predicable. Intellectus autem nihil affert nisi proedicabilitatem. The ontological foundation of the affection of the soul thus remains pronounced. In support of his view Bordoni quotes a passage from the “De anima” where Aristotle says that a universal (“ton kath’olou”) exists in the soul somehow (“pas”). Had Aristotle meant that a universal  actually has its only existence there he would not have used the word “pas”. Bordoni’s attitude is not identical to any of the great medieval schools of thought, but it does recall the common natures of Johannes Duns Scotus, which were actualised by the intellect as predicable universals. This sort of fundamental Scotism was by no means uncommon i n the sixteenth century, and ought to cause even less surprise in Bordoni, who claims to have spent sorne years in a Franciscan monastery, and who had prefaced and index to Duns Scotus with a laudatory poem. One should not, however, unduly stress the Scotisi aspects of Bordoni. Athough it is a conspicuous trend in his thought it is but one amongst many. For instance in connection with the universal he here and in several other conneçtions used the phrase “res uniuersalis”. This is an unusual usage of “res”. One would rather have expected “aliquid” or the like. It could perhaps best be understood in connection with the terminology which came in after Valla''s Dialectics, where res replaced ens, aliquid, and several other scholastic terms. Also in the De causis linguae Latinae we meet res used for universalis and even for  accidentia. This is not an obvious usage for a man who, like Bordoni, was a moderate realist: he did not ascribe a separate existence to the universals ante rem, only a real existence “in re”. Points of view akin to the one outlined above are found not only in the “Exotericoe exercitationes”, from the last years of Bordoni’s life, but also in his earlier writings. A corresponding attitude is for instance expressed in the commentary on the Hippocratean   De insomniis. Regarding species as a predicable or a universal as Bordonir does was a Platonising interpretation of Aristotle which stems back to Porfirio. This interpretation created serious problems within the Aristotelian system. How can two single individuals of the same species differ, and how can they be grasped by the intellect if at all? This set of problems underlies a wide range of metaphysical and logical discussions and it would be pointless to give even an outline of its importance here, but we cannot avoid a presentation of Bordoni’s views on individuation and of the intellection of singular material phenomena. According to Bordoni, Averroes assumes that there is one intellect for the whole of humanity, and that it cannot grasp the individual phenomena. In Italian Renaissance Aristotelianisrn, the unity of the intellect is a standard topic of discussion. Bordoni’s interest in the subject probably reflects his Padova days. Averroes was held to believe that the intellect assumed the form of the thing intellected. Bordoni points out that to Averroes the intellect does not realiter become res intellecta, but only modo similitudinis et receptionis, although he in other places ascribes the more radical view to Averroes, and he also ascribes it to Cardano. According to Bordoni, Aquino also rejects the intellection of the individuals, not because of their materiality, but because of their, individuality. This is hardly in accordance with modern readings of Aquino but it seems to have been communis opinio. Zimara bases his De primo cognito on a refutation of what he saw as a nominalist acceptance of the intellection of the singulars simpliciter. The arguments used by Zimara, one of the men whom Bordoni quotes as his preceptors in the epistle to the reader prefixed to the Exotericoe exercitationes,  are listed as either Scotist or Thomist. A thing is considered incompatible with the intellect because it is respectively, material and singular. These are the same reasons which Bordoni ascribes to Averroes and Aquino. For Bordoni the matter is clear. We do perceive the individual in our intellects. They are indeed the first things perceived by it. If this were not the case, he continues, a proposition like “Caesar est homo” would be devoid of sense. To the objection that the individual only per modum is distinguished from the species, he responds. Now listen: This Caesar who is writing this, is something different from the universal nature of man; therefore, it is necessary that Caesar is intellected as differing from the universal through some particulars. Therefor, the singular is intellected. Bordoni proceeds to argue that the higher faculties have a more perfect cognition than the lower ones, and therefore the intellect is bound to have cognition of the singulars of which the senses have perception, for the intellect is a higher power than are the senses. This is very close to the traditional Scotist argument in favour of the intellection of the singulars. Again it is interesting to see that this was a constant point of view in the works of Bordoni. In the commentary on the De insomniis   he says. Therefore, if the intellect grasps the universals, it also has knowledge of the material things. This opinion was expressed forcefully enough for Bordoni to be quoted for it several times in later academic literature (Pomerano). In the section of the Exotericoe exercitationes with which we have been mainly concerned, we were still left in the dark as to what constitutes the individuating principle. Another section, however, provides us with a clue. It is entitled “De principiis naturre indiuidure”. Anima is the individuating principle of the human being. Bordoni does not say so in so many words, but thus it. becomes clear that “forma” to him is the individuating principle, since the human forma is anima. This would seem to pose more problems than it solved, for the “forma” is that which makes a thing be what it is. It is its common nature or universal principle, and hence it should really be the “forma” which requires individuation. Bordoni is obviously not very precise here, and although he uses the term individuation, he probably does not want to commit himself too unequivocally to Scotism by introducing the haeccitas, which is formally distinct from the soul. But even so it seems clear that for Bordoni’s contemporaries this was accepted as a Scotist approach. Nifo, for instance, another of the philosopher Bordoni identifies as his preceptor, specifies as Scotist his thought that the soul is irreduceably individual in itself, and that it is in its own · right an individuating principle. The same vaguely Scotist attitude can also be detected in the section of the Exotericoe exercitationes which is called Quid sit intellectus. There we read. Thus we see that there are several notions for one and the same thing. We calI them formalitates. This is seen as a barbarism by those who are themselves harbarians, but for the learned it is not an inapt term. Admittedly the idea that one thing could hring about various notions is rather more nominalist than Scotist, and the Scotist would altogether have described the formalitates as having a higher degree of reality, but even so the provenance of Bordoni’s ideas on individuation seems clear. We now know that an individual phenomenon is first to he perceived by our senses, but it is also grasped by the intellect before it proceeds to denuding it of its differentia in order to make it into species. In this function the intellect could be called intellectus agens (“nous poietikos”). If one assumes that a universal is created in the intellectus materialis (or possibilis, or passivus – nous pathetikos), Bordoni says, there would indeed be use for an intellectus agens. If, on the other hand, one does not believe that the intellect actually creates the universal, it is superfluous. Either one can say that the intellectus agens both recognizes the singular and through the process of ‘abstraction’ cornes to recognize the universal, or the other way round, one might say that the material intellect can have a facultas diuidendi, componendi, separandi, and colligendi. Therefore the agent intellect will not be necessary, where the material intellect is, or it will exist on its own without the material intellect. Thus there is no real distinction between the two, but Bordoni does permit a distinction   ratione or ui by insisting that the intellect is but one according to its potentia, whereas it has several uires. Aiso Bordoni’s preceptor Nifo rejects the Thomist idea that the soul had  several protestates (the structure power of the soul). Thus Scaliger once again recalls Scotist terminology. Bordoni states his views on the agent intellect very strongly, even suggesting that the notion is ridiculous, and this becomes the object of much attention in the generation immediately following Bordoni’s. Thus Goclenius discusses the problem in his  “Aduersarium”. An sit necessarium ponere intellectum agentem. And Gaudentius is positively scandalized at the thought that a man who wanted to pass for an Aristotelian could hold such opinions. The agent intellect, which which Aristotle deals very earnestly is being attacked by Scaliger as superfluous, nay ridiculous. Bordoni takes the same attitude in his commentary on Pseudo-Aristotle’s De Plantis and also in the commentary on Theophrastus's De causis plantarum. As an introduction to his discussion of the “diction” in the “De causis linguae Latinae”, Bordoni provides a summary of his epistemological views. Most of it should be self-evident after the discussion of the Exercitationes exotericoe on the same subject. The “De causis” is far more jejune and far less explicit, but none of the information there provided, seems to contradict our findings. In the Dè causis, however, Bordoni takes us, also briefly, from the epistemological level to the level of language. We have the intellection of the species in common with other animaIs, but we distinguish ourselves from other animals by our rationality (“prudential”, “consilium”), whereby we participate in God. The rationality can only be perpetuated socially, by the process of learning and teaching. Therefore language is necessary. Reading the De causis one might weIl wonder why language is necessary at aIl. Every affection of the soul as weIl as the thing it reflects are identical for every man. If an expression ‘signifies’ an affection of the soul, language is really only an instrument for communicating what is already perceived and intellectually grasped equally by everybody. We would, according to Apel, be metaphysically guaranteed to say the same things about the same shared world. Bordoni’s answer to this would be that the “finis orationis” is not only naming an affections of the soul. It is an interpretation of the soul. The soul does not only perceive the singular and grasp the universals, two objective processes. It is also discursive and combines them in complexa, which in turn can be compared with the external world. The relationship to truth is that which makes language significant. The relationship between an affection of the soul and a thing is far closer for Bordoni than the arbitrary relationship between an expression and the affection of the soul that it signifies. An expression of the soul does not ‘signify’ at all. ‘Significare’ is never used about an affection of the soul, nor is this affection ever called a “notum” in the way an expression always is. Only an expression ‘signifies,’ and it seems to be clear that an expression signifies an affection of the soul. This last statement is nothing special; for even the nominalists has to make use of an affection of the soul for “significatum”, when e. g. a universal is concerned, although they generally assume that an expression signifies a singular and material thing directly. It therefore cornes as a surprise that throughout his essay on the causes of the Latin language Bordoni clearly and unambiguously states that an expression signifies a thing (res). The mental intermediate level is practically entirely left out of consideration in the discussion of the Latin language and its causes. For instance an expression follows directly the nature of the thing. In the same way as an expression is a sign of a thing, it also imitates its nature. In sorne places Bordoni explicitly excludes influence from an intervening mental level. Consequently amabigous nomina do not exist, for in the real world (in rebus) there is no intermediate between that which I have called an adjective name and a substantive name. Hence there can he no intermediate lzomen. Even if we remember that for Bordoni “res” could mean far more than just a physical thing, this leaves the mental process completely out of the picture as far as language is concerned. At the risk of explaining away what might only he a banal inconsistency, I venture to propose that Bordoni did believe that an expression signifies an affection of the soul, which in its turn is a ‘re-flection’ of the res, but that the mirror of the intellect is so perfect that the mental level becomes superfluous when one talks about the matter. We have seen that the soul neither adds nor detracts from nature. The soul arrives at the universals through abstraction. Bordoni is close to the entirely objective relation between mental term and extra-mental phenomenon which Nifo maintains in his Dialectica ludicra. When he says that “nomen significat rem” or the like, Bordoni is not therefore talking as a nominalist, although sorne philosophers did maintain that an expression refers directly to a things. On the contrary 1 think that Bordoni uses a shorthand expression possible only for a realist. Leaving the mental level without any importance in language Bordoni notably disances himself from not only the realist modistae, but also from their nomilist opposers/ followers, who reinterpreted the” modis ignificandi” iriio “modi agenda” of the intellect. Here Bordoni breaks radically with Aristotelianism, including Scotism. Bordoni is not, however, the only one of his time to do so. Nifo explains this tendency more fully in his Dialectica ludicra where he sets out to prove that there is no such thing as  a “natural” “sign”. Not even the affection of the soul signifies naturally, for a notion is received objectiveIy. Hence there is no formaI causal relation between the singular material thing and the notion. This is not dissimilar to Aquino’s idea that the a notion is a “similitudino”. The affection of the soul is itself something signified (signatum); the affection of the soul does not signify (signans). It is clear that Nifo can deprive the affection of the soul of signification because of the objective relationship  between the thing and the affection of the soul, an approach which is very close to the restricted function of the intellect as set out by Bordoni. The tendency in philosophy had been to underline the function of the affection of the soul in the process of ‘significatio’,  and both Scotists and Averroists therefore stress that an expression admittedly signifies a thing, but through an intermediary abstract ‘concept’. We occasionally find this attitude reflected in the De causis as weIl but on the whole this seems to be overruled by Bordoni’s practice, where he is closer to Nifo. However, although an affection of the soul itself does not not signify, it is still in exceptional cases considered as the “significate” of expression by Bordoni. He does not always insist on an expression merely signifying a thing. Having recourse to the mental level seems to have been Bordoni’s ultimate resource when the more simple approach was not viable. I will consider the following passage. Somebody might object. An apparent substantive name – like phoenix -- which is a name of a figment of the soul, is not an expression. For ‘phoenix’ – or “Pegasus” is not the sign of a thing. It should be understood as follows. That which is called an“ens” sometimes has true being, e. g., God, sometimes not.. The latter case can have two forms, either “privation” (negation) or fiction. The apparent expression “vacuum” (as in ‘this name is vacuous’) is an example of privation. The apparent expression ‘phoenix’ or ‘Pegasus,’ as in Bellerofonte mot ail cavallo alato Pegaso’) is an example of fiction. The apparent expression or name or substantive name of this thing (ens vacuum, ens phoenix) does not signify in the same way as ‘God’ signifies God. Privation or negation signifies through the category of having. (“I am not hearing a sound”, “This not not red; it is green” – as a bird has wings and flies, so does Pegasus, the Greeks believed). It is easier to understand a figment – simple like ‘phoenix’ or complex like ‘squared circle,’ or ‘winged horse’, for they are a sort of false enunciations. For ‘phoenix’ is the same as this enunciation, ‘This ia a bird resuscitated on account of itself. This horse flies, and Bellerophon rides him. “Vacuum” is described in practically modistic terms. “Per modum privationis” significare is not written explicitly, but aIl the elements are there. This involves a concept of a mental process which cannot be derived from Bordoni’s own epistemology. ln order to explain how Bordoni sees the ‘significatio’ of ‘phoenix,’ Luhrman paraphrases perhaps inadvertently the nominal phrase ‘phoenix’ to the full utterance, ‘phoenix est avis rediviva sui causa”. Thus he obtains an utterance and a  proposition which can he either true or false, but this does not help us with this rather obscure passage. Bordoni does *not* equate or associate the vacuous name ‘phoenix’ with a proposition, but with Bordoni calls a “complexum indistans”. “Avis rediviva sui causa” – cf. ‘equus volans”. Bordoni confuses two problems here, that of ‘significatio’ (connotation) and that of truth (denotation). This cannot be dismissed so easily as this. It is worthwhile recalling the commentary of Averroes on De interpretation, where he states the generally accepted view that an expression (alpha, beta) on its own is neither true nor false. Only if we add the copula ''is'' (the S is P, the alpha is beta) or '' is not'' can one talk about truth. Averroes continues. “And therefore, when we say that a ‘chimaera’ (goat-stag) cannot eat secondary intentions, we signify something true—for it is true that a chimaera does not eat secondary intentions – quaestio subtilissima. Bordoni's preceptor Zimara deals with a related problem in his best-selling “Solutiones contradictionum”. Zimara claims that in one way, the formation of the intellect is always true; that is by the first operation of the intellect. In a similar context in the Exotericoe. exercitationes Bordoni says. Ffr that which is understood by the intellect is always true (“It is true that the Greeks believed or conceived of Pegasus as a flying horse”). In another way, however, the formation of the intellect, when negated in an utterance, is true (“It is true that Pegasus does not fly”), because, as we nave seen, uerzcas can only oe eSIaOllsnea Inrougn   an “adaequatio rei”, which involves “composition” (conjunction of properties: equus volans) or disiunctio. Neither of these two ways of regarding truth  allows of declaring phoenix a lie. Sorne light can be thrown on this contradiction in Bordoni by looking at the central passage in the Metaphysics where Aristotle discusses the ways in which falsitas can be said, i. e., not a philosophically unambiguous term, but the usage of the term in Greek, although Aristotle takes it for granted that all the ways in which ‘falsum’ may be said are equally adequate instances of ‘falsitas’. What is important for my purpose is that Aristotle in one section ignores or underestimates a ‘statement’, an ‘utterance’, or the content of a desire or a belief in favour of a states of affair which he groups with under the category of a thing that is not as it seem, as false, a thing. Averroes says on the same locus. ‘’Falsum’ is also said about a fictional thing which is imagined according to their not having existence, or not being at all. And this sort of ‘falsum’ has to do with intellection and primarily with desiring or believing  It must be a ‘falsum’ of this kind which Bordoni has in mind, although this is difficult to explain without ascribing a greater independence to mental operations. Bordoni is likely depending on a passage like the one from Averroes than on scholastic quaestiones on figmentum. This is reinforced by his choice of the example ‘phoenix’, which usually exemplifies a species or set with only one member in it (hence it grows capital letters, as Strawson says). The example of a  figmentum is usually either ‘hircocervuus’ (unicorno) or   chimaera (goat-stage), cf. sirena, centauro -- which are more complicated to account for than the singular ‘Phoenix’ or ‘Pegasus’ (‘Vacuous Names’). However, allowing that Bordoni means what was usually meant by ‘chimaera’, there is some traditional sense to be made out of this passage. ln one other instance Bordoni has to take mental operations into consideration. That is when he discusses what was traditionally known as suppositio materialis (the use-mention distinction). Scaliger never uses ‘suppositio’, and he is refreshingly untechnical on the subject. ln sorne places he is, however, reminiscent of logical terminology. Bordoni’s explanation of material supposition corresponds to his description of the mental auto-reflection on an affection of the soul. Thus we see that Scaliger does explicitly acknowledge mental operation in the De causis linguae Latinae in sorne special circumstances, although it on the whole is of less than secondary importance to him. I do not deny, therefore, that a mental level exists in Scaliger''s epistemologically based concept of ‘significatio’. My point is rather that the functions which Bordoni ascribes to the intellect are so limited that he can most often ignore them in practice. Scaliger''s indifference to the mental operations has sorne linguistic consequences as weIl. He has a.preference for the expression ‘significatum’ (cf. implicatum, implicatura) rather than ‘significatio’, ‘implicatio’). And it is remarkable that he does not seem to mind whether ‘significatum’ gets confused with  ‘significatus’ (‘signatus’, ‘signatum’). Bordoni quite often uses forms where the two co-incide, without giving any indication of which of the two he means. When discussing homoym, paronym, and synonym, Bordoni says: Nam pro-fecto ut inre non sunt eadem (eequi-voca), ita nominis *significato* alio atque alio sunt. Itaque sic vere possis dicere. “Canis non est canis.” Id es, res coolest is non est res terrestris. At nomen et materiam habet ipsas literas, “C”, “A”, “N”, “I”, et “S”, et formam, id est significatum. Ergo “canis coelestis” materiam eandem habet elementorum quam canis terrestris. Formam autem, id est significatum, non habet. Ergo non est idem nomen (costellatio canis caelestis). The two places where Bordoni writeso “significatum” he seems to be thinking of the relaterd (but distinct) form of “significatus”. It would, syntactically, have been at least as correct to have ‘significatus’ (or ‘significatum’) nominative case (casus rectus, not casus obliquus) in the two instances – in which case the nominative forms ‘significatus’ and ‘significatum’ are different.  When Bordoni has ‘significato’, this expression seems is a declined form of the nominative “significatum”. But this would makes but little sense. As Pattison notes, it would amount to saying something very otiose if not nonsensical. Just as two 'homonyms, say, ‘dog’ and ‘dog’, are different in the real world, they are not the same in the real world. It make more sense to read ‘significatu’, the declined form of the nominative neuter noun ‘significatus’   instead. The same is true of another passage. Proprium autem quorundarum prae-positionum est ut *significate* uarient. Prepositions (like “on” the table), being con-significantia, do not strictly have a  significatum at all – even if “See Strawson under Grice, and Grice on Strawson” does – or Pears is between Grice and Strawson. With the case of ‘on’ or ‘between’, ‘significatu’ or ‘significatus’ (cf. conceptus) would have constituted a more understandable text. – cf. the conception of negation. My intention is not, however, to propose emendations ot the text, but to show that Bordoni is practically indifferent to any distinction between  ‘significatus’ (conceptus – incuding figmentum) and significatum (signatum – what affection of the soul is behind the expression ‘phoenix’?). A rather dramatic consequence of the objective relation between the extra-mental world and the corresponding mental concepts. Bordoni’s ‘significatio’ makes it very difficult to explain contextually changing usages of a word. Each varying usages must reflect a different affection of the soul. Two different uses of an expression must therefore be considered as two different dictiones, which only accidentally have the same ‘matter’ or form. This is standard in the modistae, but Bordoni’s ‘significatio’ becomes even more rigid and static because of the limited role he ascribes to the mental operations. Not only does he ignore theories of supposition, which involve words changingaccording to context; he rejects the possibility explicitly by telling us that discussions of sermonis proprietas are cOlnpletely misguided, because words have Ollly one signification (Scaliger). This make it very difficult to acc() unt theoretically for the philological discussions of the niceties of usage. That was also a sort of proprietas sermonis. Bordoni unhesitatingly gives use precedence over rationality in lànguage, when confronited with the problem, but his theoretical discussion of use remains fundamentally incompatible. with his concept of ‘significatio’. A discussion of the concept of usus will, therefore lead to far away from the theme of this, and it must here be left as a hint at the range of Scaliger''s eclecticism. Arist., Phys. Met.te Scripsimus autem desumptis a philosopho principiis pro confessis quod in omni scientia fit infmore» -- where he discusses criticism of the De causis.  Arist. / nt. 16-3-8. Gaudentius. For a modern discussion of Scaliger's relationship with Cardanus see Maclean. Te ita et naturre opulentia et Aristotelis opibus euincam esse in natura res universales piuribus communicabiles. te At intellectus nullam facit substantiam. Neque cum abstrahit circumstantiam quicquam addit de suo... sed agnoscit eandem esse in utroque, quia utrique communicabilem et iam communicatam. Bordoni is clearly and often explicitly anti-nominalist. For Bordoni’s stay in a monastery cf. Billanovich. The poem is in de Fanti. Ad hrec uniuersalia in materia sunt. Sunt enim unum in multis. Nam idearum figmenta non admittimus». It is worth noting that Bordoni does not agree with Zimara who says. Unde, sicut mea fert opinio, sententia peripateticorum fuit quod intellectio singularis materialis repugnat intellectui, ut intellectus est, non quatenus singulare, sed quatenus materiale est. Sic erat respondendum: in rebus singulis esse multa suapte natura qure unum fiunt ab una forma: ut esse, uegetari, sentire, intelligere. Hrec omnia ab una anima unum fiunt in homine. Sic uidemus eiusdem rei diuersas esse notiones quas barbare quidem barbaris, sed non inscite apud doctos formalitates appellabamus. See Poppi (1966) for-a discussion of the Scotist doctrines on formal distinction at Padova. Bordoni’s thoughts are very similar to the notion of the immediate contact between the intellected object and the passive intellect which Achillini was noted at Padova. Bordoni’s thoughts are very similar to the notion of the immediate contact between the intellected object and the passive intellect which Achillini was noted for maintaining. Perhaps more interesting here is that Nifo and Bacilieri also nurtured such ideas. Bordoni does not, however, completely reject the existence of the species intelligibilis.  Rationality is the traditional Aristotelian differentia of the human being. Luhrman sees a dependence on Pico della Mirandola in the use of “divinum”. The idea of the divine participation of the soul is general neo-PLATONIC doctrine and can hardly he identified with Pico specifically. It is worth noting that Bordoni does not make the human use of language an argument for the divinity of the souI. This would have brought him far closer to the language mysticism of Pico. Veritas in oratione est, non in uerbis priuis. When Scaliger talks about materiam, formam and qualitatem significare: about substantiam significare and about actionem/ passionem significare, aIl these concepts are also res, not with a separate existence, but nevertheless with a real existence. E. g. Hieronymus Pardo, who took up the nominalist argument that the assumption of an intervening concept would lead to Infinite regress: cf. Ashworth 1974: 43. (20) Averroes in Aristotle (1562) Vol. 1, 1, fol. 68 v. (21) Zimara (Contradictiones) fol. 53 v., commenting on the De anime III textus 21 and 26 = r 6. 43Qa26 sqq. and 43{) b 26 sqq. (22) Kirwan Averroes in Aristotle (1562) Vol. VIII, Met. V, textus 34: fol. 141. The chimaera not only poses a problem of truth, but as a true figmentum it exemplifies that which it is impossible to comprehend, in the sense that it signifies something which has the essential characteristics of “lion”, “woman”, and “dragon”. That Bordoni does not use the chimaera here is so more remarkable as he did know why ‘chimaera’ is a complicated example. As it is described in Bordoni’s exercitatio on which Goclenius comments. Ac aliquando sine hac specie intellectus intelligit, nempe cum intellectus recepta species exsinuat se ipsum et speciem ipsam intelligit. Id est ipsam speciem cognoscit esse rei notionem, non autem rem. Hzc intellectio est animi action. I cannot therefore entirely agree with Stefanini in calling Scaliger “a modest mentalist”. For signification is the forma of a word, not something separate from it. Est st enim forma dictionis signification. -- intelligibilis.   -- the he human him. Sgnificare   nevertheless of and exemplifies which: know 3v.,::   species rei. 1cannot therefore entirely agree with Stefanini in calling Scaliger te mentaliste ».  ACKRILL, J. L. (1 Aristotles Categories and De interpretatione, Translated with. Notes and Glossary, Oxford, Oxford University Press.   ACKRILL, J. L. Aristotles Categories and De interpretatione, Translated with. Notes and Glossary, Oxford, Oxford University Press.   50 JENSEN: Scaliger''s concept of signification   APEL, K. O. Die Idee der Sprache in der Tradition des Humanismus von Dante bis Vico, Bonn, Bouvier Verlag. APEL, K.-O. («The Transcendental Conception of Language Communication and the Idea of a First Philosophy», in Parret, 1976, 32-61. ARISTOTLE (1562). Opitra cum Auerrois commentariis, I-VIII, Venice, apud Iunctas. (repr. Frankfurt am Main, 1962). ASHWORTH Language and Logic in the Post-Medieval Period,   Dordrecht & c., Reidel. ASHWORTH. Chimeras and Imaginary Objects: A Study in the Post-Medieval Theory of Signification» Vivarium. BILLANOVICH «Benedetto Bordon e Giulio Cesare Scaligero» Italia medioevale e u~ anistica, XI,. pp. 187-256. BOLER Intuitive and Abstractive Cognition» in Kretzman et al., 1982, 460-478. COPPLESTON, F. A History ofPhilosophy, vol. 1-9, Paperback ed., New York, Doubleday. 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Grice e Borelli – del moto – origine della vita – fitotropismo, geotropismo, tacto-tropismo. filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I would call Borreli a Griceian; I never took Sraffa’s rude Neapolitan gesture too seriously, but Borelli, like Vitters, does – as he notes, a bended wrist can mean, the utterer by moving his hands this or that way IMPLICATES that p – or q; I certainly allows my ‘utter’ to cover such cases – ‘express’ – but Borreli is into the mechanics of it!” La ricostruzione della vita di Borelli si basa sull'epistolario che Borelli tiene con Viviani, Marchetti, Magliabechi e Marcello Malpighi. Figlio di Michele Alfonso Alonzo, soldato di fanteria del presidio distaccato al Castel Nuovo di Napoli.Il padre fu processato per aver favorito la fuga del Campanella dal Castel Nuovo, e fu condannato alla pena capitale, che gli fu poi commutata nell'esilio a Roma. Questo ultimo sarà il luogo dove Borelli effettua i suoi studi diventando allievo di Castelli. Insegna matematica prima a Messina a Pisa, dove fonda la Societa degl’Investigandi. Si ritira a Roma dove fonda la Societa dell'Esperienza Fisica-Matematica. A Roma frequenta le lezioni di idrodinamica di Castelli. Castelli gode di una notevole fama e fu certamente in quell'occasione che Borelli comincia ad appassionarsi alla fisica e, in particolare, alla meccanica classica. Chiaramente questo periodo e decisivo per il suo indirizzo culturale in quanto gli permise di elaborare quella metodologia di pensiero grazie alla quale lascia impresso il suo nome nella storia. Borelli infatti utilizza l'applicazione della matematica della meccanica e del metodo sperimentale, proprio della scuola galileiana, per risolvere i problemi biologici.Borelli fu chiamato dal senato accademico dell'Messina, grazie in parte alla raccomandazione del Castelli, al fine di occupare la nuova lettura de matematiche. L'Messina lo tenne in gran conto e gli fornì i mezzi per viaggiare e mettersi in contatto con i professori delle altre università. Borelli pubblica la risoluzione di alcuni problemi geometrici di Pietro Emanuele Scoppia una epidemia in Sicilia che da l'occasione a Borelli di scrivere la sua prima opera da medico. L'opera intitolata “Cagioni delle febbri maligne in Sicilia” e pubblicata a Cosenza. La precisione con la quale Borelli tratta questa ‘febbre maligna’ conferma ulteriormente che egli già in precedenza aveva raggiunto notevoli conoscenze mediche.  Lasciò Messina al fine di occupare la cattedra di matematica a Pisa, conferitagli dal Granduca Ferdinando II. Tenne la sua prima lezione pisana ma con scarso successo. Non passa molto tempo però che quegli stessi allievi dovettero ricredersi sulle qualità del maestro. Tra i suoi più illustri discepoli, merita di essere citato Marchetti. Il soggiorno pisano si rivela di grandissima importanza al fine di plasmare l'orientamento scientifico di Borelli, che già alla scuola del Castelli si era andato rafforzando. Per sottolineare l'importanza del soggiorno pisano è giusto considerare che il territorio di Pisa ha visto passare i più illustri medici del tempo: Vesalio, Colombo, Cesalpino, Galilei infine che era stato a Pisa per conseguire il titolo di dottorato, ma poi finì per insegnare matematica. Sebbene tra i medici appena nominati Galilei possa sembrare estraneo al loro campo non bisogna escluderlo del tutto. La tradizione galileiana infatti trae nuove risorse grazie alla fondazione del Cimento che ha costituito un evento di notevole importanza per l'evoluzione del progresso scientifico. Della suddetto Cimento ha parte Viviani, Dati, Segni, Redi, Torricelli, Oliva (di Reggio Calabria), e Borelli. Il motto del Cimento e “provando e riprovando”. Col Cimento viene dato credito al metodo sperimentale galileiano in contrapposizione al principio di autorità del metodo aristotelico. Borelli da un contributo notevole a ogni importante esperienza del Cimento. Tozzetti si riferisce a Borelli come uno dei maggiori luminari del Cimento. Borelli pubblica “L’Euclides restitutus” di notevole importanza matematica. Sccessivamente si dedica alla traduzione del “Dei conici” di Apollonio. Pisa si presenta come il teatro di una epidemia di febbri. Borelli studia questo morbo e ne fa una descrizione in alcune lettere che inviò a Malpighi. Pubblicò il De rerum usu, completando le osservazioni anatomiche del Bellini L. con delle osservazioni fisiologiche. Si occupa anche di astronomia, in particolare della cometa che era apparsa. Nel Theoricae medieorum planetarum ex causis phisicis deductaem si interessa del movimento dei satelliti di Giove. Borelli, parallelamente alle esperienze di matematica e fisica, si occupa di anatomia e soprattutto di fisiologia. Queste ultime esperienze gli sono di estremo aiuto per la successiva elaborazione del De motu animalium. Sia l'anatomia che la fisiologia compiono in questi momenti dei progressi significativi, soprattutto grazie all'applicazione del metodo sperimentale alla fisiologia (Harvey con la dimostrazione della circolazione del sangue). In questo period, l'intento principale è quello di abbandonare il cieco empirismo al fine di porre le basi di quella che sarà la medicina moderna. Sotto questi auspici nasce, grazie anche a Borelli, un nuovo movimento, la scuola iatro-meccanica che agli inizi viene anche chiamata scuola iatro-matematica. Tuttavia, già sorgeno i primi dissidi e le prime inimicizie tra i membri del Cimento; Borelli e in dissidio soprattutto con Viviani, per cui cominciava a maturare il convincement odi ritornare a Messina. Borelli scrive al Principe Leopoldo e manifesta l'intenzione di lasciare Pisa adducendo il pretesto della salute. La partenza di Borelli dispiacce al Principe Leopoldo, il quale tuttavia non lo priva della sua stima. Secondo Francesco Redi, Borelli si pente di aver lasciato Pisa. Con il ritorno a Messina si chiude la fase più feconda di risultati nella vita di Borelli. Il ritorno di Borelli a Messina fu molto gradito dai cittadini di questa città, grazie sia al ricordo che conservano e sia per la fama che Borelli aveva conquistato in Toscana. Nella città sicula, Borelli riprese l'attività di docente impegnandosi sullo studio dei fenomeni riguardanti l'astronomia e la fisiologia. Pubblicò le Osservazioni intorno alle virtù ineguali degli occhi. E incaricato dalla Royal Society di Londra per studiare l'eruzione dell'Etna. Alla descrizione dell'eruzione del vulcano fatta da Borelli si interessa anche il Principe Leopoldo.  Durante il soggiorno messinese, Borelli frequenta il palazzo del Visconte Ruffo, luogo nel quale, a quanto sembra, si cospira contro il regime. Questa attività cospiratrice culmina  in una congiura, a quale, oltre a non provocare nessuna alterazione nella situazione politica, ha conseguenze disastrose per la cultura dell'isola. Borelli, per le sue idee e per il suo operare in nome della libertà e dell'indipendenza, e accusato di ribellione e dovette espiare la sua colpa a Roma. Borelli raggiunse Roma. Il poco avere che era riuscito a portare con sé gli fu derubato da un servo infedele. Malgrado queste tristi condizioni, non abbandona l'attività intellettuale, anzi riprese lo studio al fine di portare a termine la sua più grande opera, il De motu animalium. Fortunatamente  Borelli incontra a Roma la regina Cristina di Svezia, la quale avrebbe poi patrocinato la pubblicazione della sua opera capitale. A causa delle condizioni economiche in cui versa, Borelli dove accettare l'ospitalità offertagli da B. Carlo Giovanni di Gesù nella sua casa di San Pantaleo. Il De motu animalium rappresenta il suo ultimo grande contributo per la conoscenza scientifica infatti, mentre lavora su questa opera, fu colpito dalla malattia, probabilmente polmonite. Prima di morire, Borelli, raccomanda la pubblicazione del De motu animalium a B. Carlo Giovanni di Gesù. L'opera più conosciuta del Borelli è il trattato De Motu Animalium, con il quale cerca di spiegare il movimento del corpo dei uomoni basandosi su principi meccanici, tentando di estendere all'ambito biologico il metodo di analisi geometrico-matematica elaborato da Galilei in ambito meccanico e per il quale si guadagna il titolo di padre della iatromeccanica. Borelli si occupa anche di astronomia, elaborando una teoria generale sul moto dei pianeti, seppure limitatamente ai satelliti di Giove. Si suppone che la decisione di limitare lo studio a tali corpi fosse stata dettata dall'opportunità di non andare in contrasto con le teorie geocentriche imposte dalla Chiesa. Nel suo studio Theoricae mediceorum planetarum, sostiene che tutti i satelliti abbiano una naturale tendenza ad avvicinarsi a Giove, mentre la loro orbita circolare intorno ad esso li spingerebbe ad allontanarsene. Le forze contrapposte si equilibrerebbero: l'attrazione verso Giove sarebbe costante mentre la spinta contraria sarebbe inversamente proporzionale alla distanza dei satelliti da Giove. Borelli giustifica il moto delle orbite e la loro forma ellittica come una combinazione di forze tra "l'attrazione dei raggi solari" e i "raggi motori" originati da Giove.  Giovanni Alfonso Borelli, continuando i tentativi di Galileo sulla misurazione della velocità della luce, eseguì un esperimento utilizzando un sistema di specchi riflettenti sulla distanza tra Firenze e Pistoia, circa 35 km. Questo metodo fu poi ripreso da Fizeau che riuscì a valutare una velocità di 283.000 km/s, molto vicino alla misura esatta.  Altre opere: “Cagioni delle febbri maligne in Sicilia”; “Della cagioni delle febbri maligni” (Pisa); “Euclides restitutus, sive prisca geometriae elementa, brevius, et facilius context” (Pisa); “De Renum usu Judicium” (Strasburgo); “Lettera del movimento della cometa apparsa a Pisa”; “Theoricae mediceorum planetarum ex causis phisicis deductae” (Pisa); “De Vi Percussionis, et Motionibus Naturalibus a Gravitate Pendentibus” (Bologna); “Osservazioni intorno alle virtù ineguali degli occhi” (Messina); “Meteorologia Aetnea, seu historia et methereologia incendi Aetnei” (Reggio Calabria); “De motionibus naturalibus a gravitate pendentibus” (Bologna); “De Motu Animalium. (Roma), Lettere di Borelli ad Alessandro Marchetti, Lettere di Giovanni Alfonso Borelli, dirette una a Malpighi, le altre a Magliabechi. Napoli. La scuola di Roma. Alfonso Borelli, fisico: Celebrazione dell'Accademia del Cimento nel tricentenario della fondazion, Pisa. Dal Borelli al Malpighi. La mécanique céleste de Giovanni Alfonso Borelli. Di una diversa soluzione di un problema di meccanica muscolare da parte di due medici matematici. Considerazioni sulle vedute neurofisiologiche. Spunti di neurofisiologia nel De Motu Animalium di Borelli. L'apparato motore nello studio di Borelli. Memoria della pontificia Accademia Romana dei Nuovi Lincei. Dizionario biografico degli italiani.  Wikipedia Ricerca Origine della vita possibili teorie sulla genesi della vita da materia non vivente Lingua Segui Modifica L'abiogenesi (dal greco a-bio-genesis, "origini non biologiche"), o informalmente l'origine della vita,[1][2][3] è il processo naturale con il quale la vita si origina a partire da materia non vivente, come semplici composti organici.[1][4][5]   La Terra per lungo tempo è stata pensata come l'unico luogo dove la vita si potesse sviluppare Il passaggio da sistema non vivente ad organismo vivente non è stato un singolo evento ma piuttosto un processo graduale di aumento di complessità del sistema.[6][7][8][9] L'abiogenesi è studiata combinando conoscenze di biologia molecolare, paleontologia, astrobiologia e biochimica per determinare come l'organizzazione crescente di reazioni chimicheabiotiche in sistemi non viventi abbia portato all'origine della vita sia sulla Terra che in altri luoghi dell'universo, dopo un po' di tempo dalla sua nascita (che si fa risalire ad un evento colossale noto con il nome di Big Bang, che si stima sia avvenuto circa 13,8 miliardi di anni fa) fino ai giorni nostri.[10]  Inizi Modifica L'origine della vita sulla Terra è databile entro un periodo compreso tra i 4,4 miliardi di anni fa quando l'acqua allo stato liquido comparve sulla superficie terrestre[11] e i 2,7 miliardi di anni fa quando la prima incontrovertibile evidenza della vita è verificata da isotopi stabili[12][13] e biomarcatori molecolari che mostrano l'attività di fotosintesi.[14][15]. Si ritiene comunque che la vita abbia avuto origine intorno ai 3,9 miliardi di anni fa, quando la terra iniziò a raffreddarsi fino ad una temperatura alla quale l'acqua poté trovarsi diffusamente allo stato liquido; lo avvalorano le scoperte di strutture microbiche risalenti a 3,7 miliardi di anni fa nelle rocce verdi di Isua, in Groenlandia[16]. Inoltre varie campagne di ricerca hanno attestato la presenza di cianobatteri fossili racchiusi in rocce stromatolitiche dell'Australia occidentale dell'età di circa 3,5 miliardi di anni[17]. Uno studio recente ha analizzato possibili microfossili, individuati come filamenti di ematite presenti in campioni prelevati dal Nuvvuagittuq Supracrustal Belt, datandoli tra i 3,75 miliardi di anni fa e i 4,28 miliardi di anni fa. Se lo studio venisse confermato sarebbe la prova che la formazione della vita sulla Terra sia avvenuta in tempi molto rapidi dopo la sua formazione.[18]  Il concetto di origine della vita è stato trattato fin dall'antichità nell'ambito di diverse religioni e nella filosofia: con lo svilupparsi di modelli scientifici spesso in contrasto con quanto letteralmente affermato nei testi sacri delle religioni, l'origine della vita è diventato tema di dibattito tra scienza e fede.[19] Dal punto di vista scientifico la spiegazione dell'origine della vita parte dal presupposto fondamentale che le prime forme viventi si originarono da materiale non vivente.  Spiegazioni Modifica L'interrogativo su come si originò la vita sulla Terra si pose soprattutto in seguito allo sviluppo della teoria della evoluzione per selezione naturale, elaborata in modo indipendente da A.R. Wallace e da C.R. Darwinnel 1858, la quale suggeriva che tutte le forme di vita sono legate da relazioni di discendenza comune attraverso ramificati alberi filogenetici che riconducono ad un unico progenitore, estremamente semplice dal punto di vista biologico. Il problema era capire come si originò questa semplice forma primordiale, presumibilmente una cellula molto simile ai moderni procarioti e contenente l'informazione genetica, conservata negli acidi nucleici, oltre a proteine e altre biomolecole indispensabili alla propria sopravvivenza e riproduzione. Il processo evolutivo che ha portato alla formazione di un sistema complesso e organizzato (ovvero il primo essere vivente) a partire dal mondo prebiotico è durato centinaia di milioni d'anni ed è avvenuto attraverso tappe successive di eventi, che dopo un numero elevato di tentativi hanno portato a sistemi progressivamente più complessi.  La prima tappa fondamentale è stata la produzione di semplici molecole organiche, come amminoacidi e nucleotidi, che costituiscono i mattoni della vita. Gli esperimenti di Stanley Miller e altri hanno dimostrato che quest'evento era realizzabile nelle condizioni chimico-fisiche della Terra primordiale, caratterizzata da un'atmosfera riducente. Inoltre il ritrovamento di molecole organiche nello spazio, all'interno di nebulose e meteoriti ha dimostrato che queste reazioni sono avvenute anche in altri luoghi dell'universo, tanto che alcuni scienziati ritengono che le prime biomolecole siano state trasportate sulla Terra per mezzo di meteoriti.  Ultimi quesiti Modifica La questione più difficile è spiegare come da questi semplici composti organici, concentrati nei mari in un brodo primordiale, poterono formarsi delle cellule dotate dei requisiti minimi essenziali per poter essere considerate viventi, cioè la capacità di utilizzare materiali presenti nell'ambiente per mantenere la propria struttura, organizzazione e potersi riprodurre. Molti scienziati hanno cercato di chiarire attraverso ipotesi ed esperimenti le tappe fondamentali che hanno condotto alla vita, tra cui l'origine dei primi polimeri biologici e tra questi di una molecola capace di produrre copie di se stessa, il replicatore, dal quale derivano i nostri geni e la formazione delle prime membrane biologiche, che hanno creato dei compartimenti isolati dall'ambiente esterno, nei quali si sono evoluti i primi sistemi di reazioni e le prime vie metaboliche catalizzate da enzimi. Nonostante ciò, la ricostruzione della storia della vita presenta ancora molti interrogativi, concernenti soprattutto la successione degli eventi. I progressi in questo campo di ricerca sono ostacolati dalla carenza di reperti fossilie dalla difficoltà di riprodurre questi processi in laboratorio.  Storia del concetto nella scienza Modifica La teoria della generazione spontanea Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Generazione spontanea.  Un testo del 1658 raffigurante degli insetti. Prima del 1668 si pensava che gli insetti prendessero vita per "generazione spontanea". Per generazione spontanea (o abiogenesi) si intende la credenza, molto diffusa dall'antichità fino al XVII secolo, secondo cui la vita possa nascere in modo "spontaneo" dalla materia inerte o inanimata, tramite l'effetto di "flussi vitali".  Si riteneva che Dio avesse creato direttamente solo gli esseri viventi "superiori" (come l'uomo e i grandi animali), mentre quelli "inferiori" (come i vermi e gli insetti) potessero nascere spontaneamente dal fangoo da carcasse in putrefazione.  A tale riguardo, il chimico Jean Baptiste van Helmontarrivava a fornire la seguente ricetta per "creare dei topi":  Lascia una camicia sporca o degli stracci in un contenitore, come una pentola o un barile, aperto contenente alcuni chicchi di grano o mangime e in 21 giorni appariranno dei topi. Vi saranno esemplari maschi e femmine adulti e in grado di accoppiarsi e riprodurre altri topi. Questa teoria fu confutata nel XVII secolo, grazie ad alcuni esperimenti di Francesco Redi e di Lazzaro Spallanzani.  Francesco Redi nel 1668,[21] per determinare se avvenisse o meno il processo di generazione spontanea, effettuò un rigoroso esperimento a proposito, che rappresenta un classico esempio di applicazione del metodo sperimentale alla biologia.   Esperimento di Francesco Redi sull'abiogenesi. Un pezzetto di carne è inserito in un barattolo in vetro; nel barattolo aperto (1a e 1b) si ha comparsa di larve e mosche, mentre nel barattolo chiuso (2a e 2b) non si formano né mosche né larve. Redi prese otto barattoli, in ognuno dei quali introdusse pezzi di diversi animali: un serpente, dei pesci, delle anguille ed un pezzo di carne di bue, e li divise in due gruppi di quattro:  Senza tappo ('gruppo di controllo', in cui venivano riprodotte le condizioni presenti nei luoghi dove "la generazione spontanea" era più evidente, quali macellerie, etc.) Con tappo ('gruppo sperimentale') Nei barattoli del gruppo di controllo si osservarono delle mosche, che venivano a diretto contatto con la carne e, dopo poco tempo, si sviluppavano diverse larve. Nei barattoli tappati non furono ritrovate né larve, né mosche.  Da questi risultati Redi dedusse che le mosche potevano essere generate solo da altre mosche: nel barattolo aperto, le mosche erano entrate e avevano deposto le loro uova sulla carne; nel barattolo chiuso, invece, le mosche, impossibilitate ad entrare, non erano riuscite a depositare le loro uova sulla carne.  Questi risultati non erano ancora conclusivi, poiché Redi, per eliminare qualsiasi dubbio sulla possibilità che la mancata circolazione d'aria, nei recipienti chiusi, poteva aver in qualche modo interferito con lo sviluppo delle larve, eseguì un altro esperimento nel quale i barattoli del gruppo sperimentale furono chiusi con della garza, che permetteva la circolazione dell'aria, impedendo l'ingresso delle mosche. Anche in questo caso non si svilupparono larve, confermando i precedenti risultati sperimentali.  Col passare degli anni la teoria della generazione spontanea venne progressivamente abbandonata. Tuttavia, l'avvento, lo sviluppo e il perfezionamento del microscopio portò ad una generale ripresa della teoria, poiché si scoprirono altre forme di vita, prima sconosciute, come funghi, batteri e vari protozoi: si notò infatti che bastava mettere delle sostanze organiche in decomposizione in un luogo caldo per breve tempo e delle strane "bestiole viventi" apparivano sulla superficie.  Nel 1745-1750, John Turberville Needham,[22] un ecclesiastico e naturalista inglese, partendo dall'osservazione che i microrganismi crescevano rigogliosamente in varie zuppe, ottenute dall'infusione di carne o vegetali, quando queste erano esposte all'aria, concluse che all'interno di tutta la materia, inclusi l'aria e l'ossigeno, era presente una "forza vitale" responsabile della generazione spontanea.[23]Per avvalorare questa tesi, egli bollì per pochi minuti alcune delle sue zuppe, al fine di eliminare eventuali microbi contaminanti, e le versò in beute "pulite", chiuse con tappi di sughero; anche in questo caso, tuttavia, osservò la crescita dei microrganismi.  Alcuni anni più tardi (1765), Lazzaro Spallanzani,[24] un abate e biologo italiano, non convinto delle conclusioni di Needham, condusse degli esperimenti simili con diverse variazioni, applicando un metodo più rigoroso: innanzitutto, egli sottopose ad ebollizione di un'ora le zuppe, poi sigillò le beute di vetro che contenevano il brodo fondendo le aperture. Il brodo ottenuto era sterile e non si rilevò la crescita di microrganismi nemmeno dopo diversi giorni. In un gruppo di controllo, bollì il brodo solo per alcuni minuti e osservò che in queste beute crescevano microorganismi. In un terzo gruppo bollì il brodo per un'ora, ma chiuse le beute con tappi di sughero (che erano larghi abbastanza per il passaggio dell'aria) ed anche in questo osservò lo sviluppo di microorganismi. Spallanzani concluse che, mentre un'ora di bollitura sterilizzava la zuppa, pochi minuti non erano sufficienti per uccidere tutte le forme viventi inizialmente presenti ed inoltre che i microorganismi potevano essere anche trasportati dall'aria, come era avvenuto nelle beute del terzo gruppo.  Questi risultati accesero un'animata discussione tra Spallanzani e Needham riguardo alla sterilizzazione come metodo per confutare la generazione spontanea. Needham affermò che l'eccessiva bollitura del brodo usata per sterilizzare i contenitori aveva ucciso la "forza vitale", mentre la breve ebollizione non era stata sufficientemente gravosa per distruggerla, cosicché i microbi erano ancora capaci di svilupparsi. Inoltre sostenne che l'uso di contenitori sigillati impediva l'ingresso della forza vitale. Contrariamente, nei contenitori aperti, l'aria fresca poteva entrare, dando così l'avvio alla generazione spontanea.[25]   Un gruppo di formiche mentre si cibano della carcassa di un serpente. Probabilmente l'ipotesi della "generazione spontanea" è nata da interpretazioni erronee di osservazioni di fenomeni di questo genere. Quando la controversia divenne troppo vivace, l'Accademia delle Scienze di Parigi offrì un premio a chiunque fosse stato in grado di fare luce sull'argomento. Il premio fu vinto nel 1864 da Louis Pasteur, che attraverso un semplice esperimento riuscì a confutare la teoria della generazione spontanea. Egli impiegò per i suoi esperimenti dei matracci a collo d'oca, che permettevano l'entrata dell'ossigeno, elemento indispensabile allo sviluppo della vita, ma impedivano che il liquido all'interno venisse a contatto con agenti contaminanti come spore e batteri. Egli bollì il contenuto dei matracci, uccidendo così ogni forma di vita all'interno, e dimostrò che i microrganismi riapparivano solo se il collo dei matracci veniva rotto, permettendo così agli agenti contaminanti di entrare.  Attraverso questo semplice, ma ingegnoso esperimento Louis Pasteur fu in grado di confutare definitivamente la teoria della generazione spontanea e, come lui stesso disse in una serata scientifica alla Sorbona di Parigi:  Mai la teoria della generazione spontanea potrà risollevarsi dal colpo mortale inflittole da questo semplice esperimento. Verso le teorie moderne Modifica In una lettera a Joseph Dalton Hooker del 1º febbraio 1871, Charles Darwin suggerì che l'iniziale scintilla della vita poteva essersi verificata in un "piccolo e tiepido stagno, contenente ammoniaca e sali fosforici, luce, calore, elettricità, ecc., in modo che una proteinafosse chimicamente prodotta pronta per subire nuovi e più complessi cambiamenti". Egli proseguiva spiegando che "oggi tale materia sarebbe istantaneamente divorata o assorbita, cosa che non sarebbe avvenuta prima della formazione delle creature viventi". In altre parole, la presenza della vita stessa evita che la generazione spontanea di semplici composti organici avvenga sulla Terra oggi; una circostanza che rende la ricerca dell'origine della vita dipendente dalle condizioni sterili del laboratorio.  Un approccio sperimentale alla questione era oltre le possibilità della scienza di laboratorio ai tempi di Darwin, e nessun progresso reale fu compiuto fino al 1924, quando Aleksandr Ivanovič Oparin intuì che fu la carenza di ossigeno atmosferico a precedere la catena degli eventi, la quale avrebbe condotto all'evoluzione della vita. In effetti, secondo Oparin, il catalizzatore delle prime reazioni fu costituito dalla radiazione ultravioletta la quale, in presenza di ossigeno, sarebbe stata prontamente schermata dalla formazione di ozono. Tale meccanismo è spiegato nella pubblicazione dello scienziato intitolata L'origine della vita sulla Terra, in cui Oparin ipotizzò che, in un'atmosfera povera di ossigeno e per azione della luce solare, si sarebbero prodotte molecole organiche, le quali, accumulate nei mari primitivi, avrebbero formato un "brodo primordiale". Queste prime sostanze organiche si sarebbero combinate formando molecole sempre più complesse, fino ad arrivare ai coacervati. Queste goccioline, simili nell'aspetto alle attuali cellule, si sarebbero accresciute per fusione con altre gocce e riprodotte attraverso la divisione in gocce figlie, ottenendo così un metabolismoprimordiale in cui quei fattori che promuovevano l'integrità cellulare si mantenevano, al contrario degli altri che si estinguevano. Molte teorie moderne sull'origine della vita mantengono l'idea di Oparin come punto di partenza.  Modelli correnti Modifica  Stromatoliti risalenti al Precambriano nella Formazione di Siyeh Formation, Glacier National Park. Nel 2002, William Schopf della UCLA pubblicò un controverso articolo sul giornale scientifico Nature affermando che formazioni geologiche come quelle appartenessero ad alghemicrobiche fossilizzate di 3,5 miliardi di anni fa. Se fosse vero, si tratterebbe della prima forma di vita conosciuta sulla Terra. In verità non esiste un modello standard dell'origine della vita. Tuttavia i modelli attualmente accettati si basano su alcune scoperte circa l'origine delle componenti molecolari e cellulari della vita, che sono elencate qui sotto:  Le condizioni pre-biotiche hanno permesso lo sviluppo di talune piccole molecole (monomeri) basilari per la vita, come gli amminoacidi. Questo fu dimostrato nel corso dell'esperimento di Miller-Urey da Stanley Miller e Harold Urey nel 1953. I fosfolipidi (se di lunghezza appropriata) possono spontaneamente formare un doppio strato, componente base della membrana cellulare. La polimerizzazione di nucleotidi in molecole casuali di RNA potrebbe aver originato i ribozimiautoreplicantisi (ipotesi del mondo a RNA). Una selezione naturale diretta verso una maggiore efficienza catalitica e diversità ha prodotto ribozimi dotati di attività peptidil-trasferasica (di qui la sintesi di piccole proteine), dalla formazione di complessi tra oligopeptidi e molecole di RNA. Nacque così il primo ribosoma, e la sintesi proteica divenne più prevalente. Le proteine hanno superato i ribozimi per abilità catalitica, divenendo quindi i biopolimeri dominanti. Gli acidi nucleici sono stati limitati ad una funzione prettamente genomica. Esistono dubbi sull'esatto ordine cronologico delle tappe 2 e 3, poiché la comparsa dell'RNA autoreplicante potrebbe aver preceduto la formazione delle prime membrane biologiche. L'origine delle biomolecole fondamentali, benché non stabilita, è meno controversa. Le sostanze fondamentali da cui si pensa che la vita si sia formata sono:  metano (CH4) ammoniaca (NH3) acqua (H2O) acido solfidrico (H2S) anidride carbonica (CO2) o monossido di carbonio(CO) fosfati (PO43-). L'ossigeno molecolare (O2) e l'ozono (O3) erano entrambi rari o assenti.  È stata sintetizzata una "protocellula" usando componenti base, che avesse le proprietà necessarie per la vita attraverso il cosiddetto "approccio dal basso verso l'alto" (in inglese: "bottom-up")[27]. Alcuni ricercatori stanno lavorando in questo campo, in particolare Steen Rasmussen al Los Alamos National Laboratory e Jack Szostak all'Harvard University. Altri ricercatori ritengono più attuabile un "approccio dall'alto verso il basso" (in inglese: "top-down"). Un tale approccio, tentato da Craig Venter e da altri al The Institute for Genomic Research, comporta la modifica di cellule procariote esistenti, per ottenere cellule con un numero sempre minore di geni, tentando di discernere a che punto i requisiti minimi per la vita sono raggiunti. Il biologo John Desmond Bernal coniò per tale processo il termine Biopoiesi e suggerì che vi erano alcuni "stadi" chiaramente definiti che potevano essere riconosciuti per spiegare l'origine della vita:  stadio 1: l'origine dei monomeri biologici stadio 2: l'origine dei polimeri biologici stadio 3: l'evoluzione dalle molecole alla cellula. Bernal suggerì che l'evoluzione Darwiniana doveva essere iniziata presto, in un periodo compreso tra gli stadi 1 e 2.  Il biologo evolutivo Eugene Koonin ha proposto dei calcoli[28] che suggeriscono che le probabilità in gioco diventano ammissibili per giustificare la possibilità di pervenire al sistema di traduzione/replica mediante la selezione darwiniana solo se si accetta la teoria del multiverso.  Origine delle molecole organiche Modifica Esperimenti di Miller Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esperimento di Miller-Urey e Ipotesi del mondo a IPA. Nel 1953 un neolaureato, Stanley Miller, ed il suo professore, Harold Urey, realizzarono un esperimento che provò che molecole organiche si sarebbero potute formare spontaneamente sulla Terra primordiale da precursori inorganici. In quello che è passato alla storia come "esperimento di Miller" si fece uso di una soluzione gassosa altamente riducente, contenente metano, ammoniaca, idrogeno e vapore acqueo, per formare, sotto l'esposizione di una scarica elettrica continua, alcuni monomeri organici di base, come gli amminoacidi. Resta argomento controverso se la soluzione di gas utilizzata nell'esperimento riflettesse davvero la composizione dell'atmosfera della Terra primordiale. Altri gas meno riducenti producono una minore quantità e varietà di prodotti. Un tempo si pensava che nell'atmosfera prebiotica fossero presenti quantità apprezzabili di ossigeno molecolare, che avrebbe essenzialmente prevenuto la formazione di molecole organiche; tuttavia, la comunità scientifica odierna ritiene che tale ipotesi sia fuorviante.  Nel 1961 Joan Oró, dell'Università di Houston, preparò una soluzione acquosa contenente ammoniaca ed acido cianidrico, un composto che si formava nell'atmosfera riducente proposta da Miller, ed ottenne, insieme agli amminoacidi, grandi quantità di adenina, una base azotata presente sia negli acidi nucleici che nell'ATP. Anche le altre basi azotate sono state ottenute in esperimenti simili, da reazioni tra l'acido cianidrico ed altri composti che potrebbero essersi originati nell'atmosfera primordiale, come il cianogeno ed il cianoacetilene.[29]   Cyril Ponnamperuma nei laboratori NASA durante un esperimento per verificare la possibilità della vita su Giove, nel solco del noto esperimento di Stanley Miller. Immettendo scariche elettriche in una miscela di acetilene e metano a bassissime temperature si formano catene di polimeri. Nel 2006 un altro esperimento mostrò che una densa foschia organica avvolgeva la Terra primordiale.[30]Una tale foschia organica poteva dar luogo alle grandi concentrazioni di metano e anidride carbonica che si ritiene fossero presenti nell'atmosfera della Terra a quel tempo. Una volta formate, tali molecole organiche sarebbero ricadute sulla superficie terrestre, consentendo la fioritura della vita a livello globale.[31]  Le molecole organiche di questo tipo sono, ovviamente, molto distanti da una forma di vita pienamente compiuta ed autoreplicantesi, ma in un ambiente privo di forme di vita preesistenti, queste molecole si sarebbero accumulate ed avrebbero fornito un ambiente ricco per l'evoluzione chimica("brodo primordiale"). D'altro canto la formazione spontanea di polimeri complessi da monomeri generati abioticamente in tali condizioni non è un processo diretto. Inoltre alcuni isomeri dei monomeri organici fondamentali, che avrebbero evitato la formazione di polimeri, si sono formati in elevate concentrazioni nell'esperimento.  Sono state ipotizzate altre sorgenti di molecole complesse, incluse quelle di origine extra-terrestre o interstellare. Per esempio, da analisi spettrali, si sa che tali molecole organiche sono presenti su comete e meteoriti. Nel 2004, un'équipe trovò in una nebulosatracce di idrocarburi policiclici aromatici (IPA), attualmente il tipo di molecole più complesse mai rinvenuta nell'universo. Gli IPA sono stati anche proposti come precursori dell'RNA nella cosiddetta "ipotesi del mondo a IPA".  Si può obiettare che la questione cruciale a cui questa teoria non fornisce una risposta esauriente è come le molecole organiche relativamente semplici si siano polimerizzate a formare strutture più complesse, fino alla protocellula. Per esempio, in ambiente acquoso l'idrolisi degli oligomeri/polimeri nei loro monomeri costituenti è favorita rispetto alla condensazione dei singoli monomeri in polimeri. Ancora, l'esperimento di Miller produce varie sostanze che potrebbero dar luogo a reazioni di doppio scambio con gli amminoacidi o bloccare la crescita della catena peptidica.  Esperimenti recenti che si rifanno agli esperimenti di Miller Modifica Negli anni cinquanta e sessanta, Sidney W. Fox studiò la formazione spontanea di strutture peptidiche in condizioni che potrebbero essersi verificate nella Terra primordiale. Egli dimostrò che gli amminoacidi potevano spontaneamente formare piccoli peptidi. Tali amminoacidi e piccoli peptidi potevano essere indotti a formare membrane sferiche chiuse, chiamate "microsfere".[32] Esperimenti più recenti compiuti dal chimico Jeffrey Bada presso la Scripps Institution of Oceanography (La Jolla, California) sono simili a quelli eseguiti da Miller. Comunque, Bada notò che nei modelli correnti delle condizioni della Terra primordiale, il biossido di carbonio e l'azoto formano nitriti, che distruggono gli amminoacidi appena si formano. Tuttavia, sulla Terra primordiale dovevano essere presenti quantità rilevanti di ferro e carbonati in grado di neutralizzare gli effetti dei nitriti. Quando Bada eseguì un esperimento che ricalcava quello di Miller con l'aggiunta di ferro e minerali carbonati, i prodotti risultarono ricchi di amminoacidi. Questo suggerisce che l'origine di quantità significative di amminoacidi possa essere avvenuta nella Terra primordiale anche se nell'atmosfera erano presenti biossido di carbonio e azoto.[33]  Ipotesi di Eigen Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Teoria delle quasispecie. All'inizio degli anni settanta, un'équipe di scienziati riuniti intorno a Manfred Eigen dell'Istituto Max Planckcercò di risolvere definitivamente il mistero dell'origine della vita. Essi cercarono di esaminare i passaggi di transizione tra il caos molecolare nel brodo primordialee un sistema autoreplicantesi di semplici macromolecole.  In un "iperciclo", il sistema di memorizzazione dell'informazione (forse l'RNA) produce un enzima, che catalizza la formazione di un altro sistema di informazione, e così via in sequenza, finché il prodotto dell'ultimo aiuta nella formazione del primo sistema di informazione. Trattati matematicamente, gli ipercicli possono dar luogo a quasispecie, che attraverso la selezione naturale entrarono in una forma di evoluzione darwiniana. Una spinta alla teoria dell'iperciclo fu la scoperta che l'RNA in certe circostanze si trasforma in ribozimi, una forma di enzimi.  Ipotesi di Wächtershäuser Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Teoria del mondo a ferro-zolfo.  Una fumarola neranell'oceano Atlantico. Un'altra possibile risposta all'enigma della polimerizzazione venne fornita negli anni ottanta da Günter Wächtershäuser nella sua teoria del mondo a ferro-zolfo. In questa teoria, egli postulò l'evoluzione sottomarina di pathways (vie metaboliche) biochimici come fondamento dell'evoluzione della vita.[34] Inoltre, presentò un consistente sistema per tracciare un percorso retrospettivo dalla biochimica moderna fino alle reazioni ancestrali, le quali fornirono i pathways alternativi per la sintesi di mattoncini organici da semplici composti gassosi.  In contrasto con l'esperimento di Miller classico, che dipende da fonti di energia esterne (come la simulazione di fulmini o radiazione ultravioletta), i "sistemi di Wächtershäuser" funzionano con una risorsa energetica endogena, i solfuri di ferro e altri minerali come la pirite. La reazione di ossidoriduzione di questi solfuri metallici  {\displaystyle \mathrm {Fe^{2+}+FeS_{2} + H_{2}\leftrightharpoons \;2\  FeS+2\ H^{+}\;\;\,\Delta G^{0}=-\ 44,2\,kJ/mol} } libera energia che non solo è disponibile per la sintesi di molecole organiche, ma anche per la formazione di oligomeri e polimeri. È pertanto ipotizzato che tali sistemi possano evolvere in insiemi autocatalitici di entità metabolicamente attive e autoreplicantesi, che avrebbero preceduto le forme di vita oggi conosciute.  L'esperimento così eseguito produsse una quantità relativamente bassa di dipeptidi (dallo 0,4% al 12,4%) ed una ancora minore di tripeptidi (0,10%) e gli scienziati notarono che a quelle stesse condizioni i dipeptidi si idrolizzano rapidamente. Un'altra critica che si può muovere è che l'esperimento non includeva nessuna delle organomolecole che probabilmente avrebbero reagito o interrotto la catena.[35]  L'ultima modifica all'ipotesi ferro-zolfo fu apportata da William Martin e Michael Russell nel 2002. Nello scenario da loro ipotizzato, le prime forme di vita cellulari si sarebbero evolute all'interno di vulcanisottomarini sui fondali di mari molto profondi.   Schema biogeochimico dell'ecosistema dei vulcani sottomarini Queste strutture consistono di piccole caverne, coperte da leggeri muri membranosi formati da solfuri metallici. Pertanto, tali strutture risolverebbero molti punti critici dei sistemi puri di Wächtershäuser:  le micro-caverne forniscono un modo per concentrare le molecole appena sintetizzate, aumentando perciò la possibilità di formare oligomeri; i gradienti di temperatura nel vulcano permettono di raggiungere le condizioni ottimali per le reazioni parziali in differenti regioni del vulcano (sintesi dei monomeri in quelle più calde, oligomerizzazione nelle parti più fredde); lo scorrere di acqua idrotermale dalle strutture fornisce una fonte costante di energia e di molecole semplici (solfuri metallici appena precipitati); il modello consente una successione di diversi passaggi dell'evoluzione cellulare (chimica prebiotica, sintesi di monomeri e oligomeri, sintesi di peptidi e proteine, mondo dell'RNA, assemblaggio di proteine ribonucleari e mondo del DNA) in una singola struttura, facilitando lo scambio tra tutti gli stadi di sviluppo; la sintesi dei lipidi come mezzo di protezione delle cellule contro l'ambiente non è necessaria, fino a che tutte le basilari funzioni cellulari sono sviluppate. Questo modello localizza il LUCA ("Ultimo Antenato Comune Universale") nel vulcano sottomarino, piuttosto che assumerne l'esistenza come forma di vita libera. L'ultimo passo evolutivo sarebbe stata la sintesi di una membrana lipidica che, alla fine, avrebbe permesso agli organismi di abbandonare il sistema di microcaverne dei vulcani sottomarini e iniziare vite indipendenti. Questa acquisizione tardiva dei lipidi è coerente con la presenza di membrane lipidiche completamente diverse negli archaebatteri e negli eubatteri e con la notevole somiglianza di molti aspetti della fisiologia cellulare di tutte le forme di vita.  Ipotesi sull'origine dell'omochiralità Modifica  Alanina R e L Un'altra questione irrisolta nell'evoluzione chimica è l'origine dell'omochiralità, cioè la presenza negli organismi viventi di molecole organiche con la stessa configurazione (ad esempio, gli amminoacidi sono tutti nella configurazione L, mentre il ribosio e il deossiribosio degli acidi nucleici hanno configurazione D). L'omochiralità, spiegabile semplicemente con un'iniziale asimmetria, è essenziale per la formazione di ribozimi e proteine funzionali. Un lavoro eseguito da scienziati al Purdue identificò l'amminoacido serina come probabile causa prima dell'omochilarità delle molecole organiche.[36][37] La serina, infatti, forma legami particolarmente saldi con gli amminoacidi della stessa chiralità, risultando in un oligopeptide di circa otto molecole, nel quale gli amminoacidi hanno la stessa configurazione, D o L. Questa proprietà non è condivisa dagli altri amminoacidi, che sono in grado di formare legami deboli anche con amminoacidi di chiralità opposta. Benché il mistero sul perché la serina L divenne dominante sia ancora insoluto, questo risultato suggerisce una risposta alla questione della trasmissione chirale, poiché una volta che l'asimmetria si è stabilita, le molecole organiche di una chiralità diventano dominanti.  Uno studio su alcuni amminoacidi, ritrovati sul meteorite Murchison, dimostrava che c'era una maggiore percentuale di L-alanina e L-acido-glutammico rispetto ai corrispondenti enantiomeri D.[38] Da questi risultati si è formulata l'ipotesi di una probabile origine nello spazio dell'omochiralità. Secondo questa teoria, la luce polarizzata all'interno del disco protoplanetario potrebbe aver provocato una fotodecomposizione selettiva di uno dei due enantiomeri, conducendo a un eccesso dell'altro.[39]  Altri studi hanno dimostrato che il decadimento betapuò determinare una degradazione preferenziale dell'isomero D-leucina, in una miscela racemica. Quest'osservazione, associata alla possibile presenza di 14C nelle molecole prebiotiche identifica il decadimento radioattivo come una probabile causa all'origine dell'omochiralità.[40]  Un'altra teoria si basa sulla caratteristica dei cristalli chirali di concentrare sulla loro superficie uno dei due enantiomeri. Quest'osservazione ha condotto all'ipotesi di un possibile scenario prebiotico, in cui cristalli naturali chirali hanno agito da catalizzatori per l'assemblaggio di macromolecole formate da unità monomeriche chirali.[41].  Di recente è stata formulata l'ipotesi, supportata da simulazioni al computer, che una serie di eventi di estinzione selettiva possa avere selezionato un certo tipo di chiralità in una fase assai primordiale della vita[42]  Dalle molecole organiche alle protocellule Modifica La domanda "Come semplici molecole organiche possono formare una protocellula?" è tuttora senza risposta, ma vi sono molte ipotesi. Alcune di queste postulano come tappa iniziale la comparsa degli acidi nucleici, mentre altre ritengono antecedenti l'evoluzione delle reazioni biochimiche e dei pathways. Recentemente stanno emergendo modelli ibridi che combinano gli aspetti delle due ipotesi.  Modello "Prima i Geni": il mondo a RNA Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ipotesi del mondo a RNA.  Confronto tra le basi di RNA e DNA L'ipotesi del mondo a RNA suggerisce che molecole relativamente corte di RNA, capaci di catalizzare la propria replicazione, potrebbero essersi formate spontaneamente. È difficile valutare la probabilità di tale evento, ma sono state avanzate varie teorie sulle possibili modalità di formazione di queste molecole.  Le prime membrane cellulari si sarebbero formate spontaneamente da proteinoidi, molecole simili a proteine che vengono prodotte riscaldando soluzioni amminoacidiche e, se presenti alla corretta concentrazione in ambiente acquoso, formano microsfere che si comportano in modo simile a compartimenti racchiusi in membrana. Altre possibilità includono sistemi di reazioni chimiche all'interno di substrati di argilla o sulla superficie di rocce di pirite. I fattori che supportano l'importante ruolo del RNA nelle prime fasi della vita sulla Terra sono:  la sua abilità nel replicarsi; la sua capacità sia di immagazzinare informazioni che di catalizzare reazioni chimiche (come nei ribozimi); i suoi molteplici ruoli come intermedio nell'espressione e nel mantenimento dell'informazione genetica (nella forma di DNA) negli organismi superiori; Il ruolo centrale assunto dall'rRNA all'interno dei ribosomi nel catalizzare la formazione del legame peptidico della catena proteica nascente; la possibilità di ottenere le sintesi chimiche dei suoi componenti in condizioni che approssimano quelle della Terra primordiale. I problemi che sollevano dubbi contro questa ipotesi sono legati, in particolare:  all'instabilità dell'RNA, soprattutto quando viene esposto alla radiazione ultravioletta; alla difficoltà di ottenere i nucleotidi presenti nella molecola di RNA in esperimenti di laboratorio, a partire dai suoi componenti; alla scarsità in soluzione di fosfati disponibili, necessari a formare la spina dorsale; alla difficoltà di ottenere le basi citosina e uracile in esperimenti in vitro; all'instabilità della base citosina, che è facilmente idrolizzata; al problema legato al ribosio, che viene prodotto in vitro come miscela dei due enantiomeri D ed L. Esperimenti recenti hanno rilevato che le prime stime sulle dimensioni di una molecola di RNA capace di auto-replicarsi erano molto probabilmente fortemente sottostimate. Le forme attuali della teoria del mondo a RNA propongono che molecole più semplici, in grado di auto-replicarsi, abbiano preceduto l'RNA (che un altro "Mondo" si sarebbe evoluto producendo successivamente il Mondo a RNA).  Secondo alcuni studiosi, acidi nucleici alternativi potrebbero essersi formati in tempi prebiotici, precedendo il mondo a RNA. Uno dei possibili candidati è il piranosil-RNA (p-RNA), molto simile alla molecola di RNA ma che, al posto del ribosio, presenta una versione modificata di questo, con un anello a sei atomi. Questo polimero, prodotto da Eschenmoser, può formare strutture a duplice filamento e si è dimostrato più adatto dello stesso RNA all'auto-replicazione in assenza di un sistema enzimatico.[43]Altri acidi nucleici possibili precursori dell'RNA sono il PNA, che invece possiede uno scheletro di tipo proteico, il TNA (Threose nucleic acid), ed il GNA(Glycerol nucleic acid).  Attualmente, tuttavia, le varie ipotesi hanno un impianto sperimentale incompleto: molte di esse possono essere simulate e testate in laboratorio, ma la scarsità di rocce sedimentarie risalenti a quel periodo della Terra primordiale conferisce scarse opportunità di verificare quest'ipotesi con certezza.  Modelli "Prima il Metabolismo": mondo a ferro-zolfo e altri Modifica Molti modelli respingono l'idea dell'auto-replicazione di un "gene-nudo" e ipotizzano la comparsa di un primitivo metabolismo che avrebbe fornito l'ambiente per il successivo emergere della replicazione dell'RNA.  Una delle prime formalizzazioni di quest'idea fu avanzata nel 1924 da Alexander Oparin, che postulò la presenza di primitive vescicole auto-replicantesi, antecedenti all'evoluzione della struttura del DNA. Varianti più moderne, risalenti agli anni ottanta e novanta, includono la teoria del mondo a ferro-zolfo di Günter Wächtershäuser e i modelli introdotti da Christian de Duve basati sulla chimica dei tioesteri. Tra le argomentazioni più astratte e teoriche a sostegno dell'emergenza del metabolismo in assenza geni si includono un modello matematico introdotto da Freeman Dyson all'inizio degli anni ottanta e l'idea di Stuart Kauffman a proposito di insiemi autocatalitici, discussi più tardi in quel decennio.  Tuttavia, l'idea che un ciclo metabolico chiuso, come il ciclo dell'acido citrico, si possa formare spontaneamente (come proposto da Günter Wächtershäuser) rimane priva di supporto. Secondo Leslie Orgel, un leader negli studi sull'origine della vita degli ultimi decenni, le cose non cambieranno in futuro. In un articolo intitolato Self-Organizing Biochemical Cycles,[44] Orgel riassume la sua analisi sull'argomento affermando: "Non vi sono attualmente ragioni per credere che cicli formati da più passaggi, come il ciclo riduttivo dell'acido citrico, si siano auto-organizzati su una superficie composta da FeS o FeS2o da qualche altro minerale". È possibile che un altro tipo di pathway metabolico si sia evoluto al principio della vita. Per esempio, invece del ciclo riduttivo dell'acido citrico, il pathway "aperto" dell'acetil-CoA(uno dei quattro modi oggi riconosciuti per la fissazione del biossido di carbonio in natura) risulta più compatibile con l'ipotesi dell'auto-organizzazione sulla superficie di un solfuro metallico. L'enzima chiave di questo pathway, la monossido di carbonio deidrogenasi/acetil-CoA sintetasi, ospita gruppi misti nichel-ferro-zolfo nei suoi centri di reazione e catalizza la formazione dell'acetil-CoA in un singolo passaggio.  Teoria delle bolle Modifica Le onde che s'infrangono sulla riva creano una delicata schiuma composta da bolle. I venti che soffiano sugli oceani hanno la tendenza a portare gli oggetti galleggianti a riva, come la legna che si accumula sulla battigia. È possibile che, nei mari primordiali, le molecole organiche si siano concentrate sulle rive più o meno allo stesso modo. Inoltre, le acque costiere poco profonde tendono anche a essere più calde, concentrando ulteriormente le molecole con l'evaporazione. Mentre le bolle composte soprattutto da acqua si dissolvono rapidamente, quelle oleose possiedono una maggiore stabilità.   Rappresentazione del doppio strato fosfolipidico. I fosfolipidi costituiscono un buon esempio di composto oleoso ritenuto abbondante nei mari prebiotici. Siccome i fosfolipidi contengono una testa idrofila da un lato, e una coda idrofobica dall'altro, hanno la tendenza spontanea a formare membrane lipidiche in acqua. Una bolla formata da un unico strato può contenere solo olio, e, pertanto, non è favorevole a ospitare molecole organiche idrosolubili. D'altro canto, una bolla lipidica a doppio strato può contenere acqua e, al momento della sua formazione nei mari primitivi, potrebbe aver intrappolato e concentrato numerose molecole organiche idrosolubili, tra le quali zuccheri, proteine e anche polimeri di acidi nucleici, e per questo motivo rappresenta il precursore più probabile delle moderne membrane cellulari.[45] All'interno di questa bolla neoformata, le molecole organiche catturate potrebbero aver reagito formando composti organici più complessi. Inoltre, l'acquisizione di una proteina all'interno del doppio strato, aumentando la stabilità della membrana, può aver offerto un vantaggio selettivo ad alcune bolle, poiché le macromolecole in esse contenute hanno interagito per un periodo di tempo maggiore, sintetizzando nuove proteine e acidi nucleici. Quando queste bolle si sono dissolte, a causa delle sollecitazioni meccaniche e del moto ondoso, hanno rilasciato nel mezzo circostante il loro contenuto di molecole organiche, le quali, a loro volta, possono essere state catturate all'interno di nuove bolle in formazione, realizzando una forma primitiva di trasmissione genetica. Una sequenza di questi processi avvenuta nei mari primordiali, grazie alla selezione naturale, potrebbe aver trasformato le bolle primitive nelle prime cellule, dalle quali poi si sono evoluti i primi procarioti, eucarioti ed, infine, gli organismi pluricellulari.[46]  Similmente, le bolle formate interamente da molecole simili a proteine, denominate microsfere, si formeranno spontaneamente alle giuste condizioni. Ma non sono un probabile precursore delle moderne membrane cellulari, dal momento che le membrane cellulari sono formate prevalentemente da composti lipidici che amminoacidici.  Altri modelli Modifica Autocatalisi Modifica L'etologo britannico Richard Dawkins, nel suo libro Il racconto dell'antenato. La grande storia dell'evoluzione edito nel 2004, sostenne l'ipotesi di un possibile ruolo dell'autocatalisi nelle prime fasi dell'origine della vita. Gli autocatalitici sono sostanze che catalizzano la propria produzione, e pertanto sono dei semplici replicatori molecolari. In questo libro, Dawkins cita esperimenti effettuati da Julius Rebek ed i suoi colleghi allo Scripps Research Institute in California, nei quali combinarono ammino adenosina e pentafluorofenilestere con l'autocatalita ammino adenosina triacido estere (AATE). Varianti di AATE, contenuti in un analogo sistema sperimentale, mostrarono di possedere la proprietà di catalizzare la propria sintesi. Questo esperimento dimostrò la possibilità che l'autocatalisi poteva manifestare competizione all'interno di una popolazione di entità con caratteristiche di ereditarietà, che poteva essere interpretata come una forma rudimentale di selezione naturale.  Teoria dell'argilla Modifica Una teoria basata sull'argilla fu avanzata da A.Graham Cairns-Smith dell'University of Glasgow nel 1985 e adottata come un'ipotesi plausibile anche da altri scienziati (tra cui Richard Dawkins). La teoria di Graham Cairns-Smith postula la formazione graduale di molecole organiche complesse su una piattaforma inorganica preesistente, presumibilmente cristalli di silicati in soluzione. In pratica, si propone un modello di "vita dalla roccia".  Cairns-Smith è uno strenuo critico di altri modelli di evoluzione chimica.[47] Tuttavia, ammette che, come molti altri modelli dell'origine della vita, anche il suo contiene dei risvolti problematici (Horgan 1991).  Peggy Rigou dell'Institut national de la recherche agronomique (INRA), a Jouy-en-Josas, in Francia, riporta sull'edizione dell'11 febbraio 2006 della rivista Science News[48] che i prioni sono capaci di legarsi alle particelle di argilla e migrare quando l'argilla diventa carica negativamente. Anche se in questa relazione non c'è alcun riferimento sulle possibili implicazioni per le teorie sull'origine della vita, questa ricerca suggerisce che i prioni possano rappresentare un probabile pathway per le prime molecole replicantesi.  "Biosfera profonda-calda" modello di Gold Modifica La scoperta dei nanobi (strutture filiformi contenenti DNA e di dimensioni inferiori ad un batterio) in rocce profonde, portò negli anni novanta alla formulazione, da parte di Thomas Gold, di una controversa teoria secondo cui le prime forme di vita non si svilupparono sulla superficie terrestre, ma vari chilometri al di sotto della crosta. È noto che la vita microbica è abbondante fino a cinque chilometri al di sotto della superficie terrestre nella forma degli archaea, che generalmente si considerano come anteriori o per lo meno contemporanei agli eubatteri, molti dei quali vivono sulla superficie, inclusi gli oceani. Si ritiene che la scoperta di vita microbica sotto la superficie di altri corpi celesti nel nostro Sistema Solare darebbe una credibilità rilevante a questa teoria. Secondo Gold una sorgente profonda di sostanza organica, asciutta e difficile da raggiungere, promuove la sopravvivenza, perché la vita che si forma in una pozzanghera di materiale organico tende a consumare tutto il cibo fino ad estinguersi.  Il Mondo a lipidi Modifica  I fosfolipidi sono in grado di formare membrane biologiche Secondo questa teoria le prime entità autoreplicantesi erano composti organici simili ai lipidi. È noto che i fosfolipidi formano spontaneamente doppi strati in acqua - la stessa struttura delle odierne membrane cellulari. Anche altre molecole anfifiliche, con una catena lunga idrofoba ed una testa polare, sono in grado di formare spontaneamente strutture simili a vescicole racchiuse da membrane. Queste catene carboniose erano presenti sulla Terra primordiale, dove la loro capacità di auto organizzarsi in strutture sovramolecolari può essere stata determinante per l'emergere della vita. Infatti, i corpi lipidici formati da anfifili possiedono, nella zona centrale apolare, molecole capaci di assorbire la luce visibile e utilizzarla per numerose reazioni, tra cui la sintesi di altre molecole anfifiliche a partire da precursori presenti nell'ambiente. Le molecole neosintetizzate, inserendosi nel doppio strato, provocano l'espansione delle vescicole, le quali, in seguito ad eccessiva espansione, vanno incontro ad una scissione spontanea, conservando la stessa composizione dei lipidi nella progenie.  Questo processo può aver rappresentato una prima forma di replicazione e di trasferimento dell'informazione. Secondo questo modello, infatti, sulla Terra primordiale esistevano diversi tipi di questi corpi lipidici, alcuni dei quali, grazie alla loro particolare composizione, possedevano capacità catalitiche superiori, e quindi si accrescevano e replicavano più velocemente degli altri, trasferendo la loro informazione composizionale alla progenie; in questo modo si sarebbe realizzata una forma di selezione naturale e solo in seguito, l'evoluzione condusse alla comparsa di entità polimeriche come l'RNA o il DNA più adatte alla conservazione dell'informazione.[49]  Il modello a polifosfati Modifica Il problema con la maggior parte degli scenari abiogenetici è che l'equilibrio termodinamico degli amminoacidi con i peptidi è spostato nella direzione degli amminoacidi liberi; sono stati spesso tralasciati, infatti, i meccanismi che hanno indotto la polimerizzazione. La risoluzione di questo problema può essere rilevata nelle proprietà dei polifosfati,[50][51] generati dalla polimerizzazione di ioni monofosfato ordinari PO4−3 ad opera della radiazione ultravioletta. I polifosfati inducono la polimerizzazione degli amminoacidi in peptidi, guidando il processo contro la direzione dell'equilibrio. Grandi quantità di ultravioletti erano probabilmente presenti negli oceani primordiali. Il problema fondamentale, tuttavia, sembra essere che il calcio reagisce con il fosfato solubile formando fosfato di calcio insolubile, per cui occorre trovare un meccanismo plausibile per mantenere gli ioni calcio liberi in soluzione. Forse, la risposta potrebbe trovarsi in alcuni complessi stabili e non reattivi come il citrato di calcio.  Il modello dell'ecopoiesi Modifica Il modello dell'ecopoiesi propone che i cicli biogeochimici degli elementi biogenici, catalizzati da un'atmosfera primordiale ricca di ossigeno, generato dalla fotolisi del vapore acqueo, siano stati la base di un metabolismo planetario che precedette e condizionò la graduale evoluzione della vita.[52]  Vita "primitiva" extraterrestre Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Esobiologia. Un'alternativa all'abiogenesi terrestre è l'ipotesi che la vita primitiva si sia originariamente formata in ambiente extraterrestre, o nel cosmo o su un pianeta vicino (Marte). (Si noti che l'esogenesi è legata, ma non coincide con la nozione di panspermia).  La presenza di acqua Modifica  Distese ghiacciate su Europa. Per questo motivo ultimamente rivestono particolare importanza le osservazioni dei pianeti esterni alla Terra o addirittura fuori dal Sistema Solare. Per cercare la presenza di vita su questi pianeti, ci si concentra principalmente sulla ricerca di acqua allo stato liquido, considerata indispensabile alla formazione di entità viventi. In questi casi, la situazione è molto diversa: il calore necessario per la presenza di acqua allo stato liquido non è più legata principalmente all'energia ricevuta dal Sole, ma da quella prodotta all'interno dei singoli pianeti per effetto della forza gravitazionale e del decadimento radioattivo. Per esempio, si ipotizza la possibile presenza di acqua allo stato liquido all'interno dei cosiddetti satelliti di ghiaccio, dove le forze di marea indotte dal pianeta stirano e distorcono la crosta causando l'innalzamento della temperaturaoltre il punto di fusione.[53]  Acqua su Marte Modifica Magnifying glass icon mgx2.sv Lo stesso argomento in dettaglio: Vita su Marte. Varie missioni spaziali sono state effettuate sul pianeta rosso al fine di verificare la presenza di acqua. Sul suolo marziano sono state rintracciate tracce di ematite, un minerale che si forma solamente in presenza di acqua e sono state osservate zone sedimentarie che si ipotizza possano essersi formate per azione erosiva di un liquido; il rover Opportunity ha inoltre ottenuto riscontri che in un antico passato l'acqua esisteva allo stato fluido sulla superficie di Marte.   I solchi, che si originano dal bordo rialzato del cratere, sono attribuiti al ruscellamento di liquidi (probabilmente acqua) sulla superficie di Marte Nel dicembre del 2006 Mars Global Surveyor ha fornito le prove fotografiche che a tutt'oggi l'acqua fuoriesce da fenditure lasciando depositi sul terreno. Altre fotografie hanno mostrato alvei di antichi fiumi, isole che sorgevano al loro interno, prove inconfutabili che un tempo il liquido scorreva formando le caratteristiche formazioni ora visibili. Ma col diminuire del campo magnetico il vento solare ha spazzato via la primitiva atmosfera facendo diminuire drasticamente la pressione ed eliminando quasi completamente l'acqua dalla superficie.  Nel marzo del 2004 la sonda Mars Express ha rilevato la presenza di metano nell'atmosfera di Marte, e siccome questo gas può persistere solo per poche centinaia di anni, essa viene spiegata solamente attraverso un processo vulcanico o geologico non identificato o con la presenza di certe forme di vita estremofile. Secondo altri esperti, il minerale chiamato olivina in presenza di acqua potrebbe essere stato convertito in serpentina, e questo fenomeno potrebbe essere successo in qualche posto nel sottosuolo di Marte ed aver liberato abbastanza metano da poter essere stato rilevato dalle sonde. Ancora il Mars Express nel febbraio 2005 ha segnalato la presenza di formaldeide, altro indizio di presenza di vita microbica.  Nel novembre del 2005 i ricercatori dell'ESA hanno comunicato che la sonda utilizzando il radar MARSISha individuato quello che probabilmente è un lago ghiacciato largo fino a 250 chilometri nel sottosuolo del pianeta ad una profondità di circa 2 chilometri. Il bacino del lago deriverebbe da un impatto di un meteorite che in seguito si sarebbe riempito di materiale ricco di ghiaccio. Tramite MARSIS si sono potuti contare i crateri nascosti dai sedimenti e dalle colate laviche della regione nord di Marte. Il numero di questi crateri è comparabile con il numero di quelli presenti nella regione sud, quindi entrambe le regioni si sarebbero formate nello stesso arco temporale.[54]Lo strumento MARSIS inoltre ha permesso di effettuare una stima di massima della quantità d'acqua immagazzinata sotto forma di ghiaccio nella regione del polo sud.[55]  Nel maggio 2008 è atterrata la sonda Phoenix su una regione polare con il compito di analizzare l'ambiente per verificare se vi possano vivere i microorganismi; il lander con un braccio meccanico ha scavato nel terreno ed analizzato il materiale ottenuto. Si ritiene che i terreni, analizzati da Phoenix siano vecchi di 50.000 e forse un milione di anni, e potrebbero avere tracce di un antico clima marziano più temperato. Il 1º agosto 2008 in una conferenza stampa la NASA ha annunciato la rilevazione da parte della sonda Phoenix di ghiaccio presente a 5 centimetri sotto il suolo marziano.[56]  L'arrivo sulla Terra Modifica I composti organici sono relativamente comuni nello spazio, specialmente al di fuori del sistema solare, dove i composti volatili non evaporano per effetto del calore solare. Le comete sono rivestite da strati esterni in materiale scuro, ritenuto essere simile al catramecomposto di materiale organico complesso formato da semplici composti del carbonio andati incontro a reazioni dovute soprattutto all'irraggiamento da parte degli ultravioletti. Si può supporre che una pioggia di materiale dalle comete possa aver portato sulla Terra quantità significative di tali complessi organici.   La cometa Hale-Bopp. L'impatto di comete come questa con la superficie terrestre potrebbe aver rilasciato una gran quantità di complessi organici Un'ipotesi alternativa ma legata a quest'ultima, proposta per spiegare la presenza della vita sulla Terra così presto su un pianeta appena raffreddato, con un tempo per l'evoluzione prebiotica evidentemente molto ridotto, è che la vita si sia formata inizialmente su Marte. A causa delle sue minori dimensioni, Marte si sarebbe raffreddato prima della Terra (una differenza di centinaia di milioni di anni), permettendo processi prebiotici mentre la Terra era ancora troppo calda. La vita sarebbe poi stata trasportata sulla Terra quando il materiale crostale subì esplosioni a causa di impatti con comete e asteroidi. Marte avrebbe continuato a raffreddarsi molto velocemente divenendo ostile alla prosecuzione dell'evoluzione e anche all'esistenza stessa della vita (perse la sua atmosfera a causa di un blando vulcanesimo). La Terra sta andando incontro allo stesso destino, ma a minore velocità.  Questa ipotesi non risponde in realtà alla domanda su come si sia originata la vita, ma semplicemente sposta la questione su un altro pianeta o su una cometa. Tuttavia, il vantaggio di un'origine extraterrestre della vita primitiva è che la vita non deve necessariamente essersi evoluta su ciascun pianeta per esservi presente, ma piuttosto da un singolo luogo da cui si sarebbe diffusa nella galassia ad altri sistemi stellari attraverso comete e meteoriti. L'evidenza a supporto della plausibilità del concetto è scarsa, ma trova dimostrazione nello studio recente delle meteoriti marziane ritrovate in Antartide e negli studi sui microbi estremofili[57] e sui risultati di esperimenti sulla resistenza all'esposizione nello spazio di alcune forme di vita terrestri. Un ulteriore sostegno all'ipotesi viene dalla recente scoperta di un ecosistema batterico la cui sorgente di energia è la radioattività.[58]  L'origine della vita nella cultura Modifica L'interrogativo di come abbia avuto origine la vita ha coinvolto molto la cultura umana e prima che la scienza elaborasse le teorie che oggi conosciamo, è tramite la mitologia, la religione e la filosofia che l'uomo ha provato a fornire risposte a tale interrogativo.  Religione e mitologia Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cosmogonia.  Secondo l'induismo, Brahmā è il padre di tutti gli esseri viventi. Il concetto di creazione permea tutte le culture, e in talune è comune la mancanza di un processo evolutivo. Le dottrine o complesso di miti che si rifanno alla creazione possono tuttavia essere fra loro molto diversi, spostandosi da cultura a cultura. Infatti alcuni miti fanno nascere il mondo dalle lotte intestine tra le divinità, altri affidano la creazione ad un'unica divinità che fa nascere il creato dal nulla mentre, per altri ancora, la Terra e tutto ciò che ci circonda sarebbe fuoriuscito da un uovo cosmico primordiale. In ognuno di questi miti, le varie società e le varie culture hanno inserito gli elementi e le metafore che ritenevano più rappresentativi della loro concezione del mondo. Alcuni ritengono che il mito della creazione influenzi l'atteggiamento degli uomini che vivono nella società che gli ha dato vita, anche se essi non vi credono.  Australiani aborigeni Modifica Nella cultura degli aborigeni australiani, la creazione del mondo svolge un ruolo fondamentale. La creazione risale al Tempo del sogno, in cui gigantesche creature totemiche attraversarono la Terra cantando di ciò che incontravano (rocce, pozze d'acqua, animali, piante) e così facendo portarono questi elementi alla creazione vera e propria.  Babilonia Modifica Il mito della creazione babilonese è stato descritto nell'Enûma Elish, di cui esistono varie versioni e copie, la più antica delle quali è datata al 1700 a.C. Secondo questa descrizione, il dio Marduk si armò per combattere il mostro Tiamat. Marduk distrusse Tiamat, tagliandola in due parti che divennero la terra e il cielo. Dopo, distrusse anche il marito di Tiamat, Kingu, usando il suo sangue per creare l'umanità.  Bantu Modifica Secondo i Bantu, in origine la Terra non era altro che acqua e oscurità. Mbombo, il gigante bianco, governava questo caos. Un giorno egli sentì un fortissimo dolore allo stomaco e vomitò il sole, la luna e le stelle. Il sole splendeva perfidamente e l'acqua evaporò nelle nuvole. Gradualmente, apparvero delle colline asciutte. Mbombo vomitò di nuovo e questa volta vennero fuori gli alberi, gli animali, le persone e molte altre cose: la prima donna, il leopardo, l'aquila, l'incudine, la scimmia Fumu, il primo uomo, il firmamento, la medicina e la luce. Nchienge, la donna delle acque, viveva ad Est. Ella aveva un figlio, Woto, e una figlia, Labama. Woto fu il primo re dei Bakuba.  Buddismo Modifica Il Buddismo normalmente ignora le questioni riguardanti l'origine della vita. Il Buddha a questo riguardo disse che sarebbe stato possibile ponderare su queste questioni per tutta la vita senza tuttavia avvicinarsi al vero obiettivo, la cessazione della sofferenza.  Cherokee Modifica In principio, c'era solo l'acqua. Tutti gli animali vivevano sopra di essa ed il cielo era sommerso. Erano tutti curiosi di sapere cosa ci fosse sotto l'acqua ed un giorno Dayuni'si, lo scarabeo acquatico, si offrì volontario per esplorare. Esplorò la superficie, ma non riuscì a trovare nessun terreno solido. Esplorò sotto la superficie fino al fondo e tutto quello che trovò fu del fango che portò in superficie. Dopo aver preso il fango, esso cominciò a crescere e a spargersi tutto intorno, fino a che non divenne la Terra così come la conosciamo.  Dopo che tutto ciò accadde, uno degli animali attaccò questa nuova terra al cielo con quattro stringhe. La terra era ancora troppo umida, così mandarono il grande falco nel Galun'lati per prepararla per loro. Il falco volò giù e quando raggiunse la terra dei Cherokee era così stanco che le sue ali cominciarono a colpire il suolo. Ogni volta che colpivano il suolo si formava una valle od una montagna. Gli animali poi decisero che era troppo buio, così crearono il sole e lo misero lì dove è tutt'oggi.  Cina Modifica In Cina sussistono cinque maggiori punti di vista sulla creazione.  Secondo il primo non ci sono le prove necessarie per spiegare la creazione e le sue origini. Il secondo si fonda sull'idea che il paradiso e la terra erano un'entità unica che poi si separò in due parti. Il terzo, apparso relativamente tardi nella storia della cultura cinese, è quello del Taoismo. Secondo questo il Tao è la forza alla base della creazione grazie alla quale, dal nulla si è creato il tutto, ovvero dal vuoto si è generata la materia (rispettivamente lo yin e lo yang) e da questi è nata ogni cosa attraverso i vari processi naturali. Il quarto, anch'esso relativamente giovane, è il mito di Pangu. Secondo questa spiegazione, offerta dai monaci Taoisti secoli dopo Lao Zi, l'universo nacque da un uovo cosmico. Una divinità, Pangu, nascendo da quell'uovo lo ruppe in due parti: quella superiore divenne il cielo e quella inferiore la terra. Man mano che la divinità crebbe le due parti dell'uovo si separarono sempre più e, quando Pangu morì, le parti del suo corpo divennero varie zone terrestri. Il quinto è costituito da racconti tribali non legati in un sistema unicizzante. Bibbia Modifica  Un mosaico del Duomo di Monreale, raffigurante la creazione delle specie animali ad opera di Dio. Nella Bibbia si narra che Dio avrebbe creato il mondo, ivi inteso l'universo, in sei giorni, riposandosi il settimo. Alcune dottrine cristiane insegnano che si tratta di giorni letterali, mentre altre credono che il termine "giorno" debba essere inteso come Ere creative, della durata di migliaia, se non milioni, di anni e il riferirsi a giorni sia solo un espediente per facilitare la comprensione con un'immagine il più semplice e comprensibile da tutti[senza fonte]. Nella Genesi, il primo libro del testo sacro per ebrei e cristiani, ma riconosciuto tale anche dai musulmani, la narrazione della Creazione occupa i capitoli 1,1-2,4a[59]. La Genesi si apre con le seguenti frasi: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.»   Filosofia Modifica Sin dalle origini della filosofia occidentale, in particolare nella filosofia greca, il problema dell'origine della vita è stato posto al centro della riflessione; le varie scuole di pensiero si distinguono fra quelle che attribuivano l'origine del cosmo a un principio statico (l'acqua, il numero, il logos, l'essere), ovvero a una pluralità di fattori(amore e odio, gli atomi etc.) che, mediante un equilibrio dinamico, assicurano il divenire della vita. Nel Poema sulla natura Parmenide sostiene che la molteplicità e i mutamenti del mondo fisico sono illusori, e afferma, contrariamente al senso comune, che sola realtà è l'Essere: immutabile, ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno. Questa concezione è diametralmente opposta alla tesi formulata da Eraclito, secondo il quale tutto il mondo non è che un flusso perennemente in divenire, nel quale nessuna cosa è mai la stessa poiché tutto si trasforma ed è in una continua evoluzione. Pur se la filosofia di Eraclito ci è giunta in modo frammentario, egli sembra quindi ancorare la realtà al tempo e alle continue trasformazioni che esso comporta; in questo senso sostiene che solo il cambiamento e il movimento siano reali e che l'identità delle cose sia illusoria: per Eraclito tutto scorre (panta rei). Anche gli atomisti democriteisi opponevano alla concezione di immobilismo degli eleati. La teoria atomistica prevedeva, in effetti, la coesistenza di Essere e Non essere. La realtà sarebbe originata da scontri casuali di atomi che si uniscono formando gli enti sensibili. Una teoria differente è elaborata da Anassagora secondo cui la vita sulla Terra si sarebbe sviluppata in seguito allo sviluppo di "semi" presenti in tutto l'Universo, armonizzati da un Nous, una sorta di intelligenza divina. Tale ipotesi è stata ripresa nell'Ottocento e prende il nome di panspermia. Secondo Platone, il mondo visibile sarebbe opera del Demiurgo, una sorta di divinità che avrebbe traslato il mondo perfetto delle idee nel mondo terreno imperfetto. Diversa invece la concezione aristotelica: secondo Aristotele, infatti, essendo Dio puro pensiero e immutabile, non può creare il mondo, che è anch'esso eterno. Come riporta Cicerone (Tuscolane, 15, 42): «il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un'opera così eccellente»  Arte Modifica  Affresco della Cappella Sistina, raffigurante la creazione dell'uomo. Anche varie opere artistiche (letterarie, pittoriche, ecc.) hanno affrontato il tema dell'origine della vita. Il tema della Creazione, preso dalla Genesi si trova in innumerevoli cicli pittori e musivi di storie dell'Antico Testamento.  Michelangelo dipinse alcuni affreschi sul soffitto della Cappella Sistina in cui rappresentava scene tratte dai primi capitoli della Genesi: una di queste rappresentava la creazione del primo uomo, Adamo, in cui Dio viene rappresentato come un vecchio signore che fluttua in aria con il suo mantello e che conferisce la vita a Adamo sfiorandolo con la mano.  Il Tintoretto eseguì a Venezia nel 1550 la sua Creazione degli Animali, oggi conservata nelle Gallerie dell'Accademia. Vi si può vedere il Creatore in mezzo ad una brillante luce nella Terra ancora oscura dopo la creazione della Terra stessa nel secondo giorno; e si può ammirare la scena del quarto giorno: pesci, uccelli ed anche mammiferi. Raffaello Sanzio nel 1519 a Roma aveva già eseguito un bellissimo dipinto sulla creazione degli animali con lo stesso titolo del Tintoretto; esso è visitabile nella Loggia di Raffaello nel Vaticano. In esso gli animali sono tutti intorno al Creatore, anche gli animali mitici, come l'unicorno.  Note Modifica ^ a b Oparin, 1953, p. vi. ^ Juli Peretó, Controversies on the origin of life( PDF ), in International Microbiology, vol. 8, n. 1, Barcelona, Spanish Society for Microbiology, 2005, pp. 23–31, ISSN 1139-6709 (WC · ACNP), PMID 15906258. URL consultato il 1º giugno 2015 (archiviato dall' url originale  il 24 agosto 2015). ^ Scharf, Caleb, A Strategy for Origins of Life Research, in Astrobiology, Bibcode:2015AsBio..15.1031S, DOI:10.1089/ast.2015.1113, PMC 4683543, PMID 26684503. 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Voci correlate Modifica Abitabilità planetaria Astrobiologia Astrochimica Brodo primordiale Bugonia Creazionismo DNA Equazione di Drake Esobiologia Ipotesi della rarità della Terra Mimivirus (virus gigante che potrebbe aver preceduto gli organismi cellulari) Panspermia Sistemi complessi Storia della Terra Stuart Kauffman Ultimo antenato comune universale (LUCA) Zeolite Collegamenti esterni Modifica Origine della vita, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ( EN ) Martin M Hanczyc e Jack W Szostak. Vescicole replicantesi come modelli della crescita e divisione cellulare primordiale. Opinione corrente in Biologia Chimica 2004, 8:660–664. ( PDF ), su genetics.mgh.harvard.edu. (EN) "Auto-replicazione": Anche i peptidi la fanno"di Stuart A. Kauffman ( EN ) Sito web sulle origini della vita che include giornali, risorse, del Dr. Michael Russell all'Università di Glasgow, su gla.ac.uk. 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Podcast, video ( EN ) video Freeview 'L'origine della vita, di John Maynard-Smith' A Royal Institution Discourse by the Vega Science Trust, su vega.org.uk.  Evolution and the Origins of Life - lettura di Harold Morowitz, George Mason University. Portale Arte   Portale Bibbia   Portale Biologia   Portale Filosofia   Portale Religioni   Portale Scienze della Terra Ultima modifica 25 giorni fa di Quinlan83 PAGINE CORRELATE Aleksandr Ivanovič Oparin biochimico e biologo russo  Brodo primordiale ipotetico ambiente di origine della vita sulla Terra  Ipotesi del mondo a RNA ipotesi sull'origine della vita  Wikipedia Il. Giovanni Francesco Antonio Bonelli. Giovanni Alfonso Borelli. Keywords: corpo umano, fisiologia, teoria de la natura – natural philosophy, physics, physicist, physician, anatomia, psicologia, motu, fisiologia filosofica, explanation of bodily movement, behaviourism, body movement, corpore, corporalism, animism, corpo animato, che cosa anima il corpo, che cose animano i corpori? Che anima il corpo? Spirito, anima, personificazione del principio vitale, vita, l’origine della vita dalla materia inorganica – l’idea di vita in Aristotle – De anima --.  Zoon, animale – bios – biologia e zoologia – l’origine della vita animale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Borelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Borsa – imitazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo italiano. Grice: “I would call Borsa a Griceian – I mean he wrote on eloquence, as I did – and he qualified this in two ways: ‘eloquenza sacra’ and ‘in Italia’ – Like Austin, he thought that this or that ‘filosofismo academico’ (think ‘impilcatura’) was an abuse to the ‘eloquenza sacra’ in Italia – another was the use of ‘neologism’ – Friends tried to disencourage: “This or that filosofismo did have some influence on Roman poetry!” “Damn them!” – He also wrote a rather anti-pathetic ‘elogio di me stesso,’ whose chapter on ‘gli amori’ is hardly sincere!” “But I love him!” --  Studia a Verona, Reggio Emilia, e Bologna. Gl’interessi di Borsa sono di stampo prettamente filosofico. Publica “I fisiologi” e “Gl’empirici”. Segretario dell'Accademia mantovana. Pubblica “Del gusto” presente in letteratura italiana, saggio scritto in risposta a un quesito posto dalla medesima Accademia, ovvero, “I vizi più comuni e osservabili del corrente gusto italiano” in belle lettere. Il vizio, non la virtu, del gusto, la corruzione del gusto s’incarna in tre diversi aspetti; il ne-ologismo no-romano, ovvero straniero, il filosofismo enciclopedico,  e la confusione dei generi grammaticali. Insegna logica e metafisica nel ginnasio di Mantova. Tra le opere di Borsa vanno inoltre ricordati due saggi  problemi estetici in relazione alla musica – “La musica imitativa” -- e alla danza – “I balli pantomimi” – la pantomima. – musica imitazione – Scruton. “A sad melody”.  Si cimenta inoltre nella composizione di una tragedia, “L’assassinio d’Agamennone”. “Palese”. “Zatta”. Dizionario biografico degli italiani. M a selecircostanzepolitiche,elemorali,che il primo difetto del Neologismo portaronci, quello ci comunicarono in seguito del Filosofismo; an che questo Secondo un terzo ne produce, che è la universale Confusione dei Generi, e quindi la noja dei puri, ed eccellenti. Questo vizio anzi ė si immediatamente, e intimamente connesso, colla Filosofia,ma col Filosofismo, che par talota identificarsi con lui, e costituire una medesima coa sa.Ad occhio intelligente però saran molto diver. si,eparràaggravarsiinquest'ultimoildestinodel. la Letteratura Italiana. Tom.II. - raven  propria cosi, che il Tragico le passioni istesse di. pinga con colori molto lontani dal Comico; che ciascuno esponga fatti, animi personaggi, scelga incidenti degni di lui; e che infine ognun parli il proprio linguaggio, e faccia il proprio mestiere. 1 1 tendo quell'intima natura della cosa in se stessa, la quale nega d'estendersi ad oggetti stranieri, ne i propri sa maneggiare in foggia diversa da quella, che si conviene. Intendo per ultimo quell'avvedu tezza, e integrità di composizione, per cui dal Poema Epico discendendo perfino all'Epigramma, e alla Lettera, ogni sua parte, e ogni membro oc çura cosi esattamente quel luogo, che gli sta bene, che trasposizione non soffra senza difetto. Queste cose oltre l'esserci insegnate da più gravi Fi. lologi, sono anche cosi chiaramente emanate dalla natura della persuasione, e della illusione, e cosi strettamente silegano colla necessaria generazion dell'idee, che nulla più. In questo senso sono, e si devono esse dire la Filosofia propria, e rispet. tiva di ciascun genere. Quella, che nell’Articolo antecedente si dipinse latente, animatrice, dispo. sitrice, e anticipatamente ragionata. Quella che a forza d'osservazioni su la natura ha imparato a col.    Sento dunque io dentro di me (sia a ragio. ne, sia a torto ) che e nel totale, e nelle singole parti dei più dei libri, che si scrivono e leggono, serpe profonda una tal confusione di generi, che perverte ogni cosa; turba, ed offende le idee a n che le più obvie del Bello, e del Perfetto. O piut tosto sentendo ciò ne argoniento, che sien que  83 locare i varj istrumenti o poetici, od oratorj in quel modo, luogo, numero,aspetto, che ¢ l'ec cellente a farli giuocare su le fantasie, e sui cuori, con tutto quel massimo vantaggio, che sia possibi le, in quella tale situazion d'oggetti, e di persone. Quindi ognun vede, che non più no delle frasi, e delle sintassi, come nell'Articolo primo, né del Gusto Italiano or non trattasi nella generale maniera di piegare i pensieri staccati, e colorire la superficie delle cose, che si maneggiano, come nel secondo. A più alte cose moviamo; a ricercare qual sia il Gusto presente degl'Italiani nel disegro, nel getto delle Opere loro; e se seguono in ciò la natura, ed il genio delle materie diverse, e delle compo sizioni. Si esaminano infine ora i libri nel loro tut. to;non già i modi, e i periodi; non le strofe,le scene, le digressioni.   ste idee, che guastatesi, e corrotte, guastano poi, e moltiplicano si fatti libri a di nostri. Il bello, e il sublime, dice Aristotile, nasce dall'Espressio ne della Grandezza con Ordine;cioè,come spiega dal mostrare il suo soggetto nelle proporziv ni più ampie, di cui sia capace. Ommettiam p u re, che il pensier d'Aristotile non s'adatta trop po bene al sublime propriamente tale, come s'é esposto nel Saggio su la Fantasia; ma certo s'a datta egregiamente al bello, al maestoso, al gran de, all'imponente; e certo è che questa grandezza, e quest ordine non son niente affatto secondo il Gusto presente? Anzi al contrario la proprietà nel. lo scrivere, l'esattezza in dividere, e separar ogni parte più o meno spiegatamente, secondo la natura dell'opera: un'aria infine ora di trattazione seria e posata, ora di composizion meditata e rigorosa, egli è omai quello appunto, che decide della m o r te d'un libro di Belle Lettere appena nato, alme no riguardo ad una gran parte de'leggitori. Pur troppo è cosi; e comunemente parlando, non de. ve procedere altrimenti la cosa. Poiché se la Filo. sofia per temperamento si grave, e per natura, p u re è resa oggi si instabile, e si leggera presso in  84 no,   finiti; che non debbon poi essere le Belle Lettere amiche soltanto di piaceri, e di delizie, e meno assai tolleranti della fatica? La leggerezza, e il carattere d'una facile universalità contrarrano es se dalla Filosofia con somma rapidità. Si getteran su la carta, come prima i pensieri s'affaccino, e le materie, senza meditare gran fatto, senza con nettere, ed ordinare. Incerti come colui, se del suole g n a m e farsi dove s s e uno scanno, ovvero un nume. Tutta l'arte starà nella pratica d'aver pron. te scappate verso i luoghi topici della Filosofia. Questa tiene il luogo di disegno. Questa s'adopra egualmente e nei modi medesimi in ogni argomen to. E questa dopo aver fusi tutti insieme i generi, ne ha fatto un solo. Perciò l'arte della disposizio. ne, donde l'armonia delle parti, la progressione crescente, il convincimento; l'arte, che ad ogni massa assegna il suo luogo più decente, e oppor tuno,e da cui tutta dipende la somma delle co se; la preziosa Unità infine parmi perduta, perché la massima parte perduta n'ha l'intelligenza, e il sapore. S'aggiugne, che oggi la Critica Filologica, cioè quella che tende a mantenere, e perfezionare l'arte  85   86 delloscrivere,'edelcomporre'siin Poesia,che in Prosa è decaduta. Adesso anzi la Critica si col tiva in ogni suo ramo, é si ama assaissimo in ogni materia fuori che in questa venuta in derisione. Doglianza tanto legittima, che Arteaga la ripete anch'egli, e rinforza con molto zelo. M a i più condotti da un'apparenza di libertà, e indipenden za Filosofica, e senza ricordar, che tal Critica la dobbiamo a un dei più grandi,ed illustriFilosofi, ad Aristotile, dicono, ch'ella insegna solo a cucire meccanicamente le cose; che i precetti sono inezie d'oziosi; e che il modo di poco o nulla nelle co. se decide. N è s'avveggono poi, che mentre il m o. do trascurano, perdono senza vederlo la sostanza medesima delle cose. Non già, che abbiasi a gita tar molto tempo in precetti, dove la seria medias tazione, l'esercizio lungo, e severo, l'esempio degli ottimi infine può giovare assai più; ma non succede comunemente parlando nè l'un, né l'al tro. La critica Filologica, cioè l'intima ragione dell'Arti, ne dai precettisti s'impara, nè colla pra. tica propria si studia sui grandi·Autori. Quindi. nei generi stessi ipiù severi è sostanzialmente per dutaogniseverità. E dall'eccessod'un'altravolza orperlopiùsitrascorre all'eccesso contrario.. Cosi ė;alle pedanterie de'secoli andati or ne suca céde un'altra, né so ben quali sieno le più nojo. se; giacchè tutto poi va a finire in far perdere il tempo, e lasciar vota la mente. La prova d'un li. bro, o composizione ben fatta quella io la credo del restarmene impressa la traccia totale e la tes. situra coi principali suoi tratti, e le cose le più importanti. Questo piacere manca egli mai per fret. ta di leggere, che abbiasi, e nei Classici, e nei v e ramente grandi Scrittori di qualunque nazione si sieno? Manca egli mai quando l'Autore abbia ben meditata, e. ordinata la sua materia? M a questo piacere si trova egli spesso nei libri di letteratura moderna, sebben faccia illusione una larva di Fió losofia, che anche in tai-libri d’amenità sorge di tanto in tanto, e par che severa alla ragion ci ri. chiami,anzi pure alla meditazione? Che se ad un Italiano non credesi, credasi dunque al sopra lo. dato Signor Juvigny, il quale dimostra, che il via zio generale, e c o m u n e egli è quello, ch'io p r e  87 ta, per cui ad ogni inezia si montava in bigoncia, e perorar si volea; e i punti, e le divisioni a n o do di scuola seguivansi con accademica stitichez.. !   Che se tali sono le disposizioni, con cui tan ti ora si pongono a scrivere, qual maraviglia, che questo Autore eccellente il secol nostro rimprove, ri, quasi di suo caratteristico vizio in Letteratura, di quel trascurare le regole dei costumi, e dell'ar ti, e dello snaturare e confondere stranamente ogni genere di composizione? Donde, se non da ciò, quello stile, che ne i contraria r g o menti è il medesimo, nei medesimi opposto? Ond'é, che perfino nell'intima sostanza s'offende la proprietà delle cose? Ond'è, che in Filosofia, e in Novelle, e nella Storia, ed in Fisica, ed in Teatro, ed in Chiesa vediamo indistintamente, come si disse, e affettazione di bello spirito, e modi epigrammati. ci, e similitudini forzose, e frasi tecniche, e di. sparate allusioni, e tutto il tritume gotico infine della Letteratura moderna Filosofica per caratteri. zarlo con Hume? Ma nè ciò solo,siccome pur ora diceva. La corruzione non si ferma già ella nell'a,  88 sentemente riprendo; e che consiste nel non sen tir, non intendere, non ponderare abbastanza la natura delle materie; e nello sprezzare sovrana mente, e sopra ogni cosa il disegno, e la sua sem plicità, e l'unità.   vere uno stile anche nelle più difformimaterie uni forme, benchè per ciò stesso riesca poi a parte a parte disgregato, tumultuoso, e di mille fisiono. mie: ma si va fino a trasforniare l'intera natura, l'originaria destinazione dei generi. Le Prediche più non propongonsi di commuovere icuori dei cre denti; si son cambiate in Dissertazioni polemiche; e all'utile certo della morale la più pura, e divia na, soè sostituito il pericolo di gettare lo scanda. lo nell'anime felici di quelli,che non bebbero an. cora alle torbide fonti delle umane dottrine. La Lirica, che sotto Augusto era l'interprete della fantasia, e del cuore, ora serve, o vuol almeno servire al raziocinio astratto, e all'intelletto m e d i tabondo:La Storia eraun misto diracconti,edi orazioni ora pubbliche, ed ora private dei tra passati, piena però di una Filosofia grandiosa, e robusta,ma toltadalmomento,dalfatto,dalla verità. Adesso altri l'ha convertita in un seguito di discussioni piccole, minute, meschine, talche pajon anzi processi per una Curia,che Annali d'u. na Nazione. Altri, come ultimamente ho veduto, ha fatto il salto, ed ha ridotta ogni cosa a discor si, e dialoghi; distribuendo le vite di Carlo, d ’ E n  89   rico ec. in tante Azioni con Atti, Scene, e tutto il corredo teatrale. La Tragedia stanca, e non a torto, di star tra gli Eroi, e tra'Giganti della m o. rale, dopo d'essersi compiaciuta un momento del quadro vero, e patetico delle private, e virtuose sciagure, si è tosto gittata tra gli orrori dei C a stelli privati dei Feudatarj. Ha cercate le atrocità e i raccapricci in tutte le raunanze di uomini, e perfipo di donne, pel solo piacere di filosoficamen te istruirci sul pericolo dei Voti immaturi, e su l'empietà dei forzati.La Commedia poi,altronon è bene spesso, che un'infilzatura di pezzi scuci. ti degli ordinarj sermoni Filosofici, che hanno per giunta una grazia infinita in bocca del pezzente da strada, dello sciocco staffiere, e perfin dello sgher ro, e del pubblico assassino nell'atto d'andare al patibolo. Cosi l'una s'abbassa di troppo, l'altra s'arrampica da pazza, tutte perdono il punto del. la natura, e niente s'ottiene. Bastano essi ancora cotesti esempj per mostrare,che,generalmente par. lando, tutti i generi sono confusi, snaturati, e tra volti nell'intima loro sostanza secondo il gusto cor, rente, e ciò per ragione del Filosofismo? Matteo Borsa. Keywords: imitazione, genere grammaticale, la confusion dei generi grammaticali, il genere tragico, il genere comedico, il genere conversazionale, Tannen, stile conversazionale – la tragedia della morte di Agammenone --. Virtu e vizio di stilo – filosofismo, neo-logismo, confusion di genero. Austin sul filosofismo, implicatura come filosofismo – remedio contra filosofismo, la filosofia del linguaggio ordinario. Etimologia del cognome ‘borsa’ – origine. Grice. -. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Borsa” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Botero – la memoria di cicerone al rostro -- Cicerone sull’equita civile -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bene Vagienna). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Botero – my favourite is not so much the one on the reason of state (the critique of the reason of state) – but his memorabilia of ‘vires’ of the ‘imperium romanum’!” Studia a Palermo; fu poi in varie case dell'Italia centrale, fra cui nel Collegio Romano. Pur essendo stimato quale poeta in versi in latino, forse a causa di un carattere difficile e da una tendenza alla polemica, interrompe gli studi a Roma e fu inviato come insegnante in località periferiche (ad Amelia e a Macerata). A Roma fu al servizio di Borromeo, del cui cugino, san Carlo, fu stretto collaboratore a Milano, impegnato nella riforma della diocesi, una volta uscito dalla Compagnia di Gesù. Occorre tenere presente sin dall'inizio che Botero s'impegna nella sua nota opera dal titolo emblematico di “Ragion di Stato” dieci agili libri di circa 300 pagine, ove rimedita le tesi esposte nel suo “De Regia Sapientia” in quanto ritiene essenziale combattere il machiavellismo per poter riaffermare la stretta dipendenza di ogni potere politico dalla religione e dalla chiesa (fu segretario di Borromeo) ed approfondire gli studi sulla "ragion di stato", principalmente al fine di individuare un pensiero politico-guida alternativo a quello cui si riferivano le tesi dei riformatori (quello cioè di Machiavelli e di Bodin). La contro-riforma, dunque, necessita di un suo punto di riferimento in materia di scientia civilis (teoria politica), come aveva già fatto presente Minucci.  Il fine e, per alcuni aspetti, il metodo di Botero può solo apparentemente e prima facie, richiamare quelli di Machiavelli. Botero infatti considera lo stato italiano come un dominio assoluto e stabile sui popoli. La ragion di stato secondo Bottero altro non è che l'insieme di tutti i metodi ("i mezi") e gli strumenti necessari e opportuni per conservare e gestire questo dominio. Ma in realtà, sia la sostanza del suo pensiero politico, che lo scopo ultimo cui esso è indirizzato, sono decisamente divergenti, tanto che Botero arriva a definire rea e falsa la ragion di stato machiavelliana e giunge a sostenere che il principe, rispettoso dei precetti religiosi, non ha bisogno di leggere né Machiavelli né Tacito.  Si comprende, allora, come la differenza principale della filosofia di Botero rispetto a quello di Machiavelli consista nell'importanza assegnata alla morale – la ragione prudenziale -- come strumento di governo; l'uso spregiudicato della “ragion di stato” di natura machiavelliana da parte del governante dev'essere cioè temperato dall'applicazione di virtù, quali la moderazione e la giustizia. Ciò, infatti, conferisce allo stesso principe quella reputazione indispensabile per ottenere obbedienza raggionabile dai suoi sudditi. Botero peraltro, afferma che solo i sudditi raggionabile siano sudditi ubbidienti. In questo senso Botero propone una ferma lotta alle eresie, che comportano dissidi fra i sudditi. Lo stato italiano deve essere confessionale e la ragion di stato comprende, al suo interno, la garanzia dell'orto-dossia, la cui curanella divisione boteriana delle funzioni dello stato italiano spetta alla Chiesa. Ulteriore fondamentale differenza con Machiaveli è l'importanza che Botero dà all'economia e alla demo-grafia come parametro per la misurazione della potenza dello stato italiano. Botero, invero, non fu giurista e, conseguentemente, pose l'accento sull'interesse. Pienamente conscio dell'importanza della variabile economica, Botero prende ad esempio la Spagna, incapace di promuovere manifatture e attività commerciali, come regno dalle risorse coloniali praticamente infinite, ma destinato ad essere relegato in secondo piano dallo stato italiano più dinamico nel campo dello sviluppo e della crescita dell'agricoltura e delle attività produttive interne. Nell'ambito della polemica anti-europea, che porta, tra l'altro, a un'elaborazione del concetto di “civiltà romana” in opposizione a ciò che è barbaro o selvaggio, Botero tratteggia il processo di incivilimento come passaggio dalla pastorizia all'agricoltura, all'attività industriale e commerciale; è un processo che richiede, inoltre, il costituirsi di governi stabili e la promulgazione di leggi certe.  Altre opere: “Della ragion di stato, Venezia, Giovanni Giolito de Ferrari); “Delle cause della grandezza e magnificenza delle città”; “Le relazioni Universali”; “I Capitani, Giovan Domenico Tarino, Torino). Prudenza di Stato, o maniere di governo. Die Idee der Staatsräson, Berlino-Monaco. Il primo scritto italiano di Oceanografia, Società geografica italiana. Le origini della Statistica e dell'Antropo-geografia. Dizionario biografico degli italiani. IMPERIUM ROMANUM. IMPERIUM Romanum, quod imperante Trajano eratama pliſfimum in Scotia, extendebatur enim ab Oceano Hibernico, ultra Tigrim: Oceano Athlantico ad finum Perficum: ab Athlante adſylvam Calidoniam, pertingebatg ad flumen Albim, tranſi batg Danubium: primùm labi cæpit bellis civilibus Galba, Othonis, Vitellii: iis enim temporibus exercitus,quiin magna Britannia propre fidio erat,trajecit in Continentem.Hollandia &vicinæ regiones rebels larunt, paucig, temporis progreffu, Imperii finibus præfidio deftitutis tranfmiferunt Sarmarta Danubium: Alani ſuperaruntfauces Caſpias: Perla acquifiverunt nomen & potentiam:Gothipervagati funtMoe fiam &Macedoniam: Franci ingreſſi ſunt Gallias. Conftantinus Imp. reſtituit Imperium antiquofplendori, ſopivit bella domeſtica,frenavit tyrannos, barbaros, & gentes hoſtiles. Sedduofuerunt,qua Imperium multum debilitarunt: primumfuit tranflatiofedis Imperialis Roma Conftantinopolim, quod factum dipoliavit Romam, es debilitavit. Imperium. Luce enim clarius est,quòd ficut plante ex nativoſoloin re gionesclimate & qualitatediverſastranſplantatæ, parumretinentvir tutis naturalis: ita,res humana, præcipuè autem dominia & ftatus magnis illis mutationibusperdunt fuum vigorem & ftabilitatem.Eam obcauſam Senatus Romanus nunquă plebiconſentirevoluit, ut Roma Vejam commigraret, quæ civitasmultògratior, & magisconimodae rat,quàm Roma,maximèpofiquam à Gallis ruinæ tradita fuerat.Locus in quo Conſtantinopolis fitaest, adcòamænus,commodus & fertilisest, utſit difficilimū, utvirtus ibialtas radices agat:non enim toto orbe ter rarumcivitas eft, quamterra maremajorefavore profequantur.Illa enim nuncſein fertiliffimos campos extendendo,nuncindelitioſas val les ſe demittenda, rurſusgleniter in fructiferos colles affurgendo, nunc ſe flexibusin mare inſinuando, rurſusá ſe retrorfum vertendo,abun dèincolis omne delitiarum genus,non folum frumenta do vina canfert. Diceresibi Bacchum cum Cerere, Pomonam cum Flora,pulchritudi nem cum fæcunditate certare. Postquam mareminimopacie,plurimos gratos ſinus& tranquillos portus fecit,quorum in folo Boſphoro (nec is tamen plus quàm 25.miliaria longus est ) triginta numerantur, beni gno aſpectuquafiblanditur civitati & regioni,ducitý eo magnisclaffi bus hinc annonamSyrie &Ægypti, inde divitias TrapezuntinasCa, phag.Nunquam ibi fructusnecmeffes,nunc Thracia,Afia tunc defunt, Eoquog, tendit tanta optimorum piſcium copia,quigyrosagendo &lu dendo, ferè domuscivitatis fubeunt,utquiidnon viderit,incredibile judicet.Pifces enim nuncfugiendofrigus hyemis,tranfeunt ex pontoEu-, xino, in aſpectu civitatis Conſtantinopolitana, Propontidem verſus: nuncvitanteseſtatisfervorem, redeunt eadem via,qua digrefierant. Duabus itag, anni tempeftatibus, eorum infinita copia fummadelecta tione,cui commodum parest,capitur.Sunt ibi præterea Cidari & Bar biſa fummèamæni & jucundiflavii,quiambo celebrem hunc finum influunt,qui inter Conſtantinopolim & Peram est,dilataturg:dicitur is a ſcriptoribuscornuaureū. Vtfinemfaciam:Noneft locus rerum af fluentia, enervanda virtuti aptior,nec advirtutem voluptatibuscor rumpendam commodior: id apertè demonſtrant fegnities&mollities majorispartis Imp.Græcorum,ipforumg exercituum. Si amænitas ora Tarentine, &delitiæ regionis Sibaritarum potuerunt ignavosfacere, &corrumperemores iftorum populorum:fidelitia Capuana potuerunt emollire & extinguere ferociam virtutemg Hannibalis,fuorumg,mi. litum: fiPlato diſcipline incapaces Cyreneos æftimavit,propter fuam profperitatem: quid ſtatuendum erit deloco Conftantinopolitano,dulci & oportunofupra omnes, qui in orbe terrarum funt? In ſumma,cùm nulla resmagispernitiofæ fintReipublica,quàm magnanovitates: que resmajoridamno, nedicam exitio potuitcontingere Imperio Romano, quàmadeò ingens acfubita, prater omnium expectationem immuta tio? Nonplusminúsvefecit bonus ille Imperator,quàmfiquis addan. dumanimali meliorem formam, cerebrum adgenua,aut cor è ſuoloco adcubitum transferret. Secundum erratum Conftantinifuitdiviſio Imperiiſuisfiliis facta in trespartes, quodcontigit anno Domini 341. qua ex magno Imperio tria fecit, cum notabili diminutione authorita. tis da virium. Cùmenim ejus filii inter fearmis decertarent, taliter ſe invicem confumpferunt, ut Imperium quafiexangue corpus remanſe git. Quamvis autem Imperium aliquot vicibusſubunoPrincipe coa luerit, diviſioni tamen adeò aptum remanfit, ut rarò acciderit, quin in Orientale &Occidentale non fuerit partitum,ufq;dum Odoacer, Heru lorum &Turingorum Rex, magno cum exercitu,Italiam ingreffus,in tam magnas anguſtias conjecit Auguftulum, utpredefperatione feIm perio Occidentali abdicarit, quod acciditanno 476.Hunnijam antea Danubium tranfmiferant: Alaricus, Vandalorum Rex, Romam cepe rat: Vandaliprimùm Andaluſiam, & poftea Africam: Alani Luſita niam: Gothimajorem Hifpaniæpartem: Angli Britanniam: Curguna diones Provinciãoccupabant.Iuſtinianus Imp.res aliquantulum in me lius reftituit,nam per fuos Capitaneosexegit VandalosAfrica, & Gothos Italia,annosso. Sed parvotantùm tempore id duravit,nam anno 713. cæperunt Orientale Imperium vexare, arma &herefis Mahumetana, breviſ tempore fuereà Saracenis oppreſſa prater Syriam,Ægyptum do Archipelagum, Africa, Sicilia & Hifpania. ' Anno 735.occuparunt quog Saraceni Narbonem, Avenionem,Tolofam, Burdegalam,& re giones vicinas. Imperiumitag, Occidentalepaulatimprorfus in dire ptionem abiit: Orientale autem adeò invalidum remanfit,ut vixali quot vicibus, civitatem Conftantinopolitanam contra Saracenorum arma defendere, multò minus Occidenti auxilium potuerit. Annoalla tem Chriſti 800.titulos Occidentalis Imperii adeptus est Carolus Ma grises, Francorum Rex, quam rem recenfet Ado, ViemeArchiepifcopus, verbisfequentibus: In die fan £to nativitatis Domini, anteconfeſio. nem beati Apoſtoli, cùm gloriofus Rex Carolus ab oratione furrexiffet, Leo Pontifex capiti ejus coronam impofuit,ficg,ab univerſopopulo ac clamatum est: Carolo Auguſto, à Deo.coronato Magno,pacifico,Imperatori Romanorum,vita &victoria. Divifum itafuit Occidentale Imperium ab Orientali, hoc modo, ut Neapolis Sipontum Orientem verfus, cùm Sicilia Græcorum effet, Beneventum Longobardis rema neret, Veneti neutri parti adfcripti,ſtatus Ecclefia libereffet,reliquum Carclo Magno cederet. BlondusvultIrenem Imperatricem primumin eam divifionem confenfiffe, deindeà Nicephoro confirmatameffe. Ha buit itag, diviſio Imperiiinitium à tranſlatione fedisImperialisRoma Conftantinopolim: crevit diſtractione in plures Principespervenit: ad perfectionem affumptione Caroli Magni. Anteeumenim modus re giminis,leges,magiſtratus, & confilia erantcommunia, tendebantg ad bonum commodumg utriuſ, Imperii, tanquam membrorum ejufdem corporis. Etfiunus Imperatorum moriebaturabſque filiis, totum impe rium manebat alteri: fed Carolo Magno in Imperatorem Occidentis electo, nulla amplius fuit habita ratio Imperii Orientis, nec Imperado lor Orientis unquam fucceffit in Imperium Occidentis, nec ejus Im perator in Orientis Imperium. Permanfit autem Imperium Occiden tis in familia Caroli Magnipaulò minus quàm centum annis: defe cit autem ea familia in Arnolpho. Anno Chriſti 100 2.abfcripto omni jure hereditatis, creatio imperatoris in libera electione ſeptem Principum, qui Electores nuncupantur, pofita fuit. Ratio faciendi · Imperium electivum, quod eò uſque familia Caroli Magni haredi. tarium extiterat,fuit,quòd Imp.Otho 111. filios non habuit: utgdi gnitate perſona, qua eligeretur,Imperium firmius redderetur, Impe rium Occidentis tunc valde coarctatum & concifum erat: nihilenim ci quàm Germania &Italiæ parsfupererat: Pontifex fiquidem Roma nus bonam Italiepartem poſſidebat: Veneti in medio utriuſqueImpe riipoſitivivebant in plenalibertate, cum dominio annexo fuo ftatui; Regna Neapolis &Sicilia, qua Normanni Gracis eripuerant, Ecclefia Romana feudatariafacta erant, primùm fub Clemente Antipapa, deinde fúb Nicolao 1 1. & ejus fuccefforibus,qui Antipapa faktum, propteremolumentum approbarunt: Lombardia & Thufcia, partim pro IMPERIUM ROMANUM. propter diffidia Imperatorum, Henrici IV. & V.Friderici I. &11. cum Pontificibus Romanis,partim propterpopulorum ferociam, Imperato ribus pluslaboris&impenfa, quàm commodi attulerant. Rudolpho Imp.itag,non folùm in Italiam proficiſci,cura non fuit (quòdeum in fortunia, adverfagresfuorum anteceſſorum terrerent )fed &populis Italia libertatem parvo precio vendidit.Lucenfibus nonconſtitit liber tasplusquàmdecem aureorum milibus: Florentini eam fex aureorum millibus redemerunt.Deficientibusitag, cumreputatione, viribus Im perii,inei Italia,preter nomen,nihilferèremanfit. Vicecomites Medio lanenfes,& fucceſſivè alii domini,aliis locis rapuerunt libi dominia,quæ potuerunt,abſq; ullo imperatoris reſpectu,tantumg petebant inveſtitu ram fuorum ftatuum.Sed Franciſcus, cùmfibi armisſtatum Medio lanenfem paraffet,parvifecitinveſtituram, exiſtimansſepoſſe feipfum conſervare in ejuspoſſeſſione,iiſdem artibus, quibus eum fibi compara. verat. Vltramontes ſubſtraxerunt ſeImperio multi Principes, ita, ut Imperium prafentitemporeferè in Germania conclufumfit. Sedquòd dominia in Germania uniformia non funt,defcribam illa, utfequitur: Aliqua dominia funtquaſi membra Imperii,fed ſeparata:quamvis enim Imperiifint,non idagnoſcunt, nec agnofcere volunt, ficut Reges Danie&Suecia,Dux Pruffie, Helvetii, Rheti: alia agnoſcunt quidem Imperatorem proſupremoPrincipe,fed dietas Imperiinon invifunt, nec contribuunt, feruntgonera Imperii,ficut Duces Sabaudia, Lotha ringia, &Principes Italia: alia in viſuntdiatas,feruntgonera,ficut principes &civitates Germania:ſed Rex Bohemie à Carolo IV.imp. à contributionibusexemptus est. Alia dominia non folùmpenduntcom munes contributiones imperii,fedquodplus eft folvuntimperatoritri butum particulare:ea funtilla civitates, queImperialesnuncupantur: aliqui principes Germania non folùm interſuniComitiis Imperiifed, Gelečtioni Imperatoris: hifuntfex Electores, tres Ecclefiaftici, de tres Laici,quibusjungitur,li vota imparia funt, Rex Bohemia,qui non ve wit adconvocationem (quæ diatadicitur) nihilominus calculum in ele Elione stionehabet. Sed loquendo ftriétè:Civitates &Principes Imperiipro priè dicuntur,qui dietis interfunt,& tanquam membra uniuscorporis, participant bona &mala, emolumenta &onera. Hi viventesferè mo dò Reipublicæ fimulunita;ad defenſionem communemhabent impera torem procapite, quinonregit abſolutè,fed per Comitia, nec tamenin. dicit illa abſqzprecedenti confenfu maximepartisElectorum. Delibe rationum Decreta,qua edicuntur, irritafieri nonpoffunt, niſi peraliam diatam: fed imperator habet plenam authoritatem mandandi execu tioni decreta. Imperatorita quod ad dignitatem & præeminentiam Spectat,eft primusChriſtianorum princeps,tanquam is,in quem ceſſere Jura Reipublicæ &Imperii Romani: ejus est protegere Ecclefiam Dei, defendere fidem,procurareg_pacem,&bonum Reipublicæ Chriſtiana. V I R E s. Cimo Vmvires Imperiifitæ fintin Germania, neceſſe est, ut duo verba dicamus dehac ampliſima nobiliffimaſ provincia.lacet ferè in. ter Oderam & Moſam: inter Viſtulam & fluviolum Aa, quiapud Grae velingam fluit:& inter Oceanum Germanicum &Balthicum,Alpesg. Ejus figura quadrata est,longitudine ferè&latitudine aqualis, oso.mi líariumquaquà verſum. Maximè abundatfrugibus,pecudibus, piſcia bus: id experientia compertum fæpè fuit. Carolus enim Viut Turcisre. fifteret, habuit fubfignisadViennam go.peditum, & 35. equitum mil lia adIavarinumcontra eoſdem Turcas, nec tamen caritas ibi experta fuit. Bello inter Carolum V. Proteſtantes peraliquot menfes abundè fefuftinuerunt in campis ferèiso. militum millia. Divesquog, est mi narisauri, argenti,omnisý generis metalli,ſuperatý,alias Europæ pro vincias: natura quog, largitaest ei inregionibus longiffimèàmaridig fitis fontes da puteos aqua ſalſa,ex quibus excoquitur ſalperfectum.Nec minusmercatrixest, quàm fertilis. Indigena enim plusquàm ulla alia natio,vacant opificiis, faciunt artificia miratu digna, ešta Germania tam probèà natura dotata, ornatag magnis fluminibus, qua ubig na vigantur, utcommeatus &mercesfaciliter ex uno locoinaliumdeve bantur. Fluviorum omniummaximus est Danubius, ab illo Rhenus, quiGermaniam à Meridiead Septentrionem tranfgreditur, ficut Das nubius ab Occafu ad Ortum: Albis oritur in Bohemia,lambit Miſniam, Saxoniam,Marchiam'antiquam:Odera oritur in Moravia, lavat Si lefiam,duas Marchias, Pomeraniam.Wefara,Neccarus, Mofa, Mofel la,lfara, Oenus, Varta, Mænus. (HicGermaniam in fuperiorem & in. feriorem dividit.Superior est,qua à Mæno ad Alpes uſ feextendit.In ferior,quæ à MænoOceanum verfus excurrit. Germania in pluresPro vinciasdiviſa est,ſed precipua funt(loquor de iis, que viva membra. Imperii ſunt ) Alſatia,Suevia, Bavaria, Auſtria, Bohemia (quamvis hæc multis privilegiis gaudeat, quacamab oneribus eximunt) Mora via,Sileſia, Luſatia,dua Marchia,Saxonia, Miſnia, Thuringia, Fran conia, Hafia,Weſtphalia,Clivia, Megapolis,Pomerania. In dictisGer mania Provinciis,cum iis non computando Belgium & Helvetiam,& ftimatur effecirciter decem hominummyriades. Dividitur populusin quatuor hominum munera autftatus: rufticos nempe,qui nullo in nu mero funt, civitatum incolas,Barones, Prelatos.Vltima tria genera con veniunt, faciuntg ſtatusImperii. 'Inter Prelatos obtinent primum lo cum Archiepiſcopi Electores:inter hos Moguntinus est Cancellarius Germania, fequiturColonienfis, deinde Trevirenfis, Cancellarii, ille Italiæ,hic Gallia.Sequitur ArchiepifcopusSaltzburgenfis, maximus do dignitate &divitiis. Epifcopus MagdeburgenfisſePrimatem Germa nieinferibit. Bremenfis&Hamburgenfis quog,multasjuriſdictiones habuerunt.Sequuntur deindeplus quàm 40. Epiſcopi,& magnusMagia fter Ordinis Teutonici, &Magiſter EquitumHierofolymitarum. Suns quog feptem Abbates, iig Imperii Principes. Inter Principes feculares öchtinetprimum locum Rex Bohemia, qui est ſupremusDapifer: Dux Seaconia Mareſcallus: Marchio Brandenburgenfis Camerarius: Co Palatinus Architriclinus Imperii.Preter hos Principes funt34. alii Duces, inter quos habent primum locumArchiduces Auſtrie.Inter Du ces imp. viiquog, numerantur RexDania,propter Ducatum Holſatie. Sunt deinde Marchiones,Landgravii,Comites,Barones innumeri.Ci. vitates libere (quarum go.effe folebant,nunc funt circiter6o.que omnes feiplaspropriis legibusregunt)ulterius obligata nonfunt, quàm quòd duasquintas partes, ejus, quodin conventu conſentitur,contribuunt. Earumaliqua Imperiales dicuntur (ficut diximus, quòd cenfum Impe ratoriſolvant, quicenſusin totumadIs-florenorummillia accedit. Ha bent civitates fatisamplosreditus,qui utplurimumonera excedunt. Æ ftimatur Imperium in totum habereplus quàm feptem myriades in re ditibus, quodproreparvi momenti habendū non est.Cùm enim populi gravati non fint,utin Italia, dantprater ordinarium ſuis Principibus maximafubſidia,quando id requirit neceſitas. Imperium obligatúeſt, ſaltem ex.confuetudine,praftareImperatori, quando Romā vadit ut co ronetur,20.peditum,& 4.equitum millia,fpacio oito menfium, diciturg ideò fubfidium Romanum. Reditus civitatum &Principum laicorum, valdecrevere,tumufurpatione bonorum Ecclefiafticorum, tum variis impofitionibuspopulo impofitis,quæcùm in Italia ortü habuerint, facia le ſediffuderunt (exemplumenim malum creſcit femper )per Franciam & Germaniam. Neceſitate exigente, contribuit Imperiú maximaspe cuniarum ſummas,colligunturg extraordinariè: utex contributiones facilius colligi poffint,eštGermaniain decem circulos diviſa, in quibus fiunt conventusparticulares,proexecutione Edictorum, quæ in diætis Imperii facta funt,&aliislimilibusincidentibus.Vires Germaniafunt abſq dubiomaxima: copiaenimcommeatuum inexhauftaeft. Reditus ordinarii &extraordinariipermagni,&modus colligendi commeatus facillimusest,propter fluviori opportunitatem. Quod ad populum at tinet, aſtimaturtotum Imperiumin exercitum educerepoſſe,tum equi tum,cùmpeditum ducenta millia,cujus experimentum factumfuit bel lis, quafupràcommemoravimus,docet idquog experientia. Abanno enim 1566.permultum belligeratum eft in Francia,&in Belgio militi bus Germanis, quorum facta funtfiuntg, adhucquotidie conſcriptio nes non minus frequentes, quàm magna,cüm peditum,tum equitum. Vnoeodemtempore Wolfgangus Dux Bipontinus,duxitin Franciam 12.peditum,& Sequitum Germanorum millia,pro Huguenotis,erantý in ea (Francia) adhuc alia quinqueequitum millia, quibus præerat Co mes Mansfeldiuspro Catholicis. Guilelmus Naffavius habebat in Beli gio & finibusFrancia octo equitum, &10.peditum millia dicta natio nis, &Dux Albanus tria millia. Taceo de numero Germanorum, qui Flandriam ingreffifuntDuce Caſimiro, &Franciam,eodem Duce an no 157 8.eorumg quorum parsannopreſentieamingreffa eft in auxi lium Regis Francia: pars, ut auxilio effet fæderi Catholicorum Frana cia. Vt extremammanumimponam:Cùmcontinuò belligeretur in di verſis Europæ partibus,natio Germanica adeò numeroſa est, ut abſqzea nulla ferèfiantexpeditiones.Non loquor hic de Flandris,qui aliquot vie cibus exercitum 30.millium virorum collegerunt, iis, reftiteruntpøe tentie Francorum: aut de Helvetiis,quos i20.peditum millia,adfuide fenfionem poffe cogere aftimatur.Eorumaliquandoplus quàm 30.mil lia extraditionem miſerunt in defenfionem ftatus Mediolanenfis, ad verſus Franciſcum 1. Francia Regem. Sed ut ad inſtitutum reverta mur: Inter Germania peditesmeliores cenfentur Tyrolenſes, Suevido Weſtphali:inter equites Brunfuicenfes, maximè autem Clivenſes de Franconienſes: inter arma meliustractant Germani enfem,fariſſamga quàm fclopeta.Valent Germaniſatispræliis campeſtribus,tam ad confli gendum cum hoftibus,quàm ad iis refiftendum.Multum enim facit or do,qui ipſis quaſinaturaliseft,inceffusgravis & firmus,armağıquibus #tuntur, defenfioni apta:parum valent ad defenfionem munitionum, & propter corporum gravitatem, &quòdutplurimùm ventricoſi funt, oppugnationibus inepti habentur. Sunt itag, Germanipotiùsconftan tes,quàm audaces, feroces,quàmftrenui. Non enim tentantres, in qui busmagnanimitaselaceat: in victoria occiduntfine exceptione ætatis & fexus,in quofcung, incurzunt:fibellum in longum ducitur, aut obfi dentur,dedunt fe præfegnitie:ſiin caftris degunt,morampatienternon ferunt,necfciuntvincerecunčtando: fiprima molimina non fuccedunt ex fententia,ſtant attoniti, caduntý animis: in fugam femel conjeéti nunquam amplius recolliguntur: in eo præftant Hifpani omnibus na tionibus: in Germanorum militiamagnifumptus faciendifunt,multa quog, moleftia eft, quòd uxores fecum in bella ducant, tantumg abſua munt commeatus,uteum convehere difficile,conſervare quafi impoli bilefit: abfg, commeatu autem nihil boniſperandum est. Equi Germa nicipotiùsfortes quàm animofi funt, & cum ex decem; qui in bellum ducuntur,octo ab aratro fumuntur,parum profunt: videntesg ſangui. nem vilefcunt:contrarium accidit Afturconibus,iisenim crediit audas cia.Concludendo rem: Peditatus Germanicus in fuo genereequitatu po tior eft.Vires maritima Germania terreftribus minores no funt,quam. vis ea non adeò in ufu fint,ficut terreſtres. Civitates enim Hambur gum, Lubeca, Roftochium, & alie, habent heccentum, hæc iso.naves, quibusæquant vires Regum Dania &Suecia. His viribus adeò fortis, potensõest Germania,ut unita nullum hoftem timeat.Viribus,quas di ximus Germania,junguntur (cùm opus est)auxilia Principum Italia, Sabaudia, Lotharingia. Hienim Principes in neceſſitatenunquam de fuere Imperio. Bello enim Zigethano miſit Emanuel, DuxSabaudia, fexcentos equites fclopetarios: Cofmus, Florentia Dux, triapeditum millia,quibus ipfeftipendia dabat: Alphonfus 11. FerrariaDux, ipfe profectus est cumille & quingentis equitibus, adeò probèinſtructis,ut in caftris melior equitatus non eſſet. Eofe quoquecontulit Guilielmus, Mantua Dux,cum inftruétiffima cohorte virorum.HenricusLotha ringus, Guifia Dux, ei expeditioni interfuit cum trecentis nobilitate claris viris. Cumhis militibus &alis,quos adjunxit Papa PiusViha buit Maximilianus 11.fubfignis centum peditum,&3s.equitummil lia: Ordines Imperii ei in Comitiis annois00.Auguſte Vindelicorum habitis, conceffèrunt 40.peditum,&8.equitum milliain 8.menfes, 20.peditum, & 4.equitum millia in tres annosſubſequentes. Meinecke: Der konservativste unter ihnen war Giovanni Botero, ein Jesuitenzögling und Kleriker, der als Sekretär des Kardinals Karl Borromäus in Mailand, dann im Dienste des Herzogs von Savoyen in Rom, als Erzieher savoyischer Prinzen in Madrid und schließlich in gelehrter Muße in Paris die politische Welt Süd- und Westeuropas gründlich kennen lernte und durch seine vielgelesenen Werke, vor allem durch das ‘saggio’ “Della ragion di Stato” politisch Schule machte und zahlreiche Nachtreter seiner Gedanken fand.1) Denn er befriedigte so recht das Bedürfnis des höfischen und sonstwie politisch interessierten Publikums nach einer leicht verdau lichen und geschmackvoll gebotenen Nahrung. An Machia velli gemessen,war er ein mittelmäßiger Kopf. Er hatte nicht wiedieserEcken und Kanten,an denen man sich wund reiben konnte, und empfahl sich den katholisch-bigotten Höfen der Gegenreformation als ein mildes Gegengift gegen Machiavellis Zynismus und Unkirchlichkeit, ohne daß man dabei auf das Nützliche in Machiavellis Rezepten ganz zu verzichten brauchte. Sein Lehrgebäude stellt eine aus dem Renaissancestil erwach sene, reich geschmückte Jesuitenkirche dar, und sein Lehrton ist der eines Würde, Sanftmut und Strenge richtig mischen den Predigers. Er bot aus dem Schatze seines Wissens und seiner politischen Erfahrungen jedem etwas und konnte die Freunde der spanischen Weltmacht und der Kirche ebenso befriedigen, wie die Bewunderer der republikanischen Selb ständigkeit Venedigs. Man lobte an ihm, recht aus dem [1 Wahre Katakomben von vergessener Literatur der Medio kritäten tun sich hier auf. Vgl. über sie die von außerordentlicher Belesenheitzeugenden, geistvollen,aberetwaskapriziösenund wort reichen Bücher von Ferrari, Histoire de la raison d'état 1860 und Corso sugli scrittori politici italiani 1862 (auch viele ungedruckte Schriften werden von ihm behandelt) und Cavalli, La scienza politica inItaliainMemor. delR.IstitutoVeneto17(1872). Im allgemeinen vgl. Gotheins Darstellung in „ Staat und Gesellschaft der neueren Zeit“ (Hinneberg, Kultur der Gegenwart) und das 5. Kapitel dieses Buches. 6* Kunstgeschmacke der Zeit heraus, die dolce armonia, und katholische Monarchen empfahlen sein Buch ihren Thron folgern.] Gleich zu Beginn seines Werkes unternahm er es, das neue, machiavellistisch anrüchig gewordene Schlagwort der ragione di stato zu entgiften und ihm einen harmlosen Sinn zu geben. Ragione di stato, definierte er, ist die Kenntnis der Mittel, die geeignet sind, einen Staat zu gründen, zu erhalten und zuvermehren.Wenn man aberfrage,welchesdiegrößere Leistung sei, einen Staat zu vergrößern oder zu erhalten, so müsse man antworten, das letztere. Denn man erwirbt durch Gewalt, man erhält durch Weisheit. Gewalt können viele üben, Weisheit nur wenige. Und wenn man frage, welche Reiche die dauerhaftesten seien, die großen, mittleren oder kleineren,soseidieAntwort:diemittleren. Denn diekleinen seien zu sehr bedroht von den Machtgelüsten der großen, und die großen seien der Eifersucht der Nachbarn und der inneren Entartung zu sehr ausgesetzt. „Die Reiche, die die Frugalität auf die Höhe geführt hat,sind durch die Opulenz verfallen.“ Sparta verfiel erst, als es seine Herrschaft er weiterte. Als Beispiel aber für die größere Haltbarkeit der mittleren Staaten rühmte er vor allem Venedig. Leider jedoch wollten die mittleren Staaten sich nicht immer begnügen, sondern strebten nach Größe, und dann kämen sie in Gefahr, wie Venedigs frühere Ausdehnungsversuche zeigten. Die spanische Großmacht warnte er in geschickter Weise, die Freiheit Venedigs nicht anzutasten: „Brich nicht mit m ä c h tigen Republiken, außer wenn der Vorteil sehr groß und der Sieg sicher ist; denn die Liebe zur Freiheit in ihnen ist so heftig und so tief verwurzelt, daß es fast unmöglich ist, sie auszurotten. Die Unternehmungen und Pläne der Fürsten sterben mit ihnen; die Gedanken und Beratschlagungen der freien Städte sind fast unsterblich.“ Nach dieser Anleihe bei Machiavelli) bekam dann aber auch das Haus Habsburg [1) Calderini, Discorsi sopra la ragion di stato del Signor Botero, Proemio, Neudruck 1609. 2) Principe, c.5: “Ma nelle repubbliche è maggior vita, maggior]  odio, più desiderio di vendetta; nè gli lascia nè puo lasciare riposare la memoria dell'antica libertà”] sein Lob, denn die Größe seiner Fürsten sei der Lohn ihrer hervorragenden Frömmigkeit. Brich vor allem auch nicht, lehrte er weiter, mit der Kirche, es würde immer als gottlos erscheinen und doch nichts nützen. Mailand, Florenz, Neapel, Venedig haben bei ihren Kriegen mit den Päpsten ja doch nur viel ausgegeben und nichts profitiert. Die Koinzidenz des kirchlichen und des realpolitischen Interesses, auf der das ganze spanische System beruhte, war also auch ein Kernstück seiner Lehre von der ragione di stato. Geh mit der Kirche, und es geht dir gut, ist ihr Sinn. Er riet den Fürsten, vor jeder Beratung im Staatsrate die Sache erst in einem Gewissensrate mit ausgezeichneten Doktoren der Theologie zu besprechen. Dennoch war er weltklug und erfahren genug, um zu wissen, daß es zwischen Welt klugheit und Frömmigkeit nicht immer ganz stimmte. Mochte er das Wesen der wahren Staatsräson noch so sanft und maßvoll umschreiben und es den Bedürfnissen der Kirche und der Moral anzupassen versuchen, so konnte er sich doch, wenn er den Dingen ins Auge sah, nicht verhehlen, daß der kristallisch harte Kern alles politischen Handelns, ganz wie es Machiavelli schon gelehrt hatte, das selbstische Interesse des Fürsten oder Staates war. „Halte es für eine ausgemachte Sache," schrieb er,„daß in den Erwägungen der Fürsten das Interesse das ist,was jede Rücksicht besiegt. Und deswegen darf man nicht trauen auf Freundschaft, auf Verwandtschaft, auf Bündnis, auf irgendein anderes Band, wofern nicht dieses auch das Interesse dessen, mit dem man verhandelt, zum Fundamente hat.“ In einem Anhange zu seinem Buche gab er schließlich unumwunden zu,daß Staatsräson und Interesse im wesentlichen dasselbe seien: „ Die Fürsten richten sich in Freundschaften und Feindschaften nach dem, was ihnen Vorteil bringt. Wie es Speisen gibt, die von Natur un schmackhaft, durch die Würze, die ihnen der Koch gibt, schmackhaft werden, so neigen sie, von Natur ohne Affektion, zu dieser oder jener Seite, je nachdem das Interesse ihren Geist und ihren Affekt zurichtet, weil schließlich ragione di stato wenig anderes ist als ragione d'interesse." 1) [1) Aggiunte fatte alla sua ragion di stato. Venedig 1606, S. 67 f. ] Ein tieferes Nachdenken hätte ihn irre machen müssen an der von ihm so salbungsvoll gelehrten Harmonie staat licher Interessen und kirchlicher Pflichten und ihn in allerlei für das Denken seiner Zeit noch nicht reife Probleme der Weltanschauung verstricken können. Er ging dem aus dem Wege, wie es der praktische Staatsmann aller Zeiten getan hat,und begnügte sich,die Fürsten zu ermahnen,keine Staats räson aufzurichten, die dem Gesetze Gottes widerspräche, gleichsam wie einen Altar gegen den anderen Altar. U n d a m Schlusse seines Buches schwang er sich gar zu einer Ver urteilung der modernen Interessenpolitik überhaupt auf. Heute können, so führte er aus, keine großen gemeinsamen Unternehmungen der Fürsten mehr zustande kommen, weil die Verschiedenheit der Interessen sie zu sehr spaltet. Einst aber, in den heroischen Zeiten der Kreuzzüge, konnte m a n sich ohne anderes Interesse als das der Ehre Gottes z u s a m mentun. Die griechischen Kaiser traten den Kreuzfahrern in den Weg. Was war die Folge? Die Barbaren vertrieben zuerst die Unseren aus Asien und unterwarfen sich dann die Griechen. Ecco il frutto della moderna politica. In einem späteren Werke führte er auch den Verfall Frankreichs auf dieselbe Ursache zurück. Weil sich Frankreich mit Türken und Hugenotten befreundete, erschlaffte der Glaube, denn „wenn man alle Dinge auf eine unvernünftige und tierische ragion di stato zurückführt, löst sich das Band der Seelen und die Vereinigung der Völker im Glauben."1) Boteros Theorie konnte also als gutes Brevier für politisierende katholische Beichtväter dienen. Man predigte die Unterwerfung des eigenen Interesses unter die Ehre Gottes, man predigte ferner, was nicht immer ganz stimmte, die Harmonie des eigenen Interesses mit der Ehre Gottes, und man konstatierte schließlich, wenn es darauf ankam, bald achselzuckend, bald beklagend den Sieg des eigenen Interesses über alle anderen Lebensmächte. Aber diese Brechungen und Widersprüche spiegelten genau die politische Praxis der gegenreformatorischen Höfe. Einer der Päpste selber, U r ban VIII., gab ihnen in den folgenden Zeiten das verführe [1) Le relazioni universali (1595) 2, 8; s. darüber unten] rische Beispiel, das Staatsinteresse über das kirchliche Interesse zu stellen und den katholischen Mächten in ihrem Kampfe gegen Gustav Adolf in den Arm zu fallen.] Nicht nur die kirchliche, sondern auch die humanistische Tradition hinderte Botero, mit konsequentem Wirklichkeits sinne und rein empirisch seine Lehre auszubauen. Er entnahm Probleme und Mittel der Staatskunst noch in großem U mfange aus den antiken Schriftstellern, ohne sich zu fragen, ob sie auf die modernen Verhältnisse anwendbar seien.) Freilich verfuhren auch größere als er, Machiavelli und Bodinus, nicht anders. Diese konventionelle humanistische Methode beruhte nicht nur auf der Verehrung, die m a n d e m Altertume widmete,sondern auch auf der althergebrachten dogmatischen Geschichtsauffassung, die alles geschichtliche Geschehen und die in ihm zutage getretenen Staats- und Lebensformen als gleichartig und deshalb als immer wiederkehrend ansah. So war Botero imstande, als beste und höchste Quelle poli tischer Klugheit nicht die eigene Erfahrung, die doch immer beschränkt sei, auch nicht die Information durch Zeitgenossen, sondern die Historien zu nennen, „denn diese umfassen das ganze Leben der Welt.“ So sahen er und seine Zeitgenossen alte und neue G e schichte als eine einzige Beispielmasse an, aus der man all gemeingültige Maximen der Staatskunst herauszog, wobei man dann sehr relative Erfahrungen naiv verallgemeinerte. Dabei fehlte es keineswegs an Interesse für die individuellen Verschiedenheiten innerhalb der wirklichen Staatenwelt, in der man lebte. Die Verfasser der venetianischen Relationen gaben sich Mühe genug, ihre Herren über sie zuverlässig zu informieren, und Botero suchte dasselbe Bedürfnis zu b e friedigen durch eine groß angelegte Staatenkunde,die er unter dem Titel Le relazioni universali 1595 herausgab.) Er ver sprach hier auch über die Ursachen der Größe und des Teich tums der mächtigeren Fürsten zu handeln, aber blieb dabei im rein Statistischen und Zeitgeschichtlichen stecken und [1) Vgl. namentlich Buch 6 der Ragione di stato über die Mittel zur Abwehr auswärtiger Feinde.3) Den ungedruckten 5. Teil des Werkes hat Gioda in seiner Biographie Boteros (1895, 3 Bde.) herausgegeben.] begnügte sich meist mit tatsächlichen Angaben über Re gierungsformen, Finanzen, Heerwesen und Beziehungen zu den angrenzenden Fürsten. Zu einer schärferen Charakteristik der verschiedenen politischen Systeme und Interessen schwang er sich noch nicht auf. Auch der Bedeutendste dieser ganzen Gruppe, die an der Lehre von der ragione di stato arbeitete, Boccalini tat es noch nicht. Aber er ragte aus ihr weit heraus durch das per sönliche Lebensfeuer, das sein politisches Denken durch glühte. Die Probleme, die ihn beschäftigten, und die A n t worten, die er gab, waren von denen Boteros und seiner Genossen nicht so sehr verschieden. Aber während sie bei diesen zu einer seichten Konvention verflachten, wurden sie ihm zu einem wahrhaften, leidenschaftlichen Erlebnis und entwickelten erst dadurch ihren vollen geschichtlichen Inhalt. Der Geist der echten Renaissance und Machiavellis lebte in ihm wieder auf, aber fortentwickelt zum unruhig bewegten Barock. Er wirkte auf die Zeitgenossen vor allem als ein überaus witziger Spötter, als ein Meister der Ironie und S a tire, der allen über den Nacken sah und alle Menschlichkeiten erbarmungslos bloßstellte. Aber schon hierin und erst recht in seinen nachgelassenen Schriften, die lange nach seinem Tode erschienen, offenbaren sich dem Nachlebenden die tieferen Hintergründe seines Denkens”. Meinecke. Il più conservatore filosofo e Botero. Segretario di Borromeo a Milano, poi al servizio del duca di Savoia a Roma, come educatore dei principi sabaudi e finalmente nel tempo libero a Parigi, conosce a fondo il mondo politico dell'Europa e, attraverso le sue opere molto lette, in particolare il saggio “Della ragion di Stato” fa scuola politica e trova numerosi seguaci. [1]. Perché soddisfa davvero le esigenze del pubblico aulico e per altro politicamente interessato alla ricerca di cibi facilmente digeribili e gustosi. Messo a confronto con Machiavelli, e una testa mediocre. Non ha questi angoli e spigoli contro cui fregarsi, e si raccomanda alle fanatiche corti della Contro-riforma come mite antidoto al cinismo e all'infedeltà di Machiavelli, senza dover rinunciare completamente all'utilità delle sue ricette. Il suo edificio didattico è una chiesa gesuita riccamente decorata che è cresciuta dallo stile rinascimentale. Il suo tono di insegnamento è quella di una dignità, mansuetudine e severità mescolando opportunamente il predicatore. Dal tesoro della sua conoscenza ed esperienza politica offre qualcosa a tutti ed è in grado di soddisfare gli amici della potenza mondiale e della Chiesa, nonché gli ammiratori dell'indipendenza repubblicana di Venezia. Uno lo loda, fin dal [1 Qui si aprono vere catacombe della letteratura dimenticata della critica mediatica. Su di essi, vedi i saggi estremamente ben letti, ingegnosi, ma un po' capricciosi e ricchi di parole di Ferrari, “Storia della ragione di stato” e il suo “Corso sugli scrittori politici italiani” (si occupa anche di molti scritti non stampati) e Cavalli, “La scienza politica in Italia in “Memor. del R.Istituto Veneto. In generale, vedere la presentazione di Gothein in “State and Society of Modern Times” (Hinneberg, Kultur der Gegenwart) e il quinto capitolo di questo libro. 6. I gusti artistici dell'epoca, la dolce armonia ei monarchi raccomandano il suo saggio deducendone il trono]. Proprio all'inizio del suo saggio, intrapreso questo disintossicare il tormentone machiavellico disdicevole della “ragione di stato” e dargli un significato innocuo. “Ragione di stato”, define Botero, è la conoscenza dei mezzi atti a fondare, mantenere e accrescere lo stato italiano. Ma, se ci si chiede quale sia la più grande conquista per allargare o mantenere lo stato italiano, si deve rispondere, quest'ultimo. Perché si acquisisce con la violenza, si riceve con la saggezza. Molti possono praticare la violenza. Pochi possono praticare la saggezza. E se chiedi quali imperi sono i più duraturi, il grande, il medio o il piccolo, la risposta è: il mezzo. Perché il impero piccolo e troppo minacciato dalla brama di potere dal impero grand. Il impero grande e troppo esposto alla gelosia dei loro vicini e alla degenerazione interna. Gl’imperi che la frugalità ha innalzato sono caduti a causa dell'opulenza." Sparta cadde in rovina solo quando espanse il suo dominio. Tuttavia elogia soprattutto l’impero di Venezia e l’impero di Genova come esempi della maggiore durabilità di uno stato centrale. Sfortunatamente, però, uno stato intermedio non vuole sempre essere soddisfatti, ma lotta per le dimensioni, e allora sarebbero stati in pericolo, come dimostrarono i primi tentativi di espansione di Venezia, ma no di Pisa, Genova, o Amalfi. Avvertì abilmente una superpotenza di non invadere la libertà di Venezia. Non rompere con una repubblica potente se il vantaggio non è grande e la vittoria è certa. L’amore per la libertà in loro è così intenso e così profondamente radicato che è quasi impossibile sradicarlo. L’impresa e il progetto di un principi muoiono col principe. Il pensiero e la deliberazione di una città libera sono quasi immortali. Dopo questo prestito di Machiavelli) anche la Casa d'Asburgo ottenne [Calderini, “Discorsi sopra la ragion di stato di Botero) 2) Principe, c.5: “Ma nella repubblicha è maggior vita, maggior odio, più desiderio di vendetta; nè gli lascia nè può lasciare riposare la memoria dell'antica libertà], perché la grandezza dei suoi principi è la ricompensa della loro eccezionale pietà. Soprattutto, non rompere colla religione, insegna, sarebbe sempre apparsa senza Dio e tuttavia non sarebbe stata di alcuna utilità. Milano, Firenze, Napoli e Venezia spendano solo molto nelle loro guerre colla religione e non ne beneficiano. La co-incidenza di interessi ecclesiastici e reali politici, su cui si basa un sistema, e quindi anche un elemento centrale della sua dottrina della ragione di stato. Vai colla religione e stai bene, è il loro scopo. Consiglia al principe, prima di ogni consultazione nel consiglio di stato, di discutere la questione con la sua coscienza. Eppure e abbastanza mondano ed esperto da sapere che non e sempre giusto tra la saggezza mondana e la pietà. Per quanto gentilmente e misurato puo descrivere l'essenza della vera ragion d'essere e cercare di adattarla alle esigenze della morale, quando guarda le cose negli occhi, non puo nascondersi che la durezza cristallina nucleo di ogni azione politica [Come già aveva insegnato Machiavelli, e l'interesse egoistico del principe o l’interesse colletivo dello stato italiano. Considera cosa scontata che nella deliberazione del principe il suo interesse è ciò che supera ogni considerazione. Ed è per questo che non ci si può fidare dell'amicizia, della parentela, dell'alleanza, di qualsiasi altro legame, se così non è anche questo ha gli interessi di coloro con i quali si negozia come fondamento. Infine mette francamente che “ragione di stato” e “interesse colletivo del stato” sono essenzialmente la stessa cosa. Il principe si orienta nell’amicizia e nell’inimicizie secondo quanto vi sono piatti che sono naturalmente sgradevoli, resi appetibili dal condimento che dà loro la cuoca, per cui tende, naturalmente senza affetto, da una parte o dall'altra, a seconda dell'interesse del suo animo e preparano il suo affetto, perché in fondo la ragione di stato è poco altro che ragione d'interesse. Aggiunte grasso alla sua ragion di stato. Venezia] Una riflessione più profonda avrebbe dovuto sviarlo dall'armonia della ragione dello stato italiano e dell’interesse dello stato italiano e del dovere etico e religioso che insegna in modo così untuoso e coinvolgerlo in tutti i tipi di problemi di visione del mondo che non erano ancora maturi per il pensiero del suo volta. Evita ciò, come ha fatto lo statista pratico di tutti i tempi, e si limita a esortare il principe a non stabilire un senso di stato che contraddirebbe la morale, come un altare contro l'altro. Alla fine del suo saggio si è persino mosso per condannare la politica di interesse in generale. Spiega che il principe non puo più realizzare grandi imprese comune ad altro principe perché la differenza dei interessi li dividono troppo. Ma nei tempi eroici della repubblica romana ci si poteva unire senza altro interesse che quello della gloria di Roma. Gli imperatori greci ostacolano i crociati. Qual'era il risultato? I barbari goti e longobardi prima cacciarono i nostri dall'Asia e poi si sottomisero ai Greci. Ecco il frutto della politica. In un saggio successivo attribuisce alla stessa causa anche il declino della repubblica dei franchi. Poiché il regno franco (l’antica Gallia) fa amicizia con turchi e ugonotti, la fede si allentò, perché se si attribuisce ogni cosa a una “ragion di stato irragionevole” e animale, si scioglie il vincolo dei animi e l'unione del popolo.] La filosofia di Botero puo quindi essere usata come un buon breviario per la politi servire i confessori cattolici. Predica la sottomissione del proprio interesse alla gloria ed al interesse colletivo, si predica ancora, cosa non sempre del tutto vera, l'armonia del proprio interesse con l'onore patrio, e infine, quando si arriva al punto, si alza le spalle, a volte lamentando la vittoria del proprio interesse su ogni altra forza della vita. Ma queste rotture e contraddizioni riflettevano esattamente la pratica politica dei tribunali contro-riformisti. Uno dei papi stesso, Urbano VIII, la loro questa seduzione in tempi successivi [Le relazioni universali] [Vedi sotto per un esempio di mettere gli interessi dello stato al di sopra degli interessi della chiesa e di cadere nelle braccia delle potenze cattoliche nella loro lotta contro Gustavo Adolfo.] Non solo la tradizione ecclesiastica, ma anche umanistica impedì a Botero di ampliare il suo insegnamento con un senso coerente della realtà e puramente empiricamente. Ha preso i problemi e i mezzi di governo su larga scala. Comincio dagli scrittori antichi senza chiedermi se siano applicabili alle condizioni moderne.] Certo, anche quelli più grandi di lui, Machiavelli e Bodino, non si sono comportati diversamente. Questo metodo umanistico convenzionale si basa non solo sulla venerazione che l'uomo dedica all'antichità, ma anche sulla tradizionale concezione dogmatica della storia romana, che vede simili e quindi sempre ricorrenti tutti gli eventi storici e le forme di stato romano e di vita che in essi emergevano. Botero sa quindi nominare la migliore e più alta fonte di saggezza politica, non la propria esperienza, che è sempre limitata, né le informazioni dei contemporanei, ma la storia di Roma, perché questa abbraccia l'intera vita del mondo. Così Botero vedevano la storia della Roma antica come un unico insieme di esempi, da cui si estrae una massima universalmente valida di governo, per cui una esperienze molto relativa viene poi ingenuamente generalizzata. Non mancava l'interesse per le differenze dei soggetti o individui all'interno del mondo reale dello stato italiano in chi visse. Gli autori delle relazioni veneziane fecero di tutto per informare in modo affidabile i loro padroni su di loro, e Botero cerca di soddisfare la stessa esigenza attraverso uno studio su larga scala dello statio romano che pubblica con il titolo di “Le relazioni universali”. Anche qui promise in procinto di agire sulle cause della grandezza e del pool dei principi più potenti, ma rimase bloccato nella storia puramente statistica e contemporanea e [1) Cfr. in particolare il libro 6 della Ragione di stato sui mezzi di difesa contro i nemici stranieri. 3) Gioda pubblica la quinta parte non stampata dell'opera nella sua biografia di Botero] di solito si accontenta di informazioni reali su forme di governo, finanze, eserciti e rapporti con il principe vicino. Non arriva ancora aa una descrizione più nitida dei vari sistemi e interessi politici. Anche il più importante di tutto questo gruppo che lavoa  alla dottrina della ragione di stato, Boccalini non lo fece ancora. Ma lui sporge lontano da lei attraverso il fuoco personale della vita che brilla attraverso la sua filosofia politica. I problemi che lo preoccupavano e le risposte che dava non erano poi così diverse da quelle di Botero e dei suoi compagni. Ma mentre si sono appiattiti a una convenzione superficiale in questi, sono diventati un'esperienza vera e appassionata e per lui solo in questo modo svilupparono il loro pieno contenuto storico. Lo spirito del vero Rinascimento e di Machiavelli rivive in lui, ma si sviluppò in uno spirito irrequieto e commovente Barocco. Ai suoi contemporanei apparve principalmente come un beffardo estremamente divertente, come un maestro dell'ironia e della satira, che guarda sopra il collo e smascherava senza pietà tutte le discipline umanistiche. Ma già qui si rivela a coloro che vedeno dopo di Botero lo sfondo più profondo della sua filosofia politica. DE IVRE CIVILIS. M. TVLLIO CICERONE IN ARTEM REDACTO  EXERCITATIO   SCRIPSIT ILLVSTRIS IVii^^^P^LTOlArM ORDINIS TORITATE PRAESIDE   D. CHRIST. GOTTL. HAYBOLDO   SVPREMAE CVRIAE PROVINCIALIS ADSESSORE, IVRIS SAXONICI  FROFESSORE PVBL. ORDIN. ACAD. ELECT. MOGVNT. SCIENTIAR VTILIVM SODALI .AD DISPVTANDViM PROPOSVIT ANNES GOTTHELF i^ORNEJVIANNVS   i I.VBENA LIPSIAE  EX GFFIG^IA SAALBAGHIA DE IVRE CIVILI A M. TVLLIO CICERONE   IN ARTEM REDACTO   EXERCITATIO   SCRIPSIT  ILLVSTRIS IVi^^B^LTOI^M ORDIXIS   ;toritate  PRAESIDE D. CHRIST. GOTTL, HAVBOLDO   SVPRKMAE CVRIAE PROVIXCIALIS ADSESSORE, IVRIS SAXOXICI  PROFESSORE PVBL. ORDIN. ACAD. ELECT. MOGVNT. SCIEXTIAR   VTILIVM SODALI  A. D. Vr. INI. OCT. A. C. cI^LoCCLXXXXVXI  AD DISPVTAXD\'M PROi^OSVIT L V H E N A - t. V Sta T V S   ilOANNES GOTTHELF M^RNEMANNVS   L I P'S I A E  EX OFFICiNA SAALDACHIA   I R O AMPLISSIMO ATQVE CONSVLTISSIMO   «lOANNI CHRISTOPHORO *   HORNEMANNO * rf   ' PARENTI OPTIM O NEC NON  VIRO ILLVSTRI ET AMPLISSIMO – BOTERO --  SERENISSIMO DVCI SAXO - VINARIENSI IN SVPREMO SENATV  ECCLESIASTICO A CONSILUS ET ILLVSTRIS QVOD ^VINARIAE   FLORET GYMNASII DIRECTORI ^ -   PRAECEPTORI OMNI PIETATIS CVLTV   PROSEQTENDO HOCCE QVIDQVID EST LITTERARH MVNERK  OBSEQVII £T OBSERVANTIAE   MONIMENTVM  A V G T O R -DE IVRE CIVILI. M. TVLLIO CICERONfi o^^f   ' IN ARTEM REDACTO ^ "btinuit haec fempet vxtOL do£^os honiaes constans opinio, atque etiam nunc in omnium, qui dehis rebus optime existimare pofTunt, penitus inhaeret animis., quidquid viiquafti iit poUtiorum difciplinarum, nuUis aliis, quam Romanorum libris ac litteris contineri, nec vllam omnino efl*e artem ^que  icientiam, cui non iniignis lux ex veterum fcriptis adfundatur.  Elgo quidem , quo faepius lego praeftantiHimos veterum libros , eo  magis, quam iam dudum perfuafam mihihabui, iententiam con-  firmatam video, nuliam reperiri difciplinam, «ui maiora fubfidia  fuppeditet veterum fcriptorum le£Ho, quam iuris ciuilis fcientiam '),  quae tota fere ab antiquitatis Romanae cognitione proficifcttor, nec  vllum vmquam intei: omnes , quos tulit Latium, excellentiam in-   V - ; . genio-     <) De commodis, (}ua£ ex adfidua auAarum clafficorum ledione InAudium  iuris ciuilis redundant, gcneracimdixerunt Fridl Placnerus in Praef. fuper  vtUitate leffienis au^trum c/affictrtm im hure ciuili., I. Fr. Groneuii Okfer-  va$t. Lipf. 1755. edic. prseminar et Ge. Frid. Kraufius in OiC de fraefiiiis  «ufin-u^f veterum in explicand* iitrt fraefmim ^mant, Vit^inb.   r- . '''  geriiorum /CTiptores M. T. Cicer brie exftitifle vberldrem, in quo tot  tamque praeclara de iure litteris conngnata reperiantur. Euoluaa  enim, quaefo, diuini illius au£loris fcripta, non orationes folum, -<#  fed illa etiam, quibus artem dicendi tradit vel philofophic^tra^at,  et reperies in fingulis ipfius libris , ne dicam in iinguiis fere capiti-  bus, innumera iuris fcientiae vefligia , non leuiter illa adumbrata,  fed manifefta ac penitus expreifa *). ludae mehercule molis volu-  men confcribendum eflet, (i quis omnia, quae ad iurifprudentiam  fpe£lant, ex CICERONE coUigere vellet atque illuftrare 3). Quae quum  ita (int, haud fcio, an operae pretium fa£luri iimus, ii, qunm com-  mode nobis obtulit et de litterulis noilris quaedam , qualiacumque  iint, diilerendi (hidiorum noftrorum ratio, occaiione ita vtamur,  vt Ciceronls iurifprudentiam paullo copioiius explanemus, et, quot  quantaque ad ius ciuile in artem redigendum ipfe ftudia contulerit,  quantum in riobis iitum efl;, pertra£lemus. Sed valde pertrmefco,  ne quis hifce conipe£Hs alto fupercilio ac vultu magna minanti mihi  ..-:Si quis flty cui non facis ponderis habere videacur haec mea oratio, age  lo. Aug. Hachium , cuius merica de hiAuria iuris Romani atque eleganriori  iurifprudenria nufla vmquam delebir dies, eum igirur excircmus, vr» quae  modo diximus, hls audoritatem tribuat. Nam in WJf. iurifpr. Rom. 11, 2,  4, 4). p. S46. edit. 111. Stockmanni omnibus ius Romanum cum laude per-  cepturis adHduam iibrorum Tullianorum le^ionem vcl idro commendauir,  quod in aliis veteribus au6loribus tot tantxeque veteris iuris reliquiae» vcl  potius copiae, quantae in hoc vno, haud reperiantur.   3) lam olim Franc. Balduinus (in Epift. de opt. iur. doe. et difc. rat. ad fludio-   fam iuuentutem confcriptti et praemifla Eius Catecbefi iuris p. m. 46.) tantuiQ   otii fibi optauit, vt lurisprudentiam Ciceronianam colligere, et eam, vci   inftituerat, in locos rommunes digerere pofTet; nihii cnim dignius Rotnano   iure, nikil ca tdccfliouc graciu; cflc poiTc.        r^ji ' ':   conSsfHmoecHnt : col n6n di£iusTl7!fts? Me qufdetn nofi jfu^i laiil  s magnis viris fumnn cum laudehuic &rgumento nau^tam efTe ope*  W .mck 4), coniilio tamen multum haud dubie diuerfo 4ib e6, quod no^  bispropoiitum e^y ita, vt negotium noftrum paucis certe etfere -  obiter antehac tmtatum effe^ abfque adrogantia adfirmemus.  Omnes enim , quofcumque infpiciendi perluflrandique copi& .  nobis USoi erat»^in eo maxime elaborarunt> vt oftenderent, G-   Vid. Anr. Scbultlagil Or./4r imrifpntdentia Ciceremis^ calci fubiefta Dj^//.   ^:^ Fr«n«qa. 170». 4. ian^m cditarum» ct recufa in OpufcuKs ad bijitritm imrii   xx. ftrtinentibust a lo. Lud. Vhlio colleAfs (Halae 173$.) p. 309. fqq. Henr.   . Mtxi.\ Keftneri Difl*. Cicer» Iurec^nfuttus in Tr. de Officiis. Rinrelii 1719. 4.   Uenrici Brokes DiflT de Cieerne iuris ciuilis tejy »c interpretet fpecistim d».   •"'"'' Cicerene ICt9. Vitemb. ijjg. 4. Eiufd. Diff. de Cicerone iuris ciu. trfiesc-   *\ inttrprete t fpeciatim in fuis de Inuentiene Ithris. ibi<L 1739.4. Efafd. DiiC   de Cicerone iuris viu. tffle ae intei^pretep fpeciatim i» primo de erattre iibri   m cap. I — 3g. ibid- 174 1 4. Henrici Conftantini Cra< Specimen iurifprmdentiae Ciceronianae f. ^iceronem iujiam pro A. Caecina cauffam dixijje. L. B.   1769. lo. Olivier Diatr. de iurifprudentia Ciceronis; in £i. Ciuiiis doQrinae   anaiffi pbilofopbica (Rom. 1777.4-) P* 97—136. lof. Lud. Em. Puttmaimi   Obf. de vtHitate e leStione fcriptorum M. 'Tuilii Ciceronis phraecipueque eratio-   num TuiJianarum in difciplina iurit erimina/is capienda ; in Ei. M^cellan.   c 19. Quibus addcndi funt» qaos Ciceronianae eniditionis praeconet magno   numero recenfct largiflimus eiufmodi fcriptorum promus condus lo. Ge.   MeufcUus Vir III., in BibHotb. Hifi. Vol. IIII. P. i. p. «77. fqq. Multa   qaoque er praedara diuerfls in locis dc Tulliana iuris fcientia protulic   Conyers Middleton in praeclaro opere, cui tituius eft: Hijiory of tbe Lifd   ' of M.T. CicerO' London 1741. 4. quodque in vernaculam linguam tranfta-   lit Seidelius. (Gedani 1791.IIII. Vol.) At ilfud miratus fum, qui fa^um fit,   quod in eo capite, quo de Ciceronis doflrina ct erudicione (Vol. IIII.   ^ p. 3'}- fq. verf. Seidel.) ^bferuauit pluriroa lcvhi digniflima auftor elegan-   tiffifflu^ ne verbulum quidcoi dixcric de cius i)uis fcicncia.     oeronem in iure non futfTe hofpitem » vel plura ac praeclara in eo  reperiri, quae ad ius Romanum expiicandum inprimis faciunt; illam  vero quaeflionem, quot quantaquede iureciuiliaddifciplinaedigni-  tatem euehendo eius merita exdant, vel iicco pede tran(ilierunt,  vel ieui tantum bracchio pertralanint. Quae quum ita fint, nuUus  profe^o dubito , quin nos non prorfus inanem in hac quaeftione  pertra^anda operam infumturi ilmus. Quod quidem ii cognoue-  rimus, fieri foriitan potefl, vt, quaepingui, quod aiunt, Minerua  adumbrauimus^ lineamenta iatius aliquando dedgnemus , et quan-  tum ad vniuerfam iurifprudentiam augendam et in aitius promo«  vendam contulerit Gcero, copiodus exponamus. Quod vero ad  hafce (ludiorum meorum pnmitias adtinet, eas omnium, qut Ittteris fauent, quibufue et leuia aut tenuia haud difplicent, oculis lu-  benter fubmitto ac fpefn foueQ certi(Timam, fore, vt aequi exifli-  natores et erga iuuenis mode/lam imbecillitatem indulgentes lcri-  ptiuaculae coaiilium Hnt refpe^uri.  A dgrcdienti autcm mihi hunc locum animus hon eff adnm agree et putida ditigcntia Arpinatis vitam confcribere; quod prorfus  cft ab inftituto meo aRenura. Id tantum adfequi voto , quod femh  per niihi in fummos homines ac fummis ingeniis praeditos intnenti  ^ coniidierandum efle vifum eff, vt ex qnibufdam quafi dcHneamentis', ,  quo fiicrit ille a natura fa^s ingenio, oftendam, ct, quod poffini^  inueftigem , quibus initiis ac fandamcntis haec tanta rurrfprudenr .  tiae facultas excitata fit, quibus praefidiis adiutus, qua ria ac rtt-  tione indu^us ad id legitimae fcientiae faftigiura penetrauerit. Iti  enim fiet, vt, quo diRgentius haec cdnffderemusr ac perpendamus  fingula, eo ditucidius adpareat, quantum ad artem noftram augeny  dam et ampKficandam contuterit atque adeo conferre potuerit. Inter omnes fere populos maximam curam conftat educanda  i^eris adhibuiffe Romanos 9). ProDe enim gnari, quantum iiiter-  ^, quantunai^|EEfemomenti habeat tenelios adhuc animos veluti ce»  reos fingere et ad bona omnia^conformare, puerilem praecipue  aetatem cura fua amplexi funt, et id in primis ipedarunt^ vt fincera  atque integra vniufcuiufque natura toto ftatim peiQore a di ipe r et ar-  tes honeftas, et, ad quod maiora haberet adiumenta, in eo mice  eiaboraret. Eodem modo TuHium noftmm inftitutum fuifte, vel  ex eo iam colligi poteft, quod eius pater, qui, quum eftet infirma -  valetudine, in Arpinati villa remotus a proceUis reipublicae aetatem Cf. Taciti Diai. de 6raf, a».     Wz     tem«ge^t inlttteris, <]^dquid dabatur otii, id f«re4ii hoe -enifM  conrumrerit ^). lam a primis, vt Graeci dicunt, vnguiculis, iis,  quaeL. Graflb placebarit, artibuset ab iis do£loribus, quibus ille  vtebatur^ eruditus 7) elementa iitterarum celeriter percepit, tan--  tumgue adtigit do^rinae, quantum praeftantidmio quifque ingenio  praeditus prima illa puerili inftitutione potuiffet. Ac fi verum eft,  quod fafepius prodltum legimus et ipfi obferuauimus quidquid suscipias imprimere, id facile recipere teneros inuenum animos, noa  eft, quod dubitemus, quin puerulo iam amor quidam iingularis ear  rum litterarum, quibus ftudia forenfia aluntur, infitus fuerih  Confideret enim aliquis eius ingenium a fimilitudine paterni haud  abhorrens, ponat fibi ob oculos aui magiftratum fumma cum laude  gerentis exemplum 8^, expendat educationem Crafli, quem elo-  quentium iurifperitiifimum vocare Cicero ipfe 9) non dedignatus  cft, arbitratu inftitutam. Quae fi quis fingulatim percenfeat, con-  iefturain noftram haud vano niti argumento, inficias fane ire non  poterit. £x vmbratili ac dAneftiCa difciplina Romam fecontulit,  eo con^lio , vt mirificum et ad omnia fumma tutum ingenium,  quod in vnius vrbis , quae naibentem ^remio et (inu fuo exceperat^  gyrum fe compellinon fuftinebat, maiorem inueni^ret aliquem cam-  pum, in quem excurreret, roaius, in quo Jfpeilaretar , theatrum.  Incidit quidem tunc temporis in funeftum ac perturbatum reipubli-  cae ftatiun, quo vrbs, imperii domicilium, variis fa^lionibus, servire 6) de leg. 8» X. de prst. i, i. Ep. ad Dim, if, 4.  de ttrmt. 3, l.   t) de leg. a, i. }, i6. de wat. fl, 6<. - - •  9) Brut. 1%.     vi» phrictis, iHbortbat, emmli adlitttt«»Tnrce amnitnti «doer-  tfts, felix vere et anreum feculiim , quo omnis Graeciae {apientta  tam feuera lege excolebatur, vt, quod ibi fuerat exercitatio ingenii,  liic in femen conuerteretur publicae vtilitatis '<>). Quam ob reiii dolefcentes prirots annis Graecis iitteris dare et grammatico^  rhetores, phildfophos Graecos audire folebant "). Quum eoim ve-  teres ea, quam Plato iam fbuerat, imbuti efTertt opinione, omneni  ingenuarum artium do^inam Vno quodam focietatis vincuio conti-  n'eri **), nihil profedo prius neque antiquius habuerunt, quam vt  iuuenes, iiue ad rem militarrai, iiue ad iuris fcienttam, iiue id  eloquentiae ftudium fefe adplicarent, id non fblum agereot, fiad  omnem etiam liberalis difciplinae orbem emetirentur. Adeam quo-  <|ue^fententiam (ludiorum fuonun rationem adcommodauit Gcero ;  de quo fi quis dixerit, tanto eum ingenio fuifle, vt, quaecunque  effent in litteramm cognitione pofita, intelligentia comprehende-  rit, fi quis commemorauerit^ tanta eum induftria exfMtifk, vt,  quidquid librosum philofophi Graeci reliquiflent, qui in aliqUo  fiumero haberentur, qmdquid oratores, quidquid hiflorici iitteris  coniignaflent, quidquid.cecinilTent poetae, ideuoluerit ac fhidiofe  legerit, ii quis adfemerit, antiquitatis memori^m paene omnem,  maximarum gentiura ac nationum res geftas cognitas eum habuiffe,   ' lo) Cf. Seneca mPrae/. L. i. Controu. nQtiidquid, Inquic, Romana facundia  habet» quod infolenti Graeciae auc opponac aut praeferac, circa Cicerpnem  effloruic: omnia ingenia, quae iucem flndiis nollris adtuleruflt, tuncnaca   II) Bfut. 40. dfg off. I, I. Sueton. de el. rbet. i. et ^* riv>i^*   hicy inquam, qui omma haec illi Tindicare non dubitatet, nimias  lorfitan laudum TuUianariun videretur eSe buccinator. Nemo  Tero Cicesonem adtigit, qui dubitare, quin ita fit, vUo modo poC-  £t '3). In primis vero in philofophiae (ludio, non eft £aciie di^hi^  quantum excelUierit '4) ; quani non a limine, vt dicitur,. falutauiti  fad ad intima eiufdera cubilia penetrauit, et vnamquamque eius par-  %em ita adcurate diiigenterque perluilraiut, vt Ulos, qui in vna  phiiofophia quafi tabernaculum vitae {iiae coUocauerant,^ fere superaret.  Legatnr lac. Periaonii Orttib de deeronts eruditione et indii/fria (Frane^a.   l6%i.) p. l^ {qq. ^ ii. -Non fe e porricu Zenonif, atit Lyceo Arlftoteir», lat liortis Epicuri, fcd   cxAcadcmiae fpMJis maxime exiiHie dicit Or. |. Ep.adDiy. 1,9. Nempe   ..,«:. Acadcinicae philofophiae ezat, de ooinibus zebus in vtranque partem difpu-   tare, quod ad forcnfcm etoquentiam fane valebat quam plurimum, nequc   ' / ad angufte ec tcnurter, ftd cleganccr, copiofe ct ornate. Sed philofophiam   f^/ aon folum tamquam eloquentiae miniftram amptexus *eft, quae arma ipfi   »r«, iuppcditarc poflcCt quibus aduerfarios, hifce fubfidiis deftitucos,. pEoftcrncnt   ,.' valeret, vcrum etiam ad ituifprudentiac Audium tranilulit, vt haec, philo-   Ibphiae opcra fubjeuata, paullo magis fe commoucrct, ec tamquam carncm,   ' fuccnm, iaaguinem coioremque adciperet. Cuius focietatis illu/Vre arga« ■lentum ipfe exftare voluit eo loce {de Itg. i, (.), vbi non a psactoris ediiffco»   Bcquc a XII tabulis, fed penitus ex intima philofephia hauriendam iuris   difciplinam putat. Qycm autem morcm dilFcrendi Socraticum in omnibus libris fequutus eft, eumdem quoque jn iuris fcientia adfiibuit. Vbf-   cumque cnim de iuris quaeftionibus vel controvcrfiis fermo eft, ab vna   parte fententias , et quibus nituntur rationes fumma arte difponit, his vero   jka difpofftis, contratias opiniones earumque argumenta ita tn aciem educit»   vt quiuis ex earum coniliftu, quid in vtraque parte minus firmum, quid   verifimiltus (ir, facile intelligere pollit. Ci.de I»u. s, a — 9. Orut. Tart. 14.   cc 34. Plura dtbunt, qui de philofophia Doftri ex iolUcuto coounentati     .li-     •^ji-:     rar^. Omnibus lis itaque do^lrims , quibus aetas pilerilts inleiy  imari adhumanitatemlblet, -atque omnium ik)narum artium ormi^ v  mentis iitflrudus in forum , tamquam in ifAcra ac puluerem, Mu*  €txis eft, rt eius auditor efTet et fedator iu^eiorum. IVes Tiimiruni  Hs temp6ribus artes fuere, qwie ad furoma quaeque viam muniebanl^^  ars dicendt, iuris fctentia atque arma ^i). Ek quibus -quas ^potiifi* ,  mum amplexus fit nofter, facile ^uhns potf ft comedura adfequi',  qui eius mentem penitus introfpeut. Qunm enim-omnes tFahaiiiur' -  iandis ftudio, quid mirum, H Qcero, qui, quum amore gioriaenimis :-  acri fortafle neque proHus inhonefto ftagraret} nihai invtta ezpe*.  tendumputabat, ntd quod||0et cmn laude et cum dignitate coniua* .  Chim, eumdem, quem optimi ac nobilHnmi, petere curfum laudts,  atque in iis elaborare yeiiet ac deiudare, quibus maxima expofita /  erant vel ad gratiam vel ad opes vel ad dignttatem praemift, quae-  que in omni libero populo femper fleruerunt fefnperque dominatae  funt "'^). Aiia qnoque ratio tn retpuMicae ilatu ac temporibus,  quaeillum exceperunt, quaerenda «ft. . QuaeqHtdem^ dUig^ter  tnfpidamus, tnuememus, i^mpubiioam Romanam tunctemporis . -ciuiH- "  Xfunt, Gautier de Siberc in Dlatr. cui litulus: Examen de U PblUftftU d«  '^'?'Ciciront inferta AUm. deVAemd. d. hfcr. XXXXI.p.466. fqq. ettn ^ians  ^; '.^ C Meinc»rfius, VirlU., inOr. degantiffim; ac dodi/fimc fcripta de pbtlefitphis  ^^ Cicerenii eiufque in vniuerfam pbilofopbitm meutis^ quae exibt in Opuftc. . '  pbilofophlcis varii argumenti (Lipf. 1777.) T. i. p. 374. Add. Middletoni  /. /. T. 11 II. p. 3)o. fq. ex verf. SeideU  Xxji) BKttf^4s. Cf. quae egrcjie, vt oronia^ hanc in rem «bieruauic Cbr. Gtr>  viuf. Vir Celeb., ia den pbilofopb. Anmerhungen itnd Abbandlungen zu Ciee-  '■ •' r#V BUcbern vn den Pflicbteh T. f . p. aa j  fim. 41. ^ro Afor.<t. <Aj;^a, 19. .i;^ *v.-v^*^ >^^f'<jj^ ?&?< ,     m -   ciuilibus di^Hdik ac bellis mirum in modum conquafTatam fuiflc et  Ubefa£Utara. Ac primum quidemGracchanae Druiianaeque atque  Apuleiae feditiones rempublicam conturbauere, quibus ea femina  fparfa funt, vnde bellorum ciuilium, Sullani, Mariani atque Cinatr  oi formidolofa fufeitata eil flamma, quae ciuium fanguine reftiob  guebatur. In tantis tenebris atque parietinis reipublicae omnia bo^  oarum artium fludia iiluerunt. Forum moeilum etvaftatum, muta  i^tque elinguis curia, fides venalis, iudicia diflbluta, perdita, num*  maria. Sed non dilatabo orationem meam ; etenim poffet efTe in-  finita, a mihi liberet commemorare iiios turbines, illas procellas  ac ciuiles difleniiones, quibus fatis ^^nter deplorandis alicuius  eorum, qui tunc occubuerunt> opus eflet ingenio. Ad Ciceronen^  vnde deflexa efl noflra oratio, reuertamur. Qui quidem quiim omnia  haec adfpiceret, quid mirum, fl eius animus, veterum ie^ione  innutritus, ac fortiflimorum virorura, quoruiQ imagines et ad in-  tuendum et ad imitandumi expreflas reliquerunt et Graeci et Ro>  mani fcriptores, exemplis incitatus eo adduceretur, vt omnes curas,  omnes cogitationes, omnes vigilias in eo collocandas eflTe putaret,  vt flrenuiflimus iibertatis vindex, ^umanitatis acerrimus propugna-  tor, iufliflimus cauflarum patronus, ii4|^roborum adcufator ai|da-  cifHmus atque fortiflimus infontium defenfor euaderet. Nihil enim  pulcrius, nihil honeflius, nihil dignius cogitari pofle putabat,  4)uam improbos adcufare et miferos calamitofofque defendere ^7).  Quem quidem finem flbi propofltum quo plenius adfequeretur, in   Diuintt. in Caecil. s, so. ai. PbiUpp. i, }. pr» ClMeni.%7, lo prinus vero  lc^u digiuffifflus cft locu^ qui cxftat i^ O^ a, 14.     -"^0 ;i     fo^Xeiiiikpvit ^^m^^S>tt»ttm^M^6per9my vt et trtem dicendt «| v  iuris icientinin, iiiH} qur tegttima defenfio rel adcufatto, in foro tfinr|  ilituenda, nuUo modo fuccedere poterat, ar^flSKio vtnculo eoniuii^  gtoret ^^), Quam ob rem, neXhemidis&cra illotis mantbus adttQ#;  geret, Mtm 9 paruis leges decenrairales» a quibus, tamqqam pobU«§  pTiuatiqueiurisfonte, iioifprudenttae ftudium aufpicahdum pufetf ^  bant vetetes, edidieit i9), atquein fcholis rbeUvuin» vt tam ih dttiTl  fendendo, quam ui adcufando ejcerctt:«tur , fumma induftria M^   •  l| I I I I I I III lll# -;.   /" ig) DHliiifta eraht iit tempbribtts ihter fe ittrirconfs!r»ram ct pttronoKMi^V  •^fi^' mnoi»-, qmmquam haud decranr» qui Ttnim<)u« <umma otm 1^4c &^ilii^^'  .| rcnt, vcluti }A. Porcius Cato (^Er «r^/. 1, ]7» ct K.lJ.)* P- Crafliis DtueaO^;;  ' . ar««. I, 37. ^rc/. 36.) i Q. Mucius Scaeuola pontifex (BrM. |9. et 40.), h,  T CraiTus (2?r»/. jg. 39. 40.) etSeruius Sulpicius (ffrivr. ^i.ec^a.). Noftmrt  'ft*" Vero Vtnmqoe perfonam pari com fiutdc faftiaoiffe, qdeanadmodoa miur*  •$^.,fi|m^i/u4:de oratore diuinum opus ioquicur, ia tf^^^iaih^ ^ngnthr»^^  locorum» vbi iis, qui ^crfeflt oracorct ellj: VBUiK»lPnt Gp^tUmem cll^^-  necCiuriam ipfe prbfefTus cfl, tcftimonlis aDuadc ihtclligitur. Vid. md  ^ HerHm. u li. de hutnt. i, f. Ormt. Pitrt. «t. (it Or. t, $» 6. %. 14. 41.  >^. Or, |. 41. 43. Brut. 93. Hinc accrrtaic perftrinxic cauilanim patrenos« qw  t\ huc^tque iiliic ofagrui cum cacerua in foro voJitareqc, praefidium cUeQC»i'  bus atque opem amicis et ctitnAis prope ciuibus lucem ingenii et confilii  •(^' ftti porrigerent, qui vero ignari plane legum in maiorum inftitutis -faacfit»*^  rJe;ii^8C,'ir quaHeiure Incidcrct"dtt6itacio, ad ICtoram prudenciam anffSi  geren^ a quibus liaflas ameiuatis adciperentf qnas oraeeriis kccrtis et virU'  A' busLtorqttcreiu: Ttpic 17. de Orat. i, {7. Quac ICti ct oratoris offici»  .'^: quamquam Corn, van BfnJcershoelc Oiffi iar. R»n$. 7, 6. Aib Impcratoribua  >«».. coniund» fuiff^ iudicat : tamcn .contrarium, de qno cx Qjuinftil. fnfii.Ormt»'  la* 3. nec non-Ittucacl. 7«4af^ ciniqne Scholiaftk conftaro potcrar, ftlidi»  racionlbns euindt lo.Guil. Hoftmannus in Prmef' Aegitlii Menmgii AniHWit^'  •: ti^s intitciuiUtprmemiffm, Cf. Schultingii Qr. M: p. J4f, > ^n  19) de teg. a, aj. Liu. J, J4. Tactt. .«^. J, aj. ' i •Mf^<   Ihoque ftudio verfatus «ft >•). PoftiBaquam rero in foram ^eduBtit  erat, iuxta prifcum Romanorum morem ad Q, Mucium ScMuoIam  augurem, Timm i^s ciuilis intelligentia atque "omni prudentiae  genere confpicumn fe contulit, quem fenem iuvtenis ita' fe^Htus eft,  vt, quoad poftet, abeius latere'nunrquam decederet, «t^ quae itb eo  prudenter diiputata eftent, fedulo menuMiae mandaret omnta ^>)i'  (I.UO mortuo fe ad^. Mucium Seaeuolam pontificem adplicuit,  ^i quum ea aetate iurifperitorum elequenci(SmiK putaretur ^%  Tullium in primis exemplo fuoexcitafte videtur, vt eloquentlam cum  iuris fcientia coniungerei , eamque indotatam atque incomitatam  yerborum dote locupletaret et 4}rnaret *3). Magni ifti viri, in  duorum familia iupifprudentiae laus erat hereditaria, et er^quorum  ludo, tamquam ex equo Troiano, multi prodierunt lurecorifulti,  guam(}uam nemini fe {id docendum dabant, domi tamen in hemicy-  dio fedentes aeque ac tranfuerfo foro obambulaotes admittebant  adolefcentes difc^wii eupidos, vt, quid conMentibus refj)0nde-*  rent, quas aQiones, exceptiones et cautiones in quauis caufta com-  jnendarent, quibufque rationibus in his omnibus vterentur, .audi-  fent , eaque omnia libi in futuros vAis enotarent ^4). Ificredibi-  lis tamen^quaedam ingeniij quod (ibiplurima deberet, magnitudo     . 4ion     jU) Brut. 36. et 89. A Amick. u quem ad locum c£ Wetzd. ^p. iif. ' Plu«  ''tarch- ia vks Cu-.c.J. 4]uum.Ciceroneai PhiloiM Academico operam naua/re  . •^ommemoraneC, haec addk: ,i(ta i$ r$t« wtp MetuuB» avSfmtt tvmv troMrtme  . xKi ntnfmm/tt tnt ^Mhnu $ts tiix$igim$ rm $oimv .m^$MtT$. •j>'i >^ > ^. '^* .,   a4) ^non magnepewf clefiderauitaherit» iflfeefadiendo lalJdrfiBnrWfia-  duftriam '^), fed ipfa iuriiperitbrum et prudentum de iure ciw^  fcripta etcommentarios percenfuit^ in iifque quum in iuuenili tuqi '  in matura aetate fingukrlem -quamdam iueuttdikatem ae deleflafiqi^' ,  nem fefe.reperi0e teflatum reliquit *^). Sed non in patrio foltiitt -  iure cognofcendo fubftitit , verumre^am^ quum ftudiorum eat^  Athena$, tamquam ad mercafeuram bcmiiruM ar^um, fe con£ert«i|[  actotam fereGraeciam peragraret, omne fuum ftudium in Gra»* '  carum legum hiftoria, funmifte prudentiae fonte Tberrimo, nonu*  x^atim Lycurgi, Dracoms et Solonis inftitutis percipiendis peAiil^  i^x iif<}ue, quod iuri Romano explicando maxime inferuiret, d«*'  promfit«7). Qqantum autem iam ineunte aeti^e in iurisibienti»  prpfecerit, luculenter teftantur, quos de inuentione fcripfit admo* ■  dum adolefcens iibros, atque orationes pro Quin^o et Sex. Roficio"  Amerino habitae ^s), in quibus tot tantaque furgentis ac creicentis  in immenfum ingenii documenta deprehendebantur , vt qt|iuit fa- -  cile poffet iudicare , vnum e fummis viris euafunim illum, vel ta-  lem potius f uturum» cuius iimilem vix yUa praeteritorum feculo-  rum aetas tulitTet.    Cicero aeai (mffe.avrtitSaxrov ac propria vimice et Stutniri ad taoeum fa-  ,^\,.yftigi\>m penctraaifle, egregie me docuerac S^ettigfrust cuiiis futnmi vici pi»  ,,i^aieinoria numciuam exanimo diicedet meo» la Pr«iMjUtu tui Uctm Ck. m .  Catiih. }, 8. ». (Budiflac 1791 J p. 17^^ s-:i,   «6) Jt Ortt. ii 43« 44- ^' P'»' «» 4- t .'l .: ' ^^   . aj) C£|^^ddIetoa. /. /. T. I. p. 60. Atcamen iam antc iter in Graecian   .^,^fiircd|pi plurimas Graecotum ieges cogi^itas irabuine Tullium, patetes   libris de inuentione, in quibus nulta» quae »pud Craecos vigeban^ infU-   ^ tuta recenfet, vt i, }}. 2, a). ii. }8. ,   •t) ViA. Breuiitriittn vit^e^ m^ionitm ei fcriftQritm Ciceremft pcaeaiflttai B^OB-  , tw* «4«. T, L Pv WVI. iq. ; ,_ .     I^     ■yxpoluimus {«-o virium noltranim tnodulo, qua via ac ratione  ^-^ iuris peritiam omnino naQus fit Cicero. Quae (i quis rite per-  penderit) quis e(l, qui ambigat, quin Tullius ciuilem prudentiam  non extremis modo labris dcguftarit, verum, qiiemadmodum reli*  quas humaniores difciplinas, ita et hanc ad vnguem caliuerit?  Attamen dici vix potefl, quantopere inter fe eruditi dilTentiant de Ciceronis iurisprudentia. Fuerunt^'), qui ideo, quod numquam  fe ICtum profeflus fit, nec de iure refponderit, ICtis adnumeran-  dum eflfe praefra€ke negarent ^oy Quomm vero iniquae fubtilitati   iam     aff) Eorura antdigBanus eft Corn. van Byrnkershoek, qui (in Praetermiffis zA L. 2.  $. 4^. D. de O. I. infertis ec ipfms Kynkershoekii Opufcf. T. II. p. 60. f()q.  et Colleflioni Vhiianae p. ag^. fqq.) magna id cgic opera, vc Ciceronem ex  albo ICcorum expungeret. Simite quid iam ante Bynkershoekium in men-  tem venerac Anc. Fabro in Libro de error. pragmat. Dec. 94. err. 9. et  Vberto Folietae de philofopkiae et iuris ciuitis inter fe comparattene Lib. I.  p. i^. Eanidem fenccntiam amplexi fuBt lo. Sam Brunqu?llius in Hijl.iurit  Pcm. c.-iO. ^. 34. et Eu. Otto in Lib. fing. Je vita, fludiis, fcriptis et bonwi'  kitt Seruii Suipicii c. 4. $. g- hic qurdem, vt iarn Craflius Praef. Spec. iuris-  fruHenfiae Cicero». p. II. nvt. 4. fulpicacus e((i herois fui » quem runc lau-  dabat, extoileadi cauila. Cerce idem parum fui memor in Dt({. de perpetua  feminarum tutela c. i. $. 4. (repccica in Differtatt. iur, puH. et priu. p. 199.)  in «aflra eorum, qui cencrarias parccs fequuncur, cranliiiic, vbi^rimas, m-  quic» teneat At. Tullius, difertifjimus inttr lCtos orator, et lufffinter ora-  tores eruditijpmus.**   JO) V't probetur, TuUium non fuiflTe ICtum, pkrumque etiam falent adfcrre,  quod h«^ ihido Pompohius, hid. L.i. de 0. I lurifccnraltomm reccnium  agens, Ciceronem filencio praeterieriC) verom tfciam Q. FuHus Olcmis in   Oratio«     iam dodHRi fttma^m cfle abiis,^^tti inCiMroatt pa^roeinio fofti-  pieado fitronu cum laude rerfiiti tet, tiettie eft, qoA nelbUf J^.  Suum cuique hac de re iudicmm efto : hic tamen memiiiifl*e <^p4F-  tet eitis , <]uod grauiter dizit Quin^tilianns »)t modiJt$ tt tkttkh  JptSfo imdiao 4U toMtu mrit promuUumdum tjl, nt, quod fMf^ tM-  ^tidUt iMmntnt, quod nom mttUigMt^ figo vero profiteri noii TiltiM^  In eam aninuim meum femper tncUnafle fentcntfam , ftciniutiiii^  aon fuo ttmtum tempore iuris fcientia ioter primos potniffe eeii>-  fivi, ied et iufilprudfiiitiae pomoeria haud parumprottdiife, A^eri»     .^     ^>,; pradoae contn CSecroncai/atne loliginit ^ltOM, ^mc a^d Dioocm GrfT.   " ' jCAi. 46. cxftat» ftttdia Ciceronis expreiTerit, aullaai irero iorif fcientiac,ipca-   ^^^''Mlioiicm ftcerit. Poiiipottittt «ttteni l L tm fikkcm ICtok nomiiiafle i^illtut,   tnu :Vi Wl «i« jure ec^ponaetuDC, vcl icri|Nts md io* ptriitiwihiii indWM.   ^^ . rnaCi vcl alio qtto<?iinqiM vap^ crtcm ittris ^ofeffi fuat. Ifife cticai aMl>   tot ^ios maximac «uftoriatis iCtot omifit, «i^ mienwriat c«cram -IQte-   ^^''rttiik nott «^co adeutaVe dciiacaait; cttlut nej^fli«fltiae «xemi>ta coUcgk   .^- :^ilM^e« inDifl*. ik Pmt^», kijhrku Btietmrim ^fMi^eO^itcbt if)^.). Giiaao   -r ^tpud Caflittm quin nulla planc fidcs ha bfco d< fit« ntaio dtAitabttg qm iot^   Jieet, ex odio, quod crga Ciceronem Calcnot fiifoepmtj ywictCfai jn aoil-   Yione fttpprimi inagts« <juam connnnari. . Cf.^ttte mbtttterant Gml Bttdactts ^tt. D. deh H 7. Gdlf. GfMt  ht^ Tdkvith .fCttrmmVhk 1. c f . Ittioh. Bachooittk md Ami FmM Ctiko,  fTj .frtgmmt. Pcc 94. err. 9. S^ultii^^ii in Or. fiepius Jaudaci, Chrii^   Waechtlerut in Ihterist tecsfime PrMtermiJerttm Bynkersboeiii eid L t. D.  ^ **'^4fe 0. /. fcriptif, ipfiurque Ofnfcc. rsrier. p. 7 »6. fqq. nec non C^Ut&iem   n^^WZnJMr p^ 29^. fqq. inferti^Tffoltesin ti^.deT:teerene iurijeenfmhe $. it.   1' Sf^; 15; CMffittt i»ni^. J)pir^iibrii^. €itt NW h n ioi p. 11. toKfatos /C^ imr.  <H i X^ pb«<«4*/edit; TOCCMM& <||iuMiaci'OM. <4lr iariffrm/i Cie. in €/«////   doarinae amUjfi pHhfefkica p. 97« fqq- « Piittmannus Mi/cell^ I9*pil4l-  3») InfihMt. Orat.X. i. •'- * ^     «tte/btntur lucurenttifima ilta «t darifCma, qua6,;qnotic&um<{ue   'Cacerdiuf opera euoluo, noR ime magna animi dele£Utione animad-   -terto, ciuilis iuris veftigia, com{»:obant cauflae abeo orataer..^de«   ckraot res in oiHcio geftae. Quis vmquam tot prircanun legum   •4* uui^ pnblico priuatoque nomina, quin et ipla earum verb&.no*   ;lus ceBTemauit? quis iilas omnes «xaQius ac preffius ejumiinauit?   ,^pi» eamm fenfura, rationem, vim dtlucidius adeoque dignitatem   .c!Urius expHcMMt? Quidquid «nim in legibus eflet vel vtile ct   'iiiy^n, vel noxium et iniuftum, nofter peruefligauerat, quaeqise   ,cz iis probandae improbandaeue efTent, probe perfpexerat. Ac il   quis^ qpaerat, an iuris naturaBs praecepta tenoerit, nonne teSes   tocupletiffimi praeter praeclarum de hgibuT opus Amt aurei illi   iibri , quos dt ojpcns elaborauit lam (enex? Si quis rog^st , iurifn»   publici tum communis) tum patriae fuae propf ii, reique pul^icae   gerendaeprudentia caUuerit, nonne i^ae refpondent iagsfiiiaiyquas   ad Atticura fcrip(it, epi{!otae? Se^ quid opus eft hiec pluribus   per&qul? Hoc folummodo addam,. pofle iumn^onmi. virorum   epinioncs, quamuis toto, quod aiunt, coelo diuerfae videatitur,   fiicilltfflo artificio, fi quid mihi cemere datum , conciHari. Tota   «nim lis poti^mum verfatur in vocabulo lCiu Hunc Bynkershee^   kius aliique, qui eius partes (equuntur^ cum ip£b. Gcerone eum   cfle voluerunt, qui legum «t ad r^pondendum et ad agendum et ad   cauendum peritus £t 3^. Inde non negant, TuUium exeeHuifle   .- 'Qgpdlibroruai pratftaiicIAinorum coaiilHun dofte i<ittfflbrtuit Qvi A. Aag.  G&nclMras,. V. IIJ., ia GeoMB. 4k kgt immm tt mmt Cmrmit, LipC     nuis ff1(?IlliX)*"m!|g9Aftttlttini, 'BUlilllmi faimClCttnt,'" NiBUlUiTIOl  hoc dldmus, tdque iis lubenter largiri pofTumus, liummodo omnei  in maximaiuris fcientiaCiceronlmbuenda amice confpireot. Fa*  cileiui(&it ilUv fp»* pcimo a«t»tiflKtemp<>re iuri oper9Jn-4^M%  oft^j^dore ac profiterir ie etiam I(ki perfanafp tueri ppfl<v ii cuiit  rf^ujbiicae pptuiiTet a je^tbticei:^ *i). Qmiil ^q^odQ^Uitus fcaW^  ipfeyUii^quaiHU^iwcfuaclere voluit, vt, ialuis inuoeribus pu(blici%  {Utkn fedaret ad ius refpoadendum ^), Ac x;onfen/i(ret adeoCjl-^  oero, ^(juidem nuHutneiiet in experiend<i periculam, mii y^ttii-  «flet,. ne iBterpi:«tati;0.ittfis, ctUfnfi miaus molq^ propter, {«bOrj  cei^jV auferret tamen ipft«eiBp<¥:9i «4 di^peodi cogitationem 4ilftt'*  «atil* : Quafn ob rem fUA|tt|,«am-> doaec va(;atioiif«m aetas ipfi^  fioret acUaturaJT), et ni^ praiecAariu^ dujcit neque hone^ios, qupa^:  bonoribus et reipubiica£ «nuncribus perfunctum fenem pofife Iu&  iurd ^cere idem, qued apiild-BAnium dicat iUe Pythius ApoUQ, 4p.  efXe eum, vnde iibi., £ non popiiU et reg9s,> at onine»^ ^PMtfS  oonfiiium expetant 3*). ^ ''^^In omaiam ore fttoc verbaHla nociiEma, -«luae pnt Nhar, \% . occnrrant  ^v Si mUbit btmimi vtiementer jocci^4UtfiomMhm moturUis, trida» mt ImrtS"  etnfuttum effi frtfteiw., Ad quem iocum comroematus eft Ge. Ricfatec»»  Or. de fioma</bo Cicertnis in InrecPnfiiJtcs, ioter eiufU. Oratt. (Norim^   -J6) deLeg. t,.  If) de Or*t. I, 4J.   |t) Eamdem diaerits virorum doflorura &atentias conciliandi viam iniuit et>'  ^ -itmlo.JLxMC-Sfee^. memd-^^Mbii.^bftrnatitnes nemmuUmt ^iftUgetiems frm lOis .  i Bm, (L. B. 17«. 4») c- 3- ^ «5 -- «7- P- 46« fq^     . Veakmus nunc, praemiflTs, quae necenarit praemittenda piftauf«.  ad merita TVittiana de iureciuili in ^rtem redig^do ritedelV^  aeanda. Quae qutdem it diiigenter con(tderare'TeIimiii ae|>erppA'^  dere iingula, ahimum potiflimumadiurifprudentiam,. qiiaUsCidi^  ronis aetate fuerit, adoertamua necefle e(l. Namet hic vhemeA-  ter eomntendanda eft cautio, quam tn art^ critica obferuari fuadet  loi Cterictts 39), dom ^o/^erfff,*^ itiquit, ^.vitutimftrnrumopmaHhiin  (tbMfci, etqtiaertri, quid tfitePit il^mg^ifinfirinty non, qmdfii^  tin diBmffi mHs tfidtnturt vtfajfif^ha^f^' Af^uflis «utem a^odutif  ftnibus id temporis circum(eripta fuit hirifprudentia ^), necdum  tottantafque Aibiit viciditudines , a^pefteafub imperatoribus illi  adciderunt, quibus inane quahtuitt^on^nsac confudonts legum ihi-^  dio adcefHt. Quum veroHurecotiAiltf, fiue erroris obiiciendi csuflai  quoplura et difHciliora fcire vlderentur, fiue^ quod fiminus veri  eft, ignoratione docettdi, faepe, quod pofitum eflet in vna cognitio-  ne, id in iofinit» dirpertiti fuerint 4*;, non ef^ y quod miremur,  dtfcipUnam ea aetate euafiflfe hiu^cam et tftafe cohaerentem, indkr  gedaeque moli haud abn^milem. Non defuere quideih ingenio  maximi, arte vero rudes, vel fapirates pottus, qtiam itireconfulti,  qui, in cunis quafi vagieiite iurifprudentia , quum legibus colli-     J9) Art. Critic. P. II. Seft. a. c. 3. $. 7. '     40) de OrMt. u |3.   41) dt ieg. i, 19. 4it Or. I, 4J.     hilM^^^titt liM PkipirW teget regias in ymnn coiitident 4*), A{m»  pius^^ iegi&' a^ones conih-ipferat 41), Sextus Aelius Tripcrtita edK  d^t 44)y qate inris tncunabata continebant^ P. Madiis Sdwinli^  M.- IiiAitt»-'Frutus et M^iMsrtilhii teguU» iuris inttr foren^^  tationem exe6gitftCltfr col{eger«nt-4f), Qutn im^ i^"Mudm Hm  ekAitpimio» icodfHtuentt 4^), generatim illud in cboem et 6dol&  bros redigendo, et mediam iurifprudentiam , funuiib eius capitibiai  Vftand«^'confef!onis gratia diftindis, foii^us HrmavOTat 4P);  ffudii 'tueufentir ' teftimoni» iw frtgmeiiti», er iibro ijfm eivfi  IGAihtil>ig0(b trattfiat&»^ 1i«£«ni«m 6buw iunt; Seif la ijaiJMi  oMtt)^ fniii^ et matjseiaili congieflenu^, aedi^ciam ante^ Oaamoami.  aftruxit nemo 4S),. a quo nouus quait incipit rmun ordo» dum tns         mmi^     J^) L. i. f^ i.i>. m0.r, tklmwjftHat, Uh p-^ >7t^ «d. Sfftvfg^v.^^ 4iv .^.  41) 1. 1: f 1«. O; A O. /. nia.iM, N. }}» c . - ::>t,   •44) i:.s.-^.|T.i>.w^O.A -•:-=!• r^h.'^r:-::^-.f:^ , , ' ^^   45)! Hoc fchfo triumiitros, qiKi^ reccafuic Pomponius in £. «^ |.|4. D. db O./.  - {atclt^gvndo» «flc .^Mi/tf^ M« rflki^t docoic BracAn iUuftric iar£r«v)q||«Mi>   ^/x titm. frHmti «Mnrj^E«wV-<* 4. f. »9. p>3). Qf. Fraac Gnr. fioiMMU> Or.   liir i§rify*%iitii»i« ¥tgmktri^1^m4iu4/ram (rer. Li{rf'. 1^62. 4-> |K f . •  4«> V- •. f. 4t- A dr O. I. Gcil. N. A. Vil, if. tloiu^ftii» frqnU aifeqiu   fotktp pfofc£to fftcilc nobi» perfuafam iMbcrcmuc*? prftcotptoric fammi  > cxcmpl» ia primis •dduftuia fuiiCe Tnllium» vt de iurtt ciuiiit arteperfi-   cien^ cogftarct.^. ^-i-<*' -'••'J'*-i>5?3|- f;i*.l »ci f(M^4 r» trrfc>a4i : :• '^.-^.n^r-^ja^'  47) £u. Octo Lib. fiog: A vttm Sertii Sm/picS c 7* 1- ». ia 7»c/ imtii V. V.   P* t59f' • r,i;i'.. :...'ts:.    4S> Sunc quidcm, qui Seruium Sulpic!um« (^ccronis acqnaieih, iMi IMtc  CiccroiKa pMctUcinfe flaciianc; vcior Cc. Sclu4>amis dt /mtitimrJf^. Rm.  Ex. 3. $.^ t. cc Brokes Oifll commcm. tlt Cictrtmt ICtt\. %, Ae Jaqnitur     i^euifbrmtmjirels redegit, et fft;^/M« piitterciiiHim Qftioiim»   vk,' in cfuo omnU, e priacipits futs dedu£ia» fiomo^eocu cy>}MM||e«   iiBnt. DeplorandLa fane eft rei litterariae ia^uca, quo/i tx ill^ khro,   priMter Yerbula qutedam, quae Geliius 49) «t Charifiu« ^o) ienuV   vmnt, nihil nobi» iit r^liqui. 7 . Qiiem nt(i.itat<malehibMifletiii-   iitria temporuifi, pLurinu icirerans cognitu iucuBdiflinia •at/ipf; vlA-:   Ikate fertiliffima^ <quae nunc aefeemae no^is teo^bris iepuita pse«   mantur. Quemadmodum vere., qui in iprima pi£hirae cuiufdara;   lineamenta incidunt, ^uamuis «x totius operie ooiitemplatioBe   iUi«s imlcritudinem multo faciltus eflent perfpe^ui«,itamen yele>   primis, quibus-adumbrata eft, iiiieis detotius pii^urae pnae^ntia^   Jband 'inftdiriter iudicant, ita fi% nobis^ quibus per lat^nynlmquir.   yNiar^^l^-vr,'-r- r-f: ^'tatem     l^ 4mt TuUius in Srtit. c^4i. dc arte iuzis» .quac ip Scruio nuxuna.  iuerit» aut verius vnica» tam magnificef vt hoc de fummo ICto iudicium   " ^ix concitiiri ppfle wideatnr cua' aKa noftri profeiioiic (de OTf, i, 44. i^  qua necdum cxftitinc» qui jus artificiofe xligeftum generacim cempafuerir,  iU>let» optatque , vt aut Hbi» quod iara diu cogitaueric, >tale opus perficere   ' liBcatf aec aiios qutfpiamie impedito, /ufcipiat. Quod piofc^ nenopiafS-   . ^Xt fi i^ tum Seruius in co genere «cellui/ree. Vcrum <nimuerQ« (i ccm*   pofis «aiiioDCS intueamur, ct Smtwm fcre decennio pott libros dt Ormtme a   Cicerone icripcum eflTc recordenur» facilc concordiam i«(er vtrumque lo.   ^'^'r'4sn fic rcftitttciiius» «t» Ciceroocm poft libfos 4e i)r4itore cditesiid ipfpm  ttntalTe» mox autem, quia fe foccc a Seruio, interea idem molito* fupcra»  <um intellexifTet , conntium •rurfuc abMcifle, ec Opus in£e^m rciiquinc,  dicamus. Vt taceam, in Brute ne fatis quidem clare adfirraari, Sulpiciura  jtlud«' dc quo qxueijmiu, Jcriptit efeoiik^ quandoquidfm ars im Jtomiue  fumma efle poted^ ctiamfi de ea ex iitterarum monimentia non cvnAcc.   'ijd) Vid. fragMenim eit libris Cieereuit fkUofepkicit^ adied» £dic. Bipont.  VW.XH. p. 30r'    «0 dttftftaav >«t} .' <(i|od in projaerkto eft «, ^ n^eleoataL ieiHan»  Ificebit. , FrimftitU Imeaiiichtft, qut.e piogiui, quo^aHint; Mtnenil  ^tiautM; defignAuit Tuliiiis^ ^tnquMa ea irridete videtur do^tM^  iilkV)Vf»ruii&>iodoiQus A]ifednlus5«), ;ii jquts ad^ciat, qviseH^ ^  ;9<^r«taMbiqiiidttBi-^perFundatttr:iidiB»a M fomxm qdr   ^MmcoviBMo iuhbictua&iSJ) ine, qui iQ^hs^imae^H(»..vfitat»e  in rebu» cai^&fquiK ciuiura iequabititarti» cenfen*atione cernitijur«  omoe ius ciuite digerenduni ceii^uit in geuera, quae perpauca fimti  tdfifideeiwuqigfnprumqnafirnicnibi^aiquAj^bwi difpeitifada, atq«»  -eimiia» qitailK^Bt^^iiBcnua vsel partbifli;fioiniaa» definitieniblifi  ;<{uam quaAquervini.habeaht, . ej^imenda i£e aebitratus' eft S^  Bieuit quidem eft haec deliiieatii>, fed iiirif^dentiae, qttaltstnnc  4emperis c^at, valds adcolnmodata:, nee.nos dubitare patitur Tnl-  4tus, qhii^ & quisy quae b»ui eomplexus eflb, iatius eip|iearet, peC"  ie^ if$\h»m< ciuMis ^fiB^€t, cfaurimr iUaatque vbecior , 4illMA  diiEcili^ ati^eobicura. Quae quidem omnia numquam efferiflet  ipfius iuris (icientia^ nifi ad ea artem omntum artiom maodmam,   ^ il) Cuius cognitlonem qaim Cicen» a iiirrs poatiCcii fhidio preninquc feiiiii-  ' gerc fwar, vt Brat. ^t. dt kg, s, \%^ i % criiiiiiile £t, ad illui, JMm ad hec  • - ffcfioncfn t>peris pe rrinnife.   Quod Ciccronis confilium idcnrate exprc4it M. Aur. Galttanuc StvJ»»  fru/tm c. 17. j. |. dum argumentum libri in iis potiflimum iusis pracccyjtio-  nibus, quae, do^inae gratia inucntae,. dcfiaiti^aibps, diuifimiibutr mfdio*  dici» difpofi(iombu% aUif^uc iimilibi» obiciaatiMiibtts ceaftaMSI»  ciSimoaaic.     . ni     fjot&fowm, iiffnlifTrtinfnlrfTiniini pnli. i]ii«inim ri^iifafMii fiiiiim  nemt, dtfibhitxm diwilfimique conglutinaret «t ration»€QritcJKOii-  'ftnng^t. Indo re€ta. partium difpofitio, et iufius ordo, ifto fki-  •piiM. ^naeque coilocentur, inde vis arguroentationts i« rtttiomifn  iptmdar, tnde «titm deftniendi et diuidendi modiit^ qiti in^omnl  -do£lrinainim i^nere explicatU' primui 9(f. > tStA- id* ;md«iWiitione  tiuins operis haec quidem h«(Sennai. lo^tnttnci «mnwdem ejoeni-  pUsaiiquot e reliquis TuUianae eniditionis monfBMitoti» potitisil-  ^luftrare. Quam In rem optima procid dubb difctplina eftle&io  'Ihpkonm , Jid C 'IVebattumr 2Gtinn i cocfmiiim} * Iqiptotsum, qivie  (toia in praeceptis difl«rendi «d luris ^uaefHoines tranfferendis rt-  'fiintur. Sic, quale dt partitiomun ac diisffiohum gemtf, tp^i Mttjis  •artem ingrediatur, elegantifltmis ipie exeroplis iarU tiuilif et abuHt'  if0thnis declarauit ^S). Definitionum:quis modus eflfe debeat, hirh  atitim-^t gttrtilis Aibtiliterd^niendadocoit ^). QoiDiiiodo argii-  imeitkis dtale2Hcis in iuiie ttendum £t, tamH>ttfcsm, timi»al^', «iajri-  ^e in Hbris de imteraio$n iiy^ perpartes eundodefhonlMMtit. Qii*e  (mgula, (icut axiomata iuris generaiia, pailiffl aCioemne^tligeni^itfs  multo, quam ab aliis, inculcata, quale e(l iliud : nullam ejfe perfo-  -nem^ fu t ie nd viteim eiue, qm s~vita emigraut rit^ fMfj^ut md eedat k ei ie -  de 58), aut illud : vniur pecuniae ptures , diffimitibus ok ta^fiti^heredet  ejfe non pojfe 59J , fi vberius perfequi vellem , veroOr,' 'tk te^pus   . , ^i^ pfius     •W     '* 575 V. g. de hment. t. f jV'W4.''f-'**'*) delnuent. z, tt. "J ""' ^' '*'•     ^iius, qaafll ititteriil, deficeret ^). Alui vero nobis reftat quaeftio,  «tque grauKHmar ac difficiilima , quani dirimere vijc audeo, nui^  ^ciHoet ipfe rmquam librum de iure ciuiii in artem redigendo ab-  foluerit Gcero. Qtiin ita iit, in dubium vocat Bynkershoekius ^^),  quem irero grauiflimis verbis reprehendit Bachius ^'). Abfit a nif  -procul, vt (an£liflimas violera Bachii manes; attamen non pofTum,  •quin fententiae Bynkershoekii calculum meum adiiciam, ac mihi  perTuafum habeam, hunc librum a Gcerone ad vmbilicum num<>  iquam fuilTe perdu£lum. Idque quum <:onie£lura probabiie ell,  tum quibufdam etiam veftigiis indicatur. Ac primum quiden  Quin^iianus ^), cui maximam puto fidem iiai>eadam efTe, difertis  verbis dicit, eum aliqua de iure ciuili componere corpijfe. Qui  ^ldem iocus nullo alio modo, ii quid iudicare valeo, inteliigi  potefl, nifi de hoc libro inchoato foium, non perfe£lo ^4). Tui*  lium multa de iure ciuiii in animo h«buifle fcril>ere, quorum in^  itium {a£him iit hoc vno iibro edito, vt Baciiius opinatur, non fatis  confiat, nec vlium omnino, in quo expcefHe id.pro£efrus fit Cicero,  reperi iocum. Deinde vero in Ciceronis iibris, quos roatura aetate     60) Quaedam occupauic OUncrhts mi DiMr., quam aliquoties «xcicauimus, a  pag-99- -   61) Praetermiff: ad i. ». §• ^^•J>. Je V. f. in Ofufcc. T. II. p. tf^. etin CoUef}.  Vbl. p. i%j.   <Ja) Hift. iur. Rom. p. S47. cd. nouiflT. . ; .6j) /njiitt. Ormt. XII, }, 10.   64) Hadr- quidcm Tumebus «^ (^infiilimni d. l. verba Fabii interpretatur de  libris Ciceronis de legibus «t de repuUicM , qui tamen non ir.agis de lure fue-  runt, quam eiufdem argumenti !'latonis. Cf. Luzac Sjtec. acad. fuura lau-  dacum c. 3. $. 17. not. i8. p. 49*  C ..^ D  conlcrjpfit, ne verbo quiderahuius ofperis mentio fit. Denique «iw  paret, eum voluifle primas illas lineas leuiter adumbratas latiut  explicare, dumraodo paullum otii fuppeditaret imraenfa nego^  tix)rum moles. lam vcro ab illp inde tempore, quo priraum ad  rempublicam adteflerat, cauflHrum defeniionibus, amicitiis et cUeitv-  telis tuendis, inimicitiis pcepulfandi», ampUflimis deaique mun&'  ribus adminiftrandis occupatus fuit ; fenem vero exceperunt tur-  bulentiflima reipublicae tempora, quibus aiiimus nofter facile in*  ducatur ad credendum, haud potuifl*e TuIIiura propter otii inopiam  huic libro vltimam imponere manum ^5)^ ,y..<. t»   Haec funt, quae in raeam iententiam brenlter adducenda^ pu^  taui, certe non eo coniiUo, vt, quorum.aliter de-hac re fententift  eft, eorum au^oritatem infringere conarer, fed vt, quae conie£luy  ra adfequutus fueram, virorum eruditorum iudicio exaCtius ponde*  randa reUnqucrem, quo modo optinw cognofcere poflem, flntue  in his aUqua ) quae vero efle confentanea exiftimentur,. nec ne. ^5) Qaoi etiam fuboluifle videtur Eu. 0)-toni in laud. Lib. Cng. dt vit» Str'-  w SuJfiieih c 6* $. $^ iii Tbel iur. T. V. p. i^^u     ERRATVM.  fag. 9. liOt S- pn> : pnmis 0imij, lege: primct MH$r.     yiRO     V t R O   LITTERARVM AC VIRTVTVM LAVDE f  FLORENTISSIMO   mANm GOTTHELP HORNEMANNO CHRIST. GOTTL. HAVBOLD '   iJwd "QuinUUiafiut vmjtme tinftut , tum^am mi4tttm proffcij/e, ad  CUero ijatde plaeeai, idi» TEquidem, NOBILISSIME HORNE-  MAI^E-t totum eonueniret vel hic TFi^S Ubetlus planijime^jlendit,  t quo famiHaritas cum primipe Romanae eioquentiae, eruditionis atquf  venuftatis tam arcte contracta eiucet, vt eam in finguHf ^octijjimae  difputationis partibus, ne dicim, verhls, exprimtre videaris. Quae  quemadmodum iamfota et ad iujium Jludiis TP^I S pretium fiatuendum,  et ad maiarem indies de ingenii TVJ txcellentia diligentiaeque adjiduitate   D 2 fpem  Grice: “If I were asked to name the most brutal death an Italian philosopher ever suffered I am between Gentile and Cicero. The former was a typical leftist mafia thing in the middle of Florence; the latter was commanded by Marcantonio and committed by Erennio – il centurione – and Pompilio Lena – il tribuno militare – the action was fast. Lena was careful to keep the head and the right hand --. He brought them to Fulvia’s bedroom when Marcantonio was there. A slave displayed the head and the right hand on a platter – the right hand and the head were later displayed on the Rostro – Fulvia in the bedroom took a pin from her coiffure and stuck it in Cicero’s tongue. Cicero had been captured on his way to Greece – He could have saved his life, but the housekeeper informed Lena what road in the wood he had taken. Cicero would have left earlier, but his brother wanted to buy provisions for Greece (‘you never know what the food is like there’). Cicero’s brother Quintus, along with his son, were killed soon after. The prescriptions followed a rigorous order declared by the ‘ragione di stato’ .. Cicero was first on the list. Mark told Plutarco: “I would not engage in such cruelty – but Cicero was the most vile serpent!” --. Giovanni Botero. Keywords: Staatsräson, Ferrari, civil equita di Vico, civilis aequitas di Cicerone, ragion di stato, Candarini, Macchiavelli, Grice, conversational cooperation, conversational equality, pirotic generality, conceptual, applicational, formal. Generality, universalizability, civilis aequitas, aequitas, =, identity and aequitas, aequi-, justice as fairness, principle of conversational reciprocity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Botero” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Botta – il primo filosofo italiano – fat philosopher, brave, addicted to general reflections about life, greatest living, Continental --  ‘professional engaged in philosophical research’ – Appio – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Cavallermaggiore). Filosofo italiano. Grice: “The most relevant of his tracts is his ‘storia della filosofia romana,’ – but he also played with Leopardi, and he is especially loved in the Piemonte as a ‘dantista’! --  Grice: ““You’ve gotta love Botta – my favourite is his tract on Alighieri as a philosopher – he applied all he had learned about philosophy at Cuneo to Aligheri – the result is overwhelming!” Studia e insegna a Torino. Il suo palazzo divenne un rinomato salotto culturale. Examina la filosofia italiana, Cavour, Alighieri.  Dizionario biografico degli italiani. The rise of what Italians call philosophy ‘in the volgare’ is contemporary with the Revival of Letters, when the hahit of independent thought, gradually developing, asserted itself in opposition to Scholasticism. The early establishment of the four Republics (Genova, Pisa, Venezia and Amalfi), the growth of industry, commerce and wealth, the increasing communication with the East, the propagation of Arabic Science, the influence of the Schools of Roman Jurisprudence, the gradual formation of the ‘volgare’ out of the Roman language, and above all, the growing passion for the literature of Ancient Rome, all combined to stimulate the human mind to free itself from the servitude of prevailing methods and ideas. The Catharists appeared in Lombardy, and extending throughout the Peninsula under various names, such as the ‘Paterini’, the ‘Templari’, the ‘Albigesi,’ the ‘Publicani’, and others, remained the unconqnered champions of intellectual liberty. A numerous and powerful school of philosophers, embracing the most prominent representatives of the Ghibelline party, laboured so persistently for freedom of thought and expression, that it was denounced by the Roman Popist Church as a School of Epicureans and Atheists. Foremost among these, according to Aligheri, himself a Ghibelline, is the Emperor Frederick II., the patron of the Arabian scholars, a poet, a statesman  and aphilosopher. His friend, CardinalUbaldini;Farinata degli Uberti, a hero in war and peace; Latini, the teacher of Alighieri; and Cavalcanti, ‘the physicist, the logician and Epicurean,’ as a contemporary biographer calls him. Meanwhile Brescia strives to extend to the field of politics the philosophical revolution which had so early begun, and which is now sustained by secret societies widely spread throughout the Peninsula, alluded to in the early poem of St. Paul's Descent to the Infernal Regions. To the same object of intellectual emancipation are directed the religious and social movements headed by such Reformers as Parma, San Douuino, Padova, Casale, Valdo, and Dolciuo. But- as a promoter of freedom in philosophy as well as in political science, Aligheri stands preeminent in the history of his country. He is sthe first to construct a philosophical theory of the separation of the ‘lo stato fiorentino’ from the Pope’s Church in his De Monarchia, in which he advocates the independence of the civil power from all ecclesiastical control. Aligheri also opposes the Papal power in immortal strains in the Divina Commedia; and, under the popular symbols of the age, strive to enlarge the idea of Christianity far beyond the limits, to which it wasconfined by the Scholastics. Petrara boldly attacked Scholasticism in every form, denounced the Church of Rome as the impious Babylon which has lost all shame and all truth, with his friend Boccaccio devoted himself to the publication of ancient MSS., and laboured throughout his life to excite among his contemporaries an enthusiasmfor Classical Ancient Roman Literaccure. His works “DeVera Sapientia”; “De Remediis Utriunque Fortunes”; “De Vita, Solitaria”; “De Contempu Mundi”;, blending Platonic ideas with the doctrines of Cicero and Seneca, are the first philosophical protest against the metaphysical subtilties of his age. Thus the fathers of Italian literature are also the fathers of the revolution which give birth to the philosophy in ‘the volgare’.  The study of the original writings of Plato and Aristotle, and the introduction of an independent exegesis of the ancient philosophers, soon produces a still more decided opposition to Scholasticism; a movement aided by the arrival of Greek scholars in Italy before, and after thefall of Constantinople. Prominent among these, were the Platonists Pletho and Bessarion, and the Aristotelians Gaza and Trebizond, who place themselves at the head of the philosophical revival in Italy. While Platonism becomes predominant in Tuscany under the patronage of Medici, the influence of Ficino, and the Platonic Academy founded by the former in Florence, Aristotelianism extends to the Universities of Northern Italy and particularly to those of Padua and Bologna, taking two distinct forms, according to the sources from which the interpretation of Aristotle is derived. The Averroists followed the great commentary of Averroes, and the Hellenists, or the Alexandrians, sought the spirit of the Stagirite in the original, or in his Greek commentators,chiefamongwho m was Alexander of Aphrodisias. The Averroistic School, mainly composed of physicists and naturalists,was the most decided opponent of the Scholastic system in its relation to theology. Indeed,medicine,Arahicphilos ophy,Averroism,astrology, and infidelity, early in the Middle Ages hud become synonymous terms. Abano, who may he considered as the founder of the Avcrroistic School in Italy, was one of the first who asserts, under astrological forms, that religion has only a relative value in accordance with the intellectual development of the people. He was arrested by the order of the Inquisition; but he died before sentence was passed upon him. His body was burnt, and his memory transmitted to posterity as connected with infernal machinations. Ascoli, a professor at Bologna and a friend of Petrarca, is condemned to burn all his books on astrology, and to listen every Sunday to the sermons preached in the church of the Dominicans. Later he was burnt at the stake, and his picture appears in one of the many Infernos painted on the walls of the Italian churches by Orcagna. The eternity of matter and the unity of human intellect are the two great principles of the Averroistic doctrine. Hence the negation of creation, of permanent personality and of the immortality of the soul became its principal characteristics. Although some of the members of this School endeavour to reconcile its doctrines with the dogmas of the Church, others accept the consequences of its philosophy, and boldly assert the eternity of the imiverse and the destruction of personality at death. Fra Urbano di Bologna, Paolo of Ven ice, Nicola da Foligno, and many others, are among the first. Among the second may be mentioned Nicoletto Verniaa, Cajetano and above all Pomponazzi, with whom began a period in the development of Anti-Scholastic philosophy. Hitherto the followers of Averroism confine their teaching to commentaries upon the great Arabian philosopher; but with Pomponazzi philosophy assumes a more positive and independent character and becomes the living organ of contemporary thought. Indeed. while he adheres to the Averroists in his earnest opposition to Scholasticism, he is a follower of the Alexandrians in certain specific doctrines. Thus on the question of theimmortality of the sonl (‘l’animo’), which so agitated the mind of the age, while the Averroists assert that the intellect after death returns to God and in time losses its ndividuality, Pompouazzi with the Alexandrians reject that compromise, and openly denies all future eexistence. He holds that theorigin of man (‘l’uomo’) is due to the same causes which produce other things in nature: that miracles a but illusions, and that the rise and the decadence of religion depends on theinfluence of th estars. It is truet hat he insists on the opposition of philosophy and faith, and thought that what is true in the former might be false in the latter, and vice versa; a subterfuge, into which many philosophers of the Middle Ages are forced by the dangers, to which they are exposed. Pomponazzi is the author of many works, one of which, De immortalitate animae, was burnt in public. His most celebrated disciples are Gonzaga, Giovio, Porta, and Grattarolo. His opponents are Achillini, Nifo, Castellani and Contarini, all moderate Averroists, who strive to reconcile Christianity with natural philosophy; an effort, in which they are joined by Zimara, Zabarella, Pendasio and Cremonini. Among the Hellenists, who maintained in part the opinions of Pomponazzi, is Thomeo, a physician at Padua, who, on account of the vivacity of his polemic against Scholasticism, the Hippocratic character of his doctrines, and the beauty of his style, is considered as the founder of Hellenic criticism and naturalism in the Age of the Renaissance. To the same class of philosophers, although neither pure Hellenists nor Averroists, belong Pico and Cardano, who strive to substitute in place of Scholasticism philosophic systems founded partly on Christianity, and partly on Platonic ideas, or on doctrines derived from the Cabala and astrology; Cesalpino, who constructs a pantheistic philosophy on Averroistic ideas, and Vanini, who for advocating a system of naturalism is burnt at the stake. Other philosophers oppose contemporary philosophy chiefly for the barbarous form, in which it is expressed, such as Valla, Poliziano, Barbaro, Nizolio, and Vives. But a more effectual opposition to Scholasticism is due to the introduction of the experimental method into scientific investigations, which was first inaugurated by Vinci, who, within the compass of a few pages anticipates almost all the discoveries which have been made in science, from Galilei to thecontemporar ygeologists. Nizolio, Aconzio, Erizzo, Mocenigo and Piccolomini continue the work of Vinci in insisting on the application of the experimental method in philosophy. This application is partially at least attempted by Telesio aud by Patrizi who oppose Scholasticism by striving to create a philosophy founded on nature. Bruno boldly undertakes the philosophical reconstruction of mind and nature on the basis of the unity and the universality of substance; while Campanella establishes his philosophy on experience and consciousness. To promote this scientific movement learned associations everywhere arise; the "Acadeinia Secretorum Naturae” is instituted at Naples by Porta; the Telesiana is established by Telesio in the same city; the Lynchean is founded in Rome by Cesi, and the Academia del Cimento in Florence. Meantime the opposition to Scholasticism extends to the field of politics, where Machiavelli establishee the principles of that policy, which is  destined to triumph in the establishment of Italian unity on the ruins of papal sovereignty, a policy which found a powerful impulse in the religious revolution attempted by Savonarola, a still more effectual aid in the invention of the art of printing, and a pledge of its final triumph in the great Reformation. In vain the sacerdotal caste persecute and imprison the philosophers and reformers, and burn them at th e stake; in vain it strives to drown philosophical liberty in blood. The opposition increases and reappears in th ewritingsof Gnicciardini and Sarpi, the bold defender of the Republic of Venice against the encroachments of the Papal See, the philosopher and the naturalist, to whom many discoveries in science are attributed. The political writings of Giannoti, of Paruta, and Bottero, which are devoted to the emancipation of society from the authority of the Church, close the period which opens with the aspirations of Alighieri aud Petrarch, and is now crowned by the martyrdom of Bruno and Vamni. For the exposition of the doctrines of the Italian philosophers of the Renaissance, the reader is referred to Ueberweg's statements. See further: Tiedemann, Geistder Speculative/} Philosophic; John 6. Biihle, Gesch. der neueren Philos.; Tennemann, Geschichte der Philosophic; Ritter, GescMchU der Philos.; Supplement) alia Storia delta Filosofia di Tennemann, by Romagnosi and Poli;  Mamiani,  Jiinnovamento delia Filmofm antica Italiana; Spaventa, Carattere e sviluppo della Filosofia ItaliamidalSctxlo16"finoalnostrotempo. On the philosophy of Aligheri, see A. F. Ozanam, Dante et la Philosophie Cathdique. tranal. By Boissard, Lond; N.Tommaseo.La Commediadi Dante, G.Frap- porti,SuMaFiiosofiadiDante, UgoFoscolo,DiseorsomiltestodelPoemadiDante, G. Rossetti, Commento analitico delta Diuina Commedia, Barlow, Critical, Historical, and Philosophical Contributions to the Study of the.Dicina Commedia, Botta, Dante as Philosopher, Patriot and Poet, New York; Rossetti, A Shadow of Dante, Boston, and the valuable works written on the Italian poet by Schlosser, Kopish, Wegele, Blanc, Goschel, Witte, and Philalethes (the present King John of Saxony). On Petrarch, see Bonifas, De Petrarca Philosopho, and Maggiolo, De la Philosophie morale de Petrarque. On the opposition of Petrarch to Scholasticism cf. Renan's Averroes et VArenvisme. The doctrines of Averroes were introduced into the Peninsula from Sicily, where appeared the first translations of the commentary of the Arabian philosopher. They soon became naturalizedi at Padua, Bologna, and Ferrara, and the absorbing subject of lectures and discussions. The principal lecturers belonging to this School are Abano, the author of “Conciliator differentiarum Philosophorum et Medicorum”;  Gonduno, whose Quastiones et Comments on Aristotle, Averroes, and Abano are extant in the national library of Paris, some of which were published in Venice; Urbano da Bologna who writes a voluminous commentary of the work of Averroes on the book of Aristotle, De Physico Audita. It was published in Venice with a preface of Vernias; Paolo di Venezia, the author of “Summa totius Philosophiae”, who defends the doctrines of Averroes in the presence of eight hundred Augustinians against Fava, the Hellenist; Tiene, Bazilieri, Foligno, Siena, Santa Sofia, Forll, Vio, Vernias and many others have left voluminous MSS. in the libraries of Venice, Padua, and Bologna, as witnesses of their devotion to the ideas of the great Arabian philosopher. Pomponazzi may be classed among the Averroists, as far as he believes in the existence of a radical antithesis between religion and philosophy. Pomponazzi, however, rejects the fundamental principle of Averroism, the unity of the intellect, and in this respect he belongs to the Alexandrian School. He is the author of several works: “De Immortalitate Animae”; De Fato; De Libero Arbitrio; De Pmdes Unatione; De Providentia Dei; and De naturatium effectaum admirandorum causis, scilicet de Incantationibus. Achillini is one of his opponents, and the School o fPadua has left no record more celebrated, than that of the public discussions held by those two philosophers. Achillini's works were published inVenice. The two adversaries having been obliged to leave Padua, established themselves in Bologna, where they continued their disputations till the occurrence of their death. Nifo is another opponent of Pomponazzi. At the request of Leo X. he writes his “De Anima”, which gives occasion to Pomponazzi to publish his “Defensorium contra Niphum”. Nifo was also the author of “Dilucidarium Metaphyscarum Disputationum.. Marta in his Apologia de Animae Immortalitate, Contarini in his De Immortalitate Animae and several others strive to confute the doctrines of Pomponazzi on the mortality of the soul. He is defended by several of his pupils, and particularly by Porta in his “De Aniina, de Spcciebus inteUigibiUbus.” Porta is also the author of De Humana Mente DispuUitU), De Merum Naluralium Prindpiis, De Dolore; A n homo bonus vel malus vokns fiat. The Lattr. m Council condemns both those, who taught that the human soul was not immortal, and those who asserted that the soul is one and identical in all men. It condemns also the philosophers who affirm that those opinions, although contrary to faith, are philosophically true. It enjoins professors of philosophy to refute all heretical doctrines to which they might allude, and prohibits the clergy to study philosophy for a course longer than five years. Indeed, Averroism becomes hostile to the doctrines of the Church, and it is condemned by Tempier, archbishop of Paris, who causes its principles to be embodied in distinct propositions. Among these were the following: Quod iermoi.est/wologicisuntfundatiin fabulia. QuodnUiilplussciturprop tersciretheologian. Quod Jobulmandfalsasuntinlege Christiana, sicPombainaliis. Quod lex Christianaimpeditaddiscere. Quodsapicntesinundisuntphilosophitantum. Notwithstanding the condemnation of the Church, those ideas seem to have taken hold of the philosophical mind of the age, and long continue to find favour among teachers and students. There are, however, philosophers who, adhering to the doctrines of Averroes, strive to blend them with the standard of an orthodox creed. Among them Zimara in his “Solutiones contradictionum in dicta Aristotelis et Aeerrois,” Antonio Posi di Monselice, Palamede, Bernandino Tomi-tano di Feltre and several others. Meantime, new translations and new editions of the works of Averroes, more correct and more complete, appear, due to the labors of Bagolini of Verona, Oddo, Mantino, Balmes, Burana and others. Zabarella, follows Averroes in his lectures at the University of Padua, and findsan opponent in Piccolomini. Pendasio strives to blend Averroism with Alexandrianism, and Cremonini, the last repre sentative of Averroism in Italy, gives new forms and new tendencies to the doctrines of his master. His lectures are preserved in the library of St.Marc in Venice, and form twenty-four large volumes. Cf.PUtro Pomponacci, Studi Storicisulla Scuola di Bologna t di Padua by Fiorentino, P. Pomponacci by B. Podesta; and P. Pomponacci e la Scienza by Luigi Ferri, published in the Archivio Storico Italiano, Hellenic Aristotelianism, not less than Averroism, was a step toward the emancipation of the human intellect. The same object was greatly promoted by the Schoolof Humanists, represented by Valla, Poliziano and Vives, and by the Platonic revival through the Academy of Florence, and the translations and the works of Ficino; cf. Tiraboschi's Storia delta, Letteratura Italiarut; Heeren's GeschkhU det Studiums der dassischen LUeratur seitdem WiederauJUben der Wissensehaften, Renan's op. c.; I. Burckhardt's Die Cultur der Renaissance in It/Uien, Von Alfred von Reumont's Geschicht* der Stadl Home; I. Zeller's Italit et In Renaissance, and the Edinburgh Review, Tiie Popes and Ute Italian Humanists. The Humanist revival, properly speaking, commenced with the advent to Florence of Chrysoloras; and it is promoted and illustrated by the researches and the writings of many scholars, such as Poggio, Filelfo, Aretino, Valla, Traversari, Vegio, and Tommaso di Sarzana, who afterwards became Pope under the name of Nicholas V. The Council of Constance contains among its members several of the most learned humanists of the age. and for a time the Papal See is at the head of the movement for the revival of the study of classical literature. Prominent among the popes who promoted that revival are Nicholas V., already mentioned, Martin V., Eugene IV., Pius II., known under the name of Enea Silvio Piccolomini, and Leo X. To this revival may also be referred the origin of the Academical bodies and literary associations which formed so characteristic a feature of the literary life of Italy of that time. Of these associations, those which held their meetings in Florence, at the Camaldolese Convent degli Angeli and at the Augustine Convent delloSpirito, are the most celebrated. The controversy between the Platonists and Aristotelians of the Age of the Renaissance is described in De GeorgWs Dmtriba by Leo Allatius in Script. Bizant.; in Boivin's QuereUe rtes Phibsophes du XV. Hidcle (M/'tnoires de literature de l'Academie des Inscriptions), and in Gcnnadius and Pletho, Aristotdismus und Platonismus in der Grieehixclien Kirehe, by W. Gass. The following are the works of L. Thomeo, the Hellenist: Arist'itelis Stagirita par&i owe vacant naturaUa, Dialogide Divinatione; Be Animorum ImmorUtlitate; De Tribus Animorum Vehiculis; De Nominum Ineentione; De Precibus; De Compescendo Luctii; De JEUitum. Moribus; De Belativorum Natura; De Animorum Essentia. Giovanni Pico della Mirandola writes De Ente et Una: Twelve book* against Judiciary Astrokigy; Ileptaplon, or a treatise on Mosaic Phileisophy; Rtgu!* Oirigentis lwminem in pugna spirituali, and Nine hundred Theses on Dialectics, moral, physical, and mathematical sciences, which he defends in public in Rome. His nephew, Giovanni Francesco Pico, holds the same doctrines, and writes in defence of the book De Ente et Uno. Cf. Das System des John Pico von Mirandola by Dreydorff. Cardano writes many works, which are published in ten volumes in quarto. The principal ones are: “De Subttilitate librixx; De Rermn Varielate. Cardano is celebrated for his Formula for solving equations of the third degree. Cardsano is also the author of an autobiography. His doctrines are refuted by Scaligero in his Exereitalionesexotcrica. And defended  by himself in his Apologia. Cf. Rixner's and Siber's Beitrage zur Geschiehte der Physiologie im weiteren und engeren Sinne [Ltben nnd MeinungenberuhmterPhysiherim.). Cesalpino is the author of several works on physiology and medicine, PerifHJtetiearum Quasii'w*m libriqvinque,and “DtemonumInvestigatin Peripatetiea. Valla writes Etegas- tutrumlibrisex.DialeetiroyDixputatioiws, and DeVeraBono. He translates also the Iliad, Herodotus, and Thucydides. Poliziano translates the Manual of Epictectus, the Questions and Problems of Alexander of Aphrodisias, the Aphorism of Hippocrates, and the Sayings and the Deeds of Xenophon. He writes also Parepistomenon,in which he proposed to describe the tree of human knowledge. Barbaro writes on Themistius, and on the Aristotelian doctrine of the soul.  Tives De Causis corruptarum artium, De Initiis, SectisetLaudibus Philosop7tia, id.; De Anima et Vita. Of the numerous treatises of Vinci the greater part still remainin manuscript in the Ambrosian library at Milan. They are written from right to left, and in such manner that it is necessary to employ a glass in order to decipher them. Extracts from his MSS. were published in Paris by Yenturi. Xizolio writes the Antibarbarusiseu de veris principiis et vera rntviM philosophandi contra Pseudo-PhUosi/phos. Aconzio, Metliodus, scilicet recta investigandarum tradendnrumque artium ac scientiarum ratio. Sadoleto, Phadrus, seu de laudibus Philosophia. Erizzo, De W Istrumentu e Via incentrice degli Antichi. Mocenigo, De eo quod est paradoxa. Piccolomini, “L'Istrumento della Filosofia”, Filo- «"Jin luiturale, and Istituzione morale. According to Tiraboschi, Piccolomini is the first philosopher who used ‘the volgare’ in his writings. He is however, preceded by T. Golferani, who long before writes treatise in that language, Della Memoria locale. Piccolomini, a nephew of Piccolomini, writes “De Rerum DefinUionibus;andUnicersa de Moribus Philotophia. Here may also be mentioned Porta, the author of “De Humana Physiognomia” and Deoc- eulti* Uterarum initio, seu De A rte animi sensi occulta aliis significandi”; Brisiani Methodus Scientinram”; “Veneto, De Hdrmoaia ifundi”; Con tarini, De Perfectione rerum, libri sex”; “Mazzoni, De TripUci Hominum Vita”, “De Consensu Aristotelis et Ptatonis” and “In AristoteU*etPlatonis unitersam Philosophiam Praludia”, and Valerii, “Opus aureum in quo omnia explicantur, qua Scientiarum omnium parens Lullus tarn in Scientiarum arbore, quam arte gcnerali, tradit. Telesio writes “De Rerum Natura juxta propria principia. Varii de naturalibus rebus libelli, “De hisquainaerefiuntetdeterra-motibus. Quod aniirud universum ab unica anima substantia gubernatur, adversus Oalenum. Cf. Hixter's and Siber'sop.c.;alsoli.Telesio by Fiorentino. The method pursued by Telesio he himself thus describes. “Sensum videlicet et nos et naturam, aliud praterea nihil sequutis umus, qua summes ibiipsa concorsidem semper, et eo demagit modo,a tque iilemsem perojteratur. Of the origin of the world he says as follows. Liemotissimamsci licet obscurissimamque rem et minime naturali ratione afferendam; cujus cognitio omnis a sensu peiulet, et de quanihilomninoasserendumsitunqumn, quod volnonipso, telipsiussimile perceperit sensu. Patrizi, a Croatian, writes “DiscussionesPeripatetica, Nonade L'niccrsis Pliilosuphia, in qua Aristolelica methodo nun per m/itum, sed per lucem ad primaincausamascenditur; DeliaPoeticaolaDecaistoriale. Cf.Rixner and Siber op. cit. Of the works of Bruno some are written in the learned and some in the vulgar. The latter are edited by Wagner, Leipzic, the former (only in part) by Gefrorer, Stuttgart. The following is the complete catalogue of his writings: “L’Area di N'ie”; “De Sphara”; “Dei Segni dei tempi”; “De Anima”; “Claris magna”; “Dei Predieamenti di Dio”; “De Umbris Ideurnm”; “De Compendiosa Architectura”; “II Candelajo, a Comedy, “Purgatorio dell’Inferno”; “Explicatio tri- ginta S giU/irum, l a Cenadelle Ceneri, five dialogues; “Delta Causa, Princi-fiio et Uno, De, flnfinito Unieerso e Mondi, Spaccio delta bestia trionfante, Cabala dd cacallo Pegaseo con Fagyiunta de/F asino C'iUenico;Degli heroici Furori”; “Figuratio AristoteliciAuditusphys”; “DtalogiduodeFabriciimorden  tuSaUrnitanipropediritiaadinttntKmeadpeTftctam Cmmimttx impraiim. J$ri Brum intomnium”; “De Lampade combirtaturia Lulliana”; “De Program a Lampade cenatoria Logieorum, Acrotirmu*. teu ration** articuiorvat phyxiomm advertu* Arisloteiieat, Oratio Valedictoria”; Yitemberga habiUi; De Sfxtrrum ScruiinioetLampade eombinaVoria Raymondi Luilit.Centum ft Seragikt-i ArtieuU adeem* hvju* tempettati* Mathtmatico» atque PhAutuplto*. Oratio «*»> latoriahabitainobituPriridpUJuUiBrun*ricen*iumD»ci*.IS"*!*;DtItnagiuum.S§**- rumetIdearumCompomtiane, De TriplieeMinimaetMemura, DeMonadt. NutneroetFigura.1591;DererumImagmibut”; Libredew tette arti liberali”; “Liber triginta Statuarum, Tempiam Mnemonidi”; “BeMuttipUciJfundiVita,1591(unpublishedandlost);DeSatmie gettibu*(id.); De Prindpii* Yeriiid.); De Attrobigia {.id); De Magia pAgnca;Itt Phytica; Libretto di eongiurazioni; Surmna terminorum metayJtysicorum, pubL W H; Artiftcium perorandi. pubL 1012. Cf. Bruno oder uber da* uaturliche. and gi-ttlxit PrineipderDinge,bySchelling.1802. AlsotheintroductionofT.Mami.iiitothe translation of Schelling's dialogue by the Marchioness M. Florenzi Waddington;Bax ter's and Siber's op. cit Bruckerii Hutoria PhMonophia. L 6. Buhle, Commentat» deOrtuetProgre**u PantheimniindeaXenophane Cohfoiaoprimaeju*authtrreunptt ad Spinozam; Nioeron, M'moiret pour »ercir a Chiatoire de* hmmnt* iiitutre*; C. Stepo. Jordan, Di*qui*itio de Jordano Bruno Nolano; Guil. F. Christiani. De Studii* Jordan Brunimathematicis;Kindervater,Beitrdgetur LebentgetchichUde*Jord.Bruno. D. Lessman. Giordano Bruno in Cisalpinische Blatter. Tom. 1; Fullebom. BeitrAye tur G e*chiehte der PhUmoph., F. L Clemens, Giordano Bruno und Nicheiae* t'/n Cusa, 1847; John A. Scartazzini, Ein BluUeuge de* Wittens, 18(37; Ch. Bar- tholmes, Jordano Bruno, George Henry Lewes, History of Philosophy, laBS: Sigwart. Spinoza's neuentdeckter fractal von Gott, A. Debs, Jordani Bruni Vila et Scripta, Lange, Geochiehtc de* Materialumus, 1800; Donienico Berti, Vita di Bruno, which contains the proceedings of Bruno's trial before the Inquisition of Venice, recently discovered in the archives of that city., Tommaso Campanella's principal works are as follows: L'nicersm PhilnsoyJiiaten Metaphyxicarum Rerum juxta propria dogmata, parte* Ire*, Philoaephia teia&u demonttrata et in octo disputation** di*tincta, advertu* eo* qui propria arbitral*, non autem semata duce natura, philosophati aunt, 1591; Beak* Philosopher eptiegutit* parte* quatuor, hoc e*t de rerum natura, hominum, moribus, etc. His Ciiitas Soli*, akindof Utopian romance, formspartofthe latter work. Delibruproprii*etrecta ratione studendi Syntagma, De Seiuu rerum et Mugia. De GentSesimo nonretinendo; Atheismu» triumphatu*;Apologiapro Galihro; DeMonarchU\Ui*pa*i- cti; Disputationum in quatuor partes PhUosophia BeaU* libri quatuor; several philosophical poems in Latin and Italian. Cf.Baldachini, VitaeFilosofiadiT.Campaneila, A. D. Ancona. Introduction to the new edition of Campanella's works, Turin, 1854;S.Centofanti, an essay published in the Archirio Storico Italiano; Spaventa and Mamiani, op. cit.; also Sigwart, Tit. Campaneila und Heine poUtischen Idem, in the Preuss. Jahrb., Mile. Louise Colet, QSucrechoutie de CampaneBa, Pierre Leroux, Encyclopedic nouveUe, and G. Ferrari, Corso sugli Scrittvri pdititi Italiani. L. Vanini is the author of Amphitheatrum JEternai Procidentia; De edau- randi* Natura;, Regina Detrque morlalium, arcatti», Dt Vera Sapientia; Phytic- Magicum;DeContemneiidaGloria;ApolngiiiproMotaieaetOirirtianalege. Cf.W.D. Fuhrmann, Leben und Schicksale, Character und Meinungeii de* L. Yaumi, Emue    Waisse. L. Vantili, sa vie, sa doctrine, et sa mort; Bxtrait dea mcmoires de P Aoadémie dea Sciences de Toulose. Arpe, Bayle, and Voltaire in several of their works undertake the defence ofV anirò. Cf.alsoLaVieetlesSentimentsdeL.VanirtibyDavidDurand,and Rousselot CEuvres P/Ulosophiques de L. Vanini. Of all the editions of Machiavelli's works, that of Florence, in 8 vols. 8vo. is the fullest and thebest. AneweditionhasbeenrecentlypublishedinFlorencepartlyby Lemmonier and partly by G.Barbera. Ofhiswritings,11Principe,writteninloll, Discorsi sulle Decite di T. Livio, and Le Storie Fiorentine are the most celebrated. Cf. Gesohichte der Staatswissensc/uiften, by B. von Mohi, Banke's zar Kritik neuerer Gesc/iichts/icreiber, 1834; Macaulay's Essay on Machiavelli in his Critical and Historical Essays. Ferrari in his Corso sugli Scrittoripolitici Italiani, and Pasquale St.Mancini, Della Dottrinapolitica del Machiavelli. See also the life of Machiavelli published in the Florentine edition of his  works. The principal work of Guicciardini is “La Storia d'Italia”, extendingfrom1490to Its best edition is that of Pisa in 10 vols. An edition of his unpublished works appeared in Florence,under the editorship of G.Canestrini. This valuable publication contains “Le Considerazioni intorno al Discorso di Nicolò Macliiavélli sopra la prima Deca di T.Livio; I Ricordi politici e civili; I Discorsi politici; Il Trattato ei Discorsi sulla Costtuziome della Republica Fiorentina e sulla riforma del suo governo; Im Storia di Firenze; Scelta dalla corrispondenza ufficiile tenuta dal Guicciardinidurante le diverse sue Legazioni; and il Carteggio, or his correspondence with Princes, Popes, Cardinals, Ambassadors, and Statesmen of his time. Cf.Banke'sop.cit.;Thiers'Ilis- totre du Consulat et de l'Empire — Avertissement; the Preface by Canestrini to the Opere inedite di Guicciardini, and Storia della Letteratura Italiana, by Guidici. For the works of Savonarola, Sarpi, Giannoti, Parata, and Bottero, cf. Ferrari, op.cit. Savonarola is the author of Compendium totius philosopliimtarn naturalisquam moralit, and of Trattato circa il reggimento e il governo della città di Firenze; cf.Storia di Savonarola by Villari. Sarpi writes in the volgare “La Storia del Concilio Tridentino”, a work which has been translated into the learned, also, “Opinione come debba governarsi la Republica Veneziana”, and many other works, of which a full catalogue may be found in the Biografia di FraPaoloSarpi bhyk.Bianchi-Giovini. The principal writings of Giannoti are “Della Republica di Venezia”; “Della RepubUca Fiorentina”, and Opuscoli; of Parata, Perfezione della vita politica, Discorsi politici. Of G. Bottero, La Ragione di Stato; Republica Veneziana; Cause della grandezza delle Città, and I Principi. The sun of philosophy in Italy  rose with Galilei, a native o fPisa, and the chief of the School, which a century before had begun with Vinci. At an early age, Galileo is a professor at Pisa and Padua, and afterwards holds the office of mathematician and philosopher at the Court of Tuscany. He is the true founder of inductive philosophy. Regarding nature as the great object of science, the autograph book of the Creator, Galilei holds that it cannot be read by authority, nor by any process a priori, but only by means of observation, experiment, measure and calculation. While, to aid his investigations, he invents, the hydrostatic balance, the proportional compass, the thermoseope, the compound microscope and the telescope, he borrows from mathematics the formulas, the analyses, the transformation and development of his discoveries. Applying this method to terrestrial and celestial mechanics, he makes important discoveries in every branch of physical science, and places th eheliocentric system on a scientific basis. Having thus given the death-blow to Scholasticism, he is arrested by the Inquisition, forced publicly to recant, and to remain under its surveillance for the rest of his life. Speaking of the comparative merit of Galilei and Bacon, Brewster says that had Bacon never lived, the student of nature would have found in the writings and the works of Galilei not only the principles of inductive philosophy, but also its practical application to the noblest efforts of invention and discovery. The eminent scientist Biot, while asserting the uselesness of the Baconian method, insists upon the permanent validity of that of Galilei; and Trouessart declares that in science we are all his pupils. Galileo founds a School honoured by the names of Torricelli, Viviani, Castelli, Borelli, Cavalieri, Malpighi, Spallaiizani, Morgani, Galvani, Volta and other eminent scientific men, who, following his method successively, take the lead in the scientific progress of Europe. It is due to this activity in science, that the Italian soul is enabled to resist the oppressive influence of the political and ecclesiastical servitude, under which Italy labored, and it is through the example of Galilei, that physical science never becomes so predominant, as to exclude the stndy of philosophy. Throughout hi sworks he loses no occasion to insist n efficient and final causes, and on the infinite difference which exists between the divine and the human intelligence; and while he deprecates the scepticism, which denies the legitimate power of reason, Galieli rejects pure rationalism, which knows no limit for human knowledge. Galilei asserts that beyond all secondcauses, there must necessarily exist a First Cause, whose omnipotent and allwise creative energy alone can explain the origin of the world; and he professes faith in that Divine Providence which embraces the universe as well as its atoms, like the sun which diffuses light and heat through all our planetary system, while at the same time it matures a grain of wheat as perfectly, as if that were the only object of its action.   The works of Galilei have een published in a complete edition, 10 vols., under the editorship of Alberi. “Le Opere dì Galileo Galilei, prima edizione completa,condutta sugli autentici Manoscritti Palatini,Firenze. This edition contains the life of Galilei,written by hi spupil Viviani. Among his biographers and critics may be mentioned Ghilini in his Teatro di uomini letterati; Rossi in his Pinacotheca Nustnum Virorum, Frisi, Eloggo di Galileo, which is inserted in the Supplement de L’Encyclopedic de Diderot and D’Alembert; Andres in his history of literature and in Saggio delli Filosofia di  Galileo; Brenna, “Vita di Galileo”, inserted in the work of Fabroni, “Vita Italorum doctrina excettentium qui Saculis xvii. et xviii. Jloruerunt; Tozzetti, in his Notizie degli aggrandimenti dette Scienze fisiche in Toscana, in which he publishes the life of Galileo written by Gherardini, his contemporary; C. Nelli, Vita e Commercio letterario di Galileo; Bailly, Histoire de l’Astronomie moderne; G. Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana; Montucla, Histoire des Mathematiques, Libes, Histoire Philosophique de Progrès de la Physique, IL T. Biot, Artide Galileo in Biographie universelle, published by Michaud; Barbier in his Examen critique et complement des Dictionnaires hlistoriques les plus repandus; Brougham, Life of Galileo;  Salii, in his continuation of the  Histoire  Uttiraire d'Italie de Ginguenò; Cuvier, Histoire des Sciences Naturelles; Libri, “Histoire des Sciences Mathematiques en Italie”; Brewster, Lines of Copernicus and Galileo (Edinburgh Review), Life of Newton,and the Martyrs of Science; Boncompagni, Intorno adalcani avanzamenti delibi Fisica in Italia; Wbewell, History of the Inductive Sciences”; Marini, Galileoe VInquisizione, D.Bezzi, in the Atti dell'Academia Pontificia dei nuovi Lincei; A. de Keumont, Galilei und Rom, published in his “Beitrage zur lUiUeniscJten Geschicltte; Chasles, Galileo Galilei, sa Vie, son Proeès et ses Contemporains, Madden, Galileo and the Inquisition; Bertrand, in his Les Fon diteurs de l’Astronomie moderne; Trouessart, in his “Galilee, sa Missionscientìfique, saVie ets onProeès”; Panhappe, “Galilee, sa Vie, ses Découvertes et ses Travaux”; Epinois, Galilee, son Proeès, sa Condam'nation, d'après des document» inédits, in the Revue des Sciences Historiques; Rallaye, Galilee, la Science et l’Eglise, in the Revue du Monde Catholique; Jagemann, “Geschichte des Lebens und der Schriften des Galileo Galilei”; Drinkwater, “Life of Galileo”; Selmi, “Nel Trecentesimo Natalizio di Galileo in Pisa”; Feliciani, “Filosofia Positiva di Galileo”; Wohlwill, Der Inquisition — Process des G. G.”; “Galileo and his Condemnation,Rambler(Lond.), Casc of Galileo, Dublin Rerietp.specially worthy of consultation; The Martyrdom of Galileo, North British Review,  in reply to Biot in the Joural des Savants; Castelnnu, Vie, Trataux. Proeès, etc. de Galil, Paris; Martin, “Galilee et les Droits de la Science; “Galileo's ''System of the World " was translated into English by Thomas Salusbury, fol. Lond. --. Giovanni Battista Vico, as the founder of the philosophy of history, stands foremost among the philosophers of modern times. He was born in Naples, and early devotes himself to the study of law, philosophy, philology and history. Living in an age when the philosophy of Descartes had become popular in Italy, Vico attacks the psychological method as the exclusive process of philosophic investigation, maintains the validity of common sense, and upholds the importance of historic and philological studies. Vico’s writings, “De Ratione Studiorum,” “De Antiquissiiiia Italorum Sapientia”, and “Jus Universale”, containing his “De Una et Universi Juris Principio et Fine”; his “De ConstantiaPkUosophiceandDC Constantia-Pht- luloyias, form a sort of introduction to his “Priiicipii di Scienza Nuova”, in which he develops his theoryof the historyof civilization. Of this work, twice re-written, he publishes two editions. In his introductory writings, Vico discusses the question of method, particularly as applied to moral and juridical science, and strives to evolve a metaphysical theory from the analysis of the roots of the language of the Ancient Romans and from the general study of philology, which, according to him, embraces all the facts of historical experience. Knowledge consists essentially in a relation of causality between the knowing principle and the knowable. Since the mind can only know that which it can produce through its own activity; that is to say, the mind can only know those data of experience, which it can convert into truth by aprocess of reason. This conversion, in which, according to Vico, lies the principle of all science, neither the psychological method, nor the geometrical process introduced by Descartes, can effect. It can only be produced by a method in which certainty and truth, authority and reason, philology and philosophy become united and harmonized, so as to embrace the necessary principles of nature as well as the contingent productions of human activity. To establish a fact which may be converted into truth, to find a principle which has its basis in experience and common sense, yet is in harmony with the eternal order of the universe, is the problem of metaphysics. This factorthis principle, according to Vico, is to be found in God alone. the only true “ens” who, being an infinite cause, contains in himself  all facts and allintelligence. Thus DivineProvidence, acting inu» mysterious way, but through the spontaneous development of human activity, is the basis of all history, which reveals itself in the evolution of language, mythology, religion, law and government. Whether we accept the mosaic account, which points ont a state of de-gradation as a consequence of the fall, or admit a primitive condition of barbarism, it is certain that, at a remote period, the human race is in a condition far above that of the brutes. Gigantic in stature, their bodies covered with hair, men roam through the forests which covered th eearth, without family, language, laws, or gods. Tetwithin them, though latent, there are the principles of humanity, sympathy, sociability, pudor, honour and liberty, which, call forth by extraordinary events, gradually raise them from animalityto the first condition of human beings. This awakening is caused by terrific phenomena of nature, which, stimulating the mind to consciousness, brought a jxirtion of mankind under the influence of a super-natural power, and induces a number of individuals to take refuge in caverns and to commence the formation of families. From thi spoint the dynamic process of civilization is subject to certain laws, which preside over the development of all history. Prominent among these laws is that which produces the universal belief of all people in the great principles of religion, marriage and burial, which from the first beome the true./ter/tfra humanitatix. This lawm anifests itself in all the progress of civilization, which is divided into three different ages: the divine, the heroic, and the human. The divine age is the first stage of civilization, when the chief of the family is king and priest, ruling over his subordinates as the delegate of heaven. It is the age of the origin of language, rude and concrete, the age of sacred or hieroglyphic characters, of right identified with the will of the gods, and of a jurisprudence identified with theology, the age of idolatry, divination, mythology, auspices and oracles. The heroic age has its birth when that portion of mankind which remains in a savage condition, seeks refuge from the violence of their companions, still more degraded than themselves, in the homes of those families already established, and at the feet of the altars erected on the heights. The newcomers are admitted into the family on condition of becoming servants of their defenders, who now claim to be the off-spring of the gods,and heroes by right of birth and power. Thus the primitive families are the rulers of the community, enjoying rights which are not accorded to slaves -- such as the solemnity of marriage, the possession of land, etc. Gradually the number of slaves increases. They become restless under the domination of their masters, who after long struggle are finally constrained to grant them some of their rights. Hence the origin of agrarian laws, patronages, serfs, patricians, vas sals, and plebeians, and with them the rise of cities, subject to aristocratic government. Meantime language, losing some of its primitive rudeness, becomes imaginative and mythologic; its characters become more fantastic and universal. Law is no longer from the gods, but from the heroes, though still identified with force; and the duel and retaliation take place of sacerdotal justice. In this period the predominance of imagination is so great that general types become represented bv proper names, and accepted as historical characters. Thus the inventive genius of Egyptians finds a personification in Hermes, the heroism of ancient Greece in Hercules, and its poetry in Homer. So Romulus and the other kings of ancient Rome, in whom periods of civilization have been personified, descend to posterity as historical characters. With the gradual development of democracy the human age appears: and with it aristocratic or democratic republics and modern monarchies, established more or less on the equality of the people. Language becomes more and more positive, and prose and poetry more natural and more philosophic. Religion loses a great part of its mythologic alcharacter, and tends to morality and to refinement. Civil and political equality is extended, natural right is considered superior to civil legality,  and private right becomes distinguished from public. In the pefection o fdemocratic governments there is only one exception to equality, and that is wealth. But wealth is the cause of corruption in those who possessit, and of envy and passion in those who desireit. Hence abuse of power, discords, insurrections, and civil wars, from which monarchy often arises as a guarantee of public order. Monarchy failing, the country which is rent by corruption and anarchy will finally fall by conquest, or, in the absence of conquest, it will relapse into a state of barbarism equal to that which preceded the divine age, with the only difference that the first was a barbarism of nature, the second will be a barbarism of reflection. The one is ferocious and beastly, the other is perfidious and base. Only after a longp eriodof decadence will that nation again begin the course of civilization, passing through its different stages, liable again to fall and rise, thus revolving in an indefinite series of “corsi” and “ricorsi”,  which express the static and the dynamic conditions of human society. This theory is evolved by Vico from the history of Rome, making that the typical history of mankind, whose principal features are repeated in the histories of all nations. Thus the same law manifests itself again after the fall of the Roman empire, when in the dark, the middle ages, and modern times, the divine,.the heroic, and the human ages reappear. Civilization therefore in a given people, that is to say, their progress from brutal force to right, from authority to reason, and from selfishness to justice, is not the work of legislators and philosophers, not the result of communication with other communities; but it is the spontaneous growth of their own activity working under the influence of exterior circumstances. The primitive elements of civilization are found only in the structure of their language and mythology, their poetry and traditions. The "Scienza Nuova," according to Vico, may he regarded as a natural theology, for it shows the permanent action of Divine Providence in human history; and as a philosophy, for it establishes the basis of the origin and the development of human society, points out the origin of its fundamental ideas, and distinguishes the real from the mythical in the history of nations. This distinction, so far as it regards the history of Rome, is fully confirmed by the more recent researches of Niebuhr, Schwegler, and Mommsen. The treatise of Vico may also be regarded as the natural history of mankind and a philosophy of law, for it gives the principles of ail historical development and the genesis of the idea of natural right, as deduced from the common wisdom of the people. The complete edition of the works of Vico in 6vols, was published in Milan, under the editorship of Ferrari, the author of “La Mente di G. B. Vico”, an important work on theNewScience.Giudice publishes “Scritti inediti diVico.” Vico's philosophy gives birth to aconsiderablebranchof literature containing writings of criticism and exegesis. Among his contemporary opponents may be mentioned Romano in his “Difesa Storiai delleLeggi GrecJte venule a Roma, contro topinione moderna del Signirr Vico”, and in his Lettere ml terzoprindpio della Scienza Nvoua, in which he defends the Greek origin of the laws contained in the XII Tables, and opposes the theory on spontaneous formation of language and civilization. He is also the author of ScienzadelDirittoPublico, of the Origine della Societa and other works, in which he holds doctrines antagonistic to those of Vico. Finetti in his “De Principiis Juris Naturae et Gentium ad cerisuillobbeniuin, Pufendorfium, Woljium et alios, and in his Sommario dell’ opposizione dd sistema ferino,elafalsitddditstatoferineattacks thedoctrinesofVicoon theoriginofciviliza tion. HisdefensewasundertakenbyEmanuele Duniinhis Origineeprogramdelcittadino, edelgovemo civile di Roma, 1703, and in his La Scienza del Costume oimia Sistema del Diritlo Universale; also by Ganassoni in his Memoria in difesa del Prindpio del VicosiilTe/riginedettexn. Tatole.;and Rogadei in his DeWanticostatoeldpopo L’ItaliaCisliberina. Among Vico's followers and imitators may bementioned Stellini, in his “De Ortu et Progreami morum” and in his “Ethica”; Pagano, the patriot who suffers death for his adhesion to the Partbenopean Republic, in his Suggi politici d d Prindpii, Progresso e Decadenza dtlle Soctetda”; Cuoco, in his “Platone in Italia”; Filaugeri. in his “Scienza della legislazione”, who adopts many of the principles of Vico, and particularly that of the original incommunicability of primitive myths among different people, and spontaneous origin of historical manifestations; and Delfico who,  in his  “Ricerclie mil rero carattere della juriurisprudema Romana e de' suoi outtori exaggerates the principies of Vico and falls into a system of historical scepticism. Foscolo in his “Discorso dflC Origine e deS1 Uffizio delta Lettemtura adopted the doctrines of Vico on the origin and the nature of language as well as society and civil government. Janelli, one of the most eminent critics of Vico, in his SuUa Naturti e NeoettitA dfUa ijcienza deUe Cose e delle Storie wnane gives the critical analysis of the historical Synthesis, as expressed in the Scienza Nuova. of the original and spontaneous growth of different civilizations. Jamelli introduces the three ages of the senses, imagination and reason in history, corresponding to the divine, heroic, and human ages of Vico, and characterises the last age by the development of Telo&ifoi and Etiolngia, the former the science of finalities, the latter that of causalities. Romagnosi I nhis OmerrasioM tnti Scitiaii Nuota, and other works, examines the doctrines of Vico from a critical point of view, and while he accepts some of his principles he rejects his fundamental idea of the spontaneity of the growth of civilization, and holds that this is always the result of a derivation from another people. LuigiTontiinhisSagyiv Htpra, la Scienza Nvota, makes a philosophical exposition of the doctrines of Vico, and dwells particularly on the relations existing between Vico, Machiavelli, Gravina. Herder, and other jurists and philosophers. Predari undertakes the edition of Vico's works, but he published only one volume, in which he gives an historical analysis of Vico’s mind in relation to the science of civilization. Cattaneo in his Vico e F Ittiliti in the PoHtecnito, holds that Vico succeeds in fusing together Machiavelli's doctrine of the supremacy of self-interest with that of the supremacy of reason, as denied by Grotius. Tommaso, in Studi critiei maintains that the idea of progress is apparent in the Scienza Nuova, in which, although the course of history is fixed within the limits of a certain orbit determined by the law of the Corsi and Ricorsi, this orbit is not limited, and may become wider and wider in the progress of time. Mamiani, in his “RinnocamentodettaFtiotnjiaantteaIaliaana”, adopts the criterium of the conversion of fact into truth as expressed by Vico, his doctrine on the unity, identity, and continuity of force, the spontaneity of motion as belonging to a principle inherent to every atom independently of the mass, and the idea of the indivisible, indefinite, and immovable, as evolved from phenomenical reality. And so Rosmini and Gioberti have in their various works endeavoured to bring hie authority to the support of their theories, while Centofanti, in his “Formda logic* dellii Fifvsojia (IMa Storia” follows Vico in considering historical reality in its ideal genesis, in ascending from experience to the philosophical idea of history, and in connecting under one principle the cosmic, psychologic, and social orders. Carmignani, in his 8t/ma deW Oriffini e dei Progressi della Filosofia del Diritto”, attributes to Vico the origin of a true philosophy of jurisprudence, and Amari in his “Critica di una Scienza delle legislazioni comparate”, gives a complete analysis of Vico’s doctrines having relation to the philosophical and historical department of comparative legislation. Carlo, in his FUosofiatetondoiPrindpUdiVico and La Mente (ClUttia e O. B. Vico; Fornari, in his Delhi Vita di Cntto;  Zocchi, in his Studi sopra T. Jfenwi; Galasso, in his Del Stulema Hegdiano, and Del Metoda Storico del Vico; Spaventa, Florentine, Vera, Bertrai, Conti, Franchi, Mazzarella and others either adopt some of the fundamental principles of Vico, or subject his doctrine to critical examination. Siciliani, in his Sid Rinnotamento della FUo»ofin ponitiva in Italia”, having examined all the principal systems of philosophy, rejects them all, and contends that the reconciliation of modern positivism with ancient idealism can only be effected throuch the doctrines of Vico, from which he strives to develop not only a historical philosophy, but a logical and metaphysical doctrine. Siciliani isa lsotheauthor of “Dante, Galileo e Vico”. Other works of criticism on the philosophy of Vico are Colangelo's “Consideraaoni sulla Scienza Nuova”, Cesare's “Kmimario dcUe dottrine del Vico”; Gallotti's Principii di una Scderna Nuova di G. B. Vico”; P. Jola'B Studio snl Vico”; Mancini's “Intorno alia Fihsofia d d Diritto”, Valle's Stiggi nulla Scienza ddla Storia”; Rocco's Elogio Storico di Vico”; Reggio's “Introduzioneai1rincipiidclleUinaneSucieta”; Marini'sG. B.Victo; Giani'sDeW UnicoPrincipioedell'UnicoFine ddV Universo Diritto”; Fagnani's “Delia necessitd e dcW uso ddla Ditinazione UntificatadallaScienzaNuova diVico”; Fontana's/>(FiUisofiuneJlaStoria”; J. Merletta's “G. B. Vico e la sapienza antichissima degli Italiani”; Luca’s “Saggio ontiilogico suVe dottrine deW Aquinute e del Vico”; Cantoni's G. B. Vico”. In Germany the philosophy of Vico finds interpreters in Savigny in his NtebuJir, E. Gans in his preface to UegeVs Philosophy of HiMory; Jacoby in his Cantoni uber Vico”; Wolff in the Museum dcr Alterthumswissenschaft”; OrelliinhisVicoandNiebuhr; Weber, thetranslatoroftheScienzaNuova; Giischel in the Zerstreute Blatter; Cauer in the Germanic Museum, and C.EiMiiller. thetranslatorofVico' s minor works. In France, Michelethas interprets Vico’s doctrines in his Principe-i de la Philosophie de CHi*toirc”; Ballanche, in his Prolegomenc* din Palingenesie Sociale, and in his Orphee”; Cousin, in his Introduction a F'ITM'irt'delu Philosophic”; Lerminior." in his Introduction generate a Fllistoire dn Droit; Jouffroy, in his Melanges Philosophiques; Bouchez, in his Introduction, dla Science deVllistoire; the anonymous author of la Science Nouvelle par Vico”; Franck, in the Journal de* Savants”; Ferron, in his Theorie du Progres”; Vacherot, in his Science et Conscience”; Laurent, in his Etudes sur l’histoiredeVHumanite”; Barthlomess, in the Dictionnuire des Sciences PhUosophiques; Boullier in his Histoire dela Philosophic Cartesienne”; Renouvier,in his “Manuel de la Philosophie Moderne” and Comte in his letter to Mill. Cf. Littr6,A. C'ornteetla.PhilosophicPositire. Among the English philosophers, Mill has given attention to the historical principles of Vico in his “System of Logic”. Cf.Vico's "New Science and Ancient Wisdom of Italians," in Foreign Review, Lond., Foreign Quarterly Review. The philosophic revolution which began with Descartes in France, soon extends toItaly and manifests itself in the two forms of psychologism (or idealism), and sensualism -- represented by Descartes and Malebranehe on the one side, and by Locke and Condillac on the other. Among the followers of the Psychologism of Descartes are Cornelio, who in his “Progymnaxmata Physica” tries to blend the doctrines of Telesio with the method of the French philosopher; Fardella, the friend of Amauld and Malebranehe, and the author of Universe PhUosopliijt Systcma”;  Doria, who in his “Difesa ddla Metafisica” opposes the doctrines of Locke; Grimaldi, who in his Discussioni htoriclie, TetHugiche e Filosofiehe” vindicates the Cartesian philosophy against the attacks of the Aristotelians of his age; and Brescia, the authorof “Philosophia Mentis methodice tractate”. Among the opponents of Aristotle may also be mentioned Basso,PluUmtphias    Natural!* adcersw Aristotelem, libri 12. The following writers belong to the school of Descartes through the affinities with Malebranche: Gerdil who held to the vision of ideas in the divine mind, and opposed the Sensualism of Locke, the Ontologism of Wolff, and the Pantheism of Spinoza. Among his numerous works the following relate to philosophical subjects: “L immateriality de Cdute dimmlti coidre Locke”; “Defense du sentiment du P. Malebranclie— sur la nature et Corigine da idee*contreteaamendeMr.Locke; “Anti-Emile,or,Reflexion*svrlatlteorieetlapra tique tie l’education contre les principes de Rousseau”; Traite de* combat* singnliert; Discours philosoplugue* nur Vhomme; Dintostrazione maternaltea eontro CeferMtd deBa materia; Del? inflnito Assoluto consulerato iitUa grandezza; Esame e coitfuUtzi-me dti principii deUa FHosofla WiAfiana; Introdtmone alio Studio deUa Religion. Rossi, contemporary of Vico, and author of “La Meitte Sorrana “; Mieeli. who strives to reconcile Christian idealism with the Eleatic doctrines, and whose system may be found in Gioanni's work, “Mieeii. ovcerotldCEnte I'noeRente; Palmieri, who defends Christianity against the materialistic doctrines of Frerct and oother French writers; Carli, who in his “Elemesti di Morale” attempts a philosophical confutation of Rousseau on the inequality of men; Falletti,who, in his work on Condillac, establishes the principle of knowledge on the idea of being as evolved from the ego; Draghetti, who founds his Psychology on moral instinct and reason; Torelli, in his treatise “De Sihtl/t”; Chiavacci in his Saggio sulla grandezza di Dio”; Orazi in his” MeJodo mi tersnle di filosofare”; Pini, author of the “Protologia”, in which he establishes all principles of knowledge and morality on the unity of the Divine Nature; Giovenale, who in his “Soli* intdligentitr, cttinon nieeedit itox. lumen iiideficiensac inextinguibile Muminan* omrtem hominem” seeks in divine illumination the source of all science; Tellino, who in his “These*PhUosojiltiea1deInflnito.1(W1” ascends to the idea of the Infinite as the principle of all knowledge; a principle which was also regarded as transcendental by Pasqualigo in “Disputationes Met'tphgxicae”. By M.TerralavoroinMetaphysial; and by Boschovich in “SullaLeggediCo&- tinuitd”. While these philosophers are characterized by a Platonic tendency, the following professed themselves disciples of Aristotle: Liccto in his “De Ortu Aninur IJtiman^r”; “DeInteMectuAgente”; DeLurerni*aittiqitorninreeonditi*;DeAi,mili*a»ti- qui*; Apologia pro AristoUU. Athei-tini aceunato; De, Pittate Aristotetis”; Polizzo in his “Philosophical Disputationes”; Andrioli, in his “Plttlosophia Erperimentale”; Langhi, in his “Xoriasima Philvsophia”; Jlorandi. in his Curm* Ph&*np/ua”; Maso. in his Theatrum Pldlosophicum”; Scrbelloni. in his Phibtnphii”; Spinola, in his “Korissima Plttlosophia”; Ambrosini, in his Method** ineentiea”; Benedetti, in his Plttlosophia Peripatetica”; Rocco. in his Esercitnzionifi'.otofiche”. As Empiricists more independent of scholastic influence may be mentioned Borelli, the eminent scientist, in his great work, “De Motu Animalium”, in which animal mechanics are established on scientific principles; Magalotti, in his Lettere famigliari against Atheism”; Grandi, author of a Logic in which he opposed Scholasticism, and of “Diacresi”, in which he refutes the doctrines of Ceva, as expressed in his “PlttlosophiaNovo-Antigua”, a workwritten in verse, intended as a confutation of Gassendi, Descartes, and Copernicus; Severino, who in his “Pawofta”stives to investigate nature through the study of ancient monuments. Magneno precedes Gassendi in the restoration oft he atomistic philosophy in his “Democritus reviciscens” and in “De Re*tauraU'oite Phitotopki Z>em. Epieurea”; Ciassi anticipates Leibnitz in the doctrine of Monades, in his “Tntorno (die Forte Vice; and Algarotti calls the attention of his contemporaries to the works of Newton in his “Netctonuinismo”. The philosophy of Wolff finds an exponent in the author of “InstUutiones Pliilosophm Wo'.fianae” and the doctrine of Leibnitz is interpreted in the works of Trevisani and Cattanco. Meanwhile, the questions as to the soul of animals, and the union of the soul with the body, are treated by Cadonici in “Dissertazionc epistolare”, Fassoni, in “Libro suW anima delle bestie”, L. Barbini, “Nuoro Sistema intorno all’anima dei bruti”, Sbaragli, “Enteleehia, sen anima sensitiva brutorum demonstrate contra Cartesium”; Pino, “Trattato sojyra l’essenza dtW anima ihlle bestie”, Vitale, “L'unione dell’anima col corpo”, Papi, “Sull’anima delle bestie”, Monti, “Anima brutorum”; Corte, “Sul tempo in cui si injbnde Vanima nelfeto. Empiricism is greatly extended. At first it remains independent, but it soon falls under the influence of the doctrines of Locke and Condillac. Among the early Empiricists of that age may bementioned Martini, “Logica, seu Ars coffutandi”, Fuginelli, “Prina'pia Metaphysial gcomctriai meUiodopertractata”, Visconti, “Theses ex Universa Philosophia”; Sanctis, “Delle passioni e rizi drWintelktto”; Fromond, “NonaIntroductioadPMosophiam”, Spedalieri, Dei Diritti dtW Homo”, Zanotti, philosophical works, Longano, Dell’uomo naturale”; Boccalossi, “Sulla-liiflessione”, Amati, EtMca ex tem pore conciitnata”, Verri, philosophical works, Baldinotti, “Tentaminum Mttap/iyskorum, Libri 3, and “De Recta Humana! Mentis Institutione”, Tettoni, “Priacipii del Diritto naturale”, Capocasale, “Cursxs PhUosophicus”, Bianchi, “Meditozioni”, Muratori, the author of the Annals of Italy, and of DdleForzc deWIntiiulimento, DeliaForzadeUaFantasia,and DaFilosofiaMorale”; Gravina, the author of De Origine Juris Ronnini,  and La Ragione poetica”. The influence of the sensualistic school of France is chiefly introduced into Italy through the translation of Locke's "Essay on tlut Understanding" by Soave (il modo delle parole, la parola e segno dell’idea, e l’idea e segno della cosa), a member of the Order of the Somaschi, and the author of “Instituzioni di Logica, Metafisica e Morale” and of many other philosophical works, all moulded on the philosophy o fLocke. His “Instituzioni” have long been the text-book of philosophical instruction in the Colleges of Northern Italy. The translations of the writings of Bonnet, D’Alembert, Rousseau, Helvetius, Holbach, De Tracy, and, above all, the philosophical works of Condillac give a powerful impulse to the doctrine, and the philosophy of the senses became predominant in the universities and colleges of the Peninsula. The personal influence of Condillac, who resided at theCourt of Parma as tutor to a Bourbon prince, greatly contributes to this result. The philosophical text-books written by Mako and Storcheneau also greatly added to the propagation of Sensualism in the Italian Schools. Among the representatives of this philosophy may be mentioned, besides Soave already named Bini, “Lettere Teologiehe e MeUifisicliche”, Pavesi, “Elementa Logices, Meta- physicei, et Phil. Moralis”, F. Barkovich, SaggiosuUe passioni”, Rezzonico, SuHa FUmofia”; Tomaio, InstituzionidiMetaj Utiea”, Valdr.s- tri, Lezioni di analisi delle Idee”, Lomonaco, Analisi della scnsibilita”, Schedoni, “Delle morali influenze”, Cestari, “Tentatiro secondo delta rigenerazione delle Scienze”, Abba, “Elementa Logices et Metaphysices, Delle Cognizioni umane and Letterea F Uomatomille credenze primitive,;and "Patio,Blemeata PhilosophimMoralis. On the same basis Cicognara seeks to establish Aesthetics in his “Del Bello”, Cesarotti, Philology, in his Sulla Filosofia deUe Scienze”, Costa, Rhetoric, in his D d modo di comporre, le idee, and Borrelli, Psychology, in his “Prineipii della Genealogia del Pensiero”. To counteract these materialistic tendencies, some philosophers endeavour to construct a philosophy ou the basis of revelation, while others seek refuge in a kind of eclecticism. Among the first may bementioned Premoli, “De etistentiaDei”, Riccioli, “De distinction sentium in Deo et in creaturis”, Sicco, “Logica et Metaph.Institutiones”, Semery, Triennium Philosophicum”, Ferrari, PJal<m>- phia Peripatetica adcersus teteres et recensiores prasertim PhUosoplios, and Leti, “Nihil sub Sole Novum” and “De unico rerum naturalium formali principio, ten de Spirita Materiali”. Among the second class are Ceva,alreadymentioned; Corsini, Institution** Phtf.osofJiic* uè Matematico”, Gorini, Antropologia”, Luini, Meditazione Filotvfie”, Ansaldi, Riflessioni sulla Filosofia Morale”, “De traditioneprincipiorvm legis naturalis” and “Vindicim Maupertuisinnm”, Scarella, “Element* Logica; Ontologia, Psycdnght et Teologia naturalis, and above all, Genovesi in his “Elementa Mdaphysices”, “Elementorum Artis Logico-Critiar”, “Instituzioni delle Scienze Metafisicli”, “Logica pei Giovanetti, “Diceosina or moni science”, “MeditazioniFàosoficJie”, “Elementi di Fisica sperimentale” and in his “Lezioni<& Commercio e di EeonAnia Citile”, which work contains his lectures on political economy, delivered from the chair established at Naples by his friend Interi, a wealthy Florentine who resided in that city. To this same School may be referred Galiani, tne author of “Trattato della moneta” and tin Dialogues stir le Commerce de Uè”,  Bianchini, who, in his “Storia Unitersale” strives to separate history from its legendary elements by a philosophic interpretation of ancient monuments, Giannone, who, in his “Storia arile del Regno di Napoli” puts in evidence the usurpations of the Church over the State, and boldly asserted the independence of the latter; and Beccaria, the author of “Dei Delitti e delle Pene”, a work which, more than any other, contributes to a radical reform of penal law in Europe. Cf. StoriadellaLetteraturaItaliana di G.Tiraboschi; Della Storia e detf Indole (fogni Filosofia di  Buonafede, Delia Ristanrazione (Fogni Filosofia nei Secoli 15°, 16°, 17°, by thesanv? writer, Dell’Origine e Progresso d'ogni Letteratura, by Andres; /ecali della Letteratura Italiana, di Corniani continuata da Ticozà e C. tigoni ls>5fi; Storiadella Letteratura Italiana di Lombardi, HistoireUttérair' <fItalie, par Ginguène— eontinuée par Salfi; Storia della Letteratura Italiana, di Maffei, Storia, della Letteratura Italiana, di Giudici. Cf. also Supplementi alla Storia della Filosofia di Tennemann” by Bomagnosi and Poli. OnGenovesi cf.Genovesi by Racciopi, and on Beccaria, “Beccar» eilDirittoPenale” by Cantù. The predominance of French philosophy makes the ideas of the French encyclopedists and sensualists popular among the more advanced philosophers of Italy. The progress of natural science, of jurisprudence and political economy contributes to foster the habit of mental independence, while the national spirit which had penetrated the literature in ‘the volgare’ from the age of Aligheri, becomes more powerful than ever, especially through the writings of VAlfieri, who, in his Misoyatto, earnestly opposes the prevailing influence of French philosophy, and in his tragedies strives to excite his countrymen to noble and independent deeds by the dramatic representation of ancient Roman patriotism. This spirit is kept alive by the poetry of Foscolo and Leopardi, the satires of Parini and Giusti, the political writings of *.!;./.ini, the historical novels of Guerrazzi and Azeglio, the tragedies of Manzoni and Niccolini, and the historical works of Troya, Colletta, Hotta,SlidCesareBalbo. But no department of mental activity contributes so powerfully to the advance of the national sentiment as philosophy, which, embodying the aspirations of the people, aims to give them a scientific basis and a rational direction. In its development it passes through the same phases as in France, adjusting itself to the wants of the country, yet keeping on the whole an independent character. The Italian contemporary philosophy may be divided as follows: Empiricism, Criticism, Idealism, Ontologism, Absolute Idealism or Hegelianism, Scholasticism, and Positivism. Of the School of Empiricism Gioja is the first representative. He was born in Piacenza, an dearly devoted himself to the cause of liberty and national independence. Witht he advent of Napoleon in Italy he enters public life, and advocates a Republican government. Under the Cisalpine Republic Gioja is appointed historiographer and director of national statistics. With the fall of Napoleon Gioja retires from office; and twice suffers imprisonment for his liberal views. Accepting the doctrines of Locke and Condillac, Gioja strives to apply them to the social and economic sciences in the defence of human rights, and the promotion of wealth, and happiness among the people. In his “ElementidiFtlvsojin”, Gioja defines the nature of external observation, and describes its methods its instruments, its rules, and the other means through which its sphere may be extended. The foundation of all science, according to him, lies in the science of Statistics, which supplies the phenomena of scientitic investigation, classifies them, and brings them under general laws. Thus, Statistic embraces nature and mind, man and society; it originates in philosophy and ends in politics, to which it reveals the economic resources of nations, wealth, poverty, education, ignorance, virtue, andvice. This process he follows in his “FllosojiudtHaStatistioa”, in which he reduces all economic and political phenomena to certain fundamental categories, the bases of social science, and the criteria of productive forces in society. Gioja follows the same method in defining the nature of social merit in his “Del Merita e delle Ricompense”, fixing its constituent elements, he verifies them in the history of nations, and by their presence or absence traces the different degrees of their civilization. A follower of Condillac in psychology, Gioja is the disciple of Bacon in his method, and of Bentham in hi smorals. The general good constitutes the source of duty, right, and virtue; even self- sacrifice springs from utility. Imagination and illusion play a great part in human life, indeed it is only through these faculties that man excels other animals. Through them man loves fame, wealth, and power, his greatest motives to action. Virtue itself finds its bestcompensation in illusion, and religion has in the eyes of a true statesman no other value than the influence it exerts on the people. Gioja writes also “Teoria Civile e Penale del Divorzio”, “Indole, Estenxione e Vantaggi dfllaStatistical”, “Nuovo ProspcttodelleScienseEconomise”, “Ideolo gia” and “11Nuovo Gakitco. Gf. ElogioStorico di Gioja by Romagnosi, Discorso su Gioja, by Falco, and Es*at sur PHistoire de la Philosophical Italieau Dix-Neuvieme Sieclt,\^ Louis Ferri. Romagnosi, the eminent jurist, marks a step in advance in the empiric philosophy. Romagnosi was born in Piacenza, supports the government of Napoleon in Lombardy, and holds a professorship of jurisprudence at Parma, Pisa, and Milan. He is tried for treason againstAustria, and acquitted. His psychologic doctrines are contained in his “Che Cosa e la Mcnte Sana”, “La Supremo, Economia deW Umano Sapcre”, Vcdutefondameiitali sulT Arte loyica”, “Dottrine della Ragione. W'hile he admits the general tenets of Condillac, Romagnosi rejects tho notion that our ideas are but transformed sensations. Lier ecognizes in the mind a specific sense, the logical, to which he attributes the formation of universal ideas and ideal syntheses. It is this faculty which perceives differences and totalities, as well as all relations which form the chain of creation. The harmony between the faculties of the mind and the forces of nature is the foundation of all philosophy. It is through the logical sense that that harmony is reached, and the connection and co-ordination of mind and nature are effected. Its sphere, however, is limited to experience, and is therefore essentially phenomenal. The reality of nature, cause, substance and force escapes our mind. Moral obligation arises from the necessary conjunction of our actions with the laws of nature, in reference to our own perfection. The ideal of this perfection, formed from experience and reason, constitutes the rational necessity of moral order. Right is thepower of doing whatever is in accordance with that order; hence right is subordinate to duty. Hence, too, human rights are inalienable and immutable; they are not created by law, but originate in nature, and culminate in reason. Civil society is the child of nature and reason, and not the offspring of an arbitrary contract, as Rousseau believed. Civilization is thecreation of the collective intelligence, in the pursuit of the ends established by nature. It is both internal and external; the first is the result of the circumstances amidst which a nation may find itself, in relation to its own perfection; the second is transmitted from one people to another, and modified by local causes. As a general rule, civilization is always exteriorly transmitted through colonies or conquest, or communicated by Thesmothetes (law-givers), foreign or native. Romagnosi develops these ideas in his “Introduzione alio Studio del Dlritto Publico Univer sale”, “Principii della Scienza del Diritto”; “Delia Natura ed<?FattorideWIncivilimento”, “HisDella GenesidelDiritto Penale” in which he limits the right of punishment to the necessity of social defence, has contributed, not less than the work of Becaria on crimes and punishments, to the reform of penal law in Europe since the beginning of the present century. A complete edition of Romagnosi's works is published in Milan under the editorship of Giorgi. Cf. La Mente di Romagnosi by Ferrari, his Biografia by Cantu, and Ferri, op. tit. 2. The philosophic scheme of Criticism proposes to establish the validity of knowledge by the analysis of thought. Its chief Italian representative is Galuppi. Galuppi was born in Calabria, and holds a professorship of philosophy at Naples. A student of Descartes, Locke, Condillac, and Kant, Galuppi directs his attention chiefly to psychology, which in connection with ideology constitutes, according to him, all metaphysical science. Philosophy is the science of thought in its relation to knowledge and to action; hence It is theoretical or practical. The former embrace pure logic -- which occupies itself with thought, that is,with timjorM ofknowledge which is independentofexperience.; Ideologyand Psychology -- the science of thought and of its causes, and, third, Mixed Logic -- which considers empiiic thoughts, the matter of knowledge, and unites the principles of pure reason with the data given by sensations. A fourth branch, Practical philosophy, or Ethics, considers thought in relation to the will,the motivesandrulesofitsactions. To this a fifth branch, Natural Theology is added, which from the conditional evolves the unconditional and from the relative the absolute. Philosophy from another point of view may also be divided nto subjective and objective, as its object is th emind itself, or th erelations which unite it to the externalworld. The fundamental problem of philosophy is found in the question of the reality of knowledge. Rejecting the solution of it given by Locke and Condillac, Galuppi accepts the distinction of Kant between the form and the matter, the pure and the empiric elements in human thought; but he insists that by making the former the product of the mind, the philosopher of Konigsberg renders it a merely subjective function, in a de knowledge entirely subjective, and paved the way for the Scepticism of Hume. Realism in knowledge can only be obtained from the assumption of two principles. First, the immediate consciousness of the Ego; second, the objectivity of sensation. The consciousness of the substantiality of the Ego is inseparable from the modifications of our sensibility; at the same time sensation, either internal or external, is not merely a modification of our existence, but is essentially objective; it affects thesubject and contains the object. Our mindi s thus indirect communication with itself and the external world through a relation which is not arbitrary, as Reid supposes, but essential, necessary, and direct. This relation is expressed in the immediate sentiment of the metaphysical unity of the Ego, which thus becomes the foundation of knowledge. From the primitive consciousness of the Ego, and of the non-Ego, the mind rises to distinct ideas through reflection, aided by analysis and synthesis— the analysis preceding the synthesis— by distinguishing the sensation both from the ego, and the object which produces it. Thus, an idea is essentially an analytic product, although it may be considered a ssynthetic,iur elation to the substantial unity of  the ego in which it is formed. Although all knowledge of reality is developed from the consciousness of experience, there is a previous element in the mind which renders that development possible. This element is subjective, that is, it is given by th emind itself in its own activity, andc onsists in the immediate perception of the identity of our ideas, from which arises metaphysical evidence or logical necessity, which forms the basis of allphilosophicalreasoningandscientificcertainty. Thuseveryjudg ment based on logical necessity proceeds from the principle of iden tity, which in its negative form becomes the principle of contradic tion. It is therefore analytical; indeed no synthetic; judgment d priori is admissible, and those which were held as such by Kant may all be reduced to analytical ones, in which the attribute is contained in the subject, and which therefore are based on identity. General ideas are all the product of comparison and abstraction; none of them are innate, although they are all natural, that is to say, the product of mental activity. Thus from the perception of another body than its own, the mind evolves the ideas of duality, plurality, extension, and solidity; from these the idea of matter; and through further analysis, those of substance, causality,time and space. They are all analytical, subjective and objective; analytic because derived through analysis from identity, subjective because elaborated by theactivity of the mind out of its own consciousness, and objective because contained in the objective perceptions of sensibility. A spiritualist in psychology, Galuppi maintains the unity, the simplicity, the indivisibility and the immortality of the human soul, which he considers as a substantial force, developing into various faculties as it becomes modified by diverse surrounding circumstances, from the consciousness of the Ego and of the non-Ego (or Tu) arising to abstract and universal principles. Remaining, however, withinthe bonds of empiricism, though he places the human mind above nature, yet Romagnosi also holds that it cannot attain to the knowledge of its own essence, or of the essence of matter, nor understand the origin of the universe, and the processes of its development. In Ethics, Galuppi rejects both the doctrine of Helvetius, which founds morality on the instinct of pleasure, and that of Wolff and Romagnosi, who derive its essence from our natural longing for perfection. First among modern philosophers of Italy, Galuppi establishes with Kant the absolute obligation of moral law, and its pre-eminence above self-interest and self-perfection. Happiness is a motive to our actions; it is not the essence of moral obligation, nor the source of virtue. Absolute imperatives, or practical  judgments a priori,such as "Do thy rduty” are at thefoundationof moral law; they originate from the very nature of practical reason, which contains also the principle of the final harmony between virtue and happinesss -- expressed in the moral axiom, virtue merits reward, and vice punishment. From this principle as well as from ou rown consciousness, Galuppi demonstrates the freedom of the will, both as a psychological and moral fact. Natural religion has for it sobject the existence of God, of whom we may obtain the idea by rising from the conditional to the unconditional, from the finite to the infinite, and from the relative to the absolute. This idea is subjective: it is developed from that of identity, that,is, the one isi ncluded in the other. But we reach also the existence of infinite reality through the principle of causality, and in this sense the idea of God is objective. Theism alone can reconcile the infinite goodness of God with the existence of evil; a reconciliation, however, which is imperfect, from the very fact that human reason cannot understand all the relations which exist between all beings. God is incomprehensible, creation is amystery, miracles are a possibility, and revealed religion is an important aid to our education. Cf. L.Ferri,op.cit.,and It.Mariano,LaPhilosophicContemporaine en Ltalie. he following are the works of Galuppi: “Saggio FUosqfico sulla Critlca della Conoseema”, “Letter? Fllosofiche suite Vicende della FUosofia intorno ai Prineipii dtlla, Conoscenza Umana da Cartesio fino a Kant, Elementi di Filosofia”; “Lezioni di Logica e di Metajlsica”; Fili* sojuidellaVolontd”’ “ConsiderazionisuWIdealismotrascen- dentala e sid Itazionalismo assoluto”. The following writers may be referred partly to Empiricism, and partly to Criticism:P.Tamburini, “Introduzionealio Studwddla FUosofiaMorale”; ElementaJitri*Xa- turce”, “Cennisiiila PerfettibiUtddtW Umana Famiglia”, Ceresa.Prineipiit Leggigeneralidi FUosofiae Medieina”, Zantedeschi, Elementi di Psieologia Empirica”, Poli, Saggio FUotofico sopra la Swola dei modernifilosofi naturalisti”, “Saggio cFun Corso di Filosofia; and Primi Elementi di FUosofia”, Ricci. in his C'ottsiuitmo (AntologiadiFirenze). Rivato, Ricobelli.and Devincenzi, who wrote on theFrench Eclecticism in the CommentarideW Alencodi Brescia”, Lusverti, Inxtituzioni Logico-lfetafisiche”, Gigli,AnalisidnUe.Idee”, Bini,LezioniLogieo-itfta- fixieo Morali”, Pezzi, Lezioni di FUosofia della mente e del more; Accordino, ElementidiFUosofia”, ZeUi,ElementidiMetafisim”, Alberi,DdXaciWe”, Gatti,PrineipiidiIdeologic”, Passeri, Ddlanaturaumanasocietoie”, DeW umana perfezione”, Scaramuzza, Esame analiUco ddUi facoliA di*»• tire,  Bonfadini, Sulk Categoric di Kant”, Bruschelli, Prdectiones Logico- Mctaphisicm”, Bellura, La Coseieiua”, Fagnani, Storia naiurale ddla  potenza umana”, Delle intime relazioni in cui progrediscono la Filosofia, la Religione e la. Libertà”, Ocheda, Della Filosofia degli Antichi”, Pizzolato, Introduzione allo Studio detta Filosofia”, DomowBki, a Jesuit, In stitution!s Philosophica”, Testa, La Filosofia del Sentimento”, “La Filosofia dell' Intelligenza”, “Esame e discussione della Critica della Ragione Pura ài Kant, Critica del Nuovo Saggio suW Origine delle Idee di A. Rosmini, Grazia, “Saggio sulla realtà della conoscenza umana”, I.ettieri,  “Dialoghi filosofici suW intuizione”, Introduzione alla Filosofia monde e al Liiilto razionale”, Longo, Pensieri filosofici”, Teoria della conoscenza”, Dimostrazione analitica delle facoltà dell' anima”, Tedeschi, Elementi di Filo sofia”, Mancini, Elementi di Filosofia”, Mantovani, Traduzione della Critica della Ragione Pura di Kant”, Mazzarella, Critica della Scienza”, Della Critica. Empiricism is applied to ^Esthetics by Delfico in his Nuove Ricerche sid Bello, Talia, Princijni di Estetica, Ermes Visconti, Saggi sul Bello,  and Riflessioni idcologicìie intorno al linguaggio grammaticale dei popoli colti”, Venanzio, Callofilia”, Zuccaia, Principi! eMetici, Lichtenthal, Estetica”, Longhi, Callografia” and Pasquali, lnsliluziind di Estetica”. Zuccaia and Lichtenthal, however, separate themselves from the empirical School, and strive to find the essence of beauty in the idea. The same principles of Empiricism are followed by writers who undertake to construct a genealogy of sciences, such as Ferrarese in his “Saggio di una nuova classificazione delle Scienze”. He is also the author of “Delle diverse specie di follia”, “Ricerche intorno all'origine diWistinto”, “Trattato della monomania suicida”, De Pamphilis in his Geografia del'j> Scibile considerato nelXn sua unità di utile e di fine” and Rossetti in his “DelloScibileedelsuoinsegnamento”. Amongthe writers on Pedagogy who follow empirical doctrines may be mentioned Pasetti in his “Saggio suW Educazione fisico-morale”, Raffaele, Opere Pedagogiche”, Boneschi, recetti di Eilucazione”, Fontana, Manuale per l'Educa zione umana”, Parravicini in his various educational works; Aporti, Manuale di Educazione e di Ammaestramento per le Scuole infantile”, Assarotti, Istruzione dei Sordi-Muti”, Bazutti, Sullo stato fisico intellettuale e morale deiSordi-Muti”, Renzi, SiuT indole dei deciti, and Fantonetti, “Della Pazzia”. Among the historians who follow the doctrines of historical criticism may be named Rossi in his ”StudiStorici”, Denina in his “Rivoluzioni d'Italia”, Verri in his “Storia di Milano”, Gregorio in his “ConsiderazionisullaStoriadiSicilia”, Colletta inhis “StoriadelRegnodiNapoli, Botta in his Storia della Guerra dell' Indipendenza Americana” and “Storia d'Italia, continued from that of Guicciardini”, Palmieri in his Saggio Storico e Politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia”, Cantù in his Storia Universale” and Storia degli Italiani”. Also by Micali in his L'Italia avanti ilDominio de' Romani”,  Mazzoldi in his Delle Origini Italiche”, Lamperdi in his Filosofia degli Etruschi”, Berchetti in his Filosofia degli antichi pojioli”, “Sacchi in his Stona dilla Filosofia Greca, Roggero in hisori. della Filosofia da Cartesio a Kant”, Raguisco, Storia delle Categorie da Taletead Hegel”, Sclopis, Storia detta Legislazione Itidiana”, Farini, Stati Romani” and Farina, Storia d'Italia”. Next is Idealism. Whatever may be the value of the psychological investigations of Galuppi, and the seeming "realism" by which his  theory is characterized, his doctrine, founded as it was on the subjective activity of the miiid in connection with experience, could not supply an objective foundation for science. It therefore left the problem of knowledge unsolved. To establish the objectivity of human thought on an independent and absolute principle is the task which Rosmini, the founder of modem Idealism in Italy, proposes to himself. Rosmini was born in Rovereto in the ItalianTyrol, and receives hiseducation at Padua. He enters the priesthood, and at a later period founds a religious institute of charity, whose members devote themselves to the education of youth and the ecclesiastical ministry. He is charged by King (Jharlcs Albert with a mission to Rome, the object of which was to induce Pius IX. to join the Italian Confederation, and to allow the citizens of the Roman States to participate in the W r of National Independence. Rosmini’s efforts at first promised success. He is made a member of the Papal Cabinet and is even invited to the honours of the Cardinalate. But the influence of the reactionary party in the Church having become predominant, the Pope withdraws from the liberal path on which he had entered, Rosmini's proposal is rejected, and the ambassador himself  dismissed in disgrace. He returns to his retreat at Stress on the Lago Maggiore, where he again devotes himself to the work of the restoration of philosophy, for which he had so long laboured. Philosophy, according to Rosmini, is the science of the ultimate reasons; the product of highest reflection, it is the basis of all sciences in the universal sphere of the knowable, embracing ideality, reality and morality, the three forms under which Being manifests itself. Hence there are three classes of philosophical sciences. First, the Sciences of intuition, of which ideality is the object, such as Ideology and Logic. Second, he Sciences of perception, the object of which is reality, as given in the sensibility, such as Psychology and Cosmology. Third, the Sciences of reason, whose object is not immediately perceived, but is found through the inferences of reason, such as Ontology and Deontology; the former considering Being in itself and in its three intrinsic rela tions; the latter, Being in its ideal perfection, of which morality is the highestcomplement. Ideology is the first science. It investigates the origin, the nature, and the validity of ideas, and with Logic establishes the principle, the method, and the object of philosophic investigation. His Ideologic and Logical works, containing the fundamental principle of his system, and the germ of all his doctrines, are as follows: “Sagyio sutt' Origine delle Idee”, “Rliinnovamento ddla Filog<yia   in Italia”, a polemical work directed against Mamiani, “Introduzione alla Filosojia”, and “LaLogioa”. Having reduced the problem of knowledge to the intellectual per ception of reality, Rosmini examines and rejects the solutions given by the principal philosophers of ancient and modern times. He however accepts the views of Kant on the essence of that perception, and places it in a synthetic judgment a priori, the subject of which is given by our sensibility, and the attribute by our mind; the one being furnished by experience, the other having a transcendental origin. But against Kant, Rosmini contends that this transcendental element is one and objective, not plural and subjective. It is not evolved by the activity of the mind, but although essentially united to it, it has an absolute, objective and independent existence. This element, the objective form of the mind, to which all Kantian forms may be reduced, is Being in its ideality (“l’esere ideale”), which contains no real or ideal determinations, but is ideal activity itself, deprived of all modes and outlines, the potential intelligibility of all things, native to the mind, the light of reason, the source of all intelligence, the principle of all objectivity, and the foundation of all knowledge. Essentially simple, one and identical for all minds, universal, necessary, immutable and eternal, the idea of being is the condition of every mental act. It cannot originate from reflection, abstraction, or consciousness. It has a divine origin. Indeed, it is the very intelligence of God, permanently communicated to the human mind under the form of pure ideality. All transcendental ideas, logical principles, identity, contradiction, substance, causality, the very idea of the Absolute, are potentially contained within it, and become distinct through the process of reflection. It is only through the synthesis of sensibility and ideality, that man intellectually perceives the existence of realities. To think is to judge, says Rosmini, and to think of reality is to judge that it is actually existent. To this judgment sensibility gives the matter or the subject, mind the form or the attribute, by applying to the former the attribute of existence; while the substantial unity of our nature, at once sentient and intelligent, affords the basis on which that synthesisi saccomplished. Thus reality, which is subjective, that is to say, is essentially connected with sensibility, becomes objectively known through the affirmation of its existence. Thus ideality alone is knowable per se; while reality acting on our sensibility is perceived only through ideality. Through the faculty of universalizing, separating the possibility, or the intelligibility, or the essence (these terms have the same meaning) of the objects so perceived, the fluid forms universal ideas, which are thus but specific determinations of the infinite ideality. Logic establishes the truth of knowledge and the foundation of its certainty. Now truth is aquality of knowledge; that is to say, our knowledge is true when that which we know exists. Truth is, accordingly, the same as existence, and as existence is the form of our intelligence, so our mind, in its very structure, is in the posses sion of truth. No error is possible on this subject; for the idea of existence is affirmed in the very act of denying it. So delusion is possible as to its modes; for that idea has no mode, or determination. So all specific ideas and logical principles are free from error; for they represent mere possibilities, considered in themselves and without relation to other things. The same may be said of the primitive judgment, in which the existence of reality is affirmed. Confining ourselves to the simple affirmation of the actual existence of the object as it is given in sensibility, we cannot err; error beginswhen we undertake to affirm more than we perceive, or when we assert relations between ideas which do not exist. Error, therefore, is always voluntary, although not always a free act; it may occur in the reflex, but never in the direct or primitive knowledge. On these principles, Rosmini rejects the doctrine of Hume and Berkeley as to the validity of our knowledge. Rosmini's psychological, cosmological, and ontological ideas are contained in his Psicoloyia, Antropologia, Teodic&i,  and TiMsofia. Psychology considers the human sol in its essence, development, and destiny. A fundamental sensibility (“sentimento fondamentale”), substantial and primitive, at once corporeal and spiritual, having two terms, one of which is a force acting in space, the other ideality itself, constitutes the essence of the soul. It is active and passive; it is united with internal and external extension, and its body has double relation to it, of subjectivity and of extra-subjectivity. It is one, simple and spiritual, and by this quality it I sessentially distinguished from the souls of mere animals. Having for its aim and end the potential ideality of all things, it will last as long as this intuition: it is therefore immortal, although its term of extension will perish with th edisorganization of the body. Life consists in fundamental sensibility, the result of that double hypo-static relation, in which the  body partakes of the subjective life of the soul, and the soul of the immortality of the infinite ideal. Cosmology considers the totality and the order of the universe, its parts and their relations to the whole. As reality is essentially connected with sensibility, so that the idea of the one involves the idea of the other, Rosinini admits a primitive sensibility in matter, and holds, with Campanella, that chemical atoms are endowed with a principle of life. Hence a hierarchy of all beings exists in nature, from the primitive elements to the highest organisms, a hierarchy founded on the basis of the different degrees of sensibility, with which they are endowed. Hence, also, Rosmini affirms the existenceof a universal soul in nature, much like that admitted by Bruno, whose sphere is indefinite space; a soul one in itself, yet multiplied and individualized in the numberless existences of the universe. Spontaneous generation is a natural consequence of the theory of universal life. Ontology includes Theology; but while the former considers the essence of Being, its unity and the trinity of its forms in the abstract, the latter regards it in its substantial existence, as the absolute cause and finality of the universe. The intelligibility of things, as revealed to the human mind, being only potential and ideal, cannot properly be called ‘god’, who is the absolute realization of the infinite essence of being, and therefore contains in the unity of his eternal substance an infinite intelligibility, as well as an infinite reality and morality, a reality which is essentially an infinite sensibility, and a morality which is essentially an infinite love. It is thereforenot through a natural intuition, but through the process of reasoning that the mind acquires a knowledge of an existing God. It is by reflecting on the logical necessity and the immutability which belong to ideality, on the conditions required by the existence of contingent realities, and the nature of moral obligation, that, by the process of integration, our reason is led to believe in the existence of an absolute mind, the source of all intelligibility, reality,and morality. Thus the idea of god is essentially negative, that is to say, affirms his existence, but it excludes the comprehension of his nature. Creation is the result of divine love. The Absolute Being cannot but love being, not only in itself, but in all the possibilitiesof its mani festations. It is by an nfinitely wise abstraction that the divine mind separates from it sown intelligibility the ideal type of the univers; and it is by an infinitely sublime imagination that it makes it blossom, as a grand reality in the space. Yet the universe is distinct from the  Creator, because it is necessarily limited and finite; and as such it cannot be confounded with the Infinite and the Absolute, although it is identi fied with it in its ideal type, which indeed flows from the very bosom of the divine nature. Thus creation in its ideal essence is God; but it is not God in its realization, which his essentially finite. In hisTefxii&sa, Rosmini strives to show that the existence of evil does not stand in contradiction with an all wise and omnipotent Providence. Man is necessarily limited, and evil is a necessary consequence of his limitation. Perfect wisdom in its action must necessarily follow immutable laws, which in their intrinsic development will come in antagonism with partial forces, and produce discords in the universal harmony. Such are thelaws of the maximum good to be obtained through the minimum, of action, the exclusion of all superfluities, the graduation of all things and their mutual dependence; the universal law of development; the existence of extremes and their mutual antagonism; finally, the unity and the celerity of the divine action, which presides over the government of the universe. The problem of the possibility of a better world has no meaning: God may create numberless worlds, but each of them will always be best in relation to its own object. As from a box full of golden coins we can only draw golden coins, so the Creator can only draw from his own mind thatwhichisbest. Deontology considers the archetypes of perfection in all spheres, and the means through which they may be realized. Moral science, including the philosophy of right, is one of its principal branches. This is treated by Rosmini in the following works: “Princij_rii <lrl!<t Seiema Mbrale, Storia Cumparativae CriticadeiSwtemiMorali, Antropologia, Trattato delta Cosdema Morale” FilunojiadelDiritto, OpuscoliMorali”. The essence of morality consists in the relation of the will to the intrinsic order of being, as it reveals itself to our mind; hence the supreme moral principle is expressed in the formula, recognize practically being as you know it, or rdapt your reverence and love to the degree of worth of the being, and act accordingly. The idea of being giving us the standard of this recognition, implies the first moral law, which is tin; identified with the primum notum, the first truth, the very light of reason. Hence moral good is essentially objective, consisting in the relation of the will to ideal necessity. Thus morality is essentially distinct from utility, the former being the cause, the latter the effect; hence Eudemonology, the science of happiness, cannot be confounded with Ethics, of which it is only a corollary. The relative worth of beings arises from the degree of their participation in the Infinite; hence man, whose mind is allied with an infinite ideality, has an infinite worth. It is through this union, not through the moralautonomy of the will, as Kant maintains, that man is a “person” and not a thing; and it is for this reason that actions, to be morally good, must have for their object an intelligent being. Moral categories are therefore founded on the gradations of intelligence and virtue, which is but the realization of intelligence. The duties towards ourselves are derived from the Imperative, which commands the respect and love of humanity, and we are the standard, by which we estimate the faculties and the wants of our neighbours. Rights are found in the faculty of acting according to our will, so far a sprotected by morall aw. Man has an inalienable right to truth, virtue, and happiness, and his right to liberty and property is founded on his very personality. Domestic societyis the basis of all civil organization, and the authority of the State is limited to the regulation of the modality of right, and never can place itself against rights given by nature. Indeed its principal objectis the protection of those rights. Liberal in almost all his doctrines, Rosmini’s ideas on the rights of the Church betray a confusion of Catholicism with Christianity, indeed with humanity. They are therefore extravagant as they are indefensible. It is true that in his Le CinquePlayheildla C/tiesa, Rosmini strives to introduce intotheChurch such reforms, as would have made it less antagonistic to the spiritof Christianity. In that work Rosmini urges th enecessity of abolishing the use of a dead language in the religious services, of raising the standard of clerical education, of emancipating the episcopate from political ambitions and feudal pretensions, and, above all, of intrusting the election of bishops to the people and the clergy, as is required by the very nature of the Church. His essay is placed at once in the “Index Expnrgatorius”. Rosmini applies also his philosophy to politics in his filosojiu detta Politica, and to pedagogic science in his Principle Supremo della Metodologia. Rosmini is also the author of Eponizione Critica della Filosojia di Aristetele, “Gioberti e il Panteismo”, “Opuscoli Filosofi” and of several volumes of correspondence. A complete edition of Rosmlni's works has been published in Milan and inTurin. His posthumous work published in Turin under the editorship of his disciple Paoli. ARJsumiof his system, written by himself, may be found in the Storia universale di O. C'antil, in its documentary part. Rosmini’s philosophy is early introduced into the universities and colleges of Piedmont, through the labours of Sciolla, Corte and Tarditi, the chief professors in the philosophical faculty at Turin. The two first embody the doctrines of Rosmini in their text-books of mental and moral philosophy, while the third, in his “Lettere di un Rosminiano”, undertakes to refute the objections which Gioberti advances against that philosophy. It was this work, which gives Gioberti occasion to publish his voluminous essay on Rosmini. Meanwhile, Rosmini’s doctrines extend to the schools of Lombardy, owing to the essays of Pestalozza. whose Element! di KUo-nyfiii, contain the best exposition of Rosminianism. Pestalozza is also the author of “Difesa delle Dottrine di Rosmini” and LuMenie di Rosmini, To the same School belong Manzoni, the author of the “Promessi Sposi” who, in his Dialogo »>j2T /»- venzwne, applies the Rosminian principles to the art of composition; Tommaseo, the author of the “Dizionario Estetico”, the “Dizionario dei Sinonimi”, and of several educational works, in his Espoxizione del Sistema Filosofico di Rosmini, A. Rosmini. Studi Filosofici” and “Studi critici”. G. Cavour. the brother of the statesman of that name, in his Fragment* Phitosopluquts; Bonghi, translator of several works of Plato and Aristotle, and author of “Compendio di Logica”, who gives an exposition of philosophical discussions held with Rosmini in his Le Sresiane; Rayneri, in his “Primi Principii di Metodica”, and “Dlla Pedagogia”; Berti, the author of “La Vita di Bruno”, Garelli, in his “Sulla Filosofia Morale” and in “Biografia di Rosmini”, Villa, in his “Kant e Rosmini”; Peyretti, in his “Ekmenti di FUosofui” and “Saggio di  Logiea generate”; B. Monti, in his “Del Fondamento, Progresso, e Sistema delle Conoteeme Umnne”; Imbriani, in his Sul Fautsto di Goethe” and/Mr Organism)poeticio e delta Poetica popolare Itliana”, Minghetti, the statesman and colleague of Cavour, whose work, Dell’Economia Publica, bears the traces of the influence of Rosmini's doctrines; Allievo, in his “Jlegdinnismo, la Scienza e hi Vita”, and P. Paganini, in his “Bella Natura delle Idee secondo Platone”; “Considerazumi sulle profonde armonie della Filosofia Naturale”, tkiggio Cosmologleo sullo fypazin. and Stiggio sopra S.Tommaso e il Rosmini. To this classification may be referred Les Principes de Philosophic, of Caluso. ptranslated into Italian by P.Corte,an published with notes of Rosmini. Corte is the author of  “EkmentidiFilosqfla”, embracing logical, metaphysical, and ethical sciences. He publishes also Anthologia ex M. T. Cicerone and L. A. Seneca in usum Philiw/phi-r Studiosorumconcinnaia,The doctrine of Rosmini on the nature of originalsin, as it was expressed in his Trattato delta C'oscienza”, having been violently attacked by several ecclesiastical writers belonging to the Order of the Jesuits, it is ablydefended by eminent theologians of the Catholic Church, Bertolozzi, Fantozzi, Pagani. and by Gastaldi, a collegiate doctor of divinity at Turin, and Archbishop of that See. On Rosmini's System, see further.— Leydel, in “Zeitschrift f. Philosophic, Annales de Philos. Chretiennr, Bonnetty, ed. Paris, on Rosmini and the decree of the Index. Also same Annaks, Bartholmcss, Hist. critique des Doctrines Religieuses, Paris,  Lockhard, “Life of Rosmini”, Lond, Ferri, op. cit., and Ferrari in the Revue des Deux Monde. Next comes Ontologism. The ontologic school places the "primum philosoophicum" not in simple ideal existence, but in absolute reality, the cause of all things as well as theprinciple of all knowledge. This doctrine, held by St. Augustine and Fidanza, and revived by Malebranche, is developed under a new form by Gioberti. Gioberti was born in Turin, receives his education in that city, and early becomes a priest. Arrested as a sympathiser with the revolutionar schemes of Mazzini, he is condemned to exile.While in France and Belgium he devotes himself to the work of Italian regeneration, and endeavours to attach the clergy to this cause. In his “Primato Morale e Civile degli Italiani” Gioberti urges upon the papacy the necessity of placing itself at the head of the liberal movement, and becoming the champion of Italian nationality and the centre of European civilization. In his Prlegomeni, and “Il Jesuita Moderno”, Gioberti labours o crush the opposition with which his views are received by the reactionary party of the Church and exposes the dangers of its policy. With th eaccession of Pius IX,  and the subsequent establishment of constitutional governments in the Peninsula, Gioberti’s ideas seem to have triumphed. Gioberti returns to Italy and enters at once into public life, accepting a seat in the Parliament and in the Cabinet of Piedmont, where he soon becomes a ruling spirit. After the battle of Novara he is sent to Paris as ambassador, in the hope of obtaining aid for the national cause. Unable to accomplish his mission, Gioberti resigns his office, and remaining in that city a voluntary exile, he again devotes himself to philosophical studies. The philosophy of Gioberti is embodied in the following works: “La Teoria del Supra-naturale”, “Introduzione allo Studio della Filosofia”, “Trattato del Buono”, “Trattato del Bello”, “Errori Filosofici di Rosmini”. Philosophy, according to Gioberti, has long since ceased to exist; the last genuine philosophers are Leibnitz, Malebranche, and Vico. By substituting psychologic for the ontologic method and principles, Descartes renders all genuine philosophic development impossible. Descartes does in regard to philosophy what Luther does in regard to religion, by substituting private judgment for the authority of the Church. Sensualism, subjectivism, scepticism, materialism and atheism are the legitimate fruits of the doctrine of Descartes. To do away with these errors is theobject of  true philosophy. Rosmini's theory cannot attain it; for it is founded on a psychologic process, assumes as a principle of knowledge a pure abstraction, and thus falls into the very errors which it proposes to combat. Through ideality, the mind cannot reach reality, nor from the fact of consciousness can it ascend to universal and necessary ideas. We must therefore invert the process, and look both for method and principles not in the subject, but in the object. The object is the idea in its absolute reality, immanently present to the mind under the form of a synthetic judgment, which comprehends in itself all being and knowledge. This judgment, as it is produced through reflection, finds its expres sion in the ideal formula, “Ens creat existentias,” Being create existences — the supreme principle of Ontology and of Philosophy. Through the intuition of this principle, mind is in possession at once of the real and the ideal; for the first member of the formula (the “Ens”) contains the object, Being, the absolute idea as well as the absolute substance and cause; the second (“Existences”) gives the organic multiplicity of contingent substances and causes and relative ideas; the third, The Creative Act, expresses the relation existing between the absolute and the relative, the unconditional and the conditional, and the production of real and ideal existences from the Absolute. But although this intuition gives the power of intelligence to the mind, it is in itself not yet an act of knowledge; as long as it is not reproduced by the mind, it remains in a latent or germinal condition. It is only by a reflex judgment that we affirm the contents of intuition; coming to the consciousness of its elements, we become acquainted with their mutual bearing and relations. This reproduction therefore is made through ontok>gi«ilreflection, by which the mind, so to say, reflects itself upon the object, and through which alone it is capable of acquiring the knowledge of that ideal organism, which is expressed in the intuition. Thus the ontological method is the only true philosophical process, and stands in opposition to the psychological method, which is founded on psychological reflection, through which the mind turns its attention, not upon the object, but upon itself. But to direct its reflection upon the object of its intuition, the mind needs the stimulus of *language*, through which it may determine and limit the object for its comprehension. Hence the necessity of a first divine revelation, which by language supplies the instrument of our reflection, and constitutes that relation which necessarily exists between the idea itself, and the idea as it manifests  itself to our rmind. Fo ralthough the idea in itself is one and indivisible, in reference to the human mind it has two sides: the one which is intelligible, the other incomprehensible— thus being antithetic towards each other, and giving rise to all the apparent antinomies between Science and Religion. The faculty of super-intelligence, which is inherent in all finite minds, consists in the sense which reveals to the mind its own limitations, as to the comprehension of theidea. It is through revelation that the mind acquires some positive knowledge of the superi-ntelligibility of the idea, although always limited and clouded in mystery. Science, being the reproduction of the ideal formula, must therefore be divided into two branches, corresponding to the intelligibility and the super-intelligibility of the idea;— the one constituting the Rational Sciences, the other the Super-Rational, the last being superior to the former from their more extensive comprehension of the idea through positive revelation. The genesis of sciences from the ideal formula is as follows: " Jfiia" or the subject of the formula, gives Ontology and Theology. The copula (creat) demands a science which shall com prise the double relation between “ens” and existences, in both an ascending and a descending method. The descending process (from Jieuifj to faiatenees) originates the science of time and space, or Mathe matics. The ascending (from Existences to Being) the science of the true, the good, and the beautiful, that is, Logic, Ethics, and AEsthetics. The predicate (Existences) gives rise to the spiritual and material sciences. Oon the one side Psychology and Cosmology, on the other, physical Science in its various branches. The super-natural sciences follow the same division. As to the validity of the knowledge arising from this formula, its first member expresses its own absolute reality and necessity. The intuitive judgment in which this reality and necessity are pronounced, viz.. '"En* *'•*," and ^Ens is necessary" do not originate in the human mind, but are contained in the idea itself, while the mind in its primitive intuition only listens to them — repeating them in its succeeding reflex judgments. So that the validity of those judgments is not affected by the subjectivity of the mind. Thus is it with the funda mental ideas of necessity, possibility, and existence. The first being the relation of the En sto itself; the second the relation of the necessary to the existing; and the third the relation of possibility to necessity. To these ideas correspond three great realities. To thefirst, the Absolute reality, God. To the second, infinite or continuous m agnitude, pure time and pure space. To the third, actual and discrete magnitude, the universe an dits contents. Time and space are ideas, at once pure and empirical, necessary and contingent. As pure and necessary, they may be conceived as a circular expansion growing out of a single centre and extending to the infinite; by this centre, Ens (Being) is symbolized. As contingent and empirical, they may be represented by a circumference which projects from the centre and develops in successive degrees. In this projective development, we have the finite reality, multiple and contingent in itself, but one and necessary, if considered as existing in the central point from which it emerges. For existences have a necessary relation to the Ens, and it is only in that relation that it is possible to know them. The very word existences implies their derivation from the Absolute reality. But the nature of that derivation cannot be reached through reasoning. It manifests itself in the intuition, in which it is revealed in the creative act. By considering the two extreme terms of the formula out of the relation of its copula, they become identified, and philosophy at once falls into Pantheism. Thus the creative act is the only basis of our knowledge of contingent existences. It is by bringing the phenomenal elements of perception into their relations to creative activity that the sensible becomes intelligible, and the individualization is of the idea are brought in the concrete into our minds. And as our own ideas are formed in witnessing the creative act, it follows that that they may be considered as copies of the divine idea, created and limited, yet stamped with the character of a divine origin. Thus the ideal formula considered in relation to the universe becomes transformed into these other formulas. The one creates the multiple. The multiple returns to the one. These two formulas express the two cycles of creative development, viz., the one, by virtue of which existences descend from Ens; the other, by which they return to I -- a double movement, which is accomplished in the very bosom of the ens itself, at once the efficient and the final cause of the universe. The first cycle, however, is entirely divine, while the second is divine and human, because in it human powers are brought into play. In the Garden of Eden ther&- tiini of the mind to its Creator is perfect; reason predominant over passion, man's reflection was in perfect accord with the organic intui tion; but theFallalteredthatorder,andman puthimselfmoreorless intooppositionwiththeformula. Ileucetheerrorsofancient theogonies and Mythologies, and their Pantheistic and Uualistic Philosophies. Thus the Bralnuinicand Buddhistic doctrinesoftheEast absorbed the universe and man himself in the first member of the formula; while the philosophical systems of the Greeks reduced everything; to the third member, with the exception of Pythagoreanism and Platonism, in which the condition of its organic order is substantially preserved. Christianity restores that order through the miraculous intervention by which God, becoming man, brings the human race back to its primitive condition. In such a dispensation, the tradition which contains the organic structure of the fomula was placed in the keeping of the Church; hence its infallibility, and its right to preside over Theology, as well as the whole development of Science. The idea as expressed in the formula becomes, in its application to the will, the supreme moral law, the basis of Ethics. While its first and second terms give us the idea of moral good, its first cause, law and obligation, the third term supplies the moral agent, and contains the conditions of moral development. It is through his free will that man can copy the creative act by placing himself in accord with the will of God, as manifested in moral law. Hence, moral law partakes of the character of absolute reality; it is objective, apodeictic, and religious, because it is founded on the very relation of God to the human will. From this relation arises an absolute right in the Creator, to which an absolute duty in man corresponds, the source of all the relative duties and rights, which spring from his relation to his fellow-creatures. It is through this accord of the human with the divine will, that man attains happiness, consisting in the voluntary union of his intellectual nature with the divine. The supreme formula of ethics is this: Being creates moral good through the free-will of man. Fom this two others follow, corresponding with the two cycles of creation. The first: that free will produces virtue by the sacrifice of passion to law. Second, that virtue produces happiness by the reconciliation of passion to law. AEsthetic science likewise finds its principles in the ideal formula. Creation, with the ideas of time, space, and force, gives us the idea of the sublime, while Exigences, that is to say. the real in its relation to the idea, contain the elements of the beautiful. Thus, as existences are produced arid contained in the creative act, so the sublime creates and contains the beautiful. Hence the formula, being creates the beautiful through the sublime. The two ideas are co-related. They both consist in the union of the intelligible with an imaginative element, but while, in the sublime, one element predominates over the other, in the beautiful the harmony of the two is preserved. Yet the two ideas are subject to the cycles already noticed in the development of the formula: The Sublime creates the Beautiful,  and the Beautiful returns to th eSublime. In the history of art the sublime precedes the beautiful. The temple and the epic poem are the oldest forms of art. The super-intelligibility of the idea gives rise to th emarvellons, which, expressing itself in language, poetry, painting, and music, becomes an element of AEsthetics. The first arts resting in the organic structure of formula, it follows that only in orthodoxy can the full realization of beauty be found. Heterodoxy, altering more or less that structure, introduces an intrinsic disorder into the lield of AEsthetics, as well as into that of science, morality, and religion. Gioberti at the time of his death was preparing other works, in which his idea sseem to have undergone considerable change. Imperfect and fragmentary as they are left, they were published under the editorship of his friend Massari, and bear the follow ing titles, “La Protologla”; “La Filosofia della Rivelazione”, “La Itifor-ma detta Chiesa. A tendency to rationalism blended with Hegelian transcendentalism appears in those works, although ostensibly founded on the idealformula ofthen'rst philosophy. The idea here becomes the absolute thought, which creates by its very act of thinking. Sensibility is thought undeveloped, as reason is thought developed; and even the incomprehensible is but thought undeveloped, which becomes intelligible through development. Language as the instrument of reflexion plays still a conspicuous part in the woof of the absolute thought, as wrought out in creation, but it has become a natural product: and even of supernatural revelation itissaid, that it may be considered natural, as soon as it is received into th emind. It is through the creative act that absolute thought appears in the development of Nature and Mind, a development which proceeds under the logical form of a sorites, the principle of which is inexhaustible, the progress continuous. The members of this sorites are prop»>-r which rest on categories, or fundamental ideas produced by the absolute thought in its union with the mind, and the tinners which it creates. In the absolute, the categories are one and in<! idea, but become, multiple through the creative act. These are < and trine. The first express the opposite while the last reconcile the oppositions of the former. The absolute thought is the concrete and supreme Category, out of which all others receive existence through its creative activity. An existence which is developed, according to a dialectic movement. The organic structure of the Categories, which embraces the relations between the terms of each dual one, and the relations between their couples, is moulded on the ideal formula. Pantheism does not consist, in a substantial synthesis of God and the universe, but in the confusion of the finite and the infinite, and of the different modes of existence which belong to them. God is infinite,both actually and potentially. The world is potentially infinite, but actually finite. With Cusa and Giordano lining it may properly be said, that the universe is a potential God or a limited or contracted God. Hence,God and the universe are one in the infinite reality of the first, and in the infinite potentiality of the second; for the potentiality of the universe exists in God. As to its finitude, it is given as a term of the creative act; it is a primitive fact which is presupposed by all mental acts, which therefore cannot be reduced to other categories and thus to the unity of the absolute. Finite realities, however, have a double relation to the absolute, which is determined by the metexis and the mimesis. Through metexis they are phenomenal copies of the divine ideas.. Through the mimesis they participate in the divine essence, the condition of their existence. The change in Gioberti's metaphysical ideas manifests itself in his thoughts in relation to the Church. Catholic philosophy rests nolonger on the authority of an ecclesiastical organization, but on the universality and continuity of human thought, in the history of mental evolution. Religion is no longer superior to philosophy; but it is philosophy itself, enveloped in myths and symbols, so as to bring it to the intelligence of the common people. All religions are effects of the creativeact, having different degrees of moral value. Christianity, however, is the complement of all religious forms, and Christ is the Pan-Idea, in which the realization of the moral type fully corresponds its inner excellence. Mysteries:ui lmiracles are facts, whichcannot considered as complete. Their value consists in their relation to the;i!» phenomena which containtin; doctrinesof Palingenesis. No can live which dm-s not follow the laws of ideal development; •i i verse would perish, the moment it should cease to be subchange. The modification introduced in his political doctrine, Gioberti himself published a year before his death, in his “Rinnocamento Civile(VItalia”, where the papacy no longer appears as the natural support of Italian regeneration, but as its greatest obstacle. In Lois work, by far the best of all his voluminous productions, Gioberti gives a new programme to Italian patriots; placing the national cause under the hegemony of the king of Piedmont, he urges his country men to rally around that throne, the only hope of the Peninsula. This programme, carried out to the letter, brings the Italian States under one national government, and finally made Rome the capital of th enation. No statesman,with the exception of Cavour, has ever exerted for a time so great influence on the affairs of Italy as Gioberti. His name is preserved in honuor among his countrymen for the purity of his patriotism, the loftiness of his aspirations, and the liberality of his views, rather than for the solidity and the permanent value of hi sphilosophy. On the political relations o fGioberti to Cavour, cf. Life, Character, and Policy of Count Cavour, by V. Botta, New York. As a philosopher, Gioberti does not succeed in forming a large school, although the following writers doubtless derive their inspirations from his works: Fomari, “Dell' Armonia Universale, Lezioni suW arte della parata”, G. Eomano, aJesuit, LaScknzadelTuomointerno«ituoirapporticollaNaturaeconDio; “Elementi di Filosofi"-; Gioanni, Principii della Filosofia Prima, Micrti, o dei- VEiaereUno e Reale”, Miceliol'ApologiadelSistema” N.Garzilli, Saggioatti rn]ypor(idella Formula idealeeoiproblemi importanti della Filosofia”, Acquisto, “Sistema della Scienza universale”; “ElementidiFilosofiafondamentale”; “Corso di Filosofia morale”; Corso di Diritto naturale”; “Necessità dtW autorità e della legge”; “Saggio sulla- naturae sulla genesi del Diritto di proprietà, Trattato(fIdeologia. In the United States of America. Gioberti finds a devoted interpreter in Brownson, whose able exposition of the doctrine contained in the ideal formula was published in in the Review bearing his name. To the Ontological School, although independent of Gioberti, belong Bertóni, Idee di una Filosofia della Vita, Questione Religiosa,;and La Filosofia Greca prima di Socrate”; Centofanti, “Delia Filosofia detta Storia”; A. Conti, “Storia della Filosofia”; “Evidenza,AmoreeFede, Dio e il male”; J.Puecinotti, Serilti Storici e Filosofici, Storia della Medicina”, Baldacchini, Trattato sullo Scetticismo; La Filosofia dopo Kant”; Corleo, Filosofia vnirermle”; Mangeri. Corso di Filosofia e Sistema Pitico-Ontologico”; Labranca, Lezioni di Filosofia razionale, Mora and Lavarino, in their Enciclopedia Scientifica, Turbiglio,” L'impero della Logica” and “Analisi Storica delle FUo-vfie di Ix-rte e Leibnizio. On Gioberti, cf. h. Ferri, and R Mariano, op. cit.; Seydel in Zeit- schrift fi Pftilosophie, C. B. Smyth, Christian Metaphysicians, Lond. Prominent among the Ontologists is Mamiani. He was born in Pesaro. Mamiani joins the revolutionary movement of the Romagnas, but was arrested and condemned to exile. He takes up his residence in Paris, where he is engaged in literary and philosophical pursuits. He returns to Italy, and gives his support to the liberal reforms inaugurated by Pius IX. When the Pope abandons Rome, Mamiani, as a member of the Constituent Assembly, opposes the proclamation of the Republic, as contrary to the interest of the national cause. With the restoration of the papal power by the aid of France, Mamiani retires to Piedmont, where he is elected member of Parliament and appointed professor of philosophy at Turin. He is a staunch supporter of the policy of Cavour, under whose administration he holds successively the offices of minister of Public Instruction and that of minister to Greece. He is member of the Senate and professor of the philosophy of history atRome. In the early part of his philosophical career, represented by his “Del RintwvameiUsi dtW antica Filusojw italiana”, Mamiaui holds the doctrine of Empiricism founded on psychological investigations, in which he strives to combine experience with reason. Mamiani maintainsthat the principal question of philosophy is that of method; and that this can only be found in experience and nature. It is this method which prevails among the philosophers of the Renaissance, and to which science is indebted for its great achievements, particularly through the teachings and the example of Galilei. This essay calls forth the work of Rosmini, II Itinnovamento, etc., in which he controverts some of Mamiani's statements, and tries to show that the experimental method alone cannot philosophically reconstruct the science of Nature and Mind. Mamiani himself soon becomes convinced of this, and in his works “Discorso sull’Ontologia e sul Mt-todo” and Dialoghi di Sciema 1'riina”, he endeavours to find a philosophical basis in common sense. In these essays appears for the first time his doctrine on immediate perception as the only foundation of the knowledge of reality. The last phase of his doctrine is containedin his “Confessioni di un Metafisico”. It is divided into two parts: Ontology and Cosmology. In the first, Mamiani considers theAbsolute, ideas, natural theology, and the creative act; in the second, the finite, its relation to the Infinite, the co-ordinatiou of nature's means, life, finality, and progress in the universe. Mamiani’s fundamental doctrines are as follows. The knowledge of the real and the ideal is effected through two faculties essentially distinct, although both acting in the subjective unity of the mind: perception and intellection. The first does not consist in a syntheticjudgment a priori, as Rosmini and Gioberti hold after Kant, but in a direct and immediate relation of the mind to finite realities, as Reid and Galuppi maintains, although Reid and Galuppi overlook its intellectual character. Intellection consists in the relation of the mind to ideas; and, as these have an essential connection with Absolute reality, the mind may be said to possess an intrinsic relation to the "entia realissima"— the most real being. Ideas indeed are intellectual *symbols* of the Absolute reality in its relation of causality; and they are supplied by the intellective faculty, when the mind apprehends their realizations through perception. Tims our intelligence attains to Absolute reality through the intermedium of ideal representations, but it does not penetrate so far as to reach its essence; it remains on its surface. A similar process occurs in perception, through which the mind reaches the object given in sensibility, not in essence, but through the medium of sensation. But while our ideas are mere *representative emblems* -- simbolo ed embolo -- in the divine mind they are real objects in themselves. They are identical with the absolute intelligibility, the possibility, the reason of all things. They are therefore the foundation of all Unite realities, their common attributes and final perfection. They are indeed the efficient and final causes of the world, manifesting themselves under the triple relation of the true, the good, and the beautiful. Hence our ideas, as *representations* and determinations of the divine causality, are essentially objective and immutable representations, and determinations of eternal truth. It follows that the existence of God is founded on the very nature of primitive intuition, which includes the eternal substantiality of truth, and that its demonstration a priori is a simple process of deduction from the principle of identity. It follows also that every ideal relation contains an eternal truth, to which an intelligible reality in God corresponds. It is therefore independent of the human mind. Ideas however are not innate. Threy originate in finite reality, from which they receive their determinations, and have a necessary reference to absolute reality through their *representative* character. It is only through reflection that the minddisc. in itself its relation both to finite reality, contained in internal and external perception, and to infinite reality, contained in the Infinity. Creation is the result of the infinite good, which of necessity tends to communicate itself. The idea of a God infinitely good implies the idea of a creation, founded on the greatest good, as its outward manifestation and ultimate end. This manifestation is brought forth by an infinite power, and an infinite wisdom, under the forms of the laws of causality and finality. From the very nature of the finite, and its opposition to the infinite, arises the immense cosmic diversity. Hence the universe cannot be properly represented as a sphere; it is rather to be regarded as a system of numberless spheres, moving concentrically in various directions, and forming that universal harmonv, which is the highest expression of the infinite good. As the cosmic diversity is equal to its possibility, it follows that there is only one idea of the universe in the divine mind as well as in the universe itself, although in a continuous generation and development. The idea of a better world is impossible; because the idea of the universe, which is in the act of developing, contains already all possibilities. Evil is inherent in the finite; but it diminishes, as the finite more and more approaches the infinite, and in this progressive union of the one with the other lies the ultimate end of creation. In the achievement of this end, the divine causality creates and determines the whole, the divine intelligence pre-arranges the whole, while nature produces the whole under the influence of that causality and intelligence. The finite is an aggregate of monads or forces, which are brought together by their mutual attraction; thus a communication arises between those, which have a diameter of similarity, a participation between the diverse ones, and a co-ordination of all. Hence arises the cosmic system, with its great divisions of nature, life, and mind. Nature reveals itself first in the stellar order, in the ether in connection with light, heat, and electricity, and in the order of chemical compounds, such as water and twater. In the elaboration of the syntheses preparatory to the final ones, the divine art is revealed in that wise co-ordination of means which is produced by the union and separation, the action and reaction of homogeneous, as well as heterogenons forces. But it is only in life (vita) that finality (fine) appears, for life alone contains the possibility of receiving the communication of JJIXK], which is the essence and the object of creation. Life is the development through a suitable organization of the individual, in reference to its participation in the good. At its lowest degree it is nothing but a chemical compound – the amoeba --, enclosed in a cellular envelope and capable of reproducing itself. At its highest point, life is an intellectual and volitional activity which tends to an absolute object, and to this end co-ordinates all the means at its disposal. Between the two extremes there are numberless degrees of vital activity, each developing in accordance with its own end. Vegetation, animality, and humanity or spirituality mark the principal degrees in the scale of life. In these three manifestations, life is a specific force. Bflchner and other Scientists, who give to matter the power of producing life, deny the existence of this specific force, and attribute it to a cause, which in itself has not the elements necessary to its development. So Darwin's theory of the genesis of species involves the negation of the objective reality of the idea or specific essence, containing a substantial fixedness of character and form, and the power of producing itself within the limits of its own nature. It confounds accidental varieties with substantial transformations, and artificial means with natural processes. It is contrary to all historical experience, and the constant fact of the sterility of hybrids. It stands in contradiction with itself in the bearing of the two laws of the struggle for life, and natural selection, which will restrict rather than widen the limits of development, and keep the species within their own boundaries, rather than expand them into new forms and modes of existence. The order of life in relation to the general end of creation begins with plants. In plants, the living force has the specific value of being the organ for life, or rather it is the laboratory in which its elements are prepared. This passes over into animality, which has a real relation of finality, although limited and relative, as are its senses and instincts, through which it enjoys participation in the divine good. Man (Homo sapiens sapiens) alone, whose life is partly the growth of vegetation and animality, is an absolute finality, for he alone has a life, through which he can know and act in accordance with the absolute. The law of indefinite progress is universal and necessary, founded as it is in the very object of creation, in the divine goodness, and the progressive union of the finite with the infinite. This law, which embraces all the universe, is still more apparent in the development of mankind. But in order that it may be verified in history, its application must comprehend humanity as an organic and spiritual unit. It would fail if applied to an isolated nation, or measured by the invariable Roman type, as Vico insists. To see the full bearing of this law, mankind must be regarded in the multitude of its nationalities, in the variety of their character, in the multiplicity of the elements and of the ages of civilization. The law itself must he viewed in its different aspects, and in the agencies which are at work to carry it ont in history; such as the influence of a national aristocracy, the subordination of lower to higher forms of civilization, the mingling of the Italian three tribes, and the expansion of social forces, through which a kind of polarity among the tree tribes is created. All these and other causes, while they preserve the spiritual unity of mankind, maintain its growth and secure its general advancement. Besides the works already mentioned, Mamiani writes also “Meditazi- oniCarte&iane, and “Di  un Nuovo Diritto Europe”, in which he strives to establish international right on a philosophical basis. In his “Iiinaacimento Cattolico”, Mamiani contemplates the possibility of a reform in the Catholic Church, that should reconcile it with the spirit of modern times. Mamiani is also the author of “Teoria dclla Religions e dello Stato, e dei suoi raj/porti speciali con Roma e colle Nazioni Cattoliche”, “Sei Lettere a Rosmini”, “Saggi di Filosofia Civile” and “Saggi Politici”. Among the philosophers who have treated of Mamiani's philosophy, the more prominent are Ferri, the author of the “Esmi sar CHUtoire de la Philosophic en Ilalie au 19ine Steele”; Debrit, “Histoire de» Doctrine* Philosophiqves daiu Vltalie Con- temporaine”. These two philosophers, particularly the first, give a complete survey of the principal systems of contemporary philosophy in Italy.) See also Lavarino, “La Logica e la Filosofia di Mamiani” and Fiorentino, several articles in the Rivista di Bologna, under the title of Positivismo e Platonismo in Italia; Brentazzoli, the author of “Di uri1 ultcriore e deflnitico arplicamento della Filosofia Seokxttka”; Tagliaferri, who writes on Mamiani's theory, and Bonatti, who discusses the ontological argument of the existence of God as presented by Mamiani in Bonatti iand Mamiani, Bonatelli is also the author of “La Concienza”, and of a sketch of Italian philosophy published in the “Zeituchrift fiir Philorphie und Philosophische Kritik” in Halle. To the Ontologic classification may also be reduced the “Dialoghi Politico-Filosofici” di Buscarini; and “Sopra la Filosofia del Diritto Publico Interno di L.C. di Montagnini; also,1stFUomfiadette Scuote Italiane, a philosophical review supported by Mamiani, Berti, Bonghi, Barzellotti, and other members of an association recently established in Rome for the promotion of philosophical studies; Oerdil, a weekly periodical published in Turin, under the editorship of Allievo, chiefly intended to reconcile philosophy with Christianity; and Il Campo della FUosoflItaUani, a philosophical periodical published in Naples, and edited by Milone. Next is Absolute Idealism or Hegelianism. Vera is the recognized head of the Hegelian School in Italy. He was born in Amelia, a city of Umbria,  and early goes to Paris, where he completed his education. Having spent some years in Switzerland, he returned to Paris, and is appointed professor of philosophy in several  colleges connected with the University of France. He rreturns to Italy, where he is at once made professor of philosophy at the Royal Academy of Milan. He ransfers to the University of Naples, where he sholds the professorship of the history of philosophy and the philosophy of history. Vera’s works are devoted to the interpretation and application of the Hegelian pliilosophy.They include— ProW.me dela Certitude; VHcgiUanisme et la Philosophit. Melanges Philono- phiques; Essais de Philosophic Hegelienr.e, 1804; Introduction a la Philasrqkfc cCHegel, Logique d Hegel; Philo»,plue de la Nature d'Hegel; Phi losophic de CEsprit (VHegel; Philosophic de la Heligion <THegel; Platonis Aristattiu el Hegelii de medio termino Doctrina; Inquiry into Speculative and Experimental.Se»>v««. Lond; “Lezioni sulla filosofia delta storia”; PrUusiovi alla Storia della Filosofia (epoca Socratica), ed alla Filosofia delta -Storia; II Problema deff Avm-'iito; II Cataitr e la libera Chiesa in Ubero Statot in which the doctrine of the separation of the Church from the Stateheld by Cavour is opposed on philosophical and political grounds. He also translated into English the History of Heligion and of the Christian Church by Bretschneider, London. Vera not only interprets and expounds. Hegel's philosophy, but develops it and expresses it in a more intelligible form, thus rendering it accessible to students not familiar with Hegelian terminology. In his Introduction dla Philosophica"Hegel he rejects the Trinity of being, thought, and motion which Trendelenburg proposes to substitute to the Hegelian trinity of being (thesis), not being (antithesis) and becoming (synthesis). Vera also confutes French Eclecticism and the materialistic theories of Bilchner and Moleschott. In his Inquiry into Spcndatice and Experimental Science, Vera refutes the doctrines of Bacon, Locke, and other representatives of Empiricism. Vera’s labours have been highly praised by eminent German  Hegelians, among whom is Eoeenkranz in "Der Gedanke" and in his Wissenschaft iter hyifchc Idee. See also an article of Saisset in the ItecuedtsDeuxMonde. Among other Hegelians in Italy maybementioned Spaveuta.who. in his “Filosofia di Gioberti” aims to show the connection of the doctrines of this philosopher with the ideas of Hegel. Spaventa is also the author of Introduzione alle Lezioni di Filosofia. Principii di Filosofia, Saggi di Critiea filosofica, politca e religiata, Filosofia di Kant e sua relatione colla Filosofia Italiana. D H T intmoraW.ildel Vanimavmana;ltiiflcssionimlSodalitmoeComunismo. Herebe longs also Fr. Fiorentino, the author of Pietro Pomponazzi— Ttlesio, and Stvdj Stnriei sullaScuoladiBolognaep"PadomalSecolo16°. He also wrote on Positivism and Platonium in Italy (Rivista di Bologna). Miriano wrote La Philomphie Contemporaine en Italie; Lasalle e il sua Ernclito, II Ilisnrgimcn Italiano secondo i principii della Filosofia della Storia di Hegel, Il Problema  Rdigioso in Italia. Among those who have devoted themselves to the application of the Hegelian doctrine to the special branches of science may be mentioned Meis, naturalist and physiologist; Sanctis, Mareelli, Delzio, Salvetti, Gatti, Vitto, Camerim, and Trani, who applied it particularly to literary and historical criticism, and to political, juridical and aathetical sciences. Next is Scholasticism. The philosophical development of  Italian philosophy is distinguished by its national character, and the decided impulse it has given to the reconstruction of Italy, on the basis of independence and liberty. An exception to this general tendency is to be found in the writers who, labouring in the interests of the Church, h a vestr iventore-establish Scholasticism, and with its a cerdotal domination over national thought. Ventura is the principal representative of this School. He was born in Palermo, and early becomes a amember of the Order of the Theatins. He is soon elected Superior-General of the Order, and holds a high position in the government of the Church. He is one of the most prominent supporters of  the reforms inaugurated by Pius IX. In his eulogy on O'Connell, in his funeral oration on the victims of the revolution of Vienna, and in his sermons delivered in the Chapel of the Tuileries, in Paris, he continues to show himself a warm champion of popular rights. In his philosophical works, howover, he constantly maintains the fundamental idea of scholasticism, placing the authorityof the Church above reason and human conscience, indeed above all sovereignty. Holding that philosophy was buta  deduction from revelation, he asserts that the ultimate criterion of truth lies in that authority. It is true, Ventura says, that ideas originate in sensations, and in the subsequent images which are left by them in the mind; but ideas have no value if not incorporated in language, which is itself derived from revelation. Philosophy reaches its culminating point in Aquino, and nothing is left to philosophers but to study, and to expound the doctrines of that philosopher. Ventura is the author of the following works: De Mctlwdo Philosophandi, De la Vraie et de la Fausse Philosophie; La Tradition et Us Semipelagiens de la Philosophie, La Raison Philosophique et Catholique, La Phil/jxophie Chretienne, Of. Le Pere Ventura et la Philosophie, par Clis.deRemusatinLaRevuedesDeux Mondes,Fevrier;also,EtudesMoralesetLitteraircsparA.de Broglie, SeealsoonVentura, Drownson's Quarterly Review, and Annates de Philosophie Chretienne, Paris. To the same school belongs Liberatore, a Jesuit, the author of Trwtitutlines Phllosophiaoe, Sitjjio aulta Conoscenza Intellettuale, EthicaetJusNatural,Compendium LogicaletJfe- taphy»ivc. Liberatore rejects the vision of God, as well as the doctrine of pure tradition, as the principle of knowledge, and holds that human reason, aided by the senses and the power of abstraction, can originate ideas, and attain truth and certainty in the order of nature. But above nature and man there is the authority of the Church, the only infallible guide in philosophy as well as in theology. To the same School may bereferred Sanseverino, author of Philosophia Christianacumantl'juaetnovacomparata, Crescenzio who wrote Seuole di Filosofia; Capozza, author of Sulla Filosofia dei Padri e Dottori della Chiesa e in ixpecialitd d’Aquino in opposizione alla filosofia moderna. Also Azeglio, a Jesuit, brother of the statesman of the same name, the author of Etame Crltlco dei Ooverni Jiapprefsentativi delle Sorieta Moderna, and Soggio teorico del Diritto Naturale fondato sull’esperienza. La Clvilta Cattolica, a monthly Review, literary, political, and phillosophical, published in Rome, is the principal organ of this sect. Since its origin it has been chiefly edited by writers belonging to the Order of the Jesuits, such as Liberatore, Perrone, Azeglio, Bresciani, and Curci. The fundamental idea of this periodical is the insufficiency of human reason in all questions which refer to religion, philosophy, morality, jurisprudence, and politics. European civilization is the result of Catholicism, and it is onlv in Catholicism that man and society can find a basis for their develop ment. Protestantism, liberty of conscience and thought are only sources of infidelity and revolution, and it is only by subjecting itself to the authority of the Church, that the human mind can re-establish its natural relations with God and man. The revolution which has made Italy one, having been carried out against the interests of the Church, isa nti-Catholic and anti-Christian. These doctrines have received the sanction of Piu sIX., who in his Syllabus condemns as monstrous errors the following propositions. Moral science and philosophy are independent of the authority of the Church. Philosophy may be treated without regard to revelation. The principles and the method of the Scholastics are not in accordance with the need, and the progress of science. Everyone may embrace that religion,which he in his conscience may think true. Protestantism is a form of Christianity, in which man may please God, equally as well as if he were in the Catholic Church. Common schools ought to be exempted from the authority of the Church. These and other propositions, proclaimed as religious errors, received formal condemnation from the Church in the Council of the Vatican, through the dogmatic definition of papal infallibility, the logical consequence of genuine Catholicism and the highest synthesis of Scholasticism. Positivism, or rationalistic naturalism, as implying the negation of all metaphysical science, is represented by Ferrari. A Lombard by birth, and a disciple of Romagnosi, he early visits Paris, where he becoes connected with the University of France, as associate doctor, he afterwards holds a professorship at Strasbourg, which he iss obliged to resign on account of his radical opinions. He returns to Italy, enters Parliament, and is appointed professor of philosophy successively in Turin, Milan, and Florence. Admitting as insoluble the antinomies of reason in the sense of Kant, Ferrari holds that experience is the only foundation of truth. There are two species of contradiction into which the mind may fall: the positive and thecritical. The former arise from faults of reasoning, and may disappear through a verification of the intellectual process. The latter are theresults of a fatal law of the mind, and cannot be avoided. Kant reduces these contradictions to the ideas having reference to God, the world, and man; but in fact they are numberless. They are in us and out of us; they manifest themselves in our ideas and actions, in both the theoretical and the practical order. The universality is the law of mind and nature. Hegel with an effort of genius attempts to reduce them to a rational unity. But he succeeds only in giving us a philosophy of contradictions. Hegel’s failure shows the impossibility of metaphysical science, and the futility of the labours of metaphysicians to find a relation between Nature and Logic. Between the two there is no relation; the former is founded on the law of con trastand change, the latter on identity. Hence there is an essential opposition between them, which renders it impossible to represent unity in accordance with mental ideality. Indeed the mind itself is subject to the law of opposition, so that in reality an absolute identity even in the logical order is an impossibility. The effort therefore to reduce nature and mind to scientific unity must ine vitably result in transforming the critical antimonies into positive ones, and thus in making error a necessity. The mind is neither superior nor equal to nature; it is its child; and it is only in sub mission to nature that it can co-ordinate its thoughts, determine its knowledge,andfindabasisforspeculation. Phenomenalism,there fore, with all the oppositions which are revealed in the ever-chang ing movement of nature, is the object as well as the limit of our intelligence. The ideal relations, such as the relations of quality and substance, of effect and cause, of finite and infinite, and all others which relate to the supreme laws of nature and thought, are so many oppositions which predominate in the universe, and in all our analyses; they are the inexplicable conditionsof our knowledge, and the insuperable limits of all science. An impenetrable mystery envelopes them, and the mind cann either explain or.reconcile them. Hence it follows that no absolute truth exists in the human mind, and that philoophy is only so far true as it does not overstep the limits of a phenomenal experience, the cause of which is an everlasting movement, and its law a perpetual opposition. Led by these ideas, Ferrari attempts a philosophical reconstruction of the political development of nations, founded exclusively on experience and induction. Ferrari establishes therefore a general and uniform type of this development, and divides I tinto four periods, each comprising about thirty years. The first period is an epoch of preparation, in which new ideas are manifested, and the genus of future events and laws deposited in the soul of th epeople. This isfollowed by the period of explosion, in which those germs, having reached their maturity, burst forth in explicit ideas, and are transformed into politica laction. A phasis of reaction, next appears, by which a temporary return is made to the ancient regime, and the new form of civilization and the doctrines of revolution are momentarily suppressed. In this phase the body politic finds itself in a kind of oscillation between the old and the new, seeking its equilibrium. Finally, the last period completes the movement through a solution, and it ends with ingrating the new ideas in the minds of the people, and in the character of the government. Thus in France, Louis X1Y. represents the first period, the revolution the second, the last years of Napoleon and the kingdoms of Louis XVIII., Charles X., and Louis Philippe the third, while the fourth begins in the revolution, is interrupted by thes econd empire, and recommences with its fall. Ferrari is the author of “La Mente di G. B.Vico”, “La Mente di G.D.Romagnosi”; “De l’Erreur”; “Vico e l’Italie”, “Idees&urlaPoiii  51o de Platon et d'Aristote”, “Essai stir h Principe et lea Limites de la Philosophie dell’histoire”, Histoire de hi RaisondeVEtat”; “Histoire des Revolutions oVItalie, “Corso di Lezioni swjli Scrittori Politici Italiani, Filosofia della Rivoluzione. Bonavino is another representative of this School. In his youth he became a priest, but soon renounces this position, and avows himself a rationalist and a naturalist. He is professor of the philosophy of history at Pavia. In “La Filosofia delle Scuole Italiane”, Bonavino attempts a criticism of the philosophies of Rosmini, Gioberti, and Mamiani, and rejects them all as exponents of old Scholasticism under new forms. Admitting the negative part of the doctrine of Kant, Bonavino derives his positive ideas from the French philosophers of the 18th century. Nature and its phenomena are the limits of our knowledge, and time and space its exclusive conditions. There is no other reality, which the mind can reach; there is no substance, no truth in itself. The infinite is only the indefinite, and even this is not real,bu tideal. In “Del Sentimento”, Bonavino rests his psychology on sensation, and makes this the origin of all mental faculties. Applying these ideas to religion in his “La Religione del Secolo 19°”, and in his “II Razionalismo del Popolo”, Bonavino borrows from Feuerbach, from Comte and other positivists, the idea of humanity as the basis and the object of a genuine rationalistic religion. In his Review, La Raaione, he discussed the most important questions of philosophy, religion, and politics, showing a decided tendency towards Socialism, yet maintain ing a proper regard for the rights of property and the institution of thefamily. He is also the author of “Lezioni sulla Storia della Filosofia Moderna” and of the work “Sulla Teorica del Giudizio”. Moleschott, professor at Turin,in his “LaCirculation de la Vie” and other numerous works on physiology, Tommasi, professor at Naples, author of the Naturalismo Moderno, and other eminent physiologists and scientists, contend that all knowledge is essentially relative and finite, and that therefore all questions relating to the  b solute and the Infinite are insoluble. Hence they assert that the province of philosophy must be confined within the limits of natural science. To this School, although from an entirely different point of view, may be referred Villari, the authorof “La Storia di Savonarola,” who in his “Saggi di Storia, Critica, e Politica” insists on the exclusive application of the historical method to philosophical sciences, a method, the adoption of which is urged by Lambruschini, the author of “Dell’Educazione e dell'Istruzione”, “La Guida, dell’Educatore” and other valuable works on education; cf. his La Filosofia Positiva esaminata secondo I Principii della Pedagogia, in the Gioventù of Florence, a weekly paper devoted to the progress of education. The following writers, under different aspects, illustrate the contemporary history of Positive Philosophy in Italy. Bissolati, “Introduzione alle Istituzioni Pirroniane”, Secchi, “Unità delle Forze Fisiche”; Pozzolini, “Induzione delle Forz  Fisiche”; Barbera, “La Legge universale di rotazione, and “Newton e la Filosofia naturale”; A.Martinozzoli, “La Teoria detta Filosofia”; Bianco, “La Rivoluzione nela Filosofia, ossia il Vero ed il Lecito applicati al Materialismo”; Dandolo, “Storia del Pensiero nei tempi moderni”; G. Coco-Zanghi, “Antropologia: l’uomo e la scimmia”; Angiulli, “La Filosofia e la Ricerca Positiva”, P. Siciliani, “Sul Rinnovamento della Filosofia Positiva in Italia”; Barzellotti, “La morale nella Filosofia Positiva”; Lanciano, “Saggio di Scienza Prima, Universo,T'Astroe, L’Individuo”; Panizza, “Il Positivismo Filosofico e il Positivismo Scientifico”, “Lettere ad Tclmholtz”. Grice: “Botta uses ‘filosofo italiano’ too freely. When we reflect on ‘filosofo italiano’ I can think of Heidegger, whom was described as ‘the greatest living philosopher’ – or consider a ‘fat poem’ – In what way is a fat philosopher not like a French poem? If Mr. Buddle is ‘our man in nineteenth-century Continental philosophy’ – why is it that Puddle doesn’t sound Continental enough. Bravery is usually the consequence of being addicted to general reflections about life – I can think of Empedocles who threw himself into the Etna to prove that he was a god – when  his sandal sprang up, the implicature was unequivocal!” Vincenzo Botta. Keywords: filosofia italiana, dall’A alla Z – indice di nome della storia della filosofia italiana di Botta – Botta, storico dela fiosofia italiana, Botta su Alighieri, Botta su Cavour, empiricismo, positivismo, Vico, criticismo, idealismo, scolasticismo, ontologia, psicologia filosofica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Botta” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Bottiroli – la seduzione di Ovidio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Novi Ligure). Filosofo italiano. Grice: “I like Bottiroli – he is an Italianist, rather than a philosopher, but typically in the Italian fashion, he uses philosophical vocabulary – my favourite are his tracts on ‘seduzione,’ ‘desiderio,’ ‘amore,’ ‘sesso,’ which of course is all Plato’s symposium – but he has also explored not just pragmatics, but semantics and syntax – notably with his ‘rigid/flexible’ distinction – Since he is associated with les belles lettres, philosophers in Italy do not take him too seriously, though!” -- Giovanni Bottiroli (Novi Ligure) è un filosofo e professore universitario italiano.   Professore di Teoria della letteratura, da molti anni, a Bergamo. Ha insegnato Retorica e Narrazione, Teoria dell’interpretazione, Estetica, in questa Università. Inoltre, è docente all’IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi applicata), diretto da Massimo Recalcati.  È direttore della rivista “Comparatismi" (rivista della Consulta del SSD “Critica letteraria e Letterature Comparate”). Dal  è Presidente della Consulta di questo settore.  Fa parte del Comitato Scientifico di “Enthymema” e di “Symbolon”, e della Direzione di “L’immagine Riflessa”. Collabora alla rivista “Segnocinema”.  Pensiero Una filosofia della flessibilità Giovanni Bottiroli ha elaborato una nuova prospettiva filosofica che si ispira alla nozione di “flessibilità”, e che egli ha indicato con diverse espressioni: ragione flessibile, pensiero della Metis, pensiero strategico.  Questa prospettiva viene esposta nella forma più ampia e sistematica in La ragione flessibile () e La prova non-ontologica ().  Dalla filosofia alla letteratura (come modo di pensare) In Teoria dello stile la letteratura viene intesa come modo di pensare e ad essere privilegiato è il suo legame con la filosofia. Il legamenon privo di conflittualitàtra letteratura e filosofia richiede di essere analizzato mediante il concetto di stile, inteso sia come invenzione linguistica sia come “stile di pensiero”. Esemplare, da questo punto di vista, è l’analisi della “Lettera rubata” di Poe, proposta da Lacan negli Scritti (1966).  La teoria della letteratura In Che cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, la teoria della letteratura viene intesa come una disciplina ibrida che deve attingere alle teorie del linguaggio, alle teorie del desiderio e alle teorie dell’interpretazione, ispirandosi principalmente a tre fonti: Saussure, Freud, Heidegger.  L'interpretazione dei testi come conflictual reading L’interpretazione del testo è intesa come un conflictual reading capace di lasciare emergere la pluralità degli stili, il problema dell’identità del soggetto e le dinamiche del desiderio. Il suo orizzonte sono le estetiche conflittuali, a cuiin prospettive assai diversehanno contribuito Nietzsche e Heidegger, Freud e Lacan, ma anche Bachtin. Le riflessioni su questo tema sono confluite in diversi articoli tra cui Il desiderio “effrayant” di Julien Sorel. Un “conflictual reading” per un romanzo di formazione in “Enthymema”, 21,.  Opere Libri 1975 Parodia Milano: Scheiwiller (con prefazione di Cesare Segre) 1980 La contraddizione e la differenza. Il materialismo dialettico e la semiotica di Julia Kristeva, Giappichelli, Torino 1987 Interpretazione e strategia, Guerini e associati, Milano 1987 Retorica della creatività. Per l'interpretazione e la produzione di testi, Paravia, Torino 1990 Figure di pensiero. La svolta retorica in filosofia, Paravia, Torino 1993 Retorica. L'intelligenza figurale nell'arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 1995 Il reggicalze. Come l'abbigliamento diventò seduzione, Gribaudo, Torino 1997 Teoria dello stile, La nuova Italia, Firenze 2001 Problemi del personaggio (curatela), Bergamo University Press, Bergamo 2002 Jacques Lacan. Arte linguaggio desiderio, Bergamo University Press, Bergamo 2005 Le incertezze del desiderio. Scritti brevi su strategia e seduzione, Ecig, Genova 2006 Che cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino  La ragione flessibile. Modi d'essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino  La prova non-ontologica. Per una teoria del Nulla e del “non”, Mimesis, Milano-Udine Voci di Enciclopedia Enciclopedia Einaudi: Eros (1978), Piacere (1980), Pulsione (1980), Soma/Psiche (1981) (quest’articolo in collaborazione con Guido Ferraro). Enciclopedia Treccani: Letteratura e psicoanalisi, in Appendice 2000 Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi (diretta da Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo): Il pensiero filosofico e scientifico e La prosa della filosofia e della scienza,  IV, 1996 (21-58 e 945-974) Letteratura europea (P. Boitani e M. Fusillo): Letteratura e psicoanalisi,  5,  399-417, POMBA, Torino  Articoli di filosofia e di teoria della letteratura (una selezione) 1990 Bachtin, la parodia del possibile, in "Strumenti critici", 63,  147-66 1994 Il comico inesistente. I regimi figurali nell’opera di Calvino in “Calvino e il comico” (L. Clerici e B. Falcetto), Marcos Y Marcos 1996 Sinistra come "bêtise". Il problema degli attriti nel "Dono” di Nabokov in "Strumenti critici” 80, 1996 2001 Il comico delle articolazioni, in BarbieriBottiroliPerissinotto “Il Comico: approcci semiotici”, Documenti di lavoro 303-304-305, Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica, Urbino 2001,  27-39 2002 Introduzione a Flaubert, L’educazione sentimentale, Einaudi, Torino,  V-XXI 2003 Un sogno di Raskolnikov, in “Nel paese dei sogni” (V. Pietrantonio e F. Vittorini), Le Monnier, Firenze 2003,  70-84 2004 La logica del diviso in "William Wilson" in Fantastico Poe (R. Cagliero, Ombre Corte, Verona) 2007 Non sorvegliati e impuniti. Sulla funzione sociale dell’indisciplina, in Forme contemporaneee del totalitarismo (Massimo Recalcati), Bollati Boringhieri, Torino 2007 Metaphors and Modal Mixtures in Metaphors (di Stefano Arduini), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008 L’identità modale nei romanzi di Kafka. Descrizione di un progetto di ricerca in “Cultura tedesca”, 35 2009 In principio era la bêtise, in Soggettivazione e destino. Saggi intorno al ‘Flaubert’ di Sartre (G. Farina e R. Kirchmayr), Bruno Mondadori, Milano  Ibridare, problema per artisti. Alcune tesi, in “Enthymema”, n.1,  154-163  Dalle somiglianze alle differenze di famiglia, in L’immagine riflessa, n.1-2,  181-2  L’inganno del cortile centrale. Interpretazione della “Phèdre” come testo diviso, in Ermeneutica letteraria, VIII  Introduzione a “La conversazione infinita” di M. Blanchot, Einaudi, Torino  Lost in styles. Perché nel cognitivismo non c’è abbastanza intelligenza per capire l’intelligenza figurale, in “Lo sguardo”, 17 153-193  Il perturbante è l’identità divisa. Un’interpretazione di “Der Sandmann” in Enthymema, 12,  205-229  The possibility of not coinciding with oneself: a reading of Heidegger as a modal thinker, in The Italian Psychoanalytic Annual, /10,  133-149, Cortina Editore  Le parole uccidono le cose oppure altre parole? Il linguaggio come perdita e come articolazione agonistica in Per Enza Biagini (A. Brettoni, E. Pellegrini, S. Piazzesi, D. Salvadori), Firenze University Press, Firenze  Liberatore e incatenato: le aporie di Dioniso (e del dionisiaco) da Euripide a Nietzsche in Enthymema, XIV,  51-81  Return to literature. A manifesto in favour of theory and against methodologically reactionary studies (cultural studies etc.) in “Comparatismi”, 3,  1-37  What is alive and what is dead in Jakobson. From codes to styles in Roman Jakobson, linguistica e poetica (E. Esposito, S. Sini e M. Castagneto), Ledizioni, Milano,  213-220  Il desiderio “effrayant” di Julien Sorel. Un “conflictual reading” per un romanzo di formazione in Enthymema, 21,  134-151  Shakespeare e il teatro dell’intelligenza. Dagli errori di Bruto a quelli di René Girard in Metodo,  6, n. 1,  73-98  Il desiderio e i suoi destini: dal rapporto ai modi del rapporto, in A. Badiou, Il sesso l’amore (Federico Leoni e Silvia Lippi), Mimesis, Milano-Udine,  41-52  Sade e il desiderio di essere in “aut aut” 382 To be and not to be. Hamlet’s Identity, in Enthymema 23,  250-285  Heart of Darkness e la teoria lacaniana dei registri in Anglistica pisana, XIV, 1-2 ()  The Turn of the Screw. A tale that “turns” in Enthymema 24,  43-58 Articoli di cinema (una selezione) 2007 I registi sono alleati preziosi. Un'interpretazione di Mulholland Drive di David Lynch, in Segnocinema 144  Identità come identificazione (nei film e non negli spettatori), in “Imago”, 2  Joe, o le disavventure di una ninfomane (Nymphomaniac di Lars von Trier), in “Segnocinema” 196  Non infantilizzate, vi prego, Ingmar Bergman. Desideri senza magia in “Fanny e Alexander” in Segnocinema 214  L’arte è un lusso, la fiction una necessità. Žižek e Hitchcock, qualche anno dopo in “Segnocinema” 223-224 Recensioni Niccolò Scaffai, recensione a Che cos'è la teoria della letteratura? Fondamenti e problemi, in Allegoria, n. 55, 2007 Panella Giuseppe, recensione a Che cos'è la teoria della letteratura? Fondamenti e problemi, in Ermeneutica letteraria n. 3, 2007 Franzini Elio, recensione a La ragione flessibile, in “Enthymema”, n. IX,  412-414,  Dalmasso Gianfranco, recensione a La ragione flessibile, in “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”, 1,  240-245,  Carmello Marco, recensione a La prova non-ontologica, in “Enthymema”, n. XXV, 703-707,  Note  Giovanni Bottiroli (database Università degli Studi di Bergamo), su www00.unibg.  Docenti titolari di materiaIrpa Milano, su istitutoirpa.  Comparatismi. Rivista della Consulta di Critica letteraria e Letterature comparate, su ledizioni.  Enthymema, su riviste.unimi.  Curriculum Vitae, su unipa.  Elio Franzini, La ragione flessibile di Giovanni Bottiroli, in Enthymema, n. 9.  Marco Carmello, Giovanni Bottiroli "La prova non-ontologica. Per una teoria del nulla e del 'non' ", Enthymema, n. 25.  Giuseppe Panella, A proposito di Giovanni Bottiroli, "Che cos'è la teoria della letteratura", in Ermeneutica letteraria. Rivista internazionale, n. 3.  Niccolò Scaffai, Giovanni Bottiroli"Che cos'è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi", in Allegoria, n. 55.  Giovanni Bottiroli, Il desiderio "effrayant" di Julien Sorel, in Enthymema, n. 21.  Letteratura e psicoanalisi, su treccani. giovannibottiroli/it///www00.unibg/struttura/strutturasmst.asp?rubrica=1&persona=89&nome=Giovanni&cognome=Bottiroli&titolo=Prof. 59307684 I0000 0000 8138 7227  IT\ICCU\CFIV\053603 81043256  135880033  cb144625951   XX1744209   Identitieslccn-n81043256 Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Psicologia  Psicologia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1951 24 giugno Novi Ligure. THE ART OF SEDUCTION ROBERT GREENE Choose the Right Victim 2 Create a False Sense of Security-Approach Indirectly Send Mixed Signals Appear to Be an Object of Desire- Create Triangles Create a Need-Stir Anxiety and Discontent () Master the Art of Insinuation 7 Enter Their Spirit Create Temptation Keep Them in Suspense-What Comes Next? Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion Pay Attention to Detail A Penguin Book £ Psychology www.penguin.com THE ART OF SEDUCTION ROBERT GREENE rci A JOOST ELFFERS. Get what you want by manipulating every one's greatest weakness: the desire for pleasure. Seduction is the most subtle, elusive, and effective form of power. It's as evident in John F. Kennedy's hold over the masses as it is in Cleopatra's hold over Antony. Now, the author of the bestselling The 48 Lazes of Pozeer has written a handbook synthesizing the classic literature of seduction from Freud to Kierkegaard and Ovid to Casanova, with cunning strategies illustrated by the successes and failures of characters throughout history. And once again Robert Greene identifies the rules of a timeless, amoral game and explores how to cast a spell, break down resistance, and, ultimately, compel a target to surrender. The Art of Seduction takes us through the characters and qualities of the ten archetypal figures of seduction (including the Siren, the Ideal Lover, the Dandy, the Natural, the Charismatic, and the Star) and the twenty-four maneuvers by which anyone can overcome a victim's futile resistance to the practice of this devastating and timeless art form. Every bit as essential as The 48 Lazes ofPozver, The Art of Seduction is an indispensable primer of persuasion that reveals one of history's greatest weapons and the ultimate form of power. ISBN Poeticize Your Presence Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability Confuse Desire and Reality- The Perfect Illusion i Isolate the Victim , 1 ( Prove Yourself 1 Effect a Regression j 18 Stir Up the \ Transgressive and Taboo Use Spiritual Lures 2 ( Mix Pleasure with Pain 21 Give Them Space to Fall-The ¦ Pursuer Is Pursued f I 22 Use Physical j Lures 13 Master the Art of the Bold i Move Beware ' i of the Aftereffects PENGUIN BOOKS THE ART OF SEDUCTION Robert Greene, author of The 48 Laws of Power, has a degree in classical literature. He lives in Los Angeles. Visit his Web site: www.seductionbook.com Joost Elf fers is the producer of Viking Studio's bestselling The Secret Language of Birthdays, The Secret Language of Relationships, as well as Play with Your Food. He lives in New York City. the art of seduction Robert Greene A Joost Elffers Book PENGUIN BOOKS PENGUIN BOOKS Published by the Penguin Group Penguin Group (USA) Inc., 375 Hudson Street, New York, New York 10014, U.S.A. Penguin Books Ltd, 80 Strand, London WC2R ORL, England Penguin Books Australia Ltd, 250 Camberwell Road, Camberwell,Victoria 3124, Australia Penguin Books Canada Ltd, 10 Alcorn Avenue, Toronto, Ontario, Canada M4V 3B2 Penguin Books India (P) Ltd, 11 Community Centre, Panchsheel Park, New Delhi - 110 017, India Penguin Books (N.Z.) Ltd, Cnr Rosedale and Airborne Roads, Albany, Auckland, New Zealand Penguin Books (South Africa) (Pty) Ltd, 24 Sturdee Avenue, Rosebank, Johannesburg 2196, South Africa Penguin Books Ltd, Registered Offices: 80 Strand, London WC2R ORL, England First published in the United States of America by Viking Penguin, a member of Penguin Putnam Inc. 2001 Published in Penguin Books 2003 13579 10 8642 Copyright (c) Robert Greene and Joost Elffers, 2001 All rights reserved Every effort has been made to trace copyright holders. The publisher apologizes for any errors or omissions in the hst that follows and would be grateful to be notified of any corrections that should appear in any reprint. Greene Robert. The art of seduction / Robert Greene, p. cm. "A Joost Elffers book."  1. Sexual excitement. 2. Sex instruction. 3. Seduction. I.Title. HQ31 .G82 2001 306.7-dc21 2001025868 Printed in the United States of America Set in Bembo Designed by Jaye Zimet with Joost Elffers Except in the United States of America, this book is sold subject to the condition that it shah not, by way of trade or otherwise, be lent, re-sold, hired out, or otherwise circulated without the publisher's prior consent in any form of binding or cover other than that in which it is published and without a similar condition including this condition being imposed on the subsequent purchaser. The scanning, uploading and distribution of this book via the Internet or via any other means without the permission of the publisher is illegal and punishable by law. Please purchase only authorized electronic editions, and do not participate in or encourage electronic piracy of copyrighted materials. Your support of the author's rights is appreciated. Grateful acknowledgment is made for permission to reprint excerpts fiom the following copyrighted works: Falling in Love by Francesco Alberoni, translated by Lawrence Venuti. Reprinted by permission of Random House, Inc. Seduction by Jean Baudrillard, translated by Brian Singer. St. Martin's Press, 1990. Copyright (c) New World Perspectives. 1990. Reprinted by permission of Palgrave. The Decameron by Giovanni Boccaccio, translated by G. H. Me William (Penguin Classics 1972, second edition 1995). Copyright (c) G. H. McWilliam, Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. Warhol by David Bourdon, published by Harry N. Abrams, Inc., New York. All rights reserved. Reprinted by permission of the publisher. BehindtheMask: OnSexualDemons, SacredMothers, Transvestites, Gangsters and Other Japanese Cultural Heroes by Ian Buruma, Random blouse UK, 1Reprinted with permission. Andreas Capcllanus on Love by Andreas Capellanus. translated by P. G. Walsh. Reprinted by permission of Gerald Duckworth & Co. Ltd. The Book of the Courtier by Baldassare Castiglione, translated by George Bull (Penguin Classics 1967, revised edition 1976). Copyright (c) George Bull, Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. Portrait of a Seductress: The World of Natalie Barney by Jean Chalon, translated by Carol Barko, Crown Publishers, Inc., 1979. Reprinted with permission. Lenin: The Man Behind the Mask by Ronald W. Clark, Faber & Faber Ltd., 1988. Reprinted with permission. Pursuit of the Millennium by Norman Cohn. Oxford University Press. Used by permission of Oxford University Press, Inc. Tales from The Thousand and One Nights, translated by N. J. Dawood (Penguin Classics, 1955, revised edition 1973). Translation copyright (c) N. J. Dawood. 1954, 1973. Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. Emma, Lady Hamilton by Flora Fraser, Allied A. Knopf, 1987. Copyright (c) 1986 by Flora Fraser. Reprinted by permission. Evita: The Real Life of Eva Peron by Nicolas Fraser and Marysa Navarro, W. W Norton & Company, Inc., 1996. Reprinted by permission. The World's Lure: FairWomen, TheirLoves, TheirPower, Their Fates by Alexander von Gleichen-Russwurm. translated by Hannah Waller, Alfied A. Knopf, 1927. Copyright 1927 by Alfred A. Knopf. Inc. Reprinted with permission. The Greek Myths by Robert Graves. Reprinted by permission of Carcanet Press Limited. The Kennedy Obsession: The American Myth ofJFKby John Heilman, Columbia University Press 1997. Reprinted by permission of Columbia University Press. The Odyssey by Homer, translated by E. V Rieu (Penguin Classics). Copyright (c) The Estate of E. V. Rieu, 1946. Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. The Life of an Amorous Woman and Other Writings by Ihara Saikaku, translated by Ivan Morris. Copyright (c) 1963 by New Directions Publishing Corp. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp. "The Seducer's Diary" fiom Either/Or, Part 1 by Spren Kierkegaard, translated by Howard V. Hong and Edna H. Hong. Copyright (c) 1987 by Princeton University Press. Reprinted by permission of Princeton University Press. Sirens: Symbols of Seduction by Meri Lao, translated by John Oliphant of Rossie, Park Street Press, Rochester. Vermont, 1998. Reprinted with permission. Lives of the Courtesans by Lynne Lawner, Rizzoli, 1987. Reprinted with permission of the author. The Theatre of Don Juan: A Collection of Plays and Views, 1630-1963 edited with a commentary by Oscar Mandel. Copyright (c) 1963 by the University of Nebraska Press. Copyright (c) renewed 1991 by the University of Nebraska Press. Reprinted by permission of the University of Nebraska Press. Don Juan and the Point of Horror by James Mandrell. Reprinted with permission of Penn State University Press. Bel-Ami by Guy de Maupassant, translated by Douglas Parmee (Penguin Classics, 1975). Copyright (c) Douglas Parmee. 1975. Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. The Arts and Secrets of Beauty by Lola Montez, Chelsea House, 1969. Used with permission. The Age of the Crowd by Serge Moscovici. Reprinted with permission ot Cambridge University Press. The Tale ofGenji by Murasaki Shikibu, translated by Edward G. Seidensncker, Alfred A. Knopf, 1976. Copyright (c) 1976 by Edward G. Seidensticker. Reprinted by permission of the publisher. The Erotic Poems by Ovid, translated by Peter Green (Penguin Classics, 1982). Copyright (c) Peter Green, 1982. Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. The Metamorphoses by Ovid, translated by Mary M. Innes (Penguin Classics, 1955). Copyright (c) Mary M. Innes, 1955. Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. My Sister, My Spouse: A Biography of Lou Andreas-Salome by H. F. Peters, W. W. Norton & Company, Inc., 1962. Reprinted with permission. The. Symposium by Plato, translated by Walter Hamilton (Penguin Classics, 1951). Copyright (c) Walter Hamilton. 1951. Reprinted by permission of Penguin Books Ltd. The Rise and Fall of Athens: Nine Greek Lives by Plutarch, translated by Ian Scott-Kilvert (Penguin Classics, 1960). Copyright (c) Ian Scott-Kilvert, 1960. Reprinted by permission of Penguin Hooks Ltd. Love Declared by Denis de Rougemont, translated by Richard Howard. Reprinted by permission of Random House, Inc. The Wisdom of Life and Counsels and Maxims by Arthur Schopenhauer, translated by T. Bailey Saunders  (Amherst, NY: Prometheus Books, 1995). Reprinted by permission of the publisher. The Pillow Book of Sei Shonagon by Sei Shonagon, translated and edited by Ivan Morris, Columbia  University Press. 1991. Reprinted by permission of Columbia University Press.  Liaison by Joyce Wadler, published by Bantam Books, 1993. Reprinted by permission of the author.  Max Weber: Essays in Sociology by Max Weber,edited and translated by H. H. Certh and C. Wright Mills. Copyright 1946, 1958 by H. H. Gerth and C. Wright Mills. Used by permission of Oxford  University Press, Inc. The Game of Hearts: Harriette Wilson & Her Memoirs edited by LesleyBlanch. Copyright (c) 1955 by Lesley Blanch. Reprinted with permission of Simon & Schuster. To the memory ofmyfather Acknowledgments First, I would like to thank Anna Biller for her countlesscontributions to this book: the research, the many discussions, her invaluable help with the text itself, and, last but not least, her knowledge of the art of seduction, of which I have been the happy victim on numerous occasions. I must thank my mother, Laurette, for supporting me so steadfastly throughout this project and for being my most devoted fan. I would like to thank Catherine Leouzon, who some years ago introduced me to Les Liaisons Dangereuses and the world of Valmont. I would like to thank David Frankel, for his deft editing and for his much-appreciated advice; Molly Stern at Viking Penguin, for overseeing the project and helping to shape it; RadhaPancham, for keeping it all organized and being so patient; and Brett Kelly, for moving things along. With heavy heart I would like to pay tribute to my cat Boris, who for thirteen years watched over me as I wrote and whose presence is sorely missed. His successor, Brutus, has proven to be a worthy muse. Finally, I would like to honor my father. Words cannot express how much I miss him and how much he has inspired my work. Contents  Acknowlegments • ix  Preface • xix Part One The Seductive Character The Siren  A man is often secretly oppressed by the role he has to play-by always having to be responsible, in control, and rational. The Siren is the ultimate male fantasy figure because she offers a total release from the limitations of his life. In her presence, which is always heightened and sexually charged, the male feels transported to a realm of pure pleasure. In a world where women are often too timid to project such an image, learn to take control of the male libido by embodying hisfantasy. The Rake page A woman never quite feels desired and appreciated enough. She wants attention, but a man is too often distracted and unresponsive. The Rake is a great female fantasy-figure -w hen he desires a woman, brief though that moment may be, he will go to the ends of the earth for her. He may be disloyal, dishonest, and amoral, but that only adds to his appeal. Stir a woman's repressed longings by adapting the Rake's mix of danger and pleasure. The Ideal Lover Most people have dreams in their youth that get shattered or worn down with age. They find themselves disappointed by people, events, reality, which cannot match their youthful ideals. Ideal Lovers thrive on people's broken dreams, which become lifelong fantasies. You long for romance? Adventure? Lofty spiritual communion? The Ideal Lover reflects your fantasy. He or she is an artist in creating the illusion you require. In a world of disenchantment and baseness, there is limitless seductive power in following the path of the Ideal Lover. The Dandy Most of us feel trapped within the limited roles that the world expects us to play. We are instantly attracted to those who are more fluid than we are-those who create their own persona. Dandies excite us because they cannot be categorized, and hint at a freedom we want for ourselves. They play with masculinity and femininity; they fashion their own physical image, which is always startling. Use the power of the Dandy to create an ambiguous, alluring presence that stirs represseddesires. The Natural. Childhood is the golden paradise we are always consciously or unconsciously trying to re-create. The Natural embodies the longed-for qualities of childhood - spontaneity, sincerity, unpretentiousness. In the presence of Naturals, wefeel at ease, caught up in their playful spirit, transported back to that golden age. Adopt the pose of the Natural to neutralize people's defensiveness and infect them with helpless delight. The Coquette The ability to delay satisfaction is the ultimate art of seduction-while waiting, the victim is held in thrall. Coquettes are the grand masters of the game, orchestrating a back-and-forth movement between hope and frustration. They bait with the promise of reward-the hope of physical pleasure, happiness, fame by association, power-all of which, however, proves elusive; yet this only makes their targets pursue them the more. Imitate the alternating heat and coolness of the Coquette and you will keep the seduced at your heels. The Charmer Charm is seduction without sex. Charmers are consummate manipulators, masking their cleverness by creating a mood of pleasure and comfort. Their method is simple: They deflect attention from themselves and focus it on their target. They understand your spirit, feel your pain, adapt to your moods. In the presence of a Charmer youfeel better about yourself. Learn to cast the Charmer's spell by aiming at people's primary weaknesses: vanity and self-esteem. The Charismatic Charisma is a presence that excites us. It comes from an inner quality - self-confidence, sexual energy, sense of purpose, contentment-that most people lack and want. This quality radiates outward, permeating the gestures of Charismatics, making them seem extraordinary and superior. They learn to heighten their charisma with a piercing gaze, fiery oratory, an air of mystery. Create the charismatic illusion by radiating intensity while remaining detached. The Star Daily life is harsh, and most of us constantly seek escapefrom it infantasies and dreams. Stars feed on this weakness; standing out from others through a distinctive and appealing style, they make us want to watch them. At the same time, they are vague and ethereal, keeping their distance, and letting us imagine more than is there. Their dreamlike quality works on our unconscious. Learn to become an object offascination by projecting the glittering but elusive presence of the Star. The Anti-Seducer Seducers draw you in by the focused, individualized attention they pay to you. Anti-seducers are the opposite: insecure, self-absorbed, and unable to grasp the psychology of another person, they literally repel Anti-Seducers have no self-awareness, and never realize when they are pestering, imposing, talking too much. Root out anti-seductive qualities in yourself and recognize them in others-there is no pleasure or profit in dealing with the Anti-Seducer. The Seducer's Victims-The Eighteen Types Part Two The Seductive Process Phase One: Separation-Stirring Interest and Desire 1 Choose the Right Victim Everything depends on the target of your seduction. Study your prey thoroughly, and choose only those who will prove susceptible to your charms. The right victims are those for whom you can fill a void, who see in you something exotic. They are often isolated or unhappy, or can easily be made so-for the completely contented person is almost impossible to seduce. The perfect victim has some quality that inspires strong emotions in you, making your seductive maneuvers seem more natural and dynamic. The perfect victim allows for the perfect chase. 2 Create a False Sense of Security-Approach Indirectly If you are too direct early on, you risk stirring up a resistance that will never be lowered. At first there must be nothing of the seducer in your manner. The seduction should begin at an angle, indirectly, so that the target only gradually becomes aware of you. Haunt the periphery of your target's life-approach through a third party, or seem to cultivate a relatively neutral relationship, moving gradually from friend to lover. Lull the target into feeling secure, then strike. 3 Send Mixed Signals  Once people are aware of your presence, and perhaps vaguely intrigued, you need to stir theirinterest before it settles on someone else. Most of us are much too obvious - instead, be hard to figure out. Send mixed signals: both tough and tender, both spiritual and earthly, both innocent and cunning. A mix of qualities suggests depth, whichfascinates even as it confuses. An elusive, enigmatic aura will make people want to know more, drawing them into your circle.  Create such a power by hinting at something contradictory within you. 4 Appear to Be an Object of Desire-Create Triangles Few are drawn to the person whom others avoid or neglect; people gather around those who have already attracted interest. To draw your victims closer and make them hungry to possess you, you must create an aura of desirability-of being wanted and courted by many. It will become a point of vanity for them to be the preferred object of your attention, to win you away from a crowd of admirers. Build a reputation that precedes you: If many have succumbed to your charms, there must be a reason. 5 Create a Need-Stir Anxiety and Discontent pA perfectly satisfied person cannot be seduced. Tension and disharmony must be instilled in your targets minds. Stir within them feelings of discontent, an unhappiness with their circumstances and with themselves. The feelings of inadequacy that you create will give you space to insinuate yourself to make them see you as the answer to their problems. Pain and anxiety are the proper precursors to pleasure. Learn to manufacture the need that you can fill. 6 Master the Art of Insinuation Making your targets feel dissatisfied and in need of your attention is essential, but if you are too obvious, they will see through you and grow defensive. There is no known defense, however, against insinuation-the art of planting ideas in people's minds by dropping elusive hints that take root days later, even appearing to them as their own idea. Create a sublanguage - bold statements followed by retraction and apology, ambiguous comments, banal talk combined with alluring glances-that enters the target's unconscious to convey your real meaning. Make everything suggestive. 1 Enter Their Spirit Most people are locked in their own worlds, making them stubborn and hard to persuade. The way to lure them out of their shell and set up your seduction is to enter their spirit. Play by their rules, enjoy what they enjoy, adapt yourself to their moods. In doing so you will stroke their deep-rooted narcissism and lower their defenses. Indulge your targets' every mood and whim, giving them nothing to react against or resist. 8 Create Temptation Lure the target deep into your seduction by creating the proper temptation: a glimpse of the pleasures to come. As the serpent tempted Eve with the promise offorbidden knowledge, you must awaken a desire in your targets that they cannot control. Find that weakness of theirs, that fantasy that has yet to be realized, and hint that you can lead them toward it. The key is to keep it vague. Stimulate a curiosity stronger than the doubts and anxieties that go with it, and they will follow you. Phase Two: Lead Astray-Creating Pleasure and Confusion 9 Keep Them in Suspense-What Comes Next? page 241 The moment people feel they know what to expect from you, your spell on them is broken. More: You have ceded them power. The only way to lead the seduced along and keep the upper hand is to create suspense, a calculated surprise. Doing something they do not expectfrom you will give them a delightful sense of spontaneity-they will not be able to foresee what comes next. You are always one step ahead and in control. Give the victim a thrill with a sudden change of direction. Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion It is hard to make people listen; they are consumed with their own thoughts and desires, and have little time for yours. The trick to making them listen is to say what they want to hear, to fill their ears with whatever is pleasant to them. This is the essence of seductive language. Inflame people's emotions with loaded phrases, flatter them, comfort their insecurities, envelop them in sweet words and promises, and not only will they listen to you, they will lose their  will to resist you. 11 Pay Attention to Detail Lofty words of love and grand gestures can be suspicious: Why are you trying so hard to please? The details of a seduction-the subtle gestures, the offhand things you do-are often more charming and revealing. You must learn to distract your victims with a myriad of pleasant little rituals-thoughtful gifts tailored justfor them, clothes and adornments designed to please them, gestures that show the time and attention you are paying them. Mesmerized by what they see, they will not notice what you are really up to. 12 Poeticize Your Presence Important things happen when your targets are alone: The slightest feeling of relief that you are not there, and it is all over. Familiarity and overexposure will cause this reaction. Remain elusive, then. Intrigue your targets by alternating an exciting presence with a cool distance, exuberant moments followed by calculated absences. Associateyourselfwithpoeticimages and objects, so that when they think of you, they begin to see you through an idealized halo. The more you figure in their minds, the more they will envelop you in seductive fantasies.Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability Too much maneuvering on your part may raise suspicion. The best way to cover your tracks is to make the other person feel superior and stronger. If you seem to be weak, vulnerable, enthralled by the other person, and unable to control yourself you will make your actions look more natural, less calculated. Physical weakness -t ears, bashfulness, paleness-will help create the effect. Play the victim, then transform your target's sympathy into love. 14 Confuse Desire and Reality-The Perfect Illusion To compensate for the difficulties in their lives, people spend a lot of their time daydreaming, imagining a future full of adventure, success, and romance. Ifyou can create the illusion that through you they can live out their dreams, you will have them at your mercy. Aim at secret wishes that have been thwarted or repressed, stirring up uncontrollable emotions, clouding their powers of reason. Lead the seduced to a point of confusion in  which they can no longer tell the difference between illusion and reality. 15 Isolate the Victim page 309 An isolated person is weak. By slowly isolating your victims, you make them more vulnerable to your influence. Take them away from their normal milieu, friends, family, home. Give them the sense of being marginalized, in limbo-they are leaving one world behind and entering another. Once isolated like this, they have no outside support, and in their confusion they are easily led astray. Lure the seduced into your lair, where nothing is familiar. Phase Three: The Precipice-Deepening the Effect Through Extreme Measures Prove Yourself page Most people want to be seduced. If they resist your efforts, it is probably because you ham' not gone far enough to allay their doubts-about your motives, the depth of your feelings, and so on. One well-timed action that shows how far you are willing to go to win them over will dispel their doubts. Do not worry about looking foolish or making a mistake-any kind of deed that is self-sacrificing and for your targets' sake will so overwhelm their emotions, they won't notice anything else. 17 Effect a Regression page 333 People who have experienced a certain kind of pleasure in the past will try to repeat or relive it. The deepest-rooted and most pleasurable memories are usually those from earliest childhood, and are often unconsciously associated with a parental figure. Bring your targets back to that point by placing yourself in the oedipal triangle and positioning them as the needy child. Unaware of the cause of their emotional response, they will fall in love with you. 18 Stir Up the Transgressive and Taboo There are always social limits on what one can do. Some of these, the most elemental taboos, go back centuries; others are more superficial, simply defining polite and acceptable behavior. Making your targets feel that you are leading them past either kind of limit is immensely seductive. People yearn to explore their dark side. Once the desire to transgress draws your targets to you, it will be hard for them to stop. Take them farther than they imagined-the shared feeling of guilt and complicity will create a powerful bond. 19 Use Spiritual Lures Everyone has doubts and insecurities-about their body, their self-worth, their sexuality. If your seduction appeals exclusively to the physical, you will stir up these doubts and make your targets self-conscious. Instead, lure them out of their insecurities by making them focus on something sublime and spiritual: a religious experience, a lofty work of art, the occult. Lost in a spiritual mist, the target will feel light and uninhibited. Deepen the effect of your seduction by making its sexual culmination seem like the spiritual union of two souls. 20 Mix Pleasure with Pain  The greatest mistake in seduction is being too nice. At first, perhaps, your kindness is charming, but it soon grows monotonous; you are trying too hard to please, and seem insecure. Instead of overwhelming your targets with niceness, try inflicting some pain. Make them feel guilty and insecure. Instigate a breakup-now a rapprochement, a return to your earlier kindness, will turn them weak at the knees. The lower the lows you create, the greater the highs. To heighten the erotic charge, create the excitement of fear. Phase Four: Moving In for the Kill 21Give Them Space to Fall-The Pursuer Is Pursued  If your targets become too used to you as the aggressor, they will give less of their own energy, and the tension will slacken. You need to wake them up, turn the tables. Once they are under your spell, take a step bach and they will start to come after you. Hint that you are growing bored. Seem interested in someone else. Soon they will want to possess you physically, and restraint will go out the window. Create the illusion that the seducer is being seduced. 22 Use Physical Lures Targets with active minds are dangerous: If they see through your manipulations, they may suddenly develop doubts. Put their minds gently to rest, and waken their dormant senses, by combining a nondefensive attitude with a charged sexual presence. While your cool, nonchalant air is loweringtheirinhibitions,yourglances,voice,and bearing-oozing sex and desire-are getting under their skin and raising their temperature. Never force the physical; instead infect your targets with heat, lure them into lust. Morality, judgment, and concern for the future will all melt away. 23 Master the Art of the Bold Move A moment has arrived: Your victim clearly desires you, but is not ready to admit it openly, let alone act on it. This is the time tothrow aside chivalry,kindness, and coquetry and to overwhelm with a bold move. Don't give the victim time to consider the consequences. Showing hesitation or awkwardness means you are thinking of yourself as opposed to being overwhelmed by the victim's charms. One person must go on the offensive, and it is you. 24 Beware the Aftereffects Danger follows in the aftermath of a successful seduction. After emotions have reached a pitch, they often swing in the opposite direction-toward lassitude, distrust, disappointment. If you are to part, make the sacrifice swift and sudden. If you are to stay in a relationship, beware a flagging of energy, a creeping familiarity that will spoil the fantasy. A second seduction is required. Never let the other person take you for granted-use absence, create pain and conflict, to keep the seduced on tenterhooks. Seductive Environment/Seductive Time  Soft Seduction: How to Sell Anything to the Masses Thousands of years ago, power was mostly gained through physical violence and maintained with brute strength. There was little need for subtlety-a king or emperor had to be merciless. Only a select few had power, but no one suffered under this scheme of things more than women. They had no way to compete, no weapon at their disposal that could make a man do what they wanted-politically, socially, or even in the home. Of course men had one weakness: their insatiable desire for sex. A woman could always toy with this desire, but once she gave in to sex the man was back in control; and if she withheld sex, he could simply look elsewhere-or exert force. What good was a power that was so temporary and frail?Yet women had no choice but to submit to this condition. There were some, though, whose hunger for power was too great, and who, over the years, through much cleverness and creativity, invented a way of turning the dynamic around, creating a more lasting and effective form of power. These women-among them Bathsheba, from the Old Testament; Helen of Troy; the Chinese siren Hsi Shi; and the greatest of them all, Cleopatra-invented seduction. First they would draw a man in with an alluring appearance, designing their makeup and adornment to fashion the image of a goddess come to life. By showing only glimpses of flesh, they would tease a man's imagination, stimulating the desire not just for sex but for something greater: the chance to possess a fantasy figure. Once they had  their victims' interest, these women would lure them away from the mascu line world of war and politics and get them to spend time in the feminine  world-a world of luxury, spectacle, and pleasure. They might also lead  them astray literally, taking them on a journey, as Cleopatra lured Julius  Caesar on a trip down the Nile. Men would grow hooked on these refined,  sensual pleasures-they would fall in love. But then, invariably, the women  would turn cold and indifferent, confusing their victims. Just when the men wanted more, they found their pleasures withdrawn. They would be  forced into pursuit, trying anything to win back the favors they once had tasted and growing weak and emotional in the process. Men who had physical force and all the social power-men like King David, the Trojan Paris, Julius Caesar, Mark Antony, King Fu Chai-would find themselves becoming the slave of a woman. In the face of violence and brutality, these women made seduction a Oppression and scorn, thus, were and must have been generally the share of women in emerging societies; this state lasted in all its force until centuries of experience taught them to substitute skill for force. Women at last sensed that, since they were weaker, their only resource was to seduce; they understood that if they were dependent on men through force, men could become dependent on them through pleasure. More unhappy than men, they must have thought and reflected earlier than did men; they were the first to know that pleasure was always beneath the idea that one formed of it, and that the imagination went farther than nature. Once these basic truths were known, they learned first to veil their charms in order to awaken curiosity; they practiced the difficult art of refusing even as they wished to consent; from that moment on, they knew how to set men's imagination afire, they knew how to arouse and direct desires as they pleased: thus did beauty and love come into being; now the lot of women became less harsh, not that they had managed to liberate themselves entirely from the state of oppression to which their weakness condemned them; but, in the state of perpetual war that continues to exist between women and men, one has seen them, with the help of the caresses they have been able to invent, combat ceaselessly, sometimes vanquish, and often more skillfully take advantage of the forces directed against them; sometimes, too, men have turned against women these weapons the women had forged to combat them, and their slavery has become all the harsher for it. -CHODERLOS DE LACLOS, ON THE EDUCATION OF WOMEN, IN THE LIBERTINE READER, FEHER  Much more genius is needed to make love than to command armies.-NINON DEL'ENCLOS Menelaus, if you are really going to kill her, Then my blessing go with you, but you must do it now, Before her looks so twist the strings of your heart That they turn your mind; for her eyes are like armies, And where her glances fall, there cities burn, Until the dust of their ashes is blown By her sighs. I know her, Men elans, \ And so do you. And all those who know her suffer. - HECUBA SPEAKING ABOUT HELEN OF TROY IN EURIPIDES, THE TROJAN WOMEN, sophisticated art, the ultimate form of power and persuasion. They learned to work on the mind first, stimulating fantasies, keeping a man wanting more, creating patterns of hope and despair-the essence of seduction. Their power was not physical but psychological, not forceful but indirect and cunning. These first great seductresses were like military generals planning the destruction of an enemy, and indeed early accounts of seduction often compare it to battle, the feminine version of warfare. For Cleopatra, it was a means of consolidating an empire. In seduction, the woman was no longer a passive sex object; she had become an active agent, a figure of power. With a few exceptions-the Latin poet Ovid, the medieval troubadours-men did not much concern themselves with such a frivolous art as seduction. Then, in the seventeenth century came a great change; men grew interested inseductionasaway to overcome a young woman's resistance to sex. History's first great male seducers-the Duke de Lauzun, the different Spaniards who inspired the Don Juan legend-began to adopt the methods traditionally employed by women. They learned to dazzle with their appearance (often androgynous in nature), to stimulate the imagination, to play the coquette. They also added a new, masculine element to the game: seductive language, for they had discovered a woman's weakness for soft words. These two forms of seduction-the feminine use of appearances and the masculine use of language-would often cross gender lines; Casanova would dazzle a woman with his clothes; Ninon de l'Enclos would charm a man with her words. At the same time that men were developing their version of seduction, others began to adapt the art for social purposes. As Europe's feudal system of government faded into the past, courtiers needed to get their way in court without the use of force. They learned the power to be gained by seducing their superiors and competitors through psychological games, soft words, a little coquetry. As culture became democratized, actors, dandies, and artists came to use the tactics of seduction as a way to charm and win over their audience and social milieu. In the nineteenth century another great change occurred; politicians like Napoleon consciously saw themselves as seducers, on a grand scale. These men depended on the art of seductive oratory, but they also mastered what had once been feminine strategies: staging vast spectacles, using theatrical devices, creating a charged physical presence. All this, they learned, was the essence of charisma-and remains so today. By seducing the masses they could accumulate immense power without the use of force. Today we have reached the ultimate point in the evolution of seduction. Now more than ever, force or bmtality of any kind is discouraged. All areas of social life require the ability to persuade people in a way that does not offend or impose itself. Forms of seduction can be found everywhere, blending male and female strategies. Advertisements insinuate, the soft sell dominates. If we are to change people's opinions-and affecting opinion is basic to seduction-we must act in subtle, subliminal ways. Today no political campaign can work without seduction. Since the era of John F. Kennedy, political figures are required to have a degree of charisma, a fascinating presence to keep their audience's attention, which is half the battle. The film world and media create a galaxy of seductive stars and images. We are saturated in the seductive. But even if much has changed in degree and scope, the essence of seduction is constant: never be forceful or direct; instead, use pleasure as bait, playing on people's emotions, stirring desire and confusion, inducing psychological surrender. In seduction as it is practiced today, the methods of Cleopatra still hold. People are constantly trying to influence us, to tell us what to do, and just as often we tune them out, resisting their attempts at persuasion. There is a moment in our lives, however, when weall act differently-when we are in love. We fall under a kind of spell. Our minds are usually preoccupied with our own concerns; now they become filled with thoughts of the loved one. We grow emotional, lose the ability to think straight, act in foolish ways that we would never do otherwise. If this goes on long enough something inside us gives way: we surrender to the will of the loved one, and to our desire to possess them. Seducers are peoplewho understand the tremendous power contained in such moments of surrender. They analyze what happens when people are in love, study the psychological components of the process-what spurs the imagination, what casts a spell. By instinct and through practice they master the art of making people fall in love. As the first seductresses knew, it is much more effective to create love than lust. A person in love is emotional, pliable, and easilymisled. (The origin of the word "seduction" is the Latin for "to lead astray") A person in lust is harder to control and, once satisfied, may easily leave you. Seducers take their time, create enchantment and the bonds of love, so that when sex ensues it only further enslaves the victim. Creating love and enchantment becomes the model for all seductions-sexual, social, political. A person in love will surrender. It is pointless to try to argue against such power, to imagine that you are not interested in it, or that it is evil and ugly. The harder you try to resist the lure of seduction-as an idea, as a form of power-the more you will find yourself fascinated. The reason is simple: most of us have known the power of having someone fall in love with us. Our actions, gestures, the things we say, all have positive effects on this person; we may not completely understand what we have done right, but this feeling of power is intoxicating. It gives us confidence, which makes us more seductive. We may also experience this in a social or work setting-one day we are in ait elevated mood and people seem more responsive, more charmed by us. These moments of power are fleeting, but they resonate in the memory with great intensity. We want them back. Nobody likes to feel awkward or timid or unable to reach people. The siren call of seduction is irresistible because power is irresistible, and nothing will bring you more power in the modern world than the ability to seduce. Repressing the desire to seduce is a kind of No man hath it in his power to over-rule the deceitfulness of a woman. -MARGUERITE OF NAVARRE This important side-track, by which woman succeeded in evading man's strength and establishing herself in power, has not been given due consideration by historians. From the moment when the woman detached herself from the crowd, an individual finished product, offering delights which could not be obtained by force, but only by flattery .... the reign of love's priestesses was inaugurated. It was a development of far-reaching importance in the history of civilization. . . . Only by the circuitous route of the art of love could woman again assert authority, and this she did by asserting herself at the very point at which she would normally be a slave at the man's mercy. She had discovered the might of lust, the secret of the art of love, the daemonic power of a passion artificially aroused and never satiated. The force tints unchained was thenceforth to count among the most tremendous of the world's forces and at moments to have power even over life and death. The deliberate spellbinding of man's senses was to have a magical effect upon him, opening up an infinitely wider range of sensation and spurring him on as if impelled by an inspired dream. -ALEXANDER VON GLEICHEN- RUSSWURM, THE WORLD'S LURE. TRANSLATED BY HANNAH WALLER The first thing to get in your head is that every single \ Girl can be caught-and that you'll catch her if \ You set your toils right. Birds will sooner fall dumb in \ Springtime, \ Cicadas in summer, or a hunting-dog \ Turn his back on a hare, than a lover's bland inducements \ Can fail with a woman, Even one you suppose \ Reluctant will want it. -OVID, THE ART OF LOVE, The combination of these two elements, enchantment and surrender, is, then, essential to the love which we are discussing. What exists in love is surrender due to enchantment. -JOSE ORTEGA Y GASSET, ON LOVE, TRANSLATED BY TOBY TALBOT What is good?-All that heightens the feeling of power, the will to power, power itself in man. • What is bad?-All that proceeds from weakness. What is happiness?-The feeling that power increases-that a resistance is overcome. -FRIEDRICH NIETZSCHE, THE ANTI-CHRIST, HOLLINGDALE hysterical reaction, revealing your deep-down fascination with the process; you are only making your desires stronger. Some day they will come to the surface. To have such power does not require a total transformation in your character or any kind of physical improvement in your looks. Seduction is a game of psychology, not beauty, and it is within the grasp of any person to become a master at the game. All that is required is that you look at the world differently, through the eyes of a seducer. A seducer does not turn the power off and on-every social and personal interaction is seen as a potential seduction. There is never a moment to waste. This is so for several reasons. The power seducers have over a man or woman works in social environments because they have learned how to tone down the sexual element without getting rid of it. We may think we see through them, but they are so pleasant to be around anyway that it does not matter. Trying to divide your life into moments in which you seduce and others in which you hold back will only confuse and constrain you. Erotic desire and love lurk beneath the surface of almost every human encounter; better to give free rein to your skills than to try to use them only in the bedroom. (In fact, the seducer sees the world as his or her bedroom.) This attitude creates great seductive momentum, and with each seduction you gain experience and practice. One social or sexual seduction makes the nextone easier, your confidence growing and making you more alluring. People are drawn to you in greater numbers as the seducer's aura descends upon you. Seducers have a warrior's outlook on life. They see each person as a kind of walled castle to which they are laying siege. Seduction is a process of penetration: initially penetrating the target's mind, their first point of defense. Once seducers have penetrated the mind, making the target fantasize about them, it iseasyto lower resistance and create physical surrender. Seducers do not improvise; they do not leave this process to chance. Like any good general, they plan and strategize, aiming at the target's particular weaknesses. The main obstacle to becoming a seducer is this foolish prejudice we have of seeing love and romance as some kind of sacred, magical realm where things just fall into place, if they are meant to. This might seem romantic and quaint,but it is reallyjust a cover for our laziness. What will seduce a person is the effort we expend on their behalf, showing how much we care, how much they are worth. Leaving things to chance is a recipe for disaster, and reveals that we do not take love and romance very seriously. It was the effort Casanova expended, the artfulness he applied to each affair that made him so devilishly seductive. Falling in love is a matter not of magic but of psychology. Once you understand your target's psychology, and strategize to suit it, you will be better able to cast a "magical" spell. A seducer sees love not as sacred but as warfare, where all is fair. Seducers are never self-absorbed. Their gaze is directed outward, not inward. When they meet someone their first move is to get inside that person's skin, to see the world through their eyes. The reasons for this are several. First, self-absorption is a sign of insecurity; it is anti-seductive. Everyone has insecurities, but seducers manage to ignore them, finding therapy for moments of self-doubt by being absorbed in the world. This gives them a buoyant spirit-we want to be around them. Second, getting into someone's skin, imagining what it is like to be them, helps the seducer gather valuable information, leam what makes that person tick, what will make them lose their ability to think straight and fall into a trap. Armed with such information, they can provide focused and individualized attention-a rare commodity in a world in which most people see us only from behind the screen of their own prejudices. Getting into the targets' skin is the first important tactical move in the war of penetration. Seducers see themselves as providers of pleasure, like bees that gather pollen from some flowers and deliver it to others. As children we mostly devoted our lives to play and pleasure. Adults often have feelings of being cut off from this paradise, of being weighed down by responsibilities. The seducer knows that people are waiting for pleasure-they never get enough of it from friends and lovers, and they cannot get it by themselves. A person who enters their lives offering adventure and romance cannot be resisted. Pleasure is a feeling of being taken past our limits, of being overwhelmed by another person, by an experience. People are dying to be overwhelmed, to let go of their usual stubbornness. Sometimes their resistance to us is a way of saying. Please seduce me. Seducers know that the possibility of pleasure will make a person follow them, and the experience of it will make someone open up, weak to the touch. They also train themselves to be sensitive to pleasure, knowing that feeling pleasure themselves will make it that much easier for them to infect the people around them. A seducer sees all of life as theater, everyone an actor. Most people feel they have constricted roles in life, which makes them unhappy. Seducers, on the other hand, can be anyone and can assume many roles. (The archetype here is the god Zeus, insatiable seducer of young maidens, whose main weapon was the ability to assume the form of whatever person or animal would most appeal to his victim.) Seducers take pleasure in performing and are not weighed down by their identity, or by some need to be themselves, or to be natural. This freedom of theirs, this fluidity in body and spirit, is what makes them attractive. What people lack in life is not more reality but illusion, fantasy, play. The clothes that seducers wear, the places they take you to, their words and actions, are slightly heightened-not overly theatrical but with a delightful edge of unreality, as if the two of you were living out a piece of fiction or were characters in a film. Seduction is a kind of theater in real life, the meeting of illusion and reality. Finally, seducers are completely amoral in their approach to life. It is all a game, an arena for play. Knowing that the moralists, the crabbed repressed types who croak about the evils of the seducer, secretly envy their power, they do not concern themselves with other people's opinions. They do not deal in moral judgments-nothing could be less seductive. Everything is The disaffection, neurosis, anguish and frustration encountered by psychoanalysis comes no doubt from being unable to love or to be loved, from being unable to give or take pleasure, but the radical disenchantment comes from seduction and its failure. Only those who lie completely outside seduction are ill, even if they remain fully capable of loving and making love. Psychoanalysis believes it treats the disorder of sex and desire, but in reality it is dealing with the disorders of seduction. The most serious deficiencies always concern charm and not pleasure, enchantment and not some vital or sexual satisfaction. BAUDR1LLARD, SEDUCTION Whatever is done from love always occurs beyond good and evil. -NIETZSCHE, BEYOND GOOD AND EVIL, KAUFMANN Should anyone here in Rome lack finesse at love- making, \ Let him \ Try me-read my book, and results are guaranteed! \ Technique is the secret. Charioteer, sailor, pliant, fluid, like life itself. Seduction is a form of deception, but people want to be led astray, they yearn to be seduced. If they didn't, seducers would not find so many willing victims. Get rid of any moralizing tendencies, adopt the seducer's playful philosophy, and you will find the rest of the process easy and natural. oarsman, \ All need it. Technique can control \ Love himself. - OVID, THE ART OF LOVE. GREEN The Art of Seduction is designed to arm you with weapons of persuasion and charm, so that those around you will slowly lose their ability to resist without knowing how or why it has happened. It is an art of war for delicate times. Every seduction has two elements that you must analyze and understand: first, yourself and what is seductive about you; and second, your target and the actions that will penetrate their defenses and create surrender. The two sides are equally important. If you strategize without paying attention to the parts of your character that draw people to you, you will be seen as a mechanical seducer, slimy and manipulative. If you rely on your seductive personality without paying attention to the other person, you will make terrible mistakes and limit your potential. Consequently, The Art of Seduction is divided into two parts. The first half, "The Seductive Character," describes the nine types of seducer, plus the Anti-Seducer. Studying these types will make you aware of what is inherently seductive in your character, the basic building block of any seduction. The second half, "The Seductive Process," includes the twenty- four maneuvers and strategies that will instruct you on how to create a spell, break down people's resistance, give movement and force to your seduction, and induce surrender in your target. As a kind of bridge between the two parts, there is a chapter on the eighteen types of victims of a seduction-each of them missing something from their lives, each cradling an emptiness you can fill. Knowing what type you are dealing with will help you put into practice the ideas in both sections. Ignore any part of this book and you will be an incomplete seducer. The ideas and strategies in The Art of Seduction are based on the writings and historical accounts of the most successful seducers in history. The sources include the seducers' own memoirs (by Casanova, Errol Flynn, Natalie Barney, Marilyn Monroe); biographies (of Cleopatra, Josephine Bonaparte, John F. Kennedy, Duke Ellington); handbooks on the subject (most notably Ovid's Art of Love); and fictional accounts of seductions (Choderlos de Laclos's Dangerous Liaisons, Spren Kierkegaard's The Seducer's Diary, Murasaki Shikibu's The Tale ofGenji). The heroes and heroines of these literary works are generally modeled on real-life seducers. The strategies they employ reveal the intimate connection between fiction and seduction, creating illusion and leading a person along. In putting the book's lessons into practice, you will be following in the path of the greatest masters of the art. Finally, the spirit that will make you a consummate seducer is the spirit in which you should read this book. The French writer Denis Diderot once wrote, "I give my mind the liberty to follow the first wise or foolish idea that presents itself, just as in the avenue de Foy our dissolute youths follow close on the heels of some strumpet, then leave her to pursue another, attacking all of them and attaching themselves to none. My thoughts are my strumpets." He meant that he let himself be seduced by ideas, following whichever one caught his fancy until a better one came along, his thoughts infused with a kind of sexual excitement. Once you enter these pages, do as Diderot advised: let yourself be lured by the stories and ideas, your mind open and your thoughts fluid. Slowly you will find yourself absorbing the poison through the skin and you will begin to see everything as a seduction, including the way you think and how you look at the world. Most virtue is a demand for greater seduction. -NATALIE BARNEY Part One Seductive Character W e all have the power of attraction-the ability to draw people in and hold them in our thrall. Far from all of us, though, are aware of this inner potential, and we imagine attractiveness instead as a near-mystical trait that a select few are born with and the rest will never command. Yet all we need to do to realize our potential is understand what it is in a person's character that naturally excites people and develop these latent qualities within us. Successful seductions rarely begin with an obvious maneuver or strategic device. That is certain to arouse suspicion. Successful seductions begin with your character, your ability to radiatesome quality that attracts people and stirs their emotions in a way that is beyond their control. Hypnotized by your seductive character, your victims will not notice your subsequent manipulations. It will then be child's play to mislead and seduce them. There are nine seducer types in the world. Each type has a particular character trait that comes from deep within and creates a seductive pull. Siren.': have an abundance of sexual energy and know how touse it. Rakes insatiably adore the opposite sex, and their desire is infectious. Ideal Lovers have an aesthetic sensibility that they apply to romance. Dandies like to play with their image, creating a striking and androgynous allure. Naturals are spontaneous and open. Coquettes are self-sufficient, with a fascinating cool at their core. Charmers want and know how to please-they are social creatures. Charismatics have an unusual confidence in themselves. Stars are ethereal and envelop themselves in mystery. The chapters in this section will take you inside each of the nine types. At least one of the chapters should strike a chord-you will recognize part of yourself. That chapter will be the key to developing your own powers of attraction. Let us say you have coquettish tendencies. The Coquette chapter will show you how to build upon your own self-sufficiency, alternating heat and coldness to ensnare your victims. It will show you how to take your natural qualities further, becoming a grand Coquette, the type we fight over. There is no point in being timid with a seductive quality. We are charmed by an unabashed Rake and excuse his excesses, but a halfhearted Rake gets no respect. Once you have cultivated your dominant character trait, adding some art to what nature has given you, you can then develop a second or third trait, adding depth and mystery to your persona. Finally the section's tenth chapter, on the Anti-Se cluce r, w i 11 make you aware of the opposite potential within you-the power of repulsion. At all cost you must root out any anti-seductive tendencies you may have. Think of the nine types as shadows, silhouettes. Only by stepping into one of them and letting it grow inside you can you begin to develop the seductive character that will bring you limitless power the iren man is often secretly oppressed by the role he has to play-by always having to be responsible, in control, and rational. The Siren is the ultimate male fantasy figure because she offers a total release from the limitations of his life. In her presence, which is always heightened and sexually charged, the male feels transported to a world of pure pleasure. She is dangerous, and in pursuing her energetically the man can lose control over himself something he yearns to do. The Siren is a mirage; she lures men by cultivating a particular appearance and manner. In a world where women are often too timid to project such an image, learn to take control of the male libido by embodying his fantasy. The Spectacular Siren I n the year 48 B.C., Ptolemy XIV of Egypt managed to depose and exile his sister and wife. Queen Cleopatra. He secured the country's borders against her return and began to rule on his own. Later that year, Julius Caesar came to Alexandria to ensure that despite the local power struggles, Egypt would remain loyal to Rome. One night Caesar was meeting with his generals in the Egyptian palace, discussing strategy, when a guard entered to report that a Greek merchant was at the door bearing a large and valuable gift for the Roman leader. Caesar, in the mood for a little fun, gave the merchant permission to enter. The man came in, carrying on his shoulders a large rolled-up carpet. He undid the rope around the bundle and with a snap of his wrists unfurled it-revealing the young Cleopatra, who had been hidden inside, and who rose up half clothed before Caesar and his guests, like Venus emerging from the waves. Everyone was dazzled at the sight of the beautiful young queen (only twenty-one at the time) appearing before them suddenly as if in a dream. They were astounded at her daring and theatricality-smuggled into the harbor at night with only one man to protect her, risking everything on a bold move. No one was more enchanted than Caesar. According to the Roman writer Dio Cassius, "Cleopatra was in the prime of life. She had a delightful voice which could not fail to cast a spell over all who heard it. Such was the charm of her person and her speech that they drew the coldest and most determined misogynist into her toils. Caesar was spellbound as soon as he set eyes on her and she opened her mouth to speak." That same evening Cleopatra became Caesar s lover. Caesar had had numerous mistresses before, to divert him from the rigors of his campaigns. But he had always disposed of them quickly to return to what really thrilled him-political intrigue, the challenges of warfare, the Roman theater. Caesar had seen women try anything to keep him under their spell. Yet nothing prepared him for Cleopatra. One night she would tell him howtogethertheycould revive the glory of Alexander the Great, and rule the world like gods. The next she would entertain him dressed as the goddess Isis, surrounded by the opulence of her court. Cleopatra initiated Caesar in the most decadent revelries, presenting herself as the incarnation of the Egyptian exotic. His life with her was a constant game, as challenging as warfare, for the moment he felt secure with her she In the mean time our good ship, with that perfect wind to drive her, fast approached the Sirens' Isle. But now the breeze dropped, some power lulled the waves, and a breathless calm set in. Rising from their seats my men drew in the sail and threw it into the hold, then sat down at the oars and churned the water white with their blades of polished pine. Meanwhile I took a large round of wax, cut it up small with my sword, and kneaded the pieces with all the strength of my fingers. The wax soon yielded to vigorous treatment and grew warm, for I had the rays of my Lord the Sun to help me. I took each of my men in turn and plugged their ears with it. They then made me a prisoner on my ship by binding me hand and foot, standing me up by the step of the mast and tying the rope's ends to the mast itself. This done, they sat down once more and struck the grey water with their oars. We made good progress and had just come within call of the shore when the Sirens became aware that a ship was swiftly bearing down upon them, and broke into their liquid song.  "Draw near," they sang, "illustrious Odysseus, flower of Achaean chivalry, and bring your ship to rest so that you may hear our voices. No seaman ever sailed his black ship past this spot without listening to the sweet tones that flow from our lips . . • The lovely voices came to me across the water, and my heart was filled with such a longing to listen that with nod and frown I signed to my men to set me free. - HOMER, THE ODYSSEY, BOOK XII, TRANSLATED BY E.V. RIEU The charm of [Cleopatra's ] presence was irresistible, and there was an attraction in her person and talk, together with a peculiar force of character, which pervaded her every word and action, and laid all who associated with her under its spell. It was a delight merely to hear the sound of her voice, with which, like an instrument of many strings, she could pass from one language to another. -PLUTARCH, MAKERS OF ROME, SCOTT-KILVERT The immediate attraction of a song, a voice, or scent. The attraction of the panther with his perfumed scent . . . According to the ancients, the panther is the only animal who emits a perfumed odor. It uses this scent to draw and capture its victims. But what is it that seduces in a scent? What is it in the song of the Sirens that seduces us, or in the beauty of a face, in the depths would suddenly turn cold or angry and he would have to find a way to regain her favor. The weeks went by. Caesar got rid of all Cleopatra's rivals and found excuses to stay in Egypt. At one point she led him on a lavish historical expedition down the Nile. In a boat of unimaginable splendor-towering fifty-four feet out of the water, including several terraced levels and a pillared temple to the god Dionysus-Caesar became one of the few Romans to gaze on the pyramids. And while he stayed long in Egypt, away from his throne in Rome, all kinds of turmoil erupted throughout the Roman Empire. When Caesar was murdered, in 44 B.C., he was succeeded by a triumvirate of rulers including Mark Antony, a brave soldier who loved pleasure and spectacle and fancied himself a kind of Roman Dionysus. A few years later, while Antony was in Syria, Cleopatra invited him to come meet her in the Egyptian town of Tarsus. There-once she had made him wait for her-her appearance was as startling in its way as her first before Caesar. A magnificent gold barge with purple sails appeared on the river Cydnus. The oarsmen rowed to the accompaniment of ethereal music; all around the boat were beautiful young girls dressed as nymphs and mythological figures. Cleopatra sat on deck, surrounded and fanned by cupids and posed as the goddess Aphrodite, whose name the crowd chanted enthusiastically. Like all of Cleopatra's victims, Antony felt mixed emotions. The exotic pleasures she offered were hard to resist. But he also wanted to tame her-to defeat this proud and illustrious woman would prove his greatness. And so he stayed, and, like Caesar, fell slowly under her spell. She indulged him in all of his weaknesses-gambling, raucous parties, elaborate rituals, lavish spectacles. To get him to come back to Rome, Octavius, another member of the Roman triumvirate, offered him a wife: Octavius's own sister, Octavia, one of the most beautiful women in Rome. Known for her virtue and goodness, she could surely keep Antony away from the "Egyptian whore." The ploy worked for a while, but Antony was unable to forget Cleopatra, and after three years he went back to her. This time it was for good: he had in essence become Cleopatra's slave, granting her immense powers, adopting Egyptian dress and customs, and renouncing the ways o/Rome. Only one image of Cleopatra survives-a barely visible profile on a coin- but we have numerous written descriptions. She had a long thin face and a somewhat pointed nose; her dominant features were her wonderfully large eyes. Her seductive power, however, did not lie in her looks-indeed many among the women of Alexandria were considered more beautiful than she. What she did have above all other women was the ability to distract a man. In reality, Cleopatra was physically unexceptional and had no political power, yet both Caesar and Antony, brave and clever men, saw none of this. What they saw was a woman who constantly transformed herself before their eyes, a one-woman spectacle. Her dress and makeup changed from day to day, but always gave her a heightened, goddesslike appearance. Her voice, which all writers talk of, was lilting and intoxicating. Her words could be banal enough, but were spoken so sweetly that listeners would find themselves remembering not what she said but how she said it. Cleopatra provided constant variety-tributes, mock battles, expeditions, costumed orgies. Everything had a touch of drama and was accomplished with great energy. By the time your head lay on the pillow beside her, your mind was spinning with images and dreams. And just when you thought you had this fluid, larger-than-life woman, she would turn distant or angry, making it clear that everything was on her terms. You never possessed Cleopatra, you worshiped her. In this way a woman who had been exiled and destined for an early death managed to turn it all around and rule Egypt for close to twenty years. From Cleopatra we leam that it is not beauty that makes a Siren but rather a theatrical streak that allows a woman to embody a man's fantasies. A man grows bored with a woman, no matter how beautiful; he yearns for different pleasures, and for adventure. All a woman needs to turn this around is to create the illusion that she offers such variety and adventure. A man is easily deceived by appearances; he has a weakness for the visual. Create the physical presence of a Siren (heightened sexual allure mixed with a regal and theatrical manner) and he is trapped. He cannot grow bored with you yet he cannot discard you. Keep up the distractions, and never let him see who you really are. He will follow you until he drowns. The Sex Siren N orma Jean Mortensen, the future Marilyn Monroe, spent part of her childhood in Los Angeles orphanages. Her days were filled with chores and no play. At school, she kept to herself, smiled rarely, and dreamed a lot. One day when she was thirteen, as she was dressing for school, she noticed that the white blouse the orphanage provided for her was torn, so she had to borrow a sweater from a younger girl in the house. The sweater was several sizes too small. That day, suddenly, boys seemed to gather around her wherever she went (she was extremely well-developed for her age). She wrote in her diary, "They stared at my sweater as if it were a gold mine." The revelation was simple but startling. Previously ignored and even ridiculed by the other students, Norma Jean now sensed a way to gain attention, maybe even power, for she was wildly ambitious. She started to smile more, wear makeup, dress differently. And soon she noticed something equally startling: without her having to say or do anything, boys fell passionately in love with her. "My admirers all said the same thing in different ways," she wrote. "It was my fault, their wanting to kiss me and hug me. Some said it was the way I looked at them-with eyes full of passion. Others said it was my voice that lured them on. Still others said I gave off vibrations that floored them." of an abyss? Seduction lies in the annulment of signs and their meaning, in pure appearance. The eyes that seduce have no meaning, they end in the gaze, as the face with makeup ends in only pure appearance. The scent of the panther is also a meaningless message-and behind the message the panther is invisible, as is the woman beneath her makeup. The Sirens too remained unseen. The enchantment lies in what is hidden.  BAUDRILLARD, DE LA SEDUCTION We're dazzled by feminine adornment, by the surface, \ All gold and jewels: so little of what we observe \ Is the girl herself And where (you may ask) amid such plenty \ Can our object of passion be found? The eye's deceived \ By Love's smart camouflage. - OVID, CURES FOR LOVE. GREEN He was herding his cattle on Mount Gargarus, the highest peak of Ida, when Hermes, accompanied by Hera, Athene, and Aphrodite delivered the golden apple and Zeus's message: "Paris, since you are as handsome as you are wise in affairs of the heart, Zeus commands you to judge which of these goddesses is the fairest. " "So be it," sighed Paris. "But first I beg the losers not to be vexed with me. I am only a human being, liable to make the stupidest mistakes." The goddesses all agreed to abide by his decision. • "Will it be enough to judge them as they are?" Paris asked Hermes, "or they he naked?" • "The rules of the contest are for you to decide," Hermes answered with a discreet smile. • "In that case, will they kindly disrobe?" • Hermes told the goddesses to do so, and politely turned his back.Aphrodite was soon ready, but Athene insisted that she should remove the famous magic girdle, which gave her an unfair advantage by making everyone fall in love withthe wearer. "Very well" said Aphrodite spitefully. "/ will, on condition thatyou remove your helmet-you look hideous without it. " "Now, if you please, 1 must judge you one at a time" announced Paris. . . . Come here, Divine Hera! Will you other two goddesses be good enough to leave us for a while?" • "Examine me conscientiously," said Hera, turning slowly around, and displaying her magnificent figure, "and remember that if you judge me the fairest, 1 will make you lord of all Asia, and the richest man alive. " • "/ am not to be bribed my Lady . . . Very well, thank you. Now I have seen all that I need to see. Come, Divine Athene!" • "Here I am," said Athene, striding purposefully forward. "Listen, Paris, if you have enough common sense to award me the prize, I will make you victorious in all your battles, as well as the handsomest and wisest man in the world." • "/ am a humble A few years later Marilyn was trying to make it in the film business. Producers would tell her the same thing: she was attractive enough in person, but her face wasn't pretty enough for the movies. She was getting work as an extra, and when she was on-screen-even if only for a few seconds-the men in the audience would go wild, and the theaters would erupt in catcalls. But nobody saw any star quality in this. One day in 1949, only twenty-three at the time and her career at a standstill, Monroe met someone at a diner who toldher that a producer casting a new Groucho Marx movie. Love Happy, was looking for an actress for the part of a blond bombshell who could walk by Groucho in a way that would, in his words, "arouse my elderly libido and cause smoke to issue from my ears." Talking her way into an audition, she improvised this walk. "It's Mae West, Theda Bara, and Bo Peep all rolled into one," said Groucho after watching her saunter by. "We shoot the scene tomorrow morning." And so Marilyn created her infamous walk, a walk that was hardly natural but offered a strange mix of innocence and sex. Over the next few years, Marilyn taught herself through trial and error how to heighten the effect she had on men. Her voice had always been attractive-it was the voice of a little girl. But on film it had limitations until someone finally taught her to lower it, giving it the deep, breathy tones that became her seductive trademark, a mix of the little girl and the vixen. Before appearing on set, or even at a party, Marilyn would spend hours before the mirror. Most people assumed this was vanity-she was in love with her image. The truth was that image took hours to create. Marilyn spent years studying and practicing the art of makeup. The voice, the walk, the face and look were all constructions, an act. At the height of her fame, she would get a thrill by going into bars in New York City without her makeup or glamorous clothes and passing unnoticed. Success finally came, but with it came something deeply annoying to her: the studios would only cast her as the blond bombshell. She wanted serious roles, but no one took her seriously for those parts, no matter how hard she downplayed the siren qualities she had built up. One day, while she was rehearsing a scene from The Cherry Orchard, her acting instructor, Michael Chekhov, asked her, "Were you thinking of sex while we played the scene?" When she said no, he continued, "All through our playing of the scene I kept receiving sex vibrations from you. As if you were a woman in the grip of passion. ... I understand your problem with your studio now, Marilyn. You are a woman who gives off sex vibrations-no matter what you are doing or thinking. The whole world has already responded to those vibrations. They come off the movie screens when you are on them." Marilyn Monroe loved the effect her body could have on the male libido. She tuned her physical presence like an instrument, making herself reek of sex and gaining a glamorous, larger-than-life appearance. Other women knewjust as many tricks for heightening their sexual appeal, but what separated Marilyn from them was an unconscious element. Her background had deprived her of something critical: affection. Her deepest need was to feel loved and desired, which made her seem constantly vulnerable, like a little girl craving protection. She emanated this need for love before the camera; it was effortless, coming from somewhere real and deep inside. A look or gesture that she did not intend to arouse desire would do so doubly powerfully just because it was unintended-its innocence was precisely what excited a man. The S ex Siren has a more urgent and immediate effect than the Spectacular Siren does. The incarnation of sex and desire, she does not bother to appeal to extraneous senses, or to create a theatrical buildup. Her time never seems to be taken up by work or chores; she gives the impression that she lives for pleasure and is always available. What separates the Sex Siren from the courtesan or whore is her touch of innocence and vulnerability. The mix is perversely satisfying: it gives the male the critical illusion that he is a protector, the father figure, although it is actually the Sex Siren who controls the dynamic. A woman doesn't have to be born with the attributes of a Marilyn Monroe to fill the role of the Sex Siren. Most of the physical elements are a construction; the key is the air of schoolgirl innocence. While one part of you seems to scream sex, the other part is coy and naive, as if you were incapable of understanding the effect you are having. Your walk, your voice, your manner are delightfully ambiguous-you are both the experienced, desiring woman and the innocent gamine. Your next encounter will be with the Sirens, who bewitch every man that approaches them. For with the music of their song the Sirens cast their spell upon him, as they sit there in a meadow piled high with the moldering skeletons of men, whose withered skin still hangs upon their bones. -CIRCE TO ODYSSEUS, THE ODYSSEY, BOOK XII Keys to the Character The Siren is the most ancient seductress of them all. Her prototype is the goddess Aphrodite-it is her nature to have a mythic quality about her-but do not imagine she is a thing of the past, or of legend and history: she represents a powerful male fantasy of a highly sexual, supremely confident, alluring female offering endless pleasure and a bit of danger. In today's world this fantasy can only appeal the more strongly to the male psyche, for now more than ever he lives in a world that circumscribes his aggressive instincts by making everything safe and secure, a world that offers less chance for adventure and risk than ever before. In the past, a man had some outlets for these drives-warfare, the high seas, political intrigue. In the sexual realm, courtesans and mistresses were practically a social institu- herdsman, not a soldier," said Paris. . . . ".But I promise to consider fairly your claim to the apple. Now you are at liberty to put on your clothes and helmet again. Is Aphrodite ready?" • Aphrodite sidled up to him, and Paris blushed because she came so close that they were almost touching. • "Look carefully, please, pass nothing over. ... By the way, as soon as I saw you, I said to myself: 'Upon my word, there goes the handsomest young man in Phrygia! Why does he waste himself here in the wilderness herding stupid cattle?' Well, why do you, Paris? Why not move into a city and lead a civilized life? What have you to lose by marrying someone like Helen of Sparta, who is as beautiful as I am, and no less passionate? ... I suggest now that you tour Greece with my son Eros as your guide. Once you reach Sparta, he and I will see that Helen falls head over heels in love with you." • "Would you swear to that?" Paris ashed excitedly. • Aphrodite uttered a solemn oath, and Paris, without a second thought, awarded her the golden apple. GRAVES, THE GREEK MYTHS To whom aw I compare the lovely girl, so blessed by fortune, if not to the Sirens, who with their lodestone draw the ships towards them? Thus, I imagine, did Isolde attract many thoughts and hearts that deemed themselves safe from love's disquietude. And indeed these two-anchorless ships and stray thoughts - provide a good comparison. They are both so seldom on a straight course, lie so often in unsure havens, pitching and tossing and heaving to and fro. Just so, in the same way, do aimless desire and random love-longing drift like an anchorless ship. This charming young princess, discreet and courteous Isolde, drew thoughts from the hearts that enshrined them as a lodestone draws in ships to the sound of the Sirens' song. She sang openly and secretly, in through ears and eyes to where many a heart was stirred. The song which she sang openly in this and other places was her own sweet singing and soft sounding of strings that echoed for all to hear through the kingdom of the ears deep down into the heart. But her secret song was her wondrous beauty that stole with its rapturous music hidden and unseen through the windows of the eyes into many noble hearts and smoothed on the magic which took thoughts prisoner suddenly, and, taking them, fettered them with desire! -GOTTFRIED VON STRASSBURG, TRISTAN. HATTO tion, and offered him the variety and the chase that he craved. Without any outlets, his drives turn inward and gnaw at him, becoming all the more volatile for being repressed. Sometimes a powerful man will do the most irrational things, have an affair when it is least called for, just for a thrill, the danger of it all. The irrational can prove immensely seductive, even more so for men, who must always seem so reasonable. If it is seductive power you are after, the Siren is the most potent of all. She operates on a man's most basic emotions, and if she plays her role properly, she can transform a normally strong and responsible male into a childish slave. The Siren operates well on the rigid masculine type-the soldier or hero-just as Cleopatra overwhelmed Mark Antony and Marilyn Monroe Joe DiMaggio. But never imagine that these are the only types the Siren can affect. Julius Caesar was a writer and thinker, who had transferred his intellectual abilities onto the battlefield and into the political arena; the playwright Arthur Miller fell as deeply under Monroe's spell as DiMaggio. The intellectual is often the one most susceptible to the Siren call of pure physical pleasure, because his life so lacks it. The Siren does not have to worry about finding the right victim. Her magic works on one and all. First and foremost, a Siren must distinguish herself from other women. She is by nature a rare thing, mythic, only one to a group; she is also a valuable prize to be wrested away from other men. Cleopatra made herself different through her sense of high drama; the Empress Josephine Bonaparte's device was her extreme languorousness; Marilyn Monroe's was her little-girl quality. Physicality offers the best opportunities here, since a Siren is preeminently a sight to behold. A highly feminine and sexual presence, even to the point of caricature, will quickly differentiate you, since most women lack the confidence to project such an image. Once the Siren has made herself stand out from others, she must have two other critical qualities: the ability to get the male to pursue her so feverishly that he loses control; and a touch of the dangerous. Danger is surprisingly seductive. To get the male to pursue you is relatively simple: a highly sexual presence will do this quite well. But you must not resemble a courtesan or whore, whom the male may pursue only to quickly lose interest in her. Instead, you are slightly elusive and distant, a fantasy come to life. During the Renaissance, the great Sirens, such as Tullia d'Aragona, would act and look like Grecian goddesses-the fantasy of the day. Today you might model yourself on a film goddess-anything that seems larger than life, even awe inspiring. These qualities will make a man chase you vehemently, and the more he chases, the more he will feel that he is acting on his own initiative. This is an excellent way of disguising how deeply youare manipulating him. The notion of danger, challenge, sometimes death, might seem outdated, but danger is critical in seduction. It adds emotional spice and is particularly appealing to men today, who are normally so rational and repressed. Danger is present in the original myth of the Siren. In Homer's Odyssey, the hero Odysseus must sail by the rocks where the Sirens, strange female creatures, sing and beckon sailors to their destruction. They sing of the glories of the past, of a world like childhood, without responsibilities, a world of pure pleasure. Their voices are like water, liquid and inviting. Sailors would leap into the water to join them, and drown; or, distracted and entranced, they would steer their ship into the rocks. To protect his sailors from the Sirens, Odysseus has their ears filled with wax; he himself is tied to the mast, so he can both hear the Sirens and live to tell of it-a strange desire, since the thrill of the Sirens is giving in to the temptation to follow them. Just as the ancient sailors had to row and steer, ignoring all distractions, a man today must work and follow a straight path in life. The call of something dangerous, emotional, unknown is all the more powerful because it is so forbidden. Think of the victims of the great Sirens of history: Paris causes a war for the sake of Helen of Troy, Caesar risks an empire and Antony loses his power and his life for Cleopatra, Napoleon becomes a laughingstock over Josephine, DiMaggio never gets over Marilyn, and Arthur Miller can't write for years. A man is often ruined by a Siren, yet cannot tear himself away. (Many powerful men have a masochistic streak.) An element of danger is easy to hint at, and will enhance your other Siren characteristics-the touch of madness in Marilyn, for example, that pulled men in. Sirens are often fantastically irrational, which is immensely attractive to men who are oppressed by their own reasonableness. An element of fear is also critical: keeping a man at a proper distance creates respect, so that he doesn't get close enough to see through you or notice your weaker qualities. Create such fear by suddenly changing your moods, keeping the man off balance, occasionally intimidating him with capricious behavior. The most important element for an aspiring Siren is always the physical, the Siren's main instrument of power. Physical qualities-a scent, a heightened femininity evoked through makeup or through elaborate or seductive clothing-act all the more powerfully on men because they have no meaning. hi their immediacy they bypass rational processes, having the same effect that a decoy has on an animal, or the movement of a cape on a bull. The proper Siren appearance is often confused with physical beauty, particularly the face. But a beautiful face does not a Siren make: instead it creates too much distance and coldness. (Neither Cleopatra nor Marilyn Monroe, the two greatest Sirens in history, were known for their beautiful faces.) Although a smile and an inviting look are infinitely seductive, they must never dominate your appearance. They are too obvious and direct. The Siren must stimulate a generalized desire, and the best way to do this is by creating an overall impression that is both distracting and alluring. It is not one particular trait, but a combination of qualities: Falling in love with statues and paintings, even making love to them is an ancient fantasy, one of which the Renaissance was keenly aware. Giorgio Vasari, writing in the introductory section of the Lives about art in antiquity, tells how men violated the laws, going into the temples at night and making love with statues of Venus. In the morning, priests would enter the sanctuaries to find stains on the marble figures. -LYNNE LAWNER, LIVES OF THE COURTESANS The voice. Clearly a critical quality, as the legend indicates, the Siren's voice has an immediate animal presence with incredible suggestive power. Perhaps that power is regressive, recalling the ability of the mother's voice to calm or excite her child even before the child understood what she was saying. The Siren must have an insinuating voice that hints at the erotic, more often subliminally than overtly. Almost everyone who met Cleopatra commented on her delightful, sweet-sounding voice, which had a mesmerizing quality. The Empress Josephine, one of the great seductresses of the late eighteenth century, had a languorous voice that men found exotic, and suggestive of her Creole origins. Marilyn Monroe was born with her breathy, childlike voice, but she learned to lower to make it truly seductive. Lauren Bacall's voice is naturally low; its seductive power comes from its slow, suggestive delivery. The Siren never speaks quickly, aggressively, or at a high pitch. Her voice is calm and unhurried, as if she had never quite woken up-or left her bed. Body and adornment. If the voice must lull, the body and its adornment must dazzle. It is with her clothes that the Siren aims to create the goddess effect that Baudelaire described in his essay "In Praise of Makeup": "Woman is well within her rights, and indeed she is accomplishing a kind of duty in striving to appear magical and supernatural. She must astonish and bewitch; an idol, she must adorn herself with gold in order to be adored. She must borrow from all of the arts in order to raise herself above nature, the better to subjugate hearts and stir souls." A Siren who was a genius of clothes and adornment was Pauline Bonaparte, sister of Napoleon. Pauline consciously strove for a goddess effect, fashioning hair, makeup, and clothes to evoke the look and air of Venus, the goddess of love. No one in history could boast a more extensive and elaborate wardrobe. Pauline's entrance at a ball in 1798 created an astounding effect. She asked the hostess, Madame Permon, if she could dress at her house, so no one would see her clothes as she came in. When she came down the stairs, everyone stopped dead in stunned silence. She wore the headdress of a bacchante-clusters of gold grapes interlaced in her hair, which was done up in the Greek style. Her Greek tunic, with its gold- embroidered hem, showed off her goddesslike figure. Below her breasts was a girdle of burnished gold, held by a magnificent jewel. "No words can convey the loveliness of her appearance," wrote the Duchess d'Abrantes. "The very room grew brighter as she entered. The whole ensemble was so harmonious that her appearance was greeted with a buzz of admiration which continued with utter disregard of all the other women." The key: everything must dazzle, but must also be harmonious, so that no single ornament draws attention. Your presence must be charged, larger than life, a fantasy come true. Ornament is used to cast a spell and distract. The Siren can also use clothing to hint at the sexual, at times overtly but more often by suggesting it rather than screaming it-that would make you seem manipulative. Related to this is the notion of selective disclosure, the revealing of only a part of the body-but a part that will excite and stir the imagination. In the late sixteenth century. Marguerite de Valois, the infamous daughter of Queen Catherine de Medicis of France, was one of the first women ever to incorporate decolletage in her wardrobe, simply because she had the most beautiful breasts in the realm. For Josephine Bonaparte it was her arms, which she carefully always left bare. Movement and demeanor. In the fifth century B.C., King Kou Chien chose the Chinese Siren Hsi Shih from among all the women of his realm to seduce and destroy his rival Fu Chai, King of Wu; for this purpose, he had the young woman instructed in the arts of seduction. Most important of these was movement-how to move gracefully and suggestively. Hsi Shih learned to give the impression of floating across the floor in her court robes. When she was finally unleashed on Fu Chai, he quickly fell under her spell. She walked and moved like no one he had ever seen. He became obsessed with her tremulous presence, her manner and nonchalant air. Fu Chai fell so deeply in love that he let his kingdom fall to pieces, allowing Kou Chien to march in and conquer it without a fight. The Siren moves gracefully and unhurriedly. The proper gestures, movement, and demeanor for a Siren are like the proper voice: they hint at something exciting, stirring desire without being obvious. Your air must be languorous, as if you had all the time in the world for love and pleasure. Your gestures must have a certain ambiguity, suggesting something both innocent and erotic. Anything that cannot immediately be understood is supremely seductive, and all the more so if it permeates your manner. Symbol: Water. The song of the Siren is liquid and enticing, and the Siren herself is fluid and un- graspable. Like the sea, the Siren lures you with the promise of infinite adventure and pleasure. Forgetting past and future, men follow her far out to sea, where they drown. Dangers. N o matter how enlightened the age, no woman can maintain the image of being devoted to pleasure completely comfortably. And no matter how hard she tries to distance herself from it, the taint of being easy always follows the Siren. Cleopatra was hated in Rome as the Egyptian whore. That hatred eventually lead to her downfall, as Octavius and the Roman army sought to extirpate the stain on Roman manhood that she came to represent. Even so, men are often forgiving when it comes to the Siren's reputation. But danger often lies in the envy she stirs up among other women; much of Rome's hatred for Cleopatra originated in the resentment she provoked among the city's stern matrons. By playing up her innocence, by making herself seem the victim of male desire, the Siren can somewhat blunt the effects of feminine envy. But on the whole there is little she can do-her power comes from her effect on men, and she must learn to accept, or ignore, the envy of other women. Finally, the intense attention that the Siren attracts can prove irritating and worse. Sometimes she will pine for relief from it; sometimes, too, she will want to attract an attention that is not sexual. Also, unfortunately, physical beauty fades; although the Siren effect depends not on a beautiful face but on an overall impression, past a certain age that impression gets hard to project. Both of these factors contributed to the suicide of Marilyn Monroe. It takes a genius on the level of Madame de Pompadour, the Siren mistress of King Louis XV, to make the transition into the role of the spirited older woman who continues to seduce with her nonphysical charms. Cleopatra had such an intellect, and had she lived long enough, she would have remained a potent seductress for many years. The Siren must prepare for age by paying attention early on to the more psychological, less physical forms of coquetry that can continue to bring her power once her beauty starts to fade. the A woman never quite feels desired and appreciated enough. She wants attention, but a man is too often distracted and unresponsive. The Rake is a great female fantasy figure-when he desires a woman, brief though that moment may be, he will go to the ends of the earth for her. He may be disloyal, dishonest, and amoral, but that only adds to his appeal. Unlike the normal, cautious male, the Rake is delightfully unrestrained, a slave to his love of women. There is the added lure of his reputation: so many women have succumbed to him, there has to be a reason. Words are a woman's weakness, and the Rake is a master of seductive language. Stir a woman's repressed longings by adapting the Rake's mix of danger and pleasure. The Ardent Rake. F or the court of Louis XIV, the king's last years were gloomy-he was old, and had become both insufferably religious and personally unpleasant. The court was bored and desperate for novelty. So in 1710, the arrival of a fifteen-year-old lad who was both devilishly handsome and charming had a particularly strong effect on the ladies. His name was Fronsac, the future Duke de Richelieu (his granduncle being the infamous Cardinal Richelieu). He was impudent and witty. The ladies would play with him like a toy, but he would Mss them on the lips in return, his hands wandering far for an inexperienced boy. When those hands strayed up the skirts of a duchess who was not so indulgent, the king was furious, and sent the youth to the Bastille to teach him a lesson. But the ladies who had found him so amusing could not endure his absence. Compared to the stiffs in court, here was someone incredibly bold, his eyes boring into you, his hands quicker than was safe. Nothing could stop him, his novelty was irresistible. The court ladies pleaded and his stay in the Bastille was cut short. Several years later, the young Mademoiselle de Valois was walking in a Paris park with her chaperone, an older woman who never left her side. De Valois's father, the Duke d'Orleans, was determined to protect her, his youngest daughter, from all the court seducers until she could be married off, so he had attached to her this chaperone, a woman of impeccable virtue and sourness. In the park, however, de Valois saw a young man who gave her a look that set her heart on fire. He walked on by, but the look was intense and clear. It was her chaperone who told her his name: the now infamous Duke de Richelieu, blasphemer, seducer, heartbreaker. Someone to avoid at all cost. A few days later, the chaperone took de Valois to a different park, and lo and behold, Richelieu crossed their path again. This time he was in disguise, dressed as a beggar, but the look in his eye was unforgettable. Mademoiselle de Valois returned his gaze: at last something exciting in her drab life. Given her father's sternness, no man had dared approach her. And now this notorious courtier was pursuing her, instead of all the other ladies at court-what a thrill! Soon he was smuggling beautifully written notes to her expressing his uncontrollable desire for her. She responded timidly, but soon the notes were all she was living for. In one of them he promised to arrange everything if she would spend the night with him; imagining it was [After an accident at sect, Don Juan finds himself washed up on a beach, where he is discovered by a young woman.] • TISBEA: Wake up, handsomest of all men, and be yourself again. • D 0 N JUAN: If the sea gives me death, you give me life. But the sea really saved me only to be killed by you. Oh the sea tosses me from one torment to the other, for I no sooner pulled myself from the water than I met this siren - yourself. Why fill my ears with wax, since you kill me with your eyes? I was dying in the sea, but from today I shall die of love. • TISBEA: YOU have abundant breath for a man almost drowned. You suffered much, but who knows what suffering you are preparing for me? . . I found you at my feet all water, and now you are all fire. If you burn when you  are so wet, what will you do when you're dry again? You promise a scorching flame; I hope to God you're not lying. • D O N JUAN: Dear girl, God should have drowned me before I could be charred by you. Perhaps love was wise to drench me before I felt your scalding touch. But your fire is such that even in water I burn. • TISBEA: So cold and yet burning? • DON JUAN: So much fire is in you. • TISBEA: How well you talk! • D O N JUAN: How well you understand! • TISBEA: I hope to God you're not lying. -TIRSO DE MOLINA, THE PLAYBOY OF SEVILLE, SCHIZZANO. MANDEL Pleased with my first success, I determined to profit by this happy reconciliation. I called them impossible to bring such a thing to pass, she did not mind playing along and agreeing to his bold proposal. Mademoiselle de Valois had a chambermaid named Angelique, who dressed her for bed and slept in an adjoining room. One night as the chaperone was knitting, de Valois looked up from the book she was reading to see Angelique carrying her mistress's nightclothes to her room, but for some strange reason Angelique looked back at her and smiled-it was Richelieu,expertly dressed as the maid! De Valois nearly gasped from fright, but caught herself, realizing the danger she was in: if she said anything her family would find out about the notes, and about her part in the whole affair. What could she do? She decided to go to her room and talk the young duke out of his ridiculously dangerous maneuver. She said good night to her chaperone, but once she was in her bedroom, the words she had planned were useless. When she tried to reason with Richelieu, he responded with that look in his eye, and then with his arms around her. She could not yell, but now she was unsure what to do. His impetuous words, his caresses, the danger of it all-her head was whirling, she was lost. What was virtue and her prior boredom compared to an evening with the court's most notorious rake? So while the chaperone knitted away, the duke initiated her into the my dear wives, my faithful rituals of libertinage. companions, the two bemgs Months later, de Valois's father had reason to suspect that Richelieu had chosen to make me happy. i sought to turn their broken through his lines of defense. The chaperone was fired, the precau- heads, and to rouse in tions were doubled. D'Orleans did not realize that to Richelieu such mea- them desires the strength of which I knew and which would drive away any reflections contrary to my plans. The skillful man who knows how to communicate gradually the heat of love to the senses of the most virtuous woman is quite certain of soon being absolute master of her mind and her person; you cannot reflect when you have lost your head; and, moreover, principles of wisdom, however deeply engraved they may be on the mind, are effaced in that moment when the heart yearns only for pleasure: pleasure alone then commands and is obeyed. The man who has had experience of conquests nearly always succeeds where he who is only timid and in love fails. When I had brought my two belles to the state of abandonment in which I sures were a challenge, and he lived for challenges. He bought the house next door under an assumed name and secretly tunneled a trapdoor through the wall adjoining the duke's kitchen cupboard. In this cupboard, over the next few months-until the novelty wore off-de Valois and Richelieu enjoyed endless trysts. Everyone in Paris knew of Richelieu's exploits, for he made it a point to publicize them as loudly as possible. Every week a new story would circulate through the court. A husband had locked his wife in an upstairs room at night, worried the duke was after her; to reach her the duke had crawled in darkness along a thin wooden plank suspended between two upper-floor windows.Two women who lived in the same house, one a widow, the other married and quite religious, had discovered to their mutual horror that the duke was having an affair with both of them at the same time, leaving one in the middle of the night to be with the other. When they confronted him, the duke, always on the prowl for something novel, and a devilish talker, had neither apologized nor backed down, but proceeded to talk them into a menage a trois, playing on the wounded vanity of each woman, who could not stand the thought of him preferring the other. Year after year, the stories of his remarkable seductions spread. One woman admired his audacity and bravery, another his gallantry in thwarting a husband. Women competed for his attention: if he did not want to seduce you, there had to be something wrong with you. To be the target of his attentions became a great fantasy. At one point two ladies fought a pistol duel over the duke, and one of them was seriously wounded. The Duchess d'Orleans, Richelieu's most bitter enemy, once wrote, "If I believed in sorcery I should think that the Duke possessed some supernatural secret, for I have never known a woman to oppose the very least resistance to him." In seduction there is often a dilemma: to seduce you need planning and calculation, but if your victim suspects that you have ulterior motives, she will grow defensive. Furthermore, if you seem to be in control, you will inspire fear instead of desire. The Ardent Rake solves this dilemma in the most artful manner. Of course he must calculate and plan-he has to find a way around the jealous husband, or whatever the obstacle is. It is exhausting work. But by nature, the Ardent Rake also has the advantage of an uncontrollable libido. When he pursues a woman, he really is aglow with desire; the victim senses this and is inflamed, even despite herself. How can she imagine that he is a heartless seducer who will abandon her when he so ardently braves all dangers and obstacles to get to her? And even if she is aware of his rakish past, of his incorrigible amorality, it doesn't matter, because she also sees his weakness. He cannot control himself; he actually is a slave to all women. As such he inspires no fear. The Ardent Rake teaches us a simple lesson: intense desire has a distracting power on a woman, just as the Siren's physical presence does on a man. A woman is often defensive and can sense insincerity or calculation. But if she feels consumed by your attentions, and is confident you will do anything for her, she will notice nothing else about you, or will find a way to forgive your indiscretions. This is the perfect cover for a seducer. The kej| is to show no hesitation, to abandon all restraint, to let yourself go, to show that you cannot control yourself and are fundamentally weak. Do not worry about inspiring mistrust; as long as you are the slave to her charms, she will not think of the aftermath. The Demonic Rake. I n the early 1880s, members of Roman high society began to talk of a young journalist who had arrived on the scene, a certain Gabriele D'Annunzio. This was strange in itself, for Italian royalty had only the deepest contempt for anyone outside their circle, and a newspaper society reporter was almost as low as you could go. Indeed well-born men paid D'Annunzio little attention. He had no money and few connections, coming from a strictly middle-class background. Besides, to them he was downright ugly-short and stocky, with a dark, splotchy complexion and bulging eyes. The men thought him so unappealing they gladly let him mingle with their wives and daughters, certain that their women would be safe with this gargoyle and happy to get this gossip hunter off their hands. No, it was not the men who talked of D'Annunzio; it was their wives. wanted them, I expressed a more eager desire; their eyes lit up; my caresses were returned; and it was plain that their resistance would not delay for more than a few moments the next scene I desired them to play. I proposed thateach should accompany me in turn into a charming closet, next to the room in which we were, which I wanted them to admire. They both remained silent. • "You hesitate?" I said to them. "I will see which of you is the more attached to me. The one who loves me the more will be the first to follow the lover she wishes to convince of her affection. . . I knew my puritan, and I was well aware that, after a few Struggles, she gave herself up completely to the present moment. 'This one appeared to be as agreeable to her as the others we had previously spent together; she forgot that she was sharing me [with Madame Renaud].[When her turn came ] Madame Renaud responded with a transport that proved her contentment, and she left the sitting only after having repeated continually: "What a man! What a man! He is astonishing! How often you could be happy with him if he were only faithful!" - THE PRIVATE LIFE OF THE MARSHAL DUKE OF RICHELIEU, TRANSLATED BY F. S. FLINT His very successes in love, even more than the marvellous voice of this little, bald seducer with a nose like Punch, swept along in his train a whole procession of enamoured women, both opulent and tormented. D'Annunzio had successfully revived the Byronic legend: as he passed by full-breasted women, standing in his way as Boldoni would paint them, strings of pearls anchoring them to life-princesses and actresses, great Russian ladies and even middle- class Bordeaux housewives-they would offer themselves up to him. -PHILIPPE JULLIAN, PRINCE OF AESTHETES: COUNT ROBERT DE MONTESQUIEOU, HAYLOCK AND FRANCIS KING In short, nothing is so sweet as to triumph over the Resistance of a beautiful Person; and in that I have the Ambition of Conquerors, who fly Introduced to D'Annunzio by their husbands, these duchesses and marchionesses would find themselves entertaining this strange-looking man, and when he was alone with them, his manner would suddenly change. Within minutes these ladies would be spellbound. First, he had the most magnificent voice they had ever heard-soft and low, each syllable articulated, with a flowing rhythm and inflection that was almost musical. One woman compared it to the ringing of church bells in the distance. Others said his voice had a "hypnotic" effect. The words that voice spoke were interesting as well-alliterative phrases, charming locutions, poetic images, and a way of offering praise that could melt a woman's heart. D'Annunzio had mastered the art of flattery. He seemed to know each woman's weakness: one he would call a goddess of nature, another an incomparable artist in the making, another a romantic figure out of a novel. A woman's heart would flutter as he described the effect she had on him. Everything was suggestive, hinting at sex or romance. That night she would ponder his words, recalling little in particular that he had said, because he never said anything concrete, but rather the feeling it had given her. The next day she would receive from him a poem that seemed to have been written specifically for her. (In fact he wrote dozens of very similar poems, slightly tailoring each one for its intended victim.) A few years after D'Annunzio began work as a society reporter, he married the daughter of the Duke and Duchess of Gallese. Shortly thereafter, with the unshakeable support of society ladies, he began publishing novels and books of poetry. The number of his conquests was remarkable, and also the quality-not only marchionesses would fall at his feet, but great artists, such as the actress Eleanor Duse, who helped him become a respected dramatist and literary celebrity. The dancer Isadora Duncan, another who eventually fell under his spell, explained his magic: "Perhaps the perpetually from victory to m0 st remarkable lover of our time is Gabriele D'Annunzio. And this Victory and can never prevail with themselves to put a bound to their Wishes. Nothing can restrain the Impetuosity of my Desires; I have an Heart for the whole Earth; and like Alexander, I could wish for New Worlds wherein to extend my Amorous Conquests. -MOLIERE, DON JOHN OR THE LIBERTINE. OZELL notwithstanding that he is small, bald, and, except when his face lights up with enthusiasm, ugly But when he speaks to a woman he likes, his face is transfigured, so that he suddenly becomes Apollo. . . . His effect on women is remarkable. The lady he is talking to suddenly feels that her very soul and being are lifted." At the outbreak of World War I, the fifty-two-year-old D'Annunzio joined the army. Although he had no military experience, he had a flair for the dramatic and a burning desire to prove his bravery. He learned to fly and led dangerous but highly effective missions. By the end of the war, he was Italy's most decorated hero. His exploits made him a beloved national figure, and after the war, crowds would gather outside his hotel wherever in Italy he went. He would address them from a balcony, discussing politics, railing against the current Italian government. A witness of one of these speeches, the American writer Walter Starkie, was initially disappointed at the appearance of the famous D'Annunzio on a balcony in Venice; he was short, and looked grotesque. "Little by little, however, I began to sink under the fascination of the voice, which penetrated into my consciousness. . . . Never a hurried, jerky gesture. ... He played upon the emotions of the crowd as a supreme violinist does upon a Stradivarius. The eyes of the thousands were fixed upon him as though hypnotized by his power." Once again, it was the sound of the voice and the poetic connotations of the words that seduced the masses. Arguing that modern Italy should reclaim the greatness of the Roman Empire, D'Annunzio would craft slogans for the audience to repeat, or would ask emotionally loaded questions for them to answer. He flattered the crowd, made them feel they were part of some drama. Everything was vague and suggestive. The issue of the day was the ownership of the city of Fiume, just across the border in neighboring Yugoslavia. Many Italians believed that Italy's reward for siding with the Allies in the recent war should be the annexation of Fiume. D'Annunzio championed this cause, and because of his status as a war hero the army was ready to side with him, although the government opposed any action. In September of 1919, with soldiers rallying around him, D'Annunzio led his infamous march on Fiume. When an Italian general stopped him along the way, and threatened to shoot him, D'Annunzio opened his coat to show his medals, and said in his magnetic voice, "If you must kill me, fire first on this!" The general stood there stunned, then broke into tears. He joined up with D'Annunzio. When D'Annunzio entered Fiume, he was greeted as a liberator. The next day he was declared leader of the Free State of Fiume. Soon he was giving daily speeches from a balcony overlooking the town's main square, holding tens of thousands of people spellbound without benefit of loudspeakers. He initiated all kinds of celebrations and rituals harking back to the Roman Empire. The citizens of Fiume began to imitate him, particularly his sexual exploits; the city became like a giant bordello. His popularity was so high that the Italian government feared a march on Rome, which at that point, had D'Annunzio decided to do it-and he had the support of a large part of the military-might actually have succeeded; D'Annunzio could have beaten Mussolini to the punch and changed the course of history. (He was not a Fascist but a kind of aesthetic socialist.) He decided to stay in Fiume, however, and ruled there for sixteen months before the Italian government finally bombed him out of the city. Seduction is a psychological process that transcends gender, except in a few key areas where each gender has its own weakness. The male is traditionally vulnerable to the visual. The Siren who can concoct the right physical appearance will seduce in large numbers. For women the weakness is language and words: as was written by one of D'Annunzio's victims, the French actress Simone, "How can one explain his conquests except by his extraordinary verbal power, and the musical timbre of his voice, put to the service of exceptional eloquence? For my sex is susceptible to words, bewitched by them, longing to be dominated by them." The Rake is as promiscuous with words as he is with women. He chooses words for their ability to suggest, insinuate, hypnotize, elevate, in- Among the many modes of handling Don Juan's effect on women, the motif of the irresistible hero is worth singling out, for it illustrates a curious change in our sensibility. Don Juan did not become irresistible to women until the Romantic age, and I am disposed to think that it is a trait of the female imagination to make him so. When the female voice began to assert itself and even, perhaps, to dominate in literature, Don Juan evolved to become the women's rather than the man's ideal. . . . Don Juan is now the woman's dream of the perfect lover, fugitive, passionate, daring. He gives her the one unforgettable moment, the magnificent exaltation of the flesh which is too often denied her by the real husband, who thinks that men are gross and women spiritual. To be the fatal Don Juan may be the dream of a few men; but to meet him is the dream of many women. -OSCAR MANDEL,"THE LEGEND OF DON JUAN," THE THEATRE OF DON JUAN feet. The words of the Rake are the equivalent of the bodily adornment of the Siren: a powerful sensual distraction, a narcotic. The Rake's use of language is demonic because it is designed not to communicate or convey information but to persuade, flatter, stir emotional turmoil, much as the serpent in the Garden of Eden used words to lead Eve into temptation. The example of D'Annunzio reveals the link between the erotic Rake, who seduces women, and the political Rake, who seduces the masses. Both depend on words. Adapt the character of the Rake and you will find that the use of words as a subtle poison has infinite applications. Remember: it is the form that matters, not the content. The less your targets focus on what you say, and the more on how it makes them feel, the more seductive your effect. Give your words a lofty, spiritual, literary flavor the better to insinuate desire in your unwitting victims. But what is this force, then, by which Don Juan seduces? It is desire, the energy of sensuous desire. He desires in every woman the whole of womanhood. The reaction to this gigantic passion beautifies and develops the one desired, who flushes in enhanced beauty by his reflection. As the enthusiast's fire with seductive splendor illumines even those who stand in a casual relation to him, so Don Juan transfigures in afar deeper sense every girl. KIERKEGAARD, EITHER/OR Keys to the Character A t first it may seem strange that a man who is clearly dishonest, disloyal, and has no interest in marriage would have any appeal to a woman. But throughout all of history, and in all cultures, this type has had a fatal effect. What the Rake offers is what society normally does not allow women: an affair of pure pleasure, an exciting brush with danger. A woman is often deeply oppressed by the role she is expected to play She is supposed to be the tender, civilizing force in society, and to want commitment and lifelong loyalty. But often her marriages and relationships give her not romance and devotion but routine and an endlessly distracted mate. It remains an abiding female fantasy to meet a man who gives totally of himself, who lives for her, even if only for a while. This dark, repressed side of female desire found expression in the legend of Don Juan. At first the legend was a male fantasy: the adventurous knight who could have any woman he wanted. But in the seventeenth and eighteenth centuries, Don Juan slowly evolved from the masculine adventurer to a more feminized version: a man who lived only for women. This evolution came from women's interest in the story, and was a result of their frustrated desires. Marriage for them was a form of indentured servitude; but Don Juan offered pleasure for its own sake, desire with no strings attached. For the time he crossed your path, you were all he thought about. His desire for you was so powerful that he gave you no time to think or to worry about the consequences. He would come in the night, give you an unforgettable moment, and then vanish. He might have conquered a thousand women before you, but that only made him more interesting; better to be abandoned than undesired by such a man. The great seducers do not offer the mild pleasures that society condones. They touch a person's unconscious, those repressed desires that cry out for liberation. Do not imagine that women are the tender creatures that some people would like them to be. Like men, they are deeply attracted to the forbidden, the dangerous, even the slightly evil. (Don Juan ends by going to hell, and the word "rake" comes from "rakehell," a man who rakes the coals of hell; the devilish component, clearly, is an important part of the fantasy.) Always remember: if you are to play the Rake, you must convey a sense of risk and darkness, suggesting to your victim that she is participating in something rare and thrilling-a chance to play out her own rakish desires. To play the Rake, the most obvious requirement is the ability to let yourself go, to draw a woman into the kind of purely sensual moment in which past and future lose meaning. You must be able to abandon yourself to the moment. (When the Rake Valmont-a character modeled after the Duke de Richelieu-in Laclos' eighteenth-century novel Dangerous Liaisons writes letters that are obviously calculated to have a certain effect on his chosen victim, Madame de Tourvel, she sees right through them; but when his letters really do burn with passion, she begins to relent.) An added benefit of this quality is that it makes you seem unable to control yourself, a display of weakness that a woman enjoys. By abandoning yourself to the seduced, you make them feel that you exist for them alone-a feeling reflecting a truth, though a temporary one. Of the hundreds of women that Pablo Picasso, consummate rake, seduced over the years, most of them had the feeling that they were the only one he truly loved. The Rake never worries about a woman's resistance to him, or for that matter about any other obstacle in his path-a husband, a physical barrier. Resistance is only the spur to his desire, enflaming him all the more. When Picasso was seducing Fran£oise Gilot, in fact, he begged her to resist; he needed resistance to add to the thrill. In any case, an obstacle in your way gives you the opportunity to prove yourself, and the creativity you bring to matters of love. In the eleventh-century Japanese novel The Tale ofGenji, by the court lady Murasaki Shikibu, the Rake Prince Niou is not disturbed by the sudden disappearance of Ukifune, the woman he loves. She has fled because although she is interested in the prince, she is in love with another man; but her absence allows the prince to go to extreme lengths to track her down. His sudden appearance to whisk her away to a house deep in the woods, and the gallantry he displays in doing so, overwhelm her. Remember: if no resistances or obstacles face you, you must create them. No seduction can proceed without them. The Rake is an extreme personality. Impudent, sarcastic, and bitingly witty, he cares nothing for what anyone thinks. Paradoxically, this only makes him more seductive. In the courtlike atmosphere of studio-era Hollywood, when most of the actors behaved like dutiful sheep, the great Rake Errol Flynn stood out in his insolence. He defied the studio chiefs, engaged in the most extreme pranks, reveled in his reputation as Hollywood's supreme seducer-all of which enhanced his popularity. The Rake needs abackdrop of convention-a stultified court, a humdrum marriage, a conservative culture-to shine, to be appreciated for the breath of fresh air he provides. Never worry about going too far: the Rake's essence is that he goes further than anyone else. When the Earl of Rochester, seventeenth-century England's most notorious Rake and poet, abducted Elizabeth Malet, one of the most sought- after young ladies of the court, he was duly punished. But lo and behold, a few years later young Elizabeth, though wooed by the most eligible bachelors in the country, chose Rochester to be her husband. In demonstrating his audacious desire, he made himself stand out from the crowd. Related to the Rake's extremism is the sense of danger, taboo, perhaps even the hint of cruelty about him. This was the appeal of another poet Rake, one of the greatest in history: Lord Byron. Byron disliked any kind of convention, and happily played this up. When he had an affair with his half sister, who bore a child by him, he made sure that all of England knew about it. He could be uncommonly cruel, as he was to his wife. But all of this only made him that much more desirable. Danger and taboo appeal to a repressed side in women, who are supposed to represent a civilizing, moralizing force in culture. Just as a man may fall victim to the Siren through his desire to be free of his sense of masculine responsibility, a woman may succumb to the Rake through her yearning to be free of the constraints of virtue and decency. Indeed it is often the most virtuous woman who falls most deeply in love with the Rake. Among the Rake's most seductive qualities is his ability to make women want to reform him. How many thought they would be the one to tame Lord Byron; how many of Picasso's women thought they would finally be the one with whom he would spend the rest of his life. You must exploit this tendency to the fullest. When caught red-handed in rakishness, fall back on your weakness-your desire to change, and your inability to do so. With so many women at your feet, what can you do? You are the one who is the victim. You need help. Women will jump at this opportunity; they are uncommonly indulgent of the Rake, for he is such a pleasant, dashing figure. The desire to reform him disguises the true nature of their desire, the secret thrill they get from him. When President Bill Clinton was clearly caught out as a Rake, it was women who rushed to his defense, finding every possible excuse for him. The fact that the Rake is so devoted to women, in his own strange way, makes him lovable and seductive to them. Finally, a Rake's greatest asset is his reputation. Never downplay your bad name, or seem to apologize for it. Instead, embrace it, enhance it. It is what draws women to you. There are several things you must be known for: your irresistible attractiveness to women; your uncontrollable devotion to pleasure (this will make you seem weak, but also exciting to be around); your disdain for convention; a rebellious streak that makes you seem dangerous. This last element can be slightly hidden; on the surface, be polite and civil, while letting it be known that behind the scenes you are incorrigible. Duke de Richelieu made his conquests as public as possible, exciting other women's competitive desire to join the club of the seduced. It was by reputation that Lord Byron attracted his willing victims. A woman may feel ambivalent about President Clinton's reputation, but beneath that ambivalence is an underlying interest. Do not leave your reputation to chance or gossip; it is your life's artwork, and you must craft it, hone it, and display it with the care of an artist. Symbol: Fire. The Rake burns with a desire that enflames the woman he is seducing. It is extreme, uncontrollable, and dangerous. The Rake may end in hell, but the flames surrounding him often make him seem that much more desirable to women. Dangers ";e the Siren, the Rake faces the most danger from members of his J _/Dwn sex, who are far less indulgent than women are of his constant skirt chasing. In the old days, a Rake was often an aristocrat, and no matter how many people he offended or even killed, in the end he would go unpunished. Today, only stars and the very wealthy can play the Rake with impunity; the rest of us need to be careful. Elvis Presley had been a shy young man. Attaining early stardom, and seeing the power it gave him over women, he went berserk, becoming a Rake almost overnight. Like many Rakes, Elvis had a predilection for women who were already taken. He found himself cornered by an angry husband or boyfriend on numerous occasions, and came away with a few cuts and bruises. This might seem to suggest that you should step lightly around husbands and boyfriends, especially early on in your career. But the charm of the Rake is that such dangers don't matter to them. You cannot be a Rake by being fearful and prudent; the occasional pummeling is part of the game. Later on, in any case, at the height of Elvis's fame, no husband would dare touch him. The greater danger for the Rake comes not from the violently offended husband but from those insecure men who feel threatened by the Don Juan figure. Although they will not admit it, they envy the Rake's life of pleasure, and like everyone envious, they will attack in hidden ways, often masking their persecutions as morality. The Rake may find his career endangered by such men (or by the occasional woman who is equally insecure, and who feels hurt because the Rake does not want her). There is little the Rake can do to avoid envy; if everyone was as successful in seduction, society would not function. So accept envy as a badge of honor. Don't be naive, be aware. When attacked by a moralist persecutor, do not be taken in by their cmsade; it is motivated by envy, pure and simple. You can blunt it by being less of a Rake, asking forgiveness, claiming to have reformed, but this will damage your reputation, making you seem less lovably rakish. In the end, it is better to suffer attacks with dignity and keep on seducing. Seduction is the source of your power; and you can always count on the infinite indulgence of women. the Ideal lover Most people have dreams in their youth that get shattered or worn down with age. They find themselves disappointed by people, events, reality, which cannot match their youthful ideals. Ideal Lovers thrive on people's broken dreams, which become lifelong fantasies. You long for romance ? Adventure? Lofty spiritual communion? The Ideal Lover reflects your fantasy. He or she is an artist in creating the illusion you require, idealizing your portrait. In a world of disenchantment and baseness, there is limitless seductive power in following the path of the Ideal Lover. The Romantic Ideal O ne evening around 1760, at the opera in the city of Cologne, a beautiful young woman sat in her box, watching the audience. Beside her was her husband, the town burgomaster-a middle-aged man and amiable enough, but dull. Through her opera glasses the young woman noticed a handsome man wearing a stunning outfit. Evidently her stare was noticed, for after the opera the man introduced himself: his name was Giovanni Gi- if at first sight a girl does acomo Casanova. The stranger kissed the woman's hand. She was going to a ball the following night, she told him; would he like to come? "If I might dare to hope, Madame," he replied, "that you will dance only with me." The next night, after the ball, the woman could think only of Casanova. He had seemed to anticipate her thoughts-had been so pleasant, and yet so bold. A few days later he dined at her house, and after her husband had retired for the evening she showed him around. In her boudoir she pointed out a wing of the house, a chapel, just outside her window. Sure enough, as if he had read her mind, Casanova came to the chapel the next day to attend Mass, and seeing her at the theater that evening he mentioned to her that he had noticed a door there that must lead to her bedroom. She not make such a deep impression on a person that she awakens the ideal, then ordinarily the actuality is not especially desirable; but if she does, then no matter how experienced a person is he usually is rather overwhelmed. KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. HONG AND HONG laughed, and pretended to be surprised. In the most innocent of tones, he said that he would find a way to hide in the chapel the next day-and almost without thinking, she whispered she would visit him there after everyone had gone to bed. So Casanova hid in the chapel's tiny confessional, waiting all day and evening. There were rats, and he had nothing to lie upon; yet when the burgomaster's wife finally came, late at night, he did not complain, but quietly followed her to her room. They continued their trysts for several days. By day she could hardly wait for night: finally something to live for, an adventure. She left him food, books, and candles to ease his long and tedious stays in the chapel-it seemed wrong to use a place of worship for such a purpose, but that only made the affair more exciting. A few days later, however, she had to take a journey with her husband. By the time she got back, Casanova had disappeared, as quickly and gracefully as he had come. Some years later, in London, a young woman named Miss Pauline noticed an ad in a local newspaper. A gentleman was looking for a lady lodger to rent a part of his house. Miss Pauline came from Portugal, and was of the nobility; she had eloped to London with a lover, but he had been A good lover will behave as elegantly at dawn as at any other time. He drags himself out of bed with a look of dismay on his face. The lady urges him on: "Come, my friend, it's getting light. You don't want anyone to find you here." He gives a deep sigh, as if to say that the night has not been nearly long enough and that it is agony to leave. Once up, he does not instantly pull on his trousers. Instead he comes close to the lady and whispers whatever was left unsaid during the night. Even when he is dressed, he still lingers, vaguely pretending to be fastening his sash. • Presently he raises the lattice, and the two lovers stand together m the side door while he tells her how he dreads the coining day, which will keep them apart; then he slips away. The lady watches him go, and this moment of parting will remain among her most charming memories. • Indeed, one's attachment to a man depends largely on the elegance of his leave- taking; When he jumps out of bed, scurries about the room, tightly fastens his trouser sash, rolls up the sleeves of his court cloak, overrobe, or hunting costume, stuffs his belongings into the breast of his robe and then briskly secures the outer sash-one really begins to hate him. PILLOW fBML iO F SEI SHONAGON. TRANSLATED AND forced to return home and she had had to stay on alone for some while before she couldjoin him. Now she was lonely, and had little money, and was depressed by her squalid circumstances-after all, she had been raised as a lady. She answered the ad. The gentleman turned out to be Casanova, and what a gentleman he was. The room he offered was nice, and the rent was low; he asked only for occasional companionship. Miss Pauline moved in. They played chess, went riding, discussed literature. He was so well-bred, polite, and generous. A serious and high-minded girl, she came to depend on their friendship; here was a man she could talk to for hours. Then one day Casanova seemed changed, upset, excited: he confessed that he was in love with her. She was going back to Portugal soon, to rejoin her lover, and this was not what she wanted to hear. She told him he should go riding to calm down. Later that evening she received news: he had fallen from his horse. Feeling responsible for his accident, she rushed to him, found him in bed, and fell into his arms, unable to control herself. The two became lovers that night, and remained so for the rest of Miss Pauline's stay in London. Yet when it came time for her to leave for Portugal, he did not try to stop her; instead, he comforted her, reasoning that each of them had offered the other the perfect, temporary antidote to their loneliness, and that they would be friends for life. Some years later, in a small Spanish town, a young and beautiful girl named Ignazia was leaving church after confession. She was approached by Casanova. Walking her home, he explained that he had a passion for dancing the fandango, and invited her to a ball the following evening. He was so different from anyone in the town, which bored her so-she desperately wanted to go. Her parents were against the arrangement, but she persuaded her mother to act as a chaperone. After an unforgettable evening of dancing (and he danced the fandango remarkably well for a foreigner), Casanova confessed that he was madly in love with her. She replied (very sadly, though) that she already had a fiance. Casanova did not force the issue, but over the next few days he took Ignazia to more dances and to the bullfights. On one of these occasions he introduced her to a friend of his, a duchess, who flirted with him brazenly; Ignazia was terribly jealous. By now she was desperately in love with Casanova, but her sense of duty and religion forbade such thoughts. Finally, after days of torment, Ignazia sought out Casanova and took his hand: "My confessor tried to make me promise to never be alone with you again," she said, "and as I could not, he refused to give me absolution. It is the first time in my life such a thing has happened to me. I have put myself in God's hands. I have made up my mind, so long as you are here, to do all you wish. When to my sorrow you leave Spain, I shall find another confessor. My fancy for you is, after all, only a passing madness." Casanova was perhaps the most successful seducer in history; few women could resist him. His method was simple: on meeting a woman, he would study her, go along with her moods, find out what was missing in her life, and provide it. He made himself the Ideal Lover. The bored burgomaster's wife needed adventure and romance; she wanted someone who would sacrifice time and comfort to have her. For Miss Pauline what was missing was friendship, lofty ideals, serious conversation; she wanted a man of breeding and generosity who would treat her like a lady. For Ignazia, what was missing was suffering and torment. Her life was too easy; to feel truly alive, and to have something real to confess, she needed to sin. In each case Casanova adapted himself to the woman's ideals, brought her fantasy to life. Once she had fallen under his spell, a littleruse or calculation would seal the romance (a day among rats, a contrived fall from a horse, an encounter with another woman to make Ignazia jealous). The Ideal Lover is rare in the modern world, for the role takes effort. You will have to focus intensely on the other person, fathom what she is missing, what he is disappointed by. People will often reveal this in subtle ways: through gesture, tone of voice, a look in the eye. By seeming to be what they lack, you will fit their ideal. To create this effect requires patience and attention to detail. Most people are so wrapped up in their own desires, so impatient, they are incapable of the Ideal Lover role. Let that be a source of infinite opportunity. Be an oasis in the desert of the self-absorbed; few can resist the temptation of following a person who seems so attuned to their desires, to bringing to life their fantasies. And as with Casanova, your reputation as one who gives such pleasure will precede you and make your seductions that much The cultivation of the pleasures of the senses was ever my principal aim in life. Knowing that I was personally calculated to please the fair sex, 1 always strove to make myself agreeable to it. -CASANOVA The Beauty Ideal I n 1730, when Jeanne Poisson was a mere nine years old, a fortune-teller predicted that one day she would be the mistress of Louis XV. The prediction was quite ridiculous, since Jeanne came from the middle class, and it was a tradition stretching back for centuries that the king's mistress be chosen from among the nobility. To make matters worse, Jeanne's father was a notorious rake, and her mother had been a courtesan. Fortunately for Jeanne, one of her mother's lovers was a man of great wealth who took a liking to the pretty girl and paid for her education. Jeanne learned to sing, to play the clavichord, to ride with uncommon skill, to act and dance; she was schooled in literature and history as if she were a boy. The playwright Crebillon instructed her in the art of conversation. During the early 1970s, against a turbulent political backdrop that included the fiasco of American involvement in the Vietnam War and the downfall of President Richard Nixon's presidency in the Watergate scandal, a "me generation" sprang to prominence-and [Andy] Warhol was there to hold up its mirror.Unlike the radicalized protesters of the 1960s who wanted to change all the ills of society, the self- absorbed "me" people sought to improve their bodies and to "get in touch" with their own feelings. They cared passionately about their appearance, health, lifestyle, and bank accounts. Andy catered to their self- centeredness and inflated pride by offering his services as a portraitist. By the end of the decade, he would be internationally recognized as one of the leading portraitists of his era. Warhol offered his clients an irresistible product: a stylish and flattering portrait by a famous artist who was himself a certified celebrity. Conferring an alluring star presence upon even the most celebrated of faces, he transformed his subjects into glamorous apparitions, presenting their faces as he thought they wanted to be seen and remembered. By filtering his sitters' good features through his silkscreens and exaggerating their vivacity, he enabled them to gain entree to a more mythic and rarefied level of existence. The possession of great wealth and power might do for everyday life, but the commissioning of a portrait by Warhol was a sure indication that the sitter intended to secure a posthumous fame as well. Warhol's portraits were not so much realistic documents of contemporary faces as they were designer icons awaiting future devotions. -DAVID BOURDON, WARHOL Women have served all these centuries as looking glasses possessing the magic and delicious power of reflecting the figure of a man at twice its natural size. -VIRGINIA WOOLF, A ROOM OF ONE'S OWN On top of it all, Jeanne was beautiful, and had a charm and grace that set her apart early on. In 1741, she married a man of the lower nobility. Nowknown as Madame d'Etioles, she could realize a great ambition: she opened a literary salon. All of the great writers and philosophers of the time frequented the salon, many because they were enamored of the hostess. One of these was Voltaire, who became a lifelong friend. Through all Jeanne's success, she never forgot the fortune-teller's prediction, and still believed that she would one day conquer the king's heart. It happened that one of her husband's country estates bordered on King Louis's favorite hunting grounds. She would spy on him through the fence, or find ways to cross his path, always while she happened to be wearing an elegant, yet fetching outfit. Soon the king was sending her gifts of game. When his official mistress died, in 1744, all of the court beauties vied to take her place; but he began to spend more and more time with Madame d'Etioles, dazzled by her beauty and charm. To the astonishment of the court, that same year he made this middle-class woman his official mistress, ennobling her with the title of the Marquise de Pompadour. The king's need for novelty was notorious: a mistress would beguile him with her looks, but he would soon grow bored with her and find someone else. After the shock of his choice of Jeanne Poisson wore off, the courtiers reassured themselves that it could not last-that he had only chosen her for the novelty of having a middle-class mistress. Little did they know that Jeanne s first seduction of the king was not the last seduction she had in mind. As time went by, the king found himself visiting his mistress more and more often. As he ascended the hidden stair that led from his quarters to hers in the palace of Versailles, anticipation of the delights that awaited him at the top would begin to turn his head. First, the room was always warm, and was filled with delightful scents. Then there were the visual delights: Madame de Pompadour always wore a different costume, each one elegant and surprising in its own way. She loved beautiful objects-fine porcelain, Chinese fans, golden flowerpots-and every time he visited, there would be something new and enchanting to see. Her manner was always lighthearted; she was never defensive or resentful. Everything for pleasure. Then there was their conversation: he had never been really able to talk with a woman before, or to laugh, but the marquise could discourse skillfully on any subject, and her voice was a pleasure to hear. And if the conversation waned, she would move to the piano, play a tune, and sing wonderfully. If ever the king seemed bored or sad, Madame de Pompadour would propose some project-perhaps the building of a new country house. He would have to advise in the design, the layout of the gardens, the decor. Back at Versailles, Madame de Pompadour put hersell in charge of the palace amusements, building a private theater for weekly performances under her direction. Actors were chosen from among the courtiers, but the female lead was always played by Madame de Pompadour, who was one of the finest amateur actresses in France. The king became obsessed with this theater; he could barely wait for its performances. Along with this interest came an increasing expenditure of money on the arts, and an involvement in philosophy and literature. A man who had cared only for hunting and gambling was spending less and less time with his male companions and becoming a great patron of the arts. Indeed he stamped a whole era with an aesthetic style, which became known as "Louis Quinze," rivaling the style associated with his illustrious predecessor, Louis XTV. Lo and behold, year after year went by without Louis tiring of his mistress. In fact he made her a duchess, and her power and influence extended well beyond culture into politics. For twenty years, Madame de Pompadour ruled both the court and the king's heart, until her untimely death, in 1764, at the age of forty-three. Louis XV had a powerful inferiority complex. The successor to Louis XTV, the most powerful kingin French history, he had been educated and trained for the throne-yet who could follow his predecessor's act? Eventually he gave up trying, devoting himself instead to physical pleasures, which came to define how he was seen; the people around him knew they could sway him by appealing to the basest parts of his character. Madame de Pompadour, genius of seduction, understood that inside Louis XV was a great man yearning to come out, and that his obsession with pretty young women indicated a hunger for a more lasting kind of beauty. Her first step was to cure his incessant bouts of boredom. It is easy for kings to be bored-everything they want is given to them, and they seldom learn to be satisfied with what they have. The Marquise de Pompadour dealt with this by bringing all sorts of fantasies to life, and creating constant suspense. She had many skills and talents, and just as important, she deployed them so artfully that he never discovered their limits. Once she had accustomed him to more refined pleasures, she appealed to the crushed ideals within him; in the mirror she held up to him, he saw his aspiration to be great, a desire that, in France, inevitably included leadership in culture. His previous series of mistresses had tickled only his sensual desires. In Madame de Pompadour he found a woman who made him feel greatness in himself. The other mistresses could easily be replaced, but he could never find another Madame de Pompadour. Most people believe themselves to be inwardly greater than they outwardly appear to the world. They are full of unrealized ideals; they could be artists, thinkers, leaders, spiritual figures, but the world has crushed them, denied them the chance to let their abilities flourish. This is the key to their seduction-and to keeping them seduced over time. The Ideal Lover knows how to conjure up this kind of magic. Appeal only to people's physical side, as many amateur seducers do, and they will resent you for playing upon their basest instincts. But appeal to their better selves, to a higher standard of beauty, and they will hardly notice that they have been seduced. Make them feel elevated, lofty, spiritual, and your power over them will be limitless. Love brings to light a lover's noble and hidden qualities - his rare and exceptional traits: it is thus liable to be deceptive as to his normal character. NIETZSCHE Keys to the Character E ach of us carries inside us an ideal, either of what we would like to become, or of what we want another person to be for us. This ideal goes back to our earliest years-to what we once felt was missing in our lives, what others did not give to us, what we could not give to ourselves. Maybe we were smothered in comfort, and we long for danger and rebellion. If we want danger but it frightens us, perhaps we look for someone who seems at home with it. Or perhaps our ideal is more elevated-we want to be more creative, nobler, and kinder than we ever manage to be. Our ideal is something we feel is missing inside us. Our ideal may be buried in disappointment, but it lurks underneath, waiting to be sparked. If another person seems to have that ideal quality, or to have the ability to bring it out in us, we fall in love. That is the response to Ideal Lovers. Attuned to what is missing inside you, to the fantasy that will stir you, they reflect your ideal-and you do the rest, projecting on to them your deepest desires and yearnings. Casanova and Madame de Pompadour did not merely seduce their targets into a sexual affair, they made them fall in love. The key to following the path of the Ideal Lover is the ability to observe. Ignore your targets' words and conscious behavior; focus on the tone of their voice, a blush here, a look there-those signs that betray what their words won't say. Often the ideal is expressed in contradiction. King Louis XV seemed to care only about chasing deer and young girls, but that in fact covered up his disappointment in himself; he yearned to have his nobler qualities flattered. Never has there beenabettermoment than now to play the Ideal Lover. That is because we live in a world in which everything must seem elevated and well-intentioned. Power is the most taboo topic of all: although it is the reality we deal with every day in our struggles with people, there is nothing noble, self-sacrificing, or spiritual about it. Ideal Lovers make you feel nobler, make the sensual and sexual seem spiritual and aesthetic. Like all seducers, they play with power, but they disguise their manipulations behind the facade of an ideal. Few people see through them and their seductions last longer. Some ideals resemble Jungian archetypes-they go back a long way in our culture, and their hold is almost unconscious. One such dream is that of the chivalrous knight. In the courtly love tradition of the Middle Ages, a troubadour/knight would find a lady, almost always a married one. and would serve as her vassal. He would go through terrible trials on her behalf, undertake dangerous pilgrimages in her name, suffer awful tortures to prove his love. (This could include bodily mutilation, such as tearing off of fingernails, the cutting of an ear, etc.) He would also write poems and sing beautiful songs to her, for no troubadour could succeed without some kind of aesthetic or spiritual quality to impress his lady. The key to the archetype is a sense of absolutedevotion. A man who will not let matters of warfare, glory, or money intrude into the fantasy of courtship has limitless power. The troubadour role is an ideal because people who do not put themselves and their own interests first are truly rare. For a woman to attract the intense attention of such a man is immensely appealing to her vanity. In eighteenth-century Osaka, a man named Nisan took the courtesan Dewa out walking, first taking care to sprinkle the clover bushes along the path with water, which looked like morning dew. Dewa was greatly moved by this beautiful sight. "I have heard," she said, "that loving couples of deer are wont to lie behind clover bushes. How I should like to see this in real life!" Nisan had heard enough. That very day he had a section of her house torn down and ordered the planting of dozens of clover bushes in what had once been a part of her bedroom. That night, he arranged for peasants to round up wild deer from the mountains and bring them to the house. The next day Dewa awoke to precisely the scene she had described. Once she appeared overwhelmed and moved, he had the clover and deer taken away and the house rebuilt. One of history's most gallant lovers, Sergei Saltykov, had the misfortune to fall in love with one of history's least available women: the Grand Duchess Catherine,future empress of Russia. Catherine's every move was watched over by her husband, Peter, who suspected her of trying to cheat on him and appointed servants to keep an eye on her. She was isolated, unloved, and unable to do anything about it. Saltykov, a handsome young army officer, was determined to be her rescuer. In 1752 he befriended Peter, and also the couple in charge of watching over Catherine. In this way he was able to see her and occasionally exchange a word or two with her that revealed his intentions. He performed the most foolhardy and dangerous maneuvers to be able to see her alone, including diverting her horse during a royal hunt and riding off into the forest with her. He told her how much he sympathized with her plight, and that he would do anything to help her. To be caught courting Catherine would have meant death, and eventually Peter came to suspect that something was up between his wife and Saltykov, though he was never sure. His enmity did not discourage the dashing officer, who just put still more energy and ingenuity into finding ways to arrange secret trysts. The couple were lovers for two years, and Saltykov was undoubtedly the father of Catherine's son Paul, later the emperor of Russia. When Peter finally got rid of him by sending him off to Sweden, news of his gallantry traveled ahead of him, and women swooned to be Ms next conquest. You may not have to go to as much trouble or risk, but you will always be rewarded for actions that reveal a sense of self- sacrifice or devotion. The embodiment of the Ideal Lover for the 1920s was Rudolph Valentino, or at least the image created of him in film. Everything he did-the gifts, the flowers, the dancing, the way he took a woman's hand-showed a scrupulous attention to the details that would signify how much he was thinking of her. The image was of a man who made courtship take time, transforming it into an aesthetic experience. Men hated Valentino, because women now expected them to match the ideal of patience and attentiveness that he represented. Yet nothing is more seductive than patient attentiveness. It makes the affair seem lofty, aesthetic, not really about sex. The power of a Valentino, particularly nowadays, is that people like this are so rare. The art of playing to a woman's ideal has almost disappeared-which only makes it that much more alluring. If the chivalrous lover remains the ideal for women, men often idealize the Madonna/whore, a woman who combines sensuality with an air of spirituality or innocence. Think of the great courtesans of the Italian Renaissance, such as Tullia d'Aragona-essentially a prostitute, like all courtesans, but able to disguise her social role by establishing a reputation as a poet and philosopher. Tullia was what was then known as an "honest courtesan." Honest courtesans would go to church, but they had an ulterior motive: for men, their presence at Mass was exciting. Their houses were pleasure palaces, but what made these homes so visually delightful was their artworks and shelves full of books, volumes of Petrarch and Dante. For the man, the thrill, the fantasy, was to sleep with a woman who was sexual yet had the ideal qualities of a mother and the spirit and intellect of an artist. Where the pure prostitute excited desire but also disgust, the honest courtesan made sex seem elevated and innocent, as if it were happening in the Garden of Eden. Such women held immense power over men. To tMs day they remain an ideal, if for no other reason than that they offer such a range of pleasures. The key is ambiguity-to combine the appearance of sensitivity to the pleasures of the flesh with an air of innocence, spirituality, a poetic sensibility. This mix of the high and the low is immensely seductive. The dynamics of the Ideal Lover have limitless possibilities, not all of them erotic. In politics, Talleyrand essentially played the role of the Ideal Lover with Napoleon, whose ideal in both a cabinet minister and a friend was a man who was aristocratic, smooth with the ladies-allthe things that Napoleon Mmself was not. In 1798, when Talleyrand was the French foreign minister, he hosted a party in Napoleon's honor after the great general's dazzling military victories in Italy. To the day Napoleon died, he remembered tMs party as the best he had ever attended. It was a lavish affair, and Talleyrand wove a subtle message into it by placing Roman busts around the house, and by talking to Napoleon of reviving the imperial glories of ancient Rome. This sparked a glint in the leader's eye, and indeed, a few years later, Napoleon gave himself the title of emperor-a move that only made Talleyrand more powerful. The key to Talleyrand's power was his ability to fathom Napoleon's secret ideal: his desire to be an emperor, a dictator. Talleyrand simply held up a mirror to Napoleon and let him glimpse that possibility. People are always vulnerable to insinuations like this, which stroke their vanity, almost everyone's weak spot. Hint at something for them to aspire to, reveal your faith in some untapped potential you see in them, and you will soon have them eating out of your hand.  If Ideal Lovers are masters at seducing people by appealing to their higher selves, to something lost from their childhood, politicians can benefit by applying this skill on a mass scale, to an entire electorate. This was what John F. Kennedy quite deliberately did with the American public, most obviously in creating the "Camelot" aura around himself. The word "Camelot" was applied to his presidency only after his death, but the romance he consciously projected through his youth and good looks was fully functioning during his lifetime. More subtly, he also played with America's images of its own greatness and lost ideals. Many Americans felt that with the wealth and comfort of the late 1950s had come great losses; ease and conformity had buried the country's pioneer spirit. Kennedy appealed to those lost ideals through the imagery of the New Frontier, which was exemplified by the space race. The American instinct for adventure could find outlets here, even if most of them were symbolic. And there were other calls for public service, such as the creation of the Peace Corps. Through appeals like these, Kennedy resparked the uniting sense of mission that had gone missing in America during the years since World War II. He also attracted to himself a more emotional response than presidents commonly got. People literally fell in love with him and the image. Politicians can gain seductive power by digging into a country's past, bringing images and ideals that have been abandoned or repressed back to the surface. They only need the symbol; they do not really have toworry about re-creating the reality behind it. The good feelings they stir up are enough to ensure a positive response. Symbol: The Portrait Painter. Under his eye, all of yourphysicalimperfectionsdisappear.Hebrings out noble qualities in you, frames you in a myth, makes you godlike, immortalizes you. For his ability to create such fantasies, he is rewarded with great power. Dangers T he main dangers in the role of the Ideal Lover are the consequences that arise if you let reality creep in. You are creating a fantasy that involves an idealization of your own character. And this is a precarious task, for you are human, and imperfect. If your faults are ugly enough, or intrusive enough, they will burst the bubble you have blown, and your target will revile you. Whenever Tullia d'Aragona was caught acting like a common prostitute (when, for instance, she was caught having an affair just for money), she would have to leave town and establish herself elsewhere. The fantasy of her as a spiritual figure was broken. Casanova too faced this danger, but was usually able to surmount it by finding a clever way to break off the relationship before the woman realized that he was not what she had imagined: he would find some excuse to leave town, or, better still, he would choose a victim who was herself leaving town soon, and whose awareness that the affair would be short-lived would make her idealizing of him all the more intense. Reality and long intimate exposure have a way of dulling a person's perfection. The nineteenth-century poet Alfred de Musset was seduced by the writer George Sand, whose larger-than-life character appealed to his romantic nature. But when the couple visited Venice together, and Sand came down with dysentery, she was suddenly no longer an idealized figure but a woman with an unappealing physical problem. De Musset himself showed a whiny, babyish side on this trip, and the lovers separated. Once apart, however, they were able to idealize each other again, and reunited a few months later. When reality intrudes, distance is often a solution. In politics the dangers are similar. Years after Kennedy's death, a string of revelations (his incessant sexual affairs, his excessively dangerous brinkmanship style of diplomacy, etc.) belied the myth he had created. His image has survived this tarnishing; poll after poll shows that he is still revered. Kennedy is a special case, perhaps, in that his assassination made him a martyr, reinforcing the process of idealization that he had already set in motion. But he is not the only example of an Ideal Lover whose attraction survives unpleasant revelations; these figures unleash such powerful fantasies, and there issuchahunger for the myths and ideals they have to sell, that they are often quickly forgiven. Still, it is always wise to be prudent, and to keep people from glimpsing the less-than-ideal side of your character. the Dandy Most of us feel trapped within the limited roles that the world expects us to play. We are instantly attracted to those who are more fluid, more ambiguous, than we are-those who create their own persona. Dandies excite us because they cannot be categorized, and hint at afreedom we wantfor ourselves. They play with masculinity and femininity; they fashion their own physical image, which is always startling; they are mysterious and elusive. They also appeal to the narcissism of each sex: to a woman they are psychologically female, to a man they are male. Dandies fascinate and seduce in large numbers. Use the power of the Dandy to create an ambiguous, alluring presence that stirs repressed desires. The Feminine Dandy W hen the eighteen-year-old Rodolpho Guglielmi emigrated from Italy to the United States in 1913, he came with no particular skills apart from his good looks and his dancing prowess. To put these qualities to advantage, he found work in the thes dansants, the Manhattan dance halls where young girls would go alone or with friends and hire a taxi dancer for a brief thrill. The taxi dancer would expertly twirl them around the dance floor, flirting and chatting, all for a small fee. Guglielmi soon made a name as one of the best-so graceful, poised, and pretty. In working as a taxi dancer, Guglielmi spent a great deal of time around women. He quickly learned what pleased them-how to mirror them in subtle ways, how to put them at ease (but not too much). He began to pay attention to his clothes, creating his own dapper look: he danced with a corset under his shirt to give himself a trim figure, sported a wristwatch (considered effeminate in those days), and claimed to be a marquis. In 1915, he landed a job demonstrating the tango in fancy restaurants, and changed his name to the more evocative Rodolpho di Valentina. A year later he moved to Los Angeles: he wanted to try to make it in Hollywood. Now known as Rudolph Valentino, Guglielmi appeared as an extra in several low-budget pictures. He eventually landed a somewhat larger role in the 1919 film Eyes of Youth, in which he played a seducer, and caught women's attention by how different a seducer he was: his movements were graceful and delicate, his skin so smooth and his face so pretty that when he swooped down on his victim and drowned her protests with a kiss, he seemed more thrilling than sinister. Next came The Four Horsemen of the Apocalypse, in which Valentino played the male lead, Julio the playboy, and became an overnight sex symbol through a tango sequence in which he seduced a young woman by leading her through the dance. The scene encapsulated the essence of his appeal: his feet smooth and fluid, his poise almost feminine, combined with an air of control. Female members of the audience literally swooned as he raised a married woman's hands to his lips, or shared the fragrance of a rose with his lover. He seemed so much more attentive to women than other men did; but mixed in with this delicacy was a hint of cruelty and menace that drove women wild. In his most famous film. The Sheik, Valentino played an Arab prince (later revealed to be a Scottish lord abandoned in the Sahara as a baby) who rescues a proud English lady in the desert, then conquers her in a manner Once a son was born to Mercury and the goddess Venus, and he was brought up by the naiads in Ida's caves. In his features, it was easy to trace resemblance to his father and to his mother. He was called after them, too, for his name was Hermaphroditus. As soon as he was fifteen, he left his native hills, and Ida where he had been brought up, andfor the sheer joy of travelling visited remote places. . . .He went as far as the cities of Lycia, and on to the Carians, who dwell nearby. In this region he spiedapool of water, so clear that he could see right to the bottom. The water was like crystal, and the edges of the pool were ringed with fresh turf and grass that was always green. A nymph [Salmacis] dwelt there. Often she would gather flowers, and it so happened that she was engaged in this pastime when she caught sight of the boy, Hermaphroditus. As soon as she had seen him, she longed to possess him. She addressed him: "Fair boy, you surely deserve to be thought a god. If you are, perhaps you may be Cupid? ... If there is such a girl [engaged to you], let me enjoy your love in secret: but if there is not, then 1 pray that I may be your bride, and that we may enter upon marriage together." The naiad said no more; but a blush stained the boy's cheeks, for he did not know what love was. Even blushing became him: his cheeks were the colour of ripe apples, hanging in a sunny orchard, like painted ivory or like the moon when, in eclipse, she shows a reddish hue beneath her brightness. . . . Incessantly the nymph demanded at least sisterly kisses, and tried to put her arms round his ivory neck. "Will you stop!" he cried, "orI shall run away and leave this place and you!" Salmacis was afraid: "I yield the spot to you, stranger, I shall not intrude," she said; and, turningfrom him, pretended to go away. . . . The boy, meanwhile, thinking himself unobserved and alone, strolled this way and that on the grassy sward, and dipped his toes in the lapping water-then his feet, up to the ankles. Then, tempted by the enticing coolness of the waters, he quickly stripped his young body of its soft garments. At the sight, Salmacis was spell-bound. She was on fire with passion to possess his naked beauty, and her very eyes flamed with abrilliance like that of the dazzling sun, when his bright disc is reflected in a mirror. . . . She longed to embrace him then, and with difficulty restrained her frenzy. Hermaphroditus, clapping his hollow palms against that borders on rape. When she asks, "Why have you brought me here?," he replies, "Are you not woman enough to know?" Yet she ends up falling in love with him, as indeed women did in movie audiences all over the world, thrilling at his strange blend of the feminine and the masculine. In one scene in The Sheik, the English lady points a gun at Valentino; his response is to point a delicate cigarette holder back at her. She wears pants; he wears long flowing robes and abundant eye makeup. Later films would include scenes of Valentino dressing and undressing, a kind of striptease showing glimpses of his trim body. In almost all of his films he played some exotic period character-a Spanish bullfighter, an Indian rajah, an Arabsheik, a French nobleman-and he seemed to delight in dressing up in jewels and tight uniforms. In the 1920s, women were beginning to play with a new sexual freedom. Instead of waiting for a man to be interested in them, they wanted to be able to initiate the affair, but they still wanted the man to end up sweeping them off their feet. Valentino understood this perfectly. His off-screen life corresponded to his movie image: he wore bracelets on his arm, dressed impeccably, and reportedly was cruel to his wife, and hit her. (His adoring public carefully ignored his two failed marriages and his apparently nonexistent sex life.) When he suddenly died-in New York in August 1926, at the age of thirty-one, from complications after surgery for an ulcer-the response was unprecedented: more than 100,000 people filed by his coffin, many female mourners became hysterical, and the whole nation was spellbound. Nothing like this had happened before for a mere actor. There is a film of Valentino's, Monsieur Beciucciire, in which he plays a total fop, a much more effeminate role than he normally played, and without his usual hint of dangerousness. The film was a flop. Women did not respond to Valentino as a swish. They were thrilled by the ambiguity of a man who shared many of their own feminine traits, yet remained a man. Valentinodressed and played with his physicality like a woman, but his image was masculine. He wooed as a woman would woo if she were a man-slowly, attentively, paying attention to details, setting a rhythm instead of hurrying to a conclusion. Yet when the time came for boldness and conquest, his timing was impeccable, overwhelming his victim and giving her no chance to protest. In his movies, Valentino practiced the same gigolo's art of leading a woman on that he had mastered as a teenager on the dance floor- chatting, flirting, pleasing, but always in control. Valentino remains an enigma to this day. His private life and his character are wrapped in mystery; his image continues to seduce as it did during his lifetime. He served as the model for Elvis Presley, who was obsessedwith this star of the silents, and also for the modern male dandy who plays with gender but retains an edge of danger and cruelty. Seduction was and will always remain the female form of power and warfare. It was originally the antidote to rape and violence. The man who uses this form of power on a woman is in essence turning the game around. employing feminine weapons against her; without losing his masculine identity, the more subtly feminine he becomes the more effective the seduction. Do not be one of those who believe that what is most seductive isbeingdevastatingly masculine. The Feminine Dandy has a much more sinister effect. He lures the woman in with exactly what she wants-a familiar, pleasing, graceful presence. Mirroring feminine psychology, he displays attention to his appearance, sensitivity to detail, a slight coquettishness-but also a hint of male cruelty. Women are narcissists, in love with the charms of their own sex. By showing them feminine charm, a man can mesmerize and disarm them, leaving them vulnerable to a bold, masculine move. The Feminine Dandy can seduce on a mass scale. No single woman really possesses him-he is too elusive-but all can fantasize about doing so. The key is ambiguity: your sexuality is decidedly heterosexual, but your body and psychology float delightfully back and forth between the two poles. I am a woman. Every artist is a woman and should have a taste for other women. Artists who are homosexual cannot be true artists because they like men, and since they themselves are women they are reverting to normality. PICASSO The Masculine Dandy I n the 1870s, Pastor Henrik Gillot was the darling of the St. Petersburg intelligentsia. He was young, handsome, well-read in philosophy and literature, and he preached a kind of enlightened Christianity. Dozens of young girls had crushes on him and would flock to his sermons just to look at him. In 1878, however, he met a girl who changed his life. Her name was Lou von Salome (later known as Lou Andreas-Salome), and she was seventeen; he was forty-two. Salome was pretty, with radiant blue eyes. She had read a lot, particularly for a girl her age, and was interested in the gravest philosophical and religious issues. Her intensity, her intelligence, her responsiveness to ideas cast a spell over Gillot. When she entered his office for her increasingly frequent discussions with him, the place seemed brighter and more alive. Perhaps she was flirting with him, in the unconscious manner of a young girl-yet when Gillot admitted to himself that he was in love with her, and proposed marriage, Salome was horrified. The confused pastor never quite got over Lou von Salome, becoming the first of a long string of famous men to be the victim of a lifelong unfulfilled infatuation with her. In 1882, the German philosopher Friedrich Nietzsche was wandering around Italy alone. In Genoa he received a letter from his friend Paul Ree, a Prussian philosopher whom he admired, recounting his discussions with a remarkable young Russian woman, Lou von Salome, in Rome. Salome was his body, dived quickly into the stream. As he raised first one arm and then the other, his body gleamed in the clear water, as if someone had encased anivory statue or white lilies in transparent glass. "I have won! He is mine!" cried the nymph, and flinging aside her garments, plunged into the heart of the pool. The boy fought against her, but she held him, and snatched kisses as he struggled, placing her hands beneath him, stroking his unwilling breast, and clinging to him, now on this side, and now on that.  Finally, in spite of ail his efforts to slip from her grasp, she twined around him, like a serpent when it is being carried off into the air by the king of birds: for, as it hangs from the eagle's beak, the snake coils round his head and talons and with its tail hampers his beating wings.  "You may fight, you rogue, but you will not escape. May the gods grant me this, may no time to come ever separate him from me, or me from him!" Her prayers found favour with the gods: for, as they lay together, their bodies were united and from being two persons they became one. As when a gardener grafts a branch on to a tree, and sees the two unite as they grow, and come to maturity together, so when their limbs met in that clinging embrace the nymph and the boy were no longer two, but a single form, possessed of a dual nature, which could not be called male or female, but seemed to be atonce both and neither. - OVID,METAMORPHOSES, INNES Dandyism is not even, as many unthinking people seem to suppose, an immoderate interest in personal appearance and material elegance. For the true dandy these things are only a symbol oj the aristocratic superiority of his personality. ..." What, then, is this ruling passion that has turned into a creed and created its own skilled tyrants? What is this unwritten constitution that has created so haughty a caste? It is, above all, a burning need to acquire originality, within the apparent bounds of convention. It is a sort of cult of oneself, which can dispense even with what are commonly called illusions. It is the delight in causing astonishment, and the proud satisfaction of never oneself being astonished. BAUDELAIRE, THE DANDY , QUOTED IN VICE: DAVENPORT-HINES In the midst of this display of statesmanship, eloquence, cleverness, and exalted ambition, Alcibiades lived a life of prodigious luxury, drunkenness, debauchery, and insolence. He was effeminate in his dress and would walk through the market-place trailing his long purple robes, and he spent extravagantly. He had the decks of his triremes cut away to allow him to sleep more comfortably, and his bedding was slung on cords, rather than spread on the hard planks. He had a golden shield made for him, which was emblazoned not with any there on holiday with her mother; Ree had managed to accompany her on long walks through the city, unchaperoned, and they had had many conversations. Her ideas on God and Christianity were quite similar to Nietzsche's, and when Ree had told her that the famous philosopher was a friend of his, she had insisted that he invite Nietzsche to join them. In subsequent letters Ree described how mysteriously captivating Salome was, and how anxious she was to meet Nietzsche. The philosopher soon went to Rome. When Nietzsche finally met Salome, he was overwhelmed. She had the most beautiful eyes he had ever seen, and during their first long talk those eyes lit up so intensely that he could not help feeling there was something erotic about her excitement. Yet he was also confused: Salome kept her distance, and did not respond to his compliments. What a devilish young woman. A few days later she read him a poem of hers, and he cried; her ideas about life were so like his own. Deciding to seize the moment, Nietzsche proposed marriage. (He did not know that Ree had done so as well.) Salome declined. She was interested in philosophy, life, adventure, not marriage. Undaunted, Nietzsche continued to court her. On an excursion to Lake Orta with Ree, Salome, and her mother, he managed to get the girl alone, accompanying her on a walk up Monte Sacro while the others stayed behind. Apparently the views and Nietzsche's words had the proper passionate effect; in a later letter to her, he described this walk as "the most beautiful dream of my life." Now he was a man possessed: all he could think about was marrying Salome and having her all to himself. A few months later Salome visited Nietzsche in Germany. They took long walks together, and stayed up all night discussing philosophy. She mirrored his deepest thoughts, anticipated his ideas about religion. Yet when he again proposed marriage, she scolded him as conventional: it was Nietzsche, after all, who had developed a philosophical defense of the superman, the man above everyday morality, yet Salome was by nature far less conventional than he was. Her firm, uncompromising manner only deepened the spell she cast over him, as did her hint of cruelty When she finally left him, making it clear that she had no intention of marrying him, Nietzsche was devastated. As an antidote to his pain, he wrote Thus Spake Zarathustra, a book full of sublimated eroticism and deeply inspired by his talks with her. From then on Salome was known throughout Europe as the woman who had broken Nietzsche's heart. Salome moved to Berlin. Soon the city's greatest intellectuals were falling under the spell of her independence and free spirit. The playwrights Gerhart Hauptmann and Franz Wedekind became infatuated with her; in 1897, the great Austrian poet Rainer Maria Rilke fell in love with her. By that time her reputation was widely known, and she was a published novelist. This certainly played a part in seducing Rilke, but he was also attracted by a kind of masculine energy he found in her that he had never seen in a woman. Rilke was then twenty-two, Salome thirty-six. He wrote her love letters and poems, followed her everywhere, and began an affair with her that was to last several years. She corrected his poetry, imposed discipline on Ms overly romantic verse, inspired ideas for new poems. But she was put off by Ms childish dependence on her, Ms weakness. Unable to stand weakness of any kind, she eventually left him. Consumed by her memory, Rilke long continued to pursue her. In 1926, lying on Ms deathbed, he begged Ms doctors, "Ask Lou what is wrong with me. She is the only one who knows." One man wrote of Salome, "There was something terrifying about her embrace. Looking at you with her radiant blue eyes, she would say, 'The reception of the semen is for me the height of ecstasy.' And she had an insatiable appetite for it. She was completely amoral ... a vampire."TheSwedish psychotherapist Poul Bjerre, one of her later conquests, wrote, "I think Nietzsche was right when he said that Lou was a thoroughly evil woman. Evil however in the Goethean sense: evil that produces good. She may have destroyed lives and marriages but her presence was exciting." The two emotions that almost every male felt in the presence of Lou Andreas-Salome were confusion and excitement-the two prerequisite feelings for any successful seduction. People were intoxicated by her strange mix of the masculine and the feminine; she was beautiful, with a radiant smile and a graceful, flirtatious manner, but her independence and her intensely analytical nature made her seem oddly male. This ambiguity was expressed in her eyes, which were both coquettish and probing. It was confusion that kept men interested and curious: no other woman was like this. They wanted to know more. The excitement stemmed from her ability to stir up repressed desires. She was a complete nonconformist, and to be involved with her was to break all kinds of taboos. Her masculinity made the relationship seem vaguely homosexual; her slightly cruel, slightly domineering streak could stir up masochistic yearnings, as it did in Nietzsche. Salome radiated a forbidden sexuality. Her powerful effect on men-the lifelong infatuations, the suicides(there were several), the periods of intense creativity, the descriptions of her as a vampire or a devil-attest to the obscure depths of the psyche that she was able to reach and disturb. The Masculine Dandy succeeds by reversing the normal pattern of male superiority in matters of love and seduction. A man's apparent independence, Ms capacity for detachment, often seems to give him the upper hand in the dynamic between men and women. A purely feminine woman will arouse desire, but is always vulnerable to the man's capricious loss of interest; a purely masculine woman, on the other hand, will not arouse that interest at all. Follow the path of the Masculine Dandy, however, and you neutralize all a man's powers. Never give completely of yourself; while you are passionate and sexual, always retain an air of independence and self-possession. You might move on to the next man, or so he will think. You have other, more important matters to concern yourself with, such as your work. Men do not know how to fight women who use their own weapons against them; they are intrigued, aroused, and disarmed. Few men can resist the taboo pleasures offered up to them by the Masculine Dandy. ancestral device, but with the figure of Eros armed with a thunderbolt. The leading men of Athens watched all this with disgust andindignation and they were deeply disturbed by his contemptuous and lawless behaviour, which seemed to them monstrous and suggested the habits of a tyrant. The people's feelings towards him have been very aptly expressed by Aristophanes in the line: "They long for him, they hate him, they cannot do without him. . . • The fact was that his voluntary donations, the public shows he supported, his unrivalled to the state, the fame of his ancestry, the power of his oratory and his physical strength and beauty ... all combined to make the Athenians forgive him everything else, and they were constantly finding euphemismsfor his lapses and putting them down to youthful high spirits and honourable ambition. -PLUTARCH, "THE LIFE OF ALCIBIADES," THE RISE AND FALL OF ATHENS: NINE GREEK LIVES, SCOTT-KILVERT Further light-a whole flood of it-is thrown upon this attraction of the male in petticoats for the female, in the diary of the Abbe de Choisy, one of the most brilliant men- women of history, of whom we shall hear a great deal more later. The abbe, a churchman of Paris, was a constant masquerader in female attire. He lived in the days of Louis XIV, and was a great friend of Louis' brother, also addicted to women's clothes. A young girl, Mademoiselle Charlotte, thrown muchinto his company, fell desperately in love with the abbe, and when the affair had progressed to a liaison, the abbe asked her how she came to be won . . . • "/ stood in no need of caution as I should have with a man. I saw nothing but a beautiful woman, and why should I beforbidden to love you? What advantages a woman's dress gives you! The heart of a man is there, and that makes a great impression upon us, and on the other hand, all the charms of the fair sex fascinate us, and prevent us from taking precautions. " -C.J.BULLIET, VENUS CASTINA Beau Brummell was regarded as unbalanced in his passion for daily ablutions. His ritualistic morning toilet took upward of five hours, one hour spent inching himself into his skin-tight buckskin breeches, an hour with the hairdresser and another two hours tying and "creasing down" a series of starched cravats until perfection was achieved. But first of all two hours were spent scrubbing himself with fetish zeal from head to toe in milk, water and eau de Cologne. Beau Brummell said he used only the froth of champagne to polish his Hessian boots. He had 365 snuff boxes, those suitable for summer wear being quite unthinkable in winter, and the fit of hisgloves was achieved by entrusting their cut to two firms-one for the fingers, the other for the thumbs. The seduction emanating from a person of uncertain or dissimulated sex is powerful. -COLETTE Keys to the Character M any of us today imagine that sexual freedom has progressed in recent years-that everything has changed, for better or worse. This is mostly an illusion; a reading of history reveals periods of licentiousness (imperial Rome, late-seventeenth-century England, the "floating world" of eighteenth-century Japan) far in excess of what we are currently experiencing. Gender roles are certainly changing, but they have changed before. Society is in a state of constant flux, but there is something that does not change: the vast majority of people conform to whatever is normal for the time. They play the role allotted to them. Conformity is a constant because humans are social creatures who are always imitating one another. At certain points in history it may be fashionable to be different and rebellious, but if a lot of people are playing that role, there is nothing different or rebellious about it. We should never complain about most people's slavish conformity, however, for it offers untold possibilities of power and seduction to those who are up for a few risks. Dandies have existed in all ages and cultures ( Al- cibiades in ancient Greece, Korechika in late-tenth-century Japan), and wherever they have gone they have thrived on the conformist role playing ofothers.The Dandy displays a true and radical difference from other people, a difference of appearance and manner. Since most of us are secretly oppressed by our lack of freedom, we are drawn to those who are more fluid and flaunt their difference. Dandies seduce socially as well as sexually; groups form around them, their style is wildly imitated, an entire court or crowd will fall in love with them. In adapting the Dandy character for your own purposes, remember that the Dandy is by nature a rare and beautiful flower. Be different in ways that are both striking and aesthetic, never vulgar; poke fun at current trends and styles, go in a novel direction, and be supremely uninterested in what anyone else is doing. Most people are insecure; they will wonder what you are up to, and slowly they will come to admire and imitate you, because you express yourself with total confidence. The Dandy has traditionally been defined by clothing, and certainly most Dandies create a unique visual style. Beau Brummel, the most famous Dandy of all, would spend hours on his toilette, particularly the inimitably styled knot in his necktie, for which he was famous throughout early- nineteenth-century England. But a Dandy's style cannot be obvious, for Dandies are subtle, and never try hard for attention-attention comes to them. The person whoseclothes are flagrantly different has little imagination or taste. Dandies show their difference in the little touches that mark their disdain for convention: Theophile Gautier's red vest, Oscar Wilde's green velvet suit, Andy Warhol's silver wigs. The great English Prime Minister Benjamin Disraeli had two magnificent canes, one for morning, one for evening; at noon he would change canes, no matter where he was. The female Dandy works similarly. She may adopt male clothing, say, but if she does, a touch here or there will set her tmly apart: no man ever dressed quite like George Sand. The overtall hat, the riding boots worn on the streets of Paris, made her a sight to behold. Remember, there must be a reference point. If your visual style is totally unfamiliar, people will think you at best an obvious attention-getter, at worst crazy. Instead, create your own fashion sense by adapting and altering prevailing styles to make yourself an object of fascination. Do this right and you will be wildly imitated. The Count d'Orsay, a great London dandy of the 1830s and 1840s, was closely watched by fashionable people; one day, caught in a sudden London rainstorm, he bought a paltrok, a kind of heavy, hooded duffle coat, off the back of a Dutch sailor. The paltrok immediately became the coat to wear. Having people imitate you, of course, is a sign of yourpowers of seduction. The nonconformity of Dandies, however, goes far beyond appearances. It is an attitude toward life that sets them apart; adopt that attitude and a circle of followers will form around you. Dandies are supremely impudent. They don't give a damn about other people, and never try to please. In the court of Louis XTV, the writer La Bruyere noticed that courtiers who tried hard to please were invariably on the way down; nothing was more anti-seductive. As Barbey d'Aurevilly wrote, "Dandies please women by displeasing them." Impudence was fundamental to the appeal of Oscar Wilde. In a London theater one night, after the first performance of one of Wilde's plays, the ecstatic audience yelled for the author to appear onstage. Wilde made them wait and wait, then finally emerged, smoking a cigarette and wearing an expression of total disdain. "It may be bad manners to appear here smoking, but it is far worse to disturb me when I am smoking," he scolded his fans. The Count d'Orsay was equally impudent. At a London club one night, a Rothschild who was notoriously cheap accidentally dropped a gold coin on the floor, then bent down to look for it. The count immediately whipped out a thousand-franc note (worth much more than the coin), rolled it up, lit it like a candle, and got down on all fours, as if to help light the way in the search. Only a Dandy could get away with such audacity. The insolence of the Rake is tied up with his desire to conquer a woman; he cares for nothing else. The insolence of the Dandy, on the other hand, is aimed at society and its conventions. It is not a woman he cares to conquer but a whole group, an entire social world. And since people are generally oppressed by the obligation of always being polite and self-sacrificing, they are delighted to spend time around a person who disdains such niceties. Dandies are masters of the art of living. They live for pleasure, not for work; they surround themselves with beautiful objects and eat and drink Sometimes, however, the tyranny of elegance became altogether insupportable. A Mr. Boothby committed suicide and left a note saying he could no longer endure the ennui of buttoning and unbuttoning. - THE GAME OF HEARTS: HARRIETTE WILSON'S MEMOIRS. LESLEY BLANCH This royal manner which [the dandy] raises to the height of true royalty, the dandy has taken this from women, who alone seem naturally made for such a role. It is a somewhat by using the manner and the method of women that the dandy dominates. And this usurpation of femininity, he makes women themselves approve of this. . . . The dandy has something antinaturaland androgynous about him, which is precisely how he is able to endlessly seduce. LEMAlTRE, LES CONTEMPORAINS with the same relish they show for their clothes. This was how the great Roman writer Petronius, author of the Satyricon, was able to seduce the emperor Nero. Unlike the dull Seneca, the great Stoic thinker and Nero's tutor, Petronius knew how to make every detail of life a grand aesthetic adventure, from a feast to a simple conversation. This is not an attitude you should impose on those around you-you can't make yourself a nuisance- but if you simply seem socially confident and sure of your taste, people will be drawn to you. The key is to make everything an aesthetic choice. Your ability to alleviate boredom by making life an art will make your company highly prized. The opposite sex is a strange country we can never know, and this excites us, creates the proper sexual tension. But it is also a source of annoyance and frustration. Men do not understand how women think, and vice versa; each tries to make the other act more like a member of their own sex. Dandies may never try to please, but in this one area they have a pleasing effect: by adopting psychological traits of the opposite sex, they appeal to our inherent narcissism. Women identified with Rudolph Valentino's delicacy and attention todetailin courtship; men identified with Lou Andreas-Salome's lack of interest in commitment. In the Heian court of eleventh-century Japan, Sei Shonagon, the writer of The Pillow Book, was powerfully seductive for men, especially literary types. She was fiercely independent, wrote poetry with the best, and had a certain emotional distance. Men wanted more from her than just to be her friend or companion, as if she were another man; charmed by her empathy for male psychology, they fell in love with her. This kind of mental transvestism-the ability to enter the spirit of the opposite sex, adapt to their way of thinking, mirror their tastes and attitudes-can be a key element in seduction. It is a way of mesmerizing your victim. According to Freud, the human libido is essentially bisexual; most people are in some way attracted to people of their own sex, but social constraints (varying with culture and historical period) repress these impulses. The Dandy represents a release from such constraints. In several of Shakespeare's plays, a young girl (back then, the female roles in the theater were actually played by male actors) has to go into disguise and dresses up as a boy, eliciting all kinds of sexual interest from men, who later are delighted to find out that the boy is actually a girl. (Think, for example, of Rosalind in As You Like It.)Entertainers such as Josephine Baker (known as the Chocolate Dandy) and Marlene Dietrich would dress up as men in their acts, making themselves wildly popular-among men. Meanwhile the slightly feminized male, the pretty boy, has always been seductive to women. Valentino embodied this quality. Elvis Presley had feminine features (the face, the hips), wore frilly pink shirts and eye makeup, and attracted the attention of women early on. The filmmaker Kenneth Anger said of Mick Jagger that it was "a bisexual charm which constituted an important part of the attraction he had over young girls and which acted upon their unconscious." In Western culture for centuries, in fact, feminine beauty has been far more fetishized than male beauty, so it is understandable that a feminine-looking face like that of Montgomery Clift would have more seductive power than that of John Wayne. The Dandy figure has a place in politics as well. John F. Kennedy was a strange mix of the masculine and feminine, virile in his toughness with the Russians, and in his White House lawn football games, yet feminine in his graceful and dapper appearance. This ambiguity was a large part of his appeal. Disraeli was an incorrigible Dandy in dress and manner; some were suspicious of him as a result, but his courage in not caring what people thought of him also won him respect. And women of course adored him, for women always adore a Dandy. They appreciated the gentleness of his manner, his aesthetic sense, his love of clothes-in other words, his feminine qualities. The mainstay of Disraeli's power was in fact a female fan: Queen Victoria. Do not be misled by the surface disapproval your Dandy pose may elicit. Society may publicize its distrust of androgyny (in Christian theology, Satan is often represented as androgynous), but this conceals its fascination; what is most seductive is often what is most repressed. Leam aplayful dandyism and you will become the magnet for people's dark, unrealized yearnings. The key to such power is ambiguity. In a society where the roles everyone plays are obvious, the refusal to conform to any standard will excite interest. Be both masculine and feminine, impudent and charming, subtle and outrageous. Let other people worry about being socially acceptable; those types are a dime a dozen, and you are after a power greater than they can imagine. Symbol: The Orchid. Its shape and color oddly suggest both sexes, its odor is sweet and decadent -it is a tropical flower of evil. Delicate and highly cultivated, it is prizedfor its rarity; it is unlike any other flower. Dangers T he Dandy's strength, but also the Dandy's problem, is that he or she often works through transgressive feelings relating to sex roles. Although this activity is highly charged and seductive, it is also dangerous, since it touches on a source of great anxiety and insecurity. The greater dangers will often come from your own sex. Valentino had immense appeal for women, but men hated him. He was constantly dogged with accusations of being perversely unmasculine, and this caused him great pain. Salome was equally disliked by women; Nietzsche's sister, and perhaps his closest friend, considered her an evil witch, and led a virulent campaign against her in the press long after the philosopher's death. There is little to be done in the face of resentment like this. Some Dandies try to fight the image they themselves have created, but this is unwise: to prove his masculinity, Valentino would engage in a boxing match, anything to prove his masculinity. He wound up looking only desperate. Better to accept society's occasional gibes with grace and insolence. After all, the Dandies' charm is that they don't really care what people think of them. That is how Andy Warhol played the game: when people tired of his antics or some scandal erupted, instead of trying to defend himself he would simply move on to some new image-decadent bohemian, high-society portraitist, etc.-as if to say, with a hint of disdain, that the problem lay not with him but with other people's attention span. Another danger for the Dandy is the fact that insolence has its limits. Beau Brummel prided himself on two things: his trimness of figure and his acerbic wit. His main social patron was the Prince of Wales, who, in later years, grew plump. One night at dinner, the prince rang for the butler, and Brummel snidely remarked, "Do ring. Big Ben." The prince did not appreciate the joke, had Brummel shown out, and never spoke to him again. Without royal patronage, Brummel fell into poverty and madness. Even a Dandy, then, must measure out his impudence. A true Dandy knows the difference between a theatrically staged teasing of the powerful and a remark that will truly hurt, offend, or insult. It is particularly important to avoid insulting those in a position to injure you. In fact the pose may work best for those who can afford to offend-artists, bohemians, etc. In the work world, you will probably have to modify and tone down your Dandy image. Be pleasantly different, an amusement, rather than a person who challenges the group's conventions and makes others feel insecure. the Natural. Childhood is the golden paradise we are always consciously or unconsciously trying to re-create. The Natural embodies the longed- for qualities of childhood - spontaneity, sincerity, unpretentiousness. In the presence of Naturals, we feel at ease, caught up in their playful spirit, transported back to that golden age. Naturals also make a virtue out of weakness, eliciting our sympathy for their trials, making us want to protect them and help them. As with a child, much of this is natural, but some of it is exaggerated, a conscious seductive maneuver. Adopt the pose of the Natural to neutralize people's natural defensiveness and infect them with helpless delight. Psychological Traits of the Natural. C hildren are not as guileless as we like to imagine. They suffer from feelings of helplessness, and sense early on the power of their naturalcharm to remedy their weakness in the adult world. They learn to play a game: if their natural innocence can persuade a parent to yield to their desires in one instance, then it is something they can use strategically in another instance, laying it on thick at the right moment to get their way. If their vulnerability and weakness is so attractive, then it is something they can use for effect. Why are we seduced by children's naturalness? First, because anything natural has an uncanny effect on us. Since the beginning of time, natural phenomena-such as lightning storms or eclipses-have instilled in human beings an awe tinged with fear. The more civilized we become, the greater the effect such natural events have on us; the modern world surrounds us with so much that is manufactured and artificial that something sudden and inexplicable fascinates us. Children also have this natural power, but because they are unthreatening and human, they are not so much awe inspiring as charming. Most people try to please, but the pleasantness of the child comes effortlessly, defying logical explanation-and what is irrational is often dangerously seductive. More important, a child represents a world from which we have been forever exiled. Because adult life is full of boredom and compromise, we harbor an illusion of childhood as a kind of golden age, even though it can often be a period of great confusion and pain. It cannot be denied, however, that childhood had certain privileges, and as children we had a pleasurable attitude to life. Confronted with a particularly charming child, we often feel wistful: we remember our own golden past, the qualities we have lost and wish we had again. And in the presence of the child, we get a little of that goldenness back. Natural seducers are people who somehow avoided getting certain childish traits drummed out of them by adult experience. Such people can be as powerfully seductive as any child, because it seems uncanny and marvelous that they have preserved such qualities. They are not literally like children, of course;that would make them obnoxious or pitiful. Rather it is the spirit that they have retained. Do not imagine that this childishness is something beyond their control. Natural seducers learn early on the value of retaining a particular quality, and the seductive power it contains; they Long-past ages have a great and often puzzling attraction for men's imagination. Whenever they are dissatisfied with their present surroundings-and this happens often enough-they turn back to the past and hope that they will now be able to prove the truth of the inextinguishable dream of a golden age. They are probably still under the spell of their childhood, which is presented to them by their not impartial memory as a time of uninterrupted bliss. -FREUD. When Hermes was born on Mount Cyllene his mother Maia laid him in swaddling bands on a winnowing fan, but he grew with astonishing quickness into a little boy, and as soon as her back was turned, slipped off and went looking for adventure. Arrived at Pieria, where Apollo was tending a fine herd of cows, he decided to steal them. But, fearing to betrayed by their tracks, he quickly made a number oj shoes from the bark of a fallen oak and tied themuntilplaitedgrassto the feet of the cows, which he then drove off by night the road. Apollo discovered the loss, but Hermes's trick deceived him, and though he went as far as Pylus in his westward search, and to Onchestus in his eastern, he was forced, in the end, to offer a reward for the apprehension of the thief. Silenus and his satyrs, greedy of reward, spread out in different directions to track him down but, for a long while, without success. At last, as a party of them passed through Arcadia, they heard the muffled sound of music such as they had never heard before, and the nymph a cave, told them that a most gifted child had recently been born there, to whom she was acting as nurse: he had constructed an ingenious musical toy from the shell of a tortoise and some cow-gut, with which he had lulled his mother to sleep. • "And from whom did he get the cow-gut?" asked the alert satyrs, noticing two hides stretched outside the cave. "Do you charge the poor child with theft?" asked Cyllene. Harsh words were exchanged. • At that moment Apollo came up, having discovered the thief s identity by observing the suspicious behaviour of a long-winged bird. Entering the cave, he awakened Maia and told her severely that Hermes must restore the stolen cows. Maia pointed to the child, still wrapped in his adapt and build upon those childlike traits that they managed to preserve, exactly as the child learns to play with its natural charm. This is the key. It is within your power to do the same, since there is lurking within all of us a devilish child straining to be let loose. To do this successfully, you have to be able to let go to a degree, since there is nothing less natural than seeming hesitant. Remember the spirit you once had; let it return, without self- consciousness. People are much more forgiving of those who go all the way, who seem uncontrollably foolish, than the halfhearted adult with a childish streak. Remember who you were before you became so polite and self-effacing. To assume the role of the Natural, mentally position yourself in any relationship as the child, the younger one. The following are the main types of the adult Natural. Keep in mind that the greatest natural seducers are often a blend of more than one of these qualities. The innocent. The primary qualities of innocence are weakness and misunderstanding of the world. Innocence is weak because it is doomed to vanish in a harsh, cruel world; the child cannot protect or hold on to its innocence. The misunderstandings come from the child's not knowing about good and evil, and seeing everything through uncorrupted eyes. The weakness of children elicits sympathy, their misunderstandings make us laugh, and nothing is more seductive than a mixture of laughter and sympathy. The adult Natural is not truly innocent-it is impossible to grow up in this world and retain total innocence. Yet Naturals yearn so deeply to hold on to their innocent outlook that they manage to preserve the illusion of innocence. They exaggerate their weakness to elicit the proper sympathy. They act like they still see the world through innocent eyes, which in an adult proves doubly humorous. Much of this is conscious, but to be effective, adult Naturals must make it seem subtle and effortless-if they are seen as trying to act innocent, it will come across as pathetic. It is better for them to communicate weakness indirectly, through looks and glances, or through the situations they get themselves into, rather than anything obvious. Since this type of innocence is mostly an act, it is easily adaptable foryour own purposes. Leam to play up any natural weaknesses or flaws. The imp. Impish children have a fearlessness that we adults have lost. That is because they do not see the possible consequences of their actions-howsome people might be offended, how they might physically hurt themselvesin the process. Imps are brazen, blissfully uncaring. They infect you with their lighthearted spirit. Such children have not yet had their natural energy and spirit scolded out of them by the need to be polite and civil. Secretly, we envy them; we want to be naughty too. Adult imps are seductive because of how different they are from the rest of us. Breaths of fresh air in a cautious world, they go full throttle, as if their impishness were uncontrollable, and thus natural. If you play the part, do not worry about offending people now and then-you are too lovable and inevitably they will forgive you. Just don't apologize or look contrite, for that would break the spell. Whatever you say or do, keep a glint in your eye to show that you do not take anything seriously. The wonder. A wonder child has a special, inexplicable talent: a gift for music, for mathematics, for chess, for sport. At work in the field in which they have such prodigal skill, these children seem possessed, and their actions effortless. If they are artists or musicians, Mozart types, their work seems to spring from some inborn impulse, requiring remarkably little thought. If it is a physical talent that they have, they are blessed with unusual energy, dexterity, and spontaneity. In both cases they seem talented beyond their years. This fascinates us. Adult wonders are often former wonder children who have managed, remarkably, to retain their youthful impulsiveness and improvisational skills. True spontaneity is a delightful rarity, for everything in life conspires to rob us of it-we have to leam to act carefully and deliberately, to think about how we look in other people's eyes. To play the wonder you need some skill that seems easy and natural, along with the ability to improvise. If in fact your skill takes practice, you must hide this and leam to make your work appear effortless. The more you hide the sweat behind what you do, the more natural and seductive it will appear. The undefensive lover. As people get older, they protect themselves against painful experiences by closing themselves off. The price for this is that theygrow rigid, physically and mentally. But children are by nature unprotected and open to experience, and this receptiveness is extremely attractive. In the presence of children we become less rigid, infected with their openness. That is why we want to be around them. Undefensive lovers have somehow circumvented the self-protective process, retaining the playful, receptive spirit of the child. They often manifest this spirit physically: they are graceful, and seem to age less rapidly than other people. Of all the Natural's character qualities, this one is the most useful. Defensiveness is deadly in seduction; act defensive and you'll bring out defensiveness in other people. The undefensive lover, on the other hand, lowers the inhibitions of his or her target, a critical part of seduction. It is important to leam to not react defensively: bend instead of resist, be open to influence from others, and they will more easily fall under your spell. swaddling bands and feigning sleep. "What an absurd charge!" she cried. But Apollo had already recognized the hides. He picked up Hermes, carried him to Olympus, and there formally accused him oftheft, offering the hides as evidence. Zeus, loth to believe that his own newborn son was a thief encouraged him to plead not guilty, but Apollo would not be put off and Hermes, at last, weakened and confessed. • "Very , come with me," he said, "and you may have your herd. I slaughtered only two, and those I cut up into twelve equal portions as a sacrifice to the twelve gods" • "Twelve gods?" asked Apollo. "Who is the twelfth?" • "Your servant, sir" replied Hermes modestly. "I ate no more than my share, though I was very hungry, and duly burned the rest. " The two gods [ Hermes and Apollo] returned to Mount Cyllene, where Hermes greeted his mother and retrieved something that he had hidden underneath a sheepskin. • "What have you there?" asked Apollo. • In answer, Hermes showed his newly- invented tortoise-shell lyre, and played such a ravishing tune on it with the plectrum he had also invented, at the same time singing in praise of Apollo's nobility, intelligence, and generosity, that he was forgiven at once. He led the surprised and delighted Apollo to Pylus, playing all the way, and there gave him the remainder of the cattle, which he had hidden in a cave. • "A bargain!" cried Apollo. "You keep the cows, and I take the lyre. " "Agreed," said Hermes, and they shook hands on it. • . . . Apollo, taking the child back to Olympus, told Zeus all that had happened. Zeus warned Hermes that henceforth he must respect the rights oj property and refrain from telling downright lies; but he could not help being amused. "You seem to be a very ingenious, eloquent, and persuasive godling," he said. • "Then make me your herald, Father," Hermes answered, "and I will he responsible for the safety of all divine property, and never tell lies, though I cannot promise always to tell the whole truth ." • "That would not be expected of you," said Zeus with a smile. . . . Zeus gave him a herald's staff with white ribbons, which everyone was ordered to respect; a round hat against the rain, and winged golden sandals which carried him about with the swiftness of the wind. -GRAVES, THE GREEK MYTHS. A man may meet a woman and be shocked by her ugliness. Soon, if she is natural and unaffected, her expression makes him overlook the fault of her features. He begins to find her charming, it enters his head that she might be loved, and a week later he is living in hope. The following week he has been snubbed into despair, and the week afterwards he has gone mad. -STENDHAL, LOVE. SALE Examples of Natural Seducers 7. As a child growing up in England, Charlie Chaplin spent years in dire poverty, particularly after his mother was committed to an asylum. In his early teens, forced to work to live, he landed ajob in vaudeville, eventually gaining some success as a comedian. But Chaplin was wildly ambitious, and so, in 1910, when he was only nineteen, he emigrated to the United States, hoping to break into the film business. Making his way to Hollywood, he found occasional bit parts, but success seemed elusive: the competition was fierce, and although Chaplin had a repertoire of gags that he had learned in vaudeville, he did not particularly excel at physical humor, a critical part of silent comedy. He was not a gymnast like Buster Keaton. In 1914, Chaplin managed to get the lead in a film short called Making a Living. His role was that of a con artist. In playing around with the costume for the part, he put on a pair of pants several sizes too large, then added a derby hat, enormous boots that he wore on the wrong feet, a walking cane, and a pasted-on mustache. With the clothes, a whole new character seemed to come to life-first the silly walk, then the twirling of the cane, then all sorts of gags. Mack Sennett, the head of the studio, did not find Making a Living very funny, and doubted whether Chaplin had a future in the movies, but a few critics felt otherwise. A review in a trade magazine read, "The clever player who takes the role of a nervy and very nifty sharper in this picture is a comedian of the first water, who acts like one of Nature's own naturals." And audiences also responded-the film made money. What seemed to touch a nerve in Making a Living, setting Chaplin apart from the horde of other comedians working in silent film, was the almost pathetic naivete of the character he played. Sensing he was onto something, Chaplin shaped the role further in subsequent movies, rendering him more and more naive. The key was to make the character seem to see the world through the eyes of a child. In The Bank, he is the bank janitor who daydreams of great deeds while robbers are at work in the building; in The Pawnbroker, he is an unprepared shop assistant who wreaks havoc on a grandfather clock; in Shoulder Arms, he is a soldier in the bloody trenches of World War I, reacting to the horrors of war like an innocent child. Chaplin made sure to cast actors in his films who were physically larger than he was,subliminally positioning them as adult bullies and himself as the helpless infant. And as he went deeper into his character, something strange happened: the character and the real-life man began to merge. Although he had had a troubled childhood, he was obsessed with it. (For his film Easy Street he built a set in Hollywood that duplicated the London streets he had known as a boy.) He mistrusted the adult world, preferring the company of the young, or the young at heart: three of his four wives were teenagers when he married them. More than any other comedian, Chaplin aroused a mix of laughter and sentiment. He made you empathize with him as the victim, feel sorry for him the way you would for a lost dog. You both laughed and cried. And audiences sensed that the role Chaplin played came from somewhere deep inside-that he was sincere, that he was actually playing himself. Within a few years after Making a Living, Chaplin was the most famous actor in the world. There were Chaplin dolls, comic books, toys; popular songs and short stories were written about him; he became a universal icon. In 1921, when he returned to London for the first time since he had left it, he was greeted by enormous crowds, as if at the triumphant return of a great general. The greatest seducers, those who seduce mass audiences, nations,theworld,haveaway of playing on people's unconscious, making them react in a way they can neither understand nor control. Chaplin inadvertently hit on this power when he discovered the effect he could have on audiences by playing up his weakness, by suggesting that he had a child's mind in an adult body. In the early twentieth century, the world was radically and rapidly changing. People were working longer and longer hours at increasingly mechanicaljobs; life was becoming steadily more inhuman and heartless, as the ravages of World War I made clear. Caught in the midst of revolutionary change, people yearned for a lost childhood that they imagined as a golden paradise. An adult child like Chaplin has immense seductive power, for he offers the illusion that life was once simpler and easier, and that for a moment, or for as long as the movie lasts, you can win that life back. In a cruel, amoral world, naivete has enormous appeal. The key is to bring it off with an air of total seriousness, as the straight man does in stand-up comedy. More important, however, is the creation of sympathy. Overt strength and power is rarely seductive-it makes us afraid, or envious. The royal road to seduction is to play up your vulnerability and helplessness. You cannot make this obvious; to seem to be begging for sympathy is toseemneedy,whichisentirely anti-seductive. Do not proclaim yourself a victim or underdog, but reveal it in your manner, in your confusion. A display of "natural" weakness will make you instantly lovable, both lowering people's defenses and making them feel delightfully superior to you. Put yourself in situations that make you seem weak, in which someone else has the advantage; they are the bully, you are the innocent lamb. Without any effort on your part, people will feel sympathy for you. Once people's eyes cloud over with sentimental mist, they will not see how you are manipulating them. "Geographical" escapism has been rendered ineffective by the spread of air routes. What remains is "evolutionary" escapism - a downward course in one's development, back to the ideas and emotions of "golden childhood," which may well be defined as "regress towards infantilism," escape to a personal world of childish ideas. • In a strictly- regulated society, where life follows strictly-defined canons, the urge to escape from the chain of things "established once and for all" must be felt particularly strongly. And the most perfect of them [ comedians] does this with utmost perfection, for he [ Chaplin ] serves this principle . . . through the subtlety of his method which, offering the spectactor an infantile pattern to be imitated, pscyhologically infects him with infantilism and draws him into the "golden age" of the infantile paradise of childhood. EISENSTEIN, "CHARLIE THE KID," FROM NOTES OF A FILM DIRECTOR 2. Emma Crouch, born in 1842 in Plymouth, England, came from a respectable middle-class family. Her father was a composer and music professor who dreamed of success in the world of light opera. Among his many children, Emma was his favorite: she was a delightful child, lively and flirtatious, with red hair and a freckled face. Her father doted on her, and promised her a brilliant future in the theater. Unfortunately Mr. Crouch had a Prince Gortschakojf used to say that she [Cora Pearl] was the last word in luxury, and that he would have tried to steal the sun to satisfy one of her whims. -GUSTAVE CLAUDIN, CORA PEARL CONTEMPORARY Apparently the possession of humor implies the possession of a number of typical habit-systems. The first is an emotional one: the habit of playfulness. Why should one be proud of being playful? For a double reason. First, playfulness connotes childhood and youth. If one can be playful, one still possesses something of the vigor and the joy of young life ..." But there is a deeper implication. To be playful is, in a sense, to befree. When a person is playful, he momentarily disregards the bindingnecessities which compel him, in business and morals, in domestic and community life. What galls us is that the binding necessities do not permit us to shape our world as we please. What we most deeply desire, however, is to create our world for ourselves. Whenever we can do that, even in the slightest degree, we are happy. Now in play we create our own world. OVERSTREET, INFLUENCING HUMAN BEHAVIOR dark side: he was an adventurer, a gambler, and a rake, and in 1849 he abandoned his family and left for America. The Crouches were now in dire straits. Emma was told that her father had died in an accident and she was sent off to a convent. The loss of her father affected her deeply, and as the years went by she seemed lost in the past, acting as if he still doted on her. One day in 1856, when Emma was walking home from church, a well- dressed gentleman invited her home for some cakes. She followed him to his house, where he proceeded to take advantage of her. The next morning this man, a diamond merchant, promised to set her up in a house of her own, treat her well, and give her plenty of money. She took the money but left him, determined to do what she had always wanted: never see her family again, never depend on anyone, and lead the grand life that herfatherhadpromised her. With the money the diamond merchant had given her, Emma bought nice clothes and rented a cheap flat. Adopting the flamboyant name of Cora Pearl, she began to frequent London's Argyll Rooms, a fancy gin palace where harlots and gentlemen rubbed elbows. The proprietor of the Argyll, a Mr. Bignell, took note of this newcomer to his establishment- she was so brazen for a young girl. At forty-five, he was much older than she was, but he decided to be her lover and protector, lavishing her with money and attention. The following year he took her to Paris, which was at the height of its Second Empire prosperity. Cora was enthralled by Paris, and of all its sights, but what impressed her the most was the parade of rich coaches in the Bois de Boulogne. Here the fashionable came to take the air-the empress, the princesses, and, not least the grand courtesans, who had the most opulent carriages of all. This was the way to lead the kind of life Cora's father had wanted for her. She promptly told Bignell that when he went back to London, she would stay on alone. Frequenting all the right places, Cora soon came to the attention of wealthy French gentlemen. They would see her walking the streets in a bright pink dress, to complement her flaming red hair, pale face, and freckles. They would glimpse her riding wildly through the Bois de Boulogne, cracking her whip left and right. They would see her in cafes surrounded by men, her witty insults making them laugh. They also heard of her exploits-of her delight in showing her body to one and all. The elite of Paris society began to court her, particularly the older men who had grown tired of the cold and calculating courtesans, and who admired her girlish spirit. As money began to pour in from her various conquests (the Due de Mornay, heir to the Dutch throne; Prince Napoleon, cousin to the Emperor), Cora spent it on the most outrageous things-a multicolored carriage pulled by a team of cream-colored horses, a rose-marble bathtub with her initials inlaid in gold. Gentlemen vied to be the one who would spoil her the most. An Irish lover wasted his entire fortune on her, in only eight weeks. But money could not buy Cora's loyalty; she would leave a man on the slightest whim. Cora Pearl's wild behavior and disdain for etiquette had all of Paris on edge. In 1864, she was to appear as Cupid in the Offenbach operetta Orpheus in the Underworld. Society was dying to see what she would do to cause a sensation, and soon found out: she came on stage practically naked, except for expensive diamonds here and there, barely covering her. As she pranced on stage, the diamonds fell off, each one worth a fortune; she didnot stoop to pick them up, but let them roll off into the footlights. The gentlemen in the audience, some of whom had given her those diamonds, applauded her wildly. Antics like this made Cora the toast of Paris, and she reigned as the city's supreme courtesan for over a decade, until the Franco- Prussian War of 1870 put an end to the Second Empire. People often mistakenly believe that what makes a person desirable and seductive is physical beauty, elegance, or overt sexuality. Yet Cora Pearl was not dramatically beautiful; her body was boyish, and her style was garish and tasteless. Even so, the most dashing men of Europe vied for her favors, often ruining themselves in the process. It was Cora's spirit and attitude that enthralled them. Spoiled by her father, she imagined that spoiling her was natural-that all men should do the same. The consequence was that, like a child, she never felt she had to try to please. It was Cora's powerful air of independence that made men want to possess her, tame her. She never pretended to be anything more than a courtesan, so the brazenness that in a lady would have been uncivil in her seemed natural and fun. And as with a spoiled child, a man's relationship with her was on her terms. The moment he tried to change that, she lost interest. This was the secret of her astounding success. Spoiled children have an undeservedly bad reputation: while those who are spoiled with material things are indeed often insufferable, those who are spoiled with affection know themselves to be deeply seductive. This becomes a distinct advantage when they grow up. According to Freud (who was speaking from experience, since he was his mother's darling), spoiled children have a confidence that stays with them all their lives. This quality radiates outward, drawing others to them, and, in a circular process, making people spoil them still more. Since their spirit and natural energy were never tamed by a disciplining parent, as adults they are adventurous and bold, and often impish or brazen. The lesson is simple: it may be too late to be spoiled by a parent, but it is never too late to make other people spoil you. It is all in your attitude. People are drawn to those who expect a lot out of life, whereas they tend to disrespect those who are fearful and undemanding. Wild independence has a provocative effect on us: it appeals to us, while also presenting us with a challenge-we want to be the one to tame it, to make the spirited person dependent on us. Half of seduction is stirring such competitive desires. 3. In October of 1925, Paris society was all excited about the opening of the Revue Negre. Jazz, or in fact anything that came from black America, All was quiet again. (Genji slipped the latch open and tried the doors. They had not been bolted. A curtain had been set up just inside, and in the dim light he could make out Chinese chests and otherfurniture scattered in some disorder. He made his way through to her side. She lay by herself, a slight littlefigure. Though vaguely annoyed at being disturbed, she evidently took him forthe woman Chujo until he pulled back the covers. His manner was so gently persuasive thatdevils and demons could not have gainsaid him. She was so small that he lifted her easily. As he passed through the doors to his own room, he came upon Chujo who had been summoned earlier. He called out in surprise. Surprised in turn, Chujo peered into the darkness. The perfume that came from his robes like a cloud of smoke told her who he was. [Chujo] followed after, but Genji was quite unmoved by her pleas. • "Come for her in the morning," he said, sliding the doors closed. • The lady was bathed in perspiration and quite beside herself at the thought of what Chujo, and the others too, would be thinking. Genji had to feel sorry for her. Yet the sweet words poured forth, the whole gam ut of pretty devices for making a woman surrender. . . . • One may imagine that he found many kind promises with which to comfort her. SHIKIBUTHE TALE OF GENJI. SEIDENSTICKER was the latest fashion, and the Broadway dancers and performers who made up the Revue Negre were African-American. On opening night, artists and high society packed the hall. The show was spectacular, as they expected, but nothing prepared them for the last number, performed by a somewhat gawky long-legged woman with the prettiest face: Josephine Baker, a twenty-year-old chorus girl from East St. Louis. She came onstage bare-breasted, wearing a skirt of feathers over a satin bikini bottom, with feathers around her neck and ankles. Although she performed her number, called "Dame Sauvage," with another dancer, also clad in feathers, all eyes were riveted on her: her whole body seemed to come alive in a way the audience had never seen before, her legs moving with the litheness of a cat, her rear end gyrating in patterns that one critic likened to a hummingbird's. As the dance went on, she seemed possessed, feeding off the crowd's ecstatic reaction. And then there was the look on her face: she was having such fun. She radiated a joy that made her erotic dance oddly innocent, even slightly comic. By the following day, word had spread: a star was born. Josephine became the heart of the Revue Negre, and Paris was at her feet. Within a year, her facewas on posters everywhere; there were Josephine Baker perfumes, dolls, clothes; fashionable Frenchwomen were slicking their hair back a la Baker, using a product called Bakerfix. They were even trying to darken their skin. Such sudden fame represented quite a change, for just a few years earlier, Josephine had been a young girl growing up in East St. Louis, one of America's worst slums. She had gone to work at the age of eight, cleaning houses for a white woman who beat her. She had sometimes slept in a rat- infested basement; there had never been heat in the winter. (She had taught herself to dance in her wild fashion to help keep herself warm.) In 1919, Josephine had run away and become a part-time vaudeville performer, landing in New York two years later without money or connections. She had had some success as a clowning chorus girl, providing comic relief with her crossed eyes and screwed-up face, but she hadn't stood out. Then she was invited to Paris. Some other black performers had declined, fearing things might be still worse for them in France than in America, but Josephine jumped at the chance. Despite her success with the Revue Negre, Josephine did not delude herself: Parisians were notoriously fickle. She decided to turn the relationship around. First, she refused to be aligned with any club, and developed a reputation for breaking contracts at will, making it clear that she was ready to leave in an instant. Since childhood she had been afraid of dependenceon anyone; now no one could take her for granted. This only made impresarios chase her and the public appreciate her the more. Second, she was aware that although black culture had become the vogue, what the French had fallen in love with was a kind of caricature. If that was what it took to be successful, so be it, but Josephine made it clear that she did not take the caricature seriously; instead she reversed it, becoming the ultimate Frenchwoman of fashion, a caricature not of blackness but of whiteness. Everything was a role to play-the comedienne, the primitive dancer, the ultrastylish Parisian. And everything Josephine did, she did with such a light spirit, such a lack of pretension, that she continued to seduce the jaded French for years. Her funeral, in 1975, was nationally televised, a huge cultural event. She was buried with the kind of pomp normally reserved only for heads of state. From very early on, Josephine Baker could not stand the feeling of having no control over the world. Yet what could she do in the face of her unpromising circumstances? Some young girls put all their hopes on a husband, but Josephine's father had left her mother soon after she was born,and she saw marriage as something that would only make her more miserable. Her solution was something children often do: confronted with a hopeless environment, she closed herself off in a world of her own making, oblivious to the ugliness around her. This world was filled with dancing, clowning, dreams of great things. Let other people wail and moan; Josephine would smile, remain confident and self-reliant. Almost everyone who met her, from her earliest years to her last, commented on how seductive this quality was. Her refusal to compromise, or to be what she was expected to be, made everything she did seem authentic and natural. A child loves to play, and to create a little self-contained world. When children are absorbed in make believe, they are hopelessly charming. They infuse their imaginings with such seriousness and feeling. Adult Naturals do something similar, particularly if they are artists: they create their own fantasy world, and live in it as if it were the real one. Fantasy is so much more pleasant than reality, and since most people do not have the power or courage to create such a world, they enjoy being around those who do. Remember: the role you were given in life is not the role you have to accept. You can always live out a role of your own creation, a role that fits your fantasy. Learn to playwithyourimage,nevertaking it too seriously. The key is to infuse your play with the conviction and feeling of a child, making it seem natural. The more absorbed you seem in your ownjoy-filled world, the more seductive you become. Do not go halfway: make the fantasy you inhabit as radical and exotic as possible, and you will attract attention like a magnet. 4. It was the Festival of the Cherry Blossom at the Heian court, in late- tenth-century Japan. In the emperor's palace, many of the courtiers were drunk, and others were fast asleep, but the young princess Oborozukiyo, the emperor's sister-in-law, was awake and reciting a poem: "What can compare with a misty moon of spring?" Her voice was smooth and delicate. She moved to the door of her apartment to look at the moon. Then, suddenly, she smelled something sweet, and a hand clutched the sleeve of her robe. "Who are you?" she said, frightened. "There is nothing to be afraid of," came a man's voice, and continued with a poem of his own: "Late in the night we enjoy a misty moon. There is nothing misty about the bond between us." Without another word, the man pulled the princess to him and picked her up, carrying her into a gallery outside her room, sliding the door closed behind him. She was terrified, and tried to call for help. In the darkness she heard him say, a little louder now, "Itwilldo you no good. I am always allowed my way. Just be quiet, if you will, please." Now the princess recognized the voice, and the scent: it was Genji, the young son of the late emperor's concubine, whose robes bore a distinctive perfume. This calmed her somewhat, since the man was someone she knew, but on the other hand she also knew of his reputation: Genji was the court's most incorrigible seducer, a man who stopped at nothing. He was drunk, it was near dawn, and the watchmen would soon be on their rounds; she did not want to be discovered with him. But then she began to make out the outlines of his face-so pretty, his look so sincere, without a trace of malice. Then came more poems, recited in that charming voice,the words so insinuating. The images he conjured filled her mind, and distracted her from his hands. She could not resist him. As the light began to rise, Genji got to his feet. He said a few tender words, they exchanged fans, and then he quickly left. The serving women were coming through the emperor's rooms by now, and when they saw Genji scurrying away, the perfume of his robes lingering after him, they smiled, knowing he was up to his usual tricks; but they never imagined he would dare approach the sister of the emperor's wife. In the days that followed, OborozukiyocouldonlythinkofGenji.She knew he had other mistresses, but when she tried to put him out of her mind, a letter from him would arrive, and she would be back to square one. In truth, she had started the correspondence, haunted by his midnight visit. She had to see him again. Despite the risk of discovery, and the fact that her sister Kokiden, the emperor's wife, hated Genji, she arranged for further trysts in her apartment. But one night an envious courtier found them together. Word reached Kokiden, who naturally was furious. She demanded that Genji be banished from court and the emperor had no choice but to agree. Genji went far away, and things settled down. Then the emperor died and his son took over. A kind of emptiness had come to the court: the dozens of women whom Genji had seduced could not endure his absence, and flooded him with letters. Even women who had never known him intimately would weep over any relic he had left behind-a robe, for instance, in which his scent still lingered. And the young emperor missed his jocular presence. And the princesses missed the music he had played on the koto. And Oborozukiyo pined for his midnight visits. Finally even Kokiden broke down, realizing that she could not resist him. So Genji was summoned back to the court. And not only was he forgiven, he was given a hero's welcome; the young emperor himself greeted the scoundrel with tears in his eyes. The story of Genji's life is told in the eleventh-century novel The Tale of Genji, written by Murasaki Shikibu, a woman of the Heian court. The character was most likely based on a real-life man, Fujiwara no Korechika. Indeed another book of the period. The Pillow Book of Sei Shonagon, describes an encounter between the female author and Korechika, and reveals his incredible charm and his almost hypnotic effect on women. Genji is a Natural, an undefensive lover, a man who has a lifelong obsession with women but whose appreciation of and affection for them makes him irresistible. As he says to Oborozukiyo in the novel, "I am always allowed my way." This self-belief is half of Genji's charm. Resistance does not make him defensive; he retreats gracefully, reciting a little poetry, and as he leaves, the perfume of his robes trailing behind him, his victim wonders why she has been so afraid, and what she is missing by spurning him, and she finds a way to let him know that the next time things will be different. Genji takes nothing seriously or personally, and at the age of forty, an age at which most men of the eleventh century were already looking old and worn, he still seems like a boy. His seductive powers never leave him. Human beings are immenselysuggestible;theirmoods will easily spread to the people around them. In fact seduction depends on mimesis, on the conscious creation of a mood or feeling that is then reproduced by the other person. But hesitation and awkwardness are also contagious, and are deadly to seduction. If in a key moment you seem indecisive or self- conscious, the other person will sense that you are thinking of yourself, instead of being overwhelmed by his or her charms. The spell will be broken. As an undefensive lover, though, you produce the opposite effect: your victim might be hesitant or worried, but confronted with someone so sure and natural, he or she will be caught up in the mood. Like dancing with someone you lead effortlessly across the dance floor, it is a skill you can leam. It is a matter of rooting out the fear and awkwardness that have built up in you over the years, of becoming more graceful with your approach, less defensive when others seem to resist. Often people's resistance is a way of testing you, and if you show any awkwardness or hesitation, you not only will fail the test, but you will risk infecting them with your doubts. Symbol: The Lamb. So soft and endearing. At two days old the lamb can gambol gracefully; within a week it is playing "Follow the Leader." Its weakness is part of its charm. The Lamb is pure innocence, so innocent we want to possess it, even devour it. Dangers A childish quality can be charming but it can also be irritating; the innocent have no experience of the world, and their sweetness can prove cloying. In Milan Kundera's novel The Book of Laughter and Forgetting, the hero dreams that he is trapped on an island with a group of children. Soon their wonderful qualities become intensely annoying to him; after a few days of exposure to them he cannot relate to them at all. The dream turns into a nightmare, and he longs to be back among adults, with real things to do and talk about. Because total childishness can quickly grate, the most seductive Naturals are those who, like Josephine Baker, combine adult experience and wisdom with a childlike manner. It is this mixture of qualities that is most alluring. Society cannot tolerate too many Naturals. Given a crowd of Cora Pearls or Charlie Chaplins, their charm would quickly wear off. In any case it is usually only artists, or people with abundant leisure time, who can afford to go all the way. The best way to use the Natural character type is in specific situations when a touch of innocence or impishness will help lower your target's defenses. A con man plays dumb to make the other person trust him and feel superior. This kind of feigned naturalness has countless applications in daily life, where nothing is more dangerous than looking smarter than the next person; the Natural pose is the perfect way to disguise your cleverness. But if you are uncontrollably childish and cannot turn it off, you run the risk of seeming pathetic, earning not sympathy but pity and disgust. Similarly, the seductive traits of the Natural work best in one who is still young enough for them to seem natural. They are much harder for an older person to pull off. Cora Pearl did not seem so charming when she was still wearing her pink flouncy dresses in her fifties. The Duke of Buckingham, who seduced everyone in the English court in the 1620s (including the homosexual King James I himself), was wondrously childish in looks and manner; but this became obnoxious and off-putting as he grew older, and he eventually made enough enemies that he ended up being murdered. As you age, then, your natural qualities should suggest more the child's open spirit, less an innocence that will no longer convince anyone. the Coquette The ability to delay satisfaction is the ultimate art of seduction-while waiting, the victim is held in thrall. Coquettes are the grand masters of this game, orchestrating a back-and-forth movement between hope and frustration. They bait with the promise of reward-the hope of physical pleasure, happiness, fame by association, power-all ofwhich,however,proves elusive; yet this only makes their targets pursue them the more. Coquettes seem totally self-sufficient: they do not need you, they seem to say, and their narcissism proves devilishly attractive. You want to conquer them but they hold the cards. The strategy of the Coquette is never to offer total satisfaction. Imitate the alternating heat and coolness of the Coquette and you will keep the seduced at your heels. The Hot and Cold Coquette I n the autumn of 1795, Paris was caught up in a strange giddiness. The Reign of Terror that had followed the French Revolution had ended; the sound of the guillotine was gone. The city breathed a collective sigh of relief, and gave way to wild parties and endless festivals. The young Napoleon Bonaparte, twenty-six at the time, had no interest in such revelries. He had made a name for himself as a bright, audacious general who had helped quell rebellion in the provinces, but his ambition was boundless and he burned with desire for new conquests. So when, in October of that year, the infamous thirty-three-year-old widow Josephine de Beauhamais visited his offices, he couldn't help but be confused. Josephine was so exotic, and everything about her was languorous and sensual. (She capitalized on her foreignness-she came from the island of Martinique.)Ontheotherhandshehadareputationasaloose woman, and the shy Napoleon believed in marriage. Even so, when Josephine invited him to one of her weekly soirees, he found himself accepting. At the soiree he felt totally out of his element. All of the city's great writers and wits were there, as well as the few of the nobility who had survived-Josephine herself was a vicomtesse, and had narrowly escaped the guillotine. The women were dazzling, some of them more beautiful than the hostess, but all the men congregated around Josephine, drawn by her graceful presence and queenly manner. Several times she left the men behind and went to Napoleon's side; nothing could have flattered his insecure ego more than such attention. He began to pay her visits. Sometimes she would ignore him, and he would leave in a fit of anger. Yet the next day a passionate letter would arrive from Josephine, and he would rush to see her. Soon he was spending most of his time with her. Her occasional shows of sadness, her bouts of anger or of tears, only deepened his attachment. In March of 1796, Napoleon married Josephine. Two days after his wedding, Napoleon left to lead a campaign in northern Italy against the Austrians. "You are the constant object of my thoughts," he wrote to his wife from abroad. "My imagination exhausts itself in guessing what you are doing." His generals saw him distracted: hewould leave meetings early, spend hours writing letters, or stare at the miniature of Josephine he wore around his neck. He had been driven to this state by the unbearable distance between them and by a slight coldness he now detected There are indeed men who are attached more by resistance than by yielding and who unwittingly prefer a variable sky, now splendid, now black and vexed by lightnings, to love's unclouded blue. Let us not forget that Josephine had to deal with a conqueror and that love resembles war. She did not surrender, she let herself be conquered. Had she been more tender, more attentive, more loving, perhaps Bonaparte would have loved her less. -IMBERT DE SAINT-AMAND, QUOTED IN THE EMPRESS JOSEPHINE: NAPOLEON'S ENCHANTRESS. SERGEANT Coquettes know how to please; not how to love, which is why men love them so much. -PIERRE MARIVAUX An absence, the declining of an invitation to dinner, an unintentional, unconscious harshness are of more service than all the cosmetics and fine clothes in the world. -MARCEL PROUST There's also nightly, to the unintiated, \ A peril-not indeed like love or marriage, \ But not the less for this to he depreciated: \ It is-I meant and mean not to disparage \ The show of virtue even in the vitiated - \ Itaddsanoutwardgraceuntotheircarriage - \ But to denounce the amphibious sort of harlot, \ Couleur de rose, who's neither white nor scarlet. \ Such is your cold coquette, who can't say say "no," \And won't say "yes," and keeps you on- and off-ing \ On a lee shore, till it begins to blow - \ Then sees your heart wreck'd with an in her-she wrote infrequently, and her letters lacked passion; nor did she join him in Italy. He had to finish his war fast, so that he could return to her side. Engaging the enemy with unusual zeal, he began to make mistakes. "To live for Josephine!" he wrote to her. "I work to get near you; I kill myself to reach you." His letters became more passionate and erotic; a friend of Josephine's who saw them wrote, "The handwriting [was] almost indecipherable, the spelling shaky, the style bizarre and confused .... What a position for a woman to find herself in-being the motivating force behind the triumphal march of an entire army." Months went by in which Napoleon begged Josephine to come to Italy and she made endless excuses. But finally she agreed to come, and left Paris for Brescia, where he was headquartered. A near encounter with the enemy along the way, however, forced her to detour to Milan. Napoleon was away from Brescia, in battle; when he returned to find her still absent, he blamed his foe GeneralWiirmser and swore revenge. For the next few months he seemed to pursue two targets with equal energy: Wiirmser and Josephine. His wife was never where she was supposed to be: "I reach Milan, rush to your house, having thrown aside everything in order to clasp you in my arms. You are not there!" Napoleon would turn angry and jealous, but when he finally caught up with Josephine, the slightest of her favors melted his heart. He took long rides with her in a darkened carriage, while his generals fumed-meetings were missed, orders and strategies improvised. "Never," he later wrote to her, "has a woman been in such complete mastery of another's heart." And yet their time together was so short. During a campaign that lasted almost a year, Napoleon spent a mere fifteen nights with his new bride. inward scoffing. \ This works a world of sentimental woe, \ And sends new Werters yearly to the coffin; \ But yet is merely innocent flirtation, \ Not quite adultery, but adulteration. -LORD BYRON, THE COLD COQUETTE Napoleon later heard rumors that Josephine had taken a lover while he was in Italy. His feelings toward her cooled, and he himself took an endless series of mistresses. Yet Josephine was never really concerned about this threat to her power over her husband; a few tears, some theatrics, a little coldness on her part,andheremained her slave. In 1804, he had her crowned empress, and had she born him a son, she would have remained empress to the end. When Napoleon lay on his deathbed, the last word he uttered was "Josephine." There is a way to represent one's cause and in doing so to treat the audience in such a cool and condescending manner that they are bound to notice one is not doing it to please them. The principle should always be not to makeconcessions to those who don't have anything to give but who have everything to gain from us. We can wait During the French Revolution, Josephine had come within minutes of losing her head on the guillotine. The experience left her without illusions, and with two goals in mind: to live a life of pleasure, and to find the man who could best supply it. She set her sights on Napoleon early on. He was young, and had a brilliant future. Beneath his calm exterior, Josephine sensed, he was highly emotional and aggressive, but this did not intimidate her-it only revealed his insecurity and weakness. He would be easy to enslave. First, Josephine adapted to his moods, charmed him with her feminine grace, warmed him with her looks and manner. He wanted to possess her. And once she had aroused this desire, her power lay in postponing its satisfaction, withdrawing from him, frustrating him. In fact thetortureofthechasegave Napoleon a masochistic pleasure. He yearned to subdue her independent spirit, as if she were an enemy in battle. People are inherently perverse. An easy conquest has a lower value than a difficult one; we are only really excited by what is denied us, by what we cannot possess in full. Your greatest power in seduction is your ability to turn away, to make others come after you, delaying their satisfaction. Most people miscalculate and surrender too soon, worried that the other person will lose interest, or that giving the other what he or she wants will grant the giver a kind of power. The truth is the opposite: once you satisfy someone, you no longer have the initiative, and you open yourself to the possibility that he or she will lose interest at the slightest whim. Remember: vanity is critical in love. Make your targets afraid that you may be withdrawing, that you may not really be interested, and you arouse their innate insecurity, their fear that as you have gotten to know them they have become less exciting to you. These insecurities are devastating. Then, once you have made them uncertain of you and of themselves, reignite their hope, making them feel desired again. Hot and cold, hot and cold-such coquetry is perversely pleasurable, heightening interest and keeping the initiative on your side. Never be put off by your target's anger; it is a sure sign of enslavement. She who would long retain her power must use her lover ill. -OVID The Cold Coquette I n 1952, the writer Truman Capote, a recent success in literary and social circles, began to receive an almost daily barrage of fan mail from a young man named Andy Warhol. An illustrator for shoe designers, fashion magazines, and the like, Warhol made pretty, stylized drawings, some of which he sent to Capote, hoping the author would include them in one of his books. Capote did not respond. One day he came home to find Warhol talking to his mother, with whom Capote lived. And Warhol began to telephone almost daily. Finally Capote put an end to all this: "He seemed one of those hopeless people that you just know nothing's ever going to happen to. Just a hopeless, born loser," the writer later said. Ten years later, Andy Warhol, aspiring artist, had his first one-man show at the Stable Gallery in Manhattan. On the walls were a series of silkscreened paintings based on the Campbell's soup can and the Coca-Cola bottle. At the opening and at the party afterward, Warhol stood to the side, staring blankly, talking little. What a contrast he was to the older generation of artists, the abstract expressionists-mostly hard-drinking womanizers full of bluster and aggression, big talkers who had dominated the art scene for theprevious fifteen years. And what a change from the Warhol who had badgered Capote, and art dealers and patrons as well. The critics were both until they are begging on their knees even if it takes a very long time. -FREUD, IN A LETTER TO A PUPIL, QUOTED IN PAUL ROAZEN, FREUD AND HIS FOLLOWERS When her time was come, that nymph most fair broughtforth a child with whom one could have fallen in love even in his cradle, and she called him Narcissus. Cephisus's child had reached his sixteenth year, and could be counted as at once boy and man. Many lads and many girls fell in love with him, but his soft young body housed a pride so unyielding that none of those boys or girls dared to touch him. One day, as he was driving timid deer into his nets, he was seen by that talkative nymph who cannot stay silent when another speaks, but yet has not learned to speak first herself. Her name is Echo, and she always answers back. So when she saw Narcissus wandering through the lonely countryside, Echo fell in love with him and followed secretly in his steps. The more closely she followed, the nearer was the fire which scorched her: just as sulphur, smeared round the tops of torches, is quickly kindled when aflame is brought near it. How often she wished to make flattering overtures to him,to approach him with tender pleas! • The boy, by chance, had wandered away from his faithful band of comrades, and he called out: "Is there anybody here?" Echo answered: "Here!" Narcissus stood still in astonishment. looking round in every direction. He looked behind him, and when no one appeared, cried again: "Why are you avoiding me?" But all he heard were his own words echoed back. Still he persisted, deceived by what he took to be another's voice, and said, "Come here, and let us meet!" Echo answered: "Let us meet!" Never again would she reply more willingly to any sound. To make good her words she came out of the wood and made to throw her arms round the neck she loved: but he fled from her, crying as he did so, "Away with these embraces! I would die before I would have you touch me!" Thus scorned, she concealed herself in the woods, hiding her shamedface in the shelter of the leaves, and ever since that day she dwells in lonely caves. Yet still her love remained firmly rooted in her heart, and was increased by the pain of having been rejected. Narcissus had played with her affections, treating her as he had previously treated other spirits of the waters and the woods, and his male admirers too. Then one of those he had scorned raised up his hands to heaven and prayed: "May he himselffall in lovewith another, as we have done with him! May he too be unable to gain his loved one!" Nemesis heard and granted his righteous prayer. Narcissus, wearied with hunting in the heat of the day, lay down here [by a clear pool]: for he was attracted by the beauty of the place, and by the spring. While he sought to quench his thirst, another thirst grew baffled and intrigued by the coldness of Warhol's work; they could not figure out how the artist felt about his subjects. What was his position? What was he trying to say? When they asked, he would simply reply, "I just do it because I like it," or, "I love soup." The critics went wild with their interpretations: "An art like Warhol's is necessarily parasitic upon the myths of its time," one wrote; another, "The decision not to decide is a paradox that is equal to an idea which expresses nothing but then gives it dimension." The show was a huge success, establishing Warhol as a leading figure in a new movement, pop art. In 1963, Warhol rented a large Manhattan loft space that he called the Factory, and that soon became the hub of a large entourage-hangers-on, actors, aspiring artists. Here, particularly at night, Warhol would simply wander about, or stand in a corner. People would gather around him, fight for his attention, throw questions at him, and he would answer, in his noncommittal way. But no one could get close to him, physically or mentally; he would not allow it. At the same time, if he walked by you without giving you his usual "Oh, hi," you were devastated. He hadn't noticed you; perhaps you were on the way out. Increasingly interested in filmmaking, Warhol cast his friends in his movies. In effect he was offering them a kind of instant celebrity (their "fifteen minutes of fame"-the phrase is Warhol's). Soon people were competing for roles. He groomed women in particular for stardom; Edie Sedgwick, Viva, Nico. Just being around him offered a kind of celebrity by association. The Factory became the place to be seen, and stars like Judy Garland and Tennessee Williams would go to parties there, rubbing elbows with Sedgwick, Viva, and the bohemian lower echelons whom Warhol had befriended. People began sending limos to bring him to parties of their own; his presence alone was enough to turn a social evening into a scene- even though he would pass through in near silence, keeping to himself and leaving early. In 1967, Warhol was asked to lecture at various colleges. He hated to talk, particularly about his own art; "The less something has to say," he felt, "the more perfect it is." But the money was good and Warhol always found it hard to say no. His solution was simple; he asked an actor, AllenMidgette, to impersonate him. Midgette was dark-haired, tan, part Cherokee Indian. He did not resemble Warhol in the least. But Warhol and friends covered his face with powder, sprayed his brown hair silver, gave him dark glasses, and dressed him in Warhol's clothes. Since Midgette knew nothing about art, his answers to students' questions tended to be as short and enigmatic as Warhol's own. The impersonation worked. Warhol may have been an icon, but no one really knew him, and since he often wore dark glasses, even his face was unfamiliar in any detail. The lecture audiences were far enough away to be teased by the thought of his presence, and no one got dose enough to catch the deception. He remained elusive. Early on in life, Andy Warhol was plagued by conflicting emotions: he desperately wanted fame, but he was naturally passive and shy "I've always had a conflict," he later said, "because I'm shy and yet I like to take up a lot of personal space. Mom always said, 'Don't be pushy, but let everyone know you're around.' " At first Warhol tried to make himself more aggressive, straining to please and court. It didn't work. After ten futile years he stopped trying and gave in to his own passivity-only to discover the power that withdrawal commands. Warhol began this process inhisartwork,whichchangeddramaticallyintheearly1960s.His new paintings of soup cans, green stamps, and other widely known images did not assault you with meaning; in fact their meaning was totally elusive, which only heightened their fascination. They drew you in by their immediacy, their visual power, their coldness. Having transformed his art, Warhol also transformed himself: like his paintings, he became pure surface. He trained himself to hold himself back, to stop talking. The world is full of people who try, people who impose themselves aggressively. They may gain temporary victories, but the longer they are around, the more people want to confound them. They leave no space around themselves, and without space there can be no seduction. Cold Coquettes create space by remaining elusive and making others pursue them. Their coolness suggests a comfortable confidence that is exciting to be around, even though it may not actually exist; their silence makes you want to talk. Their self-containment, their appearance of having no need for other people, only makes us want to do things for them, hungry for the slightest sign of recognition and favor. Cold Coquettes may be maddening to deal with-never committing but never saying no, never allowing closeness-but more often than not we find ourselves coming back to them, addicted to the coldness they project. Remember; seduction is a process of drawing people in, making them want to pursue and possess you. Seem distant and people will go mad to win your favor. Humans, like nature, hate a vacuum, and emotional distance and silence make them strain to fill up the empty space with words and heat of their own. Like Warhol, stand back and let them fight over you. [Narcissistic] women have the greatest fascination for men. The charm of a child lies to a great extent in his narcissism, his self-sufficiency and inaccessibility, just as does the charm of certain animals which seem not to concern themselves about us, such as cats. ... It is as if we envied them their power of retaining a blissful state of mind-an unassailable libido-position which we ourselves have since abandoned. FREUD in him, and as he drank, he was enchanted by the beautiful reflection that he saw. He fell in love with an insubstantial hope, mistaking a mere shadow for a real body. Spellbound by his own self, he remained there motionless, with fixed gaze, like a statue carved from Parian marble. Unwittingly, he desired himself, and was himself the object of his own approval, at once seeking and sought, himself kindling the flame with which he burned. How often did he vainly kiss the treacherous pool, how often plunge his arms deep in the waters, as he tried to clasp the neck he saw! But he could not lay hold upon himself. He did not know what he was looking at, but was fired by the sight, and excited by the very illusion that deceived his eyes. Poor foolish boy, why vainly grasp at the fleeting image that eludes you? The thing you are seeking does not exist: only turn aside and you will lose what you love. What you see is but the shadow cast by your reflection; in itself it is nothing. It comes with you, and lasts while you are there; it will go when you go, if go you can. He laid down his weary head on the green grass, and death closed the eyes which so admired their owner's beauty. Even then, when he was received into the abode of the dead, he kept looking at himself in the waters of the Styx. His sisters, the nymphs of the spring, mourned for him, and cut off their hair in tribute to their brother. The wood nymphs mourned him too, and Echo sang her refrain to their lament. The pyre, the tossing torches, and the bier, were now being prepared, but his body was nowhere to be found. Instead of his corpse, they discovered a flower with a circle of white petals round a yellow centre. - OVID .METAMORPHOSES, INNES Selfishness is one of the qualities apt to inspire love. -NATHANIEL HAWTHORNE The Socrates whom you see has a tendency to fall in love with good-looking young men, and is always in their society and in an ecstasy about them...but once you see beneath the surface you will discover a degree of self-control of which you can hardly form a notion, gentlemen. He spends his whole life pretending and playing with people, and I doubt whether anyone has ever seen the treasures which are revealed when he grows serious and exposes what he keeps inside. Believing that he was serious in his admiration of my charms, I supposed that a wonderful piece ofgood luck had befallen me; I should now be able, in return for my favours, to find out all that Socrates knew; for you must know that there was no limit to the pride that I felt in my good looks. With this end in view I sent away my attendant, whom hitherto I had always kept with me in my encounters with Socrates, and left myself alone with him. I must tell you the whole truth; attend carefully, and do you, Keys to the Character A ccording to the popular concept, Coquettes are consummate teases, experts at arousing desire through a provocative appearance or an alluring attitude. But the real essence of Coquettes is in fact their ability to trap people emotionally, and to keep their victims in their clutches long after that first titillation of desire. This is the skill that puts them in the ranks of the most effective seducers. Their success may seem somewhat odd, since they are essentially cold and distant creatures; should you ever get to know one well, you will sense his or her inner core of detachment and self- love. It may seem logical that once you become aware of this quality you will see through the Coquette's manipulations and lose interest, but more often we see the opposite. After years of Josephine's coquettish games, Napoleon was well aware of how manipulative she was. Yet this conqueror of kingdoms, this skeptic and cynic, could not leave her. To understand the peculiar power of the Coquette, you must first understand a critical property of love and desire: the more obviously you pursue a person, the more likely you are to chase them away. Too much attention can be interesting for a while, but it soon grows cloying and finally becomes claustrophobic and frightening. It signals weakness and neediness, an unseductive combination. How often we make this mistake, thinking our persistent presence will reassure. But Coquettes have an inherent understanding of this particular dynamic. Masters of selective withdrawal, they hint at coldness, absenting themselves at times to keep their victim off balance, surprised, intrigued. Their withdrawals make them mysterious, and we build them up in our imaginations. (Familiarity, on the other hand, undermines what we have built.) A bout of distance engages the emotions further; instead of making us angry, it makes us insecure. Perhaps they don't really like us, perhaps we have lost their interest. Once our vanity is at stake, we succumb to the Coquette just to prove we are still desirable. Remember: the essence of the Coquette lies not in the tease and temptation but in the subsequent step back, the emotional withdrawal. That is the key to enslaving desire. To adopt the power of the Coquette, you must understand one other quality: narcissism. Sigmund Freud characterized the "narcissistic woman" (most often obsessed with her appearance) as the type with the greatest effect on men. As children, he explains, we pass through a narcissistic phase that is immensely pleasurable. Happily self-contained and self-involved, we have little psychic need of other people. Then, slowly, we are socialized and taught to pay attention to others-but we secretly yearn for those blissful early days. The narcissistic woman reminds a man of that period, and makes him envious. Perhaps contact with her will restore that feeling of selfinvolvement. A man is also challenged by the female Coquette's independence-he wants to be the one to make her dependent, to burst her bubble. It is far more likely, though, that he will end up becoming her slave, givingher incessant attention to gain her love, and failing. For the narcissistic woman is not emotionally needy; she is self-sufficient. And this is surprisingly seductive. Self-esteem is critical in seduction. (Your attitude toward yourself is read by the other person in subtle and unconscious ways.) Low self-esteem repels, confidence and self-sufficiency attract. The less you seem to need other people, the more likely others will be drawn to you. Understand the importance of this in all relationships and you will find your neediness easier to suppress. But do not confuse self-absorption with seductive narcissism. Talking endlessly about yourself is eminently anti-seductive, revealing not self-sufficiency but insecurity. The Coquette is traditionally thought of as female, and certainly the strategy was for centuries one of the few weapons women had to engage and enslave a man's desire. One ploy of the Coquette is the withdrawal of sexual favors, and we see women using this trick throughout history: the great seventeenth-century French courtesan Ninon de l'Enclos was desired by all the preeminent men of France, but only attained real power when she made it clear that she would no longer sleep with a man as part of her duty. This drove her admirers to despair, which she knew how to make worse by favoring a man temporarily, granting him access to her body for a few months, then returning him to the pack of the unsatisfied. Queen Elizabeth I of England took coquettishness to the extreme, deliberately arousing the desires of her courtiers but sleeping with none of them. Long a tool of social power for women, coquettishness was slowly adapted by men, particularly the great seducers of the seventeenth and eighteenth centuries who envied the power of such women. One seventeenth-century seducer, the Due de Lauzun, was a master at exciting a woman, then suddenly acting aloof. Women went wild over him. Today, coquetry is genderless. In a world that discourages direct confrontation, teasing, coldness, and selective aloofness are a form of indirect power that brilliantly disguises its own aggression. The Coquette must first and foremost be able to excite the target of his or her attention. The attraction can be sexual, the lure of celebrity, whatever it takes. At the same time, the Coquette sends contrary signals that stimulate contrary responses, plunging the victim into confusion. The eponymous heroine of Marivaux's eighteenth-century French novel Marianne is the consummate Coquette. Going to church, she dresses tastefully, but leaves her hair slightly uncombed. In the middle of the service she seems to notice this error and starts to fix it, revealing her bare arm as she does so; such things were not to be seen in an eighteenth-century church, and all male eyes fix on her for that moment. The tension is much more powerful than if she were outside, or were tartily dressed. Remember: obvious flirting will reveal your intentions too clearly. Better to be ambiguous and even contradictory, frustrating at the same time that you stimulate. The great spiritual leader liddu Krishnamurti was an unconscious coquette. Revered by theosophists as their "World Teacher," Krishnamurti was also a dandy. He loved elegant clothing and was devilishly handsome. At the Socrates, pull me up if anything I say is false. I allowed myself to be alone with him, I say, gentlemen, and I naturally supposed that he would embark on conversation of the type that a lover usually addresses to his darling when they are tete-a-tete, and I was glad. Nothing of the kind; he spent the day with me in the sort of talk which is habitual with him, and then left me and went away. Next I invited him to train with me in the gymnasium, and I accompanied him there, believing that I should succeed with him now. He took exercise and wrestled with me frequently, with no one else present, but I need hardly say that I was no nearer my goal. Finding that this was no good either, I resolved to make a direct assault on him, and not to give up what I had onceundertaken;I felt that I must get to the bottom of the matter. So I invited him to dine with me, behaving just like a lover who has designs upon his favourite. He was in no hurry to accept this invitation, but at last he agreed to come. The first time he came he rose to go away immediately after dinner, and on that occasion I was ashamed and let him go. But I returned to the attack, and this time I kept him in conversation after dinnerfar into the night, and then, when he wanted to be going, I compelled him to stay, on the plea that it was too late for him to go. • So he betook himself to rest, using as a bed the couch on which he had reclined at dinner, next to mine, and there was nobody sleeping in the room but ourselves. •... I swear by all the gods in heaven thatfor anything that had happened between us when I got up after sleeping with Socrates, I might have been sleeping with my father or elder brother. • What do you suppose to have been my state of mind after that? On the one hand 1 same time, he practiced celibacy, and had a horror of being touched. In 1929 he shocked theosophists around the world by proclaiming that he was not a god or even a guru, and did not want any followers. This only heightened his appeal: women fell in love with him in great numbers, and his advisers grew even more devoted. Physically and psychologically, Krishnamurti was sending contrary signals. While preaching a generalized love and acceptance, in his personal life he pushed people away His attractiveness and his obsession with his appearance might have gained him attention but by themselves would not have made women fall in love with him; his lessons of realized that I had been slighted, but on the other I felt a reverence for Socrates' character, his self-control and couragehe result was that I could neither bring myself to be angry with him and tear myself away from his society, nor find a way of subduing him to my will. ... I was utterly disconcerted, and wandered about in a state celibacy and spiritual virtue would have created disciples but not physical love. The combination of these traits, however, both drew people in and frustrated them, a coquettish dynamic that created an emotional and physical attachment to a man who shunned such things. His withdrawal from the world had the effect of only heightening the devotion of his followers. Coquetry depends on developing a pattern to keep the other person off balance. The strategy is extremely effective. Experiencing a pleasure once, we yearn to repeat it; so the Coquette gives us pleasure, then withdraws it.The alternation of heat and cold is the most commonpattern,andhasseveralvariations.TheeighthcenturyChineseCoquetteYang Kuei-Fei to- of enslavement to the man tally enslaved the Emperor Ming Huang through a pattern of kindness and the like of which has never bitterness: having charmed him with kindness, she would suddenly get angry, blaming him harshly for the slightest mistake. Unable to live without alcibiades, quoted in ^ p] easure s b e gave him, the emperor would turn the court upside down PLATO, THE SYMPOSIUM to please her when she was angry or upset. Her tears had a similar effect: what had he done, why was she so sad? He eventually ruined himself and his kingdom trying to keep her happy. Tears, anger, and the production of guilt are all the tools of the Coquette. A similar dynamic appears in a lover's quarrel: when a couple fights, then reconciles, the joys of reconciliation only make the attachment stronger. Sadness of any sort is also seductive, particularly if it seems deep-rooted, even spiritual, rather than needy or pathetic-it makes people come to you. Coquettes are never jealous-that would undermine their image of fundamental self-sufficiency. But they are masters at inciting jealousy: by paying attention to a third party, creating a triangle of desire, they signal to their victims that they may not be that interested. This triangulation is extremely seductive, in social contexts as well as erotic ones. Interested in narcissistic women, Freud was a narcissist himself, and his aloofness drove his disciples crazy. (They even had a name for it-his "god complex.") Behaving like a kind of messiah, too lofty for petty emotions, Freud always maintained a distance between himself and his students, hardly ever inviting them over for dinner, say, and keeping his private life shrouded in mystery. Yet he would occasionally choose an acolyte to confide in-Carl Jung, Otto Rank, Lou Andreas-Salome. The result was that his disciples went berserk trying to win his favor, to be the one he chose. Their jealousy when he suddenly favored one of them only increased his power over them. People's natural insecurities are heightened in group settings; by maintaining aloofness, Coquettes start a competition to win their favor. If the ability to use third parties to make targets jealous is a critical seductive skill, Sigmund Freud was a grand Coquette. All of the tactics of the Coquette have been adapted by political leaders to make the public fall in love. While exciting the masses, these leaders remain inwardly detached, which keeps them in control. The political scientist Roberto Michels has even referred to such politicians as Cold Coquettes. Napoleon played the Coquette with the French: after the grand successes of the Italian campaign had made him a beloved hero, he left France to conquer Egypt, knowing that in his absence the government would fall apart, the people would hunger for his return, and their love would serve as the base for an expansion of his power. After exciting the masses with a rousing speech, Mao Zedong would disappear from sight for days on end, making himself an object of cultish worship. And no one was more of a Coquette than Yugoslav leader losef Tito, who alternated between distance from and emotional identification with his people. All of these political leaders were confirmed narcissists. In times of trouble, when people feel insecure, the effect of such political coquetry is even more powerful. It is important to realize that coquetry is extremely effective on a group, stimulatingjealousy, love, and intense devotion. If you play such a role with a group, remember to keep an emotional and physical distance. This will allow you to cry and laugh on command, project self-sufficiency, and with such detachment you will be able play people's emotions like a piano. Symbol: The Shadow. It cannot be grasped. Chase your shadow and it will flee; turn your back on it and it will follow you. It is also a person's dark side, the thing that makes them mysterious. After they have given us pleasure, the shadow oftheir withdrawal makes us yearn for their return, much as clouds make us yearn for the sun. Dangers C oquettes face an obvious danger: they play with volatile emotions. Every time the pendulum swings, love shifts to hate. So they must orchestrate everything carefully. Their absences cannot be too long, their bouts of anger must be quickly followed by smiles. Coquettes can keep their victims emotionally entrapped for a long time, but over months or years the dynamic can begin to prove tiresome. Jiang Qing, later known as Madame Mao, used coquettish skills to capture the heart of Mao Tse-tung, but after ten years the quarreling, the tears and the coolness became intensely irritating, and once irritation proved stronger than love, Mao was able to detach. Josephine, a more brilliant Coquette, was able to adapt, by spending a whole year without playing coy or withdrawing from Napoleon. Timing is everything. On the other hand, though, the Coquette stirs up powerful emotions, and breakups often prove temporary. The Coquette is addictive: after the failure of the social plan Mao called the Great Leap Forward, Madame Mao was able to reestablish her power over her devastated husband. The Cold Coquette can stimulate a particularly deep hatred. Valerie Solanas was a young woman who fell under Andy Warhol's spell. She had written aplay that amused him, and she was given the impression he might turn it into a film. She imagined becoming a celebrity. She also got involved in the feminist movement, and when, in June 1968, it dawned on her that Warhol was toying with her, she directed her growing rage at men on him and shot him three times, nearly killing him. Cold Coquettes may stimulate feelings that are not so much erotic as intellectual, less passion and more fascination. The hatred they can stir up is all the more insidious and dangerous, for it may not be counterbalanced by a deep love. They must realize the limits of the game, and the disturbing effects they can have on less stable people. the Charmer Charm is seduction without sex. Charmers are consummate manipulators, masking their cleverness by creating a mood of pleasure and comfort. Their method is simple: they deflect attentionfrom themselves andfocus it on their target. They understand your spirit, feel your pain, adapt to your moods. In the presence of a Charmer you feel better about yourself. Charmers do not argue or fight, complain, or pester -w hat could be more seductive? By drawing you in with their indulgence they make you dependent on them, and their power grows. Learn to cast the Charmer's spell by aiming at people's primary weaknesses: vanity and self-esteem. The Art of Charm S exuality is extremely disruptive. The insecurities and emotions it stirs up can often cut short a relationship that would otherwise be deeper and longer lasting. The Charmer's solution is to fulfill the aspects of sexuality that are so alluring and addictive-the focused attention, the boosted self-esteem, the pleasurable wooing, the understanding (real or illusory)-but subtract the sex itself. It's not that the Charmer represses or discourages sexuality; lurking beneath the surface of any attempt at charm is a sexual tease, a possibility. Charm cannot exist without a hint of sexual tension. It cannot be maintained, however, unless sex is kept at bay or in the background. The word "charm" comes from the Latin carmen, a song, but also an incantation tied to the casting of a magical spell. The Charmer implicitly grasps this history, casting a spell by giving people something that holds their attention, that fascinates them. And the secret to capturing people's attention, while lowering their powers of reason, is to strike at the things they have the least control over: their ego, their vanity, and their selfesteem. As Benjamin Disraeli said, "Talk to a man about himself and he will listen for hours." The strategy can never be obvious; subtlety is the Charmer's great skill. If the target is to be kept from seeing through the Charmer's efforts, and fromgrowingsuspicious, maybe even tiring of the attention, a light touch is essential. The Charmer is like a beam of light that doesn't play directly on a target but throws a pleasantly diffused glow over it. Charm can be applied to a group as well as to an individual: a leader can charm the public. The dynamic is similar. The following are the laws of charm, culled from the stories of the most successful charmers in history. Birds are taken with pipes that imitate their own voices, and men with those sayings that are most agreeable to their own opinions. BUTLER Make your target the center of attention. Charmers fade into the background; their targets become the subject of their interest. To be a Charmer you have to leam to listen and observe. Let your targets talk, revealing themselves in the process. As you find out more about them-their strengths, and more important their weaknesses-you can individualize your attention, appealing to their specific desires and needs, tailoring your flatteries to their insecurities. By adapting to their spirit and empathizing with their woes, you can make them feel bigger and better, validating their sense of self-worth. Make them the star of the show and they will become Go with the bough, you'll bend it; \ Use brute force, it'll snap. \ Go with the current: that's how to swimacross rivers -\Fightingupstream's no good. \ Goeasy with lions or tigers ifyou aim to tame them; \ The bull gets inured to the plough by slow degrees. So, yield if she shows resistance: \ That way you'll win in the end. fust be sure to play The part she allots you. Censure the things she censures, \ Endorse her endorsements, echo her every word, \ Pro or con, and laugh whenever she laughs; remember, \ If she weeps, to weep too: take your cue \ From her every expression. Suppose she's playing a board game, \ Then throw the dice carelessly, move \ Your pieces all wrong. Don't jib at a slavish task like holding \ Her mirror: slavish or not, such attentions please. . . . -OVID, THE ART OF LOVE. addicted to you and grow dependent on you. On a mass level, make gestures of self-sacrifice (no matter how fake) to show the public that you share their pain and are working in their interest, self-interest being the public form of egotism. Disraeli was asked to dinner, and came in green velvet trousers, with a canary waistcoat, buckle shoes, and lace cuffs. His appearance at first proved disquieting, but on leaving the table the guests remarked to each other that the wittiest talker at the luncheon-party was the man in the yellow waistcoat. Benjamin had made great advances in social conversation since the days of Murray's dinners. Faithful to his method, he noted the stages: "Do not talk too much at present; do not try to talk. But whenever you speak, speak with self-possession. Speak in a subdued tone, and always look at the person whom you are addressing. Before one can engage in general conversation with any effect, there is a certain acquaintance with trifling but amusing subjects which must be first attained. You will soon pick up sufficient by listening and observing. Never argue. In society nothing must be discussed; give only results. If any person differ from you, bow turn the conversation. In society never think; always be on the watch, or you will miss many and say many disagreeable things. Talk to women, talk to women as much as you can. This is the best school. This is the way to gain fluency, because you need not care what you say, and had better not be sensible. They, too, will rally you on many points, Be a source of pleasure. No one wants to hear about your problems and troubles. Listen to your targets' complaints, but more important, distract them from their problems by giving them pleasure. (Do this often enough and they will fall under your spell.) Being lighthearted and fun is always more charming than being serious and critical. An energetic presence is likewise more charming than lethargy, which hints at boredom,an enormous social taboo; and elegance and style will usually win out over vulgarity, since most people like to associate themselves with whatever they think elevated and cultured. In politics, provide illusion and myth rather than reality. Instead of asking people to sacrifice for the greater good, talk of grand moral issues. An appeal that makes people feel good will translate into votes and power. Bring antagonism into harmony. The court is a cauldron of resentment and envy, where the sourness of a single brooding Cassius can quickly turn into a conspiracy. The Charmer knows how to smooth out conflict. Never stir up antagonisms that will prove immune to your charm; in the face of those who are aggressive, retreat, let them have their little victories. Yielding and indulgence will charm the fight out of any potential enemies. Never criticize people overtly-that will make them insecure, and resistant to change. Plant ideas, insinuate suggestions. Charmed by your diplomatic skills, people will not notice your growing power. Lull your victims into ease and comfort. Charm is like the hypnotist's trick with the swinging watch: the more relaxed the target, the easier it is to bend him or her to your will. The key to making your victims feel comfortable is to mirror them, adapt to their moods. People are narcissists- they are drawn to those most similar to themselves. Seem to share their values and tastes, to understand their spirit, and they will fall under your spell. This works particularly well if you are an outsider: showing that you share the values of your adopted group or country (you have learned their language, you prefer their customs, etc.) is immensely charming, since for you this preference is a choice, not a question of birth. Never pester or be overly persistent-these uncharming qualities will disrupt the relaxation you need to cast your spell. Show calm and self-possession in the face of adversity. Adversity and setbacks actually provide the perfect setting for charm. Showing a calm, un- mffled exterior in the face of unpleasantness puts people at ease. You seem patient, as if waiting for destiny to deal you a better card-or as if you were confident you could charm the Fates themselves. Never show anger, ill temper, or vengefulness, all disruptive emotions that will make people defensive. In the politics of large groups, welcome adversity as a chance to show the charming qualities of magnanimity and poise. Let others get flutered and upset-the contrast will redound to your favor. Never whine, never complain, never try to justify yourself. Make yourself useful. If done subtly, your ability to enhance the lives of others will be devilishly seductive. Your social skills will prove important here: creating a wide network of allies will give you the power to link people up with each other, which will make them feel that by knowing you they can make their lives easier. This is something no one can resist. Follow-through is key: so many people will charm by promising a person great things-a better job, a new contact, a big favor-but if they do not follow through they make enemies instead of friends. Anyone can make a promise; what sets you apart, and makes you charming, is your ability to come through in the end, following up your promise with a definite action. Conversely, if someone does you a favor, show your gratitude concretely. In a world of bluff and smoke, real action and true helpfulness are perhaps the ultimate charm. Examples of Charmers 1. In the early 1870s, Queen Victoria of England had reached a low point in her life. Her beloved husband. Prince Albert, had died in 1861, leaving her more than grief stricken. In all of her decisions she had relied on his advice; she was too uneducated and inexperienced to do otherwise, or so everyone made her feel. In fact, with Albert's death, political discussions and policy issues had come to bore her to tears. Now Victoria gradually withdrew from the public eye. As a result, the monarchy became less popular and therefore lesspowerful.In1874,theConservativeParty came to power, and its leader, the seventy-year-old Benjamin Disraeli, became prime minister. The protocol of his accession to his seat demanded that he come to the palace for a private meeting with the queen, who was fifty-five at the time. Two more unlikely associates could not be imagined: Disraeli, who was Jewish by birth, had dark skin and exotic features by English standards; as a young man he had been a dandy, his dress bordering on the flamboyant, and he had written popular novels that were romantic or even Gothic in style. The queen, on the other hand, was dour and stubborn, formal in manner and simple in and as they are women you will not be offended. Nothing is of so much importance and of so much use to a young man entering life as to be well criticised by women." -ANDRE MAUROIS, DISRAELI. MILES You know what charm is: a way of getting the answer yes without having asked any clear question.CAMUS A speech that carries its audience along with it and is applauded is often less suggestive simply because it is clear that it sets out to be persuasive. People talking together influence each other in close proximity by means of the tone of voice they adopt and the way they look at each other and not only by the kind oflanguage they use. We are right to call a good conversationalist a charmer in the magical sense of the word. -TARDE, L'OPINION ET LA FOULE. QUOTED IN SERGE MOSCOVICI, THE AGE OF THE CROWD Wax, a substance naturally hard and brittle, can be made soft by the application of a little warmth, so that it will take any shape you please. In the same way, by being polite andfriendly, you can make people pliable and obliging, even though they are apt to be crabbed and malevolent. Hence politeness is to human nature what warmth is to wax. - SCHOPENHAUER, COUNSELS AND MAXIMS, SAUNDERS Never explain. Never complain. -DISRAELI taste. To please her, Disraeli was advised, he should curb his natural elegance; but he disregarded what everyone had told him and appeared before her as a gallant prince, falling to one knee, taking her hand, and kissing it, saying, "I plight my troth to the kindest of mistresses." Disraeli pledged that his work now was to realize Victoria's dreams. He praised her qualities so fulsomely that she blushed; yet strangely enough, she did not find him comical or offensive, but came out of the encounter smiling. Perhaps she should give this strange man a chance, she thought, and she waited to see what he would do next. Victoria soon began receiving reports from Disraeli-on parliamentary debates, policy issues, and so forth-that were unlike anything other ministers had written. Addressing her as the "Faery Queen," and giving the monarchy's various enemies all kinds of villainous code names, he filled his notes with gossip. In a note about a new cabinet member, Disraeli wrote, "He is more than six feet four inches in stature; like St. Peter's at Rome no one is at first aware of his dimensions. But he has the sagacity of the elephant as well as its form." The minister's blithe, informal spirit bordered on disrespect, but the queen was enchanted. She read his reports voraciously, and almost without her realizing it, her interest in politics was rekindled. At the start of their relationship, Disraeli sent the queen all of his novels as a gift. She in return presented him with the one book she had written. Journal of Our Life in the Highlands. From then on he would toss out in his letters and conversations with her the phrase, "We authors." The queen would beam with pride. She would overhear him praising her to others- her ideas, common sense, and feminine instincts, he said, made her the equal of Elizabeth I. He rarely disagreed with her. At meetings with other ministers, he would suddenly turn and ask her for advice. In 1875, when Disraeli managed tofinagle the purchase of the Suez Canal from the debt- ridden khedive of Egypt, he presented his accomplishment to the queen as if it were a realization of her own ideas about expanding the British Empire. She did not realize the cause, but her confidence was growing by leaps and bounds. Victoria once sent flowers to her prime minister. He later returned the favor, sending primroses, a flower so ordinary that some recipients might have been insulted; but his gift came with a note: "Of all the flowers, the one that retains its beauty longest, is sweet primrose." Disraeli was enveloping Victoria in a fantasy atmosphere in which everything was a metaphor, and the simplicity of the flower of course symbolized the queen-and also the relationship between the two leaders. Victoria fell for the bait; primroses were soon her favorite flower. In fact everything Disraeli did now met with her approval. She allowed him to sit in her presence, an unheard- of privilege. The two began to exchange valentines every February. The queen would ask people what Disraeli had said at a party; when he paid a little too much attention to Empress Augusta of Germany, she grew jealous. The courtiers wondered what had happened to the stubborn, formal woman they had known-she was acting like an infatuated girl. In 1876, Disraeli steered through Parliament a bill declaring Queen Victoria a "Queen-Empress." The queen was beside herself with joy. Out of gratitude and certainly love, she elevated this Jewish dandy and novelist to the peerage, making him Earl of Beaconsfield, the realization of a lifelong dream. Disraeli knew how deceptive appearances can be: people were always judging him by his face and by his clothes, and he had learned never to do the same to them. So he was not deceived by Queen Victoria's dour, sober exterior. Beneath it, he sensed, was a woman who yearned for a man to appeal to her feminine side, a woman who was affectionate, warm, even sexual. The extent to which this side of Victoria had been repressed merely revealed the strength of the feelings he would stir once he melted her reserve. Disraeli's approach was to appeal to two aspects of Victoria's personality that other people had squashed: her confidence and her sexuality. He was a master at flattering a person's ego. As one English princess remarked, "When I left the dining room after sitting next to Mr. Gladstone, I thought he was the cleverest man in England. But after sitting next to Mr. Disraeli, I thought I was the cleverest woman in England." Disraeli worked his magic with a delicate touch, insinuating an atmosphere of amusement and relaxation, particularly in relation to politics. Once the queen's guard was down, he made that mood a little warmer, a little more suggestive, subtly sexual- though of course without overt flirtation. Disraeli made Victoria feel desirable as a woman and gifted as a monarch. How could she resist? How could she deny him anything? Our personalities are often molded by how we are treated: if a parent or spouse is defensive or argumentative in dealing with us, we tend to respond the same way. Never mistake people's exterior characteristics for reality, for the character they show on the surface may be merely a reflection of the people with whom they have been most in contact, or a front disguising its own opposite. A gruff exterior may hide a person dying for warmth; a repressed, sober-looking type may actually be struggling to conceal uncontrollable emotions. That is the key to charm-feeding what has been repressed or denied. By indulging the queen, by making himself a source of pleasure, Disraeli was able to soften a woman who had grown hard and cantankerous. Indulgence is a powerful tool of seduction: it is hard to be angry or defensive with someone who seems to agree with your opinions and tastes. Charmers may appear to be weaker than their targets but in the end they are the more powerful side because they have stolen the ability to resist. 2. In 1971, the American financier andDemocratic Party power-playerAverell Harriman saw his life drawing to a close. He was seventy-nine, his wife of many years, Marie, had just died, and with the Democrats out of office Ms political career seemed over. Feeling old and depressed, he resigned himself to spending his last years with Ms grandchildren in quiet retirement. A few months after Marie's death, Harriman was talked into attending a Washington party. There he met an old friend, Pamela ChurcMll, whom he had known during World War II, in London, where he had been sent as a personal envoy of President Franklin D. Roosevelt. She was twenty-one at the time, and was the wife of Winston Churchill's son Randolph. There had certainly been more beautiful women in the city, but none had been more pleasant to be around: she was so attentive, listening to Ms problems, befriending Ms daughter (they were the same age), and calming him whenever he saw her. Marie had remained in the States, and Randolph was in the army, so wMle bombs rained on London Averell and Pamela had begun an affair. And in the many years since the war, she had kept in touch with Mm: he knew about the breakup of her marriage, and about her endless series of affairs with Europe's wealthiest playboys. Yet he had not seen her since Ms return to America, and to Ms wife. What a strange coincidence to run into her at this particular moment in Ms life. At the party Pamela pulled Harriman out of his shell, laughing at Ms jokes and getting him to talk about London in the glory days of the war. He felt Ms old power returning-it was as if he were charming her. A few days later she dropped in on him at one of Ms weekend homes. Harriman was one of the wealthiest men in the world, but was no lavish spender; he and Marie had lived a Spartan life. Pamela made no comment, but when she invited him to her own home, he could not help but notice the brightness and vibrancy of her life-flowers everywhere, beautiful linens on the bed, wonderful meals (she seemed to know all of Ms favorite foods). He had heard of her reputation as a courtesan and understood the lure of Ms wealth, yet being around her was invigorating, and eight weeks after that party, he married her. Pamela did not stop there. She persuaded her husband to donate the art that Marie had collected to the National Gallery. She got him to part with some of Ms money-a trust fund for her son Winston, new houses, constant redecorations. Her approach was subtle and patient; she made him somehow feel good about giving her what she wanted. Within a few years, hardly any traces of Marie remained in their life. Harriman spent less time with Ms childrenandgrandchildren. He seemed to be going through a second youth. In Washington, politicians and their wives viewed Pamela with suspicion. They saw through her, and were immune to her charm, or so they thought. Yet they always came to the frequent parties she hosted, justifying themselves with the thought that powerful people would be there. Everything at these parties was calibrated to create a relaxed, intimateatmosphere. No one felt ignored: the least important people would find themselves talking to Pamela, opening up to that attentive look of hers. She made them feel powerful and respected. Afterward she would send them a personal note or gift, often referring to something they had mentioned in conversation. The wives who had called her a courtesan and worse slowly changed their minds. The men found her not only beguiling but useful- her worldwide contacts were invaluable. She could put them in touch with exactly the right person without them even having to ask. The Harrimans' parties soon evolved into fundraising events for the Democratic Party. Put at their ease, feeling elevated by the aristocratic atmosphere Pamela created and the sense of importance she gave them, visitors would empty their wallets without realizing quite why. This, of course, was exactly what all the men in her life had done. In 1986, Averell Harriman died. By then Pamela was powerful and wealthy enough that she no longer needed a man. In 1993, she was named the U.S. ambassador to France, and easily transferred her personal and social charm into the world of political diplomacy. She was still working when she died, in 1997. We often recognize Charmers as such; we sense their cleverness. (Surely Harriman must have realized that his meeting with Pamela Churchill in 1971 was no coincidence.) Nevertheless, we fall under their spell. The reason is simple: the feeling that Charmers provide is so rare as to be worth the price we pay. The world is full of self-absorbed people. In their presence, we know that everything in our relationship with them is directed toward themselves- their insecurities, their neediness, their hunger for attention. That reinforces our own egocentric tendencies; we protectively close ourselves up. It is a syndrome that only makes us the more helpless with Charmers. First, they don't talk much about themselves, which heightens their mystery and disguises their limitations. Second, they seem to be interested in us, and their interest is so delightfully focused that we relax and open up to them. Finally, Charmers are pleasant to be around. They have none of most people's ugly qualities-nagging, complaining, self-assertion. They seem to know what pleases. Theirs is a diffused warmth; union without sex. (You may think a geisha is sexual as well as charming; her power, however, lies not in the sexual favors she provides but in her rare self-effacing attentiveness.) Inevitably, we become addicted, and dependent. And dependence is the source of the Charmer's power. People who are physically beautiful, and who play on their beauty to create a sexually charged presence, have little power in the end; the bloom of youth fades, there is always someone younger and more beautiful, and in any case people tire of beauty without social grace. But they never tire of feeling their self-worth validated. Leam the power you can wield by making the other person feel like the star. The key is to diffuse your sexual presence: create a vaguer, more beguiling sense of excitement through a generalized flirtation, a socialized sexuality that is constant, addictive, and never totally satisfied. 3. In December of 1936, Chiang Kai-shek, leader of the Chinese Nationalists, was captured by a group of his own soldiers who were angry with his policies: instead of fighting the Japanese, who had just invaded China, he was continuing his civil war against the Communist armies of Mao Zedong. The soldiers saw no threat in Mao-Chiang had almost annhilated the Communists. In fact, they believed he should join forces with Mao against the common enemy-it was the only patriotic thing to do. The soldiers thought by capturing him they could compel Chiang to change his mind, but he was a stubborn man. Since Chiang was the main impediment to a unified war against the Japanese, the soldiers contemplated having him executed, or turned over to the Communists. As Chiang lay in prison, he could only imagine the worst. Several days later he received a visit from Zhou Enlai-a former friend and now a leading Communist. Politely and respectfully, Zhou argued for a united front: Communists and Nationalists against the Japanese. Chiang could not begin to hear such talk; he hated the Communists with a passion, and became hopelessly emotional. To sign an agreement with the Communists in these circumstances, he yelled, would be humiliating, and would lose me all honor among my own army. It's out of the question. Kill me if you must. Zhou listened, smiled, said barely a word. As Chiang's rant ended he told the Nationalist general that a concern for honor was something he understood, but that the honorable thing for them to do was actually to forget their differences and fight the invader. Chiang could lead both armies. Finally, Zhou said that under no circumstances would he allow his fellow Communists, or anyone for that matter, to execute such a great man as Chiang Kai-shek. The Nationalist leader was stunned and moved.The next day, Chiang was escorted out of prison by Communist guards, transferred to one of his own army's planes, and sent back to his own headquarters. Apparently Zhou had executed this policy on his own, for when word of it reached the other Communist leaders, they were outraged: Zhou should have forced Chiang to fight the Japanese, or else should have ordered his execution-to release him without concessions was the height of pusillanimity, and Zhou would pay. Zhou said nothing and waited. A few months later, Chiang signed an agreement to halt the civil war and join with the Communists against the Japanese. He seemed to have come to his decision on his own, and his army respected it-they could not doubt his motives. Working together, the Nationalists and the Communists expelled the Japanese from China. But the Communists, whom Chiang had previously almost destroyed, took advantage of this period of collaboration to regain strength. Once the Japanese had left, they turned on the Nationalists, who, in 1949, were forced to evacuate mainland China for the island of Formosa, now Taiwan. Now Mao paid a visit to the Soviet Union. China was in terrible shape and in desperate need of assistance, but Stalin was wary of theChinese, and lectured Mao about the many mistakes he had made. Mao argued back. Stalin decided to teach the young upstart a lesson; he would give China nothing. Tempers rose. Mao sent urgently for Zhou Enlai who arrived the next day and went right to work. In the long negotiating sessions, Zhou made a show of enjoying his hosts' vodka. He never argued, and in fact agreed that the Chinese had made many mistakes, had much to learn from the more experienced Soviets: "Comrade Stalin," he said, "we are the first large Asian country tojoin the socialist camp under your guidance." Zhou had come prepared with all kinds of neatly drawn diagrams and charts, knowing the Russians loved such things. Stalin warmed up to him. The negotiations proceeded, and a few days after Zhou's arrival, the two parties signed a treaty of mutual aid- a treaty far more useful to the Chinese than to the Soviets. In 1959, China was again in deep trouble. Mao's Great Leap Forward, an attempt to spark an overnight industrial revolution in China, had been a devastating failure. The people were angry: they were starving while Beijing bureaucrats lived well. Many Beijing officials, Zhou among them, returned to their native towns to try to bring order. Most of them managed by bribes-by promising all kinds of favors-but Zhou proceeded differently: he visited his ancestral graveyard, where generations of his familywere buried, and ordered that the tombstones be removed and the coffins buried deeper. Now the land could be farmed for food. In Confucian terms (and Zhou was an obedient Confucian), this was sacrilege, but everyone knew what it meant: Zhou was willing to suffer personally. Everyone had to sacrifice, even the leaders. His gesture had immense symbolic impact. When Zhou died, in 1976, an unofficial and unorganized outpouring of public grief caught the government by surprise. They could not understand how a man who had worked behind the scenes, and had shunned the adoration of the masses, could have won such affection. The capture of Chiang Kai-shek was a turning point in the civil war. To execute him might have been disastrous: it had been Chiang who had held the Nationalist army together, and without him it could have broken up into factions, allowing the Japanese to overrun the country. To force him to sign an agreement would have not helped either: he would have lost face before his army, would never have honored the agreement, and would have done everything he could to avenge his humiliation. Zhou knew that to execute or compel a captive will only embolden your enemy, and will have repercussions you cannot control. Charm, on the other hand, is a manipulative weapon that disguises its own manipulativeness, letting you gain a victory without stirring the desire for revenge. Zhou worked on Chiang perfectly, paying him respect, playing the inferior, letting him pass from the fear of execution to the relief of unexpected release. The general was allowed to leave with his dignity intact. Zhou knew all this would soften him up, planting the seed of the idea that perhaps the Communists were not so bad after all, and that he could change Ms mind about them without looking weak, particularly if he did so independently rather than while he was in prison. Zhou applied the same philosophy to every situation: play the inferior, unthreatening and humble. What will this matter if in the end you get what you want: time to recover from a civil war, a treaty, the good will of the masses. Time is the greatest weapon you have. Patiently keep in mind a longterm goal and neither person nor army can resist you. And charm is the best way of playing for time, of widening your options in any situation. Through charm you can seduce your enemy into backing off, giving you the psychological space to plot an effective counterstrategy. The key is to make other people emotional while you remain detached. They may feel grateful, happy, moved, arrogant-it doesn't matter, as long as they feel. An emotional person is a distracted person. Give them what they want, appeal to their self-interest, make them feel superior to you. When a baby has grabbed a sharp kmfe, do not try to grab it back; instead, stay calm, offer candy, and the baby will drop the kmfe to pick up the tempting morsel you offer. 4. In 1761, Empress Elizabeth of Russia died, and her nephew ascended to the throne as Czar Peter III. Peter had always been a little boy at heart-he played with toy soldiers long past the appropriate age-and now, as czar, he could finally do whatever he pleased and the world be damned. Peter concluded a treaty with Frederick the Great that was Mghly favorable to the foreign ruler (Peter adored Frederick, and particularly the disciplined way Ms Prussian soldiers marched). This was a practical debacle, but in matters of emotion and etiquette, Peter was even more offensive: he refused to properly mourn Ms aunt the empress, resuming his war games and parties a few days after the funeral. What a contrast he was to Ms wife, Catherine. She was respectful during the funeral, was still wearing black months later, and could be seen at all hours beside Elizabeth's tomb, praying and crying. She was not even Russian, but a German princess who had come east to marry Peter in 1745 without speaking a word of the language. Even the lowest peasant knew that Catherine had converted to the Russian Orthodox Church, and had learned to speak Russian with incredible speed, and beautifully. At heart, they thought, she was more Russian than all of those fops in the court. During these difficult months, wMle Peter offended almost everyone in the country, Catherine discreetly kept a lover, Gregory Orlov, a lieutenant in the guards. It was through Orlov that word spread of her piety, her patriotism, her worthiness for rule; how much better to follow such a woman than to serve Peter. Late into the night, Catherine and Orlov would talk, and he would tell her the army was behind her and would urge her to stage a coup. She would listen attentively, but would always reply that tMs was not the time for such things. Orlov wondered to himself: perhaps she was too gentle and passive for such a great step. Peter's regime was repressive, and the arrests and executions piled up. He also grew more abusive toward his wife, threatening to divorce her and marry his mistress. One drunken evening, driven to distraction by Catherine's silence and his inability to provoke her, he ordered her arrest. The news spread fast and Orlov hurried to warn Catherine that she would be imprisoned or executed unless she acted fast. This time Catherine did not argue; she put on her simplest mourning gown, left her hair half undone, followed Orlov to a waiting carriage, and rushed to the army barracks. Here the soldiers fell to the ground, kissing the hem of her dress-they had heard so much about her but had never seen her in person, and she seemed to them like a statue of the Madonna come to life. They gave her an army uniform, marveling at how beautiful she looked in men's clothes, and set off under Orlov's command for the Winter Palace. The procession grew as it passed through the streets of St. Petersburg. Everyone applauded Catherine, everyone felt that Peter should be dethroned. Soon priests arrived to give Catherine their blessing, making the people even more excited. And through it all, she was silent and dignified, as if all were in the hands of fate. When news reached Peter of this peaceful rebellion, he grew hysterical, and agreed to abdicate that very night. Catherine became empress without a single battle or even a single gunshot. As a child, Catherine was intelligent and spirited. Since her mother had wanted a daughter who was obedient rather than dazzling, and who would therefore make a better match, the child was subjected to a constant barrage of criticism, against which she developed a defense: she learned to seem to defer to other people totally as a way to neutralize their aggression. If she was patient and did not force the issue, instead of attacking her they would fall under her spell. When Catherine came to Russia-at the age of sixteen, without a friend or ally in the country-she applied the skills she had learned in dealing with her difficult mother. In the face of all the court monsters- the imposing Empress Elizabeth, her own infantile husband, the endless schemers and betrayers-she curtseyed, deferred, waited, and charmed. She had long wanted to rule as empress, and knew how hopeless her husband was. But what good would it do to seize power violently, laying a claim that some would certainly see as illegitimate, and then have to worry endlessly that she would be dethroned in turn? No, the moment had to be ripe, and she had to make the people carry her into power. It was a feminine style ofrevolution: by being passive and patient, Catherine suggested that she had no interest in power. The effect was soothing-charming. There will always be difficult people for us to face-the chronically insecure, the hopelessly stubborn, the hysterical complainers. Your ability to disarm these people will prove an invaluable skill. You do have to be careful, though: if you are passive they will run all over you; if assertive you will make their monstrous qualities worse. Seduction and charm are the most effective counterweapons. Outwardly, be gracious. Adapt to their every mood. Enter their spirit. Inwardly, calculate and wait: your surrender is a strategy, not a way of life. When the time comes, and it inevitably will, the tables will turn. Their aggression will land them in trouble, and that will put you in a position to rescue them, regaining superiority. (You could also decide that you had had enough, and consign them to oblivion.) Your charm has prevented them from foreseeing this or growing suspicious. A whole revolution can be enacted without a single act of violence, simply by waiting for the apple to ripen and fall. Symbol: The Mirror. Your spirit holds a mirror up to others. When they see you they see themselves: their values, their tastes, even their flaws. Their lifelong love affair with their own image is comfortable and hypnotic; so feed it. No one ever sees what is behind the mirror. Dangers T here are those who are immune to a Charmer; particularly cynics, and confident types who do not need validation. These people tend to view Charmers as slippery and deceitful, and they can make problems for you. The solution is to do what most Charmers do by nature: befriend and charm as many people as possible. Secure your power through numbers and you will not have to worry about the few you cannot seduce. Catherine the Great's kindness to everyone she met created a vast amount ofgood will that paid off later. Also, it is sometimes charming to reveal a strategic flaw. There is one person you dislike? Confess it openly, do not try to charm such an enemy, and people will think you more human, less slippery. Disraeli had such a scapegoat with his great nemesis, William Gladstone. The dangers of political charm are harder to handle; your conciliatory, shifting, flexible approach to politics will make enemies out of everyone who is a rigid believer in a cause. Social seducers such as Bill Clinton and Henry Kissinger could often win over the most hardened opponent with their personal charm, but they could not be everywhere at once. Many members of the English Parliament thought Disraeli a shifty conniver; in person his engaging manner could dispel such feelings, but he could not address the entire Parliament one-on-one. In difficult times, when people yearn for something substantial and firm, the political charmer may be in danger. As Catherine the Great proved, timing is everything. Charmers must know when to hibernate and when the times are ripe for their persuasive powers. Known for their flexibility, they should sometimes be flexible enough to act inflexibly. Zhou Enlai, the consummate chameleon, could play the hard-core Communist when it suited him. Never become the slave to your own powers of charm; keep it under control, something you can turn off and on at will. Charisma is a presence that excites us. It comes from an inner quality - self-confidence, sexual energy, sense ofpurpose, contentment-that most people lack and want. This quality radiates outward, permeating the gestures of Charismatics, making them seem extraordinary and superior, and making us imagine there is more to them than meets the eye: they are gods, saints, stars. Charismatics can learn to heighten their charisma with a piercing gaze, fiery oratory, an air of mystery. They can seduce on a grand scale. Learn to create the charismatic illusion by radiating intensity while remaining detached. Charisma and Seduction C harisma is seduction on a mass level. Charismatics make crowds of people fall in love with them, then lead them along. The process of making them fall in love is simple and follows a path similar to that of a one-on-one seduction. Charismatics have certain qualities that are powerfully attractive and that make them stand out. This could be their selfbelief, their boldness, their serenity. They keep the source of these qualities mysterious. They do not explain where their confidence or contentment comes from, but it can be felt by everyone; it radiates outward, without the appearance of conscious effort. The face of the Charismatic is usually animated,full of energy, desire, alertness-the look of a lover, one that is instantly appealing, even vaguely sexual. We happily follow Charismatics because we like to be led, particularly by people who promise adventure or prosperity. We lose ourselves in their cause, become emotionally attached to them, feel more alive by believing in them-we fall in love. Charisma plays on repressed sexuality, creates an erotic charge. Yet the origins of the word lie not in sexuality but in religion, and religion remains deeply embedded in modern charisma. Thousands of years ago, people believed in gods and spirits, but few could ever say that they had witnessed a miracle, a physical demonstration of divine power. A man, however, who seemed possessed by a divine spirit-speaking in tongues, ecstatic raptures, the expression of intense visions-would stand out as one whom the gods had singled out. And this man, a priest or a prophet, gained great power over others. What made the Hebrews believe in Moses, follow him out of Egypt, and remain loyal to him despite their endless wandering in the desert? The look in his eye, his inspired and inspiring words, the face that literally glowed when he came down from Mount Sinai-all these things gave him the appearance of having direct communication with God, and were the source of his authority. And these were what was meant by "charisma," a Greek word referring to prophets and to Christ himself. In early Christianity, charisma was a gift or talent vouchsafed by God's grace and revealing His presence. Most of the great religions were founded by a Charismatic, a person who physically displayed the signs of God's favor. Over the years, the world became more rational. Eventually people came to hold power not by divine right but because they won votes, or proved their competence. The great early-twentieth-century German soci- "Charisma" shall be understood to refer to an extraordinary quality of a person, regardless of whether this quality is actual, alleged or presumed. "Charismatic authority," hence, shall refer to a rule over men, whether predominately extern l or predominately internal, to which the governed submit because of their belief in the extraordinary quality of the specific person. -MAX WEBER, FROM MAX WEBER: ESSAYS IN SOCIOLOGY. GERTH MILLS And the Lord said to Moses, "Write these words; in accordance with these words I have made a covenant with you and with Israel." And he was there with the Lordforty days and forty nights; he neither ate bread nor drank water. And he wrote upon the tables the words of the covenant, the ten commandments. When Moses came down from Mount Sinai, with the two tables of the testimony in his hand as he came down from the mountain, Moses did not know that the skin of his face shone because he had been talking with God. And when Aaron and all the people of Israel saw Moses, behold, the skin of his face shone, and they were afraid to come near him. But Moses called to them; and Aaron and all the leaders of the congregation returned to him, and Moses talked them. And afterward all the people of Israel came near, and he gave them in commandment all that the Lord had spoken with him in Mount Sinai. And when Moses had finished speaking with them, he put a veil on his face; but whenever Moses went in before the Lord to speak with him, he took the veil off, until he came out; and when he came out, and told the people of Israel what he was commanded, the people of Israel saw the face of Moses, that the skin of Moses's face shone; and Moses would put the veil upon his face again, until he went in to speak with him. -EXODUS  ologist Max Weber, however, noticed that despite our supposed progress, there were more Charismatics than ever. What characterized a modern Charismatic, according to Weber, was the appearance of an extraordinary quality in their character, the equivalent of a sign of God's favor. How else to explain the power of a Robespierre or a Lenin? More than anything it was the force of their magnetic personalities that made these men stand out and was the source of their power. They did not speak of God but of a great cause, visions of a future society. Their appeal was emotional; they seemed possessed. And their audiences reacted as euphorically as earlier audiences had to a prophet. When Lenin died, in 1924, a cult formed around his memory, transforming the communist leader into a deity. Today, anyone who has presence, who attracts attention when he or she enters a room, is said to possess charisma. But even these less-exalted types reveal a trace of the quality suggested by the word's original meaning. Their charisma is mysterious and inexplicable, never obvious. They have an unusual confidence. They have a gift-often a smoothness with language-that makes them stand out from the crowd. They express a vision. We may not realize it, but in their presence we have a kind of religious experience: we believe in these people, without having any rational evidence for doing so. When trying to concoct an effect of charisma, never forget the religious source of its power. You must radiate an inward quality that has a saintly or spiritual edge to it. Your eyes must glow with the fire of a prophet. Your charisma must seem natural, as if it came from something mysteriously beyond your control, a gift of the gods. In our rational, disenchanted world, people crave a religious experience, particularly on a group level. Any sign of charisma plays to this desire to believe in something. And there is nothing more seductive than giving people something to believe in and follow. Charisma must seem mystical, but that does not mean you cannot learn certain tricks that will enhance the charisma you already possess, or will give you the outward appearance of it. The following are basic qualities that will help create the illusion of charisma: Purpose. If people believe you have a plan, that you know where you are going, they will follow you instinctively. The direction does not matter: pick a cause, an ideal, a vision and show that you will not sway from your goal. People will imagine that your confidence comes from somethingreal--just as the ancient Hebrews believed Moses was in communion with God, simply because he showed the outward signs. Purposefulness is doubly charismatic in times of trouble. Since most people hesitate before taking bold action (even when action is what is required), single-minded self-assurance will make you the focus of attention. People will believe in you through the simple force of your character. When Franklin Delano Roosevelt came to power amidst the Depression, much of the public had little faith he could turn things around. But in his first few months in office he displayed such confidence, such decisiveness and clarity in dealing with the country's many problems, that the public began to see him as their savior, someone with intense charisma. Mystery. Mystery lies at charisma's heart, but it is a particular kind of mystery-a mystery expressed by contradiction. The Charismatic may be both proletarian and aristocratic (Mao Zedong), both cruel and kind (Peter the Great), both excitable and icily detached (Charles de Gaulle), both intimate and distant (Sigmund Freud). Since most people are predictable, the effect of these contradictions is devastatingly charismatic. They make you hard to fathom, add richness to your character, make people talk about you. It is often better to reveal your contradictions slowly and subtly-if you throw them out one on top of the other, people may think you have an erratic personality. Show your mysteriousness gradually and word will spread. You must also keep people at arm's length, to keep them from figuring you out. Another aspect of mystery is a hint of the uncanny. The appearance of prophetic or psychic gifts will add to your aura. Predict things authoritatively and people will often imagine that what you have said hascome true. Saintliness. Most of us must compromise constantly to survive; saints do not. They must live out their ideals without caring about the consequences. The saintly effect bestows charisma. Saintliness goes far beyond religion: politicians as disparate as George Washington and Lenin won saintly reputations by living simply, despite their power-by matching their political values to their personal lives. Both men were virtually deified after they died. Albert Einstein too had a saintly aura-childlike, unwilling to compromise, lost in his own world. The key is that you must already have some deeply held values; that part cannot be faked, at least not without risking accusations of charlatanry that will destroy your charisma in the long run. The next step is to show, as simply and subtly as possible, that you live what you believe. Finally, the appearance of being mild and unassuming can eventually turn into charisma, as long as you seem completely comfortable with it. The source of Harry Truman's charisma, and even of Abraham Lincoln's, was to appear to be an Everyman. That devil of a man exercises a fascination on me that I cannot explain even to myself and in such a degree that, though I fear neither God nor devil, when I am in his presence I am ready to tremble like a child, and he could make me go through the eye of a needle to throw myself into the fire. -GENERAL VANDAMME, ON BONAPARTE [The masses ] have never thirsted after truth. They demand illusions, and cannot do without them. They constantly give what is unreal precedence over what is real; they are almost as strongly influenced by what is untrue as by what is true. They have an evident tendency not to distinguish between the two. -FREUD. Eloquence. A Charismatic relies on the power of words. The reason is simple: words are the quickest way to create emotional disturbance. They can uplift, elevate, stir anger, without referring to anything real. During the Spanish Civil War, Dolores Gomez Ibarruri, known as La Pasionaria, gave pro-Communist speeches that were so emotionally powerful as to determine several key moments in the war. To bring off this kind of eloquence, it helps if the speaker is as emotional, as caught up in words, as the audience is. Yet eloquence can be learned: the devices La Pasionaria used- catchwords, slogans, rhythmic repetitions, phrases for the audience to repeat-can easily be acquired. Roosevelt, a calm, patrician type, was able to make himself a dynamic speaker, both through his style of delivery, which was slow and hypnotic, and through his brilliant use of imagery, alliteration, and biblical rhetoric. The crowds at his rallies were often moved to tears. The slow, authoritative style is often more effective than passion in the long run, for it is more subtly spellbinding, and less tiring. Theatricality. A Charismatic is larger than life, has extra presence. Actors have studied this kind of presence for centuries; they know how to stand on a crowded stage and command attention. Surprisingly, it is not the actor who screams the loudest or gestures the most wildly who works this magic best, but the actor who stays calm, radiating self-assurance. The effect is ruined by trying too hard. It is essential to be self-aware, to have the ability to see yourself as others see you. De Gaulle understood that self-awareness was key to his charisma; in the most turbulent circumstances-the Nazi occupation of France, the national reconstruction after World War II, an army rebellion in Algeria-he retained an Olympian composure that played beautifully against the hysteria of his colleagues. When he spoke, no one could take their eyes off him. Once you know how to command attention this way, heighten the effect by appearing in ceremonial and ritual events that are full of exciting imagery, making you look regal and godlike. Flamboyancy has nothing to do with charisma-it attracts the wrong kind of attention. Uninhibitedness. Most people are repressed, and have little access to their unconscious-a problem that creates opportunities for the Charismatic, who can become a kind of screen on which others project their secret fantasies and longings. You will first have to show that you are less inhibited than your audience-that you radiate a dangerous sexuality, have no fear of death, are delightfully spontaneous. Even a hint of these qualities will make people think you more powerful than you are. In the 1850s a bohemian American actress, Adah Isaacs Menken, took the world by storm through her unbridled sexual energy, and her fearlessness. She would appear on stage half-naked, performing death-defying acts; few women could dare such things in the Victorian period, and a rather mediocre actress became a figure of cultlike adoration. An extension of your being uninhibited is a dreamlike quality in your work and character that reveals your openness to your unconscious. It was the possession of this quality that transformed artists like Wagner and Picasso into charismatic idols. Its cousin is a fluidity of body and spirit; while the repressed are rigid, Charismatics have an ease and an adaptability that show their openness to experience. Fervency. You need to believe in something, and to believe in it strongly enough for it to animate all your gestures and make your eyes light up. This cannot be faked. Politicians inevitably lie to the public; what distinguishes Charismatics is that they believe their own lies, which makes them that much more believable. A prerequisite for fiery belief is some great cause to rally around-a crusade. Become the rallying point for people's discontent, and show that you share none of the doubts that plague normal humans. In 1490, the Florentine Girolamo Savonarola railed at the immorality of the pope and the Catholic Church. Claiming to be divinely inspired, he became so animated during his sermons that hysteria would sweep the crowd. Savonarola developed such a following that he briefly took over the city, until the pope had him captured and burned at the stake. People believed in him because of the depth of his conviction. His example has more relevance today than ever: people are more and more isolated, and long for communal experience. Let your own fervent and contagious faith, in virtually anything, give them something to believe in. Vulnerability. Charismatics display a need for love and affection. They are open to their audience, and in fact feed off its energy; the audience in turn is electrified by the Charismatic, the current increasing as it passes back and forth. This vulnerableside to charisma softens the self-confident side, which can seem fanatical and frightening. Since charisma involves feelings akin to love, you in turn must reveal your love for your followers. This was a key component to the charisma that Marilyn Monroe radiated on camera. "I knew I belonged to the Public," she wrote in her diary, "and to the world, not because I was talented or even beautiful but because I had never belonged to anything or anyone else. The Public was the only family, the only Prince Charming and the only home I had ever dreamed of." In front of a camera, Monroe suddenly came to life, flirting with and exciting her unseen public. If the audience doesnot sense this quality in you they will turn away from you. On the other hand, you must never seem manipulative or needy. Imagine your public as a single person whom you are trying to seduce-nothing is more seductive to people than the feeling that they are desired. Adventurousness. Charismatics are unconventional. They have an air of adventure and risk that attracts the bored. Be brazen and courageous in your actions-be seen taking risks for the good of others. Napoleon made sure his soldiers saw him at the cannons in battle. Lenin walked openly on the streets, despite the death threats he had received. Charismatics thriveintroubledwaters;acrisissituationallowsthemtoflaunt their daring, which enhances their aura. John F. Kennedy came to life in dealing with the Cuban missile crisis, Charles de Gaulle when he confronted rebellion in 102 In such conditions, where half the battle was hand- to-hand, concentrated into a small space, the spirit and example of the leader countedfor much. When we remember this, it becomes easier to understand the astonishing dfect of Joan's presence upon the French troops. Her position as a leader was a unique one. She was not a professional soldier; she was not really a soldier at all; she was not even a man. She was ignorant of war. She was a girl dressed up. But she believed, and had made others willing to believe, that she was the mouthpiece of God. • On Friday, April 29th, 1429, the news spread in Orleans that a force, led by the Pucelle of Domremy, was on its way to the relief of the city, a piece of news which, as the chronicler remarks, comforted them greatly.-VITA SACKVILLE-WEST, SAINTJOAN OF ARC Algeria. They needed these problems to seem charismatic, and in fact some have even accused them of stirring up situations (Kennedy through his brinkmanship style of diplomacy, for instance) that played to their love of adventure. Show heroism to give yourself a charisma that will last you alifetime.Conversely, the slightest sign of cowardice or timidity will ruin whatever charisma you had. Magnetism. If any physical attribute is crucial in seduction, it is the eyes. They reveal excitement, tension, detachment, without a word being spoken. Indirect communication is critical in seduction, and also in charisma. The demeanor of Charismatics may be poised and calm, but their eyes are magnetic; they have a piercing gaze that disturbs their targets' emotions, exerting force without words or action. Fidel Castro's aggressive gaze can reduce his opponents to silence. When Benito Mussolini was challenged, he would roll his eyes, showing the whites in a way that frightened people. President Kusnasosro Sukarno of Indonesia had a gaze that seemed as if it could have read thoughts. Roosevelt could dilate his pupils at will, making his stare both hypnotizing and intimidating. The eyes of the Charismatic never show fear or nerves. All of these skills are acquirable. Napoleon spent hours in front of a mirror, modeling his gaze on that of the great contemporary actor Talma. The key is self-control. The look does not necessarily have to be aggressive; it can also show contentment. Remember: your eyes can emanate charisma, but they can also give you away as a faker. Do not leave such an important attribute to chance. Practice the effect you desire. Genuine charisma thus means the ability to internally generate and externally express extreme excitement, an ability which makes one the object of intense attention and unre- flective imitation by others. -LI AH GREENFIELD Charismatic Types-Historical Examples The miraculous prophet. In the year 1425, Joan of Arc, a peasant girl from the French village of Domremy, had her first vision: "I was in my thirteenth year when God sent a voice to guide me." The voice was that of Saint Michael and he came with a message from God: Joan had been chosen to rid France of the English invaders who now ruled most of the country, and of the resulting chaos and war. She was also to restore the French crown to the prince-the Dauphin, later Charles VII-who was its rightful heir. Saint Catherine and Saint Margaret also spoke to Joan. Her visions were extraordinarily vivid: she saw Saint Michael, touched him, smelled him. The Charismatic • 103 At first Joan told no one what she had seen; for all anyone knew, she was a quiet farm girl. But the visions became even more intense, and so in 1429 she left Domremy, determined to realize the mission for which God had chosen her. Her goal was to meet Charles in the town of Chinon, where he had established his court in exile. The obstacles were enormous: Chinon was far, thejourney was dangerous, and Charles, even if she reached him, was a lazy and cowardly young man who was unlikely to crusade against the English. Undaunted, she moved from village to village, explaining her mission to soldiers and asking them to escort her to Chinon. Young girls with religious visions were a dime a dozen at the time, and there was nothing in Joan's appearance to inspire confidence; one soldier, however, Jean de Metz, was intrigued with her. What fascinated him was the detail of her visions: she would liberate the besieged town of Orleans, have the king crowned at the cathedral in Reims, lead the army to Paris; she knew how she would be wounded, and where; the words she attributed to Saint Michael were quite unlike the language of a farm girl; and she was so calmly confident, she glowed with conviction. De Metz fell under her spell. He swore allegiance and set out with her for Chinon. Soon others offered assistance, too, and word reached Charles of the strange young girl on her way to meet him.On the 350-mile road to Chinon, accompanied only by a handful of soldiers, through a land infested with warring bands, Joan showed neither fear nor hesitation. The journey took several months. When she finally arrived, the Dauphin decided to meet the girl who had promised to restore him to his throne, despite the adviceof his counselors; but he was bored, and wanted amusement, and decided to play a trick on her. She was to meet him in a hall packed with courtiers; to test her prophetic powers, he disguised himself as one of these men, and dressed another man as the prince. Yet when Joan arrived, to the amazement of the crowd, she walked straight up to Charles and curtseyed: "The King of Heaven sends me to you with the message that you shall be the lieutenant of the King of Heaven, who is the king of France." In the talk that followed, Joan seemed to echo Charles's most private thoughts, while once again recounting in extraordinary detail the feats she would accomplish. Days later, this indecisive, flighty man declared himself convinced and gave her his blessing to lead a French army against the English. Miracles and saintliness aside, Joan of Arc had certain basic qualities that made her exceptional. Her visions were intense; she could describe them in such detail that they had to be real. Details have that effect: they lend a sense of reality to even the most preposterous statements. Furthermore, in a time of great disorder, she was supremely focused, as if her strength came from somewhere unworldly. She spoke with authority, and she predicted things people wanted: the English would be defeated, prosperity would return. She also had a peasant's earthy common sense. She had surely heard descriptions of Charles on the road to Chinon; once at court, she could Amongst the surplus population living on the margin of society [in the Middle Ages ] there was always a strong tendency to take as leader a layman, or maybe an apostatefriar or monk, who imposed himself not simply as a holy man but as a prophet or even as a living god. On the strength of inspirations or revelations for which he claimed divine origin this leader would decree for his followers a communal mission of vast dimensions and world-shaking importance. The conviction of having such a mission, of being divinely appointed to carry out a prodigious task, provided the disoriented and the frustrated with new bearings and new hope. It gave them not simply a place in the world but a unique and resplendent place. A fraternity of this kind felt itself an elite, set infinitely apartfrom and above ordinary mortals, sharing also in his miraculous powers. COHN, THE PURSUIT OF THE MILLENNIUM "How peculiar [Rasputin's] eyes are," confesses a woman who had made efforts to resist his influence. She goes on to say that every time she met him she was always amazed afresh at the power of his glance, which it was impossible to withstand for any considerable time. There was something oppressive inthis kind and gentle, but at the same time sly and cunning, glance; people were helpless under the spell of the powerful will which could be felt in his whole being. However tired you might be of this charm, and however much you wanted to escape it, somehow or other you always found yourself attracted back and held. • A young girl who had heard of the strange new saint camefrom her province to the capital, and visited him in search of edification and spiritual instruction. She had never seen either him or a portrait of him before, and met him for the first time in his house. When he came up to her and spoke to her, she thought him like one of the peasant preachers she had often seen in her own country home. His gentle, monastic gaze and the plainly parted light brown hair around the worthy simple face, all at first inspired her confidence. But when he came nearer to her, shefelt immediately that another quite different man, mysterious, crafty, and corrupting, looked out from behind the eyes that radiated goodness and gentleness. • He sat down opposite her, edged quite close up to her, and his light blue eyes changed color, and became deep and have sensed the trick he was playing on her, and could have confidently picked out his pampered face in the crowd. The following year, her visions abandoned her, and her confidence as well-shemade many mistakes, leading to her capture by the English. She was indeed human. We may no longer believe in miracles, but anything that hints at strange, unworldly, even supernatural powers will create charisma. The psychology is the same: you have visions of the future, and of the wondrous things you can accomplish. Describe these things in great detail, with an air authority, and suddenly you stand out. And if your prophecy-of prosperity, say-is just what people want to hear, they are likely to fall under spell and to see later events as a confirmation of your predictions. Exhibit remarkable confidence and people will think your confidence comes from real knowledge. You will create a self-fulfilling prophecy: people's belief in you will translate into actions that help realize your visions. Any hint of success will make them see miracles, uncanny powers, the glow of charisma. The authentic animal. One day in 1905, the St. Petersburg salon of Countess Ignatiev was unusually full. Politicians, society ladies, and courtiers had all arrived early to await the remarkable guest of honor: Grigori Efimovich Rasputin, a forty-year-old Siberian monk who had made a name for himself throughout Russia as a healer, perhaps a saint. When Rasputinarrived, few could disguise their disappointment: his face was ugly, his hair was stringy,hewas gangly and awkward. They wondered why they had come. But then Rasputin approached them one by one, wrapping his big hands around their fingers and gazing deep into their eyes. At first his gaze was unsettling: as he looked them up and down, he seemed to be probing andjudging them. Yet suddenly his expression would change, and kindness, joy, and understanding would radiate from his face. Several of the ladies he actually hugged, in a most effusive manner. This startling contrast had profound effects. The mood in the salon soon changed from disappointment to excitement. Rasputin's voice was so calm and deep; his language was coarse, yet the ideas it expressed were delightfully simple, and had the ring of great spiritual truth. Then, just as the guests were beginning to relax with this dirty-looking peasant, his mood suddenly changed to anger: "I know you, I can read your souls. You are all too pampered. . . . These fine clothes and arts of yours are useless and pernicious. Men must learn to humble themselves! You must be simpler, far, far simpler. Only then will God come nearer to you." The monk's face grew animated, his pupils expanded, he looked completely different. How impressive that angry look was, recalling Jesus throwing the moneylenders from the temple. Now Rasputin calmed down, returned to being gracious, but the guests already saw him as someone strange and remarkable. Next, in a performance he would soon repeat in salons throughout the city, he led the guests in a folk song, and as they sang, he began to dance, a strange uninhibited dance of his own design, and as he danced, he circled the most attractive women there, and with his eyes invited them to join him. The dance turned vaguely sexual; as his partners fell under his spell, he whispered suggestive comments in their ears. Yet none of them seemed to be offended. Over the next few months, women from every level of St. Petersburg society visited Rasputin in his apartment. He would talk to them of spiritual matters, but then without warning he would turn sexual, murmuring the crassest come-ons. He would justify himself through spiritual dogma: how can you repent if you have not sinned? Salvation only comes to those who go astray. One of the few who rejected his advances was asked by a friend, "How can one refuse anything to a saint?" "Does a saint need sinful love?" she replied. Her friend said, "He makes everything that comes near him holy. I have already belonged to him, and I am proud and happy to have done so." "But you are married! What does your husband say?" "He considers it a very great honor. If Rasputin desires a woman we all think it a blessing and a distinction, our husbands as well as ourselves." Rasputin's spell soon extended over Czar Nicholas and more particularly over his wife, the Czarina Alexandra, after he apparently healed their son from a life-threatening injury. Within a few years, he had become the most powerful man in Russia, with total sway over the royal couple. People are more complicated than the masks they wear in society. The man who seems so noble and gentle is probably disguising a dark side, which often come out in strange ways; if his nobility and refinement are in fact a put-on, sooner or later the truth will out, and his hypocrisy will disappoint and alienate. On the other hand, we are drawn to people who seem more comfortably human, who do not bother to disguise their contradictions. This was the source of Rasputin's charisma. A man so authentically himself, so devoid of self-consciousness or hypocrisy, was immensely appealing. His wickedness and saintliness were so extreme that it made him seem larger than life. The result was a charismatic aura that was immediate and preverbal; it radiated from his eyes, and from the touch of his hands. Most of us are a mix of the devil and the saint, the noble and the ignoble, and we spend our lives trying to repress the dark side. Few of us can give free rein to both sides, as Rasputin did, but we can create charisma to a smaller degree by ridding ourselves of self-consciousness, and of the discomfort most of us feel about our complicated natures. You cannot help being the way you are, so be genuine. That is what attracts us to animals: beautiful and cruel, they have no self-doubt. That quality is doubly fascinating in humans. Outwardly people may condemn your dark side, but it is not virtue alone that creates charisma; anything extraordinary will do. Do not apologize or go halfway. The more unbridled you seem, the more magnetic the effect. dark. A keen glance reached her from the comer of his eyes, bored into her, and held her fascinated. A leaden heaviness overpowered her limbs as his great wrinkled face, distorted with desire, came closer to hers. She felt his hot breath on her cheeks, and saw how his eyes, burning from the depths of their sockets, furtively roved over her helpless body, until he dropped his lids with a sensuous expression. His voice had fallen to a passionate whisper, and he murmured strange, voluptuous words in her ear. • Just as she was on the point of abandoning herself to her seducer, a memory stirred in her dimly and as if from some far distance; she recalled that she had come to ask him about God. FULOP-MILLER, RASPUTIN: THE HOLY DEVIL By its very nature, the existence of charismaticauthority is specifically unstable. The holder may forego his charisma; he may feel "forsaken by his God," as Jesus did on the cross; he may prove to his that "virtue is gone out of him." It is then that his mission is extinguished, and hope waits and searches for a new holder of charisma. WEBER: ESSAYS IN SOCIOLOGY. GERTH AND WRIGHT MILLS The demonic performer. Throughout his childhood Elvis Presley was thought a strange boy who kept pretty much to himself. In high school in Memphis, Tennessee, he attracted attention with his pompadoured hair and sideburns, his pink and black clothing, but people who tried to talk to him found nothing there-he was either terribly bland or hopelessly shy. At the school prom, he was the only boy who didn't dance. He seemed lost in a private world, in love with the guitar he took everywhere. At the Ellis Auditorium, at the end of an evening of gospel music or wrestling, the concessions manager would often find Elvis onstage, miming a performance and taking bows before an imaginary audience. Asked to leave, he would quietly walk away. He was a very polite young man. In 1953, just out of high school, Elvis recorded his first song, in a local studio. The record was a test, a chance for him to hear his own voice. A year later the owner of the studio, Sam Phillips, called him in to record two blues songs with a couple of professional musicians. They worked for hours, but nothing seemed to click; Elvis was nervous and inhibited. Then, near the end of the evening, giddy with exhaustion, he suddenly let loose and started to jump around like a child, in a moment of complete selfabandon. The other musicians joined in, the song getting wilder and wilder. Phillips's eyes lit up-he had something here. A month later Elvis gave his first public performance, outdoors in a Memphis park. He was as nervous as he had been at the recording session, and could only stutter when he had to speak; but once he broke into song, the words came out. The crowd responded excitedly, rising to peaks at certain moments. Elvis couldn't figure out why. "I went over to the manager after the song," he later said, "and I asked him what was making the crowd go nuts. He told me, 'I'm not really sure, but I think that every time you wiggle your left leg, they start to scream. Whatever it is, just don't stop.' A single Elvis recorded in 1954 became a hit. Soon he was in demand. Going onstage filled him with anxiety and emotion, so much so that he became a different person, as if possessed. "I've talked to some singers and they get a little nervous, but they say their nerves kind of settle down they get into it. Mine never do. It's sort of this energy something maybe like sex." Over the next few months he discovered more gestures and sounds-twitching dance movements, a more tremulous voice-that made the crowds go crazy, particularly teenage girls. Within a year he had become the hottest musician in America. His concerts were exercises in mass hysteria. Elvis Presley had a dark side, a secret life. (Some have attributed it to the death, at birth, of his twin brother.) This dark side he deeply repressed as a young man; it included all kinds of fantasies which he could only give in to when he was alone, although his unconventional clothing may also have been a symptom of it. When he performed, though, he was able to let these demons loose. They came out as a dangerous sexual power. Twitching, androgynous, uninhibited, he was a man enacting strange fantasies before the public. The audience sensed this and was excited by it. It wasn't a flamboyant style and appearance that gave Elvis charisma, but rather the electrifying expression of his inner turmoil. A crowd or group of any sort has a unique energy. Just below the surface is desire, a constant sexual excitement that has to be repressed because it is socially unacceptable. If you have the ability to rouse those desires, the crowd will see you as having charisma. The key is learning to access your own unconscious, as Elvis did when he let go. You are full of an excitement that seems to come from some mysterious inner source. Your uninhibitedness will invite other people to open up, sparking a chain reaction: their excitement in turn will animate you still more. The fantasies you bring to the surface do not have to be sexual-any social taboo, anything repressed and yearning for an outlet, will suffice. Make this felt in your recordings, your artwork, your books. Social pressure keeps people so repressed that they will be attracted to your charisma before they have even met you in person. The Savior. In March of 1917, the Russian parliament forced the country's ruler. Czar Nicholas, to abdicate and established a provisional government. Russia was in rums. Its participation in World War I had been a disaster; famine was spreading widely, the vast countryside was riven by looting and lynch law, and soldiers were deserting from the army en masse. Politically the country was bitterly divided; the main factions were the right, the social democrats, and the left-wing revolutionaries, and each of these groups was itself afflicted by dissension. Into this chaos came the forty-seven-year-old Vladimir Ilyich Lenin. A Marxist revolutionary, the leader of the Bolshevik Communist party, he had suffered a twelve-year exile in Europe until, recognizing the chaos overcoming Russia as the chance he had long been waiting for, he had hurried back home. Now he called for the country to end its participation in the war and for an immediate socialist revolution. In the first weeks after his arrival, nothing could have seemed more ridiculous. As a man, Lenin looked unimpressive; he was short and plain-featured. He had also spent years away in Europe, isolated from his people and immersed in reading and intellectual argument. Most important, his party was small, representing only a splinter group within the loosely organized left coalition. Few took him seriously as a national leader. Undaunted, Lenin went to work. Wherever he went, he repeated the same simple message; end the war, establish the rule of the proletariat, abolish private property, redistribute wealth. Exhausted with the nation's endless political infighting and the complexity of its problems, people began to listen. Lenin was so determined, so confident. He never lost his cool. In the midst of a raucous debate, he would simply and logically debunk each one of his adversaries' points. Workers and soldiers were im- He is their god. He leads them like a thing \ Made by some other deity than nature, \ That shapes man better; and they follow him \ Against us brats with no less confidence \ Than boys pursuing summer butterflies \ Or butchers killing flies. . . . -WILLI AMS HAKES PE ARE, CORIOLANUS The roof did lift as Presley came onstage. He sang for twenty-five minutes while the audience erupted like Mount Vesuvius. "I never saw such excitement and screaming in my entire life, ever before or since," said I film director Hal ] Kanter. As an observer, he describ-ed being stunned by "an exhibition of public mass hysteria ... a tidal wave of adoration surging up from 9,000 people, over the wall of police flanking the stage, up over the flood-lights, to the performer and beyond him, lifting him to frenzied heights of response." -A DESCRIPTION OFPRESLEY'S CONCERT AT THE HAYRIDE THEATER, SHREVEPORT, LOUISIANA, DECEMBER 17, 1956, IN PETER WHITMER, THE INNER ELVIS: A PSYCHOLOGICAL BIOGRAPHY OF ELVIS AARON PRESLEY No one could so fire others with theif plans, no one could so impose his will and conquer by force of his personality as this seemingly so ordinary and somewhat coarse man who lacked any obvious sources of charm. . . . Neither Plekhanov nor Martov nor anyone else possessed the secret radiating from Lenin of positively hypnotic effect upon people-I would even say, domination of them. Plekhanov was treated with deference, Martov was loved, but Lenin alone was followed unhesitatingly as the only indisputable leader. For only Lenin represented that rare phenomenon, especially rare in Russia, of a man of iron will and indomitable energy who combines fanatical faith in the movement, the cause, with no less faith in himself. POTRESOV, QUOTED IN DANKWARTA. RUSTOW, ED.. PHILOSOPHERS AND KINGS: STUDIES IN LEADERSHIP "I had hoped to see the mountain eagle of our party, the great man, great physically as well as politically. I had fancied Lenin as a giant, stately and imposing. Mow great was my disappointment to see a most ordinary-looking man, below average height, in no way, literally in no way distinguishable from ordinary mortals. STALIN, ON MEETING LENIN FOR THE FIRST TIME IN 1905,QUOTED IN RONALD W. CLARK, LENIN :THE MAN BEHIND THE MASK pressed by his firmness. Once, in the midst of a brewing riot, Lenin amazed his chauffeur by jumping onto the running board of his car and directing the way through the crowd, at considerable personal risk. Told that his ideas had nothing to do with reality, he would answer, "So much the worse for reality!" Allied to Lenin's messianic confidence in his cause was his ability to organize. Exiled in Europe, his party had been scattered and diminished; in keeping them together he had developed immense practical skills. In front of a large crowd, he was a also powerful orator. His speech at the First All- Russian Soviet Congress made a sensation; either revolution or a bourgeois government, he cried, but nothing in between-enough of this compromise in which the left was sharing. At a time when other politicians were scrambling desperately to adapt to the national crisis, and seemed weak in the process, Lenin was rock stable. His prestige soared, as did the membership of the Bolshevik party Most astounding of all was Lenin's effect on workers, soldiers, and peasants. He would address these common people wherever he found them-in the street, standing on a chair, his thumbs in his lapel, his speech an odd mix of ideology, peasant aphorisms, and revolutionary slogans. They would listen, enraptured. When Lenin died, in 1924-seven years after single- handedly opening the way to the October Revolution of 1917, which had swept him and the Bolsheviks into power-these same ordinary Russians went into mourning. They worshiped at his tomb, where his body was preserved on view; they told stories about him, developing a body of Lenin folklore; thousands of newborn girls were christened "Ninel," Lenin backwards. This cult of Lenin assumed religious proportions. There all kinds of misconceptions about charisma, which, paradoxically, only add to its mystique. Charisma has little to do with an exciting physical appearance or a colorful personality, qualities that elicit short-term interest. Particularly in times of trouble, people are not looking for entertainment- they want security, a better quality of life, social cohesion. Believe it or not, a plain-looking man or woman with a clear vision, a quality of single- mindedness, and practical skills can be devastatingly charismatic, provided it matched with some success. Never underestimate the power of success in enhancing one's aura. But in a world teeming with compromisers and fudgers whose indecisiveness only creates more disorder, one clear-minded soul will be a magnet of attention-will have charisma. One on one, or in a Zurich cafe before the revolution, Lenin had little or no charisma. (His confidence was attractive, but many found his strident manner irritating.) He won charisma when he was seen as the man who could save the country. Charisma is not a mysterious quality that inhabits you outside your control; it is an illusion in the eyes of those who see you as having what they lack. Particularly in times of trouble, you can enhance that illusion through calmness, resolution, and clear-minded practicality. It also helps to have a seductivelysimple message. Call it the Savior Syndrome: once people imagine you can save them from chaos, they will fall in love with you, like a person who melts in the arms of his or her rescuer. And mass love equals charisma. How else to explain the love ordinary Russians felt for a man as emotionless and unexciting as Vladimir Lenin. The guru. According to the beliefs of the Theosophical Society, every two thousand years or so the spirit of the World Teacher, Lord Maitreya, inhabits the body of a human. First there was Sri Krishna, born two thousand years before Christ; then there was Jesus himself; and at the start of the twentieth century another incarnation was due. One day in 1909, the theosophist Charles Leadbeater saw a boy on an Indian beach and had an epiphany: this fourteen-year-old lad, Jiddu Krishnamurti, would be the Teacher's next vehicle. Leadbeater was struck by the simplicity of the boy, who seemed to lack the slightest trace of selfishness. The members of the Theosophical Society agreed with his assessment and adopted this scraggly underfed youth, whose teachers had repeatedly beaten him for stupidity. They fed and clothed him and began his spiritual instruction. The scruffy urchin turned into a devilishly handsome young man. In 1911, the theosophists formed the Order of the Star in the East, a group intended to prepare the way for the coming of the World Teacher. Krishnamurti was made head of the order. He was taken to England, where his education continued, and everywhere he went he was pampered and revered. His air of simplicity and contentment could not help but impress. Soon Krishnamurti began to have visions. In 1922 he declared, "I have drunk at the fountain of Joy and eternal Beauty. I am God-intoxicated." Over the next few years he had psychic experiences that the theosophists interpreted as visits from the World Teacher. But Krishnamurti had actually had a different kind of revelation: the truth of the universe came from within. No god, no guru, no dogma could ever make one realize it. He himself was no god or messiah, but just another man. The reverence that he was treated with disgusted him. In 1929, much to his followers' shock, he disbanded the Order of the Star and resigned from the Theosophical . And so Krishnamurti became a philosopher, determined to spread the truth he had discovered: you must be simple, removing the screen of language and past experience. Through these means anyone could attain contentment of the kind that radiated from Krishnamurti. The theosophists abandoned him but his following grew larger than ever. In California, where he spent much of his time, the interest in him verged onculticadoration. The poet Robinson Jeffers said that whenever Krishnamurti entered a room you could feel a brightness filling the space. The writer Aldous Huxley met him in Los Angeles and fell under his spell. Hearing him speak, he wrote: "It was like listening to the discourse of the Buddha- such power, such intrinsic authority." The man radiated enlightenment. The actor John Barrymore asked him to play the role of Buddha in a film. Tirst and foremost there can be no prestige without mystery, for familiarity breeds contempt. ...In the design, the demeanor and the mental operations of a leader there must always be a "something" which others cannot altogether fathom, which puzzles them, stirs them, and rivets their attention ... to hold in reserve some piece of secret knowledge which may any moment intervene, and the more effectively from being in the nature of a surprise. The latent faith of the masses will do the rest. Once the leader has been fudged capable of adding the weight of his personality to the known factors of any situation, the ensuing hope and confidence will add immensely to the faith reposed in him. -CHARLES DE GAULLE, THE OF THE SWORD. IN DAVID SCHOENBRUN, THE THREE LIVES OF CHARLES DE GAULLE Only a month after Evita's death, the newspaper vendors' union put forwardher name for canonization, and although this gesture was an isolated one and was never taken seriously by the Vatican, the idea of Evita's holiness remained with many people and was reinforced by the publication of devotional literature subsidized by government; by the renaming of cities, schools, and subway stations; and by the stamping of medallions, the casting of busts, and the issuing of ceremonial stamps. The time of the evening news broadcast was changedfrom 8:30 pm. to 8:25 P.M., the time when Evita had "passed into immortality," and each month there were torch-lit processions on the twenty-sixth of the month, the day of her death. On the first anniversary of her death, La Prensa printed a about one of its readers seeing Evita's face in the face of the moon, and after this there were more such sightings reported in the newspapers. For the most part, official publications stopped short of claiming sainthood for her, but their restraint was not always convincing. In the calendar for 1953 of the Buenos Aires newspaper vendors, as in other unofficial images, she was depicted in the traditional blue robes of the Virgin, her hands crossed, her sad head to one side and surrounded by a halo. -NICHOLAS FRASER AND MARYSA NAYARRO. EVITA (Krishnamurti politely declined.) When he visited India, hands would reach outfrom the crowd to try to touch him through the open car window. People prostrated themselves before him. Repulsed by all this adoration, Krishnamurti grew more and more detached. He even talked about himself in the third person. In fact, the ability to disengage from one's past and view the world anew was part of his philosophy, yet once again the effect was the opposite of what he expected: the affection and reverence people felt for him only grew. His followers fought jealously for signs of his favor. Women in particular fell deeply in love with him, although he was a lifelong celibate. Krishnamurti had no desire to be a guru or a Charismatic, but he inadvertently discovered a law of human psychology that disturbed him. People do not want to hear that your power comes from years of effort or discipline. They prefer to think that it comes from your personality, your character, something you were born with. They also hope that proximity to the guru or Charismatic will make some of that power rub off on them. They did not want to have to read Krishnamurti's books, or to spend years practicing his lessons-they simply wanted to be near him, soak up his aura, hear him speak, feel the light that entered the room with him. Krishnamurti advocated simplicity as a way of opening up to the truth, but his own simplicity justallowedpeople to see what they wanted in him, attributing powers to him that he not only denied but ridiculed. This is the guru effect, and it is surprisingly simple to create. The aura you are after is not the fiery one of most Charismatics, but one of incandescence, enlightenment. An enlightened person has understood something that makes him or her content, and this contentment radiates outward. That is the appearance you want: you do not need anything or anyone, you are fulfilled. People are naturally drawn to those who emit happiness; maybe they can catch it from you. The less obvious you are, the better: let people conclude that you are happy, rather than hearing it from you. Let them see it in your unhurried manner, your gentle smile, your ease and comfort. Keep your words vague, letting people imagine what they will. Remember: being aloof and distant only stimulates the effect. People will fight for the slightest sign of your interest. A guru is content and detached-a deadly Charismatic combination. The drama saint. It began on the radio. Throughout the late 1930s and early 1940s, Argentine women would hear the plaintive, musical voice of Eva Duarte in one of the lavishly produced soap operas that were so popular at the time. She never made you laugh, but how often she could make you cry-with the complaints of a betrayed lover, or the last words of Marie Antoinette. The very thought of her voice made you shiver with emotion. And she was pretty, with her flowing blond hair and her serious face, which was often on the covers of the gossip magazines. In 1943, those magazines published a most exciting story: Eva had begun an affair with one of the most dashing men in the new military government. Colonel Juan Peron. Now Argentines heard her doing propaganda spots for the government, lauding the "New Argentina" that glistened in the future. And finally, this fairy tale story reached its perfect conclusion: in 1945 Juan and Eva married, and the following year, the handsome colonel, after many trials and tribulations (including a spell in prison, from which he was freed by the efforts of his devoted wife) was elected president. He was a champion of th edescamisados -the "shirtless ones," the workers and the poor, just as his wife was. Only twenty-six at the time, she had grown up in poverty herself. Now that this star was the first lady of the republic, she seemed to change. She lost weight, most definitely; her outfits became less flamboyant, even downright austere; and that beautiful flowing hair was now pulled back, rather severely. It was a shame-the young star had grown up. But as Argentines saw more of the new Evita, as she was now known, her new look affected them more strongly. It was the look of a saintly, serious woman, one who was indeed what her husband called the "Bridge of Love" between himself and his people. She was now on the radio all the time, and listening to her was as emotional as ever, but she also spoke magnificently in public. Her voice was lower and her delivery slower; she stabbed the air with her fingers, reached out as if to touch the audience. And her words pierced you to the core: "I left my dreams by the wayside in order to watch over the dreams of others. ... I now place my soul at the side of the soul of my people. I offer them all my energies so that my body may be a bridge erected toward the happiness of all. Pass over it ... toward the supreme destiny of the new fatherland." It was no longer only through magazines and the radio that Evita made herself felt. Almost everyone was personally touched by her in some way. Everyone seemed to know someone who had met her, or who had visited her in her office, where a line of supplicants wound its way through the hallways to her door. Behind her desk she sat, so calm and full of love. Film crews recorded her acts of charity: to a woman who had lost everything, Evita would give a house; to one with a sick child, free care in the finest hospital. She worked so hard, no wonder rumor had it that she was ill. And everyone heard of her visits to the shanty towns and to hospitals for the poor, where, against the wishes of her staff, she would kiss people with all kinds of maladies (lepers, syphilitic men, etc.) on the cheek. Once an assistant appalled by this habit tried to dab Evita's lips with alcohol, to sterilize them. This saint of a woman grabbed the bottle and smashed it against the wall. Yes, Evita was a saint, a living madonna. Her appearance alone could heal the sick. And when she died of cancer, in 1952, no outsider to Argentina could possibly understand the sense of grief and loss she left behind. For some, the country never recovered. As for me, I have the gift of electrifying men. -NAPOLEON BONAPARTE, IN PIETER GEYL, NAPOLEON: FORAND AGAINST I do not pretend to be a divine man, but I do believe in divine guidance, divine power, and divine prophecy. I am not educated, nor am I an expert in any particular field-but I am sincere and my sincerity is my credentials. -MALCOLM X, QUOTED IN EUGENE VICTORWOLFENSTEIN, THE VICTIMS OF DEMOCRACY: MALCOLM X AND THIS BLACK REVOLUTION Most of us live in a semi-somnambulistic state: we do our daily tasks and the days fly by. The two exceptions to this are childhood and those moments when we are in love. In both cases, ouremotions are more engaged, more open and active. And we equate feeling emotional with feeling more alive. A public figure who can affect people's emotions, who can make them feel communal sadness, joy, or hope, has a similar effect. An appeal to the emotions is far more powerful than an appeal to reason. Eva Peron knew this power early on, as a radio actress. Her tremulous voice could make audiences weep; because of this, people saw in her great charisma. She never forgot the experience. Her every public act was framed in dramatic and religious motifs. Drama is condensed emotion, and the Catholic religion is a force that reaches into your childhood, hits you where you cannot help yourself. Evita's uplifted arms, her staged acts of charity, her sacrifices for the common folk-all this went straight to the heart. It was not her goodness alone that was charismatic, although the appearance of goodness is alluring enough. It was her ability to dramatize her goodness. You must leam to exploit the two great purveyors of emotion: drama and religion. Drama cuts out the useless and banal in life, focusing on moments of pity and terror; religion deals with matters of life and death. Make your charitable actions dramatic, give your loving words religious import, bathe everything in rituals and myths going back to childhood. Caughtupintheemotions you stir, people will see over your head the halo of charisma. The deliverer. In Harlem in the early 1950s, few African-Americans knew much about the Nation of Islam, or ever stepped into its temple. The Nation preached that white people were descended from the devil and that someday Allah would liberate the black race. This doctrine had little meaning for Harlemites, who went to church for spiritual solace and turned in practical matters to their local politicians. But in 1954, a new minister for the Nation of Islam arrived in Harlem. The minister's name was Malcolm X, and he was well-read and eloquent, yet his gestures and words were angry. Word spread: whites had lynched Malcolm's father. He had grown up in a juvenile facility, then had survived as a small-time hustler before being arrested for burglary and spending six years in prison. His short life (he was only twenty-nine at the time) had been one long run-in with the law, yet look at him now-so confident and educated. No one had helped him; he had done it all on his own. Harlemites began to see Malcolm X everywhere, handing out fliers, addressing the young. He would stand outside their churches, and as the congregation dispersed, he would point to the preacher and say, "He represents the white man's god; I represent the black man's god." The curious began to come to hear him preach at a Nation of Islam temple. He would ask them to look at the actual conditions of their lives: "When you get through looking at where you live, then . . . take a walk across Central Park," he would tell them. "Look at the white man's apartments. Look at his Wall Street!" His words were powerful, particularly coming from a minister. In 1957, a young Muslim in Harlem witnessed the beating of a drunken black man by several policemen. When the Muslim protested, the police pummeled him senseless and carted him off to jail. An angry crowd gathered outside the police station, ready to riot. Told that only Malcolm X could forestall violence, the police commissioner brought him in and told him to break up the mob. Malcolm refused. Speaking more temperately, the commissioner begged him to reconsider. Malcolm calmly set conditions for his cooperation: medical care for the beaten Muslim, and proper punishment for the police officers. The commissioner reluctantly agreed. Outside the station, Malcolm explained the agreement and the crowd dispersed. In Harlem and around the country, he was an overnight hero- finally a man who took action. Membership in his temple soared. Malcolm began to speak all over the United States. He never read from a text; looking out at the audience,hemade eye contact, pointed his finger. His anger was obvious, not so much in his tone-he was always controlled and articulate-as in his fierce energy, the veins popping out on his neck. Many earlier black leaders had used cautious words, and had asked their followers to deal patiently and politely with their social lot, no matter how unfair. What a relief Malcolm was. He ridiculed the racists, he ridiculed the liberals, he ridiculed the president; no white person escaped his scorn. If whites were violent, Malcolm said, the language of violence should be spoken back to them, for it was the only language they understood. "Hostility is good!" he cried out. "It's been bottled up too long." In response to the growing popularity of the nonviolent leader Martin Luther King, Ir., Malcolm said, "Anybody can sit. An old woman can sit. A coward can sit. ... It takes a man to stand." Malcolm X had a bracing effect on many who felt the same anger he did but were frightened to express it. At his funeral-he was assassinated in 1965, at one of his speeches-the actor Ossie Davis delivered the eulogy before a large and emotional crowd: "Malcolm," he said, "was our own black shining prince." Malcolm X was a Charismatic of Moses' kind: he was a deliverer. The power of this sort of Charismatic comes from his or her expression of dark emotions that have built up over years of oppression. In doing so, the deliverer provides an opportunity for the release of bottled-up emotions by other people-of the hostility masked by forced politeness and smiles. Deliverers have to be one of the suffering crowd, only more so: their pain must be exemplary. Malcolm's personal history was an integral part of his charisma. His lesson-that blacks should help themselves, not wait for whites to lift them up-meant a great deal more because of his own years in prison, and because he had followed his own doctrine by educating himself, lifting himself up from the bottom. The deliverer must be a living example of personal redemption. The essence of charisma is an overpowering emotion that communicates itself in your gestures. In your tone of voice, in subtle signs that are the more powerful for being unspoken. You feel something more deeply than others, and no emotion is more powerful and more capable of creating a charismatic reaction than hatred, particularly if it comes from deep- rooted feelings of oppression. Express what others are afraid to express and they will see great power in you. Say what they want to say but cannot. Never be afraid of going too far. If you represent a release from oppression, you have the leeway to go still farther. Moses spoke of violence, of destroying every last one of his enemies. Language like this brings the oppressed together and makes them feel more alive. This is not, however, something that is uncontrollable on your part. Malcolm X felt rage from early on, but only in prison did he teach himself the art of oratory, and how to channel his emotions. Nothing is more charismatic than the sense that someone is struggling with great emotion rather than simply giving in to it. The Olympian actor. On lanuary 24, 1960 an insurrection broke out in Algeria, then still a French colony. Led by right-wing French soldiers, its purpose was to forestall the proposal of President Charles de Gaulle to grant Algeria the right of self-determination. If necessary, the insurrectionists would take over Algeria in the name of France. For several tense days, the seventy-year-old de Gaulle maintained a strange silence. Then on lanuary 29, at eight in the evening, he appeared on French national television. Before he had uttered a word, the audience was astonished, for he wore his old uniform from World War II, a uniform that everyone recognized and that created a strong emotional response. De Gaulle had been the hero of the resistance, the savior of the country at its darkest moment. But that uniform had not been seen for quite some time. Then de Gaulle spoke, reminding his public, in his cool and confident manner, of all they had accomplished together in liberating France from the Germans. Slowly he moved from these charged patriotic issues to the rebellion in Algeria, and the affront it presented to the spirit of the liberation. He finished his address by repeating his famous words of lune 18, 1940: "Once again I call all Frenchmen, wherever they are, whatever they are, to reunite with France. Vive la Republique! Vive la France!" The speech had two purposes. It showed that de Gaulle was determined not to give an inch to the rebels, and it reached for the heart of all patriotic Frenchmen, particularly in the army. The insurrection quickly died, and no one doubted the connection between its failure and de Gaulle's performance on television. The following year, the French voted overwhelmingly in favor of Alself-determination. On April 11, 1961, de Gaulle gave a press conference in which he made it clear that France would soon grant the country full independence. Eleven days later, French generals in Algeria issued a communique stating that they had taken over the country and declaring a state of siege. This was the most dangerous moment of all: faced with Algeria's imminent independence, these right-wing generals would go all the way. A civil war could break out, toppling de Gaulle's government. The following night, de Gaulleappearedonceagain on television, once again wearing his old uniform. He mocked the generals, comparing them to a South American junta. He talked calmly and sternly. Then, suddenly, at the very end of the address, his voice rose and even trembled as he called out to the audience: "Francoises, Frangais, aidez-moi!" ("Frenchwomen, Frenchmen, help me!") It was the most stirring moment of all his television appearances. French soldiers in Algeria, listening on transistor radios, were overwhelmed. The next day they held a mass demonstration in favor of de Gaulle. Two days later the generals surrendered. On July 1, 1962, de Gaulle proclaimed Algeria's independence. In 1940, after the German invasion of France, de Gaulle escaped to England to recruit an army that would eventually return to France for the liberation. At the beginning, he was alone, and his mission seemed hopeless. But he had the support of Winston Churchill, and with Churchill's blessing he gave a series of radio talks that the BBC broadcast to France. His strange, hypnotic voice, with its dramatic tremolos, would enter French living rooms in the evenings. Few of his listeners even knew what he looked like, but his tone was so confident, so stirring, that he recruited a silent army of believers. In person, de Gaulle was a strange, brooding man whose confident manner couldjust as easily irritate as win over. But over the radio that voice had intense charisma. De Gaulle was the first great master of modern media, for he easily transferred his dramatic skills to television, where his iciness, his calmness, his total self-possession, made audiences feel both comforted and inspired. The world has grown more fractured. A nation no longer conies together on the streets or in the squares; it is brought together in living rooms, where people watching television all over the country can simultaneously be alone and with others. Charisma must now be communicable over the airwaves or it has no power. But it is in some ways easier to project on television, both because television makes a direct one-on-one appeal (the Charismatic seems to address you ) and because charisma is fairly easy to fake for the few moments you spend in front of the camera. As de Gaulle understood, when appearing on television it is best to radiate calmness and control, to use dramatic effects sparingly. De Gaulle's overall iciness made doubly effective the brief moments in which he raised his voice, or let loose a biting joke. By remaining calm and underplaying it, he hypnotized his audience. (Your face can express much more if your voice is less strident.) He conveyed emotion visually-the uniform, the setting-and through the use of certain charged words:the liberation, Joan of Arc. The less he strained for effect, the more sincere he appeared. All this must be carefully orchestrated. Punctuate your calmness with surprises; rise to a climax; keep things short and terse. The only thing that cannot be faked is self-confidence, the key component to charisma since the days of Moses. Should the camera lights betray your insecurity, all the tricks in the world will not put your charisma back together again. Symbol: The Lamp. Invisible to the eye, a current flowing through a wire in a glass vessel generates a heat that turns into candescence. All we see is the glow. In the prevailing darkness, the Lamp lights the way. Dangers O n a pleasant May day in 1794, the citizens of Paris gathered in a park for the Festival of the Supreme Being. The focus of their attention was Maximilien de Robespierre, head of the Committee of Public Safety, and the man who had thought up the festival in the first place. The idea was simple; to combat atheism, "to recognize the existence of a Supreme Being and the Immortality of the Soul as the guiding forces of the universe." It was Robespierre's day of triumph. Standing before the masses in his sky-blue suit and white stockings, he initiated the festivities. The crowd adored him; after all, he had safeguarded the purposes of the French Revolution through theintensepoliticking that had followed it. The year before, he had initiated the Reign of Terror, which cleansed the revolution of its enemies by sending them to the guillotine. He had also helped guide the country through a war against the Austrians and the Prussians. What made crowds, and particularly women, love him was his incorruptible virtue (he lived very modestly), his refusal to compromise, the passion for the revolution that was evident in everything he did, and the romantic language of his speeches, which could not fail to inspire. He was a god. The day was beautiful and augured a great future for the revolution. Two months later, on July 26, Robespierre delivered a speech that he thought would ensure his place in history, for he intended to hint at the end of the Terror and a new era for France. Rumor also had it that he was to call for a last handful of people to be sent to the guillotine, a final group that threatened the safety of the revolution. Mounting the rostrum to address the country's governing convention, Robespierre wore the same clothes he had worn on the day of the festival. The speech was long, almost three hours, and included an impassioned description of the values and virtues he had helped protect. There was also talk of conspiracies, treacery, unnamed enemies. The response was enthusiastic, but a little less so than usual. The speech had tired many representatives. Then a lone voice was heard, that of a man named Bourdon, who spoke against printing Robespierre's speech, a veiled sign of disapproval. Suddenly others stood up on all sides, and accused him of vagueness: he had talked of conspiracies and threats without naming the guilty. Asked to be specific, he refused, preferring to name names later on. The next day Robespierre stood to defend his speech, and the representatives shouted him down. A few hours later, he was the one sent to the guillotine. On July 28, amid a gathering of citizens who seemed to be in an even more festive mood than at the Festival of the Supreme Being, Robespierre's head fell into the basket, to resounding cheers. The Reign of Terror was over. Many of those who seemed to admire Robespierre actually harbored a gnawing resentment of him-he was so virtuous, so superior, it was oppressive. Some of these men had plotted against him, and were waiting for the slightest sign of weakness-which appeared on that fateful day when he gave his last speech. In refusing to name his enemies, he had shown either a desire to end the bloodshed or a fear that they would strike at him before he could have them killed. Fed by the conspirators, this one spark turned into fire. Within two days, first a governing body and then a nation turned against a Charismatic who two months before had been revered. Charisma is as volatile as the emotions it stirs. Most often it stirs sentiments of love. But such feelings are hard to maintain. Psychologists talk of "erotic fatigue"-the moments after love in which you feel tired of it, resentful. Reality creeps in, love turns to hate. Erotic fatigue is a threat to all Charismatics. The Charismatic often wins love by acting the savior, rescuing people from some difficult circumstance, but once they feel secure, charisma is less seductive to them. Charismatics need danger and risk. They are not plodding bureaucrats; some of them deliberately keep danger going, as de Gaulle and Kennedy were wont to do, or as Robespierre did through the Reign of Terror. But people tire of this, and at your first sign of weakness they turn on you. The love they showed before will be matched by their hatred now. The only defense is to master your charisma. Your passion, your anger, your confidence make you charismatic, but too much charisma for too long creates fatigue, and a desire for calmness and order. The better kind of charisma is created consciously and is kept under control. When you need to you can glow with confidence and fervor, inspiring the masses. But when the adventure is over, you can settle into a routine, turning the heat,out, but down. (Robespierre may have been planning that move, but it came a day too late.) People will admire your self-control and adaptability. Their love affair with you will move closer to the habitual affection of a man and wife. You will even have the leeway to look a little boring, a little simple-a role that can also seem charismatic, if played correctly. Remember: charisma depends on success, and the best way to maintain success, after the initial charismatic rush, is to be practical and even cautious. Mao Zedong was a distant, enigmatic man who for many had an awe-inspiring charisma. He suffered many setbacks that would have spelled the end of a less clever man, but after each reversal he retreated, becoming practical, tolerant, flexible; at least for a while. This protected him from the dangers of a counterreaction. There is another alternative: to play the armed prophet. According to Machiavelli, although a prophet may acquire power through his charismatic personality, he cannot long survive without the strength to back it up. He needs an army. The masses will tire of him; they will need to be forced. Being an armed prophet may not literally involve arms, but it demands a forceful side to your character, which you can back up with action. Unfortunately this means being merciless with your enemies for as long as you retain power. And no one creates more bitter enemies than the Charismatic. Finally, there is nothing more dangerous than succeeding a Charismatic. These characters are unconventional, and their rule is personal in style, ing stamped with the wildness of their personalities. They often leave chaos in their wake. The one who follows after a Charismatic is left with a mess, which the people, however, do not see. They miss their inspirer and blame the successor. Avoid this situation at all costs. If it is unavoidable, do not try to continue what the Charismatic started; go in a new direction. By being practical, trustworthy, and plain-speaking, you can often generate a strange kind of charisma through contrast. That was how Harry Truman not only survived the legacy of Roosevelt but established his own type of charisma. Daily life is harsh, and most of us constantly seek escape from it in fantasies and dreams. Stars feed on this weakness; standing outfrom others through a distinctive and appealing style, they make us want to watch them. At the same time, they are vague and ethereal, keeping their distance, and letting us imagine more than is there. Their dreamlike quality works on our unconscious; we are not even aware how much we imitate them. Learn to become an object offascination by projecting the glittering but elusive presence of the Star. The Fetishistic Star O ne day in 1922, in Berlin, Germany, a casting call went out for the part of a voluptuous young woman in a film called Tragedy of Love. Of the hundreds of struggling young actresses who showed up, most would do anything to get the casting director's attention, including exposing themselves. There was one young woman in the line, however, who was simply dressed, and performed none of the other girls' desperate antics. Yet she stood out anyway. The girl carried a puppy on a leash, and had draped an elegant necklace around the puppy's neck. The casting director noticed her immediately. He watched her as she stood in line, calmly holding the dog in her arms and keeping to herself. When she smoked a cigarette, her gestures were slow and suggestive. He was fascinated by her legs and face, the sinuous way she moved, the hint of coldness in her eyes. By the time she had come to the front, he had already cast her. Her name was Marlene Dietrich. By 1929, when the Austrian-American director Josef von Sternberg arrived in Berlin to begin work on the film The Blue Angel, the twenty- seven-year-old Dietrich was well known in the Berlin film and theater world. The Blue Angel was to be about a woman called Lola-Lola who preys sadistically on men, and all of Berlin's best actresses wanted the part-except, apparently, Dietrich, who made it known that she thought the role demeaning; von Sternberg should choose from the other actresses he had in mind. Shortly after arriving in Berlin, however, von Sternberg attended a performance of a musical to watch a male actor he was considering for The Blue Angel The star of the musical was Dietrich, and as soon as she came onstage, von Sternberg found that he could not take his eyes off her. She stared at him directly, insolently, like a man; and then there were those legs, and the way she leaned provocatively against the wall. Von Sternberg forgot about the actor he had come to see. He had found his Lola-Lola. Von Sternberg managed to convince Dietrich to take the part, and immediately he went to work, molding her into the Lola of his imagination. He changed her hair, drew a silver line down her nose to make it seem thinner, taught her to look at the camera with the insolence he had seen onstage. When filming began, he created a lighting systemjust for her-a light that tracked her wherever she went, and was strategically heightened by gauze and smoke. Obsessed with his "creation," he followed her everywhere. No one else could go near her. The cool, brightface which didn't ask for anything, which simply existed, waiting-it was an empty face, he thought; a face that could change with any wind of expression. One could dream into it anything. It was like a beautiful empty house waiting for carpets and pictures. It had all possibilities-it could become a palace or a brothel. It depended on the one who fdled it. How limited by comparison was all that was already completed and labeled. - ERICH MARIA REMARQUE, ON MARLENE DIETRICH, ARCH OF TRIUMPH Marlene Dietrich is not an actress, like Sarah Bernhardt; she is a myth, like Phryne. -ANDRE: MALRAUX, QUOTED IN EDGAR MORIN, THE STARS. TRANSLATED BY RICHARD HOWARD When Pygmalion saw these women, living such wicked lives, he was revolted by the many faults which nature has implanted in thefemale sex, and long lived a bachelor existence, without any wife to share his home. But meanwhile, with marvelous artistry, he skillfully carved a snowy ivory statue. He made it lovelier than any woman born, and fell in love with his own creation. The statue had all the appearance of a real girl, so that it seemed to be alive, to want to move, did not modesty forbid. So cleverly did his art conceal its art. Pygmalion gazed in wonder, and in his heart there rose a passionate love for this image of a human form. Often he ran his hands over the work, feeling it to see whether it was flesh or ivory, and would not yet admit thativory was all it was. He kissed the statue, and imagined that it kissed him back, spoke to it and embraced it, and thought he felt his fingers sink into the limbs he touched, so that he was afraid lest a bruise appear where he had pressed the flesh. Sometimes he addressed it in flattering speeches, sometimes brought the kind of presents that girls enjoy. . . . He dressed the limbs of his statue in woman's robes, and put rings on its fingers, long necklaces round its neck. . . . All this finery became the image well, but it was no less lovely unadorned. Pygmalion then placed the statue on a couch that was covered with cloths of Tynan purple, laid its head to rest on soft down pillows, as if it could appreciate them, and called it his bedfellow. • The festival of Venus, which is celebrated with the greatest The Blue Angel was a huge success in Germany. Audiences were fascinated with Dietrich: that cold, brutal stare as she spread her legs over a stool, baring her underwear; her effortless way of commanding attention on screen. Others besides von Sternberg became obsessed with her. A man dying of cancer. Count Sascha Kolowrat, had one last wish: to see Marlene's legs in person. Dietrich obliged, visiting him in the hospital and lifting up her skirt; he sighed and said "Thank you. Now I can die happy." Soon Paramount Studios brought Dietrich to Hollywood, where everyone was quickly talking about her. At a party, all eyes would turn toward her when she came into the room. She would be escorted by the most handsome men in Hollywood, and would be wearing an outfit both beautiful and unusual-gold-lame pajamas, a sailor suit with a yachting cap. The next day the look would be copied by women all over town; next it would spread to magazines, and a whole new trend would start. The real object of fascination, however, was unquestionably Dietrich's face. What had enthralled von Sternberg was her blankness-with a simple lighting trick he could make that face do whatever he wanted. Dietrich eventually stopped working with von Sternberg, but never forgot what he had taught her. One night in 1951, the director Fritz Lang, who was about to direct her in the film Rancho Notorious, was driving past his office when he saw a light flash in the window. Fearing a burglary, he got out of his car, crept up the stairs, and peeked through the crack in the door: it was Diet- rich taking pictures of herself in the mirror, studying her face from every angle. Marlene Dietrich had a distance from her own self: she could study her face, her legs, her body, as if she were someone else. This gave her the ability to mold her look, transforming her appearance for effect. She could pose in just the way that would most excite a man, her blankness letting him see her according to his fantasy, whether of sadism, voluptuousness, or danger. And every man who met her, or who watched her on screen, fantasized endlessly about her. The effect worked on women as well; in the words of one writer, she projected "sex without gender." But this selfdistance gave her a certain coldness, whether on film or in person. She was like a beautiful object, something to fetishize and admire the way we admire a work of art. The fetish is an object that commands an emotional response and that makes us breathe life into it. Because it is an object we can imagine whatever we want to about it. Most people are too moody, complex, and reactive to let us see them as objects that we can fetishize. The power of the Fetishistic Star comes from an ability to become an object, and notjust any object but an object we fetishize, one that stimulates a variety of fantasies. Fetishistic Stars are perfect, like the statue of a Greek god or goddess. The effect is startling, and seductive. Its principal requirement is self-distance. If you see yourself as an object, then others will too. An ethereal, dreamlike air will heighten the effect. You are a blank screen. Float through life noncommittally and people will want to seize you and consume you. Of all the parts of your bodythat draw this fetishistic attention, the strongest is the face; so learn to tune your face like an instrument, making it radiate a fascinating vagueness for effect. And since you will have to stand out from other Stars in the sky, you will need to develop an attention-getting style. Dietrich was the great practitioner of this art; her style was chic enough to dazzle, weird enough to enthrall. Remember, your own image and presence are materials you can control. The sense that you are engaged in this kind of play will make people see you as superior and worthy of imitation. She had such natural poise . . . such an economy of gesture, that she became as absorbing as a Modigliani. She had the one essential star quality: she could be magnificent doing nothing. -BERLIN ACTRESS LILI DARVAS ON MARLENE DIETRICH The Mythic Star O n July 2, 1960, a few weeks before that year's Democratic National Convention, former President Harry Truman publicly stated that John F. Kennedy-who had won enough delegates to be chosen his party's candidate for the presidency-was too young and inexperienced for the job. Kennedy's response was startling: he called a press conference, to be televised live, and nationwide, on July 4. The conference's drama was heightened by the fact that he was away on vacation, so that no one saw or heard from him until the event itself. Then, at the appointed hour, Kennedy strode into the conference room like a sheriff entering Dodge City. He began by stating that he had run in all of the state primaries, at considerable expense of money and effort, and had beaten his opponents fairly and squarely. Who was Truman to circumvent the democratic process? "This is a young country," Kennedy went on, his voice getting louder, "founded by young men . . . and still young in heart. The world is changing, the old ways will not do, . . . It is time for a new generation of leadership to cope with new problems and new opportunities." Even Kennedy's enemies agreed that his speech that day was stirring. He turned Truman's challenge around: the issue was not his inexperience but the older generation's monopoly on power. His style was as eloquent as his words, for his performance evoked films of the time-Alan Ladd in Shane confronting the corrupt older ranchers, or James Dean in Rebel Without a Cause. Kennedy even resembled Dean, particularly in his air of cool detachment. A few months later, now approved as the Democrats' presidential candidate, Kennedy squared off against his Republican opponent, Richard Nixon, in their first nationally televised debate. Nixon was sharp; he knew pomp all through Cyprus, was now in progress, andheifers, their crooked horns gildedfor the occasion, had fallen at the altar as the axe struck their snowy necks. Smoke was rising from the incense, when Pygmalion, having made his offering, stood by the altar and timidly prayed, saying: "If you gods can give all things, may I have as my wife, I pray-"henot dare to say: "the ivory maiden," but finished: "one like the golden Venus, present at her festival in person, understood what his prayers meant, and as a sign that the gods were kindly disposed, the flames burned up three times, shooting a tongue of fire into the air. When Pygmalion returned home, he made straight for the statue of the girl he loved, leaned over the couch, and kissed her. She seemed : he laid his lips on hers again, and touched her breast with his hands-at his touch the ivory lost its hardness, and grew soft. -OVID ,METAMORPHOSES, TR ANS L ATEDB YM AR YM .INNES [John F.] Kennedy brought to television news and photojournalism the components most prevalent in the world of film: star quality and mythic story. his telegenic looks, skills at self presentation, heroic fantasies, and creative intelligence, Kennedy was brilliantly prepared to project a major screen persona. He appropriated the discourses of mass culture, especially of Hollywood, and transferred them to the news. By this strategy he made the news like dreams and like the movies-a realm in which images played out scenarios that accorded with the viewer's deepest yearnings. Never appearing in an actual fdm, but rather turning the television apparatus into his screen, he became the greatest movie star of the twentieth century. -JOHN HELLMANN, THE KENNEDY OBSESSION: THE MYTH OF JFK But we have seen that, considered as a total the stars repeats, in its own proportions, the history of the gods. Before the gods (before the stars) the mythical universe (the screen) was peopled with specters or phantoms with the glamour and magic of the double. • Several of these presences have progressively assumed body and substance, have taken form, amplified, and flowered into gods andgoddesses. And even as certain major gods of the ancient pantheons metamorphose themselves into hero-gods of salvation, the star-goddesses humanize and become new mediators between the fantastic world of dreams and man's daily life on earth. The heroes of the movies are, in an obviously attenuated way, mythological heroes in this of becoming divine. The star is the actor or actress who absorbs some of the heroic - i.e., divinized and mythic-substance of the hero or heroine of theenriches this substance by the answers to the questions and debated with aplomb,quotingstatisticson the accomplishments of the Eisenhower administration, in which he had served as vice-president. But beneath the glare of the cameras, on black and white television, he was a ghastly figure-his five o'clock shadow covered up with powder, streaks of sweat on his brow and cheeks, his face drooping with fatigue, his eyes shifting and blinking, his body rigid. What was he so worried about? The contrast with Kennedy was startling. If Nixon looked only at his opponent, Kennedy looked out at the audience, making eye contact with his viewers, addressing them in their living rooms as no politician had ever done before. If Nixon talked data and niggling points of debate, Kennedy spoke of freedom, of building a new society, of recapturing America's pioneer spirit. His manner was sincere and emphatic. His words were not specific, but he made his listeners imagine a wonderful future. The day after the debate, Kennedy's poll numbers soared miraculously, and wherever he went he was greeted by crowds of young girls, screaming andjumping. His beautiful wife Jackie by his side, he was a kind of democratic prince. Now his television appearances were events. He was in due course elected president, and his inaugural address, also broadcast on television, was stirring. It was a cold and wintry day. In the background, Eisenhower sat huddled in coat and scarf, looking old and beaten. But Kennedy stood hatless and coatless to address the nation: "I do not believe that any of us would exchange places with any other people or any other generation. The energy, the faith, the devotion which we bring to this endeavor will light our country and all who serve it-and the glow from that fire can truly light the world." Over the months to come Kennedy gave innumerable live press conferences before the TV cameras, something no previous president had dared. Facing the firing squad of lenses and questions, he was unafraid, speaking coolly and slightly ironically. What was going on behind those eyes, that smile? People wanted to know more about him. The magazines teased its readers with information-photographs of Kennedy with his wife and children, or playing football on the White House lawn, interviews creating a sense of him as a devoted family man, yet one who mingled as an equal with glamorous stars. The images all melted together-the space race, the Peace Corps, Kennedy facing up to the Soviets during the Cuban missile crisis just as he had faced up to Truman. After Kennedy was assassinated, Jackie said in an interview that before he went to bed, he would often play the soundtracks to Broadway musicals, and his favorite of these was Camelot, with its lines, "Don't let it be forgot / that once there was a spot / For one brief shining moment / That was known as Camelot." There would be great presidents again, Jackie said, but never "another Camelot." The name "Camelot" seemed to stick, making Kennedy's thousand days in office resonate as myth. Kennedy's seduction of the American public was conscious and calculated. It was also more Hollywood than Washington, which was not surprising: Kennedy's father, Joseph, had once been a movie producer, and Kennedy himself had spent time in Hollywood, hobnobbing with actors and trying to figure out what made them stars. He was particularly fascinated with Gary Cooper, Montgomery Clift, and Cary Grant; he often called Grant for advice. Hollywood had found ways to unite the entire country around certain themes, or myths-often the great American myth of the West. The great stars embodied mythic types: John Wayne the patriarch, Clift the Promethean rebel, Jimmy Stewart the noble hero, Marilyn Monroe the siren. These were not mere mortals but gods and goddesses to be dreamed and fantasized about. All of Kennedy's actions were framed in the conventions of Hollywood. He did not argue with his opponents, he confronted them dramatically. He posed, and in visually fascinating ways-whether with his wife,withhis children, or alone onstage. He copied the facial expressions, the presence, of a Dean or a Cooper. He did not discuss policy details but waxed eloquent about grand mythic themes, the kind that could unite a divided nation. And all this was calculated for television, for Kennedy mostly existed as a televised image. That image haunted our dreams. Well before his assassination, Kennedy attracted fantasies of America's lost innocence with his call for a renaissance of the pioneer spirit, a New Frontier. Of all the character types, the Mythic Star is perhaps the most powerful of all. People are divided by all kinds of consciously recognized categories- race, gender, class, religion, politics. It is impossible, then, to gain power on a grand scale, or to win an election, by drawing on conscious awareness; an appeal to any one group will only alienate another. Unconsciously, however, there is much we share. All of us are mortal, all of us know fear, all of us have been stamped with the imprint of parent figures; and nothing conjures up this shared experience more than myth. The patterns of myth, born out of warring feelings of helplessness on the one hand and thirst for on the other, are deeply engraved in us all. Mythic Stars are figures of myth come to life. To appropriate their power, you must first study their physical presence-how they adoptadistinctive style, are cool and visually arresting. Then you must assume the pose of a mythic figure; the rebel, the wise patriarch, the adventurer. (The pose of a Star who has struck one of these mythic poses might do the trick.) these connections vague; they should never be obvious to the conscious mind. Your words and actions should invite interpretation beyond surface appearance; you should seem to be dealing not with specific, nitty-gritty issues and details but with matters of life and death, love and hate, authority and chaos. Your opponent, similarly, should be framed not merely as an enemy for reasons of ideology or competition but as a villain, a demon. People are hopelessly susceptible to myth, so make yourself the hero of a great drama. And keep your distance-let people identify with you without being able to touch you. They can only watch and dream. his or her own contribution. When we speak of the myth of the star, we mean first of all the process of divinization which the movie actor undergoes, a process that makes him the idol of crowds. -EDGAR MORIN, THE STARS, TRANSLATED BY RICHARD HOWARD Age: 22, Sex: female, Nationality: British, Profession: medical student "[Deanna Durbin] became my first and only screen idol. I wanted to be as much like her as possible,both in my manners andclothes. Whenever I was to get a new dress, I would find from my collection a particularly nice picture of Deanna and ask for a dress she was wearing. I did my hair as much like hers as 1 could manage. If I found myself in any annoying or aggravating situation . . . I found myself wondering what Deanna would do and modified my own reactions accordingly. ..." • Age: 26, Sex: female, Nationality: British "I only fell in once with a movie actor. It was Conrad Veidt. His magnetism and his personality got me. His voice and gestures fascinated me. I hated him, feared him, loved him. When he died it seemed to me that a vital part of my died too, and my world of dreams was bare. " -J. P. MAYER, BRITISH CINEMAS AND THEIR AUDIENCES The savage worships idols of wood and stone; the civilized man, idols of flesh and blood. -GEORGE BERNARD SHAW When the eye's rays some clear, well- polished object-be it burnished steel or glass or water, a brilliant stone, or other polished and gleaming substance having luster, glitter, and sparkle . . . those rays of the eye are reflected back, and the observer then beholds himself and obtains an ocular vision of his own person. This is what you see when you look into a mirror; in that situation you are as it were looking at yourself through the eyes of another. HAZM, THE RING OF THE DOVE:A TREATISE ON THE ART AND PRACTICE OF ARAB , ARBERRY The only important constellation of collective seduction produced by modern times [is] that of film stars or cinema idols. . . . They were our only myth in an age incapable of generating great myths or figures of seduction comparable to those of mythology or art. • The cinema's power lives in its myth. Its stones, its psychological portraits, its imagination or realism, the meaningful impressions it leaves-these are all secondary. Only the myth is powerful, and at the heart of the cinematographic myth lies seduction-that of the renowned seductive figure, a man or woman (but Jack's life had more to do with myth, magic, legend, saga, and story than with political theory or political science. -JACQUELINE KENNEDY, A WEEK AFTER JOHN KENNEDY'S DEATH Keys to the Character Seduction is a form of persuasion that seeks to bypass consciousness, stirring the unconscious mind instead. The reason for this is simple: we are so surrounded by stimuli that compete for our attention, bombarding us with obvious messages, and by people who are overtly political and manipulative, that we are rarely charmed or deceived by them. We have grown increasingly cynical. Try to persuade a person by appealing to their consciousness, by saying outright what you want, by showing all your cards, and what hope do you have? You are just one more irritation to be tuned out. To avoid this fate you must learn the art of insinuation, of reaching the unconscious. The most eloquent expression of the unconscious is the dream, which is intricately connected to myth; waking from a dream, we are often haunted by its images and ambiguous messages. Dreams obsess us because they mix the real and the unreal. They are filled with real characters, and often deal with real situations, yet they are delightfully irrational, pushing realities to the extremes of delirium. If everything in a dream were realistic, it would have no power over us; if everything were unreal, we would feel less involved in its pleasures and fears. Its fusion of the two is what makes it haunting. This is what Freud called the "uncanny": something that seems simultaneously strange and familiar. We sometimes experience the uncanny in waking life-in a deja vu, a miraculous coincidence, a weird event that recalls a childhood experience. People can have a similar effect. The gestures, the words, the very being of men like Kennedy or Andy Warhol, for example, evoke both the real and the unreal: we may not realize it (and how could we, really), but they are like dream figures to us. They have qualities that anchor them in reality- sincerity, playfulness, sensuality-but at the same time their aloofness, their superiority, their almost surreal quality makes them seem like something out of a movie. These types have a haunting, obsessive effect on people. Whether in public or in private, they seduce us, making us want to possess them both physically and psychologically. But how can we possess a person from a dream, or a movie star or political star, or even one of those real-life fascinators, like a Warhol, who may cross our path? Unable to have them, we become obsessed with them-they haunt our thoughts, our dreams, our fantasies. We imitate them unconsciously. The psychologist Sandor Fer- enczi calls this "introjection": another person becomes part of our ego, we internalize their character. That is the insidious seductive power of a Star, a power you can appropriate by making yourself into a cipher, a mix of the real and the unreal. Most people are hopelessly banal; that is, far too real. What you need to do is etherealize yourself. Your words and actions seem to come from your unconscious-have a certain looseness to them. You hold yourself back, occasionally revealing a trait that makes people wonder whether they really know you. The Star is a creation of modern cinema. That is no surprise: film recreates the dream world. We watch a movie in the dark, in a semisomno- lent state. The images are real enough, and to varying degrees depict realistic situations, but they are projections, flickering lights, images-we know they are not real. It as if we were watching someone else's dream. It was the cinema, not the theater, that created the Star. On a theater stage, actors are far away, lost in the crowd, too real in their bodily presence. What enabled film to manufacture the Star was the close-up, which suddenly separates actors from their contexts, filling your mind with their image. The close-up seems to reveal something not so much about the character they are playing but about themselves. We glimpse something of Greta Garbo herself when we look so closely into her face. Never forget this while fashioning yourself as a Star. First, you must have such a large presence that you can fill your target's mind the way a close-up fills the screen. You must have a style or presence that makes you stand out from everyone else. Be vague and dreamlike, yet not distant or absent-you don't want people to be unable to focus on or remember you. They have to be seeing you in their minds when you're not there. Second, cultivate a blank, mysterious face, the center that radiates Starness. This allows people to read into you whatever they want to, imagining they can see yourcharacter, even your soul. Instead of signaling moods and emotions, instead of emoting or overemoting, the Star draws in interpretations. That is the obsessive power in the face of Garbo or Dietrich, or even of Kennedy, who molded his expressions on James Dean's. A living thing is dynamic and changing while an object or image is passive, but in its passivity it stimulates our fantasies. A person can gain that power by becoming a kind of object. The great eighteenth-century charlatan Count Saint-Germain was in many ways a precursor of the Star. He would suddenly appear in town, no one knew from where; he spoke many languages, but his accent belonged to no single country. Nor was it clear how old he was-not young, clearly, but his face had a healthy glow. The count only went out at night. He always wore black, and also spectacular jewels. Arriving at the court of Louis XV, he was an instant sensation; he reeked wealth, but no one knew its source. He made the king and Madame de Pompadour believe he had fantastic powers, including even the ability to turn base matter into gold (the gift of the Philosopher's Stone), but he never made any great claims for himself; it was all insinuation. He never said yes or no, only perhaps. He would sit down for dinner but was never seen eating. He once gave Madame de Pompadour a gift of candies in a box that changed color and aspect depending on how she held it; this entrancing object, she said, reminded her of the count himself. Saint- Germain painted the strangest paintings anyone had ever seen-the colors above all a woman) linked to the ravishing but specious power of the cinematographic image itself. The star is by no means an ideal or sublime being: she is artificial. .Her presence serves to submerge all sensibility and expression beneath a ritual fascination with the void, beneath ecstasy of her gaze and the nullity of her smile. This is how she achieves mythical status and becomes subject to collective rites of sacrificial adulation. • The ascension of the cinema idols, the masses' divinities, was and remains a central story of modern times. There is no point in dismissing it as merely the dreams of mystified masses. It is a seductive occurrence. ..." To be sure, seduction in the age of the masses is no longer like that of. . . Les Liaisons Dangereuses or The Seducer's Diary, nor for that matter, like that found in ancient mythology, which undoubtedly contains the stories richest in seduction. In these seduction is hot, while that of our modern idols is cold, being at the intersection of two cold mediums, that of the image and that of the masses. The great stars or seductresses neverdazzle because of their talent or intelligence, but because of their absence. They are dazzling in their nullity, and in their coldness-the coldness of makeup and ritual hieraticism. These great seductive effigies are our masks, our Eastern Island statues. -JEAN BAUDRILLARD, SEDUCTION. TRANSLATED BY BRIAN SINGER If you want to know all about Andy Warhol, just look at the surface of my paintings and fdms and me, and there I am. There's nothing behind it. -ANDY WARHOL, QUOTED IN STEPHEN KOCH, STARGAZER: THE UFE. WORLD & FILMS OF ANDY WARHOL were so vibrant that when he paintedjewels, people thought they were real. Painters were desperate to know his secrets but he never revealed them. He would leave town as he had entered, suddenly and quietly. His greatest admirer was Casanova, who met him and never forgot him. When he died, no one believed it; years, decades, a century later, people were certain he was hiding somewhere. A person with powers like his never dies. The count had all the Star qualities. Everything about him was ambiguous and open to interpretation. Colorful and vibrant, he stood out from the crowd. People thought he was immortal, just as a star seems neither to age nor to disappear. His words were like his presence-fascinating, diverse, strange, their meaning unclear. Such is thepower you can command by transforming yourself into a glittering object. Andy Warhol too obsessed everyone who knew him. He had a distinctive style-those silver wigs-and his face was blank and mysterious. People never knew what he was thinking; like his paintings, he was pure surface. In the quality of their presence Warhol and Saint-Germain recall the great trompe l'oeil paintings of the seventeenth century, or the prints of M. C. Escher-fascinating mixtures of realism and impossibility, which make people wonder if they are real or imaginary. A Star must stand out, and this may involve a certain dramatic flair, of the kind that Dietrich revealed in her appearances at parties. Sometimes, though, a more haunting, dreamlike effect can be created by subtle touches: the way you smoke a cigarette, a vocal inflection, a way of walking. It isoften the little things that get under people's skin, and make them imitate you-the lock of hair over Veronica Lake's right eye, Cary Grant's voice, Kennedy's ironic smile. Although these nuances may barely register to the conscious mind, subliminally they can be as attractive as an object with a striking shape or odd color. Unconsciously we are strangely drawn to things that have no meaning beyond their fascinating appearance. Stars make us want to know more about them. You must learn to stirpeople's curiosity by letting them glimpse something in your private life, something that seems to reveal an element of your personality. Let them fantasize and imagine. A trait that often triggers this reaction is a hint of spirituality, which can be devilishly seductive, like James Dean's interest in Eastern philosophy and the occult. Hints of goodness and big-heartedness can have a similar effect. Stars are like the gods on Mount Olympus, who live for love and play. The things you love-people, hobbies, animals- reveal the kind of moral beauty that people like to see in a Star. Exploit this desire by showing people peeks of your private life, the causes you fight for, the person you are in love with (for the moment). Another way Stars seduce is by making us identify with them, giving us a vicarious thrill. This was what Kennedy did in his press conference about Truman: in positioning himself as a young man wronged by an older man, evoking an archetypal generational conflict, he made young people identify with him. (The popularity in Hollywood movies of the figure of the disaffected, wronged adolescent helped him here.) The key is to represent a type, as Jimmy Stewart represented the quintessential middle-American, Cary Grant the smooth aristocrat. People of your type will gravitate to you, identify with you, share your joy or pain.The attraction must be unconscious, conveyed not in your words but in your pose, your attitude. Now more than ever, people are insecure, and their identities are in flux. Help them fix on a role to play in life and they will flock to identify with you. Simply make your type dramatic, noticeable, and easy to imitate. The power you have in influencing people's sense of self in this manner is insidious and profound. Remember: everyone is a public performer. People never know exactly what you think or feel; they judge you on your appearance. You are an actor. And the most effective actors have an inner distance: like Dietrich, they can mold their physical presence as if they perceived it from the outside. This inner distance fascinates us. Stars are playful about themselves, always adjusting their image, adapting it to the times. Nothing is more laughable than an image that was fashionable ten years ago but isn't any more. Stars must always renew their luster or face the worst possible fate: oblivion. Symbol: The Idol. A piece of stone can'ed into the shape of a god, perhaps glittering with gold and jewels. The eyes of the worshippers fill the stone with life, imagining it to have real powers. Its shape allows them to see what they want to see-a god-but it is actually just a piece of stone. The god lives in their imaginations. Dangers Starscreateillusions that are pleasurable to see. The danger is that people tire of them-the illusion no longer fascinates-and turn to another Star. Let this happen and you will find it very difficult to regain your place in the galaxy. You must keep all eyes on you at any cost. Do not worry about notoriety, or about slurs on your image; we are remarkably forgiving of our Stars. After the death of President Kennedy, all kinds of unpleasant truths came to light about him-the endless affairs, the addiction to risk and danger. None of this diminished his appeal, and in fact the public still considers him one of America's greatest presidents. Errol Flynn faced many scandals, including a notorious rape case; they only enhanced his rakish image. Once people have recognized a Star, any kind of publicity, even bad, simply feeds the obsession. Of course you can go too far: people like a Star to have a transcendent beauty, and too much human frailty will eventually disillusion them. But bad publicity is less of a danger than disappearing for too long, or growing too distant. You cannot haunt people's dreams if they never see you. At the same time, you cannot let the public get too familiar with you, or let your image become predictable. People will turn against you in an instant if you begin to bore them, for boredom is the ultimate social evil. Perhaps thegreatest danger Stars face is the endless attention they elicit. Obsessive attention can become disconcerting and worse. As any attractive woman can attest, it is tiring to be gazed at all the time, and the effect can be destructive, as is shown by the story of Marilyn Monroe. The solution is to develop the kind of distance from yourself that Dietrich had-take the attention and idolatry with a grain of salt, and maintain a certain detachment from them. Approach your own image playfully. Most important, never become obsessed with the obsessive quality of people's interest in you. in the anti-O jeducer Seducers draw you in by the focused, individualized attention they pay to you. Anti-Seducers are the opposite: insecure, self-absorbed, and unable to grasp the psychology of another person, they literally repel. Anti- Seducers have no self-awareness, and never realize when they are pestering, imposing, talking too much. They lack the subtlety to create the promise of pleasure that seduction requires. Root out anti-seductive qualities in yourself, and recognize them in others-there is no pleasure or profit dealing with the Anti-Seducer. Typology of the Anti-Seducers Anti-Seducers come in many shapes and kinds, but almost all of them share a single attribute, the source of their repellence: insecurity. We are all insecure, and we suffer for it. Yetwe are able to surmount these feelings at times; a seductive engagement can bring us out of our usual selfabsorption, and to the degree that we seduce or are seduced, we feel charged and confident. Anti-Seducers, however, are insecure to such a degree that they cannot be drawn into the seductive process. Their needs, their anxieties, their self-consciousness close them off. They interpret the slightest ambiguity on your part as a slight to their ego; they see the merest hint of withdrawal as a betrayal, and are likely to complain bitterly about it. It seems easy: Anti-Seducers repel, so be repelled-avoid them. Unfortunately, however, many Anti-Seducers cannot be detected as such at first glance. They are more subtle, and unless you are careful they will ensnare you in a most unsatisfying relationship. You must look for clues to their self-involvement and insecurity: perhaps they are ungenerous, or they argue with unusual tenacity, or are excessively judgmental. Perhaps they lavish you with undeserved praise, declaring their love before knowing anything about you. Or, most important, they pay no attention to details. Since they cannot see what makes you different, they cannot surprise you with nu- anced attention. It is critical to recognize anti-seductive qualities not only in others but also in ourselves. Almost all of us have one or two of the Anti-Seducer's qualities latent in our character, and to the extent that we can consciously root them out, we become more seductive. A lack of generosity, for instance, need not signal an Anti-Seducer if it is a person's only fault, but an ungenerous person is seldom truly attractive. Seduction implies opening yourself up, even if only for the purposes of deception; being unable to give by spending money usually means being unable to give in general. Stamp ungenerosity out. It is an impediment to power and a gross sin in seduction. It is best to disengage from Anti-Seducers early on, before they sink their needy tentacles into you, so learn to read the signs. These are the main types. Count Lodovico then remarked with a smile: "I promise you that our sensible courtier will never act so stupidly to gain a woman's favor." • Cesare Gonzaga replied: "Nor so stupidly as a gentleman I remember, of some repute, whom to spare men's blushes I don't wish to mention by name. " • "Well, at least tell us what he did," said the Duchess. • Then Cesare continued: "He was loved by a very great lady, and at her request he came secretly to the town where she was. After he had seen her and enjoyed her company for as long as she would let him in the time, he sighed and wept bitterly, to show the anguish he was suffering at having to leave her, and hebegged her never to forget him; and then he added that she should pay for his lodging at the inn, since it was she who had sent for him and he thought it only right, therefore, that he shouldn't be involved in any expense over the journey." • At this, all the ladies began to laugh and to say that the man concerned hardly deserved the name of gentleman; and many of the men felt as ashamed as he should have been, had he ever had the sense to recognize such disgraceful behavior for what it was. -BALDASSARE CAST1GL10NE, THE BOOK OF THE COURTIER. The Brute. If seduction is a kind of ceremony or ritual, part of the pleasure is its duration-the time it takes, the waiting that increases anticipation. Brutes have no patience for such things; they are concerned only with their own pleasure, never with yours. To be patient is to show that you are thinking of the other person, which never fails to impress. Impatience has the opposite effect: assuming you are so interested in them you have no reason to wait, Brutes offend you with their egotism. Underneath that egotism, too, there is often a gnawing sense of inferiority, and if you spurn them or make them wait, they overreact. If you suspect you are dealing with a Brute, do a test-make that person wait. His or her response will tell you everything you need to know. Let us see now how love is diminished. This happens through the easy accessibility of its consolations, through one's being able to see and converse lengthily with a lover, through a lover's unsuitable garb and gait, and by the sudden onset of poverty. Another cause of diminution of love is the realization of the notoriety of one's lover, and accounts of his miserliness, bad character, and general wickedness; also any affair with another woman, even if it involves no feelings of love. Love is also diminished if a woman realizes that her lover is foolish and undisceming, or if she sees him going too far in demands of love, giving no thought to his partner's modesty nor wishing to pardon her blushes. A faithful lover ought to choose the harshest pains of love rather than by his demands cause his partner embarrassment, or take pleasure in spurning her modesty; for one who thinks only of the outcome of his own pleasure, and ignores the welfare of his partner, should be called a traitor rather than a lover. • Love also suffers decrease if the woman realizes that her lover is fearful in war, The Suffocator. Suffocators fall in love with you before you are even half- aware of their existence. The trait is deceptive-you might think they have found you overwhelming-but the fact is they suffer from an inner void, a deep well of need that cannot be filled. Never get involved with Suffocators; they are almost impossible to free yourself from without trauma. They cling to you until you are forced to pull back, whereupon they smother you with guilt. We tend to idealize a loved one, but love takes time to develop. Recognize Suffocators by how quickly they adore you. To be so admired may give a momentary boost to your ego, but deep inside you sense that their intense emotions are not related to anything you have done. Tmst these instincts. A subvariant of the Suffocator is the Doormat, a person who slavishly imitates you. Spot these types early on by seeing whether they are capable of having an idea of their own. An inability to disagree with you is a bad sign. The Moralizer. Seduction is a game, and should be undertaken with a light heart. All is fair in love and seduction; morality never enters the picture. The character of the Moralizer, however, is rigid. These are people who follow fixed ideas and try to make you bend to their standards. They want to change you, to make you a better person, so they endlessly criticize and judge-that is their pleasure in life. In truth, their moral ideas stem from their own unhappiness, and mask their desire to dominate those around them. Their inability to adapt and to enjoy makes them easy to recognize; their mental rigidity mayalso be accompanied by a physical stiffness. It is hard not to take their criticisms personally so it is better to avoid their presence and their poisoned comments. The Tightwad. Cheapness signals more than a problem with money. It is a sign of something constricted in a person's character-something that keeps them from letting go or taking a risk. It is the most anti-seductive trait of all, and you cannot allow yourself to give in to it. Most tightwads do not realize they have a problem; they actually imagine that when they give someone some paltry crumb, they are being generous. Take a hard look at yourself-you are probably cheaper than you think. Try giving more freely of both your money and yourself and you will see the seductive potential in selective generosity. Of course you must keep your generosity under control. Giving too much can be a sign of desperation, as if you were trying to buy someone. The Bumbler. Bumblers are self-conscious, and their self-consciousness heightens your own. At first you may think they are thinking about you, and so much so that it makes them awkward. In fact they are only thinking of themselves-worrying about how they look, or about the consequences for them of their attempt to seduce you. Their worry is usually contagious: soon you are worrying too, about yourself. Bumblers rarely reach the final stages of a seduction, but if they get that far, they bungle that too. In seduction, the key weapon is boldness, refusing the target the time to stop and think. Bumblers have no sense of timing. You might find it amusing to try to train or educate them, but if they are still Bumblers past a certain age, the case is probably hopeless-they are incapable of getting outside themselves. or sees that he has no patience, or is stained with the vice of pride. There is nothing which appears more appropriate to the character of any lover than to be clad in the adornment of humility, utterly untouched by the nakedness of pride. • Then too the prolixity of a fool or a madman often diminishes love. There arc many keen to prolong their crazy words in the presence of a woman, thinking that they please her if they employ foolish, ill-judged language, but infact they are strangely deceived. Indeed, he who thinks that his foolish behavior pleases a wise woman suffers from the greatest poverty of sense. -ANDREAS CAPELLANUS,"HOW LOVE IS DIMINISHED," The Windbag. The most effective seductions are driven by looks, indirect actions, physical lures. Words have a place, but too much talk will generally break the spell, heightening surface differences and weighing things down. People who talk a lot most often talk about themselves. They have never acquired that inner voice that wonders. Am I boring you? To be a Windbag is to have a deep-rooted selfishness. Never interrupt or argue with these types-that only fuels their windbaggery. At all costs leam to control your own tongue. The Reactor. Reactors are far too sensitive, not to you but to their own egos. They comb your every word and action for signs of a slight to their vanity. If you strategically back off, as you sometimes must in seduction, they will brood and lash out at you. They are prone to whining and complaining, two very anti-seductive traits. Test them by telling a gentlejoke or story at their expense: we should all be able to laugh at ourselves a little, but the Reactor cannot. You can read the resentment in their eyes. Erase any reactive qualities in your own character-they unconsciously repel people. The Vulgarian. Vulgarians are inattentive to the details that are so important in seduction. You can see this in their personal appearance-their Real men \ Shouldn't primp their good looks. . . . \ Keep pleasantly clean, take exercise, work up an outdoor \ Tan; make quite sure that your toga fits \ And doesn't show spots; don't lace your shoes too tightly \ Or ignore any rusty buckles, or slop \ Around in too large a fitting. Don't let some incompetent barber \ Ruin your looks: both hair andbeard demand \ Expert attention. Keep your nails pared, and dirt-free; \ Don't let those long hairs sprout \ In your nostrils, make sure your breath is never offensive, \ Avoid the rank male stench \ That wrinkles noses. ... \ I was about to warn you [women] against rank goatish armpits \ And bristling hair on your legs, \ But I'm not instructing hillbilly girls from the Caucasus, \ Or Mysian river-hoydens-so what need \ To remind you not to let your teeth get all discolored \ Through neglect, or forget to wash \ Your hands every morning? You know how to brighten your complexion \ With powder, add rouge to a bloodless face, \ Skillfully block in the crude outline of an eyebrow, \ Stick a patch on one flawless cheek. \ You don't shrink from lining your eyes with dark mascara \ Or a touch of Cilician saffron. . . . \ But don't let your lover find all those jars and bottles \ On your dressing- table: the best \ Makeup remains unobtrusive. A face so thickly plastered \ With pancake it runs down your sweaty neck \ Is bound to create repulsion. And that goo from unwashed fleeces - \ Athenian maybe, but my dear, the smell !- \ That's used for face-cream: avoid it. When you have company \ Don't dab stuff on your pimples, don't start cleaning your teeth: \ The result may be attractive, but the process is sickening. . . . - OVID, THE ART OF LOVE. clothes are tasteless by any standard-and in their actions: they do not know that it is sometimes better to control oneself and refuse to give in to one's impulses. Vulgarians will blab, saying anything in public. They have no sense of timing and are rarely in harmony with your tastes. Indiscretion is a sure sign of the Vulgarian (talking to others of your affair, for example); it may seem impulsive, but its real source is their radical selfishness, their inability to see themselves as others see them. More than just avoiding Vulgarians, you must make yourself their opposite-tact, style, and attention to detail are all basic requirements of a seducer. Examples of the Anti-Seducer 1. Claudius, the step-grandson of the great Roman emperor Augustus, was considered something of an imbecile as a young man, and was treated badly by almost everyone in his family. His nephew Caligula, who became emperor in A.D. 37, made it a sport to torture him, making him run around the palace at top speed as penance for his stupidity, having soiled sandals tied to his hands at supper, and so on. As Claudius grew older, he seemed to become even more slow-witted, and while all of his relatives lived under the constant threat of assassination, he was left alone. So it came as a great surprise to everyone, including Claudius himself, that when, in AD. 41, a cabal of soldiers assassinated Caligula, they also proclaimed Claudius emperor. Having no desire to rule, he delegated most of the governing to confidantes (a group of freed slaves) and spent his time doing what he loved best: eating, drinking, gambling, and whoring. Claudius's wife, Valeria Messalina, was one of the most beautiful women in Rome. Although he seemed fond of her, Claudius paid her no attention, and she started to have affairs. At first she was discreet, but over the years, provoked by her husband's neglect, she became more and more debauched. She had a room built for her in the palace where she entertained scores of men, doing her best to imitate the most notorious prostitute in Rome, whose name was written on the door. Any man who refused her advances was put to death. Almost everyone in Rome knew about these frolics, but Claudius said nothing; he seemed oblivious. So great was Messalina's passion for her favorite lover, Gaius Silius, that she decided to marry him, although both of them were married already. While Claudius was away, they held a wedding ceremony, authorized by a marriage contract that Claudius himself had been tricked into signing. After the ceremony, Gaius moved into the palace. Now the shock and disgust of the whole city finally forced Claudius into action, and he ordered theexecution of Gaius and of Messalina's other lovers-but not of Messalina herself. Nevertheless, a gang of soldiers, inflamed by the scandal, hunted her down and stabbed her to death. When this was reported to the emperor, he merely ordered more wine and continued his meal. Several nights later, to the amazement of his slaves, he asked why the empress was not joining him for dinner. Nothing is more infuriating than being paid no attention. In the process of seduction, you may have to pull back at times, subjecting your target to moments of doubt. But prolonged inattention will not only break the seductive spell, it can create hatred. Claudius was an extreme of this behavior. His insensitivity was created by necessity: in acting like an imbecile, he hid his ambition and protected himself among dangerous competitors. But the insensitivity became second nature. Claudius grew slovenly, and no longer noticed what was going on around him. His inattentiveness had a profound effect on his wife: How, she wondered, can a man, especially a physically unappealing man like Claudius, not notice me, or care about my affairs with other men? But nothing she did seemed to matter to him. Claudius marks the extreme, but the spectrum of inattention is wide. A lot of people pay too little attention to the details, the signals another person gives. Their senses are dulled by work, by hardship, by self-absorption. We often see this turning off the seductive charge between two people, notably between couples who have been together for years. Carried further, it will stir angry, bitter feelings. Often, the one who has been cheated on by a partner started the dynamic by patterns of inattention. 2. In 1639, a French army besieged and took possession of the Italian city of Turin. Two French officers, the Chevalier (later Count) de Grammont and his friend Matta, decided to turn their attention to the city's beautiful women. The wives of some of Turin's most illustrious men were more than susceptible-their husbands were busy, and kept mistresses of their own. The wives' only requirement was that the suitor play by the mles of gallantry. The chevalier and Matta were quick to find partners, the chevalier choosing the beautiful Mademoiselle de Saint-Germain, who was soon to be betrothed, and Matta offering his services to an older and more experienced woman, Madame de Senantes. The chevalier took to wearing green, Matta blue, these being their ladies' favorite colors. On the second day of their courtships the couples visited a palace outside the city. The chevalier was all charm, making Mademoiselle de Saint-Germain laugh uproariously at his witticisms, but Matta did not fare so well; he had no patience for this gallantry business, and when he and Madame de Senantes took a stroll, he squeezed her hand and boldly declared his affections. The lady of course was aghast, and when they got back to Turin she left without looking at him. Unaware that he had offended her, Matta imagined that she was overcome with emotion, and felt rather pleased with himself. But the Chevalier de Grammont, wondering why the pair had parted, visited Madame de Senantes and asked her how it went. She told him the truth-Matta had dispensed with the formalities and was ready to bed her. The chevalier But if, like the winter cat upon the hearth, the lover clings when he is dismissed, and cannot bear to go, certain means must be taken to make him understand; and these should be progressively ruder and ruder, until they touch him to the quick of his flesh. • She should refuse him the bed, and jeer at him, and make him angry; she should stir up her mother's enmity against him; she should treat him with an obvious lack of candor, and spread herself in long considerations about his ruin; his departure should be openly anticipated, his tastes and desires should be thwarted, his poverty outraged; she should let him see that she is in sympathy with another man, she should blame him with harsh words on every occasion; she should tell lies about him to her parasites, she should interrupt his sentences, and send him on frequent errands away from the house. She should seek occasions of quarrel, and make him the victim of a thousand domestic perfidies; she should rack her brains to vex him; she should play with the glances of another in his presence, and give herself up to reprehensible profligacy before his face; she should leave the house as often as possible, and let it be seen that she has no real need to do so. All these means are good for showing a man the door. -EASTERN LOVE, VOLUME II: THE HARLOT'S BREVIARY OF KSHEMENDRA, MATHERS Just as ladies do love men which be valiant and bold under arms, so likewise do they love such as be of like sort in love; and the man which is cowardly and over and above respectful toward them, will never win their good favor. Not that they would have them so overweening, bold, and presumptuous, as that they should by main force lay them on the floor; but rather they desire in them a certain hardy modesty, or perhaps better a certain modest hardihood. For while themselves are not exactly wantons, and will neither solicit a man nor yet actually offer their favors, yet do they know well how to rouse the appetites and passions, and prettily alluretothe skirmish in such wise that he which doth not take occasion by theforelock and join encounter, and that without the least awe of rank and greatness, without a scruple of conscience or a fear or any sort of hesitation, he verily is a fool and a spiritless poltroon, and one which doth merit to be forever abandoned of kind fortune. • I have heard of two honorable gentlemen and comrades, for the which two very honorable ladies, and of by no means humble quality, made tryst one day at Paris to go walking in a garden. Being come thither, each lady did separate apart onefrom the other, each alone with her own cavalier, each in a several alley of the garden, that was so close covered in with a fair trellis of boughs as that daylight could really scarce penetrate there at all, and the coolness of the place was very grateful. laughed and thought to himself how differently he would manage affairs if he were the one wooing the lovely Madame. Over the next few days Matta continued to misread the signs. He did not pay a visit to Madame de Senantes's husband, as custom required. He did not wear her colors. When the two went riding together, he went chasing after hares, as if they were the more interesting prey, and when he took snuff he failed to offer her some. Meanwhile he continued to make hisoverforward advances.FinallyMadamehadhadenough,andcomplainedtohim directly. Matta apologized; he had not realized his errors. Moved by his apology, the lady was more than ready to resume the courtship-but a few days later, after a few trifling stabs at wooing, Matta once again assumed that she was ready for bed. To his dismay, she refused him as before. "I do not think that [women] can be mightily offended," Matta told the chevalier, "if one sometimes leaves off trifling, to come to the point." But Madame de Senantes would have nothing more to do with him, and the Chevalier de Grammont, seeing an opportunity he could not pass by, took advantage of her displeasure by secretly courting her properly, and eventually winning the favors that Matta had tried to force. There is nothing more anti-seductive than feeling that someone has assumed that you are theirs, that you cannot possibly resist them. The slightest appearance of this kind of conceit is deadly to seduction; you must prove yourself, take your time, win your target's heart. Perhaps you fear that he or she will be offended by a slower pace, or will lose interest. It is more likely, however, that your fear reflects your own insecurity, and insecurity is always anti-seductive. In truth, the longer you take, the more you show the depth of your interest, and the deeper the spell you create. In a world of few formalities and ceremony, seduction is one of the few remnants from the past that retains the ancient patterns. It is a ritual, and its rites must be observed. Haste reveals not the depth of your feelings but the degree of your self-absorption. It may be possible sometimes to hurry someone into love, but you will only be repaid by the lack of pleasure this kind of love affords. If you are naturally impetuous, do what you can to disguise it. Strangely enough, the effort you spend on holding yourself back may be read by your target as deeply seductive. 3. In Paris in the 1730s lived a young man named Meilcotp\ who was just of an age to have his first affair. His mother's friend Madame de Lursay, a widow of around forty, was beautiful and charming, but had a reputation for being untouchable; as a boy, Meilcour had been infatuated with her, but never expected his love would be returned. So it was with great surprise and excitement that he realized that now that he was old enough, Madame de Lursay's tender looks seemed to indicate a more than motherly interest in him. The Anti-Seducer • 139 For two months Meilcour trembled in de Lursay's presence. He was afraid of her, and did not know what to do. One evening they were discussing a recent play. How well one character had declared his love to a woman, Madame remarked. Noting Meilcour's obvious discomfort, she went on, "If I am not mistaken, a declaration can only seem such an embarrassing matter because you yourself have one to make." Madame de Lursay knew full well that she was the source of the young man's awkwardness, but she was a tease; you must tell me, she said, with whom you are in love. Finally Meilcour confessed: it was indeed Madame whom he desired. His mother's friend advised him to not think of her that way, but she also sighed, and gave him a long and languid look. Her words said one thing, her eyes another-perhaps she was not as untouchable as he had thought. As the evening ended, though, Madame de Lursay said she doubted his feelings would last, and she left young Meilcour troubled that she had said nothing about reciprocating his love. Over the next few days, Meilcour repeatedly asked de Lursay to declare her love for him, and she repeatedly refused. Eventually the young man decided his cause was hopeless, and gave up; but a few nights later, at a soiree at her house, her dress seemed more enticing than usual, and her looks at him stirred his blood. He returned them, and followed her around, while she took care to keep a bit of distance, lest others sense what was happening. Yet she also managed to arrange that he could stay without arousing suspicion when the other visitors left. When they were finally alone, she made him sit beside her on the sofa. He could barely speak; the silence was uncomfortable. To get him talking she raised the same old subject; his youth would make his love for her a passing fancy. Instead of denying it he looked dejected, and continued to keep a polite distance, so that she finally exclaimed, with obvious bony, "If it were known that you were here with my consent, that I had voluntarily arranged it with you . . . what might not people say? And yet how wrong they would be, for no one could be more respectful than you are." Goaded into action, Meilcour grabbed her hand and looked her in the eye. She blushed and told him he should go, but the way she arranged herself on the sofa and looked back at him suggested he should do the opposite. Yet Meilcour still hesitated: she had told him to go, and if he disobeyed she might cause a scene, and might never forgive him; he would have made a fool of himself, and everyone, including his mother, would hear of it. He soon got up, apologizing for his momentary boldness. Her astonished and somewhat cold look meant he had indeed gone too far, he imagined, and he said goodbye and left. Meilcour and Madame de Lursay appear in the novel The Wayward Head and Heart, written in 1738 by Crebillon fils, who based his characters on libertines he knew in the France of the time. For Crebillon fils, seduction is all about signs-about being able to send them and read them. This is not Now one of the twain was a bold man, and well knowing how the party had been madefor something else than merely to walk and take the air, and judging by his lady's face, which he saw to be all a-fire, that she had longings to taste other fare than the muscatels that hung on the trellis, as also by her hot, wanton, and wild speech, he did promptly seize on so fair an opportunity. So catching hold of her without the least ceremony, he did lay her on a little couch that was there made of turf and clods of earth, and did very pleasantly work his will of her, without her ever uttering a word but only: "Heavens! Sir, what are you at? Surely you be the maddest and strangest fellow ever was! If anyone comes, whatever will they say? Great heavens! get out!" But the gentleman, without disturbing himself, did so well continue what he had begun that he did finish, and she to boot, with such content as that after taking three or four turns up and down the alley, they did presently start afresh. Anon, coming forth into another, open, alley, they did see in another part of the garden the other pair, who were walking about together just as they had left them at first. Whereupon the lady,wellcontent,didsay to the gentleman in the like condition, "I verily believe so and so hath played the silly prude, and hath given his lady no other entertainment but only words, fine speeches, and promenading." • Afterward when allfour were come together, the two ladies did fall to asking one another 140 how it had fared with each. Then the one which was well content did reply she was exceeding well, indeed she was; indeedfor the nonce she could scarce be better. The other, which was ill content, did declare for her part she had had to with the biggestfool and most coward lover she had ever seen; and all the time the two gentlemen could see them laughing together as they walked and crying out: "Oh! the silly fool! the shamefaced poltroon and coward!" At this the successful gallant said to his companion: "Hark to our ladies, which do cry out at you, and mock you sore. You will find you have overplayed the prude and coxcomb this bout." So much he did allow; but there was no more time to remedy his error, for opportunity gave him no other handle to seize her by. -SEIGNEUR DE BRANTOME, LIVES OF FAIR & GALLANT LADIES. because sexuality is repressed and requires speaking in code. It is rather because wordless communication (through clothes, gestures, actions) is the most pleasurable, exciting, and seductive form of language. In Crebillon fils's novel, Madame de Lursay is an ingenious seductress who finds it exciting to initiate young men. But even she cannot overcome the youthful stupidity of Meilcour, who is incapable of reading her sigas because he is absorbed in his own thoughts. Later in the story, she does manage to educate him, but in real life there are many who cannot be educated. They are too literal and insensitive to the details that contain seductive power. They do not so much repel as irritate and infuriate you by their constant misinterpretations, always viewing life from behind screen of their ego and unable to see things as they really are. Meilcour is so caught up in himself he cannot see that Madame is expecting him to make the bold move to which she will have to succumb. His hesitation shows that he is thinking of himself, not of her; that he is worrying about how he will look, not feeling overwhelmed by her charms. Nothing could be more anti-seductive. Recognize such types, and if they are past the young age that would give them an excuse, do not entangle yourself in their awkwardness-they will infect you with doubt. 4. In the Heian court of late-tenth-century lapan, the young nobleman Kaoru, purported son of the great seducer Genji himself, had had nothing but misfortune in love. He had become infatuated with a young princess, Oigimi, who lived in a dilapidated home in the countryside, her father having fallen on hard times. Then one day he had an encounter with Oigimi's sister, Nakanokimi, that convinced him she was the one he actually loved. Confused, he returned to court, and did not visit the sisters for some time. Then their father died, followed shortly thereafter by Oigimi herself. Now Kaoru realized his mistake: he had loved Oigimi all along, and she had died out of despair that he did not care for her. He would never meet like again; she was all he could think about. When Nakanokimi, her father and sister dead, came to live at court, Kaoru had the house where Oigimi and her family had lived turned into a shrine. One day, Nakanokimi, seeing the melancholy into which Kaoru had fallen, told him that there was a third sister, Ukifune, who resembled his beloved Oigimi and lived hidden away in the countryside. Kaoru came to life-perhaps he had a chance to redeem himself, to change the past. But how could he meet this woman? There came a time when he visited the shrine to pay his respects to the departed Oigimi, and heard that the mystea glimpse of her through the crack in a door. The sight of her took his breath away; although she was a plain-looking country girl, in Kaoru's eyes she was the living incarnation of Oigimi. Her voice, meanwhile, was like The Anti-Seducer • 141 the voice of Nakanokimi, whom he had loved as well. Tears welled up in his eyes. A few months later Kaoru managed to find the house in the mountains where Ukifune lived. He visited her there, and she did not disappoint. "I once had a glimpse of you through a crack in a door," he told her, and "you have been very much on my mind ever since." Then he picked her up in his arms and carried her to a waiting carriage. He was taking her back to the shrine, and the journey there brought back to him the image of Oigimi; again his eyes clouded with tears. Looking at Ukifune, he silently compared her to Oigimi-her clothes were less nice but she had beautiful hair. When Oigimi was alive, she and Kaoru had played the koto together, so once at the shrine he had kotos brought out. Ukifune did not play as well as Oigimi had, and her manners were less refined. Not to worry-he would give her lessons, change her into a lady. But then, as he had done with Oigimi, Kaoru returned to court, leaving Ukifune languishing at the shrine. Some time passed before he visited her again; she had improved, was more beautiful than before, but he could not stop thinking of Oigimi. Once again he left her, promising to bring her to court, but more weeks passed, and finallyhereceived the news that Ukifune had disappeared, last seen heading toward a river. She had most likely committed suicide. At the funeral ceremony for Ukifune, Kaoru was wracked with guilt: why had he not come for her earlier? She deserved a better fate. Kaoru and the others appear in the eleventh-century Japanese novel The Tale of Genji, by the noblewoman Murasaki Shikibu. The characters are based on people the author knew, but Kaoru's type appears in every culture and period: these are men and women who seem to be searching for an ideal partner. The one they have is never quite right; at first glance a person excites them, but they soon see faults, and when a new person crosses their path, he or she looks better and the first person is forgotten. These types often try to work on the imperfect mortal who has excited them, to improve them culturally and morally. But this proves extremely unsatisfactory for both parties. The truth about this type is not that they are searching for an ideal but that they are hopelessly unhappy with themselves. You may mistake their dissatisfaction for a perfectionist's high standards, but in point of fact nothing will really satisfy them, for their unhappiness is deep-rooted. You can recognize them by their past, which will be littered with short-lived, stormy romances. Also, they will tend to compare you to others, and to try to remake you. You may not realize at first what you have gotten into, but people like this will eventually prove hopelessly anti-seductive because they cannot see your individual qualities. Cut the romance off before it happens. These types are closet sadists and will torture you with their unreachable goals. 5. In 1762, in the city of Turin, Italy, Giovanni Giacomo Casanova made the acquaintance of one Count A.B., a Milanese gentleman who seemed to like him enormously. The count had fallen on hard times and Casanova lent him some money. In gratitude, the count invited Casanova to stay with him and his wife in Milan. His wife, he said, was from Barcelona, and was admired far and wide for her beauty. He showed Casanova her letters, which had an intriguing wit; Casanova imagined her as a prize worth seducing. He went to Milan. Arriving at the house of Count A.B., Casanova found that the Spanish lady was certainly beautiful, but that she was also quiet and serious. Something about her bothered him. As he was unpacking his clothes, the countess saw a stunning red dress, trimmed with sable, among his belongings. It was a gift, Casanova explained, for any Milanese lady who won his heart. The following evening at dinner, the countess was suddenly more friendly, teasing and bantering with Casanova. She described the dress as a bribe-he would use it to persuade a woman to give in to him. On the contrary, said Casanova, he only gave gifts afterward, as tokens of his appreciation. That evening, in a carriage on the way back from the opera, she asked him if a wealthy friend of hers could buy the dress, and when he said no, she was clearly vexed. Sensing her game, Casanova offered to give her the sable dress if she was kind to him. This only made her angry, and they quarreled. Finally Casanova had had enough of the countess's moods: he sold the dress for 15,000 francs to her wealthy friend, who in turn gave it to her, as she had planned all along. But to prove his lack of interest in money, Casanova told the countess he would give her the 15,000 francs, no strings attached. "You are a very bad man," she said, "but you can stay, you amuse me." She resumed her coquettish manner, but Casanova was not fooled. "It is not my fault, madame, if your charms have so little power over me," he told her. "Here are 15,000 francs to console you." He laid the money on a table and walked out, leaving the countess fuming and vowing revenge. When Casanova first met the Spanish lady, two things about her repelled him. First, her pride: rather than engaging in the give-and-take of seduction, she demanded a man's subjugation. Pride can reflect self-assurance, signaling that you will not abase yourself before others. Just as often, though, it stems from an inferiority complex, which demands that others abase themselves before you. Seduction requires an openness to the other person, a willingness to bend and adapt. Excessive pride, without anything to justify it, is highly anti-seductive. The second quality that disgusted Casanova was the countess's greed: her coquettish little games were designed only to get the dress-she had no interest in romance. For Casanova, seduction was a lighthearted game that people played for their mutual amusement. In his scheme of things, it was fine if a woman wanted money and gifts as well; he could understand that desire, and he was a generous man. But he also felt that this was a desire a The Anti-Seducer • 143 woman should disguise-she should create the impression that what she was after was pleasure. The person who is obviously angling for money or other material reward can only repel. If that is your intention, if you are looking for something other than pleasure-for money, for power-never show it. The suspicion of an ulterior motive is anti-seductive. Never let anything break the illusion. 6. In 1868, Queen Victoria of England hosted her first private meeting with the country's new prime minister, William Gladstone. She had met him before, and knew his reputation as a moral absolutist, but this was to be a ceremony, an exchange of pleasantries. Gladstone, however, had no patience for such things. At that first meeting he explained to the queen his theory of royalty: the queen, he believed, had to play an exemplary role in England-a role she had lately failed to live up to, for she was overly private. This lecture set a bad tone for the future, and things only got worse: soon Victoria was receiving letters from Gladstone, addressing the subject in even greater depth. Half of them she never bothered to read, and soon she was doing everything she could to avoid contact with the leader of her government; if she had to see him, she made the meeting as brief as possible. To that end, she never allowed him to sit down in her presence, hoping that a man his age would soon tire and leave. For once he got going on a subject dear to his heart, he did not notice your look of disinterest or the tears in your eyes from yawning. His memoranda on even the simplest of issues would have to be translated into plain English for her by a member of her staff. Worst of all, Gladstone argued with her, and his arguments had a way of making her feel stupid. She soon learned to nod her head and appear to agree with whatever abstract point he was trying to make. In a letter to her secretary, referringtoherselfin the third person, she wrote, "She always felt in [Gladstone's] manner an overbearing obstinacy and imperiousness . . . which she never experienced from anyone else, and which she found most disagreeable." Over the years, these feelings hardened into an unwaning hatred. As the head of the Liberal Party, Gladstone had a nemesis, Benjamin Disraeli, the head of the Conservative Party. He considered Disraeli amoral, a devilish Jew. At one session of Parliament, Gladstone tore into his rival, scoring point after point as he described where his opponents policies would lead. Growing angry as he spoke (as usually happened when he talked of Disraeli), he pounded the speaker's table with such force that pens and papers went flying. Through all of this Disraeli seemed half-asleep. When Gladstone had finished, he opened his eyes, rose to his feet, and calmly walked up to the table. "The right honorable gentleman," he said, "has spoken with much passion, much eloquence, and much- ahem - violence." Then, after a drawn-out pause, he continued, "But the damage can be repaired"-and he proceeded to gather up everything that had fallen from the table and put them back in place. The speech that followed was all the more masterful for its calm and ironic contrast to Gladstone's. The members of Parliament were spellbound, andallof them agreed he had won the day. If Disraeli was the consummate social seducer and charmer, Gladstone was the Anti-Seducer. Of course he had supporters, mostly among the more puritanical elements of society-he twice defeated Disraeli in a general election. But he found it hard to broaden his appeal beyond the circle of believers. Women in particular found him insufferable. Of course they had no vote at the time, so they were little political liability; but Gladstone had no patience for a feminine point of view. A woman, he felt, had to learn to see things as a man did, and it was his purpose in life to educate those he felt were irrational or abandoned by God. It did not take long for Gladstone to wear on anyone's nerves. That is the nature of people who are convinced of some truth, but have no patience for a different perspective or for dealing with someone else's psychology. These types are bullies, and in the short term they often get their way, particularly among the less aggressive. But they stir up a lot of resentment and unspoken antipathy, which eventually trips them up. People see through their righteous moral stance, which is most often a cover for a power play-morality is a form of power. A seducer never seeks to persuade directly, never parades his or her morality, neverlecturesorimposes.Everythingissubtle,psychological,andindirect.Symbol: The Crab. In a harsh world, the crab survives by its hardened shell, by the threat of its pincers, and by burrowing into the sand. No one dares get too close. But the Crab cannot surprise its enemy and has little mobility. Its defensive strength is its supreme limitation. Uses of Anti-Seduction T he best way to avoid entanglements with Anti-Seducers is to recognize them right away and give them a wide berth, but they often deceive us. Involvements with these types are painful, and are hard to disengage from, because the more emotional response you show, the more engaged you seem to be. Do not get angry-that may only encourage them or exacerbate their anti-seductive tendencies. Instead, act distant and indifferent, pay no attention to them, make them feel how little they matter to you. The best antidote to an Anti-Seducer is often to be anti-seductive yourself. Cleopatra had a devastating effect on every man who crossed her path. Octavius-the future Emperor Augustus, and the man who would defeat and destroy Cleopatra's lover Mark Antony-was well aware of her power, and defended himself against it by being always extremely amiable with her, courteous to the extreme, but never showing the slightest emotion, whether of interest or dislike. In other words, he treated her as if she were any other woman. Facing this front, she could not sink her hooks into him. Octavius made anti-seduction his defense against the most irresistible woman in history. Remember: seduction is a game of attention, of slowly filling the other person's mind with your presence. Distance and inattention will create the opposite effect, and can be used as a tactic when the need arises. Finally, if you really want to "anti-seduce," simply feign the qualities listed at the beginning of the chapter. Nag; talk a lot, particularly about yourself; dress against the other person's tastes; pay no attention to detail; suffocate, and so on. A word of warning: with the arguing type, the Windbag, never talk back too much. Words will only fan the flames. Adopt the Queen Victoria strategy: nod, seem to agree, then find an excuse to cut the conversation short. This is the only defense. the seducer's Victims- The Eighteen Types The people around you are all potential victims of a seduction, but first you must know what type of victim you are dealing with. Victims are categorized by what they feel they are missing in life - adventure, attention, romance, a naughty experience, mental or physical stimulation, etc. Once you identify their type, you have the necessary ingredients for a seduction: you will be the one to give them what they lack and cannot get on their own. In studying potential victims, learn to see the reality behind the appearance. A timid person may yearn to play the star; a prude may long for a transgressive thrill. Never try to seduce your own type. ooo o o o Victim Theory N obody in this world feels whole and complete. We all sense some gap in our character, something we need or want but cannot get on our own. When we fall in love, it is often with someone who seems to fill that gap. The process is usually unconscious and depends on luck: we wait for the right person to cross our path, and when we fall for them we hope they return our love. But the seducer does not leave such things to chance. Look at the people around you. Forget their social exterior, their obvious character traits; look behind all of that, focusing on the gaps, the missing pieces in their psyche. That is the raw material of any seduction. Pay close attention to their clothes, their gestures, their offhand comments, the things in their house, certain looks in their eyes; get them to talk about their past, particularly past romances. And slowly the outline of those missing pieces will come into view. Understand: people are constantly giving out signals as to what they lack. They long for completeness, whether the illusion of it or the reality, and if it has to come from another person, that person has tremendous power over them. We may call them victims of a seduction, but they are almost always willing victims. This chapter outlines the eighteen types of victims, each one of which has a dominant lack. Although your target may well reveal the qualities of more than one type, there is usually a common need that ties them together. Perhaps you see someone as both a New Prude and a Crushed Star, but what is common to both is a feeling of repression, and therefore a desire to be naughty, along with a fear of not being able or daring enough. In identifying your victim's type, be careful to not be taken in by outward appearances. Both deliberately and unconsciously, we often develop a social exterior designed specifically to disguise our weaknesses and lacks. For instance, you may think you are dealing with someone who is tough and cynical, without realizing that deep inside they have a soft sentimental core. They secretly pine for romance. And unless you identify their type and the emotions beneath their toughness, you lose the chance to truly seduce them. Most important: expunge the nasty habit of thinking that other people have the same lacks you do. You may crave comfort and security, but in giving comfort and security to someone else, on the assumption they must want them as well, you are more likely smothering and pushing them away. Never try to seduce someone who is of your own type.Youwill be like two puzzles missing the same parts. 149 150 The Eighteen Types The Reformed Rake or Siren. People of this type were once happy-go- lucky seducers who had their way with the opposite sex. But the day came when they were forced to give this up-someone corraled them into a relationship, they were encountering too much social hostility, they were getting older and decided to settle down. Whatever the reason, you can be sure they feel some resentment and a sense of loss, as if a limb were missing. We are always trying to recapture pleasures we experienced in the past, but the temptation is particularly great for the Reformed Rake or Siren because the pleasures they found in seduction were intense. These types are ripe for the picking: all that is required is that you cross their path and offer them the opportunity to resume their rakish or siren ways. Their blood will stir and the call of their youth will overwhelm them. It is critical, though, to give these types the illusion that they are the ones doing the seducing. With the Reformed Rake, you must spark his interest indirectly, then let him burn and glow with desire. With the Reformed Siren, you want to give her the impression that she still has the irresistible power to draw a man in and make him give up everything for her. Remember that what you are offering these types is not another relationship, another constriction, but rather the chance to escape the corral and have some ran. Do not be put off if they are in a relationship; a preexisting commitment is often the perfect foil. If hooking them into a relationship is what you want, hide it as best you can and realize it may not be possible. The Rake or Siren is unfaithful by nature; your ability to spark the old feeling gives you power, but then you will have to live with the consequences of their feckless ways. The Disappointed Dreamer. As children, these types probably spent a lot of time alone. To entertain themselves they developed a powerful fantasy life, fed by books and films and other kinds of popular culture. And as they get older, it becomes increasingly difficult to reconcile their fantasy life with reality, and so they are often disappointed by what they get. This is particularly true in relationships. They have been dreaming of romantic heroes, of danger and excitement, but what they have is lovers with human frailties, the petty weaknesses of everyday life. As the years pass, they may force themselves to compromise, because otherwise they would have to spend their lives alone; but beneath the surface they are bitter and still hungering for something grand and romantic. You can recognize this type by the books they read and filmstheygoto,theway their ears prick up when told of the real-life adventures some people manage to live out. In their clothes and home furnishings, a taste for exuberant romance or drama will peek through. They are often trapped in drab relationships, and little comments here and there will reveal their disappointment and inner tension. The Seducer's Victims-The Eighteen Types These types make for excellent and satisfying victims. First they usually have a great deal of pent-up passion and energy, which you can release and focus on yourself. They also have great imaginations and will respond to anything vaguely mysterious or romantic that you offer them. All you need do is disguise some of your less than exalted qualities and give them a part of their dream. This could be the chance to live out their adventures or be courted by a chivalrous soul. If you give them a part of what they want they will imagine the rest. At all cost, do not let reality break the illusion you are creating. One moment of pettiness and they will be gone, more bitterly disappointed than ever. The Pampered Royal. These people were the classic spoiled children. All of their wants and desires were met by an adoring parent-endless entertainments, a parade of toys, whatever kept them happy for a day or two. Where many children learn to entertain themselves, inventing games and finding friends. Pampered Royals are taught that others will do the entertaining for them. Being spoiled, they get lazy, and as they get older and the parent is no longer there to pamper them, they tend to feel quite bored and restless. Their solution is to find pleasure in variety, to move quickly from person to person, job to job, or place to place before boredom sets in. They do not settle into relationships well because habit and routine of some kind are inevitable in such affairs. But their ceaseless search for variety is tiring for them and comes with a price: work problems, strings of unsatisfying romances, friends scattered across the globe. Do not mistake their restlessness and infidelity for reality-what the Pampered Prince or Princess is really looking for is one person, that parental figure, who will give them the spoiling they crave. To seduce this type, be ready to provide a lot of distraction-new places to visit, novel experiences, color, spectacle. You will have to maintain an air of mystery, continually surprising your target with a new side to your character. Variety is the key. Once Pampered Royals are hooked, things get easier for they will quickly grow dependent on you and you can put out less effort. Unless their childhood pampering has made them too and lazy, these types make excellent victims-they will beasloyal to you as they once were to mommy or daddy. But you will have to do much of the work. If you are after a long relationship, disguise it. Offer long-term security to a Pampered Royal and you will induce a panicked flight. Recognize these types by the turmoil in their past-job changes, travel, short-term relationships-and by the air of aristocracy, no matter their social class, that comes from once being treated like royalty. The New Prude. Sexual prudery still exists, but it is less common than it was. Prudery, however, is neverjust about sex; a prude is someone who is excessively concerned with appearances, with what society considers ap- propriate and acceptable behavior. Prudes rigorously stay within the boundaries of correctness because more than anything they fear society's judgment. Seen in this light, prudery is just as prevalent as it always was. The New Prude is excessively concerned with standards of goodness, fairness, political sensitivity, tastefulness, etc. What marks the New Prude, though, as well as the old one, is that deep down they are actually excited and intrigued by guilty, transgressive pleasures. Frightened by this attraction, they run in the opposite direction and become the most correct of all. They tend to wear drab colors; they certainly never take fashion risks. They can be very judgmental and critical of people who do take risks and are less correct. They are also addicted to routine, which gives them a way to tamp down their inner turmoil. New Prudes are secretly oppressed by their correctness and long to transgress. Just as sexual prudes make prime targets for a Rake or Siren, the New Prude will often be most tempted by someone with a dangerous or naughty side. If you desire a New Prude, do not be taken in by theirjudg- ments of you or their criticisms. That is only a sign of how deeply you fascinate them; you are on their mind. You can often draw a New Prude into a seduction, in fact, by giving them the chance to criticize you or even try to reform you. Take nothing of what they say to heart, of course, but now you have the perfect excuse to spend time with them-and New Prudes can be seduced simply through being in contact with you. These types actually make excellent and rewarding victims. Once you open them up and get them to let go of their correctness, they are flooded with feelings and energies. They may even overwhelm you. Perhaps they are in a relationship with someone as drab as they themselves seem to be-do not be put off. They are simply asleep, waiting to be awakened. The Crushed Star. We all want attention, we all want to shine, but with most of us these desires are fleeting and easily quieted.Theproblemwith Crushed Stars is that at one point in their lives they did find themselves the center of attention-perhaps they were beautiful, charming and effervescent, perhaps they were athletes, or had some other talent-but those days are gone. They may seem to have accepted this, but the memory of having once shone is hard to get over. In general, the appearance of wanting attention, of trying to stand out, is not seen too kindly in polite society or in the workplace. So to get along. Crushed Stars learn to tamp down their desires; but failing to get the attention they feel they deserve, they also become resentful. You can recognize Crushed Stars by certain unguarded moments; they suddenly receive some attention in a social setting, and it makes them glow; they mention their glory days, and there is a little glint in the eye; a little wine in the system, and they become effervescent. Seducing this type is simple: just make them the center of attention. When you are with them, act as if they were stars and you were basking in their glow. Get them to talk, particularly about themselves. In social situations, mute your own colors and let them look funny and radiant by comparison. In general, play the Charmer. The reward of seducing Crushed Stars is that you stir up powerful emotions. They will feel intensely grateful to you for letting them shine. To whatever extent they had felt crushed and bottled up, the easing of that pain releases intensity and passion, all directed at you. They will fall madly in love. If you yourself have any star or dandy tendencies it is wise to avoid such victims. Sooner or later those tendencies will come out, and the competition between you will be ugly. The Novice. What separates Novices from ordinary innocent young people is that they are fatally curious. They have little or no experience of the world, but have been exposed to it secondhand-in newspapers, films, books. Finding their innocence a burden, they long to be initiated into the ways of the world. Everyone sees them as so sweet and innocent, but they know this isn't so-they cannot be as angelic as people think them. Seducing a Novice is easy. To do it well, however, requires a bit of art. Novices are interested in people with experience, particularly people with a touch of corruption and evil. Make that touch too strong, though, and it will intimidate and frighten them. What works best with a Novice is a mix of qualities. You are somewhat childlike yourself, with a playful spirit. At the same time, it is clear that you have hidden depths, even sinister ones. (This was the secret of Lord Byron's success with so many innocent women.) You are initiating your Novices not just sexually but experien- tially,exposingthem to new ideas, taking them to new places, new worlds both literal and metaphoric. Do not make your seduction ugly or seedy- everything must be romantic, even including the evil and dark side of life. Young people have their ideals; it is best to initiate them with an aesthetic touch. Seductive language works wonders on Novices, as does attention to detail. Spectacles and colorful events appeal to their sensitive senses. They are easily misled by these tactics, because they lack the experience to see through them. Sometimes Novices are a little older and have been at least somewhat educated in the ways of the world. Yet they put on a show of innocence, for they see the power it has over older people. These are coy Novices, aware of the game they are playing-but Novices they remain. They may be less easily misled than purer Novices, but the way to seduce them is pretty much the same-mix innocence and corruption and you will fascinate them. The Conqueror. These types have an unusual amount of energy, which they find difficult to control. They are always on the prowl for people to conquer, obstacles to surmount. You will not always recognize Conquerors by their exterior-they can seem a little shy in social situations and can have a degree of reserve. Look not at their words or appearance but at their actions, in work and inrelationships. They love power, and by hook or by crook they get it. Conquerors tend to be emotional, but their emotion only comes out in outbursts, when pushed. In matters of romance, the worst thing you can do with them is lie down and make yourself easy prey; they may take advantage of your weakness, but they will quickly discard you and leave you the worse for wear. You want to give Conquerors a chance to be aggressive, to overcome some resistance or obstacle, before letting them think they have overwhelmed you. You want to give them a good chase. Being a little difficult or moody, using coquetry, will often do the trick. Do not be intimidated by their aggressiveness and energy-that is precisely what you can turn to your advantage. To break them in, keep them charging back and forth like a bull. Eventually they will grow weak and dependent, as Napoleon became the slave ofJosephine. The Conqueror is generally male but there are plenty of female Conquerors out there-Lou Andreas-Salome and Natalie Barney are famous ones. Female Conquerors will succumb to coquetry, though, just as the male ones will. The Exotic Fetishist. Most of us are excited and intrigued by the exotic. What separates Exotic Fetishists from the rest of us is the degree of this interest, which seems to govern all their choices in life. Intruththeyfeelempty inside and have a strong dose of self-loathing. They do not like wherever it is they come from, their social class (usually middle or upper), and their culture because they do not like themselves. These types are easy to recognize. They like to travel; their houses are filled with objets from faraway places; they fetishize the music or art of this or that foreign culture. They often have a strong rebellious streak. Clearly the way to seduce them is to position yourself as exotic-if you do not at least appear to come from a different background or race, or to have some alien aura, you should not even bother. But it is always possible to play up what makes you exotic, to make it a kind of theater for their amusement. Your clothes, the things you talk about, the places you take them, make a show of your difference. Exaggerate a little and they will imagine the rest, because such types tend to be self-deluders. Exotic Fetishists, however, do not make particularly good victims. Whatever exoticism you have will soon seem banal to them, and they will want something else. It will be a struggle to hold their interest. Their underlying insecurity will also keep you on edge. One variation on this type is the man or woman who is trapped in a stultifying relationship, a banal occupation, a dead-end town. It is circumstance, as opposed topersonal neurosis, that makes such people fetishize the exotic; and these Exotic Fetishists are better victims than the self-loathing kind, because you can offer them a temporary escape from whatever oppresses them. Nothing, however, will offer true Exotic Fetishists escape from themselves. The Drama Queen. There are people who cannot do without some constant drama in their lives-it is their way of deflecting boredom. The greatest mistake you can make in seducing these Drama Queens is to come offering stability and security. That will only make them run for the hills. Most often. Drama Queens (and there are plenty of men in this category) enjoy playing the victim. They want something to complain about, they want pain. Pain is a source of pleasure for them. With this type, you have to be willing and able to give them the mental rough treatment they desire. That is the only way to seduce them in a deep manner. The moment you turn too nice, they will find some reason to quarrel or get rid of you. You will recognize Drama Queens by the number of people who have hurt them, the tragedies and traumas that have befallen them. At the extreme, they can be hopelessly selfish and anti-seductive, but most of them are relatively harmless and will make fine victims if you can live with the sturm und drang.Ifforsomereasonyouwantsomethinglongterm with this type, you will constantly have to inject drama into your relationship. For some this can be an exciting challenge and a source for constantly renewing the relationship. Generally, however, you should see an involvement with a Drama Queen as something fleeting and a way to bring a little drama into your own life. The Professor. These types cannot get out of the trap of analyzing and criticizing everything that crosses their path. Their minds are overdeveloped and overstimulated. Even when they talk about love or sex, it is with great thought and analysis. Having developed their minds at the expense of their bodies, many of them feel physically inferior and compensate by lording their mental superiority over others. Their conversation is often wry or ironic-you never quite know what they are saying, but you sense them looking down on you. They would like to escape their mental prisons, they would like pure physicality, without any analysis, but they cannot get there on their own. Professor types sometimes engage in relationships with other professor types, or with people they can treat as inferiors. But deep down they long to be overwhelmed by someone with physical presence-a Rake or a Siren, for instance. Professors can make excellent victims,forunderneaththeirintellectualstrengthliegnawinginsecurities.MakethemfeellikeDon Juans or Sirens, to even the slightest degree, and they are your slaves. Many of them have a masochistic streak that will come out once you stir their dormant senses. You are offering an escape from the mind, so make it as complete as possible: if you have intellectual tendencies yourself, hide them. They will only 156stir your target's competitive juices and get their minds turning. Let your Professors keep their sense of mental superiority; let themjudge you. You will know what they will try to hide: that you are the one in control, for you are giving them what no one else can give them-physical stimulation. The Beauty. From early on in life, the Beauty is gazed at by others. Their desire to look at her is the source of her power, but also the source of much unhappiness: she constantly worries that her powers are waning, that she is no longer attracting attention. If she is honest with herself, she also senses that being worshiped only for one's appearance is monotonous and unsatisfying-and lonely. Many men are intimidated by beauty and prefer to worship it from afar; others are drawn in, but not for the purpose of conversation. The Beauty suffers from isolation. Because she has so many lacks, the Beauty is relatively easy to seduce,andifdoneright,youwill have won not only a much prized catch but someone who will grow dependent on what you provide. Most important in this seduction is to validate those parts of the Beauty that no one else appreciates-her intelligence (generally higher than people imagine), her skills, her character. Of course you must worship her body-you cannot stir up any insecurities in the one area in which she knows her strength, and \the strength on which she most depends-but you also must worship her mind and soul. Intellectual stimulation will work well on the Beauty, distracting her from her doubts and insecurities, and making it seem that you value that side of her personality. Because the Beauty is always being looked at, she tends to be passive. Beneath her passivity, though, there often lies frustration: the Beauty would love to be more active and to actually do some chasing of her own. A little coquettishness can work well here: at some point in all your worshiping, you might go a little cold, inviting her to come after you. Train her to be more active and you will have an excellent victim. The only downside is that her many insecurities require constant attention and care. The Aging Baby. Some people refuse to grow up. Perhaps they are afraid of death or of growing old; perhaps they are passionately attached to the life they led as children. Disliking responsibility, they struggle to turn everything into play and recreation. In their twenties they can be charming, in their thirties interesting, but by the time they reach their forties they are beginning to wear thin. Contrary to what you might imagine, one Aging Baby does not want to be involved with another Aging Baby, even though the combination might seem to increase the chances for play and frivolity. The Aging Baby does not want competition, but an adult figure. If you desire to seduce this type, you must be prepared to be the responsible, staid one. That may be a strange way of seducing, but in this case it works. You should appear to like the Aging Baby's youthful spirit (it helps if you actually do), can engage with it, but you remain the indulgent adult. By being responsible you free the Baby to play. Act the loving adult to the hilt, neverjudging or criticizing their behavior, and a strong attachment will form. Aging Babies can be amusing for a while, but, like all children, they are often potently narcissistic. This limits the pleasure you can have with them. You should see them as short-term amusements or temporary outlets for your frustrated parental instincts. The Rescuer. We are often drawn to people who seem vulnerable or weak-their sadness or depression can actually be quite seductive. There are people, however, whotake this much further, who seem to be attracted only to people with problems. This may seem noble, but Rescuers usually have complicated motives: they often have sensitive natures and truly want to help. At the same time, solving people's problems gives them a kind of power they relish-it makes them feel superior and in control. It is also the perfect way to distract them from their own problems. You will recognize these types by their empathy-they listen well and try to get you to open up and talk. You will also notice they have histories of relationships with dependent and troubled people. Rescuers can make excellent victims, particularly if you enjoy chivalrous or maternal attention. If you are a woman, play the damsel in distress, giving a man the chance so many men long for-to act the knight. If you are a man, play the boy who cannot deal with this harsh world; a female Rescuer will envelop you in maternal attention, gaining for herself the added satisfaction of feeling more powerful and in control than a man. An air of sadness will draw either gender in. Exaggerate your weaknesses, but not through overt words or gestures-let them sense that you have had too little love, that you have had a string of bad relationships, that you have gotten a raw deal in life. Having lured your Rescuer in with the chance to help you, you can then stokethe relationship's fires with a steady supply of needs and vulnerabilities. You can also invite moral rescue: you are bad. You have done bad things. You need a stem yet loving hand. In this case the Rescuer gets to feel morally superior, but also the vicarious thrill of involvement with someone naughty. The Roue. These types have lived the good life and experienced many pleasures. They probably have, or once had, a good deal of money to finance their hedonistic lives. On the outside they tend to seem cynical and jaded, but their worldliness often hides a sentimentality that they have stmggled to repress. Roues are consummate seducers, but there is one type that can easily seduce them-the young and the innocent. As they get 158 older, they hanker after their lost youth; missing their long-lost innocence, they begin to covet it in others. If you should want to seduce them, you will probably have to be somewhat young and to have retained at least the appearance of innocence. It is easy to play this up-make a show of how little experience you have in the world, how you still see things as a child. It is also good to seem to resist their advances: Roues will think it lively and exciting to chase you. You can even seem to dislike or distrust them-that will really spur them on. By being the one who resists, you control the dynamic. And sinceyou have the youth that they are missing, you can maintain the upper hand and make them fall deeply in love. They will often be susceptible to such a fall, because they have tamped down their own romantic tendencies for so long that when it bursts forth, they lose control. Never give in too early, and never let your guard down-such types can be dangerous. The Idol Worshiper. Everyone feels an inner lack, but Idol Worshipers have a bigger emptiness than most people. They cannot be satisfied with themselves, so they search the world for something to worship, something to fill their inner void. This often assumes the form of a great interest in matters or in some worthwhile cause; by focusing on something supposedly elevated, they distract themselves from their own void, from what they dislike about themselves. Idol Worshipers are easy to spot-they are the ones pouring their energies into some cause or religion. They often move around over the years, leaving one cult for another. The way to seduce these types is to simply become their object of worship, to take the place of the cause or religion to which they are so dedicated. At first you may have to seem to share their spiritual interest, joining them in their worship, or perhaps exposing them to a new cause; eventually you will displace it. With this type you have to hideyourflaws, or at least to give them a saintly sheen. Be banal and Idol Worshipers will pass you by. But mirror the qualities they aspire to have for themselves and they will slowly transfer their adoration to you. Keep everything on an elevated plane-let romance and religion flow into one. Keep two things in mind when seducing this type. First, they tend to have overactive minds, which can make them quite suspicious. Because they often lack physical stimulation, and because physical stimulation will distract them, give them some: a mountain trek, a boat trip, or sex will do the trick. But this takes a lot of work, for their minds are always ticking. Second, they often suffer from low self-esteem. Do not try to raise it; they will see through you, and your efforts at praising them will clash with their own self-image. They are to worship you; you are not to worship them. Idol Worshipers make perfectly adequate victims in the short term, but their endless need to search will eventually lead them to look for something new to adore. The Seducer's Victims-The Eighteen Types • 159 The Sensualist. What marks these types is not their love of pleasure but their overactive senses. Sometimes they show this quality in their appearance-their interest in fashion, color, style. But sometimes it is more subtle: because they are so sensitive, they areoften quite shy, and they will shrink from standing out or being flamboyant. You will recognize them by how responsive they are to their environment, how they cannot stand a room without sunlight, are depressed by certain colors, or excited by certain smells. They happen to live in a culture that deempha- sizes sensual experience (except perhaps for the sense of sight). And so what the Sensualist lacks is precisely enough sensual experiences to appreciate and relish. The key to seducing them is to aim for their senses, to take them to beautiful places, pay attention to detail, envelop them in spectacle, and of course use plenty of physical lures. Sensualists, like animals, can be baited with colors and smells. Appeal to as many senses as possible, keeping your targets distracted and weak. Seductions of Sensualists are often easy and quick, and you can use the same tactics again and again to keep them interested, although it is wise to vary your sensual appeals somewhat, in kind if not in quality. That is how Cleopatra worked on Mark Antony, an inveterate Sensualist. These types make superb victims because they are relatively docile if you give them what they want. The Lonely Leader. Powerful people are not necessarily different from everyone else, but they are treated differently, and this has a big effect on their personalities. Everyone around them tends to be fawning and courtierlike, to have an angle, to want something from them. This makes them suspicious and distrustful, and a little hard around the edges, but do not mistake the appearance for the reality: Lonely Leaders long to be seduced, to have someone break through their isolation and overwhelm them. The problem is that most people are too intimidated to try, or use the kind of tactics-flattery, charm-that they see through and despise. To seduce such types, it is better to act like their equal or even their superior- the kind of treatment they never get. If you are blunt with them you will seem genuine, and they will be touched-you care enough to be honest, even perhaps at some risk. (Being blunt with the powerful can be dangerous.) Lonely Leaders can be made emotional by inflicting some pain, followed by tenderness. This is one of the hardest types to seduce, not only because they are suspicious but because their minds are burdened with cares and responsi. They have less mental space for a seduction. You will have to be patient and clever, slowly filling their minds with thoughts of you. Succeed, though, and you can gain great power in turn, for in their loneliness they will come to depend on you. The Floating Gender. All of us have a mix of the masculine and the in our characters, but most of us learn to develop and exhibit the socially acceptable side while repressing the other. People of the Floating Gender type feel that the separation of the sexes into such distinct genders is a burden. They are sometimes thought to be repressed or latent homosexuals, but this is a misunderstanding: they may well be heterosexual but their masculine and feminine sides are in flux, and because this may discomfit others if they show it, they learn to repress it, perhaps by going to one extreme. They would actually love to be able to play with their gender, to give full expression to both sides. Many people fall into this type without its being obvious: a woman may have a masculine energy, a man a developed aesthetic side. Do not look for obvious signs, because these types often go underground, keeping it under wraps. This makes them vulnerable to a powerful seduction. What Floating Gender types are really looking for is another person of uncertain gender, their counterpart from the opposite sex. Show them that in your presence and they can relax, express the repressed side of their character. If you have such proclivities, this is the one instance where it would be best to seduce the same type of the opposite sex. Each person will stir up repressed desires in the other and will suddenly have license to explore all kinds of gender combinations, without fear of judgment. If you are not of the Floating Gender, leave this type alone. You will only inhibit them and create more discomfort. eductive process M ost of us understand that certain actions on our part will have apleasing and seductive effect on the person we would like to seduce. The problem is that we are generally too self-absorbed: We think more about what we want from others than what they could want from us. We may occasionally do something that is seductive, but often we follow this up a with a selfish or aggressive action (we are in a hurry to get what we want); or, unaware of what we are doing, we show a side of ourselves that is petty and banal, deflating any illusions or fantasies a person might have about us. Our attempts at seduction usually do not last long enough to create much of an effect. You will not seduce anyone by simply depending on your engaging personality, or by occasionally doing something noble or alluring. Seduction is a process that occurs over time-the longer you take and the slower you go, the deeper you will penetrate into the mind of your victim. It is an art that requires patience, focus, and strategic thinking. You need to always be one step ahead of your victim, throwing dust in their eyes, casting a spell, keeping them off balance. The twenty-four chapters in this section will arm you with a series of tactics that will help you get out of yourself and into the mind of your victim, so that you can play it like an instrument. The chapters are placed in a loose order, going from the initial contact with your victim to the successful conclusion. This order is based on certain timeless laws of human psychology. Because people's thoughts tend to revolve around their daily concerns and insecurities, you cannot proceed with a seduction until you slowly put their anxieties to sleep and fill their distracted minds with thoughts of you. The opening chapters will help you accomplish this. There is a natural tendency in relationships for people to become so familiar with one another that boredom and stagnation set in. Mystery is the lifeblood of seduction and to maintain it you have to constantly surprise your victims, stir things up, even shock them. A seduction should never settle into a comfortable routine. The middle and later chapters will instruct you in the art of alternating hope and despair, pleasure and pain, until your victims weaken and succumb. In each instance, one tactic is setting up the next one, allowing you to push it further with something bolder and more violent. A seducer cannot be timid or merciful. To help you move the seduction along, the chapters are arranged in 163 164 • The Art of Seduction four phases, each phase with a particular goal to aim for: getting the victim to think of you; gaining access to their emotions by creating moments of pleasure and confusion; going deeper by working on their unconscious, stirring up repressed desires; and finally, inducing physical surrender. (The are clearly marked and explained with a short introduction.) By following these phases you will work more effectively on your victim's mind and create the slow and hypnotic pace of a ritual. In fact, the seductive process may be thought of as a kind of initiation ritual, in which you are uprooting people from their habits, giving them novel experiences, putting them through tests, before initiating them into a new life. It is best to read all of the chapters and gain as much knowledge as possible. When it comes time to apply these tactics, you will want to pick and choose which ones are appropriate for your particular victim; sometimes only a few are sufficient, depending on the level of resistance you meet and the complexity of your victim's problems. These tactics are equally applicable to social and political seductions, minus the sexual component in Phase Four. At all cost, resist the temptation to hurry to the climax of your seduction, or to improvise. You are not being seductive but selfish. Everything in daily life is hurried and improvised, and you need to offer something different. By taking your time and respecting the seductive process you will not only break down your victim's resistance, you will make them fall in love. Phase One Separation - Stirring Interest and Desire Your victims live in their own worlds, their minds occupied with anxieties and daily concerns. Your goal in this initial phase is to slowly separate themfrom that closed world and fill their minds with thoughts of you. Once you have decided whom to seduce (1: Choose the right victim), your first task is to get your victims' attention, to stir interest in you. For those who might be more resistant or difficult, you should try a slower and more insidious approach, first winning their friendship (2: Create a false sense of security-approach indirectly); for those who are bored and less difficult to reach, a more dramatic approach will work, either fascinating them with a mysterious presence (3; Send mixed signals) or seeming to be someone who is coveted and fought over by others (4: Appear to be an object of desire). Once the victim is properly intrigued, you need to transform their interest into something stronger - desire. Desire is generally preceded by feelings of emptiness, of something missing inside that needsfulfillment. You must deliberately instill suchfeelings, make your victims aware of the adventure and romance that are lacking in their lives (5: Create a need-stir anxiety and discontent). If they see you as the one to fill their emptiness, interest will blossom into desire. The desire should be stoked by subtly planting ideas in their minds, hints of the seductive pleasures that await them (6: Master the art of insinuation). Mirroring your victims' values, indulging them in their wants and moods will charm and delight them (7: Enter their spirit). Without realizing how it has happened, more and more of their thoughts now revolve around you. The time has come for something stronger. Lure them with an irresistible pleasure or adventure (8: Create temptation) and they will follow your lead. 1 Choose the Right Victim Everything depends on the target of your seduction. Study your prey thoroughly, and choose only those who will prove susceptible to your charms. The right victims are those for whom you can fill a void, who see in you something exotic. They are often isolated or at least somewhat unhappy (perhaps because of recent adverse circumstances), or can easily be made so-for the completely contented person is almost impossible to seduce. The perfect victim has some natural quality that attracts you. The strong emotions this quality inspires will help make your seductive maneuvers seem more natural and dynamic. The perfect victim allows for the perfectchase. Preparing for the Hunt T he young Vicomte de Valmont was a notorious libertine in the Paris of the 1770s, the ruin of many a young girl and the ingenious seducer of the wives of illustrious aristocrats. But after a while the repetitiveness of it all began to bore him; his successes came too easily So one year, during the sweltering, slow month of August, he decided to take a break from Paris and visit his aunt at her chateau in the provinces. Life there was not what he was used to-there were country walks, chats with the local vicar, card games. His city friends, particularly his fellow libertine and confidante the Marquise de Merteuil, expected him to hurry back. There were other guests at the chateau, however, including the Presi- dente de Tourvel, a twenty-two-year-old woman whose husband was temporarily absent, having work to do elsewhere. The Presidente had been languishing at the chateau, waiting for him to join her. Valmont had met her before; she was certainly beautiful, but had a reputation as a prude who was extremely devoted to her husband. She was not a court lady; her taste in clothing was atrocious (she always covered her neck with ghastly frills) and her conversation lacked wit. For some reason, however, far from Paris, Valmont began to see these traits in a new light. He followed her to the where she went every morning to pray. He caught glimpses of her at dinner, or playing cards. Unlike the ladies of Paris, she seemed unaware of her charms; this excited him. Because of the heat, she wore a simple linen dress, which revealed her figure. A piece of muslin covered her breasts, letting him more than imagine them. Her hair, unfashionable in its slight disorder, conjured the bedroom. And her face-he had never noticed how expressive it was. Her features lit up when she gave alms to a beggar; she blushed at the slightest praise. She was so natural and unself-conscious. And when she talked of her husband, or religious matters, he could sense the depth of her feelings. If such a passionate nature were ever detoured into a love affair. . . . Valmont extended his stay at the chateau, much to the delight of his aunt, who could not have guessed at the reason. And he wrote to the Marquise de Merteuil, explaining his new ambition: to seduce Madame de Tourvel. The Marquise was incredulous. He wanted to seduce this prude? If he succeeded, how little pleasure she would give him, and if he failed, what a disgrace-the great libertine unable to seduce a wife whose husband was far away! She wrote a sarcastic letter, which only inflamed Valmont fur- The ninth • Have I become blind? Has the inner eye of the soul lost its power? 1 have seen her, but it is as if I had seen a heavenly revelation -so completely has her image vanished again for me. In vain do I summon all the of my soul in order to conjure up this image. If I ever see her again, I shall be able to recognize her instantly, even though she stands among a hundred others. Now she has fled, and the eye of my soul tries in vain to overtake her with its longing. I was walking along Langelinie, seemingly nonchalantly and without paying attention to my surroundings, although my reconnoitering glance leftnothing unobserved-and then my eyesfell upon her. My eyes fixed unswervingly upon her. They no longer obeyed their master's will; it was impossiblefor me to shift my gaze and thus overlook the object I wanted to see-I did not look, I stared. As a fencerfreezes in his lunge, so my eyes were fixed, petrified in the direction initially taken. It was impossible to look down, impossible to withdraw my glance, impossible to see, because I saw far too much. The only thing I have retained is that she had on a green cloak, that is all-one could call it capturing the cloud instead of Juno; she has escaped me . . .and left only her cloak behind. . . . The girl made an impression on me. • The sixteenth • ... I feel no impatience, for she must live here in the city, and at this moment that is enough for me. This possibility is the condition for the properappearanceofher image - everything will be enjoyed in slow drafts. ..." The nineteenth • Cordelia, then, is her name! Cordelia! It is a beautiful name, and that, too, is important, since it can be very disturbing to have to name an ugly name together with the most tender adjectives. KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. TRANSLATED BY HOWARD V. HONG AND EDNA H. HONG Love as understood by Don Juan is a feeling akin to a taste for hunting. It is cravingfor an activity which needs an incessant of stimuli to challenge skill. -STENDHAL, LOVE. SALE It is not the quality of the desired object that gives us pleasure, but rather the energy of our appetites. -CHARLES BAUDELAIRE, THE END OF DON JUANther. The conquest of this notoriously virtuous woman would prove his greatest seduction. His reputation would only be enhanced. There was an obstacle, though, that seemed to make success almost impossible: everyone knew Valmonfs reputation, including the Presidente. She knew how dangerous it was to ever be alone with him, how people would talk about the least association with him. Valmont did everything to belie his reputation, even going so far as to attend church services and seem repentant of his ways. The Presidente noticed, but still kept her distance. The challenge she presented to Valmont was irresistible, but could he meet it? Valmont decided to test the waters. One day he arranged a little walk with the Presidente and his aunt. He chose a delightful path that they had never taken before, but at a certain point they reached a little ditch, unsuitable for a lady to cross on her own. And yet, Valmont said, the rest of the walk was too nice for them to turn back, and he gallantly picked up his aunt in his arms and carried her across the ditch, making the Presidente laugh uproariously. But then it was her turn, and Valmont purposefully her up a little awkwardly, so that she caught at his arms, and while he was holding her against him he could feel her heart beating faster, and her blush. His aunt saw this too, and cried out, "The child is afraid!" But Valmont sensed otherwise. Now he knew that the challenge could be met, that the Presidente could be won. The seduction could proceed. Interpretation. Valmont, the Presidente de Tourvel, and the Marquise de Merteuil are all characters in the eighteenth-century French novel Dangerous Liaisons, by Choderlos de Laclos. (The character of Valmont was inspired by several real-life libertines of the time, most prominent of all the Duke de Richelieu.) In the story, Valmont worries that his seductions have become mechanical; he makes a move, and the woman almost always responds the same way. But no two seductions should be the same-a different target should change the whole dynamic. Valmonfs problem is that he is always seducing the same type-the wrong type. He realizes this when he meets Madame de Tourvel. It is not because her husband is a count that he decides to seduce her, or because she is stylishly dressed, or is desired by other men-the usual reasons. He chooses her because, in her unconscious way, she has already seduced him. A bare arm, an unrehearsed laugh, a playful manner-all these have captured his attention, because none of them is contrived. Once he falls under her spell, the strength of his desire will make his subsequent maneuvers seem less calculated; he is apparently unable to help himself. And his strong emotions will slowly infect her. Beyond the effect the Presidente has on Valmont, she has other traits that make her the perfect victim. She is bored, which draws her toward adventure. She is naive, and unable to see through his tricks. Finally, the Achilles' heel; she believes herself immune to seduction. Almost all of us Choose the Right Victim • 171 are vulnerable to the attractions of other people, and we take precautions against unwanted lapses. Madame de Tourvel takes none. Once Valmont has tested her at the ditch, and has seen she is physically vulnerable, he knows that eventually she will fall. Life is short, and should not be wasted pursuing and seducing the wrong people. The choice of target is critical; it is the set up of the seduction and it will determine everything else that follows. The perfect victim does not have certain facial features, or the same taste in music, or similar goals in life. That is how a banal seducer chooses his or her targets. The perfect victim is the person who stirs you in a way that cannot be explained in words, whose effect on you has nothing to do with superficialities. He or she often has a quality that you yourself lack, and may even secretly envy- the Presidente, for example, has an innocence that Valmont long ago lost or never had. There should be a little bit of tension-the victim may fear you a little, even slightly dislike you. Such tension is full of erotic potential and will make the seduction much livelier. Be more creative in choosing your prey and you will be rewarded with a more exciting seduction. Of course, it means nothing if the potential victim is not open to your influence. Test the person first. Once you feel that he or she is also vulnerable to you then the hunting can begin. It is a stroke of good fortune to find one who is worth seducing. . . . Most people rush ahead, become engaged or do other stupid things, and ina turn of the hand everything is over, and they know neither what they have won nor what they have lost. KIERKEGAARD Keys to Seduction T hroughout life we find ourselves having to persuade people-to seduce them. Some will be relatively open to our influence, if only in subtle ways, while others seem impervious to our charms. Perhaps we find this a mystery beyond our control, but that is an ineffective way of dealing with life. Seducers, whether sexual or social, prefer to pick the odds. As often as possible they go toward people who betray some vulnerability to them, and avoid the ones who cannot be moved. To leave people who are inaccessible to you alone is a wise path; you cannot seduce everyone. On the other hand, you must actively hunt out the prey that responds the right way. This will make your seductions that much more pleasurable and satisfying. How do you recognize your victims? By the way they respond to you. You should not pay so much attention to their conscious responses-a person who is obviously trying to please or charm you is probably playing to your vanity, and wants something from you. Instead, pay greater attention to those responses outside conscious control-a blush, an involuntary mir- The daughter of desire should strive to have the following lovers in their turn, as being mutuallyrestful to her: a boy who has been loosed too soon from the authority and counsel of his father, an author enjoying office with a rather simple-minded prince, a merchant's son whose pride is in rivaling other lovers, an ascetic who is the slave of love in secret, a king's son whose follies are boundless and who has a tastefor rascals, the countrified son of some village Brahman, a married woman's lover, a singer who has just pocketed a very large sum of money, the master of a caravan but recently come in. . . .These brief instructions admit of infinitely varied interpretation, dear child, according to the circumstance; and it requires intelligence, insight and reflection to make the best of each particular case. -EASTERN LOVE, VOLUME II: THE HARLOT'S BREVIARY OF KSHEMENDRA, MATHERS The women who can be easily won over to congress: ... a woman who looks sideways at you; ... a woman who hates her husband, or who is hated by him; ... a woman who has not had any children; ... a woman who is very fond of society; a woman who is apparently very affectionate toward her husband; the wife of an actor; a widow; ... a woman fond of enjoyments; ... a vain woman; a woman whose husband is inferior to her in rank or ability; a woman who is proud of her skill in the arts; ... a woman who is slighted by her husband without any cause; ... a woman whose husband is devoted to travelling; the wife of a jeweler; a jealous woman; a covetous woman. -THE HINDI: ART OF LOVE. EDITED BY EDWARD WINDSOR Leisure stimulates love, leisure watches the lovelorn, \ Leisure's the cause and sustenance of this sweet \ Evil. Eliminate leisure, and Cupid's bow is broken, \ His torches lie lightless, scorned. \ As a plane-tree rejoices in wine, as a poplar in water, \As a marsh-reed in swampy ground, so Venus loves \ Leisure. . . . \ Why do you think Aegisthus \ Became an adulterer? Easy: he was idle-and bored. \ Everyone else was away at Troy on a lengthy \ Campaign: all Greece had shipped \ Its contingent across. Suppose he hankered for warfare? Argos \ Had no wars to offer. Suppose he fancied the courts? \ Argos lacked litigation. Love was better than doing nothing. \ That's how Cupid slips in; that's how he stays. - ON ID, CURES FOR LOVE. The Chinese have a proverb: "When Yang is in the ascendant, Yin is bom," which means, translated into our language, that when a man has devoted the better of his life to the ordinary business of living, the Yin, raring of some gesture of yours, an unusual shyness, even perhaps a flash of anger or resentment. All of these show that you arehaving an effect on a person who is open to your influence. Like Valmont, you can also recognize the right targets by the effect they are having on you. Perhaps they make you uneasy-perhaps they correspond to a deep-rooted childhood ideal, or represent some kind of personal taboo that excites you, or suggest the person you imagine you would be if you were the opposite sex. When a person has such a deep effect on you, it transforms all of your subsequent maneuvers. Your face and gestures become more animated. You have more energy; when victims resist you (as a good victim should) you in turn will be more creative, more motivated to overcome their resistance. The seduction will move forward like a good play. Your strong desire will infect the target and give them the dangerous sensation that they have a power over you. Of course, you are the one ultimately in control since you are making your victims emotional at the right moments, leading them back and forth. Good seducers choose targets that inspire them but they know how and when to restrain themselves. Never rush into the waiting arms of the first person who seems to like you. That is not seduction but insecurity. The need that draws you will make for a low-level attachment, and interest on both sides will sag. Look at the types you have not considered before-that is where you will find challenge and adventure. Experienced hunters do not choose their prey by how easily it is caught; they want the thrill of the chase, a life-and-death struggle-the fiercer the better. Although the victim who is perfect for you depends on you, certain types lend themselves to a more satisfying seduction. Casanova liked young women who were unhappy, or had suffered a recent misfortune. Such women appealed to his desire to play the savior, but it also responded to necessity: happy people are much harder to seduce. Their contentment makes them inaccessible. It is always easier to fish in troubled waters. Also, an air of sadness is itself quite seductive-Genji, the hero of the Japanese novel The Tale of Genji, could not resist a woman with a melancholic air. In Kierkegaard's book The Seducer's Diary, the narrator, Johannes, has one main requirement in his victim: she must have imagination. That is why he chooses a woman who lives in a fantasy world, a woman who will envelop his every gesture in poetry, imagining far more than is there. Just as it is hard to seduce a person who is happy, it is hard to seduce a person who has no imagination. For women, the manly man is often the perfect victim. Mark Antony was of this type-he loved pleasure, was quite emotional, and when it came to women, found it hard to think straight. He was easy for Cleopatra to manipulate. Once she gained a hold on his emotions, she kept him permanently on a string. A woman should never be put off by a man who seems overly aggressive. He is often the perfect victim. It is easy, with a few coquettish tricks, to turn that aggression around and make him your slave. Such men actually enjoy being made to chase after a woman. Choose the Right Victim • 173 Be careful with appearances. The person who seems volcanically passionate is often hiding insecurity and self-involvement. This was what most men failed to perceive in the nineteenth-century courtesan Lola Montez. She seemed so dramatic, so exciting. In fact, she was a troubled, self- obsessed woman, but by the time men discovered this it was too late-they had become involved with her and could not extricate themselves without months of drama and torture. People who are outwardly distant or shy are often better targets than extroverts. They are dying to be drawn out, and still waters run deep. People with a lot of time on their hands are extremely susceptible to seduction. They have mental space for you to fill. Tullia d'Aragona, the infamous sixteenth-century Italian courtesan, preferred young men as her victims; besides the physical reason for such a preference, they were more idle than working men with careers, and therefore more defenseless against an ingenious seductress. On the other hand, you should generally avoid people who are preoccupied with business or work-seduction demands attention, and busy people have too little space in their minds for you to occupy. According to Freud, seduction begins early in life, in our relationship with our parents. They seduce us physically, both with bodily contact and by satisfying desires such as hunger, and we in turn try to seduce them into paying us attention. We are creatures by nature vulnerable to seduction throughout our lives. We all want to be seduced; we yearn to be drawn out of ourselves, out of our routines and into the drama of eros. And what draws us more than anything is the feeling that someone has something we don't, a quality we desire. Your perfect victims are often people who think you have something they don't, and who will be enchanted to have it provided for them. Such victims may have a temperament quite the opposite of yours, and this difference will create an exciting tension. When Jiang Qing, later known as Madame Mao, first met Mao Tse- tung in 1937 in his mountain retreat in western China, she could sense how desperate he was for a bit of color and spice in his life: all the camp's women dressedlikethemen,andabjuredanyfemininefinery. Jiang had been anactress in Shanghai, and was anything but austere. She supplied what he lacked, and she also gave him the added thrill of being able to educate her in communism, appealing to his Pygmalion complex-the desire to dominate, control, and remake a person. In fact it was Jiang Qing who controlled her future husband. The greatest lack of all is excitement and adventure, which is precisely what seduction offers. In 1964, the Chinese actor Shi Pei Pu, a man who had gained fame as a female impersonator, met Bernard Bouriscout, a young diplomat assigned to the French embassy in China. Bouriscout had come to China looking for adventure, and was disappointed to have little contact with Chinese people. Pretending to be a woman who, when still a child, had been forced to live as a boy-supposedly the family already had too many daughters-Shi Pei Pu used the young Frenchman's boredom and or emotional side of his nature, rises to the surface and demands its rights. When such a period occurs, all that which has formerly seemed important loses its significance. The will-of- the-wisp of illusion leads the man hither and thither, taking him on strange and complicated deviations from his former path in life. Ming Huang, the "Bright Emperor" of the Tang dynasty, was an example of the profound truth of this theory. From the moment he saw Yang Kuei-fei bathing in the lake near his palace in the Li mountains, he was destined to sit at her feet, leamingfrom her the emotional mysteries of what the Chinese call Yin. -ELOISE TALCOTT HIBBERT, EMBROIDERED GAUZE: PORTRAITS OF FAMOUS LADIES discontent to manipulate him. Inventing a story of the deceptions he had had to go through, he slowly drew Bouriscout into an affair that would last many years. (Bouriscout had had previous homosexual encounters, but considered himself heterosexual.) Eventually the diplomat was led into spying for the Chinese. All the while, he believed Shi Pei Pu was a woman-his for adventure had made him that vulnerable. Repressed types are perfect victims for a deep seduction. People who repress the appetite for pleasure make ripe victims, particularly later in their lives. The eighth-century Chinese Emperor Ming Huang spent much of his reign trying to rid his court of its costly addiction to luxuries, and was himself a model of austerity and virtue. But the moment he saw the concubine Yang Kuei-fei bathing in a palace lake, everything changed. The most charming woman in the realm, she was the mistress of his son. Exerting his power, the emperor won her away-only to become her abject slave. The choice of the right victim is equally important in politics. Mass seducers such as Napoleon or John F. Kennedy offer their public just what it lacks. When Napoleon came to power, the French people's sense of pride was beaten down by the bloody aftermath of the French Revolution. He offered them glory and conquest. Kennedy recognized that Americans were bored with the stultifying comfort of the Eisenhower years; he gave them adventure and risk. More important, he tailored his appeal to the group most vulnerable to it: the younger generation. Successful politicians know that not everyone will be susceptible to their charm, but if they can find a group of believers with a need to be filled, they have supporters who will stand by them no matter what. Symbol: Big Game. Lions are dangerous-to hunt them is to know the thrill of risk. Leopards are clever and swift, offering the excitement of a difficult chase. Never rush into the hunt. Know your prey and choose it carefully. Do not waste time with small game-the rabbits that back into snares, the mink that walk into a scented trap. Challenge is pleasure. Choose the Right Victim • 175 Reversal T here is no possible reversal. There is nothing to be gained from trying to seduce the person who is closed to you, or who cannot provide the pleasure and chase that you need. 2. Create a False Sense of Security- Approach Indirectly. Ifyouaretoo rect early on, you risk stirring up a resistance that will never be lowered. At first there must be nothing of the seducer in your manner. The seduction should begin at an angle, indirectly, so that the target only gradually becomes aware of you. Haunt the periphery of your target 's life-approach through a third party, or seem to cultivate a relatively neutral relationship, moving gradually from friend to lover. Arrange an occasional "chance" encounter, as if you and your target were destined to become acquainted-nothing is more seductive than a sense of destiny. Lull the target into feeling secure, then strike. Friend to Lover. A nne Marie Louis d'Orleans, the Duchess de Montpensier, known in seventeenth-century France as La Grande Mademoiselle, had never known love in her life. Her mother had died when she was young; her father remarried and ignored her. She came from one of Europe's most illustrious families: her grandfather had been King Henry IV; the future King Louis XIV was her cousin. When she was young, matches had been proposed between her and the widowed king of Spain, the son of the Holy Roman emperor, and even cousin Louis himself, among many others. But all of these matches were designed for political purposes, or because of her family's enormous wealth. No one bothered to woo her; she rarely evenmet her suitors. To make matters worse, the Grande Mademoiselle was an idealist who believed in the old-fashioned values of chivalry: courage, honesty, virtue. She loathed the schemers whose motives in courting her were dubious at best. Whom could she trust? One by one she found a reason to spurn them. Spinsterhood seemed to be her fate. In April of 1669, the Grande Mademoiselle, then forty-two, met one of the strangest men in the court: the Marquis Antonin Peguilin, later known as the Duke de Lauzun. A favorite of Louis XIV's, the thirty-six- year-old Marquis was a brave soldier with an acid wit. He was also an incurable Don Juan. Although he was short, and certainly not handsome, his impudent manners and his military exploits made him irresistible to women. The Grande Mademoiselle had noticed him some years before, admiring his elegance and boldness. But it was only this time, in 1669, that she had a real conversation with him, if a short one, and although she knew of his lady-killer reputation, she found him charming. A few days later they ran into each other again; this time the conversation was longer, and Lauzun proved more intelligent than she had imagined-they talked of the playwright Corneille (her favorite), of heroism, and of other elevated topics. Now their encounters became more frequent. They had become friends. Anne Marie noted in her diary that her conversations with Lauzun, when they occurred, were the highlight of her day; when he was not at court, she felt his absence. Surely her encounters with him came frequently enough that they could not be accidental on his part, but he always seemed surprised to see her. At the same time, she recorded feeling uneasy- strange emotions were stealing up on her, she did not know why. Many women adore the elusive, \ Hate overeagerness. So, play hard to get, \ Stop boredom developing. And don't let your entreaties \ Sound too confident of possession. Insinuate sex \ Camouflaged as friendship. I've seen ultrastubborn creatures \ Fooled by this gambit, the switch from companion to stud. -OVID, THEART OF LOVE, GREEN On the street, I do not stop her, or I exchange a greeting with her but never come close, but always strive for distance. Presumably our repeated encounters are clearly noticeable to her; presumably she does perceive that on her horizon a new planet has loomed, which in its course has encroached disturbingly upon hers in a curiously undisturbing way, but she has no inkling of the law underlying this movement. . . . Before I begin my attack, I must first become acquainted with her and her whole mental state. KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. HONG AND EDNA H. HONG No sooner had he spoken than the bullocks, driven from their mountain pastures, were on their way to the beach, as Jove had directed; they were making for the sands where the daughter [Europa] of the great king used to play with the young girls of Tyre, who were her companions. Abandoning the dignity of his scepter, the father and ruler of the gods, whose hand wields the flaming threeforked bolt, whose nod shakes the universe, adopted the guise of a bull; and, mingling with the other bullocks, joined in the lowing and ambled in the tender grass, a fair sight to sec. His hide was white as untrodden snow, snow not yet melted by the rainy South wind. The muscles stood out on his neck, and deep folds of skin hung along his flanks. His horns were small, it is true, but so beautifully made that you would swear they were the work of an artist, more polished and shining than any jewel. There was no menace in the set of his head or in his eyes; he looked completely placid. • Agenor's daughter [Europa ] was filled with admiration for one so handsome and so friendly. But, gentle though he seemed, she was afraid at first to touch him; then she went closer, and held out flowers to his shining lips. The lover was delighted Time passed, and the Grande Mademoiselle was to leave Paris for a week or two. Now Lauzun approached her without warning and made an emotional plea to be considered her confidante, the great friend who would execute any commission she needed done while she was away. He was poetic and chivalrous, but what did he really mean? In her diary, Anne Marie finally confronted the emotions that had been stirring in her since their first conversation: "I told myself, these are not vague musings; there must be an object to all of these feelings, and I could not imagine who it was. . . . Finally, after troubling myself with this for several days, I realized that it was M. de Lauzun whom I loved, it was he who had somehow slipped into my heart and captured it." Made aware of the source of her feelings, the Grande Mademoiselle became more direct. If Lauzun was to be her confidante, she could talk to him of marriage, of the matches that were still being offered to her. The topic might give him a chance to express his feelings; perhaps he might show jealousy. Unfortunately Lauzun did not seem to take the hint. Instead, he asked her why she was thinking of marriage at all-she seemed so happy. Besides, who could possibly be worthy of her? This went on for weeks. She could pry nothing personal out of him. In a way, she understood-there were the differences in rank (she was far above him) and age (she was six years older). Then, a few months later, the wife of the king's brother died, and King Louis suggested to the Grande Mademoiselle that she replace his late sister-in-law-that is, that she marry his brother. Anne Marie was disgusted; clearly the brother was trying to get his hands on her fortune. She asked Lauzun his opinion. As the king's loyal servants, he replied, they must obey the royal wish. His answer did not please her, and to make things worse, he stopped visiting her, as if it were no longer proper for them to be friends. This was the last straw. The Grande Mademoiselle told the king she would not marry his brother, and that was that. Now Anne Marie met with Lauzun, and told him she would write on a piece of paper the name of the man she had wanted to marry all along. He was to put the paper under his pillow and read it the next morning. When he did, he found the words "C'est vous "-It is you. Seeing the Grande Mademoiselle the following evening, Lauzun said she must have been joking; she would make him the laughing stock of the court. She insisted that she was serious. He seemed shocked, surprised-but not as surprised as the rest of the court was a few weeks later, when an engagement was announced between this relatively low-ranking Don Juan and the second-highest-ranking lady in France, a woman known for both her virtue and her skill at defending it. Interpretation. The Duke de Lauzun was one of the greatest seducers in history, and his slow and steady seduction of the Grande Mademoiselle was his masterpiece. His method was simple: indirection. Sensing her interest in him in that first conversation, he decided to beguile her with friendship. Create a False Sense of Security-Approach Indirectly He would become her most devoted friend. At first this was charming; a man was taking the time to talk to her, of poetry, history, the deeds of war-her favorite subjects. She slowly began to confide in him. Then, almost without her realizing it, her feelings shifted: the consummate ladies' man was only interested in friendship? He was not attracted to her as a ? Such thoughts made her aware that she had fallen in love with him. This, in part, was what eventually made her turn down the match the king's brother-a decision cleverly and indirectly provoked by Lauzun himself, when he stopped visiting her. And how could he be after money or position, or sex, when he had never made any kind of move? No, the brilliance of Lauzun's seduction was that the Grande Mademoiselle it was she who was making all the moves. Once you have chosen the right victim, you must get his or her attention and stir desire. To move from friendship to love can win success without calling attention to itself as a maneuver. First, your friendly conversations with your targets will bring you valuable information about their characters, their tastes, their weaknesses, the childhood yearnings that govern their adult behavior. (Lauzun, for example, could adapt cleverly to Anne Marie's tastes once he had studied her close up.) Second, by spending time with your targets you can make them comfortable with you. Believing you are interested only in their thoughts, in their company, they will lower their resistance, dissipating the usual tension between the sexes. Now they are vulnerable, for your friendship with them has opened the golden gate to their body: their mind. At this point any offhand comment, any slight physical contact, will spark a different thought, which will catch them offguard: perhaps there could be something else between you. Once that feeling has stirred, they will wonder why you haven't made a move, and will take the initiative themselves, enjoying the illusion that they are in control. There is nothing more effective in seduction than making the seduced think that they are the ones doing the seducing. I do not approach her, 1 merely skirt the periphery of her existence. . . . This is the first web into which she must bespun. KIERKEGAARD Key to Seduction W hat you are after as a seducer is the ability to move people in the direction you want them to go. But the game is perilous; the moment they suspect they are acting under your influence, they will become resentful. We are creatures who cannot stand feeling that we are obeying someone else's will. Should your targets catch on, sooner or later they will turn against you. But what if you can make them do what you want them to without their realizing it? What if they think they are in control? That is and, until he could achieve h is hoped-for pleasure, kissed her hands. He could scarcely wait for the rest, only with great difficulty did he restrain himself • Now he frolicked and played on the green turf now lay down, all snowy white on the yellow sand. Gradually the princess lost herfear, and with her innocent hands she stroked his breast when he offered itfor her caress, and hung fresh garlands on his horns: till finally she even ventured to mount the bull, little knowing on whose back she was resting. Then the god drew away from the shore by easy stages, first planting the hooves that were part of his disguise in the surf at the water's edge, and then proceeding farther out to sea, till he bore his booty away over the wide stretches of mid ocean. - OVID, METAMORPHOSES, INNES These few reflections lead us to the understanding that, since in attempting a seduction it is up to the man to make the first steps, for the seducer, to seduce is nothing more than reducing the distance, in this case that of the difference between the sexes and that, in order to accomplish this, it is necessary to feminize himself or at least identify himself with the object of his seduction. ... As Alain Roger writes: "If there is a seduction, it is the seducer who is first lead astray, in the sense that he abdicates his own sex. Seduction undoubtedly aims at sexual consummation, but it only gets there in creating a kind 182 of simulacra of Gomorra. The seducer is nothing more than a lesbian." MONNEYRON, S EDUIRE: L'lMAGINAIRE DE LA SEDUCTION DE DON GIOVANNI A MICK JAGGER As he [Jupiter ] was hurrying busily to and fro, he stopped short at the sight of an Arcadian maiden. The fire of passion kindled the very marrow of his bones. This girl was not one who spent her time in spinning soft fibers of wool, or in arranging her hair in different styles. She was one of Diana's warriors, wearing her tunic pinned together with a brooch, her tresses carelessly caught back by a white ribbon, and carrying in her hand a light javelin or her bow. The sun on high had passed its zenith, whenshe entered a grove whose trees had neverfelt the axe. Here she took her quiver from her shoulders, unstrung her pliant bow, lay down on the turf, resting her head on her painted quiver. When Jupiter saw her thus, tired and unprotected, he said: "Here is a secret of which my wife will know nothing; or if she does get to know of it, it will be worth her reproaches!" • Without wasting time he assumed the appearance and the dress of Diana, and spoke to the girl. 'Dearest of all my companions," he said, "where have you been hunting? On what mountain ridges?" She raised herself from the grass: "Greeting, divine mistress," she cried, "greater in my sight than the power of indirection and no seducer can work his or her magic without it. The first move to master is simple: once you have chosen the right person, you must make the target come to you. If, in the opening stages, you can make your targets think that they are the ones making the first approach, you have won the game. There will be no resentment, no perverse counterreaction, no paranoia. To make them come to you requires giving them space. This can be accomplished in several ways. You can haunt the periphery of their existence, letting them notice you in different places but never approaching them. You will get their attention this way, and if they want to bridge the gap, they will have to come to you. You can befriend them, as Lauzun did the Grande Mademoiselle, moving steadily closer while always maintaining the distance appropriate for friends of the opposite sex. You can also play cat and mouse with them, first seeming interested, then stepping back- actively luring them to follow you into your web. Whatever you do, and whatever kind of seduction you are practicing, you must at all cost avoid the natural tendency to crowd your targets. Do not make the mistake of thinking they will lose interest unless you apply pressure, or that they will enjoy a flood of attention. Too much attention early on will actually just suggest insecurity, and raise doubts as to your motives. Worst of all, it gives your targets no room for imagination. Take a step back; let the thoughts you are provoking come to them as if they were their own. This is doubly important if you are dealing with someone who has a deep effect on you. We can never really understand the opposite sex. They are always mysterious to us, and it is this mystery that provides the tension so delightful in seduction; but it is also a source of unease. Freud famously wondered what women really wanted; even to this most insightful of psychological thinkers, the opposite sex was a foreign land. For both men and women, there are deep-rooted feelings of fear and anxiety in relation to the opposite sex. In the initial stages of a seduction, then, you must find ways to calm any sense of mistrust that the other person may experience. (A sense of danger and fear can heighten the seduction later on, but if you stir such emotions in the first stages, you will more likely scare the target away.) Establish a neutral distance, seem harmless, and you give yourself room to move. Casanova cultivated a slight femininity in his character-an interest in clothes, theater, domestic matters-that young girls found comforting. The Renaissance courtesan Tullia d'Aragona, developing friendships with the great thinkers and poets of her time, talked of literature and philosophy- anything but the boudoir (and anything but the money that was also her goal). Johannes, the narrator of Soren Kierkegaard's The Seducer's Diary, follows, his target, Cordelia, from a distance; when their paths cross, he is polite and apparently shy. As Cordelia gets to know him, he doesn't frighten her. In fact he is so innocuous she begins to wish he were less so. Duke Ellington, the great jazz artist and a consummate seducer, would Create a False Sense of Security- initially dazzle the ladies with his good looks, stylish clothing, and charisma. But once he was alone with a woman, he would take a slight step back, becoming excessively polite, makingonly small talk. Banal conversation can be a brilliant tactic; it hypnotizes the target. The dullness of your front gives the subtlest suggestive word, the slightest look, an amplified power. Never mention love and you make its absence speak volumes-your victims will wonder why you never discuss your emotions, and as they have such thoughts, they will go further, imagining what else is going on in your mind. They will be the ones to bring up the topic of love or affection. Deliberate dullness has many applications. In psychotherapy, the doctor makes monosyllabic responses to draw patients in, making them relax and open up. In international negotiations, Henry Kissinger would lull diplomats with boring details, then strike with bold demands. Early in a seduction, less-colorful words are often more effective than vivid ones-the target tunes them out, looks at your face, begins to imagine, fantasize, fall under your spell. Getting to your targets through other people is extremely effective; infiltrate their circle and you are no longer a stranger. Before the seventeenth- century seducer Count de Grammont made a move, he would befriend his target's chambermaid, her valet, a friend, even a lover. In this way he could gather information, finding a way to approach her in an unthreatening manner. He could also plant ideas, saying thingsthethirdpartywas likely to repeat, things that would intrigue the lady, particularly when they came from someone she knew. Ninon de 1'Enclos, the seventeenth-century courtesan and strategist of seduction, believed that disguising one's intentions was not only a necessity, it added to the pleasure of the game. A man should never declare his feelings, she felt, particularly early on. It is irritating and provokes mistrust. "A woman is much better persuaded that she is loved by what she guesses than by what she is told," Ninon once remarked. Often a person's haste in declaring his or her feelings comes from a false desire to please, thinking this will flatter the other. But the desire to please can annoy and offend. Children, cats, and coquettes draw us to them by apparently not trying, even by seeming uninterested. Leam to disguise your feelings and let people figure out what is happening for themselves. In all arenas of life, you should never give the impression that you are angling for something-that will raise a resistance that you will never lower. Leam to approach people from the side. Mute your colors, blend in, seem unthreatening, and you will have more room to maneuver later on.The same holds true in politics, where overt ambition often frightens people. Vladimir Ilyich Lenin at first glance looked like an everyday Russian; he dressed like a worker, spoke with a peasant accent, had no air of greatness. This made the public feel comfortable and identify with him. Yet beneath this apparently bland appearance, of course, was a deeply clever man who was always maneuvering. By the time people realized this it was too late. -Approach Indirectly • 183 Jove himself-I care not if he hears me!" Jove laughed to hear her words. Delighted to be preferred to himself he kissed her-not with the restraint becoming to a maiden's kisses: and as she began to tell of her hunting exploits in the forest, he prevented her by his embrace, and betrayed his real self by a shameful action. So far from complying, she resisted him as far as a woman could . . . but how could a girl overcome a man, and who could defeat Jupiter? He had his way, and returned to the upper air. - OVID, METAMORPHOSES ,INNES I had rather hear my dog bark at a crow than a man swear he loves me. -BEATRICE, IN WILLIAM SHAKESPEARE, MUCH ADO ABOUT NOTHING I know of a man whose beloved was completely friendly and at ease with him; but if he had disclosed by the least gesture that he was in love, the beloved would have become as remotefrom him as the Pleiades, whose stars hang so high in heaven. It is a sort of statesmanship that is required in such cases; the party concerned was enjoying the pleasure of his loved one's company intensely and to the last degree, but if he had so much as hinted at his inner feelings he would have attained but a miserable fraction of the beloved's favor, and endured into the bargain all the arrogance and caprice of which love is Symbol: The Spider's Web. The spiderfinds an innocuous corner in capable. which to spin its web. The longer the web takes, the more fabulous HAZM; THE RING OF THE DOVE: A TREATISE ON THE ART AND PRACTICE OF ARAB LOVE ARBERRY its construction, yetfew really notice it-its gossamer threads are nearly invisible. The spider has no need to chaseforfood, or even to move. It quietly sits in the corner, waitingfor its victims to come to it on their own, and ensnare themselves in the web. Reversal I n warfare, you need space to align your troops, room to maneuver. The more space you have, the more intricate your strategy can be. But sometimes it is better to overwhelm the enemy, giving them no time to think or react. Although Casanova adapted his strategies to the woman in question, he would often try to make an immediate impression, stirring her desire at the first encounter. Perhaps he would perform some gallantry, rescuing a woman in danger; perhaps he would dress so that his target would notice him in a crowd. In either case, once he had the woman's attention he would move with lightning speed. A Siren like Cleopatra tries to have an immediate physical effect on men, giving her victims no time or space to retreat. She uses the element of surprise. The first period of your contact with someone can involve a level of desire that will never be repeated; boldness will carry the day. But these are short seductions. The Sirens and the Casanovas only get pleasure from the number of their victims, moving quickly from conquest to conquest, and this can be tiring. Casanova burned himself out; Sirens, insatiable, are never satisfied. The indirect, carefully constructed seduction may reduce the number of your conquests, but more than compensate by their quality. 3 Send Mixed Signals Once people are aware of your presence, and perhaps vaguely intrigued, you need to stir their interest before it settles on someone else. What is obvious and striking may attract their attention atfirst, but that attention is often short-lived; in the long run, ambiguity is much more potent. Most of us are much too obvious - instead, be hard to figure out. Send mixed signals: both tough and tender, both spiritual and earthy, both innocent and cunning. A mix of qualities suggests depth, which fascinates even as it confuses. An elusive, enigmatic aura will make people want to know more, drawing them into your circle. Create such a power by hinting at something contradictory within you. Good and Bad I n 1806, when Prussia and France were at war, Auguste, the handsome twenty-four-year-old prince of Prussia and nephew of Frederick the Great, was captured by Napoleon. Instead of locking him up, Napoleon allowed him to wander around French territory, keeping a close watch on him through spies. The prince was devoted to pleasure, and spent his time moving from town to town, seducing young girls. In 1807 he decided to visit the Chateau de Coppet, in Switzerland, where lived the great French writer Madame de Stael Auguste was greeted by his hostess with as much ceremony as she could muster. After she had introduced him to her other guests, they all retired to a drawing room, where they talked of Napoleon's war in Spain, the current Paris fashions, and so on. Suddenly the door opened and another guest entered, a woman who had somehow stayed in her room during the hubbub of the prince's entrance. It was the thirty-year-old Madame Recamier, Madame de Stael's closest friend. She introduced herself to the prince, then quickly retired to her bedroom. Auguste had known that Madame Recamier was at the chateau. In fact he had heard many stories about this infamous woman, who, in the years after the French Revolution, was considered the most beautiful in France. Men had gone wild over her, particularly at balls when she would take off her evening wrap, revealing the diaphanous white dresses that she had made famous, and dance with such abandon. The painters Gerard and David had immortalized her face and fashions, and even her feet, considered the most beautiful anyone had ever seen; and she had broken the heart of Lucien Bonaparte, the Emperor Napoleon's brother. Auguste liked his girls younger than Madame Recamier, and he had come to the chateau to rest. But those few moments in which she had stolen the scene with her sudden entrance caught him off guard; she was as beautiful as people had said, but more striking than her beauty was that look of hers that seemed so sweet, indeed heavenly, with a hint of sadness in the eyes. The other guests continued their conversations, but Auguste could only think of Madame Recamier. Over dinner that evening, he watched her. She did not talk much, and kept her eyes downward, but once or twice she looked up-directly at the prince. After dinner the guests assembled in the gallery, and a harp was brought in. To the prince's delight, Madame Recamier began to play. Reichardt had seen Juliette at another ball, protesting coyly that she would not dance, and then, after a while, throwing off her heavy evening gown, to reveal a light dress underneath. On all sides, there were murmurs and whisperings about her coquetry and affectation. As ever, she wore white satin, cut very low in the back, revealing her charming shoulders. The men implored her to dance for them. ... To soft music she floated into the room in her diaphanous Greek robe. Her head was bound with a muslin fichu. She bowed timidly to the audience, and then, spinning round lightly, she shook a transparent scarf with her fingertips, so that in turns it billowed into the semblance of a drapery, a veil, a cloud. All this with a strange blend ofprecision and languor. She used her eyes in a subtle fascinating way - "she danced with her eyes." The women thought that all that serpentine undulating of the body, all that nonchalant rhythmic nodding of the head, were sensuous; the men were wafted into a realm of unearthly bliss. Juliette wan ange fatal, and much more dangerous for looking like an angel! The music grew fainter. Suddenly, by a deft trick, Juliette's chestnut hair was loosened andfell in clouds around her. A little out of breath, she disappeared into her dimly lit boudoir. And there the crowdfollowed her and beheld her reclining on her daybed in a loose tea-gown, looking fashionably pale, like Gerard's Psyche, while her maids cooled her brow with toilet water. -MARGARET TROUNCER, MADAME RECAMIER The idea that two distinct elements are combined in Mona Lisa's smile is one that has struck several critics. They accordingly find in the beautiful Florentine's expression the most perfect representation of the contrasts that dominate the erotic life of women; the contrast between reserve and seduction, and between the most devoted tenderness and a sensuality that is ruthlessly demanding - consuming men as if they were alien beings. -SIGMUND FREUD, LEONARDO DA VINCI AND A MEMORY OF HIS CHILDHOOD, TYSON [Oscar Wilde's] hands were fat and flabby; his handshake lacked grip, and at a first encounter one recoiled from its plushy limpness, but this aversion was soon overcome when he began to talk, for his genuine kindliness and desire to please made one forget what was unpleasant singing a love song. And now, suddenly, she changed: there was a roguish look in her eye as she glanced at him. The angelic voice, the glances, the energy animating her face, sent his mind reeling. He was confused. When the same thing happened the next night, the prince decided to extend his stay at the chateau. In the days that followed, the prince and Madame Recamier took walks together, rowed out on the lake, and attended dances, where he finally held her in his arms. They would talk late into the night. But nothing grew clear to him: she would seem so spiritual, so noble, and then there would be a touch of the hand, a sudden flirtatious remark. After two weeks at the chateau, the most eligible bachelor in Europe forgot all his libertine habits and proposed marriage to Madame Recamier. He would convert to Catholicism, her religion, and she would divorce her much older husband. (She had told him her marriage had never been consummated and so the Catholic church could annul it.) She would then come to live with him in Prussia. Madame promised to do as he wished. The prince hurried off to Pmssia to seek the approval of his family, and Madame returned to Paris to secure the required annulment. Auguste flooded her with love letters, and waited. Time passed; he felt he was going mad. Then, finally, a letter: she had changed her mind. Some months later, Madame Recamier sent Auguste a gift: Gerard's famous painting of her reclining on a sofa. The prince spent hours in front of it, trying to pierce the mystery behind her gaze. He had joined the company of her conquests-of men like the writer Benjamin Constant, who said of her, "She was my last love. For the rest of my life I was like a tree struck bylightning." Interpretation. Madame Recamier's list of conquests became only more impressive as she grew older: there was Prince Metternich, the Duke of Wellington, the writers Constant and Chateaubriand. For all of these men she was an obsession, which only increased in intensity when they were away from her. The source of her power was twofold. First, she had an angelic face, which drew men to her. It appealed to paternal instincts, charming with its innocence. But then there was a second quality peeking through, in the flirtatious looks, the wild dancing, the sudden gaiety-all these caught men off guard. Clearly there was more to her than they had thought, an intriguing complexity. When alone, they would find themselves pondering these contradictions, as if a poison were coursing through their blood. Madame Recamier was an enigma, a problem that had to be solved. Whatever it was that you wanted, whether a coquettish she-devil or an unattainable goddess, she could seem to be. She surely encouraged this illusion by keeping her men at a certain distance, so they could never figure her out. And she was the queen of the calculated effect, like her surprise entrance at the Chateau de Coppet, which made her the center of attention, if only for a few seconds. Send Mixed Signals • 189 The seductive process involves filling someone's mind with your image. Your innocence, or your beauty, or your flirtatiousness can attract their attention but not their obsession; they will soon move on to the next striking image. To deepen their interest, you must hint at a complexity that cannot be grasped in a week or two. You are an elusive mystery, an irresistible lure, promising great pleasure if only it can be possessed. Once they begin to fantasize about you, they are on the brink of the slippery slope of seduction, and will not be able to stop themselves from sliding down. Artificial and Natural, T he big Broadway hit of 1881 was Gilbert and Sullivan's operetta Patience, a satire on the bohemian world of aesthetes and dandies that had become so fashionable in London. To cash in on this vogue, the operetta's promoters decided to invite one of England's most infamous aesthetes to America for a lecture tour; Oscar Wilde. Only twenty-seven at the time, Wilde was more famous for his public persona than for his small body of work. The American promoters were confident that their public would be fascinated by this man, whom they imagined as always walking around with a flower in his hand, but they did not expect it to last; he would do a few lectures, then the novelty would wear off, and they would ship him home. The money was good and Wilde accepted. On hisarrival in New York, a customs man asked him whether he had anything to declare: "I have nothing to declare," he replied, "except my genius." The invitations poured in-New York society was curious to meet this oddity. Women found Wilde enchanting, but the newspapers were less kind; The New York Times called him an "aesthetic sham." Then, a week after his arrival, he gave his first lecture. The hall was packed; more than a thousand people came, many of themjust to see what he looked like. They were not disappointed. Wilde did not carry a flower, and was taller than they had expected, but he had long flowing hair and wore a green velvet suit and cravat, as well as knee breeches and silk stockings. Many in the audience were put off; as they looked up at him from their seats, the combination of his large size and pretty attire were rather repulsive. Some people openly laughed, others could not hide their unease. They expected to hate the man. Then he began to speak. The subject was the "English Renaissance," the "art for art's sake" movement in late-nineteenth-century England. Wilde's voice proved hypnotic; he spoke in a kind of meter, mannered and artificial, and few really understood what he was saying, but the speech was so witty, and it flowed. His appearance was certainly strange, but overall, no New Yorker had ever seen or heard such an intriguing man, and the lecture was a huge success. Even the newspapers warmed up to it. In Boston a few weeks later, some sixty Harvard boys had prepared an ambush: they would make lun of this effeminate poet by dressing in knee breeches, carrying flowers, and ap- in his physical appearance and contact, gave charm to his manners, and grace to his precision of speech. The first sight of him affected people in various ways. Some could hardly restrain their laughter, others felt hostile, a few were afflicted with the "creeps" many were conscious of being uneasy, but exceptfor a small minority who could never recover from the first sensation of distaste and so kept out of his way, both sexes found him irresistible, and to the young men of his time, says W. B. Yeats, he was like a triumphant and audacious figure from another age. -HESKETH PEARSON, OSCAR WILDE: HIS UFE AND WIT Once upon a time there was a magnet, and in its close neighborhood lived some steel filings. One day two or three little filings felt a sudden desire to go and visit the magnet, and they began to talk of what a pleasant thing it would be to do. Other filings nearby overheard their conversation, and they, too, became infected with the same desire. Still others joined them, till at last all the filings began to discuss the matter, and more and more their vague desire grew into an impulse. "Why not go today?" said one of them; but others were of opinion that it would be better to wait until tomorrow. Meanwhile, without their having noticed it, they had been involuntarily moving nearer to the magnet, which lay there quite still, apparently taking no heed of them. And so they went on discussing, all the time insensibly drawing nearer to their neighbor; and the more they talked, the more they felt the impulse growing stronger, till the more impatient ones declared that they would go that day, whatever the rest did. Some were heard to say that it was their duty to visit the magnet, and they ought to have gone long ago. And, while they talked, they moved always nearer and nearer, without realizing that they had moved. Then, at last, the impatient ones prevailed, and, with one irresistible impulse, the whole body cried out, "There is no use waiting. We will go today. We will go now. We will go at once." And then in one unanimous mass they swept along, and in another moment were clingingfast to the magnet on every side. Then the magnet smiled-for the steel filings had no doubt at all but that they were paying that visit of their own free will. WILDE, LE GALLIENNE IN plauding far too loudly at his entrance. Wilde was not the least bit flustered. The audience laughed hysterically at his improvised comments, and when the boys heckled him he kept his dignity, betraying no anger at all. Once again, the contrast between his manner and his physical appearance made him seem rather extraordinary. Many were deeply impressed, and Wilde was well on his way to becoming a sensation. The short lecture tour turned into a cross-country affair. In San Francisco, this visiting lecturer on art and aesthetics proved able to drink everyone under the table and play poker, which made him the hit of the season. On his way back from the West Coast, Wilde was to make stops in Colorado, and was warned that if the pretty-boy poet dared to show up in the mining town of Leadville, he would be hung from the highest tree. It was an invitation Wilde could not refuse. Arriving in Leadville, he ignored the hecklers and nasty looks; he toured the mines, drank and played cards, then lectured on Botticelli and Cellini in the saloons. Like everyone else, the miners fell under his spell, even naming a mine after him. One cowboy was heard to say, "That fellow is some art guy, but he can drink any of us under the table and afterwards carry us home two at a time." Interpretation. In a fable he improvised at dinner once, Oscar Wilde talked about some steel filings that had a sudden desire to visit a nearby magnet. As they talked to each other about this, they found themselves moving closer to the magnet without realizing how or why. Finally they were swept in one mass to the magnet's side. "Then the magnet smiled-for the steel filings had no doubt at all but that they were paying that visit of their own free will." Such was the effect that Wilde himself had on everyone around him. HESKETH PEARSON, OSCAR WILDE: HIS UFE AND WIT Now that the bohort [impromptu joust] was over and the knights were dispersing and each making his way to where his thoughts inclined him, it chanced that Rivalin was heading for where lovely Blancheflor was sitting. Seeing this, he galloped up to her and looking her in the eyes saluted her most pleasantly. • "God save you, lovely woman!" • "Thank you," said the girl, and continued very bashfully, "may God Almighty, who makes all hearts glad, gladden your heart and mind! And my Wilde's attractiveness was more than just a by-product of his character, it was quite calculated. An adorer of paradox, he consciously played up his own weirdness and ambiguity, the contrast between his mannered appearance and his witty, effortless performance. Naturally warm and spontaneous, he constructed an image that ran counter to his nature. People were repelled, confused, intrigued, and finally drawn to this man who seemed impossible to figure out. Paradox is seductive because it plays with meaning. We are secretly oppressed by the rationality in our lives, where everything is meant to mean something; seduction, by contrast, thrives on ambiguity, on mixed signals, on anything that eludes interpretation. Most people are painfully obvious. If their character is showy, we may be momentarily attracted, but the attraction wears off; there is no depth, no contrary motion, to pull us in. The key to both attracting and holding attention is to radiate mystery. And no one is naturally mysterious, at least not for long; mystery is something you have to work at, a ploy on your part, and something that must be used early on in the seduction. Let one part of your character show, so everyone notices it. (In the example of Wilde, this was the mannered affectation con- Send Mixed Signals • 191 veyed by Ms clothes and poses.) But also send out a mixed signal-some sign that you are not what you seem, a paradox. Do not worry if this underquality is a negative one, like danger, cmelty, or amorality; people will be drawn to the enigma anyway, and pure goodness is rarely seductive. Paradox with him was only truth standing on its head to attract attention. - LE GALLIENNE, ON HIS FRIEND OSCAR WILDE grateful thanks to you !- yet notforgetting a bone I have to pick with you." • "Ah, sweet woman, what have I done?" was courteous Rivalin's reply. • "You have annoyed me through a friend of mine, the best I ever had. " • "Good heavens," thought he, "what does this mean? What have I done to. Keys to Seduction  displease her? What does she say I have done?" and he imagined that N othing can proceed in seduction unless you can attract and hold your attention, your physical presence becoming a haunting mental presence. It is actually quite easy to create that first stir-an alluring style of dress, a suggestive glance, something extreme about you. But what happens next? Our minds are barraged with images-not just from media but from the disorder of daily life. And many of these images are quite striking. You become just one more thing screaming for attention; your attractiveness will pass unless you spark the more enduring kind of spell that makes people think of you in your absence. That means engaging their imaginations, making them think there is more to you than what they see. Once they start embellishing your image with their fantasies, they are hooked. This must, however, be done early on, before your targets know too much and their impressions of you are set. It should occur the moment they lay eyes on you. By sending mixedsignals in that first encounter, you create a little surprise, a little tension: you seem to be one thing (innocent, brash, intellectual, witty), but you also throw them a glimpse of something else (devilish, shy, spontaneous, sad). Keep things subtle: if the second quality is too strong, you will seem schizopMenic. But make them wonder why you might be shy or sad underneath your brash intellectual wit, and you will have their attention. Give them an ambiguity that lets them see what they want to see, capture their imagination with little voyeuristic glimpses into your dark soul. The Greek philosopher Socrates was one of history's greatest seducers; the young men who followed him as students were not just fascinated by Ms ideas, they fell in love with him. One such youth was Alcibiades, the unwittingly he must have injured a kinsman of hers some time at their knightly sports and that was why she was vexed with him. But no, the friend she referred to was her heart, in which he made her suffer: that was the friend she spoke of But he knew nothing of that. • "Lovely woman," he said with all his accustomed charm, "I do not want you to be angry with me or bear me any ill will. So, if what you tell me is true, pronounce sentence on me yourself: I will do whatever you command." • "I do not hate you overmuch for what has happened," was the sweet girl's answer, "nor do I love you for it. But to see what amends you will make for the wrong you have done me, I shall test you another time." • And so he bowed as if to go, and she, lovely girl, sighed at him most secretly and said with tender feeling: • "Ah, dear notorious playboy who became a powerful political figure near the end of the fifth century B.C. In Plato's Symposium, Alcibiades describes Socrates's seductive powers by comparing him to the little figures of Silenus that were made back then. In Greek myth, Silenus was quite ugly, but also a wise prophet. Accordingly the statues of Silenus were hollow, and when you took them apart, you would find little figures of gods inside them-the inner truth and beauty under the unappealing exterior. And so, for Alcibiades, it was the same with Socrates, who was so ugly as to be repellent but whose face radiated inner beauty and contentment. The effect was confus- friend, God bless you!" From this time on the thoughts of each ran on the other. • Rivalin turned away, pondering many things. He pondered from many sides why Blancheflor should be vexed, and what lay behind it all. He considered her greeting, her words; he examined her sigh minutely, herfarewell, he whole behavior. . . But since he was uncertain of her motive-whether she had acted from enmity orlove-he wavered in perplexity. He wavered in his thoughts now here, now there. At one moment he was off in one direction, then suddenly in another, till he had so ensnared himself in the toils of his own desire that he was powerless to escape . . . • His entanglement had placed him in a quandary, for he did not know whether she wished him well or ill; he could not make out whether she loved or hated him. No hope or despair did he consider which did not forbid him either to advance or retreat-hope and despair led him to andfro in unresolved dissension. Hope spoke to him of love, despair of hatred. Because of this discord he could yield his firm belief neither to hatred nor yet to love. Thus his feelings drifted in an unsure haven-hope bore him on, despair away. He found no constancy in either; they agreed neither one way or another. When despair came and told him that his Blancheflor was his enemy he faltered and sought to escape: but at once came hope, bringing him her love, and a fond aspiration, and so perforce he remained. In theface of such discord he did not know where to turn: nowhere could he go forward. The more he strove to flee, the more firmly love forced him back. The harder he struggled to escape, love drew him back more firmly. -STRASSBURG, TRISTAN. HATTOing and attractive. Antiquity's other great seducer, Cleopatra, also sent out mixed signals: by all accounts physically alluring, in voice, face, body, and manner, she also had a brilliantly active mind, which for many writers of the time made her seem somewhat masculine in spirit. These contrary qualities gave her complexity, and complexity gave her power. To capture and hold attention, you need to show attributes that go against your physical appearance, creating depth and mystery. If you have a sweet face and an innocent air, let out hints of something dark, even vaguely cruel in your character. It is not advertised in your words, but in your manner. The actor Errol Flynn had a boyishly angelic face and a slight air of sadness. Beneath this outward appearance, however, women could sense an underlying cruelty, a criminal streak, an exciting kind of dangerousness. This play of contrary qualities attracted obsessive interest. The female equivalent is the type epitomized by Marilyn Monroe; she had the face and voice of a little girl, but something sexual and naughty emanated powerfully from her as well. Madame Recamier did it all with her eyes-the gaze of air angel, suddenly interrupted by something sensual and flirtatious. Playing with gender roles is a kind of intriguing paradox that has a long history in seduction. The greatest Don Juans have had a touch of prettiness and femininity, and the most attractive courtesans have had a masculine streak. The strategy, though, is only powerful when the underquality is merely hinted at; if the mix is too obvious or striking it will seem bizarre or even threatening. The great seventeenth-century French courtesan Ninon de l'Enclos was decidedly feminine in appearance, yet everyone who met her was struck by a touch of aggressiveness and independence in her-but just a touch. The late nineteenth-century Italian novelist Gabriele d'Annunzio was certainly masculine in his approaches, but there was a gentleness, a consideration, mixed in, and an interest in feminine finery The combinations can be juggled every which way: Oscar Wilde was quite feminine in appearance and manner, but the underlying suggestion that he was actually quite masculine drew both men and women to him. A potent variation on this theme is the blending of physical heat and emotional coldness. Dandies like Beau Brummel and Andy Warhol combine striking physical appearances with a kind of coldness of manner, a distance from everything and everyone. They are both enticing and elusive, and people spend lifetimes chasing after such men, trying to shatter their unattainability. (The power of apparently unattainable people is devilishly seductive; wewantto be the one to break them down.) They also wrap themselves in ambiguity and mystery, either talking very little or talking only of surface matters, hinting at a depth of character you can never reach. When Marlene Dietrich entered a room, or arrived at a party, all eyes inevitably turned to her. First there were her startling clothes, chosen to make heads turn. Then there was her air of nonchalant indifference. Men, and women too, became obsessed with her, thinking of her long after other memories of the evening had faded. Remember: that first impression, that Send Mixed Signals entrance, is critical. To show too much desire for attention is to signal insecurity, and will often drive people away; play it too cold and disinterested, on the other hand, and no one will bother coming near. The trick is to combine the two attitudes at the same moment. It is the essence of . Perhaps you have a reputation for a particular quality, which immediately comes to mind when people see you. You will better hold their attention by suggesting that behind this reputation some other quality lies lurking. No one had a darker, more sinful reputation than Lord Byron. What drove women wild was that behind his somewhat cold and disdainful exterior, they could sense that he was actually quite romantic, even spiritual. Byron played this up with his melancholic airs and occasional kind deed. Transfixed and confused, many women thought that they could be the one to lead him back to goodness, to make him a faithful lover. Once a woman entertained such a thought, she was completely under his spell. It is not difficult to create such a seductive effect. Should you be known as eminently rational, say, hint at something irrational. Johannes, the narrator in Kierkegaard's The Seducer's Diary, first treats the young Cordelia with businesslike politeness, as his reputation would lead her to expect. Yet she very soon overhears him making remarks that hint at a wild, poetic streak in his character; and she is excited and intrigued. These principles have applications far beyond sexual seduction. To hold the attention of a broad public, to seduce them into thinking about you, you need to mix your signals. Display too much of one quality-even if it is a noble one, like knowledge or efficiency-and people will feel that you lack humanity. We are all complex and ambiguous, full of contradictory impulses; if you show only one side, even if it is your good side, you will wear on people's nerves. They will suspect you are a hypocrite. Mahatma Gandhi, a saintly figure, openly confessed to feelings of anger and vengefulness. John F. Kennedy, the most seductive American public figure of modern times, wasawalkingparadox: an East Coast aristocrat with a love of the common man, an obviously masculine man-a war hero-with a vulnerability you could sense underneath, an intellectual who loved popular culture. People were drawn to Kennedy like the steel filings in Wilde's fable. A bright surface may have a decorative charm, but what draws your eye into a painting is a depth of field, an inexpressible ambiguity, a surreal complexity. Symbol: The Theater Curtain. Onstage, the curtain's heavy deep-red folds attract your eye with their hypnotic surface. But what really fascinates and draws you in is what you think might be happening behind the curtain-the light peeking through, the suggestion of a secret, something about to happen. You feel the thrill of a voyeur about to watch a performance. Reversal T he complexity you signal to other people will only affect them properly if they have the capacity to enjoy a mystery. Some people like things simple, and lack the patience to pursue a person who confuses them. They prefer to be dazzled and overwhelmed. The great Belle Epoque courtesan known as La Belle Otero would work a complex magic on artists and political figures who fell for her, but in dealing with the more uncomplicated, sensual male she would astound them with spectacle and beauty. When meeting a woman for the first time, Casanova might dress in the most fantastic outfit, with jewels and brilliant colors to dazzle the eye; he would use the target's reaction to gauge whether or not she would demand a more complicated seduction. Some of his victims, particularly young girls, needed no more than the glittering and spellbinding appearance, which was really what they wanted, and the seduction would stay on that level. Everything depends on your target: do not bother creating depth for people who are insensitive to it, or who may even be put off or disturbed by it. You can recognize such types by their preference for the simpler pleasures in life, their lack of patience for a more nuanced story. With them, keep it simple. 4, Appear to Be an Object of Desire -Create Triangles , Few are drawn to the person whom others avoid or neglect; people gather around those who have already attracted interest. We want what other people want. To draw your victims closer and make them hungry to possess you, you must create an aura of desirability-of being wanted and courted by many. It will become a point of vanity for them to be the preferred object of your attention, to win you away from a crowd of admirers. Manufacture the illusion of popularity by surrounding yourself with members of the opposite sex – friends, former lovers, present suitors. Createtriangles that stimulate rivalry and raise your value. Build a reputation that precedes you: if many have succumbed to your charms, there must be a reason. Creating Triangles O ne evening in 1882, the thirty-two-year-old Prussian philosopher Paul Ree, living in Rome at the time, visited the house of an older woman who ran a salon for writers and artists. Ree noticed a newcomer there, a twenty-one-year-old Russian girl named Lou von Salome, who had come to Rome on holiday with her mother. Ree introduced himself and they began a conversation that lasted well into the night. Her ideas about God and morality were like his own; she talked with such intensity, yet at the same time her eyes seemed to flirt with him. Over the next few days Ree and Salome took long walks through the city. Intrigued by her mind yet confused by the emotions she aroused, he wanted to spend more time with her. Then, one day, she startled him with a proposition: she knew he was a close friend of the philosopher Friedrich Nietzsche, then also visiting Italy. The three of them, she said, should travel together-no, actually live together, in a kind of philosophers' menage a trois. A fierce critic of Christian morals, Ree found this idea delightful. He wrote to his friend about Salome, describing how desperate she was to meet him. After a few such letters, Nietzsche hurried to Rome. Ree had made this invitation to please Salome, and to impress her; he also wanted to see if Nietzsche shared his enthusiasm for the young girl's ideas. But as soon as Nietzsche arrived, something unpleasant happened; the great philosopher, who had always been a loner, was obviously smitten with Salome. Instead of the three of them sharing intellectual conversations together, Nietzsche seemed to be conspiring to get the girl alone. When Ree caught glimpses of Nietzsche and Salome talking without including him, he felt shivers of jealousy. Forget about some philosophers' menage a trois: Salome was his, he had discovered her, and he would not share her, even with his good friend. Somehow he had to get her alone. Only then could he woo and win her. Madame Salome had planned to escort her daughter back to Russia, but Salome wanted to stay in Europe. Ree intervened, offering to travel with the Salomes to Germany and introduce them to his own mother, who, he promised, would look after the girl and act as a chaperone. (Ree knew that his mother would be a lax guardian at best.) Madame Salome agreed to this proposal, but Nietzsche was harder to shake: he decided to join them on their northward journey to Ree's home in Prussia. At one point in the trip, Nietzsche and Salome took a walk by themselves, and Let me tell you about a gentleman I once knew who, although he was of pleasing appearance and modest behavior, and also a very capable warrior, was not so outstanding as regards any of these qualities that there were not to befound many who were his equal and even better. However, as luck would have it, a certain lady fell very deeply in love with him. She saw that he felt the same way, and as her love grew day by day, there not being any way for them to speak to each other, she revealed her sentiments to another lady, who she hoped would be of service to her in this affair. Now this lady neither in rank nor beauty was a whit inferior to the first; and it came about that when she heard the young man (whom she had never seen) spoken of so affectionately, and came to realize that the other woman, whom she knew was extremely discreet and intelligent, loved him beyond words, she straight away began to imagine that he must be the most handsome, the wisest, the most discreet of men, and, in short, the man most worthy of her love in all the world. So, never having set eyes on him, shefell in love with him so passionately that she set out to win him not for herfriend but for herself And in this she succeeded with little effort, for indeed she was a woman more to be wooed than to do the wooing. And now listen tothesplendid sequel: not long afterward it happened that a letter which she had written to her lover fell into the hands of another woman of comparable rank, charm, and beauty; and since she, like most women, was curious and eager to learn secrets, she opened the letter and read it. Realizing that it was written from the depths of passion, in the most loving and ardent terms, she was at first moved with compassion, for she knew very wellfrom whom the letter came and to whom it was addressed; then, however, such was the power of the words she read, turning them over in her mind and considering what kind of man it must be who had been able to arouse such great love, she at once began to fall in love with him herself; and the letter was without doubt far more effective than if the young man had himself written it to her. And just as it sometimes happens that the poison preparedfor a prince kills the one who tastes his food, so that poor woman, in her greediness, drank the love potion prepared for another. What more is there to say? The affair was no secret, and things so developed that many other women besides, partly to spite the others and partly to follow their when they came back, Ree had the feeling that something physical had happened between them. His blood boiled; Salome was slipping from his grasp. Finally the groupsplitup, the mother returning to Russia, Nietzsche to his summer place in Tautenburg, Ree and Salome staying behind at Ree's home. But Salome did not stay long: she accepted an invitation of Nietzsche's to visit him, unchaperoned, in Tautenburg. In her absence Ree was consumed with doubts and anger. He wanted her more than ever, and was prepared to redouble his efforts. When she finally came back, Ree vented his bitterness, railing against Nietzsche, criticizing his philosophy, and questioning his motives toward the girl. But Salome took Nietzsche's side. Ree was in despair; he felt he had lost her for good. Yet a few days later she surprised him again: she had decided she wanted to live with him, and with him alone. At last Ree had what he had wanted, or so he thought. The couple settled in Berlin, where they rented an apartment together. But now, to Ree's dismay, the old pattern repeated. They lived together but Salome was courted on all sides by young men. The darling of Berlin's intellectuals, who admired her independent spirit, her refusal to compromise, she was constantly surrounded by a harem of men, who referred to her as "Her Excellency." Once again Ree found himself competing for her attention. Driven to despair, he left her a few years later, and eventually committed suicide. In 1911, Sigmund Freud met Salome (now known as Lou Andreas- Salome) at a conference in Germany. She wanted to devote herself to the psychoanalytical movement, she said, and Freud found her enchanting, although, like everyone else, he knew the story of her infamous affair with Nietzsche (see page 46, "The Dandy"). Salome had no background in psychoanalysis or in therapy of any kind, but Freud admitted her into the inner circle of followers who attended his private lectures. Soon after she joined the circle, one of Freud's most promising and brilliant students. Dr. Victor Tausk, sixteen years younger than Salome, fell in love with her. Salome's relationship with Freud had been platonic, but he had grown extremely fond of her. He was depressed when she missed a lecture, and would send her notes and flowers. Her involvement in a love affair with Tausk made him intensely jealous, and he began to compete for her attention. Tausk had been like a son to him, but the son was threatening to steal the father's platonic lover. Soon, however, Salome left Tausk. Now her friendship with Freud was stronger than ever, and so it lasted until her death, in 1937. Interpretation. Men did not just fall in love with Lou Andreas-Salome; they were overwhelmed with the desire to possess her, to wrest her away from others, to be the proud owner of her body and spirit. They rarely saw her alone; she always in some way surrounded herself with other men. Appear to Be an Object of Desire-Create Triangles • 199 When she saw that Ree was interested in her, she mentioned her desire to meet Nietzsche. This inflamed Ree, and made him want to marry her and to keep him for himself, but she insisted on meeting his friend. His letters to Nietzsche betrayed his desire for this woman, and this in turn kindled Nietzsche's own desire for her, even before he had met her. Every time one of the two men was alone with her, the other was in the background. Then, later on, most of the men who met her knew of the infamous Nietzsche affair, and this only increased their desire to possess her, to compete with Nietzsche's memory. Freud's affection for her, similarly, turned into potent desire when he had to vie with Tausk for her attention. Salome was intelligent and attractive enough on her own account; but her constant strategy of imposing a triangle of relationships on her suitors made her desirability intense. And while they fought over her, she had the power, being desired by all and subject to none. Our desire for another person almost always involves social considerations: we are attracted to those who are attractive to other people. We want to possess them and steal them away. You can believe all the sentimentalnonsense you want to about desire, but in the end, much of it has to do with vanity and greed. Do not whine and moralize about people's selfishness, but simply use it to your advantage. The illusion that you are desired by others will make you more attractive to your victims than your beautiful face or your perfect body. And the most effective way to create that illusion is to create a triangle: impose another person between you and your victim,and subtly make your victim aware of how much this other person wants you. The third point on the triangle does not have to be just one person: surround yourself with admirers, reveal your past conquests-in other words, envelop yourself in an aura of desirability. Make your targets compete with your past and your present. They will long to possess you all to themselves, giving you great power for as long as you elude their grasp. Fail to make yourself an object of desire right from the start, and you will end up the sorry slave to the whims of your lovers-they will abandon you the moment they lose interest. [A person] will desire any object so long as he is convinced that it is desired by another person whom he admires. -RENE GIRARD Keys to Seduction W e are social creatures, and are immensely influenced by the tastes and desires of other people. Imagine a large social gathering. You see aman alone, whom nobody talks to for any length of time, and who is wandering around without company; isn't there a kind of self-fulfilling isolation about him? Why is he alone, why is he avoided? There has to be a reason. Until someone takes pity on this man and starts up a conversation example, put every care and effort into winning this man's love, squabbling over it for a while as boys do for cherries. CASTIGLIONE, THE BOOK OFTHE COURTIER, BULL Most of the time we prefer one thing to another because that is what our friends already prefer or because that object has marked social significance. Adults, when they are hungry, are just like children in that they seek out thefoods that others take. In their love affairs, they seek out the man or woman whom others find attractive and abandon those who are not sought after. When we say of a man or woman that he or she is desirable, what we really mean is that others desire them. It is not that they have some particular quality, but because they conform to some currently modish model. MOSCOVICI, THE AGE OF THE CROWD.A HISTORICAL TREATISE ON MASS PSYCHOL- OGT,  WHITEHOUSE It will be greatly to your advantage to entertain the lady you would win with an account of the number of women who are in love with you, and of the decided advances which they have made to you; for this will not only prove that you are a greatfavorite with the ladies, and a man of true honor, but it will convince her that she may have the honor of being enrolled in the same list, and of being praised in the same way, in the presence of your otherfemale friends. This will greatly delight her, and you need not be surprised if she testifies her admiration of your character by throwing her arms around your neck on the spot. -LOLA MONTEZ, THE ARTS AND SECRETS OF BEAUTY, WITH HINTS TO GENTLEMEN ON THE ART OF FASCINATING [Rene] Girard's mimetic desire occurs when an individual subject desires an object because it is desired by another subject, here designated as the rival: desire is modeled on with him, he will look unwanted and unwantable. But over there, in another corner, is a woman surrounded by people. They laugh at her remarks, and as they laugh, others join the group, attracted by its gaiety. When she moves around, people follow. Her face is glowing with attention. There has to be a reason. In both cases, of course, there doesn't actually have to be a reason at all. The neglected man may have quite charming qualities, supposing you ever talk to him; but most likely you won't. Desirability is a social illusion. Its source is less what you say or do, or any kind of boasting or self- advertisement, than the sense that other people desire you. To turn your targets' interest into something deeper, into desire, you must make them see you as a person whom others cherish and covet. Desire is both imitative (we like what others like) and competitive (we want to take away from others what they have). As children, we wanted to monopolize the attention of a parent, to draw it away from other siblings. This sense of rivalry pervades human desire, repeating throughout our lives. Make people compete for your attention, make them see you as sought after by everyone else. The aura of desirability will envelop you. the wishes or actions of another. Philippe Lacoue- Labarthe says that "the basic hypothesis upon which rests Girard's famous analysis [is that] every desire is the desire of the other (and not immediately desire of an object), every structure of desire is triangular (including the other-mediator or model-whose desire desire imitates), every desire is thus from its inception tapped by hatred and rivalry; in short, the origin of desire is mimesis - mimeticism-and no desire is ever forged which does not desire forthwith the death or disappearance of the model or exemplary character which gave rise to it. MANDRELL, DON JUAN AND THE POINT OF HONOR Your admirers can be friends or even suitors. Call it the harem effect. Pauline Bonaparte, sister of Napoleon, raised her value in men's eyes by always having a group of worshipful men around her at balls and parties. If she went for a walk, it was never with one man, always with two or three. Perhaps these men were simply friends, or even just props and hangers-on; the sight of them was enough to suggest that she was prized and desired, a woman worth fighting over. Andy Warhol, too, surrounded himself with the most glamorous, interesting people he could find. To be part of his inner circle meant that you were desirable as well. By placing himself in the middle but keeping himself aloof from it all, he made everyone compete for his attention. He stirred people's desire to possess him by holding back. Practices like these not only stimulate competitive desires, they take aim at people's prime weakness: their vanity and self-esteem. We can endure feeling that another person has more talent, or more money, but the sense that a rival is more desirable than we are-that is unbearable. In the early eighteenth century, the Duke de Richelieu, a great rake, managed to seduce a young woman who was rather religious but whose husband, a dolt, was often away. He then proceeded to seduce her upstairs neighbor, a young widow. When the two women discovered that he was going from one to the other in the same night, they confronted him. A lesser man would have fled, but not the duke; he understood the dynamic of vanity and desire. Neither woman wanted to feel that he preferred the other. And so he managed to arrange a little menage a trois, knowing that now they would struggle between themselves to be the favorite. When people's vanity is at risk, you can make them do whatever you want. According to Stendhal, if there is a woman you are interested in, pay attention to her sister. That will stir a triangular desire. Your reputation-your illustrious past as a seducer-is ait effective way Appear to Be an Object of Desire-Create Triangles • 201 of creating an aura of desirability. Women threw themselves at Errol Flynn's feet, not because of his handsome face, and certainly not because of his acting skills, but because of his reputation. They knew that other women had found him irresistible. Once he had established that reputation, he did not have to chase women anymore; they came to him. Men who believe that a rakish reputation will make women fear or distrust them, and should be played down, are quite wrong. On the contrary, it makes them more attractive. The virtuous Duchess de Montpensier, the Grande Mademoiselle of seventeenth-century France, began by enjoying a friendship with the rake Lauzun, but a troubling thought soon occurred to her: if a man with Lauzun's past did not see her as a possible lover, something had to be wrong with her. This anxiety eventually pushed her into his arms. To be part of a great seducer's club of conquests can be a matter of vanity and pride. We are happy to be in such company, to have our name broadcast as this man or woman's lover. Your own reputation may not be so alluring, but you must find a way to suggest to your victim that others, many others, have found you desirable. It is reassuring. There is nothing like a restaurant full of empty tables to persuade you not to go in. A variation on the triangle strategy is the use of contrasts: careful exploitation of people who are dull or unattractive may enhance your desirability by comparison. At a social affair, for instance, make sure that your target has to chat with the most boring person available. Come to the rescue and your target will be delighted to see you. In The Seducer's Diary, by Spren Kierkegaard, Johannes has designs on the innocent young Cordelia. Knowing that his friend Edward is hopelessly shy and dull, he encourages this man to court her; a few weeks of Edward's attentions will make her eyes wander in search of someone else, anyone else, and Johannes will make sure that they settle on him. Johannes chose to strategize and maneuver, but almost any social environment will contain contrasts you can make use of almost naturally. The seventeenth-century English actress Nell Gwyn became the main mistress of King Charles II because her humor and unaffectedness made her that much more desirable among the many stiff and pretentious ladies of Charles's court. When the Shanghai actress Jiang Qing met Mao Zedong, in 1937, she did not have to do much to seduce him; the other women in his mountain camp in Yenan dressed like men, and were decidedly unfeminine. The sight alone of Jiang was enough to seduce Mao, who soon left his wife for her. To make use of contrasts, either develop and display those attractive attributes (humor, vivacity, and so on) that are the scarcest in your own social group, or choose a group in which your natural qualities are rare, and will shine. The use of contrasts has vast political ramifications, for a political figure must also seduce and seem desirable. Leam to play up the qualities that your rivals lack. Peter II, czar in eighteenth-century Russia, was arrogant and irresponsible, so his wife, Catherine the Great, did all she could to seem modest and dependable. When Vladimir Lenin returned to Russia in 1917 after Czar Nicholas II had been deposed, he made a show of decisiveness It's annoying that our new acquaintance likes the boy. But aren't the best things in life free to all? The sun shines on everyone. The moon, accompanied by countless stars, leads even the beasts to pasture. What can you think of lovelier than water? But it flows for the whole world. Is love alone then something furtive rather than something to be gloried in? Exactly, that's just it -/ don't want any of the good things of life unless people are envious of them. -PETRONIUS, THE SATYRICON, SULLIVAN and discipline-precisely what no other leader had at the time. In the American presidential race of 1980, the irresoluteness of Jimmy Carter made the single-mindedness of Ronald Reagan look desirable. Contrasts are eminently seductive because they do not depend on your own words or self-advertisements. The public reads them unconsciously, and sees what it wants to see. Finally, appearing to be desired by others will raise your value, but often how you carry yourself can influence this as well. Do not let your targets see you so often; keep your distance, seem unattainable, out of their reach. An object that is rare and hard to obtain is generally more prized. Symbol: The Trophy. What makes you want to win the trophy, and to see it as something worth having, is the sight of the other competitors. Some, out of a spirit of kindness, may want to reward everyonefor trying, but the Trophy then loses its value. It must represent not only your victory but everyone else's defeat. Reversal T here is no reversal. It is essential to appear desirable in the eyes of others. 5. Create a Need- Stir Anxiety and Discontent. A perfectly satisfied person cannot be seduced. Tension and disharmony must be instilled in your targets' minds. Stir within them feelings of discontent, an unhappiness with their circumstances and with themselves: their life lacks adventure, they have strayed from the ideals of their youth, they have become boring. Thefeelings of inadequacy that you create will give you space to insinuate yourself, to make them see you as the answer to their problems. Pain and anxiety are the proper precursors to pleasure. Learn to manufacture the need that you can fill. Opening a Wound. I n the coal-mining town of Eastwood, in central England, David Herbert Lawrence was considered something of a strange lad. Pale and delicate, he had no time for games or boyish pursuits, but was interested in literature; and he preferred the company of girls, who made up most of his friends. Lawrence often visited the Chambers family, who had been his neighbors until they moved out of Eastwood to a farm not far away.Heliked to study with the Chambers sisters, particularly Jessie; she was shy and serious, and getting her to open up and confide in him was a pleasurable challenge. Jessie grew quite attached to Lawrence over the years, and they became good friends. One day in 1906, Lawrence, twenty-one at the time, did not show up at the usual hour for his study session with Jessie. He finally arrived much later, in a mood she had never seen before-preoccupied and quiet. Now it was her turn to make him open up. Linally he talked: he felt she was getting too close to him. What about her future? Whom would she marry? Certainly not him, he said, for they were just friends. But it was unfair of him to keep her from seeing others. They should of course remain friends and have their talks, but maybe less often. When he finished and left, she felt a strange emptiness. She had yet to think much about love or marriage. Suddenly she had doubts. What would her future be? Why wasn't she thinking about it? She felt anxious and upset, without understanding why. Lawrence continued to visit, but everything had changed. He criticized her for this and that. She wasn't very physical. What kind of wife would she make anyway? A man needed more from a woman than just talk. He likened her to a nun. They began to see each other less often. When, some time later,Lawrence accepted a teaching position at a school outside London, she felt part relieved to be rid of him for a while. But when he said goodbye to her, and intimated that it might be for the last time, she broke down and cried. Then he started sending her weekly letters. He would write about girls he was seeing; maybe one of them would be his wife. Linally, at his behest, she visited him in London. They got along well, as in the old times, but he continued to badger her about her future, picking at that old wound. At Christmas he was back in Eastwood, and when he visited her he seemed exultant. He had decided that it was Jessie he should marry, that he had in fact been attracted to her all along. They should keep it quiet for a while; although his writing career was taking off (his first No one can fall in love if he is even partially satisfied with what he has or who he is. The experience of falling in love originates in an extreme depression, an inability to find something that has value in everyday life. The "symptom" of the predisposition to fall in love is not the conscious desire to do so, the intense desire to enrich our lives; it is the profound sense of being worthless and of having nothing that is valuable and the shame of not having it. . . . For this reason, falling in love occurs more frequently among young people, since they are profoundly uncertain, unsure of their worth, and often ashamed of themselves. The same thing applies to people of other ages when they lose something in their lives - when their youth ends or when they start to grow old. ALBERONI, FALLING IN LOVE, "What can Love be then?" I said. "A mortal?" "Far from it." "Well, what?" "As in my previous examples, he is half-way between mortal and immortal." What sort of being is he then, Diotima?" "He is a great spirit, Socrates; everything that is of the nature of a spirit is half-god and halfman." "Who are his parents?" I asked. "That is rather a long story," she answered, "but I will tell you. On the day that Aphrodite was born the gods were feasting, among them Contrivance the son of Invention; and after dinner, seeing that a party was in progress, Poverty came to beg and stood at the door. Now Contrivance was drunk with nectar - wine, I may say, had not yet been discovered-and went out into the garden of Zeus, and was overcome by sleep. So Poverty, thinking to alleviate her wretched condition by bearing a child to Contrivance, lay with him and conceived Love. Since Love was begotten on Aphrodite's birthday, and since he has also an innate passion for the beautiful, and so for the beauty of Aphrodite herself, hebecame her follower and servant. Again, having Contrivance for his father and Poverty for his mother, he bears the following character. He is always poor, and, far from being sensitive and beautiful, as most people imagine, he is hard and weather-beaten, shoeless and homeless, always sleeping outfor want of a bed, on the ground, on doorsteps, and in the street. So far he takes after his mother and lives in want. But, being also his father's novel was about to be published), he needed to make more money. Caught off guard by this sudden announcement, and overwhelmed with happiness, Jessie agreed to everything, and they became lovers. Soon, however, the familiar pattern repeated: criticisms, breakups, announcements that he was engaged to another girl. This only deepened his hold on her. It was not until 1912 that she finally decided never to see him again, disturbed by his portrayal of her in the autobiographical novel Sons and Lovers. But Lawrence remained a lifelong obsession for her. In 1913, a young English woman named Ivy Low, who had read Lawrence's novels, began to correspond with him, her letters gushing with admiration. By now Lawrence was married, to a German woman, the Baroness Frieda von Richthofen. To Low's surprise, though, he invited her to visit him and his wife in Italy. She knew he wasprobablysomethingof a Don Juan, but was eager to meet him, and accepted his invitation. Lawrence was not what she had expected: his voice was high-pitched, his eyes were piercing, and there was something vaguely feminine about him. Soon they were taking walks together, with Lawrence confiding in Low. She felt that they were becoming friends, which delighted her. Then suddenly, just before she was to leave, he launched into a series of criticisms of her-she was so unspontaneous, so predictable, less human being than robot. Devastated by this unexpected attack, she nevertheless had to agree- what he had said was true. What could he have seen in her in the first place? Who was she anyway? Low left Italy feeling empty-but then Lawrence continued to write to her, as if nothing had happened. She soon realized that she had fallen hopelessly in love with him, despite everything he had said to her. Or was it not despite what he had said, but because of it? In 1914, the writer John Middleton-Murry received a letter from Lawrence, a good friend of his. In the letter, out of nowhere, Lawrence criticized Middleton-Murry for being passionless and not gallant enough with his wife, the novelist Katherine Mansfield. Middleton-Murry later wrote, "I had never felt for a man before what his letter made me feel for him. It was a new thing, a unique thing, in my experience; and it was to rmain unique." He felt that beneath Lawrence's criticisms lay some weird kind of affection. Whenever he saw Lawrence from then on, he felt a strange physical attraction that he could not explain. Interpretation. The number of women, and of men, who fell under Lawrence's spell is astonishing given how unpleasant he could be. In almost every case the relationship began in friendship-with frank talks, exchanges of confidences, a spiritual bond. Then, invariably, he would suddenly turn against them, voicing harsh personal criticisms. He would know them well by that time, and the criticisms were often quite accurate, and hit a nerve. This would inevitably trigger confusion in his victims, and a sense of anxiety, a feeling that something was wrong with them. Jolted out of their usual sense of normality, they would feel divided inside. With half of their minds Create a Need-Stir Anxiety and Discontent •they wondered why he was doing this, and felt he was unfair; with the other half, they believed it was all true. Then, in those moments of selfdoubt, they would get a letter or a visit from him in which he was his old charming self. Now they saw him differently Now they were weak and vulnerable, in need of something; and he would seem so strong. Now he drew them to him, feelings of friendship turning into affection and desire. Once they felt uncertain about themselves, they were susceptible to falling in love. Most of us protect ourselves from the harshness of life by succumbing to routines and patterns, by closing ourselves off from others. But underlying these habits is a tremendous sense of insecurity and defensiveness. We feel we are not really living. The seducer must pick at this wound and bring these semiconscious thoughts into full awareness. This was what Lawrence did; his sudden, brutally unexpected jabs would hit people at their weak spot. Although Lawrence had great success with his frontal approach, it is often better to stir thoughts of inadequacy and uncertainty indirectly, by hinting at comparisons to yourself or to others, and by insinuating somehow that your victims' lives are less grand than they had imagined. You want them to feel at war with themselves, torn in two directions, and anxious about it. Anxiety, a feeling of lack and need, is the precursor of all desire. These jolts in the victim's mind create space for you to insinuate your poison, the siren call of adventure or fulfillment that will make them follow you into your web. Without anxiety and a sense of lack there can be no seduction. son, he schemes to get for himself whatever is beautiful and good; he is bold andforward and strenuous,always devising tricks like a cunning huntsman." -PLATO, SYMPOSIUM, We are all like pieces of the coins that children break in half for keepsakes - making two out of one, like the flatfish-and each of us is forever seeking the half that will tally with himself . And so all this to-do is a relic of that original state of ours when we were whole, and now, when we are longing for and following after that primeval wholeness, we say we are in love. -ARISTOPHANES'S SPEECH IN PLATO'S SYMPOSIUM, QUOTED IN MANDRELL, DONJUAN AND THE POINT OF HONOR Desire and love have for their object things or qualities which a man does not at present possess but which he lacks. -SOCRATES Don John: Well met, pretty lass! What! Are there such handsome Creatures as you amongst these Fields, these Trees, and Rocks? • Charlotta: I Keys to Seduction E veryone wears a mask in society; we pretend to be more sure of ourselves than we are. We do not want other people to glimpse that doubting self within us. In truth, our egos and personalities are much more fragile than they appear to be; they cover up feelings of confusion and emptiness. As a seducer, you must never mistake a person's appearance for the reality. People are always susceptible tobeingseduced, because in fact everyone lacks a sense of completeness, feels something missing deep inside. Bring their doubts and anxieties to the surface and they can be led and lured to follow you. No one can see you as someone to follow or fall in love with unless they first reflect on themselves somehow, and on what they are missing. Before the seduction proceeds, you must place a mirror in front of them in am as you see, Sir. • Don John: Are you of this Village? • Charlotta: Yes, Sir. • Don John: What's your name? • Charlotta: Charlotta, Sir, at your Service. • Don John: Ah what a fine Person 'tis! What piercing Eyes! • Charlotta: Sir, you make me ashamed. Don John: Pretty Charlotta, you are not marry'd, are you? • Charlotta: No, Sir, but I am soon to be, with Pierrot, son to Goody Simonetta. • Don John: What! Shou'd such a one as you be Wife to aPeasant! No, no; that's a profanation of so much Beauty. You was not born to live in a Village. You certainly deserve a better Fortune, and Heaven, which knows it well, brought me hither on purpose to hinder this Marriage and do justice to your Charms; for in short, fair Charlotta, 1 love you with all my Heart, and if you'll consent I'll deliver you from this miserable Place, and put you in the Condition you deserve. This Love is doubtless sudden, but 'tis an Effect of your great Beauty. I love you as much in a quarter of an Hour as I shou'd another in six Months. -MOLIERE, DON JOHN; OR, THE UBERTINE,  IN OSCAR MANDEL, ED., THE THEATRE OF DON JUAN For I stand tonight facing west on what was once the last frontier. From the lands that stretch three thousand miles behind me, the pioneers of old gave up their safety, their comfort, and sometimes their lives to build a new world here in the West. They were not the captives of their own doubts, the prisoners of their own price tags. Their motto was not "every man for himself--but "all for the common cause." They were determined to make that new world strong and free, to overcome its hazards and its hardships, to conquer the enemies that threatened from without and within. ..." Today some would say that those struggles are all over-that all the horizons have been explored, that all the battles have been won, that there is no longer an which they glimpse that inner emptiness. Made aware of a lack, they now can focus on you as the person who can fill that empty space. Remember: most of us are lazy. To relieve our feelings of boredom or inadequacy on our own takes too much effort; letting someone else do the job is both easier and more exciting. The desire to have someone fill up our emptinessis the weakness on which all seducers prey. Make people anxious about the future, make them depressed, make them question their identity, make them sense the boredom that gnaws at their life. The ground is prepared. The seeds of seduction can be sown. In Plato's dialogue Symposium -the West's oldest treatise on love, and a text that has had a determining influence on our ideas of desire-the courtesan Diotima explains to Socrates the parentage of Eros, the god of love. Eros's father was Contrivance, or Cunning, and his mother was Poverty, or Need. Eros takes after his parents: he is constantly in need, which he is constantly contriving to fill. As the god of love, he knows that love cannot be induced in another person unless they too feel need. And that is what his arrows do: piercing people's flesh, they make them feel a lack, an ache, a hunger. This is the essence of your task as a seducer. Like Eros, you must create a wound in your victim, aiming at their soft spot, the chink in their self-esteem. If they are stuck in a rut, make them feel it more deeply, "innocently" bringing it up and talking about it. What you want is a wound, an insecurity you can expand a little, an anxiety that can best be relieved by involvement with another person, namely you. They must feel the wound before they fall in love. Notice how Lawrence stirred anxiety, always hitting at his victims' weak spot: for Jessie Chambers, her physical coldness; for Ivy Low, her lack of spontaneity; for Middleton-Murry, his lack of gallantry. Cleopatra got Julius Caesar to sleep with her the first night he met her, but the real seduction, the one that made him her slave, began later. In their ensuing conversations she talked repeatedly of Alexander the Great, the hero from whom she was supposedly descended. No one could compare to him. By implication, Caesar was made to feel inferior. Understanding that beneath his bravado Caesar was insecure, Cleopatra awakened in him an anxiety, a hunger to prove his greatness. Once he felt this way he was easily further seduced. Doubts about his masculinity was his tender spot. When Caesar was assassinated, Cleopatra turned her sights on Mark Antony, one of Caesar's successors in the leadership of Rome. Antony loved pleasure and spectacle, and his tastes were crude. She appeared to him first on her royal barge, then wined and dined and banqueted him. Everything was geared to suggest to him the superiority of the Egyptian way of life over the Roman, at least when it came to pleasure. The Romans were boring and unsophisticated by comparison. And once Antony was made to feel how much he was missing in spending his time with his dull soldiers and hismatronly Roman wife, he could be made to see Cleopatra as the incarnation of all that was exciting. He became her slave. This is the lure of the exotic. In your role of seducer, try to position yourself as coming from outside, as a stranger of sorts. You represent change, difference, a breakup of routines. Make your victims feel that by comparison their lives are boring and their friends less interesting than they had thought. Lawrence made his targets feel personally inadequate; if you find it hard to be so brutal, concentrate on their friends, their circumstances, the externals of their lives. There are many legends of Don Juan, but they often describe him seducing a village girl by making her feel that her life is horribly provincial. He, meanwhile, wears glittering clothes andhas a noble bearing. Strange and exotic, he is always from somewhere else. First she feels the boredom of her life, then she sees him as her salvation. Remember: people prefer to feel that if their life is uninteresting, it not because of themselves but because of their circumstances, the dull people they know, the town into which they were born. Once you make them feel the lure of the exotic, seduction is easy. Another devilishly seductive area to aim at is the victim's past. To grow old is to renounce or compromise youthful ideals, to become less spontaneous, less alive in a way. This knowledge lies dormant in all of us. As a seducer you must bring it to the surface, make it clear how far people have strayed from their past goals and ideals. You, in turn, present yourself as representing that ideal, as offering a chance to recapture lost youth through adventure-through seduction. In her later years. Queen Elizabeth I of England was known as a rather stern and demanding ruler. She made it a point not to let her courtiers see anything soft or weak in her. But then Robert Devereux, the second Earl of Essex, came to court. Much younger than the queen, the dashing Essex would often chastize her for her sourness. The queen would forgive him-he was so exuberant and spontaneous, he could not control himself. But his comments got under her skin; in the presence of Essex she came to remember all the youthful ideals-spiritedness, feminine charm-that had since vanished from her life. She also felt a little of that girlish spirit return when she was around him. He quickly became her favorite, and soon she was in love with him. Old age is constantly seduced by youth, but first the young people must make it clear what the older ones are missing, how they have lost their ideals. Only then will they feel that the presence of the young will let them recapture that spark, the rebellious spirit that age and society have conspired to repress. This concept has infinite applications. Corporations and politicians know that they cannot seduce their public into buying what they want them to buy, or doing what they want them to do, unless they first awaken a sense of need and discontent. Make the masses uncertain about their identity and you can help define it for them. It is as true of groups or nations as it is of individuals: they cannot be seduced without being made to feel some lack. Part of John F. Kennedy's election strategy in 1960 was to make Americans unhappy about the 1950s, and how far the country had strayed from its ideals. In talking about the 1950s, he did not mention the nation's economic stability or its emergence as a superpower. Instead, he implied that the period was marked by conformity, a lack of risk and adventure, a loss of our frontier values. To vote for Kennedy was to embark American frontier. • But I trust that no one in this vast assemblage will agree with those sentiments. I tell you the New Frontier is here, whether we seek it or not. ... It would be easier to shrink back from that frontier, to look to the safe mediocrity of the past, to be lulled by good intentions and high rhetoric-and those who prefer that course should not cast their votesfor me, regardless of party. • But I believe that the times demand invention, innovation, imagination,decision. I am asking each of you to be new pioneers on that New Frontier. My call is to the young in heart, regardless of age. -JOHN F. KENNEDY, ACCEPTANCE SPEECH AS THE PRESIDENTIAL NOMINEE OF THE DEMOCRATIC PARTY, QUOTED IN JOHN HELLMANN, THE KENNEDY OBSESSION: THE AMERICAN MYTH OF JFK The normal rhythm of life oscillates in general between a mild satisfaction with oneself and a slight discomfort, originating in the knowledge of one's personal shortcomings. We should like to be as handsome, young, strong or clever as other people of our acquaintance. We wish we could achieve as much as they do, longfor similar advantages, positions, the same or greater success. To be delighted with oneself is the exception and, often enough, a smoke screen which we produce for ourselves and of course for others. Somewhere in it is a lingering feeling of discomfort with ourselves and a slight self-dislike. I assert that an increase of this spirit of discontent renders a person especially susceptible to "falling in love." ... In most cases this attitude of disquiet is unconscious, but in some it reaches the threshold of awareness in the form of a slight uneasiness, or a stagnant dissatisfaction, or a realization of being upset without knowing why. -THEODOR REIK, OF LOVE AND LUSTon a collective adventure, to go back to ideals we had given up. But before anyone joined his crusade they had to be made aware of how much they had lost, what was missing. A group, like an individual, can get mired in routine, losing track of its original goals. Too much prosperity saps it of strength. You can seduce an entire nation by aiming at its collective insecurity, that latent sense that not everything is what it seems. Stirring dissatisfaction with the present and reminding people about the glorious past can unsettle their sense of identity. Then you can be the one to redefine it-a grand seduction. Symbol: Cupid's Arrow. What awakens desire in the seduced is not a soft touch or a pleasant sensation; it is a wound. The arrow creates a pain, an ache, a needfor relief Before desire there must be pain. Aim the arrow at the victim's weakest spot, creating a wound that you can open and reopen. Reversal I f you go too far in lowering the targets' self-esteem they may feel too insecure to enter into your seduction. Do not be heavy-handed; like Lawrence, always follow up the wounding attack with a soothing gesture. Otherwise you will simply alienate them. Charm is often a subtler and more effective route to seduction. The Victorian Prime Minister Benjamin Disraeli always made people feel better about themselves. He deferred to them, made them the center of attention, made them feel witty and vibrant. He was a boon to their vanity, and they grew addicted to him. This is a kind of diffused seduction, lacking in tension and in the deep emotions that the sexual variety stirs; it bypasses people's hunger, their need for some kind of fulfillment. But if you are subtle and clever, it can be a way of lowering their defenses, creating an unthreatening friendship. Once they are under your spell in this way, you can then open the wound. Indeed, after Disraeli had charmed Queen Victoria and established a friendship with her, he made her feel vaguely inadequate in the establishment of an empire and the realization of her ideals. Everything depends on the target. People who are riddled with insecurities may require the gentler variety. Once they feel comfortable with you, aim your arrows. 6 Master the Art of Insinuation Making your targetsfeel dissatisfied and in need of your attention is essential, but if you are too obvious, they will see through you and grow defensive. There is no known defense, however, against insinuation-the art of planting ideas in people's minds by dropping elusive hints that take root days later, even appearing to them as their own idea. Insinuation is the supreme means of influencing people. Create a sublanguage-bold statements followed by retraction andapology, ambiguous comments, banal talk combined with alluring glances-that enters the target's unconscious to convey your real meaning. Make everything suggestive. Insinuating Desire. One evening in the 1770s, a young man went to the Paris Opera to meet his lover, the Countess de_. The couple had been fighting, and he was anxious to see her again. The countess had not arrived yet at her box, but from an adjacent one a friend of hers, Madame de T_, called out to the young man to join her, remarking that it was an excellent stroke of luck that they had met that evening-he must keep her company on a trip she had to take. The young man wanted urgently to see the countess, but Madame was charming and insistent and he agreed to go with her. Before he could ask why or where, she quickly escorted him to her carriage outside, which then sped off. Now the young man enjoined his hostess to tell him where she was taking him. At first she just laughed, but finally she told him: to her husband's chateau. The couple had been estranged, but had decided to reconcile; her husband was a bore, however, and she felt a charming young man like himself would liven things up. The young man was intrigued: Madame was an older woman, with a reputation for being rather formal, though he also knew she had a lover, a marquis. Why had she chosen him for this excursion? Her story was not quite credible. Then, as they traveled, she suggested he look out the window at the passing landscape, as she was doing. He had to lean over toward her to do so, and just as he did, the carriage jolted. She grabbed his hand and fell into his arms. She stayed there for a moment, then pulled away from him rather abruptly. After an awkward silence, she said, "Do you intend to convince me of my imprudence in your regard?" He protested that the incident had been an accident and reassured her he would behave himself. In truth, however, having her in his arms had made him think otherwise. They arrived at the chateau. The husband came to meet them, and the young man expressed his admiration of the building: "What you see is nothing," Madame interrupted, "I must take you to Monsieur's apartment." Before he could ask what she meant, the subject was quickly changed. The husband was indeed a bore, but he excused himself after supper. Now Madame and the young man were alone. She invited him to walk with her in the gardens; it was a splendid evening, and as they walked, she slipped her arm in his. She was not worried that he would take advantage of her, she said, because she knew how attached he was to her good friend the countess. They talked of other things, and then she returned to the topic of As we were about to enter the chamber, she stopped me. "Remember," she said gravely, "you are supposed never to have seen, never even suspected, the sanctuary you're about to enter. All this was like an initiation rite. She led me by the hand across a small, dark corridor. My heart was pounding as though I were a young proselyte being put to the test before the celebration oj the great mysteries. ."But your Countess ..." she said, stopping. I was about to reply when the doors opened; my answer was interrupted by admiration. I was astonished, delighted, I no longer know what became of me, and I began in good faith to believe in magic. ... In truth, I found myself in a vast cage of mirrors on which images were so artistically painted that they produced the illusion of all the objects they represented. -VIVANT DENON,"NO TOMORROW," IN MICHEL FEHER, ED., THE UBERTINE READER A few short years ago, in our native city, wherefraud and cunning prosper more than love or loyalty, there was a noblewoman of striking beauty and impeccable breeding, who was endowed by Nature with as lofty a temperament and shrewd an intellect as could be found in any other woman of her time. This lady, being of gentle birth his lover: "Is she making you quite happy? Oh, I fear the contrary, and this distresses me. . . . Are you not often the victim of her strange whims?" To the young man's surprise, Madame began to talk of the countess in a way that made it seem that she had been unfaithful to him (which was something he had suspected). Madame sighed-she regretted saying such things about her friend, and asked him to forgive her; then, as if a new thought had occurred to her, she mentioned a nearby pavilion, a delightful place, full of pleasant memories. But the shame of it was, it was locked and she had no key. And yet they found their way to the pavilion, and lo and behold, the door had been left open. It was dark inside, but the young man could sense that it was a place for trysts. They entered and sank onto a sofa. and finding herself married off to a master woollen- draper because he happened to be very rich, was unable and before he knew what had come over him, he took her in his arms. Madame seemed to push him away, but then gave in. Finally she came to her senses: they must return to the house. Had he gone too far? He must to stifle her heartfelt contempt, for she was firmly of the opinion that no man of low condition, however wealthy, was deserving of a noble wife. And on discovering that all he was capable of despite his massive wealth, was distinguishing wool from cotton, supervising the setting up of a loom, or debating the virtues of a particular yarn with a spinner-woman, she resolved that as far as it lay within her power she would have nothing whatsoever to do with his beastly caresses. Moreover she was determined to seek try to control himself. As they strolled back to the house, Madame remarked, "What a delicious night we've just spent." Was she referring to what had happened in the pavilion? "There is an even more charming room in the chateau," she went on, "but I can't show you anything," implying he had been too forward. She had mentioned this room ("Monsieur's apartment") several times before; he could not imagine what could be so interesting about it, but by now he was dying to see it and insisted she show it to him. "If you promise to be good," she replied, her eyes widening. Through the darkness of the house she led him into the room, which, to his delight, was a kind of temple of pleasure: there were mirrors on the walls, trompe l'oeil paintings evoking a forest scene, even a dark grotto, and a garlanded statue of Eros. Overwhelmed by the mood of the place, the young man quickly resumed what he had started in the pavilion, and would have lost all track of time if a servant had not rushed in and warned them that it was getting light outside-Monsieur would soon be up. her pleasure elsewhere, in the company of one who seemed more worthy of her affection, and so it was that she fell deeply in love with an extremely eligible man in his middle thirties. And whenever a day passed without her having set eyes upon him, she was restless for the whole of the following night. • However, the gentleman suspected nothing of all this, and took no notice of her; andfor her part, being very cautious, she would not venture to declare her love by dispatching a maidservant or writing him They quickly separated. Later that day, as the young man prepared to leave, his hostess said, "Goodbye, Monsieur; I owe you so many pleasures; but I have paid you with a beautiful dream. Now your love summons you to return. . . . Don't give the Countess cause to quarrel with me." Reflecting on his experience on the way back, he could not figure out what it meant. He had the vague sensation of having been used, but the pleasures he remembered outweighed his doubts. Interpretation. Madame de T_is a character in the eighteenth-century libertine short story "No Tomorrow," by Vivant Denon. The young man is the story's narrator. Although fictional, Madame's techniques were clearly based on those of several well-known libertines of the time, masters of the game of seduction. And the most dangerous of their weapons was insinuation-the means by which Madame cast her spell on the young man, making him seem the aggressor, giving her the night of pleasure she desired. Master the Art of Insinuation • 215 and safeguarding her guiltless reputation, all in one stroke. After all, he was the one who initiated physical contact, or so it seemed. In truth, she was the one in control, planting precisely the ideas in his mind that she wanted. That first physical encounter in the carriage, for instance, that she had set up by inviting him closer: she later rebuked him for being forward, but what lingered in his mind was the excitement of the moment. Her talk of the countess made him confused and guilty; but then she hinted that his lover was unfaithful, planting a different seed in his mind: anger, and the desire for revenge. Then she asked him to forget what she had said and forgive her for saying it, a key insinuating tactic: "I am asking you to forget what I have said, but I know you cannot; the thought will remain in your mind." Provoked this way, it was inevitable he would grab her in the pavilion. She several times mentioned the room in the chateau-of course he insisted on going there. She enveloped the evening in an air of ambiguity. Even her words "If you promise to be good" could be read several ways. The young man's head and heart were inflamed with all of the feelings-discontent, confusion, desirethat she had indirectly instilled in him. Particularly in the early phases of a seduction, learn to make everything you say and do a kind of insinuation. Insinuate doubt with a comment here and there about other people in the victim's life, making the victim feel vulnerable. Slight physical contact insinuates desire, as does a fleeting but memorable look, or an unusually warm tone of voice, both for the briefest of moments. A passing comment suggests that something about the victim interests you; but keep it subtle, your words revealing a possibility, creating a doubt. You are planting seeds that will take root in the weeks to come. When you are not there, your targets will fantasize about the ideas you have stirred up, and brood upon the doubts. They are slowly being led into your web, unaware that you are in control. How can they resist or become defensive if they cannot even see what is happening? What distinguishes a suggestion from other kinds of psychical influence, such as a command or the giving of a piece of information or instruction, is that in the case of a suggestion an idea is aroused in another person's brain which is not examined in regard to its origin but is accepted just as though it had arisen spontaneously in that brain. -SIGMUND FREUD Keys to Seduction Y ou cannot pass through life without in one way or another trying to persuade people of something. Take the direct route, saying exactly what you want, and your honesty may make you feel good but you are probably not getting anywhere. People have their own sets of ideas, which are hardened into stone by habit; your words, entering their minds, com- a letter, for fear of the dangers that this might entail. But having perceived that he was on very friendly terms with a certain priest, a rotund, uncouth, individual who was nevertheless regarded as an outstandingly able friar on account of his very saintly way of life, she calculated that this fellow would serve as an ideal go- betweenfor her and the man she loved. And so, after reflecting on the strategy she would adopt, she paid a visit, at an appropriate hour of the day, to the church where he was to befound, and having sought him out, she asked him whether he would agree to confess her. Since he could tell at a glance that she was a lady of quality, the friar gladly heard her confession, and when she had got to the end of it, she continued as follows: • "Father, as I shall explain to you presently, there is a certain matter about which I am compelled to seek your advice and assistance. Having already told you my name, I feel sure you will know my family and my husband. He loves me more dearly than life itself, and since he is enormously rich, he never has the slightest difficulty or hesitation in supplying me with every single object for which I display a yearning. Consequently, my love for him is quite unbounded, and if my mere thoughts, to say nothing of my actual behavior, were to run contrary to his wishes and his honor, I would be more deserving of hellfire than the wickedest woman who ever lived. • "Now, there is a certain person, of respectable outward appearance, who unless I am mistaken is a close acquaintance of yours. I really couldn't say what his name is, but he is tall and handsome, his clothes are brown and elegantly cut, and, possibly because he is unaware of my resolute nature, he appears to have laid siege to me. He turns up infallibly whenever I either look out of my window or stand at the front door or leave the house, and I am surprised, in fact, that he is not here now. Needless to say, I am very upset about all this, because his sort of conduct frequently gives an honest woman a bad name, even though she is quite innocent. For the love of God, therefore, I implore you to speak to him severely and persuade him to refrain from his importunities. There are plenty of other women who doubtless find this sort of thing amusing, and who will enjoy being ogled and spied upon by him, but I personally have no inclination for it whatsoever, and I find hisbehaviorexceedingly disagreeable." • And having reached the end of her speech, the lady bowed head as though she were going to burst into tears. • The reverend friar realized immediately who it was to whom she was referring, and having warmly commended her purity of mind ... he promised to take all necessary steps to ensure that the fellow ceased to annoy her. ..." Shortly afterward, the gentleman in question paid one of his regular visits to the reverendfriar, and after they had conversed together for a while on general pete with the thousands of preconceived notions that are already there, and get nowhere. Besides, people resent your attempt to persuade them, as if they were incapable of deciding by themselves-as if you knew better. Consider instead the power of insinuation and suggestion. It requires some patience and art, but the results are more than worth it. The way insinuation works is simple: disguised in a banal remark or encounter, a hint is dropped. It is about some emotional issue-a possible pleasure not yet attained, a lack of excitement in a person's life. The hint registers in the back of the target's mind, a subtle stab at his or her insecurities; its source is quickly forgotten. It is too subtle to be memorable at the time, and later, when it takes root and grows, it seems to have emerged naturally from the target's own mind, as if it was there all along. Insinuation lets you bypass people's natural resistance, for they seem to be listening only to what has originated in themselves. It is a language on its own, communicating directly with the unconscious. No seducer, no persuader, can hope to succeed without mastering the language and art of insinuation. A strange man once arrived at the court of Louis XV. No one knew anything about him, and his accent and age were unplaceable. He called himself Count Saint-Germain. He was obviously wealthy; all kinds of gems and diamonds glittered on his jacket, his sleeves, his shoes, his fingers. He could play the violin to perfection, paint magnificently. But the most intoxicating thing about him was his conversation. In truth, the count was the greatest charlatan of the eighteenth century-a man who had mastered the art of insinuation. As he spoke, a word here and there would slip out-a vague allusion to the philosopher's stone, which turned base metal into gold, or to the elixir of life. He did not say he possessed these things, but he made you associate him with their powers. Had he simply claimed to have them, no one would have believed him and people would have turned away. The count might refer to a man who had died forty years earlier as if he had known him personally; had this been so, the count would have had to be in his eighties, although he looked to be in his forties. He mentioned the elixir of life. ... he seems so young. . . . The key to the count's words was vagueness. He always dropped his hints into a lively conversation, grace notes in an ongoing melody. Only later would people reflect on what he had said. After a while, people started to come to him, inquiring about the philosopher's stone and the elixir of life, not realizing that it was he who had planted these ideas in their minds. Remember: to sow a seductive idea you must engage people's imaginations, their fantasies, their deepest yearnings. What sets the wheels spinning is suggesting things that people already want to hear-the possibility of pleasure, wealth, health, adventure. In the end, these good things turn out to be precisely what you seem to offer them. They will come to you as if on their own, unaware that you insinuated the idea in their heads. In 1807, Napoleon Bonaparte decided it was critical for him to win the Russian Czar Alexander I to his side. He wanted two things out of the Master the Art of Insinuation • 217 czar: a peace treaty in which they agreed to carve up Europe and the Middle East; and a marriage alliance, in which he would divorce his wife Josephine and marry into the czar's family. Instead of proposing these things directly, Napoleon decided to seduce the czar. Using polite social encounters and friendly conversations as his battlefields, he went to work. An apparent slip of the tongue revealed that Josephine could not bear children; Napoleon quickly changed the subject. A comment here and there seemed to suggest a linking of the destinies of France and Russia.Just before they were to part one evening, he talked of his desire for children, sighed sadly, then excused himself for bed, leaving the czar to sleep on this. He escorted the czar to a play on the themes of glory, honor, and empire; now, in later conversations, he could disguise his insinuations under the cover of discussing the play. Within a few weeks, the czar was speaking to his ministers of a marriage alliance and a treaty with France as if they were his own ideas. Slips of the tongue, apparently inadvertent "sleep on it" comments, alluring references, statements for which you quickly apologize-all of these have immense insinuating power. They get under people's skin like a poison, and take on a life of their own. The key to succeeding with your insinuations is to make them when your targets are at their most relaxed or distracted, so that they are not aware of what is happening. Polite banter is often the perfect front for this; people are thinking about what they will say next, or are absorbed in their own thoughts. Your insinuations will barely register, which is how you want it. In one of his early campaigns, John F. Kennedy addressed a group of veterans. Kennedy's brave exploits during World War II-the PT-109 incident had made him a war hero-were known to all; but in the speech, he talked of the other men on the boat, never mentioning himself. He knew, however, that what he had done was on everyone's mind, because in fact he had put it there. Not only did his silence on the subject make them think of it on their own, it made Kennedy seem humble and modest, qualities that go well with heroism. In seduction, as the French courtesan Ninon de 1'Enclos advised, it is better not to talk about your love for a person. Let your target read it in your manner. Your silence on the subject will have more insinuating power than if you had addressed it directly. Not only words insinuate; pay attention to gestures and looks. Madame Recamier's favorite technique was to keep her words banal and the look in her eyes enticing. The flow of conversation would keep men from thinking too deeply about these occasional looks, but they would be haunted by them. Lord Byron had his famous "underlook": while everyone was discussing some uninteresting subject, he would seem to hang his head, but then a young woman (the target) would see him glancing upward at her, his head still tilted. It was a look that seemed dangerous, challenging, but also ambiguous; many women were hooked by it. The face speaks its own language. We are used to trying to read people's faces, which are often better indicators of their feelings than what they say, which is so easy to control. topics, the friar drew him to one side and reproached him in a very kindly sort of way for the amorous glances which, as the lady had given him to understand, he believed him to be casting in her direction. • Not unnaturally, the gentleman was amazed, for he had never so much as looked at the lady and it was very seldom that he passed by her house. The gentleman, being rather more perceptive than the reverendfriar, was not exactly slow to appreciate the lady's cleverness, and putting on a somewhat sheepish expression, he promised not to bother her any more. But after leaving the friar, he made his way toward the house of the lady, who was keeping continuous vigil at a tiny little window so that she would see him if he happened to pass by. .. . Andfrom that day forward, proceeding with the maximum prudence and conveying the impression that he was engaged in some other business entirely, he became a regular visitor to the neighborhood. BOCCACCIO, THE DECAMERON.Glances are the heavy artillery of the flirt: everything can be conveyed in a look, yet that look can always be denied, for it cannot be quoted word for word. -STENDHAL, QUOTED IN RICHARD DAVENPORT-HINES, ED., VICE: AN ANTHOLOGY Since people are always reading your looks, use them to transmit the insinuating signals you choose. Finally, the reason insinuation works so well is not just that it bypasses people's natural resistance. It is also the language of pleasure. There is too little mystery in the world; too many people say exactly what they feel or want. We yearn for something enigmatic, for something to feed our fantasies. Because of the lack of suggestion and ambiguity in daily life, the person who uses them suddenly seems to have something alluring and full of promise. It is a kind of titillating game-what is this person up to? What does he or she mean? Hints, suggestions, and insinuations create a seductive atmosphere, signaling that their victim is no longer involved in the routines of daily life but has entered another realm. Symbol: The Seed. The soil is carefully prepared. The seeds are planted months in advance. Once they are in the ground, no one knows what hand threw them there. They are part of the earth. Disguise your manipulations by planting seeds that take root on their own. Reversal T he danger in insinuation is that when you leave things ambiguous your target may misread them. There are moments, particularly later on in a seduction, when it is best to communicate your idea directly, particularly once you know the target will welcome it, Casanova often played things that way. When he could sense that a woman desired him, and needed little preparation, he would use a direct, sincere, gushing comment to go straight to her head like a drug and make her fall under his spell. When the rake and writer Gabriele D'Annunzio met a woman he desired, he rarely delayed. Flattery flowed from his mouth and pen. He would charm with his "sincerity" (sincerity can be feigned, and is just one stratagem among others). This only works, however, when you sense that the target is easily yours. If not, the defenses and suspicions you raise by direct attack will make your seduction impossible. When in doubt, indirection is the better route. 7. Enter Their Spirit. Most people are locked in their own worlds, making them stubborn and hard to persuade. The way to lure them out of their shell and set up your seduction is to enter their spirit. Play by their rules, enjoy what they enjoy, adapt yourself to their moods. In doing so you will stroke their deep-rooted narcissism and lower their defenses. Hypnotized by the mirror image you present, they will open up, becoming vulnerable to your subtle influence. Soon you can shift the dynamic: once you have entered their spirit you can make them enter yours, at a point when it is too late to turn back. Indulge your targets' every mood and whim, giving them nothing to react against or resist. The Indulgent Strategy I n October of 1961, the American journalist Cindy Adams was granted an exclusive interview with President Sukarno of Indonesia. It was a remarkable coup, for Adams was a little-known journalist at the time, while Sukarno was a world figure in the midst of a crisis. A leader of the fight for Indonesia's independence, he had been the country's president since 1949, when the Dutch finally gave up the colony. By the early 1960s, his daring foreign policy had made him hated in the United States, some calling him the Hitler of Asia. Adams decided that in the interests of a lively interview, she would not be cowed or overawed by Sukarno, and she began the conversation by joking with him. To her pleasant surprise, her ice-breaking tactic seemed to work: Sukarno warmed up to her. He let the interview run well over an hour, and when it was over he loaded her with gifts. Her success was remarkable enough, but even more so were the friendly letters she began to receive from Sukarno after she and her husband had returned to New York. A few years later, he proposed that she collaborate with him on his autobiography. Adams, who was used to doing puff pieces on third-rate celebrities, was confused. She knew Sukarno had a reputation as a devilish Don Juan -le grand seducteur, the French called him. He had had four wives and hundreds of conquests. He was handsome, and obviously he was attracted to her, but why choose her for this prestigious task? Perhaps his libido was too power- fill for him to care about such things. Nevertheless, it was an offer she could not refuse. In January of 1964, Adams returned to Indonesia. Her strategy, she had decided, would stay the same: she would be the brassy, straight-talking lady who had seemed to charm Sukarno three years earlier. During her first interview with him for the book, she complained in rather strong terms about the rooms she had been given as lodgings. As if he were her secretary, she dictated a letter to him, which he was to sign, detailing the special treatment she was to be given by one and all. To her amazement, he dutifully copied out the letter, and signed it. Next on Adams's schedule was a tour of Indonesia to interview people who had known Sukarno in his youth. So she complained to him about the plane she had to fly on, which she said was unsafe. "I tell you what, honey," she told him, "I think you should give me my own plane." "Okay," he an- You're anxious to keep your mistress? \ Convince her she's knocked you all of a heap \ With her stunning looks. If it's purple she's wearing, praise purple; \ When she's in a silk dress, say silk \ Suits her best of all. . . Admire \ Her singing voice, her gestures as she dances, \ Cry "Encore!" when she stops. You can even praise \ Her performance in bed, her talentfor love-making - \ Spell out what turned you on. \ Though she may show fiercer in action than any Medusa, \ Her lover will always describe her as kind \ And gentle. But take care not to give yourself away while \ Making such tongue-in- cheek compliments, don't allow \ Your expression to ruin the message. Art's most effective \ When concealed. Detection discredits you for good. - OVID, THE ART OF LOVE. The little boy (or girl) seeks to fascinate his or her parents. In Oriental literature, imitation is reckoned to be one of the ways of attracting. The Sanskrit texts, for example, give an important part to the trick of the woman copying the dress, expressions, and speech of her beloved. This kind of mimetic drama is urged on the woman who, "being unable to unite with her beloved, imitates him to distract his thoughts." • The child too, using the devices of imitating attitudes, dress, and so on, seeks to fascinate, until a magical intention, the father or mother and thus "distract its thoughts." Identification means that one is abandoning and not abandoning amorous desires. It is a lure which the child uses to capture his parents and which, it must be admitted, they fall for. The same is true for the masses, who imitate their leader, bear his name and repeat his gestures. They bow to him, but at the same time they are unconsciously baiting a trap to hold him. Great ceremonies and demonstrations are just as much occasions when the multitudes charm the swered, apparently somewhat abashed. One, however, was not enough, she went on; she required several planes, and a helicopter, and her own personal pilot, a good one. He agreed to everything. The leader of Indonesia seemed to be not just intimidated by Adams but totally under her spell. He praised her intelligence and wit. At one point he confided, "Do you know why I'm doing this biography? . . . Only because of you, that's why." He paid attention to her clothes, complimenting her outfits, noticing any change in them. He was more like a fawning suitor than the "Hitler of Asia." Inevitably, of course, he made passes at her. She was an attractive woman. First there was the hand on top of her hand, then a stolen kiss. She spurned him every time,making it clear she was happily married, but she was worried; if all he had wanted was an affair, the whole book deal could fall apart. Once again, though, her straightforward strategy seemed the right one. Surprisingly, he backed down without anger or resentment. He promised that his affection for her would remain platonic. She had to admit that he was not at all what she had expected, or what had been described to her. Perhaps he liked being dominated by a woman. The interviews continued for several months, and she noticed slight changes in him. She still addressed him familiarly, spicing the conversation with brazen comments, but now he returned them, delighting in this kind of saucy banter. He assumed the same lively mood that she strategically forced on herself. At first he had dressed in military uniform, or in his Italian suits. Now he dressed casually, even going barefoot, conforming to the casual style of their relationship. One night he remarked that he liked the color of her hair. It was Clairol, blue-black, she explained. He wanted to have the same color; she had to bring him a bottle. She did as he asked, imagining he was joking, but a few days later he requested her presence at the palace to dye his hair for him. She did so, and now they had the exact same hair color. leader as vice versa. The book, Sukarno: An Autobiography as Told to Cindy Adams, was pub- -MOSCOVICI, THEAGE OF THE CROWD. My sixth brother, he who had both his lips cut off, Prince of the Faithful, is called Shakashik. • In his youth he was very poor. One day, as he was fished in 1965. To American readers' surprise, Sukarno came across as remarkably charming and lovable, which was indeed how Adams described him to one and all. If anyone argued, she would say that they did not him the way she did. Sukarno was well pleased, and had the book distributed far and wide. It helped gain sympathy for him in Indonesia, where he was now being threatened with a military coup. And Sukarno was not surprised-he had known all along that Adams would do a far better job with his memoirs than any "serious" journalist. begging in the streets of Baghdad, he passed by a splendid mansion, at the gates of which stood an impressive array of attendants. Upon inquiry my brother was informed Interpretation. Who was seducing whom? It was Sukarno who was doing the seducing, and his seduction of Adams followed a classical sequence. First, he chose the right victim. An experienced journalist would have resisted the lure of a personal relationship with the subject, and a man would have been less susceptible to his charm. And so he picked a woman, and Enter Their Spirit • 223 one whose journalistic experience lay elsewhere. At his first meeting with Adams, he sent mixed signals: he was friendly to her, but hinted at another kind of interest as well. Then, having insinuated a doubt in her mind (Perhaps he just wants an affair?), he proceeded to mirror her. He indulged her every mood, retreating every time she complained. Indulging a person is a form of entering their spirit, letting them dominate for the time being. Perhaps Sukarno's passes at Adams showed his uncontrollable libido at work, or perhaps they were more cunning. He had a reputation as a Don Juan; failing to make a pass at her would have hurt her feelings. (Women are often less offended at being found attractive than one imagines, and Sukarno was clever enough to have given each of his four wives the impression that she was his favorite.) The pass out of the way, he moved further into her spirit, taking on her casual air, even slightly feminizing himself by adopting her hair color. The result was that she decided he was not what she had expected or feared him to be. He was not in the least threatening, and after all, she was the one in control. What Adams failed to realize was that once her defenses were lowered, she was oblivious to how deeply he had engaged her emotions. She had not charmed him, he had charmed her. What he wanted all along was what he got: a personal memoir written by a sympathetic foreigner, who gave the world a rather engaging portrait of a man of whom many were suspicious. Of all the seductive tactics, entering someone's spirit is perhaps the most devilish of all. It gives your victims the feeling that they are seducing you. The fact that you are indulging them, imitating them, entering their spirit, suggests that you are under their spell. You are not a dangerous seducer to be wary of, but someone compliant and unthreatening. The attention you pay to them is intoxicating-since you are mirroring them, everything they see and hear from you reflects their own ego and tastes. What a boost to their vanity. All this sets up the seduction, the series of maneuvers that will turn the dynamic around. Once their defenses are down, they are open to your subtle influence. Soon you will begin to take over the dance, and without even noticing the shift, they will find themselves entering your spirit. This is the endgame. Women are not at their ease except with those who take chances with them, and enter into their spirit. -NINON DEL'ENCLOS Keys to Seduction O ne of the great sources of frustration in our lives is other people's stubbornness. How hard it is to reach them, to make them see thingsour way. We often have the impression that when they seem to be listening to us, and apparently agreeing with us, it is all superficial-the moment we are gone, they revert to their own ideas. We spend our lives butting up that the house belonged to a member of the wealthy and powerful Barmecide family. Shakashik approached the doorkeepers and solicited alms. "Go in," they said, "and our master will give you all that you desire." • My brother entered the lofty vestibule and proceeded to a spacious, marble-paved hall, hung with tapestry and overlooking a beautiful garden. He stood bewilderedfor a moment, not knowing where to turn his steps, and then advanced to the far end of the hall. There, among the cushions, reclined a handsome old man with a long beard, whom my brother recognized at once as the master of the house. "What can I do for you, my friend?" asked the old man, as he rose to welcome my brother. • When Shakashik replied that he was a hungry beggar, the old man expressed the deepest compassion and rent his fine robes, crying: "Is it possible that there should be a man as hungry as yourself in a city where I am living? It is, indeed, a disgrace that I cannot endure!" Then he comforted my brother, adding: "I insist that you stay with me and partake of my dinner." • With this the master of the house clapped his hands and called out to one of the slaves: "Bring in the basin and ewer." Then he said to my brother: "Come forward, my friend, and wash your hands." • Shakashik rose to do so, but saw neither ewer nor basin. He was bewildered to see his host make gestures as though he were pouring water on his hands from an invisible vessel and then drying them with an invisible towel. When he finished, the host called out to his attendants: "Bring in the table!" • Numerous servants hurried in and out of the hall, as though they were preparingfor a meal. against people, as if they were stone walls. But instead of complaining about how misunderstood or ignored you are, why not try something different: instead of seeing other people as spiteful or indifferent, instead of trying to figure out why they act the way they do, look at them through the eyes of the seducer. The way to lure people out of their natural intractability and self-obsession is to enter their spirit. All of us are narcissists. When we were children our narcissism was My brother could still see nothing. Yet his host invited him to sit at the imaginary table, saying, "Honor me by eating of this meat." • The old man moved his hands about as though he were touching invisible dishes, and also moved his jaws and lips as though he were chewing. Then said he to Shakashik: "Eat your fill, my friend, for you must be famished." • My brother began to move his jaws, to chew and swallow, as though he were eating, while the old man still coaxed him, saying: "Eat, my friend, and note the excellence of this bread and its whiteness. " • "This man," thought Shakashik, "must be fond of practical jokes. " So he said, "It is, sir, the whitest bread I have ever seen, and I have never tasted the like in all my life. " • "This bread," said the host, "was baked by a slave girl whom I bought for five hundred dinars." Then he called out to one of his slaves: "Bring in the meat pudding, and let there be plenty of fat in it!" • ... Thereupon the host moved his fingers as though to pick up a morselfrom an imaginary dish, and popped the invisible delicacy into my brother's mouth. • The old man continued to enlarge upon the excellences of the various dishes, while my brother became so ravenously hungry that he would have willingly died physical: we were interested in our own image, our own body, as if it were a separate being. As we grow older, our narcissism grows more psychological: we become absorbed in our own tastes, opinions, experiences. A hard shell forms around us. Paradoxically, the way to entice people out of this shell is to become more like them, in fact a kind of mirror image of them. You do not have to spend days studying their minds; simply conform to their moods, adapt to their tastes, play along with whatever they send your way. In doing so you will lower their natural defensiveness. Their sense of self-esteem does not feel threatened by your strangeness or different habits. People truly love themselves, but what they love most of all is to see their ideas and tastes reflected in another person. This validates them. Their habitual insecurity vanishes. Hypnotized by their mirror image, they relax. Now that their inner wall has crumbled, you can slowly draw them out, and eventually turn the dynamic around. Once they are open to you, it becomes easy to infect them with your own moods and heat. Entering the other person's spirit is a kind of hypnosis; it is the most insidious and effective form of persuasion known to man. In the eighteenth-century Chinese novel The Dream of the Red Chamber, all the young girls in the prosperous house of Chia are in love with the rakish Pao Yu. He is certainly handsome, but what makes him irresistible is his uncanny ability to enter a young girl's spirit. Pao Yu has spent his youth around girls, whose company he has always preferred. As a result, he never comes over as threatening and aggressive. He is granted entry to girls' rooms, they see him everywhere, and the more they see him the more they fall under his spell. It is not that Pao Yu is feminine; he remains a man, but one who can be more or less masculine as the situation requires. His familiarity with young girls allows him the flexibility to enter their spirit. This is a great advantage. The difference between the sexes is what makes love and seduction possible, but it also involves an element of fear and distrust. A woman may fear male aggression and violence; a man is often unable to enter a woman's spirit, and so he remains strange and threatening. The greatest seducers in history, from Casanova to John F. Kennedy, grew up surrounded by women and had a touch of femininity themselves. The philosopher Spren Kierkegaard, in his novel The Seducer's Diary, recommends spending more time with the opposite sex, getting to know the "enemy" and its weaknesses, so that you can turn this knowledge to your advantage. Ninon de l'Enclos, one of the greatest seductresses who ever lived, had definite masculine qualities. She could impress a man with her intense philosophical keenness, and charm him by seeming to share his interest in politics and warfare. Many men first formed deep friendships with her, only to later fall madly in love. The masculine in a woman is as soothing to men as the feminine in a man is to women. To a man, a woman's strangeness can create frustration and even hostility. He may be lured into a sexual encounter, but a longer-lasting spell cannot be created without an accompanying mental seduction. The key is to enter his spirit. Men are often seduced by the masculine element in a woman's behavior or character. In the novel Clarissa (1748) by Samuel Richardson, the young and devout Clarissa Harlowe is being courted by the notorious rake Lovelace. Clarissa knows Lovelace's reputation, but for the most part he has not acted as she would expect: he is polite, seems a little sad and confused. At one point she finds out that he has done a most noble and charitable deed to a family in distress, giving the father money, helping the man's daughter get married, giving them wholesome advice. At last Lovelace confesses to Clarissa what she has suspected: he wants to repent, to change his ways. His letters to her are emotional, almost religious in their passion. Perhaps she will be the one to lead him to righteousness? But of course Lovelace has trapped her: he is using the seducer's tactic of mirroring her tastes, in this case her spirituality. Once she lets her guard down, once she believes she can reform him, she is doomed: now he can slowly insinuate his own spirit into his letters and encounters with her. Remember: the operative word is "spirit," and that is often exactly where to take aim. By seeming to mirror someone's spiritual values you can seem to establish a deep-rooted harmony between the two of you, which can then be transferred to the physical plane. When Josephine Baker moved to Paris, in 1925, as part of an all-black revue, her exoticism made her an overnight sensation. But the French are notoriously fickle, and Baker sensed that their interest in her would quickly pass to someone else. To seduce them for good, she entered their spirit. She learned French and began to sing in it. She started dressing and acting as a stylish French lady, as if to say that she preferred the French way of life to the American. Countries are like people: they have vast insecurities, and they feel threatened by other customs. It is often quite seductive to a people to see an outsider adopting their ways. Benjamin Disraeli was born and lived all his life in England, but he was Jewish by birth, and had exotic features; the provincial English considered him an outsider. Yet he was more English in his manners and tastes than many an Englishman, and this was part of his charm, which he proved by becoming the leader of the Conservative Party. Should you be an outsider (as most of us ultimately are), turn it to advantage: play on your alien nature in such a way as to show the group how deeply you prefer their tastes and customs to your own. In 1752, the notorious rake Saltykov determined to be the first man in the Russian court to seduce the twenty-three-year-old grand duchess, the future Empress Catherine the Great. He knew that she was lonely; her husband Peter ignored her, as did many of the other courtiers. And yet the ob- Enter Their Spirit • 225 for a crust of barley bread. • "Have you ever tasted anything more delicious," went on the old man, "than the spices in these dishes?" • "Never, indeed," replied Shakashik. • "Eat heartily, then," said his host, "and do not be ashamed!" • "I thank you, sir," answered Shakashik, "but I have already eaten my fill. " • Presently, however, the old man clapped his hands again and cried: "Bring in the wine!" "... "Sir," said Shakashik, "your generosity overwhelms me!" He lifted the invisible cup to his lips, and made as if to drain it at one gulp. • "Health and joy to you!" exclaimed the old man, as he pretended to pour himself some wine and drink it off. He handed another cup to his guest, and they both continued to act in this fashion until Shakashik, feigning himself drunk, began to roll his headfrom side to side. Then, taking his bounteous host unawares, he suddenly raised his arm so high that the white of his armpit could be seen, and dealt him a blow on the neck which made the hall echo with the sound. And this he followed by a second blow. • The old man rose in anger and cried: "What are you doing, vile creature?" • "Sir" replied my brother, "you have received your humble slave into your house and loaded him with your generosity; you havefed him with the choicestfood and quenched his thirst with the most potent wines. Alas, he became drunk, and forgot his manners! But you are so noble, sir, that you will 226 surely pardon his offence. " • When he heard these words, the old man burst out laughing and said: "For a long time I have jested with all types of men, but no one has ever had the patience or the wit to enter into my humors as you have done. Now, therefore, I pardon you, and ask you in truth to cat and drink with me, and to he my companion as long as I live. " • Then the old man ordered his attendants to serve all the dishes which they had consumed in fancy, and when he and my brother had eaten their fill they repaired to the drinking chamber, where beautiful young women sang and made music. The old Barmecide gave Shakashik a robe of honor and made him his constant companion. - "THE TALE OF SHAKASHIK, THE BARBER'S SIXTH BROTHER," TALES FROM THE THOUSAND AND ONE NIGHTS. stacks were immense: she was spied on day and night. Still, Saltykov managed to befriend the young woman, and to enter herall-too-small circle. He finally got her alone, and made it clear to her how well he understood her loneliness, how deeply he disliked her husband, and how much he shared her interest in the new ideas that were sweeping Europe. Soon he found himself able to arrange further meetings, where he gave her the impression that when he was with her, nothing else in the world mattered. Catherine fell deeply in love with him, and he did in fact become her first lover. Saltykov had entered her spirit. When you mirror people, you focus intense attention on them. They will sense the effort you are making, and will find it flattering. Obviously you have chosen them, separating them out from the rest. There seems to be nothing else in your life but them-their moods, their tastes, their spirit. The more you focus on them, the deeper the spell you produce, and the intoxicating effect you have on their vanity. Many of us have difficulty reconciling the person we are right now with the person we want to be. We are disappointed that we have compromised our youthful ideals, and we still imagine ourselves as that person who had so much promise, but whom circumstances prevented from realizing it. When you are mirroring someone, do not stop at the person they have become; enter the spirit of that ideal person they wanted to be. This is how the French writer Chateaubriand managed to become a great seducer, despite his physical ugliness. When he was growing up, in the latter eighteenth century, romanticism was coming into fashion, and many young women felt deeply oppressed by the lack of romance in their lives. Chateaubriand would reawaken the fantasy they had had as young girls of being swept off their feet, of fulfilling romantic ideals. This form of entering another's spirit is perhaps the most effective kind, because it makes people feel better about themselves. In your presence, they live the life of the person they had wanted to be-a great lover, a romantic hero, whatever it is. Discover those crushed ideals and mirror them, bringing them back to life by reflecting them back to your target. Few can resist such a lure. Symbol: The Hunter's Mirror. The lark is a savory bird, but difficult to catch. In the field, the hunter places a mirror on a stand. The lark lands in front of the glass, steps back and forth, entranced by its own moving image and by the imitative mating dance it sees performed before its eyes. Hypnotized, the bird loses all sense of its surroundings, until the hunter's net traps it against the mirror. Enter Their Spirit • 227 Reversal I n 1897 in Berlin, the poet Rainer Maria Rilke, whose reputation would later circle the world, met Lou Andreas-Salome, the Russianborn writer and beauty who was notorious for having broken Nietzsche's heart. She was the darling of Berlin intellectuals, and although Rilke was twenty-two and she was thirty-six, he fell head over heels in love with her. He flooded her with love letters, which showed that he had read all her books and knew her tastes intimately. The two became friends. Soon she was editing his poetry, and he hung on her every word. Salome was flattered by Rilke's mirroring of her spirit, enchanted by the intense attention he paid her and the spiritual communion they began to develop. She became his lover. But she was worried about his future; it was difficult to make a living as a poet, and she encouraged him to learn her native language, Russian, and become a translator. He followed her advice so avidly that within months he could speak Russian. They visited Russia together, and Rilke was overwhelmed by what he saw-the peasants, the folk customs, the art, the architecture. Back in Berlin, he turned his rooms into a kind of shrine to Russia, and started wearing Russian peasant blouses and peppering his conversation with Russian phrases. Now the charm of his mirroring soon wore off. At first Salome had been flattered that he shared her interests so intensely, but now she saw this as something else: he seemed to have no real identity. He had become dependent on her for his own self-esteem. It was all so slavish. In 1899, much to his horror, she broke off the relationship. The lesson is simple: your entry into a person's spirit must be a tactic, a way to bring him or her under your spell. You cannot be simply a sponge, soaking up the other person's moods. Mirror them for too long and they will see through you and be repelled by you. Beneath the similarity to them that you make them see, you must have a strong underlying sense of your own identity. When the time comes, you will want to lead them into your spirit; you cannot live on their turf. Never take mirroring too far, then. It is only useful in the first phase of a seduction; at some point the dynamic must be reversed. This desire for a double of the other sex that resembles us absolutely while still being other, for a magical creature who is ourself while possessing the advantage, over all our imaginings, of an autonomous existence. We find traces of it in even the most banal circumstances of love: in the attraction linked to any change, any disguise, as in the importance of unison and the repetition of self in the other. The great, the implacable amorous passions are all linked to thefact that a being imagines he sees his most secret self spying upon him behind the curtain of another's eyes. -ROBERT MUSIL, QUOTED IN DENIS DE ROUGEMONT, LOVE DECLARED Create Temptation Lure the target deep into your seduction by creating the proper temptation: a glimpse of the pleasures to come. As the serpent tempted Eve with the promise offorbidden knowledge, you must awaken a desire in your targets that they cannot control. Find that weakness of theirs, that fantasy that has yet to be realized, and hint that you can lead them toward it. It could be wealth, it could be adventure, it could be forbidden and guilty pleasures; the key is to keep it vague. Dangle the prize before their eyes, postponing satisfaction, and let their minds do the rest. The future seems ripe with possibility. Stimulate a curiosity stronger than the doubts and anxieties that go with it, and they will follow you. The Tantalizing Object S ome time in the 1880s, a gentleman named Don Juan de Todellas was wandering through a park in Madrid when he saw a woman in her early twenties getting out of a coach, followed by a two-year-old child and a nursemaid. The young woman was elegantly dressed, but what took Don Juan's breath away was her resemblance to a woman he had known nearly three years before. Surely she could not be the same person. The woman he had known, Cristeta Moreruela, was a showgirl in a second-rate theater. She had been an orphan and was quite poor-her circumstances could not have changed that much. He moved closer: the same beautiful face. And For these two crimes Tantalus was punished with the ruin of his kingdom and, after his then he heard her voice. He was so shocked that he had to sit down: it was dea,h Zeus ' s own hand indeed the same woman. Don Juan was an incorrigible seducer, whose conquests were innumerable and of every variety. But he remembered his affair with Cristeta quite clearly, because she had been so young-the most charming girl he had ever met. He had seen her in the theater, had courted her assiduously, and had managed to persuade her to take a trip with him to a seaside town. Although they had separate rooms, nothing could stop Don Juan: he made up a story about business troubles, gained her sympathy, and in a tender moment took advantage of her weakness. A few days later he left her, on the pretext that he had to attend to business. He believed he would never see her again. Feeling a little guilty-a rare occurrence with him-he sent her 5,000 pesetas, pretending he would eventually rejoin her. Instead he went to Paris. He had only recently returned to Madrid. As he sat and remembered all this, an idea troubled him: the child. with eternal torment in the company of Ixion,Sisyphus, Tityus, the Danaids, and others. Now he hangs, perennially consumed by thirst and hunger, from the bough of afruit tree which leans over a marshy lake. Its waves lap against his waist, and sometimes reach his chin, yet whenever he bends down to drink, they slip away, and nothing remains but the black mud at his feet; or, if he ever succeeds in scooping up a handful of water, it slips through his fingers before he can do Could the boy possibly be his? If not, she must have married almost immediately after their affair. How could she do such a thing? She was obviously wealthy now. Who could her husband be? Did he know her past? Mixed with his confusion was intense desire. She was so young and beautiful. Why had he given her up so easily? Somehow, even if she was married, he had to more than wet his cracked lips, leaving him thirstier than ever. The tree is laden with pears, shining apples, sweet figs, ripe olives and pomegranates, which get her back. dangle against his shoulders; but whenever he Don Juan began to frequent the park every day. He saw her a few more reac hesfor the luscious times; their eyes met, but she pretended not to notice him. Tracing the fruit, a gust of wind whirls nursemaid during one of her errands, he struck up a conversation with her, ,hem ol " °f ,us reack and asked her about her mistress's husband. She told him the man's name -robert graves, the oreek was Senor Martinez, and that he was away on an extended business trip; she also told him where Cristeta now lived. Don Juan gave her a note to give to 231 232 Don Juan: Arminta, listen to the truth--for are not women friends of truth? I am a nobleman, heir to the ancient family of the Tenorios, the conquerors of Seville. After the king, my father is the most powerful and considered man at court. ... By chance I happened on this road and saw you. Love sometimes behaves in a manner that surprises even himself. .Arminta: I don't know if what you're saying is truth or lying rhetoric. I am married to Batricio, everybody knows it. How can the marriage be annulled, even if he abandons me? • Don Juan: When the marriage is not consummated, whether by malice or deceit, it can be annulled. Arminta: You are right. But, God help me, won't you desert me the moment you have separated me from my husband? ..." Don Juan: Arminta, light of my eyes, tomorrow your beautifulfeet will slip into her mistress. Then he strolled by Cristeta's house-a beautiful palace. His worst suspicions were confirmed: she had married for money. Cristeta refused to see him. He persisted, sending more notes. Finally, to avoid a scene, she agreed to meet him, just once, in the park. Heprepared for the meeting carefully: seducing her again would be a delicate operation. But when he saw her coming toward him, in her beautiful clothes, his emotions, and his lust, got the better of him. She could only belong to him, never to another man, he told her. Cristeta took offense at this; obviously her present circumstances prevented even one more meeting. Still, beneath her coolness he could sense strong emotions. He begged to see her again, but she left without promising anything. He sent her more letters, meanwhile wracking his brains trying to piece it all together: Who was this Senor Martinez? Why would he marry a showgirl? How could Cristeta be wrested away from him? Finally Cristeta agreed to meet Don Juan one more time, in the theater, where he dared not risk a scandal. They took a box, where they could talk. She reassured him the child was not his. She said he only wanted her now because she belonged to another, because he could not have her. No, he said, he had changed; he would do anything to get her back. Disconcertingly, at moments her eyes seemed to be flirting with him. But then she seemed to be about to cry, and rested her head on his shoulder-only to get up immediately, as if realizing this was a mistake. This was their last meeting, she said, and quickly fled. Don Juan was beside himself. She wasplaying with him; she was a coquette. He had only been claiming to have changed, but perhaps it was true: no woman had ever treated him this way before. He would never have allowed it. polished silver slippers with buttons of the purest gold. And your alabaster throat will be imprisoned in beautiful necklaces; on your fingers, rings set with amethysts will shine like stars, andfrom your ears will da ngle orien tal pearls. • Arminta: I am yours. -TIRSO DE MOLINA, THE PLAYBOY OF SEVILLE.  IN MANDEL, ED., THE THEATRE OF DON JUAN For the next few nights Don Juan slept poorly. All he could think about was Cristeta. He had nightmares about killing her husband, about growing old and being alone. It was all too much. He had to leave town. He sent her a goodbye note, and to his amazement, she replied: she wanted to see him, she had something to tell him. By now he was too weak to resist. As she had requested, he met her on a bridge, at night. This time she made no effort to control herself: yes, she still loved Don Juan, and was ready to run away with him. But he should come to her house tomorrow, in broad daylight, and take her away. There could be no secrecy. Beside himself with joy, Don Juan agreed to her demands. The next day he showed up at her palace at the appointed hour, and asked for Senora Martinez. There was no one there by that name, said the woman at the door. Don Juan insisted: her name is Cristeta. Ah, Cristeta, the woman said: she lives in the back, with the other tenants. Confused, Don Juan went to Now the serpent was moresubtle than any other wild creature that the LORD GOD had made. He said to the woman, "Did God say, 'You shall not cat of the back of the palace. There he thought he saw her son, playing in the street in dirty clothes. But no, he said to himself, it must be some other child. He came to Cristeta's door, and instead of her servant, Cristeta herself opened it. He entered. It was the room of a poor person. Hanging on improvised racks, however, were Cristeta's elegant clothes. As if in a dream, he sat down, dumbfounded, and listened as Cristeta revealed the truth. Create Temptation • 233 She was not married, she had no child. Months after he had left her, she had realized that she had been the victim of a consummate seducer. She still loved Don Juan, but she was determined to turn the tables. Finding out through a mutual friend that he had returned to Madrid, she took the five thousand pesetas he had sent her and bought expensive clothes. She borrowed a neighbor's child, asked the neighbor's cousin to play the child'snursemaid, and rented a coach-all to create an elaborate fantasy that existed only in his mind. Cristeta did not even have to lie: she never actually said she was married or had a child. She knew that being unable to have her would make him want her more than ever. It was the only way to seduce a man like him. Overwhelmed by the lengths she had gone to, and by the emotions she had so skillfully stirred in him, Don Juan forgave Cristeta and offered to marry her. To his surprise, and perhaps to his relief, she politely declined. The moment they married, she said, his eyes would wander elsewhere. Only if they stayed as they were could she maintain the upper hand. Don Juan had no choice but to agree. Interpretation. Cristeta and Don Juan are characters in the novel Dulce y Sabrosa (Sweet and Savory, 1891), by the Spanish writer Jacinto Octavio Picon. Most of Picon's work deals with male seducers and their feminine victims, a subject he studied and knew much about. Abandoned by Don Juan, and reflecting on his nature, Cristeta decided to kill two birds with one stone: she would get revenge and get him back. But how could she lure such a man? The fruit once tasted, he no longer wanted it. What came easily to him, or fell into his arms, held no allure for him. What would tempt Don Juan into desiring Cristeta again, into pursuing her, was the sense that she was already taken, that she was forbidden fruit. That was his weakness-that was why he pursued virgins and married women, women he was not supposed to have. To a man, she reasoned, the grass always seems greener somewhere else. She would make herself that distant, alluring object, just out of reach, tantalizing him, stirring up emotions he could not control. He knew how charming and desirable she had once been to him. The idea of possessing her again, and the pleasure he imagined it would bring, were too much for him: he swallowed the bait. Temptation is a twofold process. First you are coquettish, flirtatious; you stimulate a desire by promising pleasure and distraction from daily life. At the same time, you make it clear to your targets that they cannot have you, at least not right away. You are establishing a barrier, some kind of tension. In days gone by such barriers were easy to create, by taking advantage of preexisting social obstacles-of class, race, marriage, religion. Today the barriers have to be more psychological: your heart is taken by someone else; you are really not interested in the target; some secret holds you back; the timing is bad; you are not good enough for the other person; the other any tree of the garden'?" And the woman said to the serpent, "We may eat of the fruit of the trees of the garden; but God said, 'You shall not eat of the fruit of the tree which is in the midst of the garden, neither shall you touch it, lest you die.' " But the serpent said to the woman, "You will not die. For God knows that when you eat of it your eyes will be opened, and you will be like God, knowing good and evil. " So when the woman saw that the tree was good for food, and that it was a delight to the eyes, and that the tree was to be desired to make one wise, she took of its fruit and ate; and she also gave some to her husband, and he ate. -GENESIS 3:1 , OLD TESTAMENT Thou strong seducer, Opportunity. -JOHN DRYDEN As he listened, Masetto experienced such a longing to go and stay with these nuns that his whole body tingled with excitement, for it was clear from what he had heard that he should be able to achieve what he had in mind. Realizing, however, that he would get nowhere by revealing his intentions to Nuto, he replied: • "How right you were to come away from the [nunnery]! What sort of a life can any man lead when he's surrounded by a lot of women? He might as well be living with a pack of devils. Why, six times out oj seven they don't even know their own minds." • But when they 234 had finished talking, Masetto began to consider what steps he ought to take so that he could go and stay with them. Knowinghimself to be perfectly capable of carrying out the duties mentioned by Nuto, he had no worries about losing the job on that particular score, but he was afraid lest he should be turned down because of his youth and his unusually attractive appearance. And so, having rejected a number of other possible expedients, he eventually thought to himself: "The convent is a long way off, and there's nobody there who knows me. If I can pretend to be dumb, they'll take me on for sure." Clinging firmly to this conjecture, he therefore dressed himself in pauper's rags and slung an ax over his shoulder, and without telling anyone where he was going, he set outfor the convent. On his arrival, he wandered into the courtyard, where as luck would have it he came across the steward, and with the aid ofgestures such as dumb people use, he conveyed the impression that he was beggingfor something to eat, in return for which he would attend to any wood-chopping that needed to be done. • The steward gladly provided him with something to eat, after which he presented him with a pile of logs that Nuto had been unable to chop. Mow, when the steward had discovered what an excellent gardener he was, he gestured to Masetto, asking him whether he would like to stay there, and the latter made signs to indicate that he was willing to do whatever the steward person is not good enough for you; and so on. Conversely, you can choose someone who has a built-in barrier: they are taken, they are not meant to want you. These barriers are more subtle than the social or religious variety, but they are barriers nevertheless, and the psychology remains the same. are perversely excited by what they cannot or should not have. Create this inner conflict-there is excitement and interest, but you are unavailable-and you will have them grasping like Tantalus for water. And with Don Juan and Cristeta, the more you make your targets pursue you, the more they imagine that it is they who are the aggressors. Your seduction is perfectly disguised. The only way to get rid of temptation is to yield to it. -OSCAR WILDE. Keys to Seduction M ost of the time, people struggle to maintain security and a sense of balance in their lives. If they were always uprooting themselves in pursuit of every new person or fantasy that passed them by, they could not survive the daily grind. They usually win the struggle, but it does not come easy. The world is full of temptation. They read about people who have more than they do, about adventures others are having, about people who have found wealth and happiness. The security that they strive for, and that they seem to have in their lives, is actually an illusion. It covers up a constant tension. As a seducer, you can never mistake people's appearance for reality. You know that their fight to keep order in their lives is exhausting, and that they are gnawed by doubts and regrets. It is hard to be good and virtuous, always having to repress the strongest desires. With that knowledge in mind, seduction is easier. What people want is not temptation; temptation happens every day. What people want is to give into temptation, to yield. That is the only way to get rid of the tension in their lives. It costs much more to resist temptation than to surrender. Your task, then, is to create a temptation that is stronger than the daily variety. It has to be focused on them, aimed at them as individuals-at their weakness. Understand: everyone has a principal weakness, from which others stem. Find that childhood insecurity, that lack in their life, and you hold the key to tempting them. Their weakness may be greed, vanity, boredom, some deeply repressed desire, a hunger for forbidden fruit. They signal it in little details that elude their conscious control: their style of clothing, an offhand comment. Their past, and particularly their past romances, will be littered with clues. Give them a potent temptation, tailored to their weakness, and you can make the hope of pleasure that you stir in them figure more prominently than the doubts and anxieties that accompany it. In 1621, King Philip III of Spain desperately wanted to forge an al- Create Temptation • 235 liance with England by marrying his daughter to the son of the English king, James I. James seemed open to the idea, but he stalled for time. Spain's ambassador to the English court, a man called Gondomar, was given the task of advancing Philip's plan. He set his sights on the king's favorite, the Duke (former Earl) of Buckingham. Gondomar knew the duke's main weakness: vanity. Buckingham hungered for the glory and adventure that would add to his fame; he was bored with his limited tasks, and he pouted and whined about this. The ambassador first flattered him profusely-the duke was the ablest man in the country and it was a shame he was given so little to do. Then, he began to whisper to him of a great adventure. The duke, as Gondomar knew, was in favor of the match with the Spanish princess, but these damned marriage negotiations with King James were taking so long, and getting nowhere. What if the duke were to accompany the king's son, his good friend Prince Charles, to Spain? Of course, this would have to be done in secret, without guards or escorts, for the English government and its ministers would never sanction such a trip. But that would make it all the more dangerous and romantic. Once in Madrid, the prince could throw himself at Princess Maria's feet, declare his undying love, and carry her back to England in triumph. What a chivalrous deed it would be and all for love. The duke would get all the credit and it would make his name famous for centuries. The duke fell for the idea, and convinced Charles to go along; after much arguing, they also convinced a reluctant King James. The trip was a near disaster (Charles would have had to convert to Catholicism to win Maria), and the marriage never happened, but Gondomar had done his job. He did not bribe the duke with offers of money or power-he aimed at the childlike part of him that never grew up. A child has little power to resist. It wants everything, now, and rarely thinks of the consequences. A child lies lurking in everyone-a pleasure that was denied them, a desire that was repressed. Hit at that point, tempt them with the proper toy (adventure, money, fun), and they will slough off their normal adult reasonableness. Recognize their weakness by whatever childlike behavior they reveal in daily life-it is the tip of the iceberg. Napoleon Bonaparte was appointed the supreme general of the French army in 1796. His commission was to defeat the Austrian forces that had taken over northern Italy. The obstacles were immense: Napoleon was only twenty-six at the time; the generals below him were envious of his position and doubtful of his abilities. His soldiers were tired, underfed, underpaid, and grumpy. How could he motivate this group to fight the highly experienced Austrian army? As he prepared to cross the Alps into Italy, Napoleon gave a speech to his troops that may have been the turning point in his career, and in his life: "Soldiers, you are half starved and half naked. The government owes you much, but can do nothing for you. Your patience, your courage, do you honor, but give you no glory. ... I will lead you into the most fertile plains of the world. There you will find flourishing cities, teeming provinces. There you will reap honor, glory, and wealth." The wanted. Now, one day, when Masetto happened to he taking a rest after a spell of strenuous work, he was approached by two very young nuns who were out walking in the garden. Since he gave them the impression that he was asleep, they began to stare at him, and the bolder of the two said to her companion: • "If I could be sure that you would keep it a secret, I would tell you about an idea that has often crossed my mind, and one that might well work out to our mutual benefit." • "Do tell me," replied the other. "You can be quite certain that I shan't talk about it to anyone. " • The bold one began to speak more plainly. • "I wonder," she said, "whether you have ever considered what a strict life we have to lead, and how the only men who ever dare setfoot in this place are the steward, who is elderly, and this dumb gardener of ours. Yet I have often heard it said, by of the ladies who have come to visit us, that all other pleasures in the are mere trifles by comparison with the one by a woman when she goes with a man. have thus been thinking, since I have nobody else to hand, that I would like to discover with the aid of this dumb fellow whether they are telling the truth. As it happens, there couldn't be a better man for the , because even if he wanted to let the cat out of the bag, he wouldn't be to. He wouldn't even know how to explain, for you can see for yourself what a mentally retarded, dim-witted hulk of a youth 236 the fellow is. I would be glad to know what you think of the idea." • "Dear me!" said the other. "Don't you realize that we have promised God to preserve our virginity?" • "Pah!" she said. "We are constantly making Him promises that we never keep! What does it matter if we fail to keep this one? He can always find other girls to preserve their virginity for Him. " • . . . Before the time came for them to leave, they had each made repeated trials of dumb fellow's riding ability, and later on, when they were busily swapping tales about it all, they agreed that it was every bit as pleasant an experience as they had been led to believe, indeed more so. Andfrom then on, whenever the opportunity arose, they whiled away many a pleasant hour in the dumb fellow's arms. • One day, however, a companion of theirs happened to look out from the window of her cell, saw the goings-on, and drew the attention of two others what was afoot. Having talked the matter over between themselves, they at first decided to report the pair to the abbess. But then they changed their minds, and by common agreement with the other two, they took up shares in Masetto's holding. And because of various indiscretions, these five were subsequently joined by the remaining three, one after the other. • Finally, the abbess, who was still unaware of all this, was taking a stroll one very hot day in the garden, all by herself when she came across Masetto stretched out fast asleep in the shade of an almond speech had a powerful effect. Days later these same soldiers, after a rough climb over the mountains, gazed down on the Piedmont valley. Napoleon s words echoed in their ears, and a ragged, grumbling gang became an inspired army that would sweep across northern Italy in pursuit of the Austrians. Napoleon's use of temptation had two elements: behind you is a grim past; ahead of you is a future of wealthand glory, (/you follow me. Integral to the temptation strategy is a clear demonstration that the target has nothing to lose and everything to gain. The present offers little hope, the future can be full of pleasure and excitement. Remember to keep the future gains vague, though, and somewhat out of reach. Be too specific and you will disappoint; make the promise too close at hand, and you will not be able to postpone satisfaction long enough to get what you want. The barriers and tensions in temptation are there to stop people from giving in too easily and too superficially. You want them to struggle, to resist, to be anxious. Queen Victoria surely fell in love with her prime minister, Benjamin Disraeli, but there were barriers of religion (he was a dark-skinned Jew), class (she, of course, was a queen), social taste (she was a paragon of virtue, he a notorious dandy). The relationship was never consummated, but what deliciousness those barriers gave to their daily encounters, which were full of constant flirtation. Many such social barriers are gone today, so they have to be manufactured-it is the only way to put spice into seduction. Taboos of any kind are a source of tension, and they are psychological now, not religious. You are looking for some repression, some secret desire that will make your victim squirm uncomfortably if you hit upon it, but will tempt them all the more. Search in their past; whatever they seem to fear or flee from might hold the key. It could be a yearning for a mother or father figure, or a latent homosexual desire. Perhaps you can satisfy that desire by presenting yourself as a masculine woman or a feminine man. For others you play the Lolita, or the daddd-someone they are not supposed to have, the dark side of their personality. Keep the connection vague-you want them to reach for something elusive, something that comes out of their own mind. In London in 1769, Casanova met a young woman named Charpillon. She was much younger than he, as beautiful a woman as he had ever known, and with a reputation for destroying men. In one of their first encounters she told him straight out that he would fall for her and she would ruin him. To everyone's disbelief, Casanova pursued her. In each encounter she hinted she might give in-perhaps the next time, if he was nice to her. She inflamed his curiosity-what pleasure she would yield; he would be the first, he would tame her. "The venom of desire penetrated my whole being so completely," he later wrote, "that had she so wished it, she could have despoiled me of everything I possessed. I would have beggared myself for one little kiss." This "affair" indeed proved his ruin; she humiliated him. Charpillon had rightly gauged that Casanova's primary weakness was his Create Temptation • 237 need for conquest, to overcome challenge, to taste what no other man had tasted. Beneath this was a kind of masochism, a pleasure in the pain a woman could give him. Playing the impossible woman, enticing and then frustrating him, she offered the ultimate temptation. What will often do the trick is to give the target the sense that you are a challenge, a prize to be won. In possessing you they will get what no other has had. They may even get pain; but pain is close to pleasure, and offers its own temptations. In the Old Testament we read that "David arose from his couch and was walking upon the roof of the king's house . . . [and] he saw from the roof a woman bathing; and the woman was very beautiful." The woman was Bathsheba. David summoned her, seduced her (supposedly), then proceeded to get rid of her husband, Uriah, in battle. In fact, however, it was Bathsheba who had seduced David. She bathed on her roof at an hour when she knew he would be standing on his balcony. After tempting a man she knew had a weakness for women, she played the coquette, forcing him to come after her. This is the opportunity strategy: give someone weak the chance to have what they lust after by merely placing yourself within their reach, as if byaccident. Temptation is often a matter of timing, of crossing the path of the weak at the right moment, giving them the opportunity to surrender. Bathsheba used her entire body as a lure, but it is often more effective to use only a part of the body, creating a fetishlike effect. Madame Re- camier would let you glimpse her body beneath the sheer dresses she wore, but only briefly, when she took off her overgarment to dance. Men would leave that evening dreaming of what little they had seen. Empress Josephine made a point of baring her beautiful arms in public. Give the target only a part of you to fantasize about, thereby creating a constant temptation in their mind. Symbol: The Apple in the Garden of Eden. The fruit looks deeply inviting, and you are not supposed to eat of it; it is forbidden. But that is precisely why you think of it day and night. You see it but cannot have it. And the only way to get rid of this temptatree. Too much riding by night had left him with very little strengthfor the day's labors, and so there he lay, with his clothes ruffled up in front by the wind, leaving him all exposed. Finding herself alone, the lady stood with her eyes riveted to this spectacle, and she was seized by the same craving to which her young charges had already succumbed. So, having roused Masetto, she led him away to her room, where she kept him for several days, thus provoking bitter complaints from the nuns over the fact that the handyman had suspended work in the garden. Before sending him back to his own quarters, she repeatedly savored the one pleasure for which she had always reserved her most fierce disapproval, and from then on she demanded regular supplementary allocations, amounting to considerably more than her fair share. -BOCCACCIO, THE DECAMERON  tion is to yield and taste the fruit. 238 Reversal T he reverse of temptation is security or satisfaction, and both are fatal to seduction. If you cannot tempt someone out of their habitual comfort, you cannot seduce them. If you satisfy the desire you have awakened, the seduction is over. There is no reversal to temptation. Although some stages can be passed over, no seduction can proceed without some form of temptation, so it is always better to plan it carefully, tailoring it to the weakness and childishness in your particular target. Phase Two Lead Astray - Creating Pleasure and Confusion Your victims are sufficiently intrigued and their desire for you is growing, but their attachment is weak and at any moment they could decide to turn back. The goal in this phase is to lead your victims so far astray-keeping them emotional and confused, giving them pleasure but making them want more-that retreat is no longer possible. Springing on them a pleasant surprise will make them see you as delightfully unpredictable, but will also keep them off balance (9: Keep them in suspense-what comes next?). The artful use of soft and pleasant words will intoxicate them and stimulate fantasies (10: Use the demonic power of words to sow confusion). Aesthetic touches and pleasant little rituals will titillate their senses, distract their minds (11: Pay attention to detail). Your greatest danger in this phase is the mere hint of routine orfamil- iarity. You need to maintain some mystery, to keep a little distance so that in your absence your victims become obsessed with you (12: Poeticize your presence). They may realize they are falling for you, but they must never suspect how much of this has come from your manipulations. A well-timed display of your weakness, of how emotional you have become under their influence will help cover your tracks (13: Disarm through strategic weakness and vulnerability). To excite your victims and make them highly emotional, you must give them thefeeling that they are actually living some of the fantasies you have stirred in their imagination (14: Confuse desire and reality). By giving them only a part of the fantasy, you will keep them coming backfor more. Focusing your attention on them so that the rest of the world fades away, even taking them on a trip, will lead them far astray (15: Isolate your victim). There is no turning back. 9 Keep Them in Suspense- What Comes Next? The moment people feel they know what to expect from you, your spell on them is broken. More: you have ceded them power. The only way to lead the seduced along and keep the upper hand is to create suspense, a calculated surprise. People love a mystery, and this is the key to luring them further into your web. Behave in a way that leaves them wondering, What are you up to? Doing something they do not expectfrom you will give them a delightful sense of spontaneity-they will not be able tofore- see what comes next. You are always one step ahead and in control. Give the victim a thrill with a sudden change of direction.The Calculated Surprise I n 1753, the twenty-eight-old Giovanni Casanova met a young girlnamed Caterina with whom he fell in love. Her father knew what kind of man Casanova was, and to prevent some mishap before he could marry her off, he sent her away to a convent on the Venetian island of Murano, where she was to remain for four years. Casanova, however, was not one to be daunted. He smuggled letters to Caterina. He began to attend Mass at the convent several times a week, catching glimpses of her. The nuns began to talk among themselves: who was this handsome young man who appeared so often? One morning, as Casanova, leaving Mass, was about to board a gondola, a servant girl from the convent passed by and dropped a letter at his feet. Thinking it might be from Caterina, he picked it up. It was indeed intended for him, but it was not from Caterina; its author was a nun at the convent, who had noticed him on his many visits and wanted to make his acquaintance. Was he interested? If so, he should come to the convent's parlor at a particular time, when the nun would be receiving a visitor from the outside world, a friend of hers who was a countess. He could stand at a distance, observe her, and decide whether she was to his liking. Casanova was most intrigued by the letter: its style was dignified, but there was something naughty about it as well-particularly from a nun. He had to find out more. At the appointed day and time, he stood to the side in the convent parlor and saw an elegantly dressed woman talking with a nun seated behind a grating. He heard the nun's name mentioned, and was astonished: it was Mathilde M., a well-known Venetian in her early twenties, whose decision to enter a convent had surprised the whole city. But what astonished him most was that beneath her nun's habit, he could see that she was a beautiful young woman, particularly in her eyes, which were a brilliant blue. Perhaps she needed a favor done, and intended that he would serve as her cat's-paw. His curiosity got the better of him. A few days later he returned to the convent and asked to see her. As he waited for her, his heart was beating a mile a minute-he did not know what to expect. She finally appeared and sat down behind the grating. They were alone in the room, and she said that she could arrange for them to have supper together at a little villa nearby. Casanova was delighted, but wondered what kind of nun he was dealing with. "And-have you no lover but me?" he asked. "I have a I count upon taking [the French people ] by surprise. A bold deed upsets people's equanimity, and they are dumbfounded by a great novelty. -NAPOLEON BONAPARTE, QUOTED IN EMIL LUDWIG, NAPOLEON. PAUL The first care of any dandy is to never do what one expects them to do, to always go beyond. The unexpected can be nothing more than a gesture, but a gesture that is totally uncommon. Alcibiades cut off the tail of his dog in order to surprise people. When he saw the looks on his friends as they gazed upon the mutilated animal, he said: "Ah, that is precisely what I wanted to happen: as long as the Athenians gossip about this, they will not say anything worse about me." • Attracting attention is not the only goal of a dandy, he wants to hold it by unexpected, even ridiculous means. After Alcibiades, how many apprentice dandies cut off the tails of their dogs! The 243 244 baron of Saint-Cricq, for example, with his ice cream boots: one very hot day, he ordered at Tortonis two ice creams, the vanilla served in his right boot, the strawberry in his left boot. . . . The Count Saint-Germain loved to bring his friends to the theater, in his voluptuous carriage lined in pink satin and drawn by two black horses with enormous tails; he asked his friends in that inimitable tone of his: "Which piece of entertainment did you wish to see? Vaudeville, the Variety show, the Palais- Royal theater? I took the liberty of purchasing a box for all three of them." Once the choice was made, with a look of great disdain, he would take the unused tickets, roll them up, and use them to light his cigar. - MAUD DE BELLEROCHE, DU DANDYAU PLAY-BOY While Shahzaman sat at one of the windows overlooking the king's garden, he saw a door open in the palace, through which came twenty slave girls and twenty negroes. In their midst was his brother's [King Shahriyar's] queen, a woman of surpassing beauty. They made their waytothe fountain, wherethey all undressed and sat on the grass. The king's wife then called out: "Come Mass'ood!" and there promptly came to her a black slave, who mounted her after smothering her with embraces and kisses. So also did the negroes with the slave girls, reveling together till the approach of night.  And so friend, who is also absolutely my master," she replied. "It is to him I owe my wealth." She asked if he had a lover. Yes, he replied. She then said, in a mysterious tone, "I warn you that if you once allow me to take her place in your heart, no power on earth can tear me from it." She then gave him the key to the villa and told him to meet her there in two nights. He kissed her through the grating and left in a daze. "I passed the next two days in a state of feverish impatience," he wrote, "which prevented me from sleeping or eating. Over and above birth, beauty, and wit, my new conquest possessed an additional charm: she was forbidden fruit. I was about to become a rival of the Church." He imagined her in her habit, and with her shaven head. He arrived at the villa at the appointed hour. Mathilde was waiting for him. To his surprise, she wore an elegant dress, and somehow she had avoided having her head shaved, for her hair was in a magnificent chignon. Casanova began to kiss her. She resisted, but only slightly, and then pulled back, saying a meal was ready for them. Over dinner she filled in a few more of the gaps: her money allowed her to bribe certain people, so that she could escape from the convent every so often. She had mentioned Casanova to her friend and master, and he had approved their liaison. He must be old? Casanova asked. No, she replied, a glint in her eye, he is in his forties, and quite handsome. After supper, a bell rang-her signal to hurry back to the convent, or she would be caught. She changed back into her habit and left. A beautiful vista now seemed to stretch before Casanova, of months spent in the villa with this delightful creature, all of it courtesy of the mysterious master who paid for it all. He soon returned to the convent to arrange the next meeting. They would rendezvous in a square in Venice, then retire to the villa. At the appointed time and place, Casanova saw a man approach him. Fearing it was her mysterious friend, or some other man sent to kill him, he recoiled. The man circled behind him, then came up close: it was Mathilde, wearing a mask and men's clothes. She laughed at the fright she had given him. What a devilish nun. He had to admit that dressed as a man she excited him even more. Casanova began to suspect that all was not as it seemed. For one, he found a collection of libertine novels and pamphlets in Mathilde's house. Then she made blasphemous comments, for example about the joy they would have together during Lent, "mortifying their flesh." Now she referred to her mysterious friend as her lover. A plan evolved in his mind to take her away from this man and from the convent, eloping with her and possessing her himself. A few days later he received a letter from her, in which she made a confession: during one of their more passionate trysts at the villa, her lover had hidden in a closet, watching the whole thing. The lover, she told him, was the French ambassador to Venice, and Casanova had impressed him. Casanova was not one to be fooled with like this, yet the next day he was back at the convent, submissively arranging for another tryst. This time she showed up at the hour they had named, and he embraced her-only to Keep Them in Suspense-What Comes Next? • 245 find that he was embracing Caterina, dressed up in Mathilde's clothes. Mathilde had befriended Caterina and learned her story. Apparently taking pity on her, she had arranged it so that Caterina could leave the convent for the evening, and meet up with Casanova. Only a few months before Casanova had been in love with this girl, but he had forgotten about her. Compared to the ingenious Mathilde, Caterina was a simpering bore. He could not conceal his disappointment. He burned to see Mathilde. Casanova was angry at the trick Mathilde had played. But a few days later, when he saw her again, all was forgiven. As she had predicted during their first interview, her power over him was complete. He had become her slave, addicted to her whims, and to the dangerous pleasures she offered. Who knows what rash act he might have committed on her behalf had their affair not been cut short by circumstance. Interpretation. Casanova was almost always in control in his seductions. He was the one who led, taking his victim on a trip to an unknown destination, luring her into his web. In all of his memoirs the story of Mathilde is the only seduction in which the tables are happily turned: he is the seduced, the bewildered victim. What made Casanova Mathilde's slave was the same tactic he had used on countless girls: the irresistible lure of being led by another person, the thrill of being surprised, the power of mystery. Each time he left Mathilde his head was spinning with questions. Her ability to go on surprising him kept her always in his mind, deepening her spell and blotting Caterina out. Each surprise was carefully calculated for the effect it would produce. The first unexpected letter piqued his curiosity, as did that first sight of her in the waiting room; suddenly seeing her dressed as an elegant woman stirred intense desire; then seeing her dressed as a man intensified the excitingly transgressive nature of their liaison. The surprises put him off balance, yet left him quivering with anticipation of the next one. Even an unpleasant surprise, such as the encounter with Caterina that Mathilde had set up, kept him emotional and weak. Meeting the somewhat bland Caterina at that moment only made him long that much more for Mathilde. In seduction, you need to create constant tension and suspense, a feeling that with you nothing is predictable. Do not think of this as a painful challenge. You are creating drama in real life, so pour your creative energies into it, have some fun. There are all kinds of calculated surprises you can spring on your victims-sending a letter from out of the blue, showing up unexpectedly, taking them to a place they have never been. But best of all are surprises that reveal something new about your character. This needs to be set up. In those first few weeks, your targets will tend to make certain snap judgments about you, based on appearances. Perhaps they see you as a bit shy, practical, puritanical. You know that this is not the real you, but it is how you act in social situations. Let them, however, have these impressions, and in fact accentuate them a little, without overacting: for instance.Shahzamanrelated to [his brother King Shahriyar] all that he had seen in the king's garden that day. Upon this Shahriyar announced his intention to set forth on another expedition. The troops went out of the city with the tents, and King Shahriyar followed them. And after he had stayed a while in the camp, he gave orders to his slaves that no one was to be admitted to the king's tent. He then disguised himself and returned unnoticed to the palace, where his brother was waiting for him. They both sat at one of the windows overlooking the garden; and when they had been there a short time, the queen and her women appeared with the black slaves, and behaved as Shahzaman had described. .As soon as they entered the palace, King Shahriyar put his wife to death, together with her women and the black slaves. Thenceforth he made it his custom to take a virgin in marriage to his bed each night, and kill her the next morning. This he continued to do for three years, until a clamor rose among the people, some of whom fled the country with their daughters. • Now the vizier had two daughters. The elder was called Shahrazad, and the younger Dunyazad. Shahrazad possessed many accomplishments and was versed in the wisdom of the poets and the legends of ancient kings. • That day Shahrazad noticed her father's anxiety and asked him what it was that troubled him. When the vizier told her of his predicament, she said: "Give me in marriage to 246 this king; either I shall die and be a ransom for the daughters of Moslems, or live and be the cause of their deliverance." He earnestly pleaded with her against such a hazard; but Shahrazad was resolved, and would not yield to her father's entreaties. . . . • So the vizier arrayed his daughter in bridal garments and decked her with jewels and made ready to announce Shahrazad's wedding to the king. • Before saying farewell to her sister, Shahrazad gave her these instructions: "When I am received by the king, I shall send for you. Then when the king has finished his act with me, you must say: 'Tell me, my sister, some tale of marvel to beguile the night.' Then I will tell you a tale which, if Allah wills, shall be the means of our deliverance. " • The vizier went with his daughter to the king. And when the king had taken the maiden Shahrazad to his chamber and had lain with her, she wept and said: "I have a young sister to whom I wish to bid farewell." • The king sent for Dunyazad. When she arrived, she threw her arms around her sister's neck, and seated herself by her side. • Then Dunyazad said to Shahrazad: "Tell us, my sister, a tale of marvel, so that the night may pass pleasantly." • "Gladly," she answered, "if the king permits. " • And the king, who was troubled with sleeplessness, eagerly listened to the tale of Shahrazad: Once upon the time, in the city of Basrah, there lived a prosperous tailor who was fond of sport and merriment. ..." [Nearly seem a little more reserved than usual. Now you have room to suddenly surprise them with some bold or poetic or naughty action. Once they have changed their minds about you, surprise them again, as Mathilde did with Casanova-first a nun who wants an affair, then a libertine, then a seductress with a sadistic streak. As they strain to figure you out, they will be thinking about you all of the time, and will want to know more about you. Their curiosity will lead them further into your web, until it is too late for them to turn back. This is always the law for the interesting. . . . If one just knows how to surprise, one always wins the game. The energy of the person involved is temporarily suspended; one makes it impossible for her to act. -S0REN KIERKEGAARD Keys to Seduction A child is usually a willful, stubborn creature who will deliberately do the opposite of what we ask. But there is one scenario in which children will happily give up their usual willfulness: when they are promised a surprise. Perhaps it is a present hidden in a box, a game with an unforeseeable ending, a journey with an unknown destination, a suspenseful story with a surprise finish. In those moments when children are waiting for a surprise, their willpower is suspended. They are in your thrall for as long as you dangle possibility before them. This childish habit is buried deep within us, and is the source of an elemental human pleasure: being led by a person who knows where they are going, and who takes us on a journey. (Maybe our joy in being carried along involves a buried memory of being literally carried, by a parent, when we are small.) We get a similar thrill when we watch a movie or read a thriller: we are in the hands of a director or author who is leading us along, taking us through twists and turns. We stay in our seats, we turn the pages, happily enslaved by the suspense. It is the pleasure a woman has in being led by a confident dancer, letting go of any defensiveness she may feel and letting another person do the work. Falling in love involves anticipation; we are about to head off in a new direction, enter a new life, where everything will be strange. The seduced wants to be led, to be carried along like a child. If you are predictable, the charm wears off; everyday life is predictable. In the Arabian Talesfrom the Thousand and One Nights, each night King Shahriyar takes a virgin as his wife, then kills her the following morning. One such virgin, Shahrazad, manages to escape this fate by telling the king a story that can only be completed the following day. She does this night after night, keeping the king in constant suspense. When one story finishes, she quickly starts up another. She does this for nearly three years, until the king finally decides to spare her life. You are like Shahrazad: with- Keep Them in Suspense-What Comes Next? • 247 out new stories, without a feeling of anticipation, your seduction will die. Keep stoking the fires night after night. Your targets must never know what's coming next-what surprises you have in store for them. As with King Shahriyar, they will be under your control for as long as you can keep them guessing. In 1765, Casanova met a young Italian countess named Clementina who lived with her two sisters in a chateau. Clementina loved to read, and had little interest in the men who swarmed around her. Casanova added himself to their number, buying her books, engaging her in literary discussions, but she was no less indifferent to him than she had been to them. Then one day he invited the entire family on a little trip. He would not tell them where they were going. They piled into the carriage, all the way trying to guess their destination. A few hours later they entered Milan-what joy, the sisters had never been there. Casanova led them to his apartment, where three dresses had been laid out-the most magnificent dresses the girls had ever seen. There was one for each of the sisters, he told them, and the green one was for Clementina. Stunned, she put it on, and her face lit up. The surprises did not stop-there was a delicious meal, champagne, games. By the time they returned to the chateau, late in the evening, Clementina had fallen hopelessly in love with Casanova. The reason was simple: surprise creates a moment when people's defenses come down and new emotions can rush in. If the surprise is pleasurable, the seductive poison enters their veins without their realizing it. Any sudden event has a similar effect, striking directly at our emotions before we get defensive. Rakes know this power well. A young married woman in the court of Louis XV, in eighteenth- century France, noticed a handsome young courtier watching her, first at the opera, then in church. Making inquiries, she found it was the Due de Richelieu, the most notorious rake in France. No woman was safe from this man, she was warned; he was impossible to resist, and she should avoid him at all costs. Nonsense, she replied, she was happily married. He could not possibly seduce her. Seeing him again, she laughed at his persistence. He would disguise himself as a beggar and approach her in the park, or his coach would suddenly come alongside hers. He was never aggressive, and seemed harmless enough. She let him talk to her at court; he was charming and witty, and even asked to meet her husband. The weeks passed, and the woman realized she had made a mistake: she looked forward to seeing the marquis. She had let down her guard. This had to stop. Now she started avoiding him, and he seemed to respect her feelings: he stopped bothering her. Then one day, weeks later, she was at the country manor of a friend when the marquis suddenly appeared. She blushed, trembled, walked away, but his unexpected appearance had caught her unawares-it had pushed her over the edge. A few days later she became another of Richelieu's victims. Of course he had set the whole thing up, including the supposed surprise encounter. Not only does suddenness create a seductive jolt, it conceals manipula- three years pass.] Now during this time Shahrazad had borne King Shahriyar three sous. On the thousand and first night, when she had ended the tale of Ma'aruf she rose and kissed the ground before him, saying: "Great King, for a thousand and one nights I have been recounting to you the fables of past ages and the legends of ancient kings. May I be so bold as to crave a favor of your majesty?" • The king replied: "Ask, and it shall be granted. " • Shahrazad called out to the nurses, saying: "Bring me my children. " "Behold these three [little boys] whom Allah has granted to us. For their sake I implore you to spare my life. For if you destroy the mother of these infants, they will find none among women to love them as I would." • The king embraced his three sous, and his eyes filled with tears as he answered: "I swear by Allah, Shahrazad, that you were already pardoned before the coming of these children. I loved you because I found you chaste and tender, wise and eloquent. May Allah bless you, and bless your father and mother, your ancestors, and all your descendants. O, Shahrazad, this thousand and first night is brighter for us than the day!" -TALES FROM THE THOUSAND AND ONE NIGHTS. tions. Appear somewhere unexpectedly, say or do something sudden, and people will not have time to figure out that your move was calculated. Take them to some new place as if it only just occurred to you, suddenly reveal some secret. Made emotionally vulnerable, they will be too bewildered to see through you. Anything that happens suddenly seems natural, and anything that seems natural has a seductive charm. Only months after arriving in Paris in 1926, Josephine Baker had completely charmed and seduced the French public with her wild dancing.But less than a year later she could feel their interest wane. Since childhood she had hated feeling out of control of her life. Why be at the mercy of the fickle public? She left Paris and returned a year later, her manner completely altered-now she played the part of an elegant Frenchwoman, who happened to be an ingenious dancer and performer. The French fell in love again; the power was back on her side. If you are in the public eye, you must learn from this trick of surprise. People are bored, not only with their own lives but with people who are meant to keep them from being bored. The minute they feel they can predict your next step, they will eat you alive. The artist Andy Warhol kept moving from incarnation to incarnation, and no one could predict the next one-artist, filmmaker, society man. Always keep a surprise up your sleeve. To keep the public's attention, keep them guessing. Let the moralists accuse you of insincerity, of having no core or center. They are actually jealous of the freedom and playfulness you reveal in your public persona. Finally, you might think it wiser to present yourself as someone reliable, not given to caprice. If so, you are in fact merely timid. It takes courage and effort to mount a seduction. Reliability is fine for drawing people in, but stay reliable and you stay a bore. Dogs are reliable, a seducer is not. If, on the other hand, you prefer to improvise, imagining that any kind of planning or calculation is antithetical to the spirit of surprise, you are making a grave mistake. Constant improvisation simply means you are lazy, and thinking only about yourself. What often seduces a person is the feeling that you have expended effort on their behalf. You do not need to trumpet this too loudly, but make it clear in the gifts you make, the little journeys you plan, the little teases you lure people with. Little efforts like these will be more than amply rewarded by the conquest of the heart and willpower of the seduced. Symbol: The Roller Coaster. The car rises slowly to the top, then suddenly hurtles you into space, whips you to the side, throws you upside down, in every possible direction. The riders laugh and scream. What thrills them is to let go, to grant control to someone else, who propels them in unexpected directions. What new thrill awaits them around the next corner ? Keep Them in Suspense-What Comes Next? • 249 Reversal S urprise can be unsurprising if you keep doing the same thing again and again. Jiang Qing would try to surprise her husband Mao Zedong with sudden changes of mood, from harshness to kindness and back. At first he was captivated; he loved the feeling of never knowing what was coming. But it went on for years, and was always the same. Soon, Madame Mao's supposedly unpredictable mood swings just annoyed him. You need to vary the method of your surprises. When Madame de Pompadour was the lover of the inveterately bored King Louis XV, she made each surprise different- a new amusement, a new game, a new fashion, a new mood. He could never predict what would come next, and while he waited for the next surprise, his willpower was temporarily suspended. No man was ever more of a slave to a woman than was Louis to Madame de Pompadour. When you change direction, make the new direction truly new. 10 Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion nis hard to make people listen; they are consumed with their own thoughts and desires, and have little timefor yours. The trick to making them listen is to say what they want to hear, to fill their ears with whatever is pleasant to them. This is the essence of seductive language. Inflame people's emotions with loaded phrases, flatter them, comfort their insecurities, envelop them infantasies, sweet words, and promises, and not only will they listen to you, they will lose their will to resist you. Keep your language vague, letting them read into it what they want. Use writing to stir upfantasies and to create an idealized portrait of yourself. Seductive Oratory O n May 13, 1958, right-wing Frenchmen and their sympathizers in the army seized control of Algeria, which was then a French colony. They had been afraid that France's socialist government would grant Algeria its independence. Now, with Algeria under their control, they threatened to take over all of France. Civil war seemed imminent. At this dire moment all eyes turned to General Charles de Gaulle, the World War II hero who had played a crucial role in liberating France from the Nazis. For the last ten years de Gaulle had stayed away from politics, disgusted with the infighting among the various parties. He remained very popular, and was generally seen as the one man who could unite the country, but he was also a conservative, and the right-wingers felt certain that if he came to power he would support their cause. Days after the May 13 coup, the French government-the Fourth Republic-collapsed, and the parliament called on de Gaulle to help form a new government, the Fifth Republic. He asked for and was granted full powers for four months. On June 4, days after becoming the head of government, de Gaulle flew to Algeria. The French colonials were ecstatic. It was their coup that had indirectly brought de Gaulle to power; surely, they imagined, he was coming to thank them, and to reassure them that Algeria would remain French. When he arrived in Algiers, thousands of people filled the city's main plaza. The mood was extremely festive-there were banners, music, and endless chants of "Algerie jkmgaise," the French-colonial slogan. Suddenly de Gaulle appeared on a balcony overlooking the plaza. The crowd went wild. The general, an extremely tall man, raised his arms above his head, and the chanting doubled in volume. The crowd was begging him to join in. Instead he lowered his arms until silence fell, then opened them wide, and slowly intoned, in his deep voice, "Je vous ai compris "-I have understood you. There was a moment of quiet, and then, as his words sank in, a deafening roar: he understood them. That was all they needed to hear. De Gaulle proceeded to talk of the greatness of France. More cheers. He promised there would be new elections, and "with those elected representatives we will see how to do the rest." Yes, a new government, just what the crowd wanted-more cheers. He would "find the place for Algeria" in the French "ensemble." There must be "total discipline, without qualification and without conditions"-who could argue with that? He closed with a loud call: "Vive la Republique! Vive la France!" the emotional slogan that After Operation Sedition, we are being treated to Operation Seduction. -MAURICEKRIEGEL- VALRIMONT ON CHARLES DE GAULLE, SHORTLY AFTER THE GENERAL ASSUMED POWER My mistress staged a lockout. ... \ I went back to verses and compliments, \ My natural weapons. Soft words \ Remove harsh door-chains. There's magic in poetry, its power \ Can pull down the bloody moon, \ Turn bach the sun, make serpents burst asunder \ Or rivers flow upstream. \ Doors are no match for such spellbinding, the toughest \ Locks can be opeu-sesamed by its charms. \ But epic's a dead loss for me. I'll get nowhere with swift-footed \ Achilles, or with either of Atreus' sons. \ Old what's- his-name wasting twenty years on war and travel, \ Poor Hector dragged in the dust - \ No good. But lavish fine words on some young girl's profile \ And sooner or later shell tender herself as the fee, \ An ample reward for your  labors. So farewell, heroic \ Figures of legend-the quid \ Pro quo you offer won't tempt me. A bevy of beauties \ All swooning over my love-songs - that's what I want. -OVID, THE AMORES, TRANSLATED BY PETER GREEN When she has received a letter, when its sweet poison has entered her blood, then a word is sufficient to wake her love burst forth. . . . My personal presence will prevent ecstasy. If I am present only in a letter, then she can easily cope with me; to some extent, shemistakesme for a more universal creature who dwells in her love. Then, too, in a letter one can more readily havefree rein; in a letter I can throw myself at herfeet in superb fashion, etc.-something that would easily seem like nonsense if I did it in person, and the illusion would be lost. . . . • On the whole, letters are and will continue to be a priceless means of making an impression on a young girl; the dead letter of writing often has much more influence than the living word. A letter is a secretive communication; one is master of the situation, feels no pressure from anyone's actual presence, and I do believe a young girl would prefer to be alone with her ideal. - S0REN KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY, TRANSLATED BY HOWARD V. HONG AND EDNA H. HONG had been the rallying cry in the fight against the Nazis. Everyone shouted it back. In the next few days de Gaulle made similar speeches around Algeria, to equally delirious crowds. Only after de Gaulle had returned to France did the words of his speeches sink in: not once had he promised to keep Algeria French. In fact he had hinted that he might give the Arabs the vote, and might grant an amnesty to the Algerian rebels who had been fighting to force the French from the country. Somehow, in the excitement his words had created, the colonists had failed to focus on what they had actually meant. De Gaulle had duped them. And indeed, in the months to come, he worked to grant Algeria its independence-a task he finally accomplished in 1962. Interpretation. De Gaulle cared little about an old French colony, and about what it symbolized to some French people. Nor did he have any sympathy for anyone who fomented civil war. His one concern was to make France a modern power. And so, when he went to Algiers, he had a long-term plan: weaken the right-wingers by getting them to fight among themselves, and work toward Algerian independence. His short-term goal had to be to defuse the tension and buy himself some time. He would not lie to the colonials by saying he supported their cause-that would cause trouble back home. Instead he would beguile them with seductive oratory, intoxicate them with words. His famous "I have understood you" could easily have meant, "I understand what a danger you represent." But ajubi- lant crowd expecting his support read it the way they wanted. To keep them at a fever pitch, de Gaulle made emotional references-to the French Resistance during World War II, for example, and to the need for "discipline," a word with great appeal to right-wingers. He filled their ears with promises-a new government, a glorious future. He got them to chant, creating an emotional bond. He spoke with dramatic pitch and quivering emotion. His words created a kind of delirium. De Gaulle was not trying to express his feelings or speak the truth; he was trying to produce an effect. This is the key to seductive oratory. Whether you are talking to a single individual or to a crowd, try a little experiment: rein in your desire to speak your mind. Before you open your mouth, ask yourself a question: what can I say that will have the most pleasant effect on my listeners? Often this entails flattering their egos, assuaging their insecurities, giving them vague hopes for the future, sympathizing with their travails ("I have understood you"). Start off with something pleasant and everything to come will be easy: people's defenses will go down. They will grow amenable, open to suggestion. Think of your words as an intoxicating drug that will make people emotional and confused. Keep your language vague and ambiguous, letting your listeners fill in the gaps with their fantasies and imaginings. Instead of tuning you out, getting irritated or defensive, being impatient for you to shut up, they will be pliant, happy with your sweet-sounding words. Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion • 255 Seductive Writing O ne spring afternoon in the late 1830s, in a street in Copenhagen, a man named Johannes caught a glimpse of a beautiful young girl. Self- absorbed yet delightfully innocent, she fascinated him, and he followed her, from a distance, and found out where she lived. Over the next few weeks he made inquiries and found out more about her. Her name was Cordelia Wahl, and she lived with her aunt. The two led a quiet existence; Cordelia liked to read, and to be alone. Seducing young girls was Johannes's specialty, but Cordelia would be a catch; she had already turned down several eligible suitors. Johannes imagined that Cordelia might hunger for something more out of life, something grand, something resembling the books she had read and the daydreams that presumably filled her solitude. He arranged an introduction and began to frequent her house, accompanied by a friend of his named Edward. This young man had his own thoughts of courting Cordelia, but he was awkward, and strained to please her. Johannes, on the other hand, virtually ignored her, instead befriending her aunt. They would talk about the most banal things-farm life, whatever was in the news. Occasionally Johannes would veer off into a more philosophical discussion, for he had noticed, out of the corner of his eye, that on these occasions Cordelia would listen to him closely, while still pretending to listen to Edward. This went on for several weeks. Johannes and Cordelia barely spoke, but he could tell that he intrigued her, and that Edward irritated her to no end. One morning, knowing her aunt was out, he visited their house. It was the first time he and Cordelia had been alone together. As dryly and politely as possible, he proceeded to propose to her. Needless to say she was shocked and flustered. A man who had shown not the slightest interest in her suddenly wanted to marry her? She was so surprised that she referred the matter to her aunt, who, as Johannes had expected, gave her approval. Had Cordelia resisted, her aunt would have respected her wishes; but she did not. On the outside, everything had changed. The couple were engaged. Johannes now came to the house alone, sat with Cordelia, held her hand, talked with her. But inwardly he made sure things were the same. He remained distant and polite. He would sometimes warm up, particularly when talking about literature (Cordelia's favorite subject), but at a certain point he always went back to more mundane matters. He knew this frustrated Cordelia, who had expected that now he would be different. Yet even when they went out together, he took her to formal socials arranged for engaged couples. How conventional! Was this what love and marriage were supposed to be about, these prematurely aged people talking about houses and their own drab futures? Cordelia, who was shy at the best of times, asked Johannes to stop dragging her to these affairs. The battlefield was prepared. Cordelia was confused and anxious. Let wax pave the way for you, spread out on smooth tablets, \ Let wax go before as witness to your mind - \ Bring her your flattering words, words that ape the lover: \ And remember, whoever you are, to throw in some good \ Entreaties. Entreaties are what made Achilles give back \ Hector's Body to Priam; even an angry god \ Is moved by the voice of prayer. Make promises, what's the harm in \ Promising? Here's where anyone can play rich.... \ A persuasive letter's \ The thing to lead off with, explore her mind, \ Reconnoiter the landscape. A message scratched on an apple \ Betrayed Cydippe: she was snared by her own words. \ My advice, then, young men of Rome, is to learn the noble \ Advocate's arts-not only to let you defend \ Some trembling client: a woman, no less than the populace, \ Elite senator, or grave judge, \ Will surrender to eloquence. Nevertheless, dissemble \ Your powers, avoid long words, \ Don't look too highbrow. Who but a mindless ninny \ Declaims to his mistress? An overlettered style \ Repels girls as often as not. Use ordinary language, \ Familiar yet coaxing words -as though \ You were there, in her presence.If she refuses your letter, \ Sends it back unread, persist. - OVID, THE ART OF LOVE., GREEN Therefore, the person who is unable to write letters and notes never becomes a dangerous seducer. KIERKEGAARD, EITHER/OR. TRANSLATED BY HOWARD V. HONG AND EDNA H. HONG Standing on a crag of Olympus \ Gold-throned Hera saw her brother, \ Who was her husband's brother too, \ Busy on the fields of human glory, \ And her heart sang. Then she saw Zeus \ Sitting on the topmost peak of Ida \ And was filled with resentment. Cow-eyed Hera \ Mused for a while on how to trick \ The mind of Zeus Aegis-holder, \ And the plan that seemed best to her \ Was to make herself up and go to Ida, \ Seduce him, and then shed on his eyelids \ And cunning mind a sleep gentle and warm. . . . \ When everything was perfect, she stepped \ Out of her room and called Aphrodite \ And had a word with her in private: \ "My dear child, will you do something for me, \ I wonder, or will you refuse, angry because \ I favor the Greeks and you the Trojans?" \ And Zeus' daughter Aphrodite replied: \ "Goddess revered as Cronus's daughter, \ Speak your mind. Tell me what you want \And I'll oblige you if I possibly can." \And Hera, with every intention to deceive: \ "Give me now the Sex and Desire \ You use to subdue immortals and humans. ..." \And Aphrodite, who loved to smile: \ "How could I, or would I, refuse someone \ Who sleeps in the anus of Then, a few weeks after their engagement, Johannes sent her a letter. Here he described the state of his soul, and his certainty that he loved her. He spoke in metaphor, suggesting that he had been waiting for years, lantern in hand, for Cordelia's appearance; metaphor melted into reality, back and forth. The style was poetic, the words glowed with desire, but the whole was delightfully ambiguous-Cordelia could reread the letter ten times without being sure what it said. The next day Johannes received a response. The writing was simple and straightforward, but full of sentiment: his letter had made her so happy, Cordelia wrote, and she had not imagined this side to his character. He replied by writing that he had changed. He did not say how or why, but the implication was that it was because of her. Now his letters came almost daily. They were mostly of the same length, in a poetic style that had a touch of madness to it, as if he were intoxicated with love. He talked of Greek myth, comparing Cordelia to a nymph and himself to a river that fell in love with a maiden. His soul, he said, merely reflected back her image; she was all he could see or think of. Meanwhile he detected changes in Cordelia: her letters became more poetic, less restrained. Without realizing it she repeated his ideas, imitating his style and his imagery as if they were her own. Also, when they saw each other in person, she was nervous. He made a point of remaining the same, aloof and regal, but he could tell that she saw him differently, sensing depths in him that she could not fathom. In public she hung on his every word. She must have memorized his letters, for she referred to them constantly in their talks. It was a secret life they shared. When she held his hand, she did so more tightly than before. Her eyes expressed an impatience, as if she were hoping that at any moment he would do something bold. Johannes made his letters shorter but more numerous, sometimes sending several in one day. The imagery became more physical and more suggestive, the style more disjointed, as if he could barely organize his thoughts. Sometimes he sent a note of just a sentence or two. Once, at a party at Cordelia's house, he dropped such a note into her knitting basket and watched as she ran away to read it, her face flushed. In her letters he saw signs of emotion and turmoil. Echoing a sentiment he had hinted at in an earlier letter, she wrote that she hated the whole engagement business- it was so beneath their love. Everything was ready. Soon she would be his, the way he wanted it. She would break off the engagement. A rendezvous in the country would be simple to arrange-in fact she would be the one to propose it. This would be his most skillful seduction. Interpretation. Johannes and Cordelia are characters in the loosely autobiographical novel The Seducer's Diary (1843), by the Danish philosopher Spren Kierkegaard. Johannes is a most experienced seducer, who specializes in working on his victim's mind. This is precisely where Cordelia's previous Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion • 257 suitors have failed: they have begun by imposing themselves, a common mistake. We think that by being persistent, by overwhelming our targets with romantic attention, we are convincing them of our affection. Instead we are convincing them of our impatience and insecurity. Aggressive attention is not flattering because it is not personalized. It is unbridled libido at work; the target sees through it. Johannes is too clever to begin so obviously. Instead, he takes a step back, intriguing Cordelia by acting a little cold, and carefully creating the impression of a formal, somewhat secretive man. Only then does he surprise her with his first letter. Obviously there is more to him than she has thought, and once she has come to believe this, her imagination runs rampant. Now he can intoxicate her with his letters, creating a presence that haunts her like a ghost. His words, with their images and poetic references, are constantly in her mind. And this is the ultimate seduction: to possess her mind before moving to conquer her body. The story of Johannes shows what a weapon in a seducer's armory a letter can be. But it is important to learn how to incorporate letters in seduction. It is best not to begin your correspondence until at least several weeks after your initial contact. Let your victims get an impression of you: you seem intriguing, yet you show no particular interest in them. When you sense that they are thinking about you, that is the time to hit them with your first letter. Any desire you express for them will come as a surprise; their vanity will be tickled and they will want more. Now make your letters frequent, in fact more frequent than your personal appearances. This will give them the time and space to idealize you, which would be more difficult if you were always in their face. After they have fallen under your spell, you can always take a step back, making the letters fewer-let them think you are losing interest and they will be hungry for more. Design your letters as homages to your targets. Make everything you write come back to them, as if they were all you could think about-a delirious effect. Ifyoutell an anecdote, make it somehow relate to them. Your correspondence is a kind of mirror you are holding up to them-they get to see themselves reflected through your desire. If for some reason they do not like you, write to them as if they did. Remember: the tone of your letters is what will get under their skin. If your language is elevated, poetic, creative in its praise, it will infect them despite themselves. Never argue, never defend yourself, never accuse them of being heartless. That would ruin the spell. A letter can suggest emotion by seeming disordered, rambling from one subject to another. Clearly it is hard for you to think; your love has unhinged you. Disordered thoughts are exciting thoughts. Do not waste time on real information; focus on feelings and sensations, using expressions that are ripe with connotation. Plant ideas by dropping hints, writing suggestively without explaining yourself. Never lecture, never seem intellectual or superior-you will only make yourself pompous, which is deadly. Far better to speak colloquially, though with a poetic edge to lift the language above the commonplace. Do not become sentimental-it is tiring, and too almighty Zeus?" \ And with that she unbound from her breast \ An ornate sash inlaid with magical charms. \ Sex is in it, and Desire, and seductive \ Sweet Talk, that fools even the wise. Hera was fast approaching Gargarus, \ Ida's highest peak, when Zeus saw her. \ And when he saw her, lust enveloped him, \ Just as it had the first time they made love, \ Slipping off to bed behind their parents' backs. \ He stood close to her and said: \ "Hera, why have you left Olympus? \ And where are your horses and chariot?" \ And Hera, with every intention to deceive: \ "I'm off to visit the ends of the earth \ And Father Ocean and Mother Tethys \ Who nursed and doted on me in their house. And Zeus, clouds scudding about him: \ "You can go there later just as well. \ Let's get in bed now ami make love. \ No goddess or woman has ever \ Made me feel so overwhelmed with lust. I've never loved anyone as I love you now, \ Never been in the grip of desire so sweet. " \ And Hera, with every intention to deceive: \ "What a thing to say, my awesome lord. \ The thought of us lying down here on Ida \ Ami making love outdoors in broad daylight! \ What if one of the Immortals saw us \ Asleep, and went to all the other gods \Aud told them? I could never get up \ And go back home. It would be shameful. \ But if you really do want to do this, \ There is the bedroom your dear son Hephaestus \ Built for you, with good solid doors. Let's go \ There and lie down, since you're in the mood. And Zeus, who masses the clouds, replied: \ "Hera, don't worry about any god or man \ Seeing us. I'll enfold you in a cloud so dense \ And golden not even Helios could spy on us, \ And his light is the sharpest vision there is." -HOMER, THE ILIAD, TRANSLATED BY STANLEY LOMBARDO ANTONY: Friends, Romans, countrymen, lend me your ears; \ I come to bury Caesar, not to praise him. \ The evil that men do lives after them; \ The good is oft interred with their bones. \ So let it be with Caesar. ... \ I speak not to disprove what Brutus spoke, \ But here I am to speak what I do know. \ You all did love him once, not without cause. \ What cause withholds you then to mourn for him? \ O judgment, thou art fled to brutish beasts, \ And men have lost their reason! Bear with me. \ My heart is in the coffin there with Caesar, \And I must pause till it come back to me. . . . \ PLEBEIAN: Poor soul! his eyes are red asfi r e with weeping. \ PLEBEIAN: There's not a nobler man in Rome than Antony. \ PLEBEIAN: Now mark him. He begins again to speak. \ ANTONY: But yesterday the word of Caesar might \ Have stood against the world. Now lies he there, \ And none so poor to do him reverence. \ O masters! If I were disposed to stir \ Your hearts and minds to mutiny and rage, \ I should do Brutus wrong, and Cassius wrong, \ Who,youallknow,aredirect. Better to suggest the effect your target has on you than to gush about how you feel. Stay vague and ambiguous, allowing the reader the space to imagine and fantasize. The goal of your writing is not to express yourself but to create emotion in the reader, spreading confusion and desire. You will know that your letters are having the proper effect when your targets come to mirror your thoughts, repeating words you wrote, whether in their own letters or in person. This is the time to move to the more physical and erotic. Use language that quivers with sexual connotation, or, better still, suggest sexuality by making your letters shorter, more frequent, and even more disordered than before. There is nothing more erotic than the short abrupt note. Your thoughts are unfinished; they can only be completed by the other person. Sganarelle to Don Juan: Well, what I have to say is ... I don't know what to say; for you turn things in such a manner with your words, that it seems that you are right; and yet, the truth of it is, you are not. I had the finest thoughts in the world, and your words have totally scrambled them up. -MOLIERE Keys to Seduction W e rarely think before we talk. It is human nature to say the first thing that comes into our head-and usually what comes first is something about ourselves. We primarily use words to express our ownfeelings, ideas, and opinions. (Also to complain and to argue.) This is because we are generally self-absorbed-the person who interests us most is our own self. To a certain extent this is inevitable, and through much of our lives there is nothing much wrong with it; we can function quite well this way. In seduction, however, it limits our potential. You cannot seduce without an ability to get outside your own skin and inside another person's, piercing their psychology. The key to seductive language is not the words you utter, or your seductive tone of voice; it is a radical shift in perspective and habit. You have to stop saying the first thing that comes to your mind-you have to control the urge to prattle and vent your opinions. The key is to see words as a tool not for communicating true thoughts and feelings but for confusing, delighting, and intoxicating. The difference between normal language and seductive language is like the difference between noise and music. Noise is a constant in modern life, something irritating we tune out if we can. Our normal language is like noise-people may half-listen to us as we go on about ourselves, butjust as often their thoughts are a million miles away. Every now and then their ears prick up when something we say touches on them, but this lasts only until Use the Demonic Power of Words to SowConfusion • 259 we return to yet another story about ourselves. As early as childhood we leant to tune out this kind of noise (particularly when it comes from our parents). Music, on the other hand, is seductive, and gets under our skin. It is intended for pleasure. A melody or rhythm stays in our blood for days after we have heard it, altering our moods and emotions, relaxing or exciting us. To make music instead of noise, you must say things that please-things that relate to people's lives, that touch their vanity. If they have many problems, you can produce the same effect by distracting them, focusing their attention away from themselves by saying things that are witty and entertaining, or that make the future seem bright and hopeful. Promises and flattery are music to anyone's ears. This is language designed to move people and lower their resistance. It is language designed for them, not directed at them. The Italian writer Gabriele D'Annunzio was physically unattractive, yet women could not resist him. Even those who knew of his Don luan reputation and disliked him for it (the actress Eleanora Duse and the dancer Isadora Duncan, for instance) fell under his spell. The secret was the flow of words in which he enveloped a woman. His voice was musical, his language poetic, and most devastating of all, he knew how to flatter. His flattery was aimed precisely at a woman's weaknesses, the areas where she needed validation. A woman was beautiful, yet lacked confidence in her own wit and intelligence? He made sure to say that he was bewitched not by her beauty but by her mind. He might compare her to a heroine of literature, or to a chosen mythological figure. Talking to him, her ego would double in size. Flattery is seductive language in its purest form. Its purpose is not to express a truth or a real feeling, but only to create an effect on the recipient. Like D'Annunzio, learn to aim your flattery directly at a person's insecurities. For instance, if a man is a fine actor and feels confident about his professional skills, to flatter him about his acting will have little effect, and may even accomplish the opposite-he could feel that he is above the need to have his ego stroked, and your flattery will seem to say otherwise. But let us say that this actor is an amateur musician or painter. He does this work on his own, without professional support or publicity, and he is well aware that others make their living at it. Flattery of his artistic pretensions will go straight to his head and earn you double points. Learn to sniff out the parts of a person's ego that need validation. Make it a surprise, something no one else has thought to flatter before-something you can describe as a talent or positive quality that others have not noticed. Speak with a little tremor, as if your target's charms had overwhelmed you and made you emotional. Flattery can be a kind of verbal foreplay. Aphrodite's powers of seduction, which were said to come from the magnificent girdle she wore, involved a sweetness of language-a skill with the soft, flattering words that prepare the way for erotic thoughts. Insecurities and nagging self-doubts have a dampening effect on the libido. Make your targets feel secure and alluring through your flattering words and their resistance will melt away. honorable men. \ I will not do them wrong. . . . \ But here's a parchment with the seal of Caesar. \ I found it in his closet; 'tis his will. \ Let but the commons hear this testament, \ Which (pardon me) I do not mean to read, \And they would go and kiss dead Caesar's wounds \ And dip their napkins in his sacred blood. . . . \ PLEBEIAN: We'll hear the will! Read it, Mark Antony. \ ALL: The will, the will! We will hear Caesar's will! \ ANTONY: Have patience, gentle friends; I must not read it. \ It is not meet you know how Caesar loved you. \ You are not wood, you are not stones, but men; \ And being men, hearing the will of Caesar, \ It will inflame you, it will make you mad. \ 'Tis good you know not that you are his heirs; \ For if you should, O, what would come ofit?. . . \ If you have tears, prepare to shed them now. \ You all do know this mantle. I remember \ The first time ever Caesar put it on. .. . \ Look, in this place ran Cassius' dagger through. \ See what a rent the envious Casca made. \ Through this the well- beloved Brutus stabbed; \ And as he plucked his cursed steel away, \ Mark how the blood of Caesar followed it. . . . \ For Brutus, as you know, was Caesar's angel. \ Judge, O you gods, how dearly Caesar loved him! \ This was the most unkindest cut of all; \ For when the noble Caesar saw him stab, \ Ingratitude, more strong than traitors' arms, \ Quite vanquished him. . . . \ O, now you weep, and I perceive you feel \ The dint of pity. These are gracious 260 drops. \ Kind souls, what weep you when you but behold \ Our Caesar's vesture wounded? Look you here! \ Here is himself, marred as you see until traitors. -WILLIAM SHAKESPEARE, JULIUS CAESAR Sometimes the most pleasant thing to hear is the promise of something wonderful, a vague but rosy future that is just around the corner. President Franklin Delano Roosevelt, in his public speeches, talked little about specific programs for dealing with the Depression; instead he used rousing rhetoric to paint a picture of America's glorious future. In the various legends of Don Juan, the great seducer would immediately focus women's attention on the future, a fantastic world to which he promised to whisk them off. Tailor your sweet words to your targets' particular problems and fantasies. Promise something realizable, something possible, but do not make it too specific; you are inviting them to dream. If they are mired in dull routine, talk of adventure, preferably with you. Do not discuss how it will be accomplished; speak as if it magically already existed, somewhere in the future. Lift people's thoughts into the clouds and they will relax, their defenses will come down, and it will be that much easier to maneuver and lead them astray. Your words become a kind of elevating drug. The most anti-seductive form of language is argument. How many silent enemies do we create by arguing? There is a superior way to get people to listen and be persuaded: humor and a light touch. The nineteenth- century English politician Benjamin Disraeli was a master at this game. In Parliament, to fail to reply to an accusation or slanderous comment was a deadly mistake; silence meant the accuser was right. Yet to respond angrily, to get into an argument, was to look ugly and defensive. Disraeli used a different tactic: he stayed calm. When the time came to reply to an attack, he would slowly make his way to the speaker's table, pause, then utter a humorous or sarcastic retort. Everyone would laugh. Now that he had warmed people up, he would proceed to refute his enemy, still mixing in amusing comments; or perhaps he would simply move on to another subject, as if he were above it all. His humor took out the sting of any attack on him. Laughter and applause have a domino effect: once your listeners have laughed, they are more likely to laugh again. In this lighthearted mood they are also more apt to listen. A subtle touch and a bit of irony give you room to persuade them, move them to your side, mock your enemies. That is the seductive form of argument. Shortly after the murder of Julius Caesar, the head of the band of conspirators who had killed him, Brutus, addressed an angry mob. He tried to reason with the crowd, explaining that he had wanted to save the Roman Republic from dictatorship. The people were momentarily convinced- yes, Brutus seemed a decent man. Then Mark Antony took the stage, and he in turn delivered a eulogy for Caesar. He seemed overwhelmed with emotion. He talked of his love for Caesar, and of Caesar's love for the Roman people. He mentioned Caesar's will; the crowd clamored to hear it, but Antony said no, for if he read it they would know how deeply Caesar had loved them, and how dastardly this murder was. The crowd again insisted he read the will; insteadheheld up Caesar's bloodstained cloak, noting its rents and tears. This was where Brutus had stabbed the great general, he said; Cassius had stabbed him here. Then finally he read the will, which Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion • 261 told how much wealth Caesar had left to the Roman people. This was the coup de grace-the crowd turned against the conspirators and went off to lynch them. Antony was a clever man, who knew how to stir a crowd. According to the Greek historian Plutarch, "When he saw that his oratory had cast a spell over the people and that they were deeply stirred by his words, he began to introduce into his praises [of Caesar] a note of pity and of indignation at Caesar's fate." Seductive language aims at people's emotions, for emotional people are easier to deceive. Antony used various devices to stir the crowd: a tremor in his voice, a distraught and then an angry tone. An emotional voice has an immediate, contagious effect on the listener. Antony also teased the crowd with the will, holding off the reading of it to the end, knowing it would push people over the edge. Holding up the cloak, he made his imagery visceral. Perhaps you are not trying to whip a crowd into a frenzy; you just want to bring people over to your side. Choose your strategy and words carefully. You might think it is better to reason with people, explain your ideas. But it is hard for an audience to decide whether an argument is reasonable as they listen to you talk. They have to concentrate and listen closely, which requires great effort. People are easily distracted by other stimuli, and if they miss a part of your argument, they will feel confused, intellectually inferior, and vaguely insecure. It is more persuasive to appeal to people's hearts than their heads. Everyone shares emotions, and no one feels inferior to a speaker who stirs up their feelings. The crowd bonds together, everyone contagiously experiencing the same emotions. Antony talked of Caesar as if he and the listeners were experiencing the murder from Caesar's point of view. What could be more provocative? Use such changes of perspective to make your listeners feel what you are saying. Orchestrate your effects. It is more effective to move from one emotion to another than to just hit one note. The contrast between Antony's affection for Caesar and his indignation at the murderers was much more powerful than if he had stayed with one feeling or the other. The emotions you are trying to arouse should be strong ones. Do not speak of friendship and disagreement; speak of love and hate. And it is crucial to try to feel something of the emotions you are trying to elicit. You willbemorebelievablethat way. This should not be difficult: imagine the reasons for loving or hating before you speak. If necessary, think of something from your past that fills you with rage. Emotions are contagious; it is easier to make someone cry if you are crying yourself. Make your voice an instrument, and train it to communicate emotion. Learn to seem sincere. Napoleon studied the greatest actors of his time, and when he was alone he would practice putting emotion into his voice. The goal of seductive speech is often to create a kind of hypnosis: you are distracting people, lowering their defenses, making them more vulnerable to suggestion. Learn the hypnotist's lessons of repetition and affirmation, key elements in putting a subject to sleep. Repetition involves using 262 the same words over and over, preferably a word with emotional content: "taxes," "liberals," "bigots." The effect is mesmerizing-ideas can be permanently implanted in people's unconscious simply by being repeated often enough. Affirmation is simply the making of strong positive statements, like the hypnotist's commands. Seductive language should have a kind of boldness, which will cover up a multitude of sins. Your audience will be so caught up in your bold language that they won't have time to reflect on whether or not it is true. Never say "I don't think the other side made awise decision"; say "We deserve better," or "They have made a mess of things." Affirmative language is active language, full of verbs, imperatives, and short sentences. Cut out "I believe," "Perhaps," "In my opinion." Head straight for the heart. You are learning to speak a different kind of language. Most people employ symbolic language-their words stand for something real, the feelings, ideas, and beliefs they really have. Or they stand for concrete things in the real world. (The origin of the word "symbolic" lies in a Greek word meaning "to bring things together"-in this case, a word and something real.) As a seducer you are using the opposite: diabolic language. Your words do not stand for anything real; their sound, and the feelings they evoke, are more important than what they are supposed to stand for. (The word "diabolic" ultimately means to separate, to throw things apart-here, words and reality.) The more you make people focus on your sweet-sounding language, and on the illusions and fantasies it conjures, the more you diminish their contact with reality. You lead them into the clouds, where it is hard to distinguish truth from untruth, real from unreal. Keep your words vague and ambiguous, so people are never quite sure what you mean. Envelop them in demonic, diabolical language and they will notbe able to focus on your maneuvers, on the possible consequences of your seduction. And the more they lose themselves in illusion, the easier it will be to lead them astray and seduce them. Symbol: The Clouds. In the clouds it is hard to see the exact forms of things. Everything seems vague; the imagination runs wild, seeing things that are not there. Your words must lift people into the clouds, where it is easy for them to lose their way. Use the Demonic Power of Words to Sow Confusion • 263 Reversal D o not confuse flowery language with seduction: in using flowery language you run the risk of wearing on people's nerves, of seeming pretentious. Excess verbiage is a sign of selfishness, of your inability to rein in your natural tendencies. Often with language, less is more; the elusive, vague, ambiguous phrase leaves the listener more room for imagination than does a sentence full of bombast and self-indulgence. You must always think first of your targets, and of what will be pleasant to their ears. There will be many times when silence is best. What you do not say can be suggestive and eloquent, making you seem mysterious. In the eleventh-century Japanese court diary The Pillow Book ofSei Shonagon, the counselor Yoshichika is intrigued by a lady he sees in a carriage, silent and beautiful. He sends her a note, and she sends one back; he is the only one to read it, but by his reaction everyone can tell it is in bad taste, or badly written. It spoils the effect of her beauty. Shonagon writes, "I have heard people suggest that no reply at all is better than a bad one." If you are not eloquent, if you cannot master seductive language, at least learn to curb your tongue-use silence to cultivate an enigmatic presence. Finally, seduction has a pace and rhythm. In phase one, you are cautious indirect. It is often best to disguise your intentions, to put your target at ease with deliberately neutral words. Your conversation should be harmless, even a bit bland. In this second phase, you turn more to the attack; this is the time for seductive language. Now when you envelop them in your seductive words and letters, it comes as a pleasant surprise. It gives them the immensely pleasing feeling that they are the ones to suddenly inspire you with such poetry and intoxicating words. 11 Pay Attention to Detail Lofty words and grand gestures can be suspi: why are you trying so hard to please? The details of a seduction-the subtle gestures, the offhand things you do - are often more charming and revealing. You must learn to distract your victims with a myriad of pleasant little rituals-thoughtful gifts tailored just for them, clothes and adornments designed to please them, gestures that show the time and attention you are paying them. All of their senses are engaged in the details you orchestrate. Create spectacles to dazzle their eyes; mesmerized by what they see, they will not notice what you are really up to. Learn to suggest the proper feelings and moods through details. The Mesmerizing Effect I n December 1898, the wives of the seven major Western ambassadors to China received a strange invitation: the sixty-three-year-old Empress Dowager Tzu Hsi was hosting a banquet in their honor in the Forbidden City in Beijing. The ambassadors themselves had been quite displeased with the empress dowager, for several reasons. She was a Manchu, a race of northerners who had conquered China in the early seventeenth century, establishing the Ching Dynasty and ruling the country for nearly three hundred years. By the 1890s, the Western powers had begun to carve up parts of China, a country they considered backward. They wanted China to modernize, but the Manchus were conservative, and resisted all reform. Earlier in 1898, the Chinese Emperor Kuang Hsu, the empress dowager's twenty-seven-year-old nephew, had actually begun a series of reforms, with the blessings of the West. Then, one hundred days into this period of reform, word reached the Western diplomats from the Forbidden City that the emperor wasquiteill, and that the empress dowager had taken power. They suspected foul play; the empress had probably acted to stop the reforms. The emperor was being mistreated, probably poisoned- perhaps he was already dead. When the seven ambassadors' wives were preparing for their unusual visit, their husbands warned them: Do not trust the empress dowager. A wily woman with a cruel streak, she had risen from obscurity to become the concubine of a previous emperor and had managed over the years to accumulate great power. Far more than the emperor, she was the most feared person in China. On the appointed day, the women were borne into the Forbidden City a procession of sedan chairs carried by court eunuchs in dazzling uniforms. The women themselves, not to be outdone, wore the latest Western fashions-tight corsets, long velvet dresses with leg-of-mutton sleeves, billowing petticoats, tall plumed hats. The residents of the Forbidden City looked at their clothes in amazement, and particularly at the way their dresses displayed their prominent bosoms. The wives felt sure they had impressed their hosts. At the Audience Hall they were greeted by princes and princesses, as well as lower royalty. The Chinese women were wearing magnificent Manchu costumes with the traditional high, jewel-encrusted black headdresses; theywerearranged in a hierarchical order reflected in the color of their dresses, an astounding rainbow of color. The wives were served tea in the most delicate porcelain cups, then The barge she sat in, like a burnish'd throne, \Burn'd on the water: the poop was beaten gold; \ Purple the sails, and so perfumed that \ The winds were love-sick with them; the oars were silver, \ Which to the tune of flutes kept stroke, and made \ The water which they beat to follow faster, \ As amorous of their strokes. For her own person, \ It beggar'd all description: she did lie \ In her pavilion - cloth-of-gold of tissue - \ O'er picturing that Venus where we see \ The fancy outwork nature: on each side her \ Stood pretty dimpled boys, like smiling Cupids, \ With divers-colour'd fans, whose wind did seem \ To glow the delicate cheeks which they did cool, \ And what they undid did. . . . \ Her gentlewomen, like the Nereids, \ So many mermaids, tended her i' the eyes, \ And made their bends adornings: at the helm \ A seeming mermaid steers: the silken tackle \ Swell with the touches of those flower-soft hands \ That yarely frame the office. From the barge \A strange invisible perfume hits the sense \ Of the adjacent wharfs. The city cast \ Her people out upon her; and Antony, \ Enthron'd i' the marketplace, did sit alone, \ Whistling to the air; which, butfor vacancy, \ Hadgone to gaze on Cleopatra too \ And made a gap in nature. -WILLIAM SHAKESPEARE, ANTONY AND CLEOPATRA In the palmy days of the gay quarters at Edo there was a connoisseur of fashion named Sakakura who grew intimate with the great courtesan Chitose. This woman was much given to drinking sake; as a side dish she relished the so-called flower crabs, to be found in the Mogami River in the East, and these she had pickled in salt for her enjoyment. Knowing this, Sakakura commissioned a painter of the Kano School to execute her bamboo crest in powdered gold on the tiny shells of these crabs; he fixed the price of each painted shell at one rectangular piece of gold, and presented them to Chitose throughout the year, so that she never lacked for them. -IHARA SAIKAKU, THE LIFE OF AN AMOROUS WOMAN. AND OTHER WRITINGS For such men as have practised love, have ever held this a sound maxim that there is naught to be compared with a woman in her clothes. Again when you reflect how a man doth brave, rumple, squeeze and make light of his lady's finery, and how he doth were escorted into the presence of the empress dowager. The sight took their breath away. The empress was seated on the Dragon Throne, which was studded with jewels. She wore heavily brocaded robes, a magnificent headdress bearing diamonds, pearls, andjade, and an enormous necklace of perfectly matched pearls. She was a tiny woman, but on the throne, in that dress, she seemed a giant. She smiled at the ladies with much warmth and sincerity. To their relief, seated below her on a smaller throne was her nephew the emperor. He looked pale, but he greeted them enthusiastically and seemed in good spirits. Maybe he was indeed simply ill. The empress shook the hand of each of the women. As she did so, an attendant eunuch handed her a large gold ring set with a large pearl, which she slipped onto each woman's hand. After this introduction, the wives were escorted into another room, where they again took tea, and then were led into a banqueting hall, where the empress now sat on a chair of yellow satin-yellow being the imperial color. She spoke to them for a while; she had a beautiful voice. (It was said that her voice could literally charm birds out of trees.) At the end of the conversation, she took the hand of each woman again, and with much emotion, told them, "One family-all one family." The women then saw a performance in the imperial theater. Finally the empress received them one last time. She apologized for the performance they had just seen, which was certainly inferior to what they wereusedto in the West. There was one more round of tea, and this time, as the wife of the American ambassador reported it, the empress "stepped forward and tipped each cup of tea to her own lips and took a sip, then lifted the cup on the other side, to our lips, and said again, 'One family-all one family' " The women were given more gifts, then were escorted back to their sedan chairs and borne out of the Forbidden City. The women relayed to their husbands their earnest belief that they had all been wrong about the empress. The American ambassador's wife reported, "She was bright and happy and her face glowed with good will. There was no trace of cruelty to be seen. . . . Her actions were full of freedom and warmth. [We left] full of admiration for her majesty and hopes for China." The husbands reported back to their governments: the emperor was fine, and the empress could be trusted. Interpretation. The foreign contingent in China had no idea what was really happening in the Forbidden City. In truth, the emperor had conspired to arrest and possibly murder his aunt. Discovering the plot, a terrible crime in Confucian terms, she forced him to sign his own abdication, had him confined, and told the outside world that he was ill. As part of his punishment, he was to appear at state functions and act as if nothing had happened. The empress dowager loathed Westerners, whom she considered barbarians. She disliked the ambassadors' wives, with their ugly fashions and simpering ways. The banquet was a show, a seduction, to appease the West- Pay Attention to Detail • 269 ern powers, which had been threatening invasion if the emperor had been killed. The goal of the seduction was simple: dazzle the wives with color, spectacle, theater. The empress applied all her expertise to the task, and she was a genius for detail. She had designed the spectacles in a rising order- the uniformed eunuchs first, then the Manchu ladies in their headdresses, and finally the empress herself. It was pure theater, and it was overwhelming. Then the empress brought the spectacle down a notch, humanizing it with gifts, warm greetings, the reassuring presence of the emperor, teas, and entertainments, which were in no way inferior to anything in the West. She ended the banquet on another high note-the little drama with the sharing of the teacups, followed by even more magnificent gifts. The women's heads were spinning when they left. In truth they had never seen such exotic splendor-and they never understood how carefully its details had been orchestrated by the empress. Charmed by the spectacle, they transferred their happy feelings to the empress and gave her their approvalallthatsherequired.The key to distracting people (seduction is distraction) is to fill their eyes and ears with details, little rituals, colorful objects. Detail is what makes things seem real and substantial. A thoughtful gift won't seem to have an ulterior motive. A ritual full of charming little actions is so enjoyable to watch. Jewelry, handsome furnishings, touches of color in clothing, dazzle the eye. It is a childish weakness of ours: we prefer to focus on the pleasant little details rather than on the larger picture. The more senses you appeal to, the more mesmerizing the effect. The objects you use in your seduction (gifts, clothes, etc.) speak their own language, and it is a powerful one. Never ignore a detail or leave one to chance. Orchestrate them into a spectacle and no one will notice how manipulative you are being. The Sensuous Effect O ne day a messenger told Prince Genji-the aging but still consummate seducer in the Heian court of late-tenth-century Japan-that one of his youthful conquests had suddenly died, leaving behind an orphan, a young woman named Tamakazura. Genji was not Tamakazura s father, but he decided to bring her to court and be her protector anyway. Soon after her arrival, men of the highest rank began to woo her. Genji had told everyone she was a lost daughter of his; as a result, they assumed that she was beautiful, for Genji was the handsomest man in the court. (At the time, men rarely saw a young girl's face before marriage; in theory, they were allowed to talk to her only if she was on the other side of a screen.) Genji showered her with attention, helping her sort through all the love letters she was receiving and advising her on the right match. As Tamakazura's protector, Genji was able to see her face, and she was indeed beautiful. He fell in love with her. What a shame, he thought, to give this lovely creature away to another man. One night, overwhelmed by work ruin and loss to the grand cloth ofgold and web of silver, to tinsel and silken stuffs, pearls and precious stones, 'tis plain how his ardour and satisfaction be increased manifold-far more than with some simple shepherdess or other woman of like quality, be she as fair as she may. • And why of yore was Venus found so fair and so desirable, if not that with all her beauty she was always gracefully attired likewise, and generally scented, that she did ever smell sweet an hundred paces away? For it hath ever been held of all how that perfumes be a great incitement to love. • This is the reason why the Empresses and great dames of Rome did make much usage of these perfumes, as do likewise our great ladies of France-and above all those of Spain and Italy, which from the oldest times have been more curious and more exquisite in luxury than Frenchwomen, as well in perfumes as in costumes and magnificent attire, whereof thefair ones of France have since borrowed the patterns and copied the dainty workmanship. Moreover the others, Italian and Spanish, had learned the samefrom old models and ancient statues of Roman ladies, the which are to be seen among sundry other antiquities yet extant in Spain and Italy; the which, if any man will regard them carefully, will befound very perfect in mode of hair-dressing and fashion of robes, and very meet to incite love. -SEIGNEUR DE BRANTOME, LIVES OF FAIR & GALLANT LADIES. For years after her entry into the palace, a large number of court-maidens were especially set aside for preparing Kuei-fei 's dresses, which were chosen and fashioned according to the flowers of the season. For instance, for New Year (spring) she had blossoms of apricot, plum and narcissus; for summer, she adopted the lotus; for autumn, she patterned them after the peony; for winter, she employed the chrysanthemum. Of jewelry she was fondest of pearls, and the finest products of the world found their way into her boudoir and were frequently embroidered on her numerous dresses. • Kuei- fei was the embodiment of all that was lovely and extravagant.Nowonder that no king, prince, courtier or humble attendant who ever met her could resist the allurementof her charms. Besides, she was the most artful of women and knew how to use her natural gifts to the best purpose. The Emperor Ming Huang, supreme in the land and with thousands of the most handsome maidens to choose from, became a complete slave to her magnetic powers . . . spending day and night in her company and giving up his whole kingdom for her sake. - SHU-CHIUNG, YANG KUEI- FEI: THE MOST FAMOUS BEAUTY OF CHINA Then [ Pao-yu ] called Bright Design to him and said to her, "Go and see what [Black Jade ] is doing. If she asks about me, just say that I am quite all her charms, he held her hand and told her how much she resembled her mother, whom he once had loved. She trembled-not with excitement, however, but with fear, for although he was not her father, he was supposed to be her protector, not a suitor. Her attendants were away and it was a beautiful night. Genji silently threw off his perfumed robe and pulled her down beside him. She began to cry, and to resist. Always a gentleman, Genji told her that he would respect her wishes, he would always care for her, and she had nothing to fear. He then politely excused himself. Several days later Genji was helping Tamakazura with her correspondence when he read a love letter from his younger brother. Prince Hotaru, who numbered among her suitors. In the letter, Hotaru berated Tamakazura for not letting him get physically close enough to talk to her and tell her his feelings. Tamakazura had not replied; unused to the manners of the court, she had felt shy and intimidated. As if to help her, Genji got one of his servants to write to Hotaru in her name. The letter, written on beautiful perfumed paper, warmly invited the prince to visit her. Hotaru appeared at the appointed hour. He smelled a beguiling incense, mysterious and seductive. (Mixed into this scent was Genji's own perfume.) The prince felt a wave of excitement. Approaching the screen behind which Tamakazura sat, he confessed his love for her. Without making a sound, she retreated to another screen, farther away. Suddenly there was a flash of light, as if a torch had flared up, and Hotaru saw her profile behind the screen: she was more beautiful than he had imagined. Two things delighted the prince: the sudden, mysterious flash of light, and the brief glimpse of his beloved. Now he was truly in love. Hotaru began to court her assiduously. Meanwhile, feeling reassured that Genji was no longer chasing her, Tamakazura saw her protector more often. And now she could not help noticing little details: Genji's robes seemed to glow, in pleasing and vibrant colors, as if dyed by unworldly hands. Hotaru's robes seemed drab by comparison. And the perfumes burned into Genji's garments, how intoxicating they were. No one else bore such a scent. Hotaru's letters were polite and well written, but the letters Genji sent her were on magnificent paper, perfumed and dyed, and they quoted lines of poetry, always surprising yet always appropriate for the occasion. Genji also grew and gathered flowers-wild carnations, for instance-that he gave as gifts and that seemed to symbolize his unique charm. One evening Genji proposed to teach Tamakazura how to play the koto. She was delighted. She loved to read romance novels, and whenever Genji played the koto, she felt as if she were transported into one of her books. No one played the instrument better than Genji; she would be honored to leam from him. Now he saw her often, and the method of his lessons was simple: she would choose a song for him to play, and then would try to imitate him. After they played, they would lie down side by side, their heads resting on the koto, staring up at the moon. Genji would have torches set up in the garden, giving the view the softest glow. The more Tamakazura saw of the court-of Prince Hotaru, the other Pay Attention to Detail • 271 suitors, the emperor himself-themore she realized that none could compare to Genji. He was supposed to be her protector, yes, that was still true, but was it such a sin to fall in love with him? Confused, she found herself giving in to the caresses and kisses that he began to surprise her with, now that she was too weak to resist. Interpretation. Genji is the protagonist in the eleventh-century novel The Tale of Genji, written by Murasaki Shikibu, a woman of the Heian court. The character was most likely inspired by the real-life seducer Fujiwara no Korechika. In his seduction of Tamakazura, Genji's strategy was simple: he would make her realize indirectly how charming and irresistible he was by surrounding her with unspoken details. He also brought her in contact with his brother; comparison with this drab, stiff figure would make Genji's superiority clear. The night Hotaru first visited her, Genji set everything up, as if to support Hotaru's seducing-the mysterious scent, then the flash of light by the screen. (The light came from a novel effect: earlier in the evening, Genji had collected hundreds of fireflies in a cloth bag. At the proper moment he let them all go at once.) But when Tamakazura saw Genji encouraging Hotaru's pursuit of her, her defenses against her protector relaxed, allowing her senses to be filled by this master of seductive effects. Genji orchestrated every possible detail-the scented paper, the colored robes, the lights in the garden, the wild carnations, the apt poetry, the koto lessons which induced an irresistible feeling of harmony. Tamakazura found herself dragged into a sensual whirlpool. Bypassing the shyness and mistrust that words or actions would only have worsened, Genji surrounded his ward with objects, sights, sounds, and scents that symbolized the pleasure of his company far more than his actual physical presence would have-in fact his presence could only have been threatening. He knew that a young girl's senses are her most vulnerable point. The key to Genji's masterful orchestration of detail was his attention to the target of his seduction. Like Genji, you must attune your own senses to your targets, watching them carefully, adapting to their moods. You sense when they are defensive and retreat. You also sense when they are giving in, and move forward. In between, the details you set up-gifts, entertainments, the clothes you wear, the flowers you choose-are aimed precisely at their tastes and predilections. Genji knew he was dealing with a young girl who loved romantic novels; his wild flowers, koto playing, and poetry brought their world to life for her. Attend to your targets' every move and desire, and reveal your attentiveness in the details and objects you surround them with, filling their senses with the mood you need to inspire. They can argue with your words, but not with the effect you have on their senses. right now. " • "You'll have to think of a better excuse than that," Bright Design said. "Isn't there anything that you can send or want to borrow? I don't want to go there and feel like a fool without anything to say. " • Pao-yu thought for a moment and then took two handkerchiefs from under his pillow and gave them to the maid, saying, "Well then, tell her that I sent you with these," • "What a strange present to send" the maid smiled. "What does she want two old handkerchiefs for? She will be angry again and say that you are trying to make fun of her." • "Don't worry" Pao-yu assured her. "She will understand." • Black Jade had already retired when Bright Design arrived at the Bamboo Retreat. "What brought you at this hour?" Black Jade asked. • "[Pao-yu] asked me to bring these handkerchiefs for [Black Jade]." • For a moment Black Jade was at a loss to see why Pao-yu should send her such a present at that particular moment. She said, "I suppose they must be something unusual that somebody gave him. Tell him to keep them himself or give them to someone who will appreciate them. I have no need of them." • "They are nothing unusual," Bright Design said. "Just twoordinaryhandkerchiefs that he happened to have around. " Black Jade was even more puzzled, and then it suddenly dawned upon her: Pao-yu knew that she would weep for him and so sent two handkerchiefs of his own. • "You can leave them, then," she said to Bright Design, who in turn was272 surprised that Black Jade did not take offense at what seemed to her a crude joke. • As Black Jade thought over the significance of the handkerchiefs she was happy and sad by turns: happy because Pao- yu read her innermost thoughts and sad because she wondered if what was uppermost in her thoughts would ever befulfdled. Thinking thus to herself of the future and of the past, she could notfall asleep. Despite Purple Cuckoo's remonstrances, she had her lamp relit and began to compose a series of quatrains, writing them directly on the handkerchiefs which Pao-yu had sent. - TSAO HSUEH CHIN, DREAM OF THE RED CHAMBER , Therefore in my view when the courtier wishes to declare his love he should do so by his actions rather than by speech, for a man's feelings are sometimes more clearly revealed by ... a gesture of respect or a certain shyness than by volumes of words. CASTIGLIONE Keys to Seduction W hen we were children, our senses were much more active. The colors of a new toy, or a spectacle such as a circus, held us in thrall; a smell or a sound could fascinate us. In the games we created, many of them reproducing something in the adult world on a smaller scale, what pleasure we took in orchestrating every detail. We noticed everything. As we grow older our senses get dulled. We no longer notice as much, for we are constantly hurrying to get things done, to move on to the next task. In seduction, you are always trying to bring the target back to the golden moments of childhood. A child is less rational, more easily deceived. A child is also more attuned to the pleasures of the senses. So when your targets are with you, you must never give them the feeling they normally get in the real world, where we are all rushed, ruthless, out for ourselves. You need to deliberately slow things down, and return them to the simpler times of their youth. The details that you orchestrate-colors, gifts, little ceremonies-are aimed at their senses, at the childish delight we take in the immediate charms of the natural world. Their senses filled with delightful things, they grow less capable of reason and rationality. Pay attention to detail and you will find yourself assuming a slower pace; your targets will not focus on what you might be after (sexual favors, power, etc.) because you seem so considerate,soattentive.In the childish realm of the senses in which you envelop them, they get a clear sense that you are involving them in something distinct from the real world-an essential ingredient of seduction. Remember: the more you get people to focus on the little things, the less they will notice your larger direction. The seduction will assume the slow, hypnotic pace of a ritual, in which the details have a heightened importance and the moments are full of ceremony. In eighth-century China, Emperor Ming Huang caught a glimpse of a beautiful young woman, combing her hair beside an imperial pool. Her name was Yang Kuei-fei, and even though she was the concubine of the emperor's son, he had to have her for himself. Since he was emperor, nobody could stop him. The emperor was a practical man-he had many concubines, and they all had their charms, but he had never lost his head over a woman. Yang Kuei-fei, though, was different. Her body exuded the most wonderful fragrance. She wore gowns made of the sheerest silk gauze, each embroidered with different flowers, depending on the season. In walking she seemed to float, her tiny steps invisible beneath her gown. She Pay Attention to Detail• 273 danced to perfection, wrote songs in Ms honor that she sang magmficently, had a way of looking at him that made Ms blood boil with desire.She quickly became Ms favorite. Yang Kuei-fei drove the emperor to distraction. He built palaces for her, spent all Ms time with her, satisfied her every whim. Before long Ms kingdom was bankrupt and ruined. Yang Kuei-fei was an artful seductress who had a devastating effect on all of the men who crossed her path. There were so many ways her presence charmed-the scents, the voice, the movements, the witty conversation, the artful glances, the embroidered gowns. These pleasurable details turned a mighty king into a distracted baby. Since time immemorial, women have known that within the most apparently self-possessed man is an animal whom they can lead by filling Ms senses with the proper physical lures. The key is to attack on as many fronts as possible. Do not ignore your voice, your gestures, your walk, your clothes, your glances. Some of the most alluring women in history have so distracted their victims with sensual detail that the men fail to notice it is all an illusion. From the 1940s on into the early 1960s, Pamela Churchill Harriman had a series of affairs with some of the most prominent and wealthy men in the world-Averill Harriman (whom years later she married), Gianni Agnelli (heir to the Fiat fortune), Baron Elie de Rothschild. What attracted these men, and kept them in tMall, was not her beauty or her lineage or her vivacious personality, but her extraordinary attention to detail. It began with her attentive look as she listened to your every word, soaking up your tastes. Once she found her way into your home, she would fill it with your favorite flowers, get your chef to cook that dish you had tasted only in the finest restaurants. You mentioned an artist you liked? A few days later that artist would be attending one of your parties. She found the perfect antiques for you, dressed in the way that most pleased or excited you, and she did this without your saying a word-she spied, gathered information from third parties, overheard you talking to someone else. Harriman's attention to detail had an intoxicating effect on all the men in her life. It had something in common with the pampering of a mother, there to bring order and comfort into their lives, attending to their needs. Life is harsh and competitive. Attending to detail in a way that is soothing to the other person makes them dependent upon you. The key is probing their needs in a way that is not too obvious, so that when you make precisely the right gesture, it seems uncanny, as if you had read their mind. This is another way of returning your targets to childhood, when all of their needs were met. In the eyes of women all over the world, Rudolph Valentino reigned as the Great Lover through much of the 1920s. The qualities behind Ms appeal certainly included Ms handsome, almost pretty face, Ms dancing skills, the strangely exciting streak of cruelty in Ms manner. But his perhaps most endearing trait was his time-consuming approach to courtship. His films would show him seducing a woman slowly, with careful details- sending her flowers (choosing the variety to match the mood he wanted to 274 The Art of Seduction induce), taking her hand, lighting her cigarette, escorting her to romantic places, leading her on the dance floor. These were silent movies, and his audiences never got to hear him speak-it was all in his gestures. Men came to hate him, for their wives and girlfriends now expected the slow, careful Valentino treatment. Valentino had a feminine streak; it was said that he wooed a woman the way another woman would. But femininity need not figure in this approach to seduction. In the early 1770s, Prince Gregory Potemkin began an affair with Empress Catherine the Great of Russia that was to last many years. Potemkin was a manly man, and not at all handsome. But he managed to win the empress's heart by the many little things he did, and continued to do long after the affair had begun. He spoiled her with wonderful gifts, never tired of writing her long letters, arranged for all kinds of entertainments forher, composed songs to her beauty. Yet he would appear before her barefoot, hair uncombed, clothes wrinkled. There was no kind of fussiness in his attention, which, however, did make it clear he would go to the ends of the earth for her. A woman's senses are more refined than a man's; to a woman, Yang Kuei-fei's overt sensual appeal would seem too hurried and direct. What that means, though, is that all the man really has to do is take it slowly, making seduction a ritual full of all kinds of little things he has to do for his target. If he takes his time, he will have her eating out of his hand. Everything in seduction is a sign, and nothing more so than clothes. It is not that you have to dress interestingly, elegantly, or provocatively, but that you have to dress for your target-have to appeal to your target's tastes. When Cleopatra was seducing Mark Antony, her dress was not brazenly sexual; she dressed as a Greek goddess, knowing his weakness for such fantasy figures. Madame de Pompadour, the mistress of King Louis XV, knew the king's weakness, his chronic boredom; she constantly wore different clothes, changing not only their color but their style, supplying the king with a constant feast for his eyes. Pamela Harriman was subdued in the fashions she wore, befitting her role as a high-society geisha and reflecting the sober tastes of the men she seduced. Contrast works well here; at work or at home, you might dress nonchalantly-Marilyn Monroe, for example, wore jeans and a T-shirt at home-but when you are with the target you wear something elaborate, as if you were putting on a costume. Your Cinderella transformation will stir excitement, and the feeling that you have done somethingjust for the person you are with. Whenever your attention is individualized (you would not dress like that for anyone else), it is infinitely more seductive. In the 1870s, Queen Victoria found herself wooed by Benjamin Disraeli, her own prime minister. Disraeli's words were flattering and his manner insinuating; he also sent her flowers, valentines, gifts-but not just any flowers or gifts, the kind that most men would send. The flowers were primroses, symbols of their simple yet beautiful friendship. From then on, whenever Victoria saw a primrose she thought of Disraeli. Or he would Pay Attention to Detail • 275 write on a valentine that he, "no longer in the sunset, but the twilight of his existence, must encounter a life of anxiety and toil; but this, too, has its romance, when he remembers that he labors for the most gracious of beings!" Or he might send her a little box, with no inscription, but with a heart transfixed by an arrow on one side and the word "Fideliter," or "Faithfully,"onthe other. Victoria fell in love with Disraeli. A gift has immense seductive power, but the object itself is less important than the gesture, and the subtle thought or emotion that it communicates. Perhaps the choice relates to something from the target's past, or symbolizes something between you, or merely represents the lengths you will go to to please. It was not the money Disraeli spent that impressed Victoria, but the time he took to find the appropriate thing or make the appropriate gesture. Expensive gifts have no sentiment attached; they may temporarily excite their recipient but they are quickly forgotten, as a child forgets a new toy. The object that reflects its giver's attentiveness has a lingering sentimental power, which resurfaces every time its owner sees it. In 1919, the Italian writer and war hero Gabriele D'Annunzio managed to put together a band of followers and take over the town of Fiume, on the Adriatic coast (now part of Slovenia). They established their own government there, which lasted for over a year. D'Annunzio initiated a series of public spectacles that were to be immensely influential on politicians elsewhere. He would address the public from a balcony overlooking the town's main square, which would be full of colorful banners, flags, pagan religious symbols, and, at night, torches. The speeches would be followed by processions. Although D'Annunzio was not at all a Fascist, what he did in Fiume crucially affected Benito Mussolini, who borrowed his Roman salutes, his use of symbols, his mode of public address. Spectacles like these have been used since then by governments everywhere, even democratic ones. Their overall impression may be grand, but it is the orchestrated details that make them work-the number of senses they appeal to, the variety of emotions they stir. You are aiming to distract people, and nothing is more distracting than a wealth of detail-fireworks, flags, music, uniforms, marching soldiers, the feel of the crowd packed together. It becomes difficult to think straight, particularly if the symbols and details stir up patriotic emotions. Finally, words are important in seduction, and have a great deal of power to confuse, distract, and boost the vanity of the target. But what is most seductive in the long run is what you do not say, what you communicate indirectly. Words come easily, and people distrust them. Anyone can say the right words; and once they are said, nothing is binding, and they may even be forgotten altogether. The gesture, the thoughtful gift, the little details seem much more real and substantial. They are also much more charming than lofty words about love, precisely because they speak for themselves and let the seduced read into them more than is there. Never tell someone what you are feeling; let them guess it in your looks and gestures. That is the more convincing language. 276 Symbol: The Banquet. A feast has been prepared in your honor. Everything has been elaborately coordinated-the flowers, the decorations, the selection of guests, the dancers, the music, the five-course meal, the endlessly flowing wine. The Banquet loosens your tongue, and also your inhibitions. Reversal T here is no reversal. Details are essential to any successful seduction, and cannot be ignored. 12 Poeticize Your Presence Important things happen when your targets are alone: the slightestfeeling of relief that you are not there, and it is all over. Familiarity and overexposure will cause this reaction. Remain elusive, then, so that when you are away, they will yearn to see you again, and will associate you only with pleasant thoughts. Occupy their minds by alternating an exciting presence with a cool distance, exuberant moments followed by calculated absences. Associate yourself with poetic images and objects, so that when they think ofyou, they begin to see you through an idealized halo. The more you figure in their minds, the more they will envelop you in seductive fantasies. Feed these fantasies by subtle inconsistencies and changes inyour behavior. Poetic Presence/Absence I n 1943, the Argentine military overthrew the government. A popular forty-eight-year old colonel, Juan Peron, was named secretary of labor and social affairs. Peron was a widow who had a fondness for young girls; at the time of his appointment he was involved with a teenager whom he introduced to one and all as his daughter. One evening in January of 1944, Peron was seated among the other military leaders in a Buenos Aires stadium, attending an artists' festival. It was late and there were some empty seats around him; out of nowhere two beautiful young actresses asked his permission to sit down. Were they joking? He would be delighted. He recognized one of the actresses-it was Eva Duarte, a star of radio soap operas whose photograph was often on the covers of the tabloids. The other actress was younger and prettier, but Peron could not take his eyes off Eva, who was talking to another colonel. She was really not his type at all. She was twenty-four, far too old for his taste; she was dressed rather garishly; and there was something a little icy in her manner. But she looked at him occasionally, and her glance excited him. He looked away for a moment, and the next thing he knew she had changed seats and was sitting next to him. They started to talk. She hung on his every word. Yes, everything he said was precisely how she felt-the poor, the workers, they were the future of Argentina. She had known poverty herself. There were almost tears in her eyes when she said, at the end of the conversation, "Thank you for existing." In the next few days, Eva managed to get rid of Peron's "daughter" and establish herself in his apartment. Everywhere he turned, there she was, fixing him meals, caring for him when he was ill, advising him on politics. Why did he let her stay? Usually he would have a fling with a superficial young girl, then get rid of her when she seemed to be sticking around too much. But there was nothing superficial about Eva. As time went by he found himself getting addicted to the feeling she gave him. She was intensely loyal, mirroring his every idea, puffing him up endlessly. He felt more masculine in her presence, that was it, and more powerful-she believed he would make the country's ideal leader, and her belief affected him. She was like the women in the tango ballads he loved so much-the suffering women of the streets who became saintly mother figures and looked after their men. Peron saw her every day, but he never felt he fully knew her; one day her comments were a little obscene, the next she was He who does not know how to encircle a girl so that she loses sight of everything he does not want her to see, he who does not know how to poetize himself into a girl so that it isfrom her that everything proceeds as he wants it-he is and remains a bungler. To poetize oneself into a girl is an art. KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. What else? If she's out, reclining in her litter, \ Make your approach discreet, \ And-just to fox the sharp ears of those around you - \ Cleverly riddle each phrase \ With ambiguous subtleties. If she's taking a leisurely \ Stroll down the colonnade, then you stroll there too - \ Vary your pace to hers, march ahead, drop behind her, \ Dawdling and brisk by turns. Be bold, \ Dodge in round the columns between you, brush your person \ Lingeringly past hers. You must never fail \ 279 280 To attend the theater when she does, gaze at her beauty - \ From the shoulders up she's time \ Most delectably spent, a feast for adoring glances, \ For the eloquence of eyebrows, the speaking sign. \ Applaud when some male dancer struts on as the heroine, \ Cheer for each lover's role. \ When she leaves, leave too-but sit there as long as she does: \ Waste time at your mistress's whim. Get her accustomed to you; \ Habit's the key, spare no pains till that's achieved. \ Let her always see you around, always hear you talking, \ Showher your face night and day. \ When you're confident you'll be missed, when your absence \ Seems sure to cause her regret, \ Then give her some respite: a field improves when fallow, \ Parched soil soaks up the rain. \ Demophoon 's presence gave Phyllis no more than mild excitement; \ It was his sailing caused arson in her heart. \ Penelope was racked by crafty Ulysses's absence, \ Protesilaus, abroad, made Laodameia burn. \ Short partings do best, though: time wears out affections, \ The absent lovefades, a new one takes its place. \ With Menelaus away, Helen's disinclination for sleeping \ Alone led her into her guest's \ Warm bed at night. Were you crazy, Menelaus? - OVID, THE ART OF LOVE. Concerning the Birth of Love • Here is what happens in the soul: • 1. Admiration. • 2. You think, "Mow delightful it the perfect lady. He had one worry: she was angling to get married, and he could never marry her-she was an actress with a dubious past. The other colonels were already scandalized by his involvement with her. Nevertheless, the affair went on. In 1945, Peron was dismissed from his post and jailed. The colonels feared his growing popularity and distrusted the power of his mistress, who seemed to have total influence over him. It was the first time in almost two years that he was truly alone, and truly separated from Eva. Suddenly he felt new emotions sweeping over him: he pinned her photographs all over the wall. Outside, massive strikes were being organized to protest his imprisonment, but all he could think about was Eva. She was a saint, a woman of destiny, a heroine. He wrote to her, "It is only being apart from loved ones that we can measure our affection. From the day I left you ... I have not been able to calm my sad heart. . . . My immense solitude is full of your memory." Now he promised to marry her. The strikes grew in intensity. After eight days, Peron was released from prison; he promptly married Eva. A few months later he was elected president. As first lady, Eva attended state functions in her somewhat gaudy dresses andjewelry; she was seen as a former actress with a large wardrobe. Then, in 1947, she left for a tour of Europe, and Argentines followed her every move-the ecstatic crowds that greeted her in Spain, her audience with the pope-and in her absence their opinion of her changed. How well she represented the Argentine spirit, its noble simplicity, its flair for drama. When she returned a few weeks later, they overwhelmed her with attention. Eva too had changed during her trip to Europe: now her dyed blond hair was pulled into a severe chignon, and she wore tailored suits. It was a serious look, befitting a woman who was to become the savior of the poor. Soon her image could be seen everywhere-her initials on the walls, the sheets, the towels of the hospitals for the poor; her profile on the jerseys of a soccer team from the poorest part of Argentina, whose club she sponsored; her giant smiling face covering the sides of buildings. Since finding out anything personal about her had become impossible, all kinds of elaborate fantasies began to spring up about her. And when cancer cut her life short, in 1952, at the age of thirty-three (the age of Christ when he died), the country went into mourning. Millions filed past her embalmed body. She was no longer a radio actress, a wife, a first lady, but Evita, a saint. Interpretation. Eva Duarte was an illegitimate child who had grown up in poverty, escaped to Buenos Aires to become an actress, and been forced to do many tawdry things to survive and get ahead in the theater world. Her dream was to escape all of the constraints on her future, for she was intensely ambitious. Peron was the perfect victim. He imagined himself a great leader, but the reality was that he was fast becoming a lecherous old man who was too weak to raise himself up. Eva injected poetry into his Poeticize Your Presence • 281 life. Her language was florid and theatrical; she surrounded him with attention, indeed to the point of suffocation, but a woman's dutiful service to a great man was a classic image, and was celebrated in innumerable tango ballads. Yet she managed to remain elusive, mysterious, like a movie star you see all the time on the screen but never really know. And when Peron was finally alone, in prison, these poetic images and associations burst forth in his mind. He idealized her madly; as far as he was concerned, she was no longer an actress with a tawdry past. She seduced an entire nation the same way. The secret was her dramatic poetic presence, combined with a touch of elusive distance; over time, you would see whatever you wanted to in her. To this day people fantasize about what Eva was really like. Familiarity destroys seduction. This rarely happens early on; there is so much to leam about a new person. But a midpoint may arrive when the target has begun to idealize and fantasize about you, only to discover that you are not what he or she thought. It is not a question of being seen too often, of being too available, as some imagine. In fact, if your targets see you too rarely, you give them nothing to feed on, and their attention may be caught by someone else; you have to occupy their mind. It is more a matter of being too consistent, too obvious, too human and real. Your targets cannot idealize you if they know too much about you, if they start to see you as all too human. Not only must you maintain a degree of distance, but there must be something fantastical and bewitching about you, sparking all kinds of delightful possibilities in their mind. The possibility Eva held out was the possibility that she was what in Argentine culture was considered the ideal woman-devoted, motherly, saintly-but there are any number of poetic ideals you can try to embody. Chivalry, adventure, romance, and so on, are just as potent, and if you have a whiff of them about you, you can breathe enough poetry into the air to fill people's minds with fantasies and dreams. At all costs, you must embody something, even if it is roguery and evil. Anything to avoid the taint of familiarity and commonness. What I need is a woman who is something, anything; either very beautiful or very kind or in the last resort very wicked; very witty or very stupid, but something. -ALFRED DE MUSSET Keys to Seduction W e all have a self-image that is more flattering than the truth; we think of ourselves as more generous, selfless, honest, kindly, intelligent, or good-looking than in fact we are. It is extremely difficult for us to be honest with ourselves about our own limitations; we have a desperate need to idealize ourselves. As the writer Angela Carter remarks, we would rather align ourselves with angels than with the higher primates from which we are actually descended. would be to kiss her, to be kissed by her," and so on. .Hope. You observe her perfections, and it is at this moment that a woman really ought to surrender, for the utmost physical pleasure. Even the most reserved women blush to the whites of their eyes at this moment of hope. The passion is so strong, and the pleasure so sharp, that they betray themselves unmistakably. • 4. Love is born. To love is to enjoy seeing, touching, and sensing with all the senses, as closely as possible, a lovable object which loves in return. The first crystallization begins. If you are sure that a woman loves you, it is a pleasure to endow her with a thousand perfections and to count your blessings with infinite satisfaction. In the end you overrate wildly, and regard her as something fallen from Heaven, unknown as yet, but certain to be yours. • Leave a lover with his thoughts for twenty four hours, and this is what will happen: • At the salt mines of Salzburg, they throw a leafless wintry bough into one of the abandoned workings. Two or three months later they haul it out covered with a shining deposit of crystals. The smallest twig, no bigger than a tom-tit's claw, is studded with a galaxy of scintillating diamonds. The original branch is no longer recognizable. • What I have called crystallization is a mental process which draws from everything that happens new proofs of the perfection of the loved one. . . . • A man in love sees every perfection in the object of his love, but his attention is liable to 282 wander after a time because one gets tired of anything uniform, even perfect happiness. • This is what happens next to fix the attention: Doubt creeps in. . . . He is met indifference, coldness, or even anger if he appears confident. . . . The lover begins to be less sure the good fortune he was grounds for hope to a critical examination. • He to recoup by indulging in other pleasures but finds them inane. He is seized the dread of a frightful calamity and now concentrates fully. Thus : The second , which deposits diamond layers of that "she loves me." • Every few minutes the night which follows the birth of doubt, the lover has a moment of dreadful misgiving, and then reassures himself "she loves me"; and crystallization begins to reveal new charms. Then once again the haggard eye of doubt pierces him and he This need to idealize extends to our romantic entanglements, because of ourselves. The choice we make in deciding to become involved with another person reveals something important and intimate about us: we seeing ourselves as having fallen for someone whoischeapor tacky or tasteless, because it reflects badly on who we are. Furthermore, we are often likely to fall for someone who resembles us in some way. Should that person be deficient, or worst of all ordinary, then there is something deficient and ordinary about us. No, at all costs the loved one must be overvalued and idealized, at least for the sake of our own self-esteem. Besides, in a world that is harsh and full of disappointment, it is a great pleasure to be able to fantasize about a person you are involved with. This makes the seducer's task easy: people are dying to be given the chance to fantasize about you. Do not spoil this golden opportunity by overexposing yourself, or becoming so familiar and banal that the target sees you exactly as you are. You do not have to be an angel, or a paragon of virtue-that would be quite boring. You can be dangerous, naughty, even somewhat vulgar, depending on the tastes of your victim. But never be oror limited. In poetry (as opposed to reality), anything is possible. Soon after we fall under a person's spell, we form an image in our minds of who they are and what pleasures they might offer. Thinking of them when we are alone, we tend to make this image more and more idealized. The novelist Stendhal, in his book On Love, calls this phenomenon "crystallization," telling the story of how, in Salzburg,Austria, they used to throw a leafless branch into the abandoned depths of a salt mine in the middle of winter. When the branch was pulled out months later, it would be covered with spectacular crystals. That is what happens to a loved one in minds. stops transfixed. He forgets to draw breath and mutters, "But does she love me?" Torn between doubt and delight, the poor lover convinces himself that she could give him such pleasure as he could find nowhere else on earth. -STENDHAL, LOVE, Falling in love automatically tends toward madness. Left to itself it goes to utter extremes. This is well known by the "conquistadors " of both sexes. Once a woman's According to Stendhal, though, there are two crystallizations. The first happens when we first meet the person. The second and more important one happens later, when a bit of doubt creeps in-you desire the other person, but they elude you, you are not sure they are yours. This bit of doubt is critical-it makes your imagination work double, deepens the poeticizing process. In the seventeenth century, the great rake the Due de Lauzun pulled off one of the most spectacular seductions in history-that of the Mademoiselle, the cousin of King Louis XTV, and the wealthiest and most powerful woman in France. He tickled her imagination with a few brief encounters at the court, letting her catch glimpses of his wit, his audacity, his cool manner. She would begin to think of him when she was alone. Next she started to bump into him more often at court, and they would have little conversations or walks. When these meetings were over, she would be left with a doubt: is he or is he not interested in me? This made her want to see him more, in order to allay her doubts. She began to idealize him all out of proportion to the reality, for the duke was an incorrigible scoundrel. Remember: if you are easily had, you cannot be worth that much. It is Poeticize Your Presence • 283 hard to wax poetic about a person who comes so cheaply. If, after the initial interest, you make it clear that you cannot be taken for granted, if you stir a bit of doubt, the target will imagine there is something special, lofty, and unattainable about you. Your image will crystallize in the other person's mind. Cleopatra knew that she was really no different from any other woman, and in fact her face was not particularly beautiful. But she knew that men have a tendency to overvalue a woman. All that is required is to hint that there is something different about you, to make them associate you with something grand or poetic. She made Caesar aware of her connection to the great kings and queens of Egypt's past; with Antony, she created the fantasy that she was descended from Aphrodite herself. These men were cavorting not just with a strong-willed woman but a kind of goddess. Such associations might be difficult to pull off today, but people still get deep pleasure from associating others with some kind of childhood fantasy figure. John F. Kennedy presented himself as a figure of chivalry-noble, brave, charming. Pablo Picasso was not just a great painter with a thirst for young girls, he was the Minotaur of Greek legend, or the devilish trickster figure that is so seductive to women. These associations should not be made too early; they are only powerful once the target has begun to fall under your spell, and is vulnerable to suggestion. A man who had just met Cleopatra would have found the Aphrodite association ludicrous. But a person who is falling in love will believe almost anything. The trick is to associate your image with something mythic, through the clothes you wear, the things you say, the places you go. In Marcel Proust's novel Remembrance of Things Past, the character Swann finds himself gradually seduced by a woman who is not really his type. He is an aesthete, and loves the finer things in life. She is of a lower class, less refined, even a little tasteless. What poeticizes her in his mind is a series of exuberant moments they share together, moments that from then on he associates with her. One of these is a concert in a salon that they attend, in which he is intoxicated by a little melody in a sonata. Whenever he thinks of her, he remembers this little phrase. Little gifts she has given him, objects she has touched or handled, begin to assume a life of their own. Any kind of heightened experience, artistic or spiritual, lingers in the mind much longer than normal experience. You must find a way to share such moments with your targets-a concert, a play, a spiritual encounter, whatever it takes-so that they associate something elevated with you. Shared moments of exuberance have immense seductive pull. Also, any kind of object can be imbued with poetic resonance and sentimental associations, as discussed in the last chapter. The gifts you give and other objects can become imbued with your presence; if they are associated with pleasant memories, the sight of them keeps you in mind and accelerates the poeti- cization process. Although it is said that absence makes the heart grow fonder, an absence too early will prove deadly to the crystallization process. Like Eva attention is fixed upon a man, it is very easy for him to dominate her thoughts completely. A simple game of blowing hot and cold, of solicitousness and disdain, of presence and absence isallthatisrequired. The rhythm of that techniqueacts upon a woman's attention like a pneumatic machine and ends by emptying her of all the rest of the world. How well our people put it: "to suck one's senses"! In fact: one is absorbed-absorbed by an object! Most "love affairs" are reduced to this mechanical play of the beloved upon the lover's attention. • The only thing that can save a lover is a violent shock from the outside, a treatment which is forced upon him. Many think that absence and long trips are a good cure for lovers. Observe that these are cures for one's attention. Distance from the beloved starves our attention toward him; it prevents anything further from rekindling the attention. Journeys, by physically obliging us to come out of ourselves and resolve hundreds of little problems, by uprooting us from our habitual setting and forcing hundreds of unexpected objects upon us, succeed in breaking down the maniac's haven and opening channels in his sealed consciousness, through which fresh air and normal perspective enter. - JOS6 ORTEGA Y GASSET, ON LOVE: ASPECTS OF A SINGLE THEME,  Excessive familiarity can destroy crystallization. A charming girl of sixteen was becoming too fond of ahandsome young man of the same age, who used to make a practice of passing beneath her window every evening at nightfall. Her mother invited him to Peron, you must surround your targets with focused attention, so that in those critical moments when they are alone, their mind is spinning with a kind of afterglow. Do everything you can to keep the target thinking about you. Letters, mementos, gifts, unexpected meetings-all these give you an omnipresence. Everything must remind them of you. Finally, if your targets should see you as elevated and poetic, there is much to be gained by making them feel elevated and poeticized in their turn. The French writer Chateaubriand would make a woman feel like a spend a week with them in the country. It was a bold remedy, I admit, but the girl was of a romantic disposition, and the young man a trifle dull; within three days she despised him. -STENDHAL, LOVE, goddess, she had such a powerful effect on him. He would send her poems that she supposedly had inspired. To make Queen Victoria feel as if she were both a seductive woman and a great leader, Benjamin Disraeli would compare her to mythological figures and great predecessors, such as Queen Elizabeth I. By idealizing your targets this way, you will make them idealize you in return, since you must be equally great to be able to appreciate and see all of their fine qualities. They will also grow addicted to the elevatedfeeling you give them. Symbol: The Halo.Slowly, when the target is alone, he or she begins to imagine a kind of faint glow around your head, formed by all of the possible pleasures you might offer, the radiance of your charged presence, your noble qualities. The Halo separates youfrom other people. Do not make it disappear by becoming familiar and ordinary. Reversal I t might seem that the reverse tactic would be to reveal everything about yourself, to be completely honest about your faults and virtues. This kind of sincerity was a quality Lord Byron had-he almost got a thrill out of disclosing all of his nasty, ugly qualities, even going so far, later on in his life, as to tell people about his incestuous involvements with his half sister. This kind of dangerous intimacy can be immensely seductive. The target will poeticize your vices, and your honesty about them; they will start to see more than is there. In other words, the idealization process is unavoidable. The only thing that cannot be idealized is mediocrity, but there is nothing seductive about mediocrity. There is no possible way to seduce without creating some kind of fantasy and poeticization. 13 Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability Too much maneuvering on your part may raisesuspicion. The best way to cover your tracks is to make the other person feel superior and stronger. If you seem to be weak, vulnerable, enthralled by the other person, and unable to control yourself, you will make your actions look more natural, less calculated. Physical weakness - tears, bashfulness, paleness-will help create the effect, To further win trust, exchange honesty for virtue: establish your "sincerity" by confessing some sin on your part-it doesn't have to be real. Sincerity is more important than goodness. Play the victim, then transform your target's sympathy into love. The Victim Strategy T hat sweltering August in the 1770s when the Presidente de Tourvel was visiting the chateau of her old friend Madame de Rosemonde, leaving her husband at home, she was expecting to be enjoying the peace and quiet of country life more or less on her own. But she loved the simple pleasures, and soon her daily life at the chateau assumed a comfortable pattern-daily Mass, walks in the country, charitable work in the neighboring villages, card games in the evening. When Madame de Rosemonde's nephew arrived for a visit, then, the Presidente felt uncomfortable-but also curious. The nephew, the Vicomte de Valmont, was the most notorious libertine in Paris. He was certainly handsome, but he was not what she had expected: he seemedsad, somewhat downtrodden, and strangest of all, he paid hardly any attention to her. The Presidente was no coquette; she dressed simply, ignored fashions, and loved her husband. Still, she was young and beautiful, and was used to fending off men's attentions. In the back of her mind, she was slightly perturbed that he took so little notice of her. Then, at Mass one day, she caught a glimpse of Valmont apparently lost in prayer. The idea dawned on her that he was in the midst of a period of soul-searching. As soon as word had leaked out that Valmont was at the chateau, the Presidente had received a letter from a friend warning her against this dangerous man. But she thought of herself as the last woman in the world to be vulnerable to him. Besides, he seemed on the verge of repenting his evil past; perhaps she could help move him in that direction. What a wonderful victory that would be for God. And so the Presidente took note of Val- mont's comings and goings, trying to understand what was happening in his head. It was strange, for instance, that he would often leave in the morning to go hunting, yet would never return with any game. One day, she decided to have her servant do a little harmless spying, and she was amazed and delighted to learn that Valmont had not gone hunting at all; he had visited a local village, where he had doled out money to a poor family about to be evicted from their home. Yes, she was right, his passionate soul was moving from sensuality to virtue. How happy that made her feel. That evening, Valmont and the Presidente found themselves alone for the first time, and Valmont suddenly burst out with a startling confession. He was head-over-heels in love with the Presidente, and with a love he had The weak ones do have a power over us. The clear, forceful ones I can do without. I am weak and indecisive by nature myself and a woman who is quiet and withdrawn and follows the wishes of a man even to the point of letting herself be used has much the greater appeal. A man can shape and mold her as he wishes, and becomes fonder of her all the while. -MURASAKI SHIKIBU, THE TALE OF GENJI. Hera, daughter of Cronus and Rhea, having been born on the island of Samos or, some say, at Argos, was brought up in Arcadia by Temenus, sou of Pelasgus. The Seasons were her nurses. After banishing theirfather Cronus, Hera's twin brother Zeus sought her out at Cnossus in Crete or, some say, on Mount Thornax (now called Cuckoo Mountain) in Argolis, where he courted her, at first unsuccessfully. She took pity on him only when he adopted the 287 288 disguise of a bedraggled cuckoo and tenderly warmed him in her bosom. There he at once resumed his true shape and ravished her, so that she was shamed into marrying him. -ROBERT GRAVES, THE GREEK MYTHS In a strategy (?) of seduction one draws the other into one's area of weakness, which is also his or her area of weakness. A calculated weakness, an incalculable weakness: one challenges the other to be taken i n . . . . • To seduce is to appear weak. To seduce is to render weak. We seduce with our weakness, never with strong signs or powers. In seduction we enact this weakness, and this is what gives seduction its strength. • We seduce with our death, our vulnerability, and with the void that haunts us. The secret is to know how to play with death in the absence of a gaze or gesture, in the absence of knowledge or meaning. • Psychoanalysis tells us to assume our fragility and passivity, but in almost religious terms, turns them into aform of resignation and acceptance in order to promote a well- tempered psychic equilibrium. Seduction, by contrast, plays trumph- antty with weakness, making a game of it, with its own rules. -JEAN BAUDRILLARD, SEDUCTION never experienced before: her virtue, her goodness, her beauty, her kind ways had completely overwhelmed him. His generosity to the poor that afternoon had been for her sake-perhaps inspired by her, perhaps something more sinister: it had been to impress her. He would never have confessed to this, but finding himself alone with her, he could not control his emotions. Then he got down on his knees and begged for her to help him, to guide him in his misery. The Presidente was caught off guard, and began to cry. Intensely embarrassed, she ran from the room, and for the next few days pretended to be ill. She did not know how to react to the letters Valmont now began to send her, begging her to forgive him. He praised her beautiful face and her beautiful soul, and claimed she had made him rethink his whole life. These emotional letters produced disturbing emotions, and Tourvel prided herself on her calmness and prudence. She knew she should insist that he leave the chateau, and wrote him to that effect; he reluctantly agreed, but on one condition-that she allow him to write to her from Paris. She consented, as long as the letters were not offensive. When he told Madame de Rose- monde that he was leaving, the Presidente felt a pang of guilt: his hostess and aunt would miss him, and he looked so pale. He was obviously suffering. Now the letters from Valmont began to arrive, and Tourvel soon regretted allowing him this liberty. He ignored her request that heavoid the subject of love-indeed he vowed to love her forever. He rebuked her for her coldness and insensitivity. He explained his bad path in life-it was not his fault, he had had no direction, had been led astray by others. Without her help he would fall back into that world. Do not be cruel, he said, you are the one who seduced me. I am your slave, the victim of your charms and goodness; since you are strong, and do not feel as I do, you have nothing to fear. Indeed the Presidente de Tourvel came to pity Valmont-he seemed so weak, so out of control. How could she help him? And why was she even thinking of him, which she now did more and more? She was a happily married woman. No, she must at least put an end to this tiresome correspondence. No more talk of love, she wrote, or she would not reply. His letters stopped coming. She felt relief. Finally some peace and quiet. One evening, however, as she was seated at the dinner table, she suddenly heard Valmont's voice from behind her, addressing Madame de Rose- monde. On the spur of the moment, he said, he had decided to return for a short visit. She felt a shiver up and down her spine, her face flushed; he approached and sat down beside her. He looked at her, she looked away, and soon made an excuse to leave the table and go up to her room. But she could not completely avoid him over the next few days, and she saw that he seemed paler than ever. He was polite, and a whole day might pass without her seeing him, but these brief absences had a paradoxical effect: now Tourvel realized what had happened. She missed him, she wanted to see him. This paragon of virtue and goodness had somehow fallen in love with an incorrigible rake. Disgusted with herself and what she had allowed to Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability • 289 happen, she left the chateau in the middle of the night, without telling anyone, and headed for Paris, where she planned somehow to repent this awful sin. Interpretation. The character of Valmont in Choderlos de Laclos's epistolary novel Dangerous Liaisons is based on several of the great real-life libertines of eighteenth-century France. Everything Valmont does is calculated for effect-the ambiguous actions that make Tourvel curious about him, the act of charity in the village (he knows he is being followed), the return visit to the chateau, the paleness of his face (he is having an affair with a girl at the chateau, and their all-night carousals give him a wasted look). Most devastating of all is his positioning of himself as the weak one, the seduced, the victim. How can the Presidente imagine he is manipulating her when everything suggests he is simplyoverwhelmed by her beauty, whether physical or spiritual? He cannot be a deceiver when he repeatedly makes a point of confessing the "truth" about himself: he admits that his charity was questionably motivated, he explains why he has gone astray, he lets her in on his emotions. (All of this "honesty," of course, is calculated.) In essence he is like a woman, or at least like a woman of those times- emotional, unable to control himself, moody, insecure. She is the one who is cold and cruel, like a man. In positioning himself as Tourvel's victim, Valmont can not only disguise his manipulations but elicit pity and concern. Playing the victim, he can stir up the tender emotions produced by a sick child or a wounded animal. And these emotions are easily channeled into love-as the Presidente discovers to her dismay. Seduction is a game of reducing suspicion and resistance. The cleverest way to do this is to make the other person feel stronger, more in control of things. Suspicion usually comes out of insecurity; if your targets feel superior and secure in your presence, they are unlikely to doubt your motives. You are too weak, too emotional, to be up to something. Take this game as far as it will go. Flaunt your emotions and how deeply they have affected you. Making people feel the power they have over you is immensely flattering to them. Confess to something bad, or even to something bad that you did, or contemplated doing, to them. Honesty is more important than virtue, and one honest gesture will blind them to many deceitful acts. Create an impression of weakness-physical, mental, emotional. Strength and confidence can be frightening. Make your weakness a comfort, and play the victim-of their power over you, of circumstances, of life in general. This is the best way to cover your tracks. You know, a man ain't worth a damn if he can't cry at the right time. -LYNDON BAINES JOHNSON The old American proverb says if you want to con someone, you must first get him to trust you, or at least feel superior to you (these two ideas are related), and get him to let down his guard. The proverb explains a great deal about television commercials. If we assume that people are not stupid, they must react to TV commercials with a feeling of superiority that permits them to believe they are in control. As long as this illusion of volition persists, they would consciously have nothing to fear from the commercials. People are prone to trust anything over which they believe they have control. ..." TV commercials appear foolish, clumsy, and ineffectual on purpose. They are made to appear this way at the conscious level in order to be consciously ridiculed and rejected. . . . Most ad men will confirm that over the years the seemingly worst commercials have sold the best. An effective TV commercial is purposefully designed to insult the viewer's conscious intelligence, thereby penetrating his defenses. -WILSON BRYAN KEY, SUBLIMINAL SEDUCTION It takes great art to use bashfulness, but one does achieve a great deal with it. How often I have used bashfulness to trick a little miss! Ordinarily, young girls speak very harshly about bashful men, but secretly they like them. A little bashfulness flatters a teenage girl's vanity, makes her feel superior; it is her 290 earnest money. When they are lulled to sleep, then at the very time they believe you are about to perish from bashfulness, you show them that you are so far from it that you are quite self-reliant. Bashfulness makes a man lose his masculine significance, and therefore it is a relatively good means for neutralizing the sex relation. -S0REN KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY. Yet anotherform of Charity is there, which is oft times practised towards poor prisoners who are shut up in dungeons and robbed of all enjoyments with women. On such do the gaolers' wives and women that have charge over them, or chatelaines who have prisoners of war in their Castle, take pity and give them share of their love out of very charity and mercifulness. . . . • Thus do these gaolers' wives, noble chatelaines and others, treat their prisoners, the which, captive and unhappy though they be, yet cease not for that to feel the prickings of the flesh, as much as ever they did in their best days. ...• To confirm what I say, I will instance a tale that Captain Beaulieu, Captain of the King's Galleys, of whom I have before spoke once and again, did tell me. He was in the service of the late Grand Prior of France, a member of the house of Lorraine, who was much attached to him. Going one time to take his patron on board at Malta in a Keys to Seduction W e all have weaknesses, vulnerabilities, frailnesses in our mental makeup. Perhaps we are shy or oversensitive, or need attention- whatever the weakness is, it is something we cannot control. We may try to compensate for it, or to hide it, but this is often a mistake: people sense something inauthentic or unnatural. Remember: what is natural to your character is inherently seductive. A person's vulnerability, what they seem to be unable to control, is often what is most seductive about them. People who display no weaknesses, on the other hand, often elicit envy, fear, and anger-we want to sabotage themjust to bring them down.Do not struggle against your vulnerabilities, or try to repressthem,butput them into play. Learn to transform them into power. The game is subtle: if you wallow in your weakness, overplay your hand, you will be seen as angling for sympathy, or, worse, as pathetic. No, what works best is to allow people an occasional glimpse into the soft, frail side of your character, and usually only after they have known you for a while. That glimpse will humanize you, lowering their suspicions, and preparing the ground for a deeper attachment. Normally strong and in control, at moments you let go, give in to your weakness, let them see it. Valmont used his weakness this way. He had lost his innocence long ago, and yet, somewhere inside, he regretted it. He was vulnerable to someone truly innocent. His seduction of the Presidente was successful because it was not totally an act; there was a genuine weakness on his part, which even allowed him to cry at times. He let the Presidente see this side to him at key moments, in order to disarm her. Like Valmont, you can be acting and sincere at the same time. Suppose you are genuinely shy-at certain moments, give your shyness a little weight, lay it on a little thick. It should be easy for you to embellish a quality you already have. After Lord Byron published his first major poem, in 1812, he became an instant celebrity. Beyond being a talented writer, he was so handsome, even pretty, and he was as brooding and enigmatic as the characters he wrote about. Women went wild over Lord Byron. He had an infamous "underlook," slightly lowering his head and glancing upward at a woman, making her tremble. But Byron had other qualities: when you first met him, you could not help noticing his fidgety movements, his ill-fitting clothes, his strange shyness, and his noticeable limp. This infamous man, who scorned all conventions and seemed so dangerous, was personally insecure and vulnerable. In Byron's poem Don Juan, the hero is less a seducer of women than a man constantly pursued by them. The poem was autobiographical; women wanted to take care of this somewhat fragile man, who seemed to have little control over his emotions. More than a century later, John F. Kennedy, as a boy, became obsessed with Byron, the man he most wanted to emulate. He even tried to borrow Byron's "underlook." Kennedy himself was a frail youth, with constant health problems. He was also a little pretty, and friends Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability • 291 saw something slightly feminine in him. Kennedy's weaknesses-physical and mental, for he too was insecure, shy, and oversensitive-were exactly what drew women to him. If Byron and Kennedy had tried to cover up their vulnerabilities with a masculine swagger they would have had no seductive charm. Instead, they learned how to subtly display their weaknesses, letting women sense this soft side to them. There are fears and insecurities peculiar to each sex; your use of strategic weakness must always take these differences into account. A woman, for instance, may be attracted by a man's strength and self-confidence, but too much of it can create fear, seeming unnatural, even ugly Particularly intimidating is the sense that the man is cold and unfeeling. She may feel insecure that he is only after sex, and nothing else. Male seducers long ago learned to become more feminine-to show their emotions, and to seem interested in their targets' lives. The medieval troubadours were the first to master this strategy; they wrote poetry in honor of women, emoted endlessly about their feelings, and spent hours in their ladies' boudoirs, listening to the women's complaints and soaking up their spirit. In return for their willingness to play weak, the troubadours earned the right to love. Little has changed since then. Some of the greatest seducers in recent history-Gabriele D' Annunzio, Duke Ellington, Errol Flynn-understood the value of acting slavishly to a woman, like a troubadour on bended knee. The key is to indulge your softer side while still remaininasmasculineas possible. This may include an occasional show of bashfulness, which the philosopher Sprcn Kierkegaard thought an extremely seductive tactic for a man-it gives the woman a sense of comfort, and even of superiority. Remember, though, to keep everything in moderation. A glimpse of shyness is sufficient; too much of it and the target will despair, afraid that she will end up having to do all the work. man's fears and insecurities often concern his sense of masculinity; he usually will feel threatened by a woman who is too overtly manipulative, who is too much in control. The greatest seductresses in history knew how to cover up their manipulations by playing the little girl in need of masculine protection. A famous courtesan of ancient China, Su Shou, used to make up her face to look particularly pale and weak. She would also walk in a way that made her seem frail. The great nineteenth-century courtesan Pearl would literally dress and act like a little girl. Marilyn Monroe knew how to give the impression that she depended on a man's strength to survive. In all of these instances, the women were the ones in control of the dynamic, boosting a man's sense of masculinity in order to ultimately enslave him. To make this most effective, a woman should seem both in need of protection and sexually excitable, giving the man his ultimate fantasy. The Empress Josephine, wife of Napoleon Bonaparte, won dominance over her husband early on through a calculated coquetry. Later on, though, she held on to that power through her constant-and not so innocent-use of tears. Seeing someone cry usually has an immediate effect on our emo- frigate, he was taken by the Sicilian galleys, and carried prisoner to the Castel-a- mare at Palermo, where he was shut up in an exceeding narrow, dark and wretched dungeon, and very ill entreated by the space of three months. By good hap the Governor of the Castle, who was a Spaniard, had two very fair daughters, who hearing him complaining and making moan, did one day ask leave of theirfather to visit him, for the honor of the good God; and this he did freely give them permission to do. And seeing the Captain was of a surety a right gallant gentleman, and as ready- tongued as most, he was able so to withem over at this, the very first visit, that they did gain their father's leave for him to quit his wretched dungeon and to be put in a seemly enough chamber and receive better treatment. Nor was this all, for they did crave and get permission to come and see him freely every day and converse with him. • And this didfall out so well that presently both the twain of them were in love with him, albeit he was not handsome to look upon, and they very fair ladies. And so, without a thought of the chance of more rigorous imprisonment or even death, but rather tempted by such opportunities, he did set himself to the enjoyment of the two girls with good will and hearty appetite. And these pleasures did continue without any scandal, for so fortunate was he in this conquest of his for the space of eight whole months, that no scandal did ever hap all that time, and no ill, 292 inconvenience, nor any surprise or discovery at all. For indeed the two sisters had so good an understanding between them and did so generously lend a hand to each other and so obligingly play sentinel to one another, that no ill hap did ever occur. And he swore to me, being my very intimate friend as he was, that never in his days of greatest liberty had he enjoyed so excellent entertainment orfelt keener ardor or better appetitefor it than in the said prison-which truly was a right good prison for him, albeitfolk say no prison can be good. And this happy time did continue for the space of eight months, till the truce was made betwixt the Emperor and Henri II., King of France, whereby all prisoners did leave their dungeons and were released. He sware that never was he more grieved than at quitting this good prison of his, but was exceeding sorry to leave thesefair maids, with whom he was in such high favor, and who did express all possible regrets at his departing. -SEIGNEUR DE BRANT6ME, LIVES OF FAIR & GALLANT LADIES. TRANSLATED BY A. R. ALLINSON tions: we cannot remain neutral. We feel sympathy, and most often will do anything to stop the tears-including things that we normally would not do. Weeping is an incredibly potent tactic, but the weeper is not always so innocent. There is usually something real behind the tears, but there may also be an element of acting, of playing for effect. (And if the target senses this the tactic is doomed.) Beyond the emotional impact of tears, there is something seductive about sadness. We want to comfort the other person, and as Tourvel discovered, that desire quickly turns into love. Affecting sadness, even crying sometimes, has great strategic value, even for a man. It is a skill you can learn. The central character of the eighteenth-century French novel Marianne, by Marivaux, would think of something sad in her past to make herself cry or look sad in the present. Use tears sparingly, and save them for the right moment. Perhaps this might be a time when the target seems suspicious of your motives, or when you are worrying about having no effect on him or her. Tears are a sure barometer of how deeply the other person is falling for you. If they seem annoyed, or resist the bait, your case is probably hopeless. In social and political situations, seeming too ambitious, or too controlled, will make people fear you; it is crucial to show your soft side. The display of a single weakness will hide a multitude of manipulations. Emotion or even tears will work here too. Most seductive of all is playing the victim. For his first speech in Parliament, Benjamin Disraeli prepared an elaborate oration, but when he delivered it the opposition yelled and laughed so loudly that hardly any of it could be heard. He plowed ahead and gave the whole speech, but by the time he sat down he felt he had failed miserably. Much to his amazement, his colleagues told him the speech was a marvelous success. It would have been a failure if he had complained or given up; but by going ahead as he did, he positioned himself as the victim of a cruel and unreasonable faction. Almost everyone sympathized with him now, which would serve him well in the future. Attacking your mean-spirited opponents can make you seem ugly as well; instead, soak up their blows, and play the victim. The public will rally to your side, in an emotional response that will lay the groundwork for a grand political seduction. Symbol: The Blemish. A beautifulface is a delight to look at, but if it is too perfect it leaves us cold, and even slightly intimidated. It is the little mole, the beauty mark, that makes the face human and lovable. So do not conceal all of your blemishes. You need them to soften your features and elicit tender feelings. Disarm Through Strategic Weakness and Vulnerability • 293 Reversal T iming is everything in seduction; you should always look for signs that the target is falling under your spell. A person falling in love tends to ignore the other person's weaknesses, or to see them as endearing. An unseduced, rational person, on the other hand, may find bashfulness or emotional outbursts pathetic. There are also certain weaknesses that have no seductive value, no matter how in love the target may be. The great seventeenth-century courtesan Ninon de l'Enclos liked men with a soft side. But sometimes a man would go too far, complaining that she did not love him enough, that she was too fickle and independent, that he was beingmistreatedandwronged. For Ninon, such behavior would break the spell, and she would quickly end the relationship. Complaining, whining, neediness, and actively appealing for sympathy will appear to your targets not as charming weaknesses but as manipulative attempts at a kind of negative power. So when you play the victim, do it subtly, without overadvertising it. The only weaknesses worth playing up are the ones that will make you seem lovable. All others should be repressed and eradicated at all costs. H Confuse Desire and Reality- The Perfect Illusion To compensate for the difficulties in their lives, people spend a lot of their time daydreaming, imagining a future full of adventure, success, and romance. If you can create the illusion that through you they can live out their dreams, you will have them at your mercy. It is important to start slowly, gaining their trust, and gradually constructing the fantasy that matches their desires. Aim at secret wishes that have been thwarted or repressed, stirring up uncontrollable emotions, clouding their powers of reason. The perfect illusion is one that does not depart too muchfrom reality, but has a touch of the unreal to it, like a waking dream, head the seduced to a point of confusion in which they can no longer tell the difference between illusion and reality. Fantasy in the Flesh I n 1964, a twenty-year-old Frenchman named Bernard Bouriscout arrived in Beijing, China, to work as an accountant in the French embassy. His first weeks there were not what he had expected. Bouriscout had grown up in the French provinces, dreaming of travel and adventure. When he had been assigned to come to China, images of the Forbidden City, and of the gambling dens of Macao, had danced in his mind. But this was Communist China, and contact between Westerners and Chinese was almost impossible at the time. Bouriscout had to socialize with the other Europeans stationed in the city, and what a boring and cliquish lot they were. He grew lonely, regretted taking the assignment, and began making plans to leave. Then, at a Christmas party that year, Bouriscout's eyes were drawn to a young Chinese man in a corner of the room. He had never seen anyone Chinese at any of these affairs. The man was intriguing: he was slender and and introduced himself. The man, Shi Pei Pu, proved to be a writer of Chinese-opera librettos who also taught Chinese to members of the French embassy. Aged twenty-six, he spoke perfect French. Everything about him fascinated Bouriscout; his voice was like music, soft and whis- pery, and he left you wanting to know more about him. Bouriscout, although usually shy, insistedonexchangingtelephone numbers. Perhaps Pei Pu could be his Chinese tutor. They met a few days later in a restaurant. Bouriscout was the only Westerner there-at last a taste of something real and exotic. Pei Pu, it turned out, had been a well-known actor in Chinese operas and came from a family with connections to the former ruling dynasty. Now he wrote operas about the workers, but he said this with a look of irony They began to meet regularly, Pei Pu showing Bouriscout the sights of Beijing. Bouriscout loved his stories-Pei Pu talked slowly, and every historical detail seemed to come alive as he spoke, his hands moving to embellish his words. This, he might say, is where the last Ming emperor hung himself, pointing to the spot and telling the story at the same time. Or, the cook in the restaurant we just ate in once served in the palace of the last emperor, and then another magnificent tale would follow. Pei Pu also talked of life in the Beijing Opera, where men often played women's parts, and sometimes became famous for it. Lovers and madmen have such seething brains, \ Such shaping fantasies, that apprehend \ More than cool reason ever comprehends. SHAKESPEARE, A MIDSUMMER NIGHT'S DREAM He was not a sex person. He was like . . . somebody who had come down from the clouds. He was not human. You could notsayhe was a man friend or a woman friend; he was somebody different anyway. . . . Youfeel he was only a friend who was coming from another planet and so nice also, so overwhelming and separated from the life of the ground. -BERNARD BOURISCOUT, IN JOYCE WADLER, LIAISON Romance had again come her way personified by a handsome young German officer, Lieutenant Konrad Friedrich, who called upon her at Neuilly to ask her help. He wanted Pauline [Bonaparte ] to use her 291 298 influence with Napoleon in connection with providing for the needs of the French troops in the Papal States. He made an instantaneous impression on the princess, who escorted him around her garden until they arrived at the rockery. There she stopped and, looking into the young man's eyes mysteriously, commanded him to return to this same spot at the same hour next day when she might have some good news for him. The young officer bowed and took his leave. ... In his memoirs he revealed in detail what took place after the first meeting with Pauline: • "At the hour agreed on I again proceeded to Neuilly, made my way to the appointed spot in the garden and stood waiting at the rockery. I had not been there very long when a lady made her appearance, greeted me pleasantly and led me through a side door into the interior oftherockerywhere there were several rooms and galleries and in one splendid salon a luxurious-looking bath. The adventure was beginning to strike me as very romantic, almost like a fairy tale, and just as I was wondering what the outcome might be a woman in a robe of the sheerest cambric entered by a side door, came up to me, and smilingly asked how I liked being there. I at once recognized Napoleon's beautiful sister, whose perfect figure was clearly outlined by every movement of her robe. She held out her handfor me to kiss and told me to sit down on the couch beside her. On this occasion I certainly was not the The two men became friends. Chinese contact with foreigners was restricted, but they managed to find ways to meet. One evening Bouriscout tagged along when Pei Pu visited the home of a French official to tutor the children. He listened as Pei Pu told them "The Story of the Butterfly," a tale from the Chinese opera: a young girl yearns to attend an imperial school, but girls are not accepted there. She disguises herself as a boy, passes the exams, and enters the school. A fellow student falls in love with her, and she is attracted to him, so she tells him that she is actually a girl. Like most of these tales, the story ends tragically. Pei Pu told it with unusual emotion; in fact he had played the role of the girl in the operA few nights later, as they were walking before the gates of the Forbidden City, Pei Pu returned to "The Story of the Butterfly" "Look at my hands," he said, "Look at my face. That story of the butterfly, it is my story too." In his slow, dramatic delivery he explained that his mother's first two children had been girls. Sons were far more important in China; if the third child was a girl, the father would have to take a second wife. The third child came: another girl. But the mother was too frightened to reveal the truth, and made an agreement with the midwife: they would say that the child was a boy, and it would be raised as such. This third child was Pei Pu. Over the years, Pei Pu had had to go to extreme lengths to disguise her sex. She never used public bathrooms, plucked her hairline to look as if she were balding, on and on. Bouriscout was enthralled by the story, and also relieved, for like the boy in the butterfly tale, deep down he felt attracted to Pei Pu. Now everything made sense-the small hands, the high-pitched voice, the delicate neck. He had fallen in love with her, and, it seemed, the feelings were reciprocated. Pei Pu started visiting Bouriscout's apartment, and soon they were sleeping together. She continued to dress as a man, even in his apartment, but women in China wore men's clothes anyway, and Pei Pu acted more like a woman than any oftheChinese women he had seen. In bed, she had a shyness and a way of directing his hands that was both exciting and feminine. She made everything romantic and heightened. When he was away from her, her every word and gesture resonated in his mind. What made the affair all the more exciting was the fact that they had to keep it secret. In December of 1965, Bouriscout left Beijing and returned to Paris. He traveled, had other affairs, but his thoughts kept returning to Pei Pu. The Cultural Revolution broke out in China, and he lost contact with her. Before he had left, she had told him she was pregnant with their child. He had no idea whether the baby had been born. His obsession with her grew too strong, and in 1969 he finagled another government job in Beijing. Contact with foreigners was now even more discouraged than on his first visit, but he managed to track Pei Pu down. She told him she had borne a son, in 1966, but he had looked like Bouriscout, and given the growing hatred of foreigners in China, and the need to keep the secret of her sex, she had him sent him away to an isolated region near Russia. It was so cold there-perhaps he was dead. She showed Bouriscout photographs Confuse Desire and Reality- of the boy, and he did see some resemblance. Over the next few weeks they managed to meet here and there, and then Bouriscout had an idea: he sympathized with the Cultural Revolution, and he wanted to get around the prohibitions that were preventing him from seeing Pei Pu, so he offered to do some spying. The offer was passed along to the right people, and soon Bouriscout was stealing documents for the Communists. The son, named Bertrand, was recalled to Beijing, and Bouriscout finally met him. Now a threefold adventure filled Bouriscout's life: the alluring Pei Pu, the thrill of being a spy, and the illicit child, whom he wanted to bring back to France. In 1972, Bouriscout left Beijing. Over the next few years he tried repeatedly to get Pei Pu and his son to France, and a decade later he finally succeeded; the three became a family In 1983, though, the French authorities grew suspicious of this relationship between a Foreign Office official and a Chinese man, and with a little investigating they uncovered Bouriscout's spying. He was arrested, and soon made a startling confession: the man he was living with was really a woman. Confused, the French ordered an examination of Pei Pu; as they had thought, he was very much a man. Bouriscout went to prison. Even after Bouriscout had heard his former lover's own confession, he was still convinced that Pei Pu was a woman. Her soft body, their intimate relationship-how could he be wrong? Onlywhen Pei Pu, imprisoned in the same jail, showed him the incontrovertible proof of his sex did Bouriscout finally accept it. Interpretation. The moment Pei Pu met Bouriscout, he realized he had found the perfect victim. Bouriscout was lonely, bored, desperate. The way he responded to Pei Pu suggested that he was probably also homosexual, or perhaps bisexual-at least confused. (Bouriscout in fact had had homosexual encounters as a boy; guilty about them, he had tried to repress this side of himself.) Pei Pu had played women's parts before, and was quite good at it; he was slight and effeminate; physically it was not a stretch. But who would believe such a story, or at least not be skeptical of it? The critical component of Pei Pu's seduction, in which he brought the Frenchman's fantasy of adventure to life, was to start slowly and set up an idea in his victims mind. In his perfect French (which, however, was full of interesting Chinese expressions), he got Bouriscout used to hearing stories and tales, some true, some not, but all delivered in that dramatic yet believable tone. Then he planted the idea of gender impersonation with his "Story of the Butterfly." By the time he confessed the "truth" of his gender, Bouriscout was already completely enchanted with him. Bouriscout warded off all suspicious thoughts because he wanted tobelieve Pei Pu's story. From there it was easy Pei Pu faked his periods; it didn't take much money to get hold of a child he could reasonably pass off as their son. More important, he played the fantasy role to the hilt, remaining elusive and mysterious (which was what a Westerner would expect from an The Perfect Illusion • 299 seducer. .After an interval Pauline pulled a hell rope and ordered the woman who answered to prepare a hath which she asked me to share. Wearing bathgowns of the finest linen we remained for nearly an hour in the crystal-clear bluish water. Then we had a grand dinner served in another room and lingered on together until dusk. When I left I had to promise to return again soon and I spent many afternoons with the princess in the same way."  BRENT, PAULINE BONAPARTE: A WOMAN OF AFFAIRS The courtesan is meant to be a half-defined, floating figure never fixing herself surely in the imagination. She is the memory of an experience, the point at which a dream is transformed into reality or reality into a dream. The bright colors fade, her name becomes a mere echo-echo of an echo, since she has probably adopted it from some ancient predecessor. The idea of the courtesan is a garden of delights in which the lover walks, smelling first this flower and then that but neverunderstandingwhence comes the fragrance that intoxicates him. Why should the courtesan not elude analysis? She does not want to be recognized for what she is, but rather to be allowed to be potent and effective. She offers the truth of herself- - or, rather, of the passions that become directed toward her. And what she gives back is one's self and an hour of grace in her presence. Love revives 300 when you look at her: is that not enough? She is the generative force of an illusion, the birth point of desire, the threshold of contemplation of bodily beauty. -LYNNE LAWNER, LIVES OF THE COURTESANS: PORTRAITS OF THE RENAISSANCE It was on March 16, the same day the Duke of Gloucester wrote to Sir William, that Goethe recorded the first known performance of what were destined to be called Emma's Attitudes. Just what these were, we shall learn shortly. First, it must be emphasized that the Attitudes were a show for favored eyes only. • . . . Goethe, disciple of Winckelmann, was at this date thrilled by the human form, as a contemporary writes. Here was the ideal spectatorfor the classical drama Emma and Sir William had wrought in the long winter evenings.Let us take our seats beside Goethe and settle to watch the show as he describes it. • "Sit William Hamilton . . . has now, after many years of devotion to the arts and the study of nature, found the acme of these delights in the person of an English girl of twenty with a beautifulface and a perfect figure. He has had a Greek costume made for her which becomes her extremely. Dressed in this, he lets down her hair and, with a few shawls, gives so much variety to her poses, gestures, expressions, etc. that the spectator can hardly believe his eyes. He sees what thousands of artists would have liked to Asian woman) while enveloping his past and indeed their whole experience in titillating bits of history. As Bouriscout later explained, "Pei Pu screwed me in the head. ... I was having relations and in my thoughts, my dreams, I was light-years away from what was true." Bouriscout thought he was having an exotic adventure, an enduring fantasy of his. Less consciously, he had an outlet for his repressed homosexuality. Pei Pu embodied his fantasy, giving it flesh, by working first on his mind. The mind has two currents: it wants to believe in things that are pleasant to believe in, yet it has a self-protective need to be suspicious of people. If you start off too theatrical, trying too hard to create a fantasy, you will feed that suspicious side of the mind, and once fed, the doubts will not go away. Instead, you must start slowly, building trust, while perhaps letting people see a little touch of something strange or exciting about you to tease their interest. Then you build up your story, like any piece of fiction. You have established a foundation of trust-now the fantasies and dreams you envelop them in are suddenly believable. Remember: people want to believe in the extraordinary; with a little groundwork, a little mental foreplay, they will fall for your illusion. If anything, err on the side of reality: use real props (like the child Pei Pu showed Bouriscout) and add thefantastical touches in your words, or an occasional gesture that gives you a slight unreality. Once you sense that they are hooked, you can deepen the spell, go further and further into the fantasy. At that point they will have gone so far into their own minds that you will no longer have to bother with verisimilitude. Wish Fulfillment I n 1762, Catherine, wife of Czar Peter III, staged a coup against her ineffectual husband and proclaimed herself empress of Russia. Over the next few years Catherine ruled alone, but kept a series of lovers. The Russians called these men th evremienchiki, "the men of the moment," and in 1774 the man of the moment was Gregory Potemkin, a thirty-five-year-old lieutenant, ten years younger than Catherine, and a most unlikely candidate for the role. Potemkin was coarse and not at all handsome (he had lost an eye in an accident). But he knew how to make Catherine laugh, and he worshiped her so intensely that she eventually succumbed. He quickly became the love of her life. Catherine promoted Potemkin higher and higher in the hierarchy, eventually making him the governor of White Russia, a large southwestern area including the Ukraine. As governor, Potemkin had to leave St. Petersburg and go to live in the south. He knew that Catherine could not do without male companionship, so he took it upon himself to name Catherine's subsequent vremienchiki. She not only approved of this arrangement, she made it clear that Potemkin would always remain her favorite. Catherine's dream was to start a war with Turkey, recapture Constan- Confuse Desire and Reality-The Perfect Illusion • 301 tinople for the Orthodox Church, and drive the Turks out of Europe. She offered to share this crusade with the young Hapsburg emperor, Joseph II, but Joseph never quite brought himself to sign the treaty that would unite them in war. Growing impatient, in 1783 Catherine annexed the Crimea, a southern peninsula that was mostly populated by Muslim Tartars. She asked Potemkin to do there what he had already managed to do in the Ukraine- rid the area of bandits, build roads, modernize the ports, bring prosperity to the poor. Once he had cleaned it up, the Crimea would make the perfect launching post for the war against Turkey The Crimea was a backward wasteland, but Potemkin loved the challenge. Getting to work on a hundred different projects, he grew intoxicated with visions of the miracles he would perform there. He would establish a capital on the Dnieper River, Ekaterinoslav ("To the glory of Catherine"), that would rival St. Petersburg and would house a university outshining anything in Europe. The countryside would hold endless fields of corn, orchards with rare fruits from the Orient, silkworm farms, new towns with bustling marketplaces. On a visit to the empress in 1785, Potemkin talked of these things as if they already existed, so vivid were his descriptions. The empress was delighted, but her ministers were skeptical-Potemkin loved to talk. Ignoring their warnings, in 1787 Catherine arranged for a tour of the area. She asked Joseph II to join her-he would be so impressed with the modernization of the Crimea that he would immediately sign on for the war against Turkey. Potemkin, naturally, was to organize the whole affair. And so, in May of that year, after the Dnieper had thawed, Catherine prepared for a journey from Kiev, in the Ukraine, to Sebastopol, in the Crimea. Potemkin arranged for seven floating palaces to carry Catherine and her retinue down theriver.Thejourneybegan,andasCatherine,Joseph,and the courtiers looked at the shores to either side, they saw triumphal arches in front of clean-looking towns, their walls freshly painted; healthy-looking cattle grazing in the pastures; streams of marching troops on the roads; buildings going up everywhere. At dusk they were entertained by bright-costumed peasants, and smiling girls with flowers in their hair, dancing on the shore. Catherine had traveled through this area many years before, and the poverty of the peasantry there had saddened her-she had determined then that she would somehow change their lot. To see before her eyes the signs of such a transformation overwhelmed her, and she berated Potemkin's critics: Look at what my favorite has accomplished, look at these miracles! They anchored at three towns along the way, staying in each place in a magnificent, newly built palace with artificial waterfalls in the English-style gardens. On land they moved through villages with vibrant marketplaces; the peasants were happily at work, building and repairing. Everywhere they spent the night, some spectacle filled their eyes-dances, parades, mythological tableaux vivants, artificial volcanoes illuminating Moorish gardens. Finally, at the end of the trip, in the palace at Sebastopol, Catherine and express realized before him inmovementsandsurprisingtransformationsstanding, kneeling, sitting, reclining, serious, sad, playful, ecstatic, contrite, alluring, threatening, anxious, one pose follows another without a break. She knows how to arrange the folds of her veil to match each mood, and has a hundred ways of turning it into a headdress. The old knight idolizes her and isquite enthusiastic about everything she does. In her he has found all the antiquities, all the profiles of Sicilian coins, even the Apollo Belvedere. This much is certain: as a performance it's like nothing you ever saw before in your life. We have already enjoyed it on two evenings." -FLORA FRASER, EMMA. LADY HAMILTON For this uncanny is in reality nothing new or alien, but something which is familiar and old- established in the mind and which has become alienated from it only through the process of repression. This reference to the factor of repression enables us, furthermore, to understand Schelling's definition of the uncanny as something which ought to have remained hidden but has come to light. .There is one more point of general application which I should like to add. This is that an uncanny ffkt is often and easily produced when the distinction between imagination and reality is effaced, as when something that we have hitherto regarded as imaginary appears before us in reality, or when a symbol takes over the full functionsof the thing it symbolizes, and so on. It is this factor which contributes not a little to the uncanny effect attaching to magical practices. The infantile element in this, which also dominates the minds of neurotics, is the overaccentuation of psychical reality in comparison with material Joseph discussed the war with Turkey. Joseph reiterated his concerns. Suddenly Potemkin interrupted: "I have 100,000 troops waiting for me to say 'Go!' " At that moment the windows of the palace were flung open, and to the sounds of booming cannons they saw lines of troops as far as the eye could see, and a fleet of ships filling the harbor. Awed by the sight, images of Eastern European cities retaken from the Turks dancing in his mind, Joseph II finally signed the treaty. Catherine was ecstatic, and her love for Potemkin reached new heights. He had made her dreams come true. Catherine never suspected that almost everything she had seen was pure fakery, perhaps the most elaborate illusion ever conjured up by one man. reality-a feature closely allied to the belief in the omnipotence of thoughts. FREUD, "THE UNCANNY," IN PSYCHOLOGICAL WRITINGSANDLETTERS Interpretation. In the four years that he had been governor of the Crimea, Potemkin had accomplished little, for this backwater would take decades to improve. But in the few months before Catherine's visit he had done the following: every building that faced the road or the shore was given a fresh coat of paint; artificial trees were set up to hide unseemly spots in the view; broken roofs were repaired with flimsy boards painted to look like tile; everyone the party would see was instructed to wear their best clothes and look happy; everyone old and infirm was to stay indoors. Floating in their palaces down the Dnieper, the imperial entourage saw brand-new villages, but most of the buildings were only facades. The herds of cattle were shipped from great distances, and were moved at night to fresh fields along the route. The dancing peasants were trained for the entertainments; after each one they were loaded into carts and hurriedly transported to a new downriver location, as were the marching soldiers who seemed to be everywhere. The gardens of the new palaces were filled with transplanted trees that died a few days later. The palaces themselves were quickly and badly built, but were so magnificently furnished that no one noticed. One fortress along the way had been built of sand, and was destroyed a little later by a thunderstorm. The cost of this vast illusion had been enormous, and the war with Turkey would fail, but Potemkin had accomplished his goal. To the observant, of course, there were signs along the way that all was not as it seemed, but when the empress herself insisted that everything was real and glorious, the courtiers could only agree. This was the essence of the seduction: Catherine had wanted so desperately to be seen as a loving and progressive ruler, one who would defeat the Turks and liberate Europe, that when she saw signs of change in the Crimea, her mind filled in the picture. When our emotions are engaged, we often have trouble seeing things as they are. Feelings of love cloud our vision, making us color events to coincide with our desires. To make people believe in the illusions you create, you need to feed the emotions over which they have least control. Often the best way to do this is to ascertain their unsatisfied desires, their wishes crying out for fulfillment. Perhaps they want to see themselves as noble or romantic, but life has thwarted them. Perhaps they want an adventure. If Confuse Desire and Reality-The Perfect Illusion something seems to validate this wish, they become emotional and irrational, almost to the point of hallucination. Remember to envelop them in your illusion slowly. Potemkin did not start with grand spectacles, but with simple sights along the way, such as grazing cattle. Then he brought them on land, heightening the drama, until the calculated climax when the windows were flung open to reveal a mighty war machine-actually a few thousand men and boats lined up in such a way as to suggest many more. Like Potemkin, involve the target in some kind ofjourney, physical or otherwise. The feeling of a shared adventure is rife with fantasy associations. Make people feel that they are getting to see and live out something that relates to their deepest yearnings and they will see happy, prosperous villages where there are only facades. Here the real journey through Potemkin's fairyland began. It was like a dream-the waking dream of some magician who had discovered the secret of materializing his visions. . . . [Catherine] and her companions had left the world of reality behind. Their talk was of Iphigenia and the ancient gods, and Catherine felt that she was both Alexander and Cleopatra. - GINA KAUS Keys to Seduction T he real world can be unforgiving: events occur over which we have little control, other people ignore our feelings in their quests to get what they need, time runs out before we accomplish what we had wanted. If we ever stopped to look at the present and future in a completely objective way, we would despair. Fortunately we develop the habit of dreaming early on. In this other, mental world that we inhabit, the future is full of rosy possibilities. Perhaps tomorrow we will sell that brilliant idea, or meet the person who will change our lives. Our culture stimulates these fantasies with constant images and stories of marvelous occurrences and happy romances. The problem is, these images and fantasies exist only in our minds, or on-screen. They really aren't enough-we crave the real thing, not this endless daydreaming and titillation. Your task as a seducer is to bring some flesh and blood into someone's fantasy life by embodying a fantasy figure, or creating a scenario resembling that person's dreams. No one can resist the pull of a secret desire that has come to life before their eyes. You must first choose targets who have some repression or dream unrealized-always the most likely victims of a seduction. Slowly and gradually, you will build up the illusion that they are getting to see and feel and live those dreams of theirs. Once they have this sensation they will lose contact with reality, and begin to see your fantasy as more real than anything else. And once they 304 The Art of Seduction lose touch with reality, they are (to quote Stendhal on Lord Byron's female victims) like roasted larks that fall into your mouth. Most people have a misconception about illusion. As any magician knows, it need not be built out of anything grand or theatrical; the grand and theatrical can in fact be destructive, calling too much attention to you and your schemes. Instead create the appearance of normality. Once your targets feel secure-nothing is out of the ordinary-you have room to deceive them. Pei Pu did not spin the lie about his gender immediately; he took his time, made Bouriscout come to him. Once Bouriscout had fallen for it, Pei Pu continued to wear men's clothes. In animating a fantasy, the great mistake is imagining it must be larger than life. That would border on camp, which is entertaining but rarely seductive. Instead, what you aim for is what Freud called the "uncanny," something strange and familiar at the same time, like a deja vu, or a childhood memory-anything slightly irrational and dreamlike. The uncanny, the mix of the real and the unreal, has immense power over our imaginations. The fantasies you bring to life for your targets should not be bizarre or exceptional; they should be rooted in reality, with a hint of the strange, the theatrical, the occult (in talk of destiny, for example). You vaguely remind people of something in their childhood, or a character in a film or book. Even before Bouriscout heard Pei Pu's story, he had the uncanny feeling ofsomethingremarkable and fantastical in this normal-looking man. The secret to creating an uncanny effect is to keep it subtle and suggestive. Emma Hart came from a prosaic background, her father a country blacksmith in eighteenth-century England. Emma was beautiful, but had no other talents to her credit. Yet she rose to become one of the greatest seductresses in history, seducing first Sir William Hamilton, the English ambassador to the court of Naples, and then (as Lady Hamilton, Sir William's wife) Vice-Admiral Lord Nelson. What was strangest when you met her was an uncanny sense that she was a figure from the past, a woman out of Greek myth or ancient history. Sir William was a collector of Greek and Roman antiquities; to seduce him, Emma cleverly made herself resemble a Greek statue, and mythical figures in paintings of the time. It was not just the way she wore her hair, or dressed, but her poses, the way she carried herself. It was as if one of the paintings he collected had come to life. Soon Sir William began to host parties in his home in Naples at which Emma would wear costumes and pose, re-creating images from mythology and history. Dozens of men fell in love with her, for she embodied an image from their childhood, an image of beauty and perfection. The key to this fantasy creation was some sharedcultural association-mythology, historical seductresses like Cleopatra. Every culture has a pool of such figures from the distant and not-so-distant past. You hint at a similarity, in spirit and in appearance-but you are flesh and blood. What could be more thrilling than the sense of being in the presence of some fantasy figure going back to your earliest memories? One night Pauline Bonaparte, the sister of Napoleon, held a gala affair Confuse Desire and Reality-The Perfect Illusion • 305 in her house. Afterward, a handsome German officer approached her in the garden and asked for her help in passing along a request to the emperor. Pauline said she would do her best, and then, with a rather mysterious look in her eye, asked him to come back to the same spot the next night. The officer returned, and was greeted by a young woman who led him to some rooms near the garden and then to a magnificent salon, complete with an extravagant bath. Moments later, another young woman entered through a side door, dressed in the sheerest garments. It was Pauline. Bells were rung, ropes were pulled, and maids appeared, preparing the bath, giving the officer a dressing gown, then disappearing. The officer later described the evening as something out of a fairy tale, and he had the feeling that Pauline was deliberately acting the part of somemythical seductress. Pauline was beautiful and powerful enough to get almost any man she wanted, and she wasn't interested simply in luring a man into bed; she wanted to envelop him in romantic adventure, seduce his mind. Part of the adventure was the feeling that she was playing a role, and was inviting her target along into this shared fantasy. Role playing is immensely pleasurable. Its appeal goes back to childhood, where we first leam the thrill of trying on different parts, imitating adults or figures out of fiction. As we get older and society fixes a role on us, a part of us yearns for the playful approach we once had, the masks we were able to wear. We still want to play that game, to act a different role in life. Indulge your targets in this wish by first making it clear that you are playing a role, then inviting them to join you in a shared fantasy. The more you set things up like a play or a piece of fiction, the better. Notice how Pauline began the seduction with a mysterious request that the officer reappear the next night; then a second woman led him into a magical series of rooms. Pauline herself delayed her entrance, and when she appeared, she did not mention his business with Napoleon, or anything remotely banal. She had an ethereal air about her; he was being invited to enter a fairy tale. The evening was real, but had an uncanny resemblance to an erotic dream. Casanova took role playing still further. He traveled with an enormous wardrobe and a trunk full of props, many of them gifts for his targets- fans, jewels, other accouterments. And some of the things he said and did were borrowed from novels he had read and stories he had heard. He enveloped women in a romantic atmosphere that was heightened yet quite real to their senses. Like Casanova, you must see the world as a kind of theater. Inject a certain lightness into the roles you are playing; try to create a sense of drama and illusion; confuse people with the slight unreality of words and gestures inspired by fiction; in daily life, be the consummate actor. Our culture reveres actors because of their freedom to play roles. It is something that all of us envy. For years, the Cardinal de Rohan had been afraid that he had somehow offended his queen, Marie Antoinette. She would not so much as look at him. Then, in 1784, the Comtesse de Lamotte-Valois suggested to him that the queen was prepared not only to change this situation but actually to befriend him. The queen, said Lamotte-Valois, would indicate this in her next formal reception-she would nod to him in a particular way. During the reception, Rohan indeed noticed a slight change in the queen's behavior toward him, and a barelyperceptibleglance at him. He was oveijoyed. Now the countess suggested they exchange letters, and Rohan spent days writing and rewriting his first letter to the queen. To his delight he received one back. Next the queen requested a private interview with him in the gardens of Versailles. Rohan was beside himself with happiness and anxiety. At nightfall he met the queen in the gardens, fell to the ground, and kissed the hem of her dress. "You may hope that the past will be forgotten," she said. At this moment they heard voices approaching, and the queen, frightened that someone would see them together, quickly fled with her servants. But Rohan soon received a request from her, again through the countess: she desperately wanted to acquire the most beautiful diamond necklace ever created. She needed a go-between to purchase it for her, since the king thought it too expensive. She had chosen Rohan for the task. The cardinal was only too willing; in performing this task he would prove his loyalty, and the queen would be indebted to him forever. Rohan acquired the necklace. The countess was to deliver it to the queen. Now Rohan waited for the queen both to thank him and slowly to pay him back. Yet this never happened. The countess was in fact a grand swindler; the queen had never nodded to him, he had only imagined it. The letters he had received from her were forgeries, and not even very good ones. The woman he had met in the park had been a prostitute paid to dress and act the part. The necklace was of course real, but once Rohan had paid for it, and handed it over to the countess, it disappeared. It was broken into parts, which were hawked all over Europe for enormous amounts. And when Rohan finally complained to the queen, news of the extravagant purchase spread rapidly. The public believed Rohan's story-that the queen had indeed bought the necklace, and was pretending otherwise. This fiction was the first step in the ruin of her reputation. Everyone has lost something in life, has felt the pangs of disappointment. The idea that we can get something back, that a mistake can be righted, is immensely seductive. Under the impression that the queen was prepared to forgive some mistake he had made, Rohan hallucinated all kinds of things-nods that did not exist, letters that were the flimsiest of forgeries, a prostitute who became Marie Antoinette. The mind is infinitely vulnerable to suggestion, and even more so when strong desires are involved. And nothing is stronger than the desire to change the past, right a wrong, satisfy a disappointment. Find these desires in your victims and creating a believable fantasy will be simple for you: few have the power to see through anillusion they desperately want to believe in. Confuse Desire and Reality-The Perfect Illusion • 307 Symbol: Shangri-La. Everyone has a vision in their mind of a perfect place where people are kind and noble, where their dreams can be realized and their wishes fulfilled, where life isfull of adventure and romance. Lead the target on a journey there, give them a glimpse of Shangri- La through the mists on the mountain, and they willfall in love. Reversal T here is no reversal to this chapter. No seduction can proceed without creating illusion, the sense of a world that is real but separate from reality. 15 Isolate the Victim An isolated person is weak. By slowly isolating your victims, you make them more vulnerable to your influence. Their isolation may be psychological: by filling their field of vision through the pleasurable attention you pay them, you crowd out everything else in their mind. They see and think only of you. The isolation may also be physical: you take them away from their normal milieu, friends, family, home. Give them the sense of being marginalized, in limbo-they are leaving one world behind and entering another. Once isolated like this, they have no outside support, and in their confusion they are easily led astray. Lure the seduced into your lair, where nothing is familiar. Isolation-the Exotic Effect I n the early fifth century B.C., Fu Chai, the Chinese king of Wu, defeated his great enemy, Kou Chien, the king of Yueh, in a series of battles. Kou Chien was captured and forced to serve as a groom in Fu Chai's stables. He was finally allowed to return home, but every year he had to pay a large tribute of money and gifts to Fu Chai. Over the years, this tribute added up, so that the kingdom of Wu prospered and Fu Chai grew wealthy One year Kou Chien sent a delegation to Fu Chai: they wanted to know if he would accept a gift of two beautiful maidens as part of the tribute. Fu Chai was curious, and accepted the offer. The women arrived a few days later, amid much anticipation, and the king received them in his palace. The two approached the throne-their hair was magnificendy coiffured, in what was called "the cloud-cluster" style, ornamented with pearl ornaments and kingfisher feathers. As they walked, jade pendants hanging from their girdles made the most delicate sound. The air was full of some delightful perfume. The king was extremely pleased. The beauty of one of the girls far surpassed that of the other; her name was Hsi Shih. She looked him in the eye without a hint of shyness; in fact she was confident and coquettish, something he was not used to seeing in such a young girl. Fu Chai called for festivities to commemoratetheoccasion. The halls of the palace filled with revelers; inflamed with wine, Hsi Shih danced before the king. She sang, and her voice was beautiful. Reclining on a couch of white jade, she looked like a goddess. The king could not leave her side. The next day he followed her everywhere. To his astonishment, she was witty, sharp, and knowledgeable, and could quote the classics better than he could. When he had to leave her to deal with royal affairs, his mind was full of her image. Soon he brought her with him to his councils, asking her advice on important matters. She told him to listen less to his ministers; he was wiser than they were, his judgment superior. Hsi Shill's power grew daily. Yet she was not easy to please; if the king failed to grant some wish of hers, tears would fill her eyes, his heart would melt, and he would yield. One day she begged him to build her a palace outside the capital. Of course, he obliged her. And when he visited the palace, he was astounded at its magnificence, even though he had paid the bills: Hsi Shih had filled it with the most extravagant furnishings. The grounds contained an artificial lake with marble bridges crossing over it. Fu Chai spent more and more time here, sitting by a pool and watching Hsi In the state of Wu great preparations had been made for the reception of the two beauties. The king received them in audience surrounded by his ministers and all his court. As they approached him the jade pendants attached to their girdles made a musical sound and the air was fragrant with the scent of their gowns. Pearl ornaments and kingfisher feathers adorned their hair. • Fu Chai, the king of Wu, looked into the lovely eyes of Hsi Shih (495-472 B.C.) and forgot his people and his state. Now she did not turn away and blush as she had done three yearspreviously beside the little brook. She was complete mistress of the art of seduction and she knew how to encourage the king to look again. Fu Chai hardly noticed the second girl, whose quiet charms did not attract him. He had eyes only for Hsi Shih, and before the audience was over those at court realized that the girl would be a force to be reckoned with and that she would be able to influence the king either for good or ill. ..." Amidst the revelers in the halls of Wu, Hsi Shih wove her net offascination about the heart of the susceptible monarch. . . . "Inflamed by wine, she now begins to sing / The songs of Wu to please the fatuous king; / And in the dance of Tsu she subtly blends /All rhythmic movements to her sensuous ends." . . . But she could do more than sing and dance to amuse the king. She had wit, and her grasp of politics astonished him. When there was anything she wanted she could shed tears which so moved her lover's heart that he could refuse her nothing. For she was, as Fan Li had said, the one and only, the incomparable Hsi Shih, whose magnetic personality attracted everyone, many even against their own will. Embroidered Shih comb her hair, using the pool as a mirror. He would watch her playing with her birds, in their jeweled cages, or simply walking through the palace, for she moved like a willow in the breeze. The months went by; he stayed in the palace. He missed councils, ignored his family and friends, neglected his public functions. He lost track of time. When a delegation came to talk to him of urgent matters, he was too distracted to listen. If anything but Hsi Shih took up his time, he worried unbearably that she would be angry. Finally word reached him of a growing crisis: the fortune he had spent on the palace had bankrupted the treasury, and the people were discontented. He returned to the capital, but it was too late: an army from the kingdom of Yueh had invaded Wu, and had reached the capital. All was lost. Fu Chai had no time to rejoin his beloved Hsi Shih. Instead of letting himself be captured by the king of Yueh, the man who had once served in his stables, he committed suicide. Little did he know that Kou Chien had plotted this invasion for years, and that Hsi Shift's elaborate seduction was the main part of his plan. Interpretation. Kou Chien wanted to make sure that his invasion of Wu would not fail. His enemy was not Fu Chai's armies, or his wealth and his resources, but his mind. If he could be deeply distracted, his mind filled with something other than affairs of state, he would fall like ripe fruit. Kou Chien found the most beautiful maiden in his realm. For three silk curtains encrusted with coral and gems, scented furniture and screens inlaid with jade and mother-of- pearl were among the luxuries which surrounded the favorite. . . . On one of the hills near the palace there was a celebrated pool of clear water which has been known ever since as the pool of the king of Wu. Here, to amuse her lover, Hsi Shih would make her toilet, using the pool as a mirror while the infatuated king combed her hair. HIBBERT, EMBROIDERED GAUZE: PORTRAITS OR FAMOUS CHINESE LADIES years he had her trained in all of the arts-not just singing, dancing, and calligraphy, but how to dress, how to talk, how to play the coquette. And it worked: Hsi Shih did not allow Fu Chai a moment's rest. Everything about her was exotic and unfamiliar. The more attention he paid to her hair, her moods, her glances, the way she moved, the less he thought about diplomacy and war. Hewas driven to distraction. All of us today are kings protecting the tiny realm of our own lives, weighed down by all kinds of responsibilities, surrounded by ministers and advisers. A wall forms around us-we are immune to the influence of other people, because we are so preoccupied. Like Hsi Shih, then, you must lure your targets away, gently, slowly, from the affairs that fill their mind. And what will best lure them from their castles is the whiff of the exotic. Offer something unfamiliar that will fascinate them and hold their attention. Be different in your manners and appearance, and slowly envelop them in this different world of yours. Keep your targets off balance with coquettish changes of mood. Do not worry that the disruption you represent is making them emotional-that is a sign of their growing weakness. Most people are ambivalent: on the one hand they feel comforted by their habits and duties, on the other they are bored, and ripe for anything that seems exotic, that seems to come from somewhere else. They may struggle or have doubts, but exotic pleasures are irresistible. The more you can get them Isolate the Victim • 313 into your world, the weaker they become. As with the king of Wu, by the time they realize what has happened, it is too late. Isolation-The "Only You" Effect I n 1948, the twenty-nine-year-old actress Rita Hayworth, known as Hollywood's Love Goddess, was at a low point in her life. Her marriage to Orson Welles was breaking up, her mother had died, and her career seemed stalled. That summer she headed for Europe. Welles was in Italy at the time, and in the back of her mind she was dreaming of a reconciliation. Rita stopped first at the French Riviera. Invitations poured in, particularly from wealthy men, for at the time she was considered the most beautiful woman in the world. Aristotle Onassis and the Shah of Iran telephoned her almost daily, begging for a date. She turned them all down. A few days after her arrival, though, she received an invitation from Elsa Maxwell, the society hostess, who was giving a little party in Cannes. Rita balked but Maxwell insisted, telling her to buy a new dress, show up a little late, and make a grand entrance. Rita played along, and arrived at the party wearing a white Grecian gown, her red hair falling over her bare shoulders. She was greeted by a reaction she had grown used to: all conversation stopped as both men and women turned in their chairs, the men gazing in amazement, the women jealous. A man hurried to her side and escorted her to her table. It was thirty-seven-year-old Prince Aly Khan, the son of the Aga Khan III, who was the worldwide leader of the Islamic Ismaili sect andone of the richest men in the world. Rita had been warned about Aly Khan, a notorious rake. To her dismay, they were seated next to each other, and he never left her side. He asked her a million questions-about Hollywood, her interests, on and on. She began to relax a little and open up. There were other beautiful women there, princesses, actresses, but Aly Khan ignored them all, acting as if Rita were the only woman there. He led her onto the dance floor, and though he was an expert dancer, she felt uncomfortable-he held her a little too close. Still, when he offered to drive her back to her hotel, she agreed. They sped along the Grande Corniche; it was a beautiful night. For one evening she had managed to forget her many problems, and she was grateful, but she was still in love with Welles, and an affair with a rake like Aly Khan was not what she needed. Aly Khan had to fly off on business for a few days; he begged her to stay at the Riviera until he got back. While he was away, he telephoned constantly. Every morning a giant bouquet of flowers arrived. On the telephone he seemed particularly annoyed that the Shah of Iran was trying hard to see her, and he made her promise to break the date to which she had finally agreed. During this time, a gypsy fortune-teller visited the hotel, and Rita agreed to have her fortune read. "Youareaboutto embark on the In Cairo Aly bumped into [the singer ] Juliette Greco again. He asked her to dance. • "You have too bad a reputation," she replied. "We're going to sit very much apart. " • "What are you doing tomorrow?" he insisted. • "Tomorrow I take a plane to Beirut." • When she boarded the plane, Aly was already on it, grinning at her surprise. . . . • Dressed in tight black leather slacks and a black sweater [Greco] stretched languorously in an armchair of her Paris house and observed: • "They say I am a dangerous woman. Well, Aly was a dangerous man. He was charming in a very special way. There is a kind of man who is very clever with women. He takes you out to a restaurant and if the most beautiful woman comes in, he doesn't look at her. He makes youfeel you are a queen. Of course, I understood it. I didn't believe it. I would laugh and point out the beautiful woman. But that is me. . . . Most women are made very happy by that kind of attention. It's pure vanity. She thinks, 'I'll be the one and the others will leave.' • "... With Aly, how the woman felt was most important. . . . He was a great charmer, a great seducer. He made you feel fine and that everything was easy. No problems. Nothing to worry about. Or regret. It was always, 'What can I do for you? What do you need?' Airplane tickets, cars, boats; you felt you were on a pink cloud." -LEONARD SLATER, ALY: A BIOGRAPHY 314 ANNE: Didst thou not kill this king [Henry VI]? \ RICHARD: I grant ye. . . . \ ANNE: And thou unfit for any place, but hell. \ RICHARD: Yes, one place else, if you will hear me name it. \ ANNE: Some dungeon. \ RICHARD: Your bedchamber, \ ANNE: III rest betide the chamber where thou liest! \ RICHARD: So will it, madam, till I lie with you. . . . But gentle Lady Anne . . . \ Is not the causer of the timeless deaths \ Of these Plantagenets, Henry and Edward, \ As blameful as the executioner? \ ANNE: Thou wast the cause and most accursed effect. \ RICHARD: Your beauty was the cause of that effect - \ Your beauty, that did haunt me in my sleep \ To undertake the death of all the world, \ So I might live one hour in your sweet bosom. -WILLIAM SHAKESPEARE, THE TRAGEDY OF KING RICHARD III My child, my sister, dream \ How sweet all things would seem \ Were we in that kind land to live together, \And there love slow and long, \ There love and die among \ Those scenes that image you, that sumptuous weather. \ Drowned suns that glimmer there \ Through cloud-dishevelled air \ Move me with such a mystery as appears \ Within those other skies \ Of your treacherous eyes \ When I behold them shining through their tears. \ There, there is nothing else but grace and measure, \ Richness, quietness, and pleasure. . . . \ See, greatest romance of your life," the gypsy told her. "He is somebody you already know. . . . You must relent and give in to him totally. Only if you do that will you find happiness at long last." Not knowing who this man could be, Rita, who had a weakness for the occult, decided to extend her stay. Aly Khan came back; he told her that his chateau overlooking the Mediterranean was the perfect place to escape from the press and forget her troubles, and that he would behave himself. She relented. Life in the chateau was like a fairy tale; wherever she turned, his Indian helpers were there to attend to her every wish. At night he would take her into his enormous ballroom, where they would dance all by themselves. Could this be the man the fortune-teller meant? Aly Khan invited his friends over to meet her. Among this strange company she felt alone again, and depressed; she decided to leave the chateau. Just then, as if he had read her thoughts, Aly Khan whisked her off to Spain, the country that fascinated her most. The press caught on to the affair, and began to hound them in Spain: Rita had had a daughter with Welles-was this any way for a mother to act? Aly Khan's reputation did not help, but he stood by her, shielding her from the press as best he could. Now she was more alone than ever, and more dependent on him. Near the end of the trip, Aly Khan proposed to Rita. She turned him down; she did not think he was the kind of man you married. He followed her to Hollywood, where her former friends were less friendly than before. Thank God she had Aly Khan to help her. A year later she finally succumbed, abandoning her career, moving to Aly Khan's chateau, and marrying him. Interpretation. Aly Khan, like a lot of men, fell in love with Rita Hayworth the moment he saw the film Gilda, in 1948. He made up his mind that he would seduce her somehow. The moment he heard she was coming to the Riviera, he got his friend Elsa Maxwell to lure her to the party and seat her next to him. He knew about the breakup of her marriage, and how vulnerable she was. His strategy was to block out everything else in her world-problems, other men, suspicion of him and his motives, etc. His campaign began with the display of an intense interest in her life- constant phone calls, flowers, gifts, all to keep him in her mind. He set up the fortune-teller to plant the seed. When she began to fall for him, he introduced her to his friends, knowing she would feel alienated among them, and therefore dependent on him. Her dependence was heightened by the trip to Spain, where she was on unfamiliar territory, besieged by reporters, and forced to cling to him for help. He slowly came to dominate her thoughts. Everywhere she turned, there he was. Finally she succumbed, out of weakness and the boost to her vanity that his attention represented. Under his spell, she forgot about his horrid reputation, relinquishing the suspicions that were the only thing protecting her from him. It was not Aly Khan's wealth or looks that made him a great seducer. Isolate the Victim • 315 He was not in fact very handsome, and his wealth was more than offset by his bad reputation. His success was strategic: he isolated his victims, working so slowly and subtly that they did not notice it. The intensity of his attention made a woman feel that in his eyes, at that moment, she was the only woman in the world. This isolation was experienced as pleasure; the woman did not notice her growing dependence, how the way he filled up her mind with his attention slowly isolated her from her friends and her milieu. Her natural suspicions of the man were drowned out by his intoxicating effect on her ego. Aly Khan almost always capped off his seductions by taking the woman to some enchanted place on the globe-a place that he knew well, but where the woman felt lost. Do not give your targets the time or space to worry about, suspect, or resist you. Flood them with the kind of attention that crowds out all other thoughts, concerns, and problems. Remember-people secretly yearn to be led astray by someone who knows where they are going. It can be a pleasure to let go, and even to feel isolated and weak, if the seduction is done slowly and gracefully. Put them in a spot where they have no place to go, and they will die before fleeing. shelteredfrom the swells \ There in the still canals \ Those drowsy ships that dream of sailingforth; \ It is to satisfy \ Your least desire, they ply \ Hither through all the waters of the earth. \ The sun at close of day \ Clothes the fields of hay, \ Then the canals, at last the town entire \ In hyacinth and gold: \ Slowly the land is rolled \ Sleepward under a sea of gentle fire. \ There, there is nothing else but grace and measure, \ Richness, quietness, and pleasure. -CHARLES BAUDELAIRE, "INVITATION TO THEVOYAGE," THE FLOWERS OF EVIL, Keys to Seduction T he people around you may seem strong, and more or less in control of their lives, but that is merely a facade. Underneath, people are more brittle than they let on. What lets them seem strong is the series of nests and safety nets they envelop themselves in-their friends, their families, their daily routines, which give them a feeling of continuity, safety, and control. Suddenly pull the rug out from under them, drop them alone into some foreign place where the familiar signposts are gone or scrambled, and you will see a very different person. A target who is strong and settled is hard to seduce. But even the strongest people canbe made vulnerable if you can isolate them from their nests and safety nets. Block out their friends and family with your constant presence, alienate them from the world they are used to, and take them to places they do not know. Get them to spend time in your environment. Deliberately disturb their habits, get them to do things they have never done. They will grow emotional, making it easier to lead them astray. Disguise all this in the form of a pleasurable experience, and your targets will wake up one day distanced from everything that normally comforts them. Then they will turn to you for help, like a child crying out for its mother when the lights are turned out. In seduction, as in warfare, the isolated target is weak and vulnerable. In Samuel Richardson's Clarissa, written in 1748, the rake Lovelace is The Art of Seduction attempting to seduce the novel's beautiful heroine. Clarissa is young, virtuous, and very much protected by her family. But Lovelace is a conniving seducer. First he courts Clarissa's sister, Arabella. A match between them seems likely. Then he suddenly switches attention to Clarissa, playing on sibling rivalry to make Arabella furious. Their brother, James, is angered by Lovelace's change in sentiments; he fights with Lovelace and is wounded. The whole family is in an uproar, united against Lovelace, who, however, manages to smuggle letters to Clarissa, and to visit her when she is at the house of a friend. The family finds out, and accuses her of disloyalty. Clarissa is innocent; she has not encouraged Lovelace's letters or visits. But now her parents are determined to marry her off, to a rich older man. Alone in the world, about to be married to a man she finds repulsive, she turns to Lovelace as the only one who can save her from this mess. Eventually he rescues her by getting her to London, where she can escape this dreaded marriage, but where she is also hopelessly isolated. In these circumstances her feelings toward him soften. All of this has been masterfully orchestrated by Lovelace himself-the turmoil within the family, Clarissa's eventual alienation from them, the whole scenario. Your worst enemies in a seduction are often your targets' family and friends. They are outside your circle and immune to your charms; they may provide a voice of reason to the seduced. You must work silently and subtly to alienate the target from them. Insinuate that they are jealous of your target's good fortune in finding you, or that they are parental figures who have lost a taste for adventure. The latter argument is extremely effective with young people, whose identities are in flux and who are more than ready to rebel against any authority figure,particularly their parents. You represent excitement and life; the friends and parents represent habit and boredom. In Shakespeare's The Tragedy of King Richard III , Richard, when still the Duke of Gloucester, has murdered King Henry VI and his son. Prince Edward. Shortly thereafter he accosts Lady Anne, Prince Edward's widow, who knows what he has done to the two men closest to her, and who hates him as much as a woman can hate. Yet Richard attempts to seduce her. His method is simple: he tells her that what he did, he did because of his love for her. He wanted there to be no one in her life but him. His feelings were so strong he was driven to murder. Of course Lady Anne not only resists this line of reasoning, she abhors him. But he persists. Anne is at a moment of extreme vulnerability-alone in the world, with no one to support her, at the height of grief. Incredibly, his words begin to have an effect. Murder is not a seductive tactic, but the seducer does enact a kind of killing-a psychological one. Our past attachments are a barrier to the present. Even people we have left behind can continue to have a hold on us. As a seducer you will be held up to the past, compared to previous suitors, perhaps found inferior. Do not let it get to that point. Crowd out the past with your attentions in the present. If necessary, find waysto disparage their previous lovers-subtly or not so subtly, depending on the situation. Even go so far as to open old wounds, making them feel old pain and seeing by con- Isolate the Victim trast how much better the present is. The more you can isolate them from their past, the deeper they will sink with you into the present. The principle of isolation can be taken literally by whisking the target off to ait exotic locale. This was Aly Khan's method; a secluded island worked best, and indeed islands, cut off from the rest of the world, have always been associated with the pursuit of sensual pleasures. The Roman Emperor Tiberius descended into debauchery once he made his home on the island of Capri. The danger of travel is that your targets are intimately exposed to you-it is hard to maintain an air of mystery. But if you take them to a place alluring enough to distract them, you will prevent them from focusing on anything banal in your character. Cleopatra lured Julius Caesar into taking a voyage down the Nile. Moving deeper into Egypt, he was further isolated from Rome, and Cleopatra was all the more seductive. The early-twentieth-century lesbian seductress Natalie Barney had an on- again-off-again affair with the poet Renee Vivien; to regain her affections, she took Renee on a trip to the island of Lesbos, a place Natalie had visited many times. In doing so she not only isolated Renee but disarmed and distracted her with the associations of the place, the home of the legendary lesbian poet Sappho. Vivien even began to imagine that Natalie was Sappho herself. Do not take the target just anywhere; pick the place that will have the most effective associations. The seductive power of isolation goes beyond the sexual realm. When new adherents joined Mahatma Gandhi's circle of devoted followers, they were encouraged to cut off their ties with the past-with their family and friends. This kind of renunciation has been a requirement of many religious sects over the centuries. People who isolate themselves in this way are much more vulnerable to influence and persuasion. A charismatic politician feeds off and even encourages people's feelings of alienation. John F. Kennedy did this to great effect when he subtly disparaged the Eisenhower years; the comfort of the 1950s, he implied, compromised American ideals. He invited Americans to join him in a new life, on a "New Frontier," full of danger and excitement. It was an extremely seductive lure, particularly for the young, who were Kennedy's most enthusiastic supporters. Finally, at some point in the seduction there must be a hint of danger in the mix. Your targets should feel that they are gaining a greatadventure in following you, but are also losing something-a part of their past, their cherished comfort. Actively encourage these ambivalent feelings. An element of fear is the proper spice; although too much fear is debilitating, in small doses it makes us feel alive. Like diving out of an airplane, it is exciting, a thrill, at the same time that it is a little frightening. And the only person there to break the fall, or catch them, is you. Symbol: The Pied Piper. A jolly fellow in his red and yellow cloak, he lures the childrenfrom their homes with the delightful sounds of his flute. Enchanted, they do not notice how far they are walking, how they are leaving their families behind. They do not even notice the cave he eventually leads them into, and which closes upon them forever. Reversal T he risks of this strategy are simple: isolate someone too quickly and you will induce a sense of panic that may end up in the target's taking flight. The isolation you bring must be gradual, and disguised as pleasure- the pleasure of knowing you, leaving the world behind. In any case, some people are too fragile to be cut off from their base of support. The great modern courtesan Pamela Harriman had a solution to this problem: she isolated her victims from their families, their former or present wives, and in place of those old connections she quickly set up new comforts for her lovers. She overwhelmed them with attention, attending to their every need. In the case of Averill Harriman, the billionaire who eventually married her, she literally established a new home for him, one that had no associations with the past and was full of the pleasures of the present. It is unwise to keep the seduced dangling in midair for too long, with nothing familiar or comforting in sight. Instead, replace the familiar things you have cut them off from with a new home, a new series of comforts. Phase Three ThePrecipice - Deepening the Effect Through Extreme Measures The goal in this phase is to make everything deeper-the effect you have on their mind, feelings of love and attachment, tension within your victims. With your hooks deep into them, you can then push them back andforth, between hope and despair, until they weaken and snap. Showing how far you are willing to go for your victims, doing some noble or chivalrous deed (16: Prove yourself) will create a powerful jolt, spark an intensely positive reaction. Everyone has scars, repressed desires, and unfinished business from childhood. Bring these desires and wounds to the surface, make your victims feel they are getting what they never got as a child and you will penetrate deep into their psyche, stir uncontrollable emotions (17: Effect a regression).Now you can take your victims past their limits, getting them to act out their dark sides, adding a sense of danger to your seduction (18: Stir up the transgressive and taboo). You need to deepen the spell, and nothing will more confuse and enchant your victims than giving your seduction a spiritual veneer. It is not lust that motivates you, but destiny, divine thoughts and everything elevated (19: Use spiritual lures). The erotic lurks beneath the spiritual. Now your victims have been properly set up. By deliberately hurting them, instilling fears and anxieties, you will lead them to the edge of the precipicefrom which it will be easy to push and make them fall (20: Mix pleasure with pain). They feel great tension and are yearning for relief. i6 Prove Yourself Most people want to be seduced. If they resist your efforts, it is probably because you have not gone far enough to allay their doubts-about your motives, the depth of your feelings, and so on. One well-timed action that shows how far you are willing to go to win them over will dispel their doubts. Do not worry about looking foolish or making a mistake-any kind of deed that is self-sacrificing and for your targets' sake will so overwhelm their emotions, they won't notice anything else. Never appear discouraged by people 's resistance, or complain. Instead, meet the challenge by doing something extreme or chivalrous. Conversely, spur others to prove themselves by making yourself hard to reach, unattainable, worth fighting over. Seductive Evidence A nyone can talk big, say lofty things about their feelings, insist on how much they care for us, and also for all oppressed peoples in the far reaches of the planet. But if they never behave in a way that will back up their words, we begin to doubt their sincerity-perhaps we are dealing with a charlatan, or a hypocrite or a coward. Flattery and fine words can only go so far. A time will eventually arrive when you will have to show your victim some evidence, to match your words with deeds. This kind of evidence has two functions. First, it allays any lingering doubts about you. Second, an action that reveals some positive quality in you is immensely seductive in and of itself. Brave or selfless deeds create a powerful and positive emotional reaction. Don't worry, your deeds do not have to be so brave and selfless that you lose everything in the process. The appearance alone of nobility will often suffice. In fact, in a world where people overanalyze and talk too much, any kind of action has a bracing, seductive effect. It is normal in the course of a seduction to encounter resistance. The more obstacles you overcome, of course, the greater the pleasure that awaits you, but many a seduction fails because the seducer does not correctly read the resistances of the target. More often than not, you give up too easily. First, understand a primary law of seduction: resistance is a sign that the other person's emotions are engaged in the process. The only person you cannot seduce is somebody distant and cold. Resistance is emotional, and can be transformed into its opposite, much as, in jujitsu, the physical resistance of an opponent can be used to make him fall. If people resist you because they don't trust you, an apparently selfless deed, showing how far you are willing to go to prove yourself, is a powerful remedy. If they resist because they are virtuous, or because they are loyal to someone else, all the better-virtue and repressed desire are easily overcome by action. As the great seductress Natalie Barney once wrote, "Most virtue is a demand for greater seduction." There are two ways to prove yourself. First, the spontaneous action: a situation arises in which the target needs help, a problem needs solving, or, simply, he or she needs a favor. You cannot foresee these situations, but you must be ready for them, for they can spring up at any time. Impress the target by going further than really necessary-sacrificing more money, more time, more effort than they had expected. Your target will often use these Loveisa species of warfare. Slack troopers, go elsewhere! It takes more than cowards to guard \ These standards. Night- duty in winter, long-route marches, every \ Hardship, all forms of suffering: these await \ The recruit who expects a soft option. You'll often be out in \ Cloudbursts, and bivouac on the bare \ Ground. . . . Is lasting \ Love your ambition? Then put away all pride. \ The simple, straightforward way in may be denied you, \ Doors bolted, shut in your face - \ So be ready to slip down from the roof through a lightwell, \ Or sneak in by an upper-floor window. She'll be glad \ To know you 're risking your neck, andfor her sake: that will offer \ Any mistress sure proof of your love. - OVID, THE ART OF LOVE.  The man says: " . . .A fruit picked from one's own orchard ought to taste sweeter than one obtained from a stranger's tree, and what has been attained by greater effort is cherished more dearly than what is gained with little trouble. As the proverb says: 'Prizes great cannot be won unless some heavy labor's done. The woman says: "If no great prizes can be won unless some heavy labor's done, you must suffer the exhaustion of many toils to be able to attain thefavors you seek, since what you ask for is a greater prize. " • The man says: "I give you all the thanks that I can express for sosagely promising me your love when I have performed great toils. Godforbid that I or any other could win the love of so worthy a woman without first attaining it by many labors." -ANDREAS CAPELLANUS ON LOVE. One day, [Saint-Preuil] pleaded more than usual that [Madame de la Maisonfort ] grant him the ultimate favors a woman could offer, and he went beyond just words in his pleading. Madame, saying he had gone way too far, ordered him to never ever appear before her again. He left her room. Only an hour later, the lady was taking her customary walk along one of those beautiful canals at Bagnolet, when Saint-Preuil leapt outfrom behind a hedge, totally naked, and standing before his mistress in this state, he cried out, "For the last time, Madame - Goodbye!" Thereupon, he threw himself into the canal, head first. The lady, terrified by such a sight, moments, or even manufacture them, as a kind of test: will you retreat? Or will you rise to the occasion? You cannot hesitate or flinch, even for a moment, or all is lost. If necessary, make the deed seem to have cost you more than it has, never with words, but indirectly-exhausted looks, reports spread through a third party, whatever it takes. The second way to prove yourself is the brave deed that you plan and execute in advance, on your own and at the right moment-preferably some way into the seduction, when any doubts the victim still has about you are more dangerous than earlier on. Choose a dramatic, difficult action that reveals the painful time and effort involved. Danger can be extremely seductive. Cleverly lead your victim into a crisis, a moment of danger, or indirectly put them in an uncomfortable position, and you can play the rescuer, the gallant knight. The powerful feelings and emotions this elicits can easily be redirected into love. Some Examples 1 . In France in the 1640s, Marion de l'Orme was the courtesan men lusted after the most. Renowned for her beauty, she had been the mistress of Cardinal Richelieu, among other notable political and military figures. To win her bed was a sign of achievement. For weeks the rake Count Grammont had wooed de l'Orme, and finally she had given him an appointment for a particular evening. The count prepared himself for a delightful encounter, but on the day of the appointment he received a letter from her in which she expressed, in polite and tender terms, her terrible regrets-she had the most awful headache, and would have to stay in bed that evening. Their appointment would have to be postponed. The count felt certain he was being pushed to the side for someone else, for de l'Orme was as capricious as she was beautiful. Grammont did not hesitate. At nightfall he rode to the Marais, where de l'Orme lived, and scouted the area. In a square near her home he spotted a man approaching on foot. Recognizing the Due de Brissac, he immediately knew that this man was to supplant him in the courtesan's bed. Brissac seemed unhappy to see the count, and so Grammont approached him hurriedly and said, "Brissac, my friend, you must do me a service of the greatest importance: I have an appointment, for the first time, with a girl who lives near this place; and as this visit is only to concert measures, I shall make but a very short stay. Be so kind as to lend me your cloak, and walk my horse a little, until I return; but above all, do not go far from this place." Without waiting for an answer, Grammont took the duke's cloak and handed him the bridle of his horse. Looking back, he saw that Brissac was watching him, so he pretended to enter a house, slipped out through the back, circled around, and reached de l'Orme's house without being seen. Prove Yourself • 325 Grammont knocked at the door, and a servant, mistaking him for the duke, let him in. He headed straight for the lady's chamber, where he found her lying on a couch, in a sheer gown. He threw off Brissac's cloak and she gasped in fright. "What is the matter, my fair one?" he asked. "Your headache, to all appearance, is gone?" She seemed put out, exclaimed she still had the headache, and insisted that he leave. It was up to her, she said, to make or break appointments. "Madam," Grammont said calmly, "I know what perplexes you: you are afraid lest Brissac should meet me here; but you may make yourself easy on that account." He then opened the window and revealed Brissac out in the square, dutifully walking back and forth with a horse, like a common stable boy. He looked ridiculous; de l'Orme burst out laughing, threw her arms around the count, and exclaimed, "My dear Chevalier, I can hold out no longer; you are too amiable and too eccentric not to be pardoned." He told her the whole story, and she promised that the duke could exercise horses all night, but she would not let him in. They made an appointment for the following evening. Outside, the count returned the cloak, apologized for taking so long, and thanked the duke. Brissac was most gracious, even holding Grammont's horse for him to mount, and waving goodbye as he rode off. Interpretation. Count Grammont knew that most would-be seducers give up too easily, mistaking capriciousness or apparent coolness as a sign of a genuine lack of interest. In fact it can mean many things: perhaps the person is testing you, wondering if you are really serious. Prickly behavior is exactly this kind of test-if you give up at the first sign of difficulty, you obviously do not want them that much. Or it could be that they themselves are uncertain about you, or are trying to choose between you and someone else. In any event, it is absurd to give up. One incontrovertible demonstration of how far you are willing to go will overwhelm all doubts. It will also defeat your rivals, since most people are timid, worried about making fools of themselves, and so rarely risk anything. When dealing with difficult or resistant targets, it is usually best to improvise, the way Grammont did. If your action seems sudden and a surprise, it will make them more emotional, loosen them up. A little roundabout accumulation of information-a little spying-is always a good idea. Most important is the spirit in which you enact your proof. If you are lighthearted and playful, if you make the target laugh, proving yourself and amusing them at the same time, it won't matter if you mess up, or if they see you have employed a little trickery. They will give in to the pleasant mood you have created. Notice that the count never whined or grew angry or defensive. All he had to do was pull back the curtain and reveal the duke walking his horse, melting de l'Orme's resistance with laughter. In one well-executed act, he showed whathe would do for a night of her favors. began to cry and to run in the direction of her house, where upon arriving, she fainted. As soon as she could speak, she ordered that someone go and see what had happened to Saint-Preuil, who in truth had not stayed very long in the canal, and having quickly put his clothes back on, hurried to Paris where he hid himselffor several days. Meanwhile, the rumor spread that he had died. Madame de la Maisnnfort was deeply moved by the extreme measures he had adopted to prove his sentiments. This act of his appeared to her to be a sign of an extraordinary love; and having perhaps noticed some charms in his naked presence that she had not seen fully clothed, she deeply regretted her cruelty, and publicly stated her feeling of loss. Word of this reached Saint-Preuil, and he immediately resurrected himself and did not lose time in taking advantage of such afavorable feeling in his mistress. - COUNT BUSSY-RABUTIN, HISTOIRES AMOUREUSES DES GAULES To become a lady's vassal . . . the troubadour was expected to pass through four stages, i.e.: aspirant, supplicant, postulant, and lover. When he had attained the last stage of amorous initiation he made a vow of fidelity and this homage was sealed by a kiss. • In this idealistic form of courtly love reservedfor the aristocratic elite of chivalry, the phenomenon of love was considered to be a state of grace, while the initiation that followed, and the final sealing of the pact-or equivalent of the knightly accolade - were linked with the rest of a nobleman's training and valorous exploits. The hallmarks of a true lover and of a perfect knight were almost identical. The lover was bound to serve and obey his lady as a knight served his lord. In both cases the pledge was of a sacred nature. - NINA EPTON, LOVE AND THE FRENCH one of the goodly towns of the kingdomof France there dwelt a nobleman of good birth, who attended the schools that he might learn how virtue and honor are to be acquired among virtuous men. But although he was so accomplished that at the age of seventeen or eighteen years he was, as it were, both precept and example to others, Love failed not to add his lesson to the rest; and, that he might be the better harkened to and received, concealed himself in the face and the eyes of the fairest lady in the whole country round, who had come to the city in order to advance a suit-at- law. But before Love sought to vanquish the gentleman by means of this lady's beauty, he had first won her heart by letting her see the perfections of this young lord; for in good looks, grace, sense and excellence of speech he was surpassed by none. • You, who know what speedy way is made by the fire of love when once it fastens on the heart andfancy, will 2. Pauline Bonaparte, the sister of Napoleon, had so many affairs with different men over the years that doctors were afraid for her health. She could not stay with one man for more than a few weeks; novelty was her only pleasure. After Napoleon married her off to Prince Camillo Borghese, in 1803, her affairs only multiplied. And so, when she met the dashing Major Jules de Canouville, in 1810, everyone assumed the affair would last no longer than the others. Of course the major was a decorated soldier, well educated, an accomplished dancer, and one of the most handsome men in the army. But Pauline, thirty years old at the time, had had affairs with dozens of men who could have matched that resume. A few days after the affair began, the imperial dentist arrived chez Pauline. A toothache had been causing her sleepless nights, and the dentist saw he would have to pull out the bad tooth right then and there. No painkillers were used at the time, and as the man began to take out his various instruments, Pauline grew terrified. Despite the pain of the tooth, she changed her mind and refused to have it pulled. Major Canouville was lounging on a couch in a silken robe. Taking all this in, he tried to encourage her to have it done: "A moment or two of pain and it's over forever. ... A child could go through with it and not utter a sound." "I'd like to see you do it," she said. Canouville got up, went over to the dentist, chose a tooth in the back of his own mouth, and ordered that it be pulled. A perfectly good tooth was extracted, and Canouville barely batted an eyelash. After this, not only did Pauline let the dentist do his job, her opinion of Canouville changed; no man had ever done anything like this for her before. The affair had been going to last but a few weeks; now it stretched on. Napoleon was not pleased. Pauline was a married woman; short affairs were allowed, but a deep attachment was embarrassing. He sent Canouville to Spain, to deliver a message to a general there. The mission would take weeks, and in the meantime Pauline would find someone else. Canouville, though, was not your average lover. Riding day and night, without stopping to eat or sleep, he arrived in Salamanca within a few days. There he found that he could proceed no farther, since communications had been cut off, and so, without waiting for further orders, he rode back to Paris, without an escort, through enemy territory. He could meet with Pauline only briefly; Napoleon sent him right back to Spain. It was months before he was finally allowed to return, but when he did, Pauline immediately resumed her affair with him-an unheard-of act of loyalty on her part. This time Napoleon sent Canouville to Germany and finally to Russia, where he died bravely in battle in 1812. He was the only lover Pauline ever waited for, and the only one she ever mourned. Interpretation. In seduction, the time often comes when the target has begun to fall for you, but suddenly pulls back. Your motives have begun toseem dubious-perhaps all you are after is sexual favors, or power, or money. Most people are insecure and doubts like these can ruin the seductive illusion. In the case of Pauline Bonaparte, she was quite accustomed to using men for pleasure, and she knew perfectly well that she was being used in turn. She was totally cynical. But people often use cynicism to cover up insecurity. Pauline's secret anxiety was that none of her lovers had ever really loved her-that all of them to a man had really just wanted sex or political favors from her. When Canouville showed, through concrete actions, the sacrifices he would make for her-his tooth, his career, his life- he transformed a deeply selfish woman into a devoted lover. Not that her response was completely unselfish: his deeds were a boost to her vanity. If she could inspire these actions from him, she must be worth it. But if he was going to appeal to the noble sede of her nature, she had to rise to that level as well, and prove herself by remaining loyal to him. Making your deed as dashing and chivalrous as possible will elevate the seduction to a new level, stir up deep emotions, and conceal any ulterior motives you may have. The sacrifices you are making must be visible; talking about them, or explaining what they have cost you, will seem like bragging. Lose sleep, fall ill, lose valuable time, put your career on the line, spend more money than you can afford. You can exaggerate all this for effect, but don't get caught boasting about it or feeling sorry for yourself: cause yourself pain and let them see it. Since almost everyone else in the world seems to have an angle, your noble and selfless deed will be irresistible. Throughout the 1890s and into the early twentieth century, Gabriele D'Annunzio was considered one of Italy's premier novelists and playwrights. Yet many Italians could not stand the man. His writing was florid, and in person he seemed full of himself, overdramatic-riding horses naked on the beach, pretending to be a Renaissance man, and more of the kind. His novels were often about war, and about the glory of facing and defeating death-an entertaining subject for someone who had never actually done so. And so, at the start of World War I, no one was surprised that D'Annunzio led the call for Italy to side with the Allies and enter the fiay. Everywhere you turned, there he was, giving a speech in favor of war- a campaign that succeeded in 1915, when Italy finally declared war on Germany and Austria. D'Annunzio's role so far had been completely predictable. But what did surprise the Italian public was what this fifty-two- year-old man did next: he joined the army. He had never served in the military, boats made him seasick, but he could not be dissuaded. Eventually the authorities gave him a post in a cavalry division, hoping to keep him out of combat. Italy had little experience in war, and its military was somewhat chaotic. The generals somehow lost track of D'Annunzio-who, in any readily imagine that between two subjects so perfect as these it knew little pause until it had them at its will, and had so filled them with its clear light, that thought, wish, and speech were all aflame with it. Youth, begetting fear in the young lord, led him to urge his suit with all the gentleness imaginable; but she, being conquered by love, had no need offorce to win her. Nevertheless, shame, which tarries with ladies as long as it can, for some time restrained her from declaring her mind. But at last the heart's fortress, which is honor's abode, was shattered in such sort that the poor lady consented to that which she had never been minded to refuse. • In order, however, to make trial of her lover's patience, constancy, and love, she granted him what he sought on a very hard condition, assuring him that if he fulfilled it she would love him perfectly forever; whereas, if he failed in it, he would certainly never win her as long as he lived. And the condition was this: she would be willing to talk with him, both being in bed together, clad in their linen only, but he was to ask nothinginore from her than words and kisses. • He, thinking there was no joy to be compared to that which she promised him, agreed to the proposal, and that evening the promise was kept; in such wise that, despite all the caresses she bestowed on him and the temptations that beset him, he would not break his oath. And albeit his torment seemed to him no less than that of Purgatory, yet was his love so great and his hope so strong, sure as he felt of the ceaseless continuance of the love he had thus painfully won, that he preserved his patience and rose from beside her without having done anything contrary to her expressed wish. • The lady was, I think, more astonished than pleased by such virtue; and giving no heed to the honor, patience, and faithfulness her lover had shown in the keeping of his oath, she forthwith suspected that his love was not so great as she had thought, or else that he had found her less pleasing than he had expected. • She therefore resolved, before keeping her promise, to make afurther trial of the love he bore her; and to this end she begged him to talk to a girl in her service, who was younger than herself and very beautiful, bidding him make love speeches to her, so that those who saw him come so often to the house might think that it was for the sake of this damsel and not of herself • The young lord,feeling sure that his own love was returned in equal measure, was wholly obedient to her commands, and for love of her compelled himself to make love to the girl; and she, finding him so handsome and well-spoken, believed his lies more than other truth, and loved him as much as though she herself were greatly loved by him. • The mistress finding that matters were thus well advanced, albeit the young lord did not cease to claim her promise, granted him permission to come and see her at one hour after midnight, saying that after case, had decided to leave his cavalry division and form units of his own. (He was an artist, after all, and could not be subjected to army discipline.) Calling himself Commandante, he overcame his habitual seasickness and directed a series of daring raids, leading groups of motorboats in the middle of the night into Austrian harbors and firing torpedoes at anchored ships. He also learned how to fly, and began to lead dangerous sorties. In August of 1915, he flew over the city of Trieste, then in enemy hands, and dropped Italian flags and thousands of pamphlets containing a message of hope, written in his inimitable style: "The end of your martyrdom is at hand! The dawn of your joy is imminent. From the heights of heaven, on the wings of Italy, I throw you this pledge, this message from my heart." He flew at altitudes unheard of at the time, and through thick enemy fire. The Austrians put a price on his head. On a mission in 1916, D'Annunzio fell against his machine gun, permanently injuring one eye and seriously damaging the other. Told his flying days were over, he convalesced in his home in Venice. At the time, the most beautiful and fashionable woman in Italy was generally considered to be the Countess Morosini, former mistress of the German Kaiser. Her palace was on the Grand Canal, opposite the home of D'Annunzio. Now she found herself besieged by letters and poems from the writer-soldier, mixing details of his flying exploits with declarations of his love. In the middle of air raids on Venice, he would cross the canal, barely able to see out of one eye, to deliver his latest poem. D'Annunzio was much beneath Morosini's station, a mere writer, but his willingness to brave anything on her behalf won her over. The fact that his reckless behavior could get him killed any day only hastened the seduction. D'Annunzio ignored the doctors' advice and returned to flying, leading even more daring raids than before. By the end of the war, he was Italy's most decorated hero. Now, wherever in the nation he appeared, the public filled the piazzas to hear his speeches. After the war, he led a march on Fiume, on the Adriatic coast. In the negotiations to settle the war, Italians believed they should have been awarded this city, but the Allies had not agreed. D'Annunzio's forces took over the city and the poet became a leader, ruling Fiume for more than a year as an autonomous republic. By then, everyone had forgotten about his less-than-glorious past as a decadent writer. Now he could do no wrong. Interpretation. The appeal of seduction is that of being separated from our normal routines, experiencing the thrill of the unknown. Death is the ultimate unknown. In periods of chaos, confusion, and death-the plagues that swept Europe in the Middle Ages, the Terror of the French Revolution, the air raids on London during World War II-people often let go of their usual caution and do things they never would otherwise. They experience a kind of delirium. There is something immensely seductive about danger, about heading into the unknown. Show that you have a reckless streak and a daring nature, that you lack the usual fear of death, and you are instantly fascinating to the bulk of humanity. What you are proving in this instance is not how you feel toward another person but something about yourself: you are willing to go out on a limb. You are not just another talker and braggart. It is a recipe for instant charisma. Any political figure-Churchill, de Gaulle, Kennedy-whohas proven himself on the battlefield has an unmatchable appeal. Many had thought of D'Annunzio as a foppish womanizer; his experience in the war gave him a heroic sheen, a Napoleonic aura. In fact he had always been an effective seducer, but now he was even more devilishly appealing. You do not necessarily have to risk death, but putting yourself in its vicinity will give you a seductive charge. (It is often best to do this some way into the seduction, making it come as a pleasant surprise.) You are willing to enter the unknown. No one is more seductive than the person who has had a brush with death. People will be drawn to you; perhaps they are hoping that some of your adventurous spirit will rub off on them. 4. According to one version of the Arthurian legend, the great knight Sir Lancelot once caught a glimpse of Queen Guinevere, King Arthur's wife, and that glimpse was enough-he fell madly in love. And so when word reached him that Queen Guinevere had been kidnapped by an evil knight, Lancelot did not hesitate-he forgot his other chivalrous tasks and hurried in pursuit. His horse collapsed from the chase, so he continued on foot. Finally it seemed that he was close, but he was exhausted and could go no farther. A horse-driven cart passed by; the cart was filled with loathsome- looking men shackled together. In those days it was the tradition to place criminals-murderers, traitors, cowards, thieves-in such a cart, which then passed through every street in town so that people could see it. Once you had ridden in the cart, you lost all feudal rights for the rest of your life. The cart was such a dreadful symbol that seeing an empty one made you shiver and give the sign of the cross. Even so. Sir Lancelot accosted the cart's driver, a dwarf: "In the name of God, tell me if you've seen my lady the queen pass by this way?" "If you want to get into this cart I'm driving," said the dwarf, "by tomorrow you'll know what has become of the queen." Then he drove the cart onward. Lancelot hesitated for but two of the horse's steps, then ran after it and climbed in. Wherever the cart went, townspeople heckled it. They were most curious about the knight among the passengers. What was his crime? How will he be put to death-flayed? Drowned? Burned upon a fire of thorns? Finally the dwarf let him get out, without a word as to the whereabouts of the queen. To make matters worse, no one now would go near or talk to Lancelot, for he had been in the cart. He kept on chasing the queen, and all along the way he was cursed at, spat upon, challenged by other knights. He having so fully tested the love and obedience he had shown towards her, it was but just that heshould be rewardedfor his long patience. Of the lover's joy on hearing this you need have no doubt, and he failed not to arrive at the appointed time. • But the lady, still wishing to try the strength of his love, had said to her beautiful damsel-"I am well aware of the love a certain nobleman bears to you, and I think you are no less in love with him; and I feel so much pity for you both, that I have resolved to afford you time and place that you may converse together at your ease." • The damsel was so enchanted that she could not conceal her longings, but answered that she would notfail to be present. • In obedience, therefore, to her mistress's counsel and command, she undressed herself and lay down on a handsome bed, in a room the door of which the lady left half open, whilst within she set a light so that the maiden's beauty might be clearly seen. Then she herself pretended to go away, but hid herself near to the bed so carefully that she could not be seen. • Her poor lover, thinking to find her according to her promise, failed not to enter the room as softly as he could, at the appointed hour; and after he had shut the door and put off his garments and fur shoes, he got into the bed, where he looked to find what he desired. But no sooner did he put out his arms to embrace her whom he believed to be his mistress, than the poor girl, believing him entirely her own, had her arms round his neck, speaking to him the while in such loving words and with so beautiful a countenance, that there is not a hermit so holy but he would have forgotten his beads for love of her. • But when the gentleman recognized her with both eye and ear, and found he was not with her for whose sake he had so greatly suffered, the love that had made him get so quickly into the bed, made him risefrom it still more quickly. And in anger equally with mistress and damsel, he said - "Neither yourfolly nor the malice of her who put you there can make me other than I am. But do you try to be an honest woman, for you shall never lose that good name through me. " • So saying he rushed out of the room in the greatest wrath imaginable, and it was long before he returned to see his mistress. However love, which is never without hope, assured him that the greater and more manifest his constancy was proved to be by all these trials, the longer and more delightful would be his bliss. • The lady, who had seen and heard all that passed, was so delighted and amazed at beholding the depth and constancy of his love, that she was impatient to sec him again in order to ask h is fo rgiven ess for the sorrow that she had caused him to endure. And as soon as she could meet with him, she failed not to address him in such excellent and pleasant words, that he not only forgot all his troubles but even deemed them very fortunate, seeing that their issue was to the glory of his constancy and the perfect had disgraced knighthood by riding in the cart. But no one could stop him or slow him down, and finally he discovered that the queen's kidnapper was the wicked Meleagant. He caught up with Meleagant and the two fought a duel. Still weak from the chase, Lancelot seemed to be near defeat, but when word reached him that the queen was watching the battle, he recovered his strength and was on the verge of killing Meleagant when a truce was called. Guinevere was handed over to him. Lancelot could hardly contain his joy at the thought of finally being in his lady's presence. But to his shock, she seemed angry, and would not look at her rescuer. She told Meleagant's father, "Sire, in truth he has wasted his efforts. I shall always deny that I feel any gratitude toward him." Lancelot was mortified but he did not complain. Much later, after undergoing innumerable further trials, she finally relented and they became lovers. One day he asked her: when she had been abducted by Meleagant, had she heard the story of the cart, and how he had disgraced knighthood? Was that why she had treated him so coldly that day? The queen replied, "By delaying for two stepsyou showed your unwillingness to climb into it. That, to tell the truth, is why I didn't wish to see you or speak with you." Interpretation. The opportunity to do your selfless deed often comes upon you suddenly. You have to show your worth in an instant, right there on the spot. It could be a rescue situation, a gift you could make or a favor you could do, a sudden request to drop everything and come to their aid. What matters most is not whether you act rashly, make a mistake, and do something foolish, but that you seem to act on their behalf without thought for yourself or the consequences. At moments like these, hesitation, even for a few seconds, can ruin all the hard work of your seduction, revealing you as self-absorbed, unchival- rous, and cowardly. This, at any rate, is the moral of Chretien de Troyes's twelfth-century version of the story of Lancelot. Remember: not only what you do matters, but how you do it. If you are naturally self-absorbed, learn to disguise it. React as spontaneously as possible, exaggerating the effect by seeming flustered, overexcited, even foolish-love has driven you to that point. If you have to jump into the cart for Guinevere's sake, make sure she sees that you do it without the slightest hesitation. 5. In Rome sometime around 1531, word spread of a sensational young woman named Tullia d'Aragona. Bythe standards of the period, Tullia was not a classic beauty; she was tall and thin, at a time when the plump and voluptuous woman was considered the ideal. And she lacked the cloying, giggling manner of most young girls who wanted masculine attention. No, her quality was nobler. Her Latin was perfect, she could discuss the latest literature, she played the lute and sang. In other words, she was a novelty, and since that was all most men were looking for, they began to visit her in Prove Yourself • 331 great numbers. She had a lover, a diplomat, and the thought that one man had won her physical favors drove them all mad. Her male visitors began to compete for her attention, writing poems in her honor, vying to become her favorite. None of them succeeded, but they kept on trying. Of course there were some who were offended by her, stating publicly that she was no more than a high-class whore. They repeated the rumor (perhaps true) that she had made older men dance while she played the lute, and if their dancing pleased her, they could hold her in their arms. To Tullia's faithful followers, all of noble birth, this was slander. They wrote a document that was distributed far and wide: "Our honored mistress, the well-born and honorable lady Tullia d'Aragona, doth surpass all ladies of the past, present, or future by herdazzlingqualities. Anyone who refuses to conform to this statement is hereby charged to enter the lists with one of the undersigned knights, who will convince him in the customary manner." Tullia left Rome in 1535, going first to Venice, where the poet Tasso became her lover, and eventually to Ferrara, which was then perhaps the most civilized court in Italy. And what a sensation she caused there. Her voice, her singing, even her poems were praised far and wide. She opened a literary academy devoted to ideas of freethinking. She called herself a muse and, as in Rome, a group of young men collected around her. They would follow her around the city, carving her name in trees, writing sonnets in her honor, and singing them to anyone who would listen. One young nobleman was driven to distraction by this cult of adoration: it seemed that everyone loved Tullia but no one received her love in return. Determined to steal her away and marry her, this young man tricked her into allowing him to visit her at night. He proclaimed his undying devotion, showered her with jewels and presents, and asked for her hand. She refused. He pulled out a knife, she still refused, and so he stabbed himself. He lived, but now Tullia's reputation was even greater than before: not even money could buy her favors, or so it seemed. As the years went by and her beauty faded, some poet or intellectual would always come to her defense and protect her. Few of them ever pondered the reality: that Tullia was indeed a courtesan, one of the most popular and well paid in the profession. Interpretation. All of us have defects of some sort. Some of these we are born with, and cannot help. Tullia had many such defects. Physically she was not the Renaissance ideal. Also, her mother had been a courtesan, and she was illegitimate. Yet the men who fell under her spell did not care. They were too distracted by her image-the image of an elevated woman, a woman you would have to fight over to win. Her pose came straight out of the Middle Ages, the days of knights and troubadours. Then, a woman, most often married, was able to control the power dynamic between the sexes by withholding her favors until the knight somehow proved his worth assurance of his love, the fruit of which he enjoyed from that time as fully as he could desire. - QUEEN MARGARET OF NAVARRE, THE HEPTAMERON. QUOTED IN THE VICE ANTHOLOGY , DAVENPORT-HINES A soldier lays siege to cities, a lover to girls' houses, \ The one assaults city gates, the other front doors. \ Love, like war, is a toss-up. The defeated can recover, \ While some you might think invincible collapse; \ So ifyou've got love written off as an easy option \ You'd better think twice. Love calls \ For guts and initiative. Great Achilles sulks for Briseis - \ Quick, Trojans, smash through the Argive wall! \ Hector went into battle from Andromache's embraces \ Helmeted by his wife. \ Agamemnon himself, the Supremo, was struck into raptures \ At the sight of Cassandra's tumbled hair; \ Even Mars was caught on the job, felt the blacksmith's meshes - \ Heaven's best scandal in years. Then take \ My own case. I was idle, born to leisure en deshabille, \ Mind softened by lazy scribbling in the shade. \ But love for a pretty girl soon drove the sluggard \ To action, made him join up. \And just look at me now-fighting fit, dead keen on night exercises: \ If you want a cure for slackness, fall in love! - OVID, THE AMORES. and the sincerity of his sentiments. He could be sent on a quest, or made to live among lepers, or compete in a possibly fatal joust for her honor. And this he had to do without complaint. Although the days of the troubadour are long gone, the pattern remains: a man actually loves to be able to prove himself, to be challenged, to compete, to undergo tests and trials and emerge victorious. He has a masochistic streak; a part of him loves pain. And strangely enough, the more a woman asks for, theworthier she seems. A woman who is easy to get cannot be worth much. Make people compete for your attention, make them prove themselves in some way, and you will find them rising to the challenge. The heat of seduction is raised by such challenges-show me that you really love me. When one person (of either sex) rises to the occasion, often the other person is now expected to do the same, and the seduction heightens. By making people prove themselves, too, you raise your value and cover up your defects. Your targets are too busy trying to prove themselves to notice your blemishes and faults. Symbol: The Tournament. On the field, with its bright pennants and caparisoned horses, the lady looks on as knights fight for her hand. She has heard them declare love on bended knee, their endless songs and pretty promises. They are all good at such things. But then the trumpet sounds and the combat begins. In the tournament there can be no faking or hesitation. The knight she chooses must have blood on hisface, and afew broken limbs. Reversal W hen trying to prove that you are worthy of your target, remember that every target sees things differently. A show of physical prowess not impress someone who does not value physical prowess; it will just that you are after attention, flaunting yourself. Seducers must adapt way of proving themselves to the doubts and weaknesses of the seduced. For some, fine words are better proofs than daredevil deeds, particularly if they are written down. With these people show your sentiments in a letter-a different kind of physical proof, and one with more poetic appeal than some showy bit of action. Know your target well, and aim your seductive evidence at the source of their doubts or resistance. 17 Effect a Regression People who have experienced a certain kind of in the past will try to repeat or relive are usually thosefrom earliest childhood, and are often unassociated with a parental figure. Bring your tartheir emotional response, they willfall in love with you. Alternatively, you too can regress, letting them play the role of the protecting, nursing parent. In either case you are offering the ultimate fantasy: the chance to have an intimate relawith mommy or daddy, son or daughter. A s adults we tend to overvalue our childhood. In their dependency and powerlessness, children genuinely suffer, yet when we get older we conveniently forget about that and sentimentalize the supposed paradise we have left behind. We forget the pain and remember only the pleasure. ? Because the responsibilities of adult life are a burden so oppressive at times that we secretly yearn for the dependency of childhood, for that perwho looked after our every need, assumed our cares and worries. This being dependent on the parent is charged with sexual undertones. Give and they will project all kinds of fantasies onto you, including feelings of or sexual attraction that they will attribute to something else. We won't admit it, but we long to regress, to shed our adult exterior and vent childish emotions that linger beneath the surface. in his career, Sigmund Freud confronted a strange problem: many of his female patients were falling in love with him. He thought he knew what was happening: encouraged by Freud, the patient would delve into would talk about her relationship with her father, her earliest experiprocess would stir up powerful emotions and memories. In a way, she be transported back into her childhood. Intensifying this effect was the fact that Freud himself said little and made himself a little cold and dis, although he seemed to be caring-in other words, quite like the traditional father figure. Meanwhile the patient was lying on a couch, in a helpless or passive position, so that the situation duplicated the roles of parent and child. Eventually she would begin to direct some of the confused emotions she was dealing with toward Freud himself. Unaware of what was happening, she would relate to him as to her father. She would regress and in love. Freud called this phenomenon "transference," and it would become an active part of his therapy. By getting patients to transfer some of their repressed feelings onto the therapist, he would bring their problems into the open, where they could be dealt with on a conscious level. The transference effect was so potent, though, that Freud was often unable to move his patients past their infatuation. In fact transference is a powerful way of creating an emotional attachment-the goal of any seduc- [In Japan,] much in the traditional way of childrearing seems to foster passive dependence. The child is rarely left alone, day or night, for it usually sleeps with the mother. it goes out the child is not pushed ahead in a pram, to face the world alone, but is tightly bound to the mother's back in a snug cocoon. When the mother bows, the child does too, so the social graces are acquired automatically while feeling the mother's heartbeat. Thus emotional security tends to depend almostentirelyonthephysicalpresence of the mother. "... Children learn that a show of passive dependence is the best way to getfavors as well as affection. There is a verb for this in Japanese: amaeru, translated in the dictionary as "to presume upon another's love; to play the baby." According to the psychiatrist Doi Takeo this is the main key to understanding the Japanese personality. It goes on in adult life too: juniors do it to seniors in companies, or any other group, women do it to men, men do it to their mothers, and sometimes wives. A magazine called Young Lady featured an article (January 1982) on "how to make ourselves beautiful." How, in other , to attract men. An American or European magazine would then go on to tell the reader how to be sexually desirable, no doubt suggesting various puff's, creams, and sprays. Not so with Young Lady. "The most attractive ," it informs us, "are women full of maternal love. Women maternal love are the types men never want to marry. One has to look at men through the of a mother. " - IAN BURUMA, BEHIND THE : ON SEXUAL DEMONS. SACRED MOTHERS. . GANGSTERS, DRIFTERS AND OTHER JAPANESE CULTURAL HEROES I have stressed the fact that substitute for the ideal ego. Two people who love each other are interchanging ego-ideals. That they love the ideal of themselves in the otherone.There would be no love on earth if this phantom were not there. Wefall in love because we cannot attain the image that is our better self and the best of our self From this concept it is obvious that love itself is only possible on a certain cultural level or after a certain phase in the development of the personality has been reached. The creation of an ego-ideal itself marks human progress. When are entirely satisfied tion. The method has infinite applications outside psychoanalysis. To pracit in real life, you need to play the therapist, encouraging people to talk memories are so vivid and emotional that a part of us regresses just in talking about our early years. Also, in the course of talking, little secrets slip out: we reveal all kinds of valuable information about our weaknesses and our mental makeup, information you must attend to and remember. Do not take your targets' words at face value; they will often sugarcoat or overdramatize events in childhood. But pay attention to their tone of voice, to any nervous tics as they talk, and particularly to anything they do not want talk about, anything they deny or that makes them emotional. Many statefor instance, you can be sure that they are hiding a lot of disappointment- that they actually loved their father only too much, and perhaps never quite what they wanted from him. Listen closely for recurring themes and stories. Most important, learn to analyze emotional responses and see what lies behind them. While they talk, maintain the therapist's pose-attentive but quiet, making occasional, nonjudgmental comments. Be caring yet distant- somewhat blank, in fact-and they will begin to transfer emotions and project fantasies onto you. With the information you have gathered about their childhood, and the trusting bond you have forged, you can now begin to effect the regression. Perhaps you have uncovered a powerful attachment to a parent, a sibling, a teacher, or any early infatuation, a person who casts a shadow over their present lives. Knowing what it was about this person that affected them so powerfully, you can now take over that role. Or perhaps you have learned of an immense gap in their childhood-a neglectful father, for instance. You act like that parent now, but you replace the original neglect with the attention and affection that the real parent never supplied. Everyone has unfinished business from childhood-disappointments, lacks, painful memories. Finish what is unfinished. Discover what your target never got and you have the ingredients for a deep-rooted seduction. The key is not just to talk about memories-that is weak. What you want is to get peopletoactoutintheir present old issues from their past, without their being aware of what is happening. The regressions you can effect fall into four main types. The Infantile Regression. The first bond-the bond between a mother and her infant-is the most powerful one. Unlike other animals, human babies have a long period of helplessness during which they are dependent on their mother, creating an attachment that influences the rest of their lives. The key to effecting this regression is to reproduce the sense of unconditional love a mother has for her child. Never judge your targets-let them do whatever they want, including behaving badly; at the same time surthem with loving attention, smother them with comfort. A part of Effect a Regression • 331 them will regress to those earliest years when their mother took care of everything and rarely left them alone. This works on almost everyone, for unconditional love is the rarest and most treasured form. You do not even have to tailor your behavior to anything specific in their childhood; most of us have experienced this kind of attention. Meanwhile, create atmospheres that reinforce the feeling you are generating-warm environments, playful activities, bright, happy colors. with their actual selves, love is impossible. • The of the ego-ideal to a person is the most characteristic trait of love. -THEODOR REIK, OF LOVE AND LUST The Oedipal Regression. After the bond between mother and child the oedipal triangle of mother, father, and child. This triangle forms during the period of the child's earliest erotic fantasies. A boy wants his mother to himself, a girl does the same with her father, but they never quite have it that way, for a parent will always have competing connections a spouse or to other adults. Unconditional love has gone; now, inevitably, the parent must sometimes deny what the child desires. Transport your victims back to this period. Play a parental role, be loving, but also sometimes scold and instill some discipline. Children actually love a little -it makes them feel that the adult cares about them. And adult children too will be thrilled if you mix your tenderness with a little toughness and punishment. Unlike infantile regression, oedipal regression must be tailored to your target. It depends on the information you have gathered. Without knowing enough, you might treat a person like a child, scolding them now and then, only to discover that you are stirring up ugly memories-they had too with the regression until you have learned everything you can about their -what they had too much of, what they lacked, and so on. If the target was strongly attached to a parent, but that attachment was parnegative, the oedipal regression strategy can still be quite effective. We always feel ambivalent toward a parent; even as we love them, we resent having had to depend on them. Don't worry about stirring up these am, which don't keep us from being tied to our parents. Remember include an erotic component in your parental behavior. Now your tarare not only getting their mother or father all to themselves, they are something more, something previously forbidden but now allowed. gave [S ylphide] the eyes of one girl in the village, fresh complexion of another. The portraits of great ladies of the time of Francis 1, Henry IV, and XIV, hanging in our room, lent me otherfeatures, and I even beauties from the pictures of the Madonna in churches. This magic invisibly everywhere, I with her as if changed her appearance according to the degree of without a veil, Diana rose, Thalia in a laughing mask, Hebe with the goblet of youth-or she became a delusion lasted two whole years, in the course of which my soul attained the highest peak of exaltation. -CHATEAUBRIAND, MEMOIRS QUOTED IN FRIEDRICH SIEBURG, CHATEAUBRIAND. The Ego Ideal Regression. As children, we often form an ideal figure out of our dreams and ambitions. First, that ideal figure is the person we want to be. We imagine ourselves as brave adventurers, romantic figures. Then, in our adolescence, we turn our attention to others, often projecting our ideals onto them. The first boy or girl we fall in love with may seem to have the ideal qualities we wanted for ourselves, or else may make us feel that we can play that ideal role in relation to them. Most of us carry these ideals around with us, buried just below the surface. We are secretly disappointed in how much we have had to compromise, how far below the ideal we have fallen as we have gotten older. Make your targets feel they are living out this youthful ideal, and coming closer to being the person they wanted to be, and you will effect a different kind of regression, creating a feeling reminiscent of adolescence. The relationship between you and the seduced is in this instance more equal than in the previous kinds of regressions-more like the affection between siblings. In fact the ideal is often modeled on a brother or sister. To create this effect, strive to reprothe intense, innocent mood of a youthful infatuation. The Reverse Parental Regression. Here you are the one to regress: you deliberately play the role of the cute, adorable, yet also sexually charged child. Older people always find younger people incredibly seductive. In the presence of youth, they feel a little of their own youth return; but they are in fact older, and mixed into the invigoration they feel in young people's company is the pleasure of playing the mother or father to them. If a child has erotic feelings toward a parent, feelings that are quickly repressed, the parent must deal with the same problem in reverse. Assume the role of the child in relation to your targets, however, and they get to act out some of those repressed erotic sentiments. The strategy may seem to call for a difference in age, but this is actually not critical. Marilyn Monroe's exaggerated little-girl qualities worked just fine on men her age. Emphasizing a weakness or vulnerability on your part will give the target a chance to play the protector. Some Examples 1. The parents of Victor Hugo separated shortly after the novelist was born, in 1802. Hugo's mother, Sophie, had been carrying on an affair with her husband's superior officer, a general. She took the three Hugo boys away from their father and went off to Paris to raise them on her own. the boys led a tumultuous life, featuring bouts of poverty, frequent moves, and their mother's continued affair with the general. Of all the boys, Victor was the most attached to his mother, adopting all her ideas and pet peeves, particularly her hatred of his father. But with all the turmoil in his childhood he never felt he got enough love andattention from the mother he adored. When she died, in 1821, poor and debt-ridden, he was devastated. The following year Hugo married his childhood sweetheart, Adele, who physically resembled his mother. It was a happy marriage for a while, but soon Adele came to resemble his mother in more ways than one: in 1832, he discovered that she was having an affair with the French literary critic Sainte-Beuve, who also happened to be Hugo's best friend at the Effect Regression • 339 time. Hugo was a celebrated writer by now, but he was not the calculating type. He generally wore his heart on his sleeve. Yet he could not confide in anyone about Adele's affair; it was too humiliating. His only solution was to have affairs of his own, with actresses, courtesans, married women. Hugo had a prodigious appetite, sometimes visiting three different women in the same day. Near the end of 1832, production began on one of Hugo's plays, and he was to supervise the casting. A twenty-six-year-old actress named Juliette Drouet auditioned for one of the smaller roles. Normally quite adroit with the ladies, Hugo found himself stuttering in Juliette's presence. She was quite simply the most beautiful woman he had ever seen, and this and her composed manner intimidated him. Naturally, Juliette won the part. He found himself thinking about her all the time. She always seemed to be surrounded by a group of adoring men. Clearly she was not interested in him, or so he thought. One evening, though, after a performance of the play, he followed her home, to find that she was neither angry nor surprised- indeed she invited him up to her apartment. He spent the night, and soon he was spending almost every night there. Hugo was happy again. To his delight, Juliette quit her career in the theater, dropped her former friends, and learned to cook. She had loved fancy clothes and social affairs; now she became Hugo's secretary, rarely leaving the apartment in which he had established her and seeming to live only for his visits. After a while, however, Hugo returned to his old ways and started to have little affairs on the side. She did not complain-as long as she remained the one woman he kept returning to. And Hugo had in fact grown quite dependent on her. In 1843, Hugo's beloved daughter died in an accident and he sank into a depression. The only way he knew to get over his grief was to have an afwith someone new. And so, shortly thereafter, he fell in love with a young married aristocrat named Leonie d'Aunet. He began to see Juliette less and less. A few years later, Leonie, feeling certain she was the preferred one, gave him an ultimatum: stop seeing Juliette altogether, or it wasover. Hugo refused. Instead he decided to stage a contest: he would continue to see both women, and in a few months his heart would tell him which one he preferred. Leonie was furious, but she had no choice. Her affair with Hugo had already ruined her marriage and her standing in society; she was dependent on him. Anyway, how could she lose-she was in the prime of life, whereas Juliette had gray hair by now. So she pretended to go along with this contest, but as time went on, she grew increasingly resentful about it, and complained. Juliette, on the other hand, behaved as if nothing had changed. Whenever he visited, she treated him as she always had, dropping everything to comfort and mother him. The contest lasted several years. In 1851, Hugo was in trouble with Louis-Napoleon, the cousin of Napoleon Bonaparte and now the president of France. Hugo had attacked his dictatorial tendencies in the press, bitterly and perhaps recklessly, for Louis-Napoleon was a vengeful man. Fearing for the writer's life, Juliette managed to hide him in a friend's house and arranged for a false passport, a disguise, and safe passage to Brussels. Everything went according to plan; Juliette joined him a few days later, carrying his most valuable possessions. Clearly her heroic actions had won the contest for her. And yet, after the novelty of Hugo's new life wore off, his affairs resumed. Finally, fearing for his health, and worried that she could no longer compete with yet another twenty-year-old coquette, Juliette made a calm but stern demand: no more women or she was leaving him. Taken completely by surprise, yet certain that she meant every word, Hugo broke down and sobbed. An old man by now, he got down on his knees and , on the Bible and then on a copy of his famous novel Les Miserables, he would stray no more. Until Juliette's death, in 1883, her spell over him was complete. Interpretation. Hugo's love life was determined by his relationship with his mother. He never felt she had loved him enough. Almost all the women he had affairs with bore a physical resemblance to her; somehow he would make up for her lack of love for him by sheer volume. When Juliette met , she could not have known all this, but she must have sensed two things: he was extremely disappointed in his wife, and he had never really up. His emotional outbursts and his need for attention made him a little boy than a man. She would gain ascendancy over him for the of his life by supplying the one thing he had never had: complete, unmother-love. Juliette never judged Hugo, or criticized him for his naughty ways. She lavished him with attention; visiting her was like returning to thewomb. In her presence, in fact, he was more a little boy than ever. How could he refuse her a favor or ever leave her? And when she finally threatened to leave him, he was reduced to the state of a wailing infant crying for his mother. In the end she had total power over him. Unconditional love is rare and hard to find, yet it is what we all crave, since we either experienced it once or wish we had. You do not have to go   as far as Juliette Drouet; the mere hint of devoted attention, of accepting your lovers for who they are, of meeting their needs, will place them in an infantile position. A sense of dependency may frighten them a little, and they may feel an undercurrent of ambivalence, a need to assert themselves periodically, as Hugo did through his affairs. But their ties to you will be strong and they will keep coming back for more, bound by the illusion that they are recapturing the mother-love they had seemingly lost forever, or never had. 2. Around the turn of the twentieth century. Professor Mut, a schoolmaster at a college for young men in a small German town, began to de- Effect Regression velop a keen hatred of his students. Mut was in his late fifties, and had worked at the same school for many years. He taught Greek and Latin and was a distinguished classical scholar. He had always felt a need to impose discipline, but now it was getting ugly: the students were simply not interested in Homer anymore. They listened to bad music and only liked modern literature. Although they were rebellious, Mut considered them soft and undisciplined. He wanted to teach them a lesson and make their lives miserable; his usual way of dealing with their bouts of rowdiness was sheer bullying, and most often it worked. One day a student Mut loathed-a haughty, well-dressed young man named Lohmann-stood up in class and said, "I can't go on working in this room. Professor. There is such a smell of mud." Mud was the boys' nickname for Professor Mut. The professor seized Lohmann by the arm, twisted it hard, then banished him from the room. He later noticed that Lohmann had left his exercise book behind, and thumbing through it he saw a paragraph about an actress named Rosa Frohlich. A plot hatched in Mut's mind: he would catch Lohmann cavorting with this actress, no doubt a woman of ill repute, and would get the boy kicked out of school. First he had to find out where she performed. He searched high and low, finally finding her name up outside a club called the Blue Angel. He went in. It was a smoke-filled place, full of the working-class types he looked down on. Rosa was onstage. She was singing a song; the way she looked everyone in the audience in the eye was rather brazen, but for some reason Mut found this disarming. He relaxed a little, had some wine. After her performance he made his way to her dressing room, determined to grill her about Lohmann. Once there he felt strangely uncomfortable, but he gathered up his courage, accused her of leading schoolboys astray, and threatened to get the police to close the place down. Rosa, however, was not intimidated. She turned all of Mut's sentences around: perhaps he was the one leading boys astray. Her tone was cajoling and teasing. Yes, Lohmann had bought her flowers and champagne-so what? No one had ever talked to Mut this way before; his authoritative tone usually made people give way. He should have felt offended: she was low class and a woman, and he was a schoolmaster, but she was talking to him as if they were equals. Instead, however, he neither got angry nor left-something compelled him to stay. Now she was silent. She picked up a stocking and started to darn it, ignoring him; his eyes followed her every move, particularly the way she rubbed her bare knee. Finally he brought up Lohmann again, and the police. "You've no idea what this life's like," she said. "Everyone who comes here thinks he's the only pebble on the beach. If you don't give them what they want they threaten you with the police!" "I certainly regret having hurt a lady's feelings," he replied sheepishly. As she got up from her chair, their knees rubbed, and he felt a shiver up his spine. Now she was nice to him again, and poured him some more wine. She invited him to come back, then left abruptly to perform another number. The Art of Seduction The next day he kept thinking about her words, her looks. Thinking about her while he was teaching gave him a kind of naughty thrill. That night he went back to the club, still determined to catch Lohmann in the act, and once again found himself in Rosa's dressing room, drinking wine and becoming strangely passive. She asked him to help her get dressed; that seemed quite an honor and he obliged her. Helping her with her corset and her makeup, he forgot about Lohmann. He felt he was being initiated into some new world. She pinched his cheeks and stroked his chin, and occasionally let him glimpse her bare leg as she rolled up a stocking. Now Professor Mut showed up night after night, helping her dress, watching her perform, all with a strange kind of pride. He was there so often that Lohmann and his friends no longer showed up. He had taken their place-he was the one to bring her flowers, pay for her champagne, the one to serve her. Yes, an old man like himself had bested the youthful Lohmann, who thought himself so suave! He liked it when she stroked his chin, complimented him for doing things right, but he felt even more excited when she rebuked him, throwing a powder puff in his face or pushing him off a chair. It meant she liked him. And so, gradually, he began to pay for all her caprices. It cost him a pretty penny but kept her away from other men. Eventually he proposed to her. They married, and scandal ensued: he lost hisjob, and soon all his money; finally he landed in prison. To the very end, however, he could never get angry with Rosa. Instead he felt guilty: he had never done enough for her. Interpretation. Professor Mut and Rosa Frohlich are characters in the novel The Blue Angel, written by Heinrich Mann in 1905, and later made into a film starring Marlene Dietrich. Rosa's seduction of Mut follows the classic oedipal regression pattern. First, the woman treats the man the way a mother would treat a little boy. She scolds him, but the scolding is not threatening; it is tender, and has a teasing edge. Like a mother, she knows she is dealing with someone weak, who cannot help his naughty behavior. She mixes plenty of praise and approval in with her taunts. Once the man begins to regress, she adds physical excitement-some bodily contact to excite him, subtle sexual overtones. As a reward for his regression, the man may get the thrill of finally sleeping with his mother. But there is always an element of competition, which the mother figure must heighten. The man gets to possess her all on his own, something he could not do with father in the way, but he first has to win her away from others. The key to this kind of regression is to see and treat your targets as children. Nothing about them intimidates you, no matter how much authority or social standing they have. Your manner makes it clear that you feel you are the stronger party. To accomplish this it may be helpful to imagine or them as the children they once were; suddenly, powerful people do not seem so powerful and threatening when you regress them in your imagination. Keep in mind that certain types are more vulnerable to an Effect Regression • 343 regression. Look for those who, like Professor Mut, seem outwardly most adult-straitlaced, serious, a little full of themselves. They are struggling to repress their regressive tendencies, overcompensating for their weaknesses. Often those who seem the most in command of themselves are the ripest for regression. In fact they are secretly longing for it, because their power, position, and responsibilities are more a burden than a pleasure. 3. Born in 1768, the French writer Francois Rene de Chateaubriand grew in a medieval castle in Brittany. The castle wascold and gloomy, as if inhabited by the ghosts of its past. The family lived there in semiseclusion. Chateaubriand spent much of his time with his sister Lucile, and his attachment to her was strong enough that rumors of incest made the rounds. But when he was around fifteen, a new woman named Sylphide entered his -a woman he created in his imagination, a composite of all the heroines, goddesses, and courtesans he had read about in books. He was constantly seeing her features in his mind, and hearing her voice. Soon she was taking walks with him, carrying on conversations. He imagined her innocent and exalted, yet they would sometimes do things that were not so innocent. He carried on this relationship for two whole years, until finally he left for Paris, and replaced Sylphide with women of flesh and blood. The French public, weary after the terrors of the 1790s, greeted Chateaubriand's first books enthusiastically, sensing a new spirit in them. His novels were full of windswept castles, brooding heroes, and passionate heroines. Romanticism was in the air. Chateaubriand himself resembled the characters in his novels, and despite his rather unattractive appearance, women went wild over him-with him, they could escape their boring marriages and live out the kind of turbulent romance he wrote about. Chateaubriand's nickname was the Enchanter, and although he was married, and an ardent Catholic, the number of his affairs increased with the years. But he had a restless nature-he traveled to the Middle East, to the United States, all over Europe. He could not find what he was looking for anywhere, and not the right woman either: after the novelty of an affair wore off, he would leave. By 1807 he had had so many affairs, and still felt so unsatisfied, that he decided to retire to his country estate, called Vallee aux Loups. He filled the place with trees from all over the world, transforming the grounds into something out of one of his novels. There he began to write the memoirs that he envisioned would be his masterpiece. By 1817, however, Chateaubriand's life had fallen apart. Money problems had forced him to sell Vallee aux Loups. Almost fifty, he suddenly felt old, his inspiration dried up. That year he visited the writer Madame de Stael, who had been ill and was now close to death. He spent several days at her bedside, along with her closest friend, Juliette Recamier. Madame Re- camier's affairs were infamous. She was married to a much older man, but they had not lived together for some time; she had broken the hearts of the most illustrious men in Europe, including Prince Metternich, the Duke of 344 The Art of Seduction Wellington, and the writer Benjamin Constant. It had also been rumored that despite all her flirtations she was still a virgin. She was now almost forty, but she was the type of woman who seems youthful at any age. Drawn together by their grief over de Stael's death, she and Chateaubriand became friends. She listened so attentively to him, adopting his moods and echoing his sentiments, that he felt that he had at last met a woman who understood him. There was also something rather ethereal about Madame Recamier. Her walk, her voice, her eyes-more than one man had compared her to some unearthly angel. Chateaubriand soon burned with the desire to possess her physically. The year after their friendship began, she had a surprise for him: she had convinced a friend to purchase Vallee aux Loups. The friend was away for a few weeks, and she invited Chateaubriand to spend some time with her at his former estate. He happily accepted. He showed her around, explaining what each little patch of ground had meant to him, the memories the place conjured up. He felt youthful feelings welling up inside him, feelings he had forgotten about. He delved further into the past, describing events in his childhood. At moments, walking with Madame Recamier and looking into those kind eyes, he felt a shiver of recognition, but he could not quite identify it. All he knew was that he had to go back to the memoirs that he had laid aside. "I intendto employ the little time that is left to me in describing my youth," he said, "so long as its essence remains palpable to me." It seemed that Madame Recamier returned Chateaubriand's love, but as usual she struggled to keep it a spiritual affair. The Enchanter, however, deserved his nickname. His poetry, his air of melancholy, and his persistence finally won the day and she succumbed, perhaps for the first time in her life. Now, as lovers, they were inseparable. But as always with Chateaubriand, over time one woman was not enough. The restless spirit returned. He began to have affairs again. Soon he and Recamier stopped seeing each other. In 1832, Chateaubriand was traveling through Switzerland. Once again his life had taken a downward turn; only this time he truly was old, in body and spirit. In the Alps, strange thoughts of his youth began to assail him, memories of the castle in Brittany. Word reached him that Madame Recamier was in the area. He had not seen her in years, and he hurried to the inn where she was staying. She was as kind to him as ever; during the day they took walks together, and at night they stayed up late, talking. One day, Chateaubriand told Recamier he had finally decided to finish his memoirs. And he had a confession to make: he told her the story of Sylphide, his imaginary lover when he was growing up.He had once hoped to meet a Sylphide in real life, but the women he had known had paled in comparison. Over the years he had forgotten about his imaginary lover, but now he was an old man, and he not only thought of her again, he could see her face and hear her voice. And with those memories he realized that he had in fact met Sylphide in real life-it was Madame Re- Effect Regression • 345 camier. The face and voice were close. More important, there was the calm spirit, the innocent, virginal quality. Reading to her the prayer to Sylphide he had just written, he told her he wanted to be young again, and seeing her had brought his youth back to him. Reconciled with Madame Re- camier, he began to work again on the memoirs, which were eventually published under the title Memoirsfrom Beyond the Grave. Most critics agreed that the book was his masterpiece. The memoirs were dedicated to Madame Recamier, to whom he remained devoted until his death, in 1848. Interpretation. All of us carry within us an image of an ideal type of person whom we yearn to meet and love. Most often the type is a composite made up of bits and pieces of different people from our youth, and even of characters in books and movies. People who influenced us inordinately-a teacher for instance-may also figure. The traits have nothing to do with superficial interests. Rather, they are unconscious, hard to verbalize. We searched hardest for this ideal type in our adolescence, when we were more idealistic. Often our first loves have more of these traits than our subsequent affairs. For Chateaubriand, living with his family in their secluded castle, his first love was his sister Lucile, whom he adored and idealized. But since love with her was impossible, he created a figure out of his imagination who had all her positive attributes-nobility of spirit, innocence, courage. Madame Recamier could not have known about Chateaubriand's ideal , but she did know something about him, well before she ever met him. She had read all of his books, and his characters were highly autobiographical. She knew of his obsession with his lost youth; and everyone knew of his endless and unsatisfying affairs with women, his hyperrestless spirit. Madame Recamier knew how to mirror people, entering their spirit, and one of her first acts was to take Chateaubriand to Vallee aux Loups, where he felt he had left part of his youth. Alive with memories, he regressed further into his childhood, to the days in the castle. She actively encouraged this. Most important, she embodied a spirit that came naturally to her, but that matched his youthfulideal; innocent, noble, kind. (The fact that so many men fell in love with her suggests that many men had the same ideals.) Madame Recamier was Lucile/Sylphide. It took him years to realize it, but when he did, her spell over him was complete. It is nearly impossible to embody someone's ideal completely. But if you come close enough, if you evoke some of that ideal spirit, you can lead that person into a deep seduction. To effect this regression you must play the role of the therapist. Get your targets to open up about their past, particularly their former loves and most particularly their first love. Pay attento any expressions of disappointment, how this or that person did not give them what they wanted. Take them to places that evoke their youth. In this regression you are creating not so much a relationship of depen- 346 • The Art of Seduction dency and immaturity but rather the adolescent spirit of a first love. There is a touch of innocence to the relationship. So much of adult life involves compromise, conniving, and a certain toughness. Create the ideal atmosphere by keeping such things out, drawing the other person into a kind of mutual weakness, conjuring a second virginity. There should be a dreamlike quality to the affair, as if the target were reliving that first love but could not quite believe it. Let all of this unfoldslowly,each encounter revealing more ideal qualities. The sense of reliving a past pleasure is simply impossible to resist. . Some time in the summer of 1614, several members of England's upper , including the Archbishop of Canterbury, met to decide what to about the Earl of Somerset, the favorite of King James I, who was forty-eight at the time. After eight years as the favorite, the young earl had accumulated such power and wealth, and so many titles, that nothing was left for anyone else. But how to get rid of this powerful man? For the time A few weeks later the king was inspecting the royal stables when he year-old George Villiers, a member of the lower nobility. The courtiers who accompanied the king that day watched the king's eyes following Villiers, and saw with what interest he asked about this young man. Indeed an angel and a charmingly childish manner. When news of the king's intersupplant the dreaded favorite. Left to nature, though, the seduction would never happen. They had to help it along. So, without telling Villiers of their plan, they befriended him. James was the son of Mary Queen of Scots. His childhood had been a nightmare: his father, his mother's favorite, and his own regents had been murdered; his mother had first been exiled, later executed. When James was young, to escape suspicion he played the part of a fool. He hated the sight of a sword and could not stand the slightest sign of argument. surrounded himself with bright, happy young men, and seemed king was inconsolable. He needed distraction and good cheer, and his faon Villiers, under the guise of trying to help him advance within the court. They supplied him with a magnificent wardrobe, jewels, a glittering carriage, the kind of things the king noticed. They worked on his riding. Effect Regression • 347 fencing, tennis, dancing, Ms skills with birds and dogs. He was instructed in conspirators managed to get him appointed the royal cup-bearer; every night he poured out the king's wine, so that the king could see him up close. After a few weeks, the king was in love. The boy seemed to crave attention and tenderness, exactly what he yearned to offer. How wonderful it be to mold and educate him. And what a perfect figure he had! The conspirators convinced Villiers to break off his engagement to a young lady; the king was single-minded in Ms affections, and could not competition. Soon James wanted to be around Villiers all the time, spirit. The king appointed Villiers gentleman of the bedchamber, making it for them to be alone together. What particularly charmed James was that Villiers never asked for anything, which made it all the more deto spoil him. By 1616, Villiers had completely supplanted the former favorite. He . To the conspirators' dismay, however, he quickly accumulated even him sweetheart in public, fix his doublets, comb his hair. James zealously his favorite, anxious to preserve the young man's innocence. He tended to the youth's every whim, in effect became his slave. In fact the tered the room, he started to act like a child. The two were inseparable until the king's death, in 1625. Interpretation. We are most definitely stamped forever by our parents, in and seduced by the child. They may play the role of the protector, but in the process they absorb the child's spirit and energy, relive a part of their own childhood. And just as the child struggles against sexual feelings toward the parent, the parent must repress comparable erotic feelings that beneath the tenderness they feel. The best and most insidious way to seduce people is often to position yourself as the child. Imagining themstronger, more in control, they will be lured into your web. They will they have nothing to fear. Emphasize your immaturity, your weakness, and you let them indulge in fantasies of protecting and parenting you-a desire as people get older. What they do not realize is that you are getting under their skin, insinuating yourself-it is the child who is conthe adult. Your innocence makes them want to protect you, but it is also sexually charged. Innocence is highly seductive; some people even long play the corrupter of innocence. Stir up their latent sexual feelings and you can lead them astray with the hope of fulfilling a strong yet repressed gin to regress as well, infected by your childish, playful spirit. Most of this came naturally to Villiers, but you will probably have to use some calculation. Fortunately, all of us have strong childish tendencies within us that are easy to access and exaggerate. Make your gestures seem spontaneous and unplanned. Any sexual element of your behavior should seem innocent, unconscious. Like Villiers, don't push for favors. Parents prefer to spoil children who don't ask for things but invite them in their manner. Seeming nonjudgmental and uncritical of those around you will make everything you do seem more natural and naive. Have a happy, cheerful demeanor, but with a playful edge. Emphasize any weaknesses you might have, things you cannot control. Remember: most of us remember our early years fondly, but often, paradoxically, the people with the strongest attachment to those times are the ones who had the most difficult childhoods. Actually, circumstances kept them from getting to be children, so they never really grew up, and they long for the paradise they never got to experience. James I falls into this category. These types are ripe targets for a reverse regression. Symbol: The Bed. Lying alone in bed, the child feels unprotected, afraid, and needy. In a nearby room, there is the parent's bed. It is large and forbidding, site of things you are not supposed to know about. Give the seduced both feelings-helplessness and transgression-as you lay them into bed and put them to sleep. Reversal T o reverse the strategies of regression, the parties to a seduction would have to remain adults during the process. This is not only rare, it is not very pleasurable. Seduction means realizing certain fantasies. Being a mture and responsible adult is not a fantasy, it is a duty. Furthermore, a person who remains an adult in relation to you is harder to seduce. In all kinds of seduction-political, media, personal-the target must regress. The only danger is that the child, wearying of dependence, turns against the parent and rebels. You must be prepared for this, and unlike a parent, never take it personally. i8 Stir Up the Transgressive and Taboo There are always social limits on what one can do. of these, the most elemental taboos, go back centuries; others are more superficial, simply defining polite and acceptable behavior. Making your targets feel that you are leading them past either kind of limit is immensely seductive. People yearn to explore their dark side. Not everything in romantic love is supposed to be tender and soft; hint that you have a cruel, even sadistic streak. the desire to transgress draws your targets to you, it will be hardfor them to stop. Take themfurther than they imagined-the shared feeling of guilt and complicity will create a powerful bond.The Lost Self I n March of 1812,the twenty-four-year-old George Gordon Byron published the first cantos of his poem Childe Harold. The poem was filled with familiar gothic imagery-a dilapidated abbey, debauchery, travels to the mysterious East-but what made it different was that the hero of the poem was also its villain: Harold was a man who led a life of vice, disdaining society's conventions yet somehow going unpunished. Also, the poem was not set in some faraway land but in present-day England. Childe Harold created an instant stir, becoming the talk of London. The first printing quickly sold out. Within days a rumor made the rounds: the poem, about a debauched young nobleman, was in fact autobiographical. Now the cream of society clamored to meet Lord Byron, and many of them left their calling cards at his London residence. Soon he was showing up at their homes. Strangely enough, he exceeded their expectations. He was devilishly handsome, with curling hair and the face of an angel. His black attire set off his pale complexion. He did not talk much, which made an impression of itself, and when he did, his voice was low and hypnotic and his tone a little disdainful. He had a limp (he was born with a clubfoot), so when an orchestra struck up a waltz (the dance craze of 1812), he would stand to the side, a faraway look in his eye. The ladieswent wild over Byron. Upon meeting him. Lady Roseberry felt her heart beating so violently (a mix of fear and excitement) that she had to walk away. Women fought to be seated next to him, to win his attention, to be seduced by him. Was it true that he was guilty of a secret sin, like the hero of his poem? Lady Caroline Lamb-wife of William Lamb, son of Lord and Lady Melbourne-was a glittering young woman on the social scene, but deep inside she was unhappy. As a young girl she had dreamt of adventure, romance, travel. Now she was expected to play the role of the polite young wife, and it did not suit her. Lady Caroline was one of the first to read Childe Harold, and something more than its novelty stirred her. When she saw Lord Byron at a dinner party, surrounded by women, she looked at his face, then walked away; that night she wrote of him in her journal, "Mad, bad, and dangerous to know." She added, "That beautiful pale face is my fate." The next day, to Lady Caroline's surprise. Lord Byron called on her. Evidently he had seen her walking away from him, and her shyness had intrigued him-he disliked the aggressive women who were constantly at his It is a matter of a certain hind of feeling: that of being overwhelmed. There are many who have a great fear of bring overwhelmed by someone; for example, someonewhomakes them laugh against their will, or tickles them to death, or, worse, tells them things that they sense to be accurate but which they do not quite understand, things that go beyond their prejudices and received wisdom, In other words, they do not want to be seduced, since seduction means confronting people with their limits, limits that are supposed to be set and stable but that the seducer suddenly causes to . Seduction is the desire of being overwhelmed, taken beyond. SIBONY, L'AMOUR INCONSCIENT Just lately I saw a tight- reined stallion \ Get the bit in his teeth and bolt \ Like lightning-yet the minute hefelt the reins slacken, \ Drop loose on his flying mane, \ He stopped dead. We eternally chafe at restrictions, covet \ Whatever's forbidden. (Look how a sick man who's told \ No immersion hangs round the bathhouse.) \ . . . Desire \ Mounts for what's kept out of reach. A thief s attracted \ By burglar-proof premises. How often will love \ Thrive on a rival's approval? It's not your wife's beauty, but your own \ Passion for her that gets -she must \ Have something, just to have hooked you. A girl locked up by her \ Husband's not chaste but pursued, her fear's \ A bigger draw than her figure. Illicit passion - like it \ Or not-is sweeter. It only turns me on \ When the girl says, "I'm frightened." - OVID, THE AMORES, It is often not possible for [women] later on to undo the connection thus formed in their minds between sensual activities and something forbidden, and they turn out to be psychically impotent, i.e. frigid, when at last such activities do become permissible. This is the source of the desire in so many women to keep even legitimate relations secret for a time; and of the appearance of the capacity for normal sensation in others as soon as the condition of prohibition is restored by a secret intrigue-untrue to the husband, they can keep a second order offaith with the lover. • In my opinion the necessary condition of forbiddenness in the erotic life of women holds the same place as the man's heels, as it seemed he disdained everything, including his success. Soon he was visiting Lady Caroline daily. He lingered in her boudoir, played with her children, helped her choose her dress for the day. She pressed him to talk of his life: he described his brutal father, the untimely deaths that seemed to be a family curse, the crumbling abbey he had inherited, his adventures in Turkey and Greece. His life was indeed as gothic as that of Childe Harold. Within days the two became lovers. Now, though, the tables turned: Lady Caroline pursued Byron with unladylike aggression. She dressed as a page and sneakedinto hiscarriage,wrotehimextravagantly emotional letters, flaunted the affair. At last, a chance to play the grand romantic role of her girlhood fantasies. Byron began to turn against her. He already loved to shock; now he confessed to her the nature of the secret sin he had alluded to in Childe Harold -his homosexual affairs during his travels. He made cruel remarks, grew indifferent. But this only seemed to push her further. She sent him the customary lock of hair, but from her pubis; she followed him in the street, made public scenes-finally her family sent her abroad to avoid further scandal. After Byron made it clear the affair was over, she descended into a madness that would last several years. In 1813, an old friend of Byron's, James Webster, invited the poet to stay at his country estate. Webster had a young and beautiful wife. Lady Frances, and he knew Byron's reputation as a seducer, but his wife was quiet and chaste-surely she would resist the temptation of a man such as Byron. To Webster's relief, Byron barely spoke to Frances, who seemed equally uninterested in him. Yet several days into Byron's stay, she contrived to be alone with him in the billiards room, where she asked him a question: how could a woman who liked a man inform him of it when he did not perceive it? Byron scribbled a racy reply on a piece of paper, which made her blush as she read it. Soon thereafter he invited the couple to stay with him at his infamous abbey. There, the prim and proper Lady Frances saw him drink wine from a human skull. They stayed up late in one of the abbey's secret chambers, reading poetry and kissing. With Byron, it seemed. Lady Frances was only too eager to explore adultery. That same year. Lord Byron's half sister Augusta arrived in London to get away from her husband, who was having money troubles. Byron had not seen Augusta for some time. The two were physically similar-the same face, the same mannerisms; she was Lord Byron as a woman. And his behavior toward her was more than brotherly. He took her to the theater, to dances, received her at home, treating her with an intimate spirit that Augusta soon returned. Indeed the kind and tender attention that Byron showered on her soon became physical. Augusta was a devoted wife with three children, yet she yielded to her half brother's advances. How could she help herself? He stirred up a strange passion in her, a stronger passion than she felt for any other man, including her husband. For Byron, his relationship with Augusta was the ultimate and crowning sin of his career. And soon he was writing to his friends, openly Stir Up the Transgressive and Taboo • 353 confessing it. Indeed he delighted in their shocked responses, andhislong narrative poem. The Bride ofAbydos, takes brother-sister incest as its theme. Rumors began to spread of Byron's relations with Augusta, who was now pregnant with his child. Polite society shunned him-but women were more drawn to him than before, and his books were more popular than ever. Annabella Milbanke, Lady Caroline Lamb's cousin, had met Byron in those first months of 1812 when he was the toast of London. Annabella was sober and down to earth, and her interests were science and religion. But there was something about Byron that attracted her. And the feeling seemed to be returned: not only did the two become friends, to her bewilderment he showed another kind of interest in her, even at one point proposing marriage. This was in the midst of the scandal over Byron and Caroline Lamb, and Annabella did not take the proposal seriously. Over the next few months she followed his career from a distance, and heard the rumors of incest. Yet in 1813, she wrote her aunt, "I consider his acquaintance as so desirable that I would incur the risk of being called a Flirt for the sake of enjoying it." Reading his new poems, she wrote that his "description of Love almost makes me in love." She was developing an obsession with Byron, of which word soon reached him. They renewed their friendship, and in 1814 he proposed again; this time she accepted. Byron was a fallen angel and she would be the one to reform him. It did not turn out that way. Byron had hoped that married life would calm him down, but after the ceremony he realized it was a mistake. He told Annabella, "Now you will find that you have married a devil." Within a few years the marriage fell apart. In 1816, Byron left England, never to return. He traveled through Italy for a while; everyone knew his story-the affairs, the incest, the cruelty to his lovers. But wherever he went, Italian women, particularly married noblewomen, pursued him, making it clear in their own way how prepared they were to be the next Byronic victim. In truth, the women had become the aggressors. As Byron told the poet Shelley, "No one has been more carried off than poor dear me-I've been ravished more often than anyone since the Trojan war." Interpretation. Women of Byron's time were longing to play a different role than society allowed them. They were supposed to be the decent, moralizing force in culture; only men had outlets for their darker impulses. Underlying the social restrictions on women, perhaps, was a fear of the more amoral and unbridled part of the female psyche. Feeling repressed and restless, women of the time devoured gothic novels and romances, stories in which womenwere adventurous, and had the same capacity for good and evil as men. Books like these helped to trigger a revolt, with women like Lady Caroline playing out a little of the fantasy life they had had in their girlhood, where it had to some extent been permit- need to lower his sexual object. . . . Women belonging to the higher levels of civilization do not usually transgress the prohibition against sexual activities during the period of waiting, and thus they acquire this close association between the forbidden and the sexual. . . . • The injurious results of the deprivation of sexual enjoyment at the beginning manifest themselves in lack offull satisfaction when sexual desire is later given free rein in marriage. But, on the other hand, unrestrained sexual liberty from the beginning leads to no better result. It is easy to show that the value the mind sets on erotic needs instantly sinks as soon as satisfaction becomes readily obtainable. Some obstacle is necessary to swell the tide of the libido to its height; and at all periods of , wherever natural barriers in the way of satisfaction have not sufficed, mankind has erected conventional ones in to be able to enjoy . This is true both of individuals and of nations. In times during which no obstacles to sexual existed, such as, maybe, during the decline of the civilizations of antiquity, love became worthless, lifebecameempty, and strong reaction- formations were necessary before the indispensable emotional value of love could be recovered.  FREUD, "CONTRIBUTIONS TO THE PSYCHOLOGY OF LOVE," SEXUALITY AND THE PSYCHOLOGY OF LOVE This is how Monsieur Maudair analyzed men's toward prostitutes: Neither the love of a passionate but well- brought-up mistress, nor his marriage to a woman he respects, can replace the prostitute for the animal in those moments when he covets the pleasure of himself without his social prestige. can replace this bizarre and powerful of being able to parody without any fear of revolt against organized society, his organized, educated self and especially his Mauclair hears the call of Devil in this dark poetized by prostitute represents the us to put aside our ." LOVE AND THE FRENCH brought them joy; spoil their game, he only them the more passionate about it, God . ... so it was with Tristan and Isolde. As soon as they wereforbidden their desires, and prevented from enjoying one another by spies and guards, they began to suffer intensely. Desire now seriously tormented them by its magic, many times worse than before; their need for one another was more ted. Byron arrived on the scene at the right time. He became the lightning rod for women's unexpressed desires; with him they could go beyond the limits society had imposed. For some the lure was adultery, for others it was romantic rebellion, or a chance to become irrational and uncivilized. (The desire to reform him merely covered up the truth-the desire to be overwhelmed by him.) In all cases it was the lure of the forbidden, which in this case was more than merely a superficial temptation: once you became involved with Lord Byron, he took you further than you had imagined or wanted, since he recognized no limits. Women did notjust fall in love with him, they let him turn their lives upside down, even ruin them. They preferred that fate to the safe confines of marriage. In some ways, the situation of women in the early nineteenth century has become generalized in the early twenty-first. The outlets for male bad behavior-war, dirty politics, the institution of mistresses and courtesans- have faded away; today, notjust women but men are supposed to be eminentlycivilizedandreasonable.Andmany have a hard time living up to this. As children we are able to vent the darker side of our characters, a side that all of us have. But under pressure from society (at first in the form of our parents), we slowly repress the naughty, rebellious, perverse streaks in our characters. To get along, we leam to repress our dark sides, which become a kind of lost self, a part of our psyche buried beneath our polite appearance. As adults, we secretly want to recapture that lost self-the more adventurous, less respectful, childhood part of us. We are drawn to those who live out their lost selves as adults, even if it involves some evil or destruction. Like Byron, you can become the lightning rod for such desires. You must leam, however, to keep this potential under control, and to use it strategically. As the aura of the forbidden around you is drawing targets into your web, do not overplay your dangerousness, or they will be frightened away. Once you feel them falling under your spell, you have freer rein. If they begin to imitate you, as Lady Caroline imitated Byron, then take it -mix in some cruelty, involve them in sin, crime, taboo activity, whatever it takes. Unleash the lost self within them; the more they act it out, the deeper your hold over them. Going halfway will break the spell and create self-consciousness. Take it as far as you can. Baseness attracts everybody. -JOHANN WOLFGANG GOETHE Keys to Seduction S ociety and culture are based on limits-this kind of behavior is acceptable, that is not. The limits are fluid and change with time, but there are always limits. The alternative is anarchy, the lawlessness of nature, which we dread. But we are strange animals: the moment any kind of limit is im- Stir Up the Transgressive and Taboo • 355 posed, physically or psychologically, we are instantly curious. A part of us wants to go beyond that limit, to explore what is forbidden. If, as children, we are told not to go past a certain point in the woods, that is precisely where we want to go. But we grow older, and become polite and deferential; more and more boundaries encumber our lives. Do not confuse politeness with happiness, however. It covers up frustration, unwanted compromise. How can we explore the shadow side of our personality without incurring punishment or ostracism? It seeps out in our dreams. We sometimes wake up with a sense of guilt at the murder, incest, adultery, and mayhem that goes on in our dreams, until we realize no one needs to know about it but ourselves. But give a person the sense that with you they will have a chance to explore the outer reaches of acceptable, polite behavior, that with you they can vent some of their closeted personality, and you create the ingredients for a deep and powerful seduction. You will have to go beyond the point of merely teasing them with an elusive fantasy. The shock and seductive power will come from the reality of what you are offering them. Like Byron, at a certain point you can even press it further than they may want to go. If they have followed you merely out of curiosity, they may feel some fear and hesitation, but once they are hooked, they will fond you hard to resist, for it is hard to return to a limit once you have transgressed and gone past it. The human cries out for more, and does not know when to stop. You will determine for them when it is time to stop. The moment people feel that something is prohibited, a part of them will want it. That is what makes a married man or woman such a delicious target-the more someone is prohibited, the greater the desire. George Vil- , the Earl of Buckingham, was the favorite first of King James I, then of James's son. King Charles I. Nothing was ever denied him. In 1625, on a visit to France, he met the beautiful Queen Anne and fell hopelessly in love. What could be more impossible, more out of reach, than the queen of a rival power? He could have had almost any other woman, but the prohibited nature of the queen completely enflamed him, until he embarrassed himself andhiscountry by trying to kiss her in public. Since what is forbidden is desired, somehow you must make yourself seem forbidden. The most blatant way to do this is to engage in behavior that gives you a dark and forbidden aura. Theoretically you are someone to avoid; in fact you are too seductive to resist. That was the allure of the actor Errol Flynn, who, like Byron, often found himself the pursued rather than pursuer. Flynn was devilishly handsome, but he also had something else: a definite criminal streak. In his wild youth he engaged in all kinds of activities. In the 1950s he was charged with rape, a permanent stain on his reputation even though he was acquitted; but his popularity among women only increased. Play up your dark side and you will have a similar effect. For your targets to be involved with you means going beyond their limits, doing something naughty and unacceptable-to society, to their peers. For many that is reason to bite the bait. painful and urgent than it had ever been. • . . . just because they are forbidden, which they would certainly not do if they were not forbidden. . . . Our Lord God gave Eve the freedom to do what she would with all the fruits, flowers, and plants there were in Paradise, except for only one, which he forbade her to touch on pain of death. She look the fruit and broke God's . . . but it is my firm belief now that Eve would never have done this, if she had not been forbidden to. STRASSBURG, TRISTAN UND ISOLDE. QUOTED IN ANDREA HOPKINS, THE BOOK OF COURTLY LOVE One of Monsieur Leopold Stern's friends rented a bachelor's pied-a-terre where he received his wife as a mistress, served her with port and petits-fours and "experienced all the tingling excitement of adultery." He told Stern that it was a delightful sensation to cuckold himself. -NINAEPTON, LOVE AND THE FRENCH The Art of Seduction In Junichiro Tanazaki's 1928 novel Quicksand, Sonoko Kakiuchi, the wife of a respectable lawyer, is bored and decides to take art classes to wile away the time. There, she finds herself fascinated with a fellow female student, the beautiful Mitsuko, who befriends her, then seduces her. Kakiuchi is forced to tell endless lies to her husband about her involvement with and their frequent trysts. Mitsuko slowly involves her in all kinds of nefarious activities, including a love triangle with a bizarre young man. Each time Kakiuchi is made to explore some forbidden pleasure, Mitsuko challenges her to go further and further. Kakiuchi hesitates, feels remorse- she knows she is in the clutches of a devilish young seductress who has played on her boredom to lead her astray. But in the end, she cannot help following Mitsuko's lead-each transgressive act makes her want more. Once your targets are drawn by the lure of the forbidden, dare them to match you in transgressive behavior. Any kind of challenge is seductive. Take it slowly heightening the challenge only after they show signs of yielding to you. Once they are under your spell, they may not even notice how far out on a limb you have taken them. The great eighteenth-century rake Due de Richelieu had a prediliction for young girls and he would often heighten the seduction by enveloping them in transgressive behavior, to which the young are particularly susceptible. For instance, he would find a way into the young girl's house and lure her into her bed; the parents would be just down the hall, adding the proper spice. Sometimes he would act as if they were about to be discov, the momentary fright sharpening the overall thrill. In all cases, he would try to turn the young girl against her parents, ridiculing their religious zeal or prudery or pious behavior. The duke's stategy was to attack the values that his targets held dearest-precisely the values that represent a limit. In a young person, family ties, religious ties, and the like are useful to the seducer; young people barely need a reason to rebel against them. The , though, can be applied to a person of any age: for every deeply held value there is a shadow side, a doubt, a desire to explore what those values forbid. hi Renaissance Italy, a prostitute would dress as a lady and go to church. Nothing was more exciting to a man than to exchange glances with a woman whom he knew to be a whore as he was surrounded by his wife, family, peers, and church officials. Every religion or value system creates a dark side, the shadow realm of everything it prohibits. Tease your targets, get them to flirt with whatever transgresses their family values, which are often emotional yet superficial, since they are imposed front the outside. One of the most seductive men of the twentieth century, Rudolph Valentino, was known as the Sex Menace. His appeal for women was twofold; he could be tender and attentive, but he also hinted of cmelty. At any moment he could become dangerously bold, perhaps even a little violent. The studios played up this double image as much as possible-when it was reported that he had been abusive to his wife, for example, they ex- Stir Up the Transgressive and Tabooploited the story. A mix of the masculine and the feminine, the violent and the tender, will always seem transgressive and appealing. Love is supposed to be tender and delicate, but in fact it can release violent and destructive emotions; and the possible violence of love, the way it breaks down our normal reasonableness, is just what attracts us. Approach romance's violent side by mixing a cruel streak into your tender attentions, particularly in the latter stages of the seduction, when the target is in your clutches. The Lola Montez was known to turn to violence, using a whip now and then, and Lou Andreas-Salome could be exceptionally cruel to her men, playing coquettish games, turning alternately icy and demanding. Her cruelty only kept her targets coming back for more. A masochistic involvecan represent a great transgressive release. The more illicit your seduction feels, the more powerful its effect. Give your targets the feeling that they are committing a kind of crime, a deed whose guilt they share with you. Create public moments in which the two of you know something that those around you do not. It could be phrases and looks that only you recognize, a secret. Byron's seductive appeal to Lady Frances was connected to the nearness of her husband-in his company, for example, she had a love letter of Byron's hidden in her bosom. Johannes, the protagonist of Spren Kierkegaard's The Seducer's Diary, sent a message to his target, the young Cordelia, in the middle of a dinner party they were both attending; she could not reveal to the other guests that it was from him, for then she wouldhaveto do some explaining. He might also say something in public that would have a special meaning for her, since it referred to something in one of his letters. All of this added spice to the affair by giving it a feeling of a shared secret, even a guilty crime. It is critical to play on tensions like these in public, creating a sense of complicand collusion against the world. In the Tristan and Isolde legend, the famous lovers reach the heights of and exhilaration exactly because of the taboos they break. Isolde is engaged to King Mark; she will soon be a married woman. Tristan is a loyal subject and warrior in the service of King Mark, who is his father's age. The whole affair has a feeling of stealing away the bride from the father. Epitomizing the concept of love in the Western world, the legend has had immense influence over the ages, and a crucial part of it is the idea that without obstacles, without a feeling of transgression, love is weak and flavorless. People may be straining to remove restrictions on private behavior, to make everything freer, in the world today, but that only makes seduction more difficult and less exciting. Do what you can to reintroduce a feeling of transgression and crime, even if it is only psychological or illusory. There must be obstacles to overcome, social norms to flout, laws to break, before the seduction can be consummated. It might seem that a permissive society imposes few limits; find some. There will always be limits, sacred cows, behavioral standards-endless ammunition for stirring up the transgressive and taboo. Symbol: The Forest. The children are told not to go into the forest that lies just beyond the safe confines of their home. There is no law there, only wilderness, wild animals, and . But the chance to explore, the alluring darkness, and the fact that it is prohibited are impossible to resist. And once inside, they want to go farther andfarther. Reversal T he reversal of stirring up taboos would be to stay within the limits of acceptable behavior. That would make for a very tepid seduction. Which is not to say that only evil or wild behavior is seductive; goodness, kindness, and an aura of spirituality can be tremendously attractive, they are rare qualities. But notice that the game is the same. A person who is kind or good or spiritual within the limits that society prescribes has weak appeal. It is those who go to the extreme-the Gandhis, the Krish- namurtis-who seduce us. They do not merely expound a spiritual life, they do away with all personal material comfort to live out their ascetic ideals. They too go beyond the limits, transgressing acceptable behavior, because societies would find it hard to function if everyone wenttosuchlengths.Inseduction, there is absolutely no power in respecting boundaries and limits. IQ Use Spiritual Lures Everyone has doubts and insecurities-about their body, their self-worth, their sexuality. If your seduction appeals exclusively to the , you will stir up these doubts and make your targets self-conscious. Instead, lure out of their insecurities by making them focus on something sublime and spiritual: a religious experience, a lofty work of art, the occult. Play up your divine qualities; affect an air of discontent with things; speak of the stars, destiny, the hidden threads that unite you and the object of the seduction. Lost in a spiritual mist, the target will feel light and uninhibited. Deepen the effect of your seduction by making its sexual culmination seem like the spiritual union of two souls. Object of Worship L iane de Pougy was the reigning courtesan of 1890s Paris. Slender and androgynous, she was a novelty, and the wealthiest men in Europe vied to possess her. By late in the decade, however, she had grown tired of it all. "What a sterile life," she wrote a friend. "Always the same routine: the Bois, the races, fittings; and to end an insipid day: dinner!" What wearied the most was the constant attention of her male admirers, who sought to monopolize her physical charms. One spring day in 1899, Liane was riding in an open carriage through the Bois de Boulogne. As usual, men tipped their hats at her as she passed by. But one of these admirers caught her by surprise: a young woman with blond hair, who gave her an intense, worshipful stare. Liane smiled at woman, who smiled and bowed in return. A few days later Liane began to receive cards and flowers from a twenty-three-year-old American named Natalie Barney, who identified herself as the blond admirer in the Bois de Boulogne, and asked for a ren. Liane invited Natalie to visit, but to amuse herself she decided to play a little joke: a friend would take her place, lounging on her bed in the dark boudoir, while Liane would hide behind a screen. Natalie arrived at bouquet of flowers. Kneeling before the bed, she began to praise the courtesan, comparing her to a Era Angelico painting. All too soon, she someone laugh-and standing up she realized the joke that had been played on her. She blushed and made for the door. When Liane hurried "Come back tomorrow morning. I'll be alone." The young American showed up the next day, wearing the same outfit. was witty and spirited; Liane relaxed in her presence, and invited her to stay for the courtesan's morning ritual-the elaborate makeup, clothes, and beautiful woman she had ever seen. Playing the part of the page, she followed Liane to the carriage, opened the door for her with a bow, and accompanied her on her habitual ride through the Bois de Boulogne. Once inside the park, Natalie knelt on the floor, out of sight of the passing gentlemen who tipped their hats to Liane. She recited poems she had writ- Ah! always to be able to freely love the one whom one loves! To spend my life at yourfeet like our last days together. To protect only one to throw you on this bed of moss. . . . We'll find each other again falls, we'll go deep in the to lose the paths island of describe for you those delicate female couples, and far from the cities and the , we'll forget everything but the Ethics of Beauty. BARNEY, LETTER TO LIANE DE POUGY,QUOTED IN CHALON, PORTRAIT OF A NATALIE BARNEY,  Natalie, who used to ravage the land of love. by husbands since no one could resist her could see how women abandon their potions. Natalie preferred writing poems; she always knew how to blend the physical and the spiritual. CHALON, PORTRAIT OF NATAUE BARNEY. town of Gafsa, in Barbary, very rich man who had daughter called Alibech. She was not in Liane's honor, and she told the courtesan she considered it a mission That evening Natalie took her to the theater to see Sarah Bernhardt with Hamlet-his hunger for the sublime, his hatred of tyranny-which, for her, was the tyranny of men over women. Over the next few days Liane received a steady flow of flowers from Natalie, and telegrams with little poems in her honor. Slowly the worshipful words and looks became more physical, with the occasional touch, then a caress, even a kiss-and a Mss felt different from any in Liane's experience. One morning, with Natalie in attendance, Liane prepared to take a bath. As she slipped out Natalie to throw off her clothes andjoin her. Within a few days, all Paris knew that Liane de Pougy had a new lover: Natalie Barney. made no effort to disguise her new affair, publishing a novel, had an affair with a woman before, and she described her involvement with were many one day, having on the Christian faith and the one of them for his opinion her by saying the ones who served put the greatest distance themselves and the case of people who remoter parts of the . • She said no about it to anyone, next morning, being a offourteen or alone, in secret, and A few days later, hunger, she arrived in the of the wilderness, long life, she remembered the affair as by far her most intense. her. Renee was obsessed with death; she also felt there was something wrong with her, experiencing moments of intense self-loathing. In 1900, Renee met Natalie at the theater. Something about the American's kind eyes melted Renee's normal reserve, and she began sending poems to Natalie, who responded with poems of her own. They soon became friends. confessed that she had had an intense friendship with another woman, but that it remained platonic-the thought of physical involverepulsed her. Natalie told her about the ancient Greek poet Sappho, who celebrated love between women as the only love that is innocent and apartment, which she had transformed into a kind of chapel. The room filled with candles and with white lilies, the flowers she associated with Natalie. That night the two women became lovers. They soon moved in together, but when Renee realized that Natalie could not be faithful to her, her love turned into hatred. She broke off the relationship, moved out, and vowed to never see her again. the next few months Natalie sent her letters and poems, and do with her. One evening at the opera, though, Natalie sat down beside for the past, and also a simple request: the two women should go on a pilgrimage to the Greek island of Lesbos, Sappho's home. Only there could they purify themselves and their relationship. Renee could not resist. Use Spiritual Lures • 36 3 Renee wrote her, "My blond Siren, I don't want you to become like those who dwell on earth. ... I want you tostayyourself,forthisis the way you cast your spell over me." Their affair lasted until Renee's death, in 1909. Interpretation. Liane de Pougy and Renee Vivien both suffered a similar oppression: they were self-absorbed, hyperaware of themselves. The source of this habit in Liane was men's constant attention to her body. She could never escape their looks, which plagued her with a feeling of heaviness. Renee, meanwhile, thought too much about her own problems- her repression of her lesbianism, her mortality. She felt consumed with self-hatred. Natalie Barney, on the other hand, was buoyant, lighthearted, absorbed in the world around her. Her seductions-and by the end of her life they numbered well into the hundreds-all had a similar quality: she took the victim outside herself, directing her attention toward beauty, poetry, the innocence of Sapphic love. She invited her women to participate in a kind of cult in which they would worship these sublimities. To heighten the cultlike feeling, she involved them in little rituals: they would call each other by new names, send each other poems in daily telegrams, wear costumes, women would start to direct some of the worshipful feelings they were extoward Natalie, who seemed as lofty and beautiful as the things she held up to be adored; and, pleasantly diverted into this spiritualized , they wouldalsoloseanyheavinessthey had felt about their bodies, their selves, their identities. Their repression of their sexuality would melt away. By the time Natalie kissed or caressed them, it would feel like something innocent, pure, as if they had returned to the Garden of Eden before the fall. Religion is the great balm of existence because it takes us outside ourselves, connects us to something larger. As we contemplate the object of worship (God, nature), our burdens are lifted away. It is wonderful to feel raised up from the earth, to experience that kind of lightness. No matter how progressive the times, many of us feel uncomfortable with our bodies, our animal drives. A seducer who focuses too much attention on the physical will stir up self-consciousness, and a residue of disgust. So focus attention on something else. Invite the other person to worship something beautiful in the world. It could be nature, a work of art, even God (or gods-paganism never goes out of fashion); people are dying to believe in something. Add some rituals. If you can make yourself seem to resemble the thing you are worshiping-you are natural, aesthetic, noble, and sublime-your targets will transfer their worship to you. Religion and where, catching sight of a hut in the distance, she stumbled toward it, and in the doorway she found a holy man, who was astonished to see her in those parts and asked her what she was doing there. She told him that she had been inspired by God, and that she was trying, not only to serve Him, but also to find someone who could teach her how she should go about it. • On observing how young and exceedingly pretty she was, the good man was afraid to take her under his wing lest the devil should catch him unawares. So he praised her for her good intentions, and having given her a quantity of herb roots, wild apples, and dates to eat, and some water to drink, he said to : • "My daughter, not- very far from here there is a holy man who is much more capable than I of teaching you what you want to know. Go along to him." And he sent her upon her way. • When she came to this second man, she was told precisely the same thing, and so she went on until she arrived at the cell of a young hermit, a very devout and fellow called Rustico, to whom she put the same inquiry as she had addressed to the others. Being anxious to prove to himself that he possessed a of iron, he did not, like the others, send her or direct her elsewhere, but kept her corner of which, when descended, he prepared a makeshift bed out of palm leaves, upon which he invited her to lie down and rest. • Once he had taken this step, very little time elapsed before temptation went to war against his willpower, and after the first few assaults, finding himself outmaneuvered on all fronts, he laid down his arms and surrendered. Casting aside pious thoughts, prayers, and penitential exercises, he began to concentrate his youth and beauty of the girl, and to devise suitable and meansfor her in such a fashion that she should not think it lewd of him to make the sort of proposal he had in mind. By certain questions to , he soon discovered that she had never been with the opposite and was every hit as innocent as she seemed; and he therefore thought of her, with the pretext of . He began by delivering a long speech in which he showed her how powerful an enemy the devil was to the Lord God, and followed this up by appreciated consisted in putting the devil back in Hell, to which the had consigned The girl asked him how was done, and Rustico replied: • "You will soon whatever you see me doing saying, he began to divest of the few clothes himself completely naked. The girl followed his example, and he sank to his knees as though he spirituality are full of sexual undertones that can be brought to the surface once you have made your targets lose their self-awareness. From spiritual ecstasy to sexual ecstasy is but one small step. Come back to take me, quickly, and lead me far away. Purify me with a great fire of divine love, none of the animal kind. You are all soul when you want to be, when you feel it, take me far away from my body. -LIANE DE POUGY Keys to Seduction R eligion is the most seductive system that mankind has created. Death is our greatest fear, and religion offers us the illusion that we are immortal, that something about us will live on. The idea that we are an infinitesimal part of a vast and indifferent universe is terrifying; religion humanizes this universe, makes us feel important and loved. We are not animals governed by uncontrollable drives, animals that die for no apparent reason, but creatures made in the image of a supreme being. We too can be sublime, rational, and good. Anything that feeds a desire or a wished-for illusion is seductive, and nothing can match religion in this arena. Pleasure is the bait that you use to lure a person into your web. But no matter how clever a seducer you are, in the back of your targets' mind they are aware of the endgame, the physical conclusion toward which you are heading. You may think your target is unrepressed and hungry for pleasure, but almost all of us are plagued by an underlying unease with our animal nature. Unless you deal with this unease, your seduction, even when successful in the short term, will be superficial and temporary. Instead, like Natalie Barney, try to capture your target's soul, to build the foundation of a deepand lasting seduction. Lure the victim deep into your web with spirituality, making physical pleasure seem sublime and transcendent. Spirituality will disguise your manipulations, suggesting that your relationship is timeless, and creating a space for ecstasy in the victim's mind. Remember that seduction is a mental process, and nothing is more mentally intoxicating than religion, spirituality, and the occult. In Gustave Flaubert's novel Madame Bo\ury, Rodolphe Boulanger visits the country doctor Bovary and finds himself interested in the doctor's beautiful wife, Emma. Boulanger was brutal and shrewd. He was something of a connoisseur: there had been many women in his life." He senses that Emma is bored. A few weeks later he manages to run into her at a county fair, where he gets her alone. He affects an air of sadness and gloom; "Many's the time I've passed a cemetery in the moonlight and asked myself if I wouldn't be better off lying there with the rest. ..." He mentions his bad reputation; he deserves it, he says, but is it his fault? "Do you really not know that there exist souls that are ceaselessly in torment?" Sev- Use Spiritual Lures • 365 eral times he takes Emma's hand, but she politely withdraws it. He talks of love, the magnetic force that draws two people together. Perhaps it has roots in some earlier existence, some previous incarnation of their souls. "Take us, for example. Why should we have met? How did it happen? It can only be that something in our particular inclinations made us come closer and closer across the distance that separated us, the way two rivers flow together." He takes her hand again and this time she lets him hold it. After the fair, he avoids her for a few weeks, then suddenly shows up, claiming that he tried to stay away but that fate, destiny, has pulled him back. He takes Emma riding. When he finally makes his move, in the woods, she seems frightened and rejects his advances. "You must have some mistaken idea," he protests. "I have you in my heart like a Madonna on a pedestal. ... I beseech you: be my friend, my sister, my angel!" Under the spell of his words, she lets him hold her and lead her deeper into the woods, where she succumbs. Rodolphe's strategy is threefold. First he talks of sadness, melancholy, discontent, talk that makes him seem nobler than other people,as if life's common material pursuits could not satisfy him. Next he talks of destiny, the magnetic attraction of two souls. This makes his interest in Emma seem not so much a momentary impulse as something timeless, linked to the movement of the stars. Finally he talks of angels, the elevated and the sublime. By placing everything on the spiritual plane, he distracts Emma from the physical, makes her feel giddy, and packs a seduction that could have taken months into a matter of a few encounters. The references Rodolphe uses might seem cliched by today's standards, but the strategy itself will never grow old. Simply adapt it to the occult fads of the day. Affect a spiritual air by displaying a discontent with the banalities of life. It is not money or sex or success that moves you; your drives are never so base. No, something much deeper motivates you. Whatever this is, keep it vague, letting the target imagine your hidden depths. The stars, astrology, fate, are always appealing; create the sense that destiny has brought you and your target together. That will make your seduction feel more natural. In a world where too much is controlled and manufactured, the sense that fate, necessity, or some higher power is guiding your relationship is doubly seductive. If you want to weave religious motifs into your seduction, it is always bestto choose some distant, exotic religion with a slightly pagan air. It is easy to move from pagan spirituality to pagan earthiness. Timing counts: once you have stirred your targets' souls, move quickly to the physical, making sexuality seem merely an extension of the spiritual vibrations you are experiencing. In other words, employ the spiritual strategy as close to thetime for your bold move as possible. The spiritual is not exclusively the religious or the occult. It is anything that will add a sublime, timeless quality to your seduction. In the modern world, culture and art have in some ways taken the place of religion. There are two ways to use art in your seduction: first, create it yourself, in the target's honor. Natalie Barney wrote poems, and barraged her targets with were about to pray, getting her to kneel directly opposite. • In this posture, the girl's beauty was displayed to Rustico in all its glory, and his longings blazed more fiercely than ever, bringing about the resurrection of the flesh. Alibech stared at this in amazement and said: • "Rustico, what is that I see sticking out in front of you, which I do not possess?" • "Oh, my daughter," said Rustico, "this is the devil I was telling you about. Do you see what he's doing? He's hurting me so much that I can hardly endure it. " • "Oh, praise be to God," said the girl, "I can see I am better off than you are, for I have no such devil to contend with." • "You're right there;" said Rustico. "But you have something else instead, that I haven't." • "Oh?" said Alibech. "And what's ?" • "You have Hell," said Rustico. "And I believe that God has sent you he re for the salvation of my soul, because if this devil continues to plague the life out of me, and if you are prepared to take sufficient pity upon me to let me put him back into Hell, you will be giving me marvelous relief, as well as rendering incalculable service and pleasure to God, which is what you say you came here for in the first place." • "Oh, Father," replied the girl in all innocence, "if I really do have Hell, let's do as you suggest just as soon as you are ready." • "God bless you, my daughter," said Rustico. "Let's go and put him back, and then perhaps he'll leave me alone. " • At which point he conveyed the girl to one of their beds, where he instructed her in the art of incarcerating that accursed fiend. • Never having put a single devil into Hell before, the girl found the first experience a little painful, and she said to : • "This devil must certainly be a bad lot, Father, and a true enemy of God, for as well as mankind, he even hurts Hell when he's driven back inside it. " • "Daughter," said Rustico, it will not always be like that." And in order to ensure that it wouldn't, before movingfrom the bed they put him back half a dozen times, curbing his arrogance to such good effect that he was positively glad to keep stillfor the rest of the day. • During the nextfew days, however, the devil's pride frequently reared its head again, and the girl, ever ready to obey the call to duty and bringhim under control, happened to develop a taste for the sport, and began saying to Rustico: • "I can certainly see what those worthy men in Gafsa meant when they said that serving God was so . I don't honestly recall ever having done anything that gave me so much pleasure and satisfaction as I get from putting the devil back in Hell. To my way of thinking, anyone who devotes his energies to but the service of God is a complete blockhead." • . . . And so, young ladies, if you stand in need of God's grace, see them. Half of Picasso's appeal to many women was the hope that he would immortalize them in his paintings-for Ars longa, vita brevis (Art is long, life is short), as they used to say in Rome. Even if your love is a passing fancy, by capturing it in a work of art you give it a seductive illusion of eternity. The second way to use art is to make it ennoble the affair, giving your seduction an elevated edge. Natalie Barney took her targets to the theater, to the opera, to museums, to places full of history and atmosphere. In such your souls can vibrate to the same spiritual wavelength. Of course you should avoid works of art that are earthy or vulgar, calling attention to your intentions. The play, movie, or book can be contemporary, even a little raw, as long as it contains a noble message and is tied to somejust cause. Even a political movement can be spiritually uplifting. Remember to tailor your spiritual lures to the target. If the target is earthy and cynical, paganism or art will be more productive than the occult or religious piety. The Russian mystic Rasputin was revered for his saintliness and his healing powers. Women in particular were fascinated with Rasputin and would visit him in his St. Petersburg apartment for spiritual guidance. He would talk to them of the simple goodness of the Russian peasantry, God's forgiveness, and other lofty matters. But after a few minutes of this, he would inject a comment or two that were of a much different nature- something about the woman's beauty, her lips that were so inviting, the desires she could inspire in a man. He would talk of different kinds of love-love of God, love between friends, love between a man and a woman-but mix them all up as if they were one. Then as he returned to discussing spiritual matters, he would suddenly take the woman's hand, or whisper into her ear. All this would have ait intoxicating effectwomenwouldfindthemselves dragged into a kind of maelstrom, both spiritually uplifted and sexually excited. Hundreds of women succumbed during these spiritual visits, for he would also tell them that they could not repent until they had sinned, and who better to sin with than Rasputin. Rasputin understood the intimate connection between the sexual and the spiritual. Spirituality, the love of God, is a sublimated version of sexual love. The language of the religious mystics of the Middle Ages is full oferotic images; the contemplation of God and of the sublime can offer a kind of mental orgasm. There is no more seductive brew than the combination of the spiritual and the sexual, the high and the low. When you talk of spiritual matters, then, let your looks and physical presence hint of sexuality at the same time. Make the harmony of the universe and union with God seem to confuse with physical harmony and the union between two people. If you can make the endgame of your seduction appear as a spiritual experience, you will heighten the physical pleasure and create a seduction with a deep and lasting effect. Use Spiritual Lures • 367 Symbol: The Stars in the sky. Objects of worship for centuries, and symbols of the sublime and divine. In contemplating them, we are momentarily distractedfrom everything mundane and mortal. Wefeel lightness. Lift your targets' minds up to the stars and they will not notice what is happening here on earth. that you learn to put the devil back in Hell, for it is greatly to His liking and pleasurable to the parties concerned, and a great deal of good can arise and flow in the process. -BOCCACCIO, THE DECAMERON, Reversal L etting your targets feel that your affection is neither temporary nor superficial will often make them fall deeper under your spell. In some, though, it can arouse an anxiety: the fear of commitment, of a claustrophobic relationship with no exits. Never let your spiritual lures seem to be leading in that direction, then. To focus attention on the distant future may implicitly constrict their freedom; you should be seducing them, not offering to marry them. What you want is to make them lose themselves in the moment, experiencing the timeless depth of your feelings in the present tense. Religious ecstasy is about intensity, not temporal extensity. Giovanni Casanova used many spiritual lures in his seductions-the occult, anything that would inspire lofty sentiments. For the time that he was involved with a woman, she would feel that he would do anything for her, that he was not just using her only to abandon her. But she also knew that when it became convenient to end the affair, hewouldcry, give her a magnificent gift, then quietly leave. This was just what many young women wanted-a temporary diversion from marriage or an oppressive family. Sometimes pleasure is best when we know it is fleeting. 20 Mix Pleasure with Pain The greatest mistake in seduction is being too nice. At first, perhaps, your kindness is charming, but it soon grows monotonous; you are trying too hard to please, and seem insecure. Instead of overwhelming your targets with niceness, try inflicting some pain. Lure them in with focused attention, then change direction, appearing suddenly uninterested. Make them feel guilty and insecure. Even instigate a breakup, subjecting them to an emptiness and pain that will give you room to maneuver-now a rapprochement, an apology, a return to your earlier kindness, will turn them weak at the knees. The lower the lows you create, the greater the highs. To heighten the erotic charge, create the excitement offear. The Emotional Roller Coaster O ne hot summer afternoon in 1894, Don Mateo Diaz, a thirty-eight- year-old resident of Seville, decided to visit a local tobacco factory Because of his connections Don Mateo was allowed to tour the place, but his interest was not in the business side. Don Mateo liked young girls, and hundreds of them worked in the factory. Just as he had expected, that day manyofthem were in a state of near undress because of the heat-it was quite a spectacle. He enjoyed the sights for a while, but the noise and the temperature soon got to him. As he was heading for the door, though, a worker of no more than sixteen called out to him: "Caballero, if you will give me a penny I will sing you a little song." The girl's name was Conchita Perez, and she looked young and innocent, in fact beautiful, with a sparkle in her eye that suggested a taste for adventure. The perfect prey. He listened to her song (which seemed vaguely suggestive), tossed her a coin that was equal to a month's salary, tipped his hat, then left. It was never good to come on too strong too early. As he walked along the street, he plotted how he would lure her into an affair. Suddenly he felt a hand on his arm and he turned to see her walking alongside him. It was too hot to work-would he be a gentleman and escort her home? Of course. Do you have a lover? he asked her. No, she said, "I am mozita" -pure, a virgin. Conchita lived with her mother in a rundown part of town. Don Mateo exchanged pleasantries, slipped the mother some money (he knew from experience how important it was to keep the mother happy), then left. He considered waiting a few days, but he was impatient, and returned the following morning. The mother was out. He andConchita resumed their playful banter from the day before, and to his surprise she suddenly sat in his lap, put her arms around him, and kissed him. His strategy flying out the window, he took hold of her and returned the kiss. She immediately jumped up, her eyes flashing with anger: you are trifling with me, she said, using me for a quick thrill. Don Mateo denied having any such intentions, and apologized for going too far. When he left, he felt confused: she had started it all; why should he feel guilty? And yet he did. Young girls can be so unpredictable; it is best to break them in slowly Over the next few days Don Mateo was the perfect gentleman. He visited every day, showered mother and daughter with gifts, made no advances-at least not at first. The damned girl had become so familiar The more one pleases generally, the less one pleases profoundly. -STENDHAL, LOVE, You should mix in the odd rebuff \ With your cheerful fun. Shut him out of the house, let him wait there \ Cursing that locked front door, let him plead \ And threaten all he's a mind to. Sweetness cloys the palate, \ Bitter juice is a freshener. Often a small skiff \ Is sunk by favoring winds: it's their husbands' access to them, \ At will, that deprives so many wives of love. \ Let her put in a door, with a hard-faced porter to tell him \ "Keep out," and he'll soon be touched with desire \ Through frustration. Put down your blunt foils, fight with sharpened weapons \ (I don't doubt that my own shafts \ Will be turned against me). When a new-captured lover \ Is stumbling into the toils, then let him believe \ He alone has rights to your bed-but later, make him 371 372 conscious \ Of rivals, of shared delights. Neglect \ These devices-his ardor will wane. A racehorse runs most strongly \ When the field's ahead, to be paced \ And passed. So the dying embers of passion can be fanned to \ Fresh flame by some outrage-I can only love, \ Myself, I confess it, when wronged. But don't let the cause of\ Pain be too obvious: let a lover suspect \ More than he knows. Invent a slave who watches your every \ Movement, make clear with him that she would dress in front of him, or greet him in her nightgown. These glimpses of her body drove him crazy, and he would sometimes try to steal a kiss or caress, only to have her push him away and scold him. Weeks went by; clearly he had shown that his was not a passing fancy. of the endless courtship, he took Conchita's mother aside one day and proposed that he set the girl up in a house of her own. He would treat her like a queen; she would have everything she wanted. (So, of course, would her mother.) Surely his proposal would satisfy the two women-but the next day, a note came from Conchita, expressing not gratitude but recrimination: he was trying to buy her love. "You shall never see me again," she concluded. He hurried to the house only to discover that the women had moved out that very morning, without leaving word where they were going. Don Mateo felt terrible. Yes, he had acted like a boor. Next time he what a jealous martinet \ That man of yours is - such things will excite him. Pleasure \ Too safely enjoyed lacks zest. You want to be free \ As Thais? Act scared. Though the door's quite safe, let him in by \ The window. Look nervous. Have a smart \ Maid rush in, scream "We're caught!" while you bundle the quaking \ Youth out of sight. But be sure \ To offset his fright with some moments of carefree pleasure - \ Or he'll think a night with you isn't worth the risk. - OVID. THE ART OF LOVE "Certainly," I said, "I have often told you that pain holds a peculiar attraction for me, and that nothing kindles my passion quite so much as tyranny cruelty and above all unfaithfulness in a beautiful woman." -LEOPOLD VON SACHER- MASOCH, VENUS IN FURS, wait months, or years if need be, before being so bold. Soon, however, another thought assailedhim:he would never see Conchita again. Only then did he realize how much he loved her. The winter passed, the worst of Mateo's life. One spring day he was walking down the street when he heard someone calling his name. He looked up: Conchita was standing in an open window, beaming with excitement. She bent down toward him and he kissed her hand, beside himself with joy. Why had she disappeared so suddenly? It was all going too quickly, she said. She had been afraid-of his intentions, and of her own feelings. But seeing him again, she was certain that she loved him. Yes, she was ready to be his mistress. She would prove it, she would come to him. Being apart had changed them both, he thought. A few nights later, as promised, she appeared at his house. They kissed and began to undress. He wanted to savor every minute, to take it slowly, but he felt like a caged bull finally set free. He followed her into bed, his hands all over her. He started to take off her underwear but it was laced up in some complicated way. Eventually he had to sit up and take a look: she was wearing some elaborate canvas contraption, of a kind he had never seen. No matter how hard he tugged and pulled, it would not come off. He felt like hitting Conchita, he was so distraught, but instead he started to cry. She explained: she wanted to do everything with him, yet to remain a mozita. This was her protection. Exasperated, he sent her home. Over the next few weeks, Don Mateo began to reassess his opinion of Conchita. He saw her flirting with other men, and dancing a suggestive flamenco in a bar: she was not a mozita, he decided, she was playing him for money. And yet he could not leave her. Another man would take his place-an unbearable thought. She would invite him to spend the night in jier bed, as long as he promised not to force himself on her; and then, as if to torture him beyond reason, she would get into bed naked (supposedly because of the heat). All this he put up with on the grounds that no other man had such privileges. But one night, pushed to the limits of frustration, he exploded with anger, and issued an ultimatum: either give me what I Mix Pleasure with Pain • 373 want or you will never see me again. Suddenly Conchita started to cry. He had never seen her cry, and it moved him. She too was tired of all this, she said, her voice trembling; if it was not too late, she was ready to accept the proposal she had once turned down. Set her up in a house, and he would see what a devoted mistress she would be. Don Mateo wasted no time. He bought her a villa, gave her plenty of money to decorate it. After eight days the house was ready. She would receivehim there at midnight. What joys awaited him. Don Mateo showed up at the appointed hour. The barred door to the courtyard was closed. He rang the bell. She came to the other side of the door. "Kiss my hands," she said through the bars. "Now Mss the hem of my skirt, and the tip of my foot in its slipper." He did as she requested. "That is good," she said. "Now you may go." His shocked expression just made her laugh. She ridiculed him, then made a confession: she was repulsed by him. Now that she had a villa in her name, she was free of him at last. She called out, and a young man appeared from the shadows of the courtyard. As Don Mateo watched, too stunned to move, they began to make love on the floor, right before his eyes. The next morning Conchita appeared at Don Mateo's house, supposedly to see if he had committed suicide. To her surprise, he hadn't-in fact he slapped her so hard she fell to the ground. "Conchita," he said, "you have made me suffer beyond all human strength. You have invented moral tortures to try them on the only man who loved you passionately. I now declare that I am going to possess you by force." Conchita screamed she would never be his, but he hit her again and again. Finally, moved by her tears, he stopped. Now she looked up at him lovingly. Forget the past, she said, forget all that I have done. Now that he hit her, now that she could see his pain, she felt certain he truly loved her. She was still a mozita -the affair with the young man the night before had been only for show, ending as soon as he had left-and she still belonged to him. "You are not going to take me by force. I await you in my arms." Finally she was sincere. To his supreme delight, he discovered that she was indeed still a virgin. Interpretation. Don Mateo and Conchita Perez are characters in the 1896 novella Woman and Puppet, by Pierre Louys. Based on a true story-the "Miss Charpillon" episode in Casanova's Memoirs -the novella has served as the basis for two films: Josef von Sternberg's Devil Is a Woman, with Marlene Dietrich, and Luis Bunuel's That Obscure Object of Desire. In Louys's story, Conchita takes a proud and aggressive older man and in the space of a few months turns him into an abject slave. Her method is simple: she stimulates as many emotions as possible, including heavy doses of pain. She excites his lust, then makes him feel base for taking advantage of her. She gets him to play the protector, then makes him feel guilty for trying to buy her. Her sudden disappearance anguishes him-he has lost her-so that when she reappears (never by accident) he feels intense joy; which, however, she Oderint, dum metuant [Let them hate me so long as they fear me], as if only fear and hate belong together, whereas fear and love have nothing to do with each other, as if it were notfear that makes love interesting. With what kind of love do we embrace nature? Is there not a secretive anxiety and horror in it, because its beautiful harmony works its way out of lawlessness and wild confusion, its security out of perfidy? But precisely anxiety captivates the most. So also with love, if it is to he interesting. Behind it ought to brood the deep, anxious night from which springs the flower of love. -S0REN KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY, The lovely marble creature coughed and rearranged the sable around her shoulders. • "Thank you for the lesson in classics," I replied, "but I cannot deny that in your peaceful and sunny world just as in our misty climate man and woman are natural enemies. Love may unite them briefly to form one mind, one heart, one will, but all too soon they are torn asunder. And you know better than I: either one of them must the other to his will, or else he must let himself be trampled underfoot. " • "Under the woman's foot, of course," said Lady Venus impertinently. "And that you know better than I." • "Of course, that is why I have no illusions." • "In other words you are now my slavewithout illusions, and I shall 374 trample you mercilessly. " • "Madam!" • "You do not know me yet. I admit that am cruel-since the word gives you so much -but am I not entitled to be so? It is man desires, woman who is desired; this is woman's advantage, but it is a decisive one. By making man so vulnerable to passion, nature has placed him at woman's mercy, and who has not the sense to treat him like a humble subject, a slave, a plaything, and finally to betray him with a laugh - well, she is a woman of little wisdom." • "My dear, your principles ..." I protested. • "Are founded on the experience of a thousand years," she replied mischievously, running her white fingers through the darkfur. "The more submissive woman is, the more readily man recovers his self-possession and becomes domineering; but the more cruel and faithless she is, the more she ill-treats him, the more wantonly she toys with him and the harsher she is, the more she quickens his desire and secures his love and admiration. It has always been so, from the time of Helen and Delilah all the way to Catherine the Great and Lola Montez. " -LEOPOLD VON SACHER- MASOCH, VENUS IN FURS. In essence, the domain of eroticism is the domain of violence, of violation. . . . The whole business of eroticism is to strike to the inmost core of the living being, so that the heart stands still. . . . The quickly turns back into tears. Jealousy and humiliation then precede the final moment when she gives him her virginity. (Even after this, according to the story, she finds ways to continue to torment him.) Each low she inspires-guilt, despair, jealousy, emptiness-creates the space for a more intense high. He becomes an addict, hooked on the alternation of charge and withdrawal. Your seduction should never follow a simple course upward toward pleasure and harmony. The climax will come too soon, and the pleasure will be weak. What makes us intensely appreciate something is previous suffering. A brush with death makes us fall in love with life; a longjourney makes a return home that much more pleasurable. Your task is to create moments of sadness, despair, and anguish, to create the tension that allows for a great release. Do not worry about making people angry; anger is a sure sign that you have your hooks in them. Nor should you be afraid that if you make yourself difficult people will flee-we only abandon those who bore us. The ride on which you take your victims can be tortuous but never dull. At all costs, keep your targets emotional and on edge. Create enough highs and lows and you will wear away the last vestiges of their willpower. Harshness andKindness I n 1972, Henry Kissinger, then President Richard Nixon's assistant for national security affairs, received a request for an interview from the famous Italian journalist Oriana Fallaci. Kissinger rarely gave interviews; he had no control over the final product, and he was a man who needed to be in control. But he had read Fallaci's interview with a North Vietnamese general, and it had been instructive. She was extremely well informed on the Vietnam War; perhaps he could gather some information of his own, pick her brain. He decided to ask for a preinterview, a preliminary meeting. He would grill her on different subjects; if she passed the test, he would grant her an interview proper. They met, and he was impressed; she was extremely intelligent-and tough. It would be an enjoyable challenge to outwit her and prove that he was tougher. He agreed to a short interview a few days later. To Kissinger's annoyance, Fallaci began the interview by asking him whether he was disappointed by the slow pace of the peace negotiations with North Vietnam. He would not discuss the negotiations-he had made that clear in the preinterview. Yet she continued the same line of questioning. He grew a little angry "That's enough," he said. "I don't want to talk any more about Vietnam." Although she didn't immediately abandon the subject, her questions became gentler: what were his personal feelings toward the leaders of South and North Vietnam? Still, he ducked: "I'm not the kind of person to be swayed by emotion. Emotions serve no purpose." She moved to grander philosophical issues-war, peace. She Mix Pleasure with Pain • 375 praised him for his role in the rapprochement with China. Without realizing it, Kissinger began to open up. He talked of the pain he felt in dealing with Vietnam, the pleasures of wielding power. Then suddenly the harsher questions returned-was he simply Nixon's lackey, as many suspected? Up and down she went, alternately baiting and flattering him. His goal had been to pump her for information while revealing nothing about himself; by the end, though, she had given him nothing, while he had revealed a range of embarrassing opinions-his view of women as playthings, for instance, and his belief that he was popular with the public because people saw him as a kind of lonesome cowboy, the hero who cleans things up by himself. When the interview was published, Nixon, Kissinger's boss, was livid about it. In 1973, the Shah of Iran, Mohammed Riza Pahlavi, granted Fallaci an interview. He knew how to handle the press-be noncommittal, speak in generalities, seem firm, yet polite. This approach had worked a thousand times before. Fallaci beganthe interview on a personal level, asking how it felt to be a king, to be the target of assassination attempts, and why the shah always seemed so sad. He talked of the burdens of his position, the pain and loneliness he felt. It seemed a release of sorts to talk about his professional problems. As he talked, Fallaci said little, her silence goading him on. Then she suddenly changed the subject: he was having difficulties with his second wife. Surely that must hurt him? This was a sore spot, and Pahlavi got angry. He tried to change the subject, but she kept returning to it. Why waste time talking about wives and women, he said. He then went so far as to criticize women in general-their lack of creativity, their cruelty. Fallaci kept at him; he had dictatorial tendencies and his country lacked basic freedoms. Fallaci's own books were on his government's blacklist. Hearing this, the shah seemed somewhat taken aback-perhaps he was dealing with a subversive writer. But then she softened her tone again, asked him about his many achievements. The pattern repeated: the moment he relaxed, she blindsided him with a sharp question; when he grew bitter, she lightened the mood. Like Kissinger, he found himself opening up despite himself and mentioning things he would later regret, such as his intention to raise the price of oil. Slowly he fell under her spell, even began to flirt with her. "Even if you're on the blacklist of my authorities," he said at the end of the interview, "I'll put you on the white list of my heart." Interpretation. Most of Fallaci's interviews were with powerful leaders, men and women with an overwhelming need to control the situation, to avoid revealing anything embarrassing. This put her and her subjects in conflict, since getting them to open up-grow emotional, give up control- was exactly what she wanted. The classic seductive approach of charm and flattery would get her nowhere with these people; they would see right through it. Instead, Fallaci preyed on their emotions, alternating harshness and kindness. She would ask a cruel question that touched on the deepest whole business of eroticism is to destroy the self-contained character of the participators as they are in their normal lives. . . . We ought never toforget that in spite of the bliss love promises its first effect is one of turmoil and distress. Passion fulfdled itself provokes such violent agitation that the happiness involved, before being a happiness to be enjoyed, is so great as to be more like its opposite, suffering. . . . The likelihood of suffering is all the greater since suffering alone reveals the total significance of the beloved object. -GEORGES BATAILLE, EROTISM: DEATH AND SENSUALITY. Always a little doubt to set at rest - that's what keeps one craving in passionate love. Because the keenest misgivings are always there, its pleasures never become tedious. • Saint- Simon, the only historian France has ever possessed, says: "After many passing fancies the Duchesse de Berry had fallen deeply in love with Riom, a junior member of the d Aydie family, the son of one of Madame de Biron's sisters. He had neither looks nor brains; he was fat, short, chubby-cheeked, pale, and had such a crop of pimples that he seemed one large abscess; he had beautiful teeth, but not the least idea that he was going to inspire a passion which quickly got out of control, a passion which lasted a lifetime, notwithstanding a number of subsidiary flirtations and affairs. . . . • He would 376 excite but not requite the desire of the princess; he delighted in making her jealous, or pretending to be jealous himself. He would often drive her to tears. Gradually heforced her into the position of doing nothing without his leave, even trifles of no importance. Sometimes, when she was ready to go to the Opera, he insisted that she stay at home; and sometimes he made her go there against her will. He obliged her to grant favours to ladies she did not like or of whom she was jealous. She was not evenfree to dress as she chose; he would amuse himself by making her change her coiffure or her dress at the last minute; he did this so often and so publicly that she became accustomed to take his orders in the evening for what she would do and wear the following day; then the next day he would alter everything, and the princess would cry all the more. In the end she took to sending him messages by trusted footmen, for from the first he had taken up residence in Luxembourg; messages which continued throughout her toilette, to know what ribbons she would wear, what gown and other ornaments; almost invariably he made her wear something she did not wish to. When she occasionally dared to do anything, however small, without his leave, he treated her like a servant, and she was in tears for several days. • . . . Before assembled company he would give her such brusque replies that everyone lowered their eyes, and the Duchess would blush, though her passion insecurities of the subject, who would get emotional and defensive; deep down, though, something else would stir inside them-the desire to prove to Fallaci that they did not deserve her implicit criticisms. Unconsciously they wanted to please her, to make her like them. When she then shifted tone, indirectly praising them, they felt they were winning her over and were encouraged to open up. Without realizing it, they would give freer rein to their emotions. hi social situations we all wear masks, and keep our defenses up. It is embarrassing, after all, to reveal one's true feelings. As a seducer you must find a way to lower these resistances. The Charmer's approach of flattery and attention can be effective here, particularly with the insecure, but it can take months of work, and can also backfire. To get a quicker result, and to break down more inaccessible people, it is often better to alternate harshness and kindness. By being harsh you create inner tensions-your targets may be upset with you, but they are also asking themselves questions. What have they done to earn your dislike? When you then are kind, they feel relieved, but also concerned that at any moment they might somehow displease you again. Make use of this pattern to keep them in suspense- dreading your harshness and keen to keep you kind. Your kindness and harshness should be subtle; indirect digs and compliments are best. Play the psychoanalyst: make cutting comments concerning their unconscious motives (you are only being truthful), then sit back and listen. Your silence will goad them into embarrassing admissions. Leaven your judgments with occasional praise and they will strive to please you, like dogs. Love is a costlyflower,but one must have the desire to pluck it from the edge of a precipice. -STENDHAL Keys to Seduction A lmost everyone is more or less polite. We learn early on not to tell people what we really think of them; we smile at their jokes, act interested in their stories and problems. It is the only way to live with them. Eventually this becomes a habit; we are nice, even when it isn't really necessary. We try to please other people, to not step on their toes, to avoid disagreements and conflict. Niceness in seduction, however, though it may at first draw someone to you (it is soothing and comforting), soon loses all effect. Being too nice can literally push the target away from you. Erotic feeling depends on the creation of tension. Without tension, without anxiety and suspense, there can be no feeling of release, of true pleasure and joy It is your task to create that tension in the target, to stimulate feelings of anxiety, to lead them to and fro, so that the culmination of the seduction has real weight and intensity. So rid yourself of your nasty habit of avoiding conflict, which is in any Mix Pleasure with Pain • 377 case unnatural. You are most often nice not out of your own inner goodness but out of fear of displeasing, out of insecurity. Go beyond that fear and you suddenly have options-the freedom to create pain, then magically dissolve it. Your seductive powers will increase tenfold. People will be less upset by your hurtful actions than you might imagine. In the world today, we often feel starved for experience. We crave emotion, even if it is negative. The pain you cause your targets, then, is bracing-it makes them feel more alive. They have something to complain about, they get to play the victim. As a result, once you have turned the pain into pleasure they will readily forgive you. Stir up their jealousy, make them feel insecure, and the validation you later give their ego by preferring them over their rivals is doubly delightful. Remember: you have more to fear by boring your targets than by shaking them up. Wounding people binds them to you more deeply than kindness. Create tension so you can release it. If you need inspiration, find the part of the target that most irritates you and use it as a springboard for some therapeutic conflict. The more real your cruelty, the more effective it is. In 1818, the French writer Stendhal, then living in Milan, met the Countess Metilda Viscontini. For him, it was love at first sight. She was a proud, somewhat difficult woman, and she intimidated Stendhal, who was terribly afraid of displeasing her with a stupid comment or undignified act. Finally, unable to take it any longer, he one day took her hand and confessed his love. Horrified, the countesstoldhim to leave and never come back. for him was in no way curtailed." • For the princess, Riom was a sovereign remedy against boredom. -STENDHAL, LOVE, Stendhal flooded Viscontini with letters, begging her to forgive him. At last, she relented: she would see him again, but under one condition-he could visit only once every two weeks, for no more than an hour, and only in the presence of company. Stendhal agreed; he had no choice. He now lived for those short fortnightly visits, which became occasions of intense anxiety and fear, since he was never quite sure whether she would change her mind and banish him forever. This went on for over two years, during which the countess never showed him the slightest sign of favor. Stendhal never found out why she had insisted on this arrangement-perhaps she wanted to toy with him or keep him at a distance. All he knew was that his love for her only grew stronger, became unbearably intense, until finally he had to leave Milan. To get over this sad affair, Stendhal wrote his famous book On Love, in which he described the effect of fear on desire. First, if you fear the loved one, you can never get too close or familiar with him or her. The beloved then retains an element of mystery, which only intensifies your love. Second, there is something bracing about fear. It makes you vibrate with sensation, heightens your awareness, is intensely erotic. According to Stendhal, the closer the loved one brings you to the edge of the precipice, to the feeling that they could abandon you, the dizzier and more lost you will become. Falling in love means literally falling-losing control, a mix of fear and excitement. Apply this wisdom in reverse: never let your targets get too comfortable 378 The Art of Seduction with you. They need to feel fear and anxiety. Show them some coldness, a flash of anger they did not expect. Be irrational if necessary. There is always the trump card: a breakup. Let them feel they have lost you forever, make them fear that they have lost the power to charm you. Let these feelings sit with them for a while, then pull them back from the precipice. The reconciliation will be intense. In 33 B.C., Mark Antony heard a rumor that Cleopatra, his lover of several years, had decided to seduce his rival, Octavius, and that she was planning to poison Antony. Cleopatra had poisoned people before; in fact she was an expert in the art. Antony grew paranoid, and finally one day confronted her. Cleopatra did not protest her innocence. Yes, that was true, it was quite within her power to poison Antony at any moment; there were no precautions he could take. Only theloveshe felt for him could protect him. To demonstrate, she took some flowers and dropped them into his wine. Antony hesitated, then raised the cup to his lips; Cleopatra grabbed his arm and stopped him. She had a prisoner brought in to drink the wine, and the prisoner promptly dropped dead. Falling at Cleopatra's feet, Antony professed that he loved her now more than ever. He did not speak out of cowardice; there was no man braver than he, and if Cleopatra could have poisoned him, he for his part could have left her and gone back to Rome. No, what pushed him over the edge was the feeling that she had control over his emotions, over life and death. He was her slave. Her demonstration of her power over him was not only effective but erotic. Like Antony, many of us have masochistic yearnings without realizing it. It takes someone to inflict some pain on us for these deeply repressed desires to come to the surface. You must learn to recognize the types of hidden masochists out there, for each one enjoys a particular kind of pain. For instance, there are people who feel that they deserve nothing good in life, and who, unable to deal with success, sabotage themselves constantly. Be nice to them, admit that you admire them, and they are uncomfortable, since they feel that they cannot possibly match up to the ideal figure you have clearlyimagined them to be. Such self-saboteurs do better with a little punishment; scold them, make them aware of their inadequacies. They feel they deserve such criticism and when it comes it is with a sense of relief. It is also easy to make them feel guilty, a feeling that deep down they enjoy. Other people experience the responsibilities and duties of modern life as such a heavy burden, they long to give it all up. These people are often looking for someone or something to worship-a cause, a religion, a guru. Make them worship you. And then there are those who want to play the martyr. Recognize them by the joy they take in complaining, in feeling righteous and wronged; then give them a reason to complain. Remember; appearances deceive. Often the strongest-looking people-the Kissingers and Don Mateos-may secretly want to be punished. In any event, follow up pain with pleasure and you will create a state of dependency that will last for a long time. Mix Pleasure with Pain Symbol: The Precipice. At the edge of a cliff, people often feel lightheaded, both fearful and dizzy. For a moment they can imagine themselves falling headlong. At the same time, a part of them is tempted. Lead your targets as close to the edge as possible, then pull them back. No thrill without fear. Reversal P eople who have recently experienced a lot of pain or a loss will flee if you try to inflict more on them. They have enough in their lives already. Far better to surround these types with pleasure-that will put them under your spell. The technique of inflicting pain works best on those who have it easy, who have power and few problems. People with comfortable lives may also feel a gnawing sense of guilt, as if they had gotten away with something. They may not consciously know it, but secretly they long for some punishment, a good mental thrashing, something that will bring them back down to earth. Also, remember to not use the pleasure-through-pain tactic too early on. Some of the greatest seducers in history-Byron, Jiang Qing (Madame Mao), Picasso-had a sadistic streak, an ability to inflict mental torture. If their victims had known in advance what they were getting themselves into, they would have run for the hills. In truth, most of these seducers lured their targets into their webs by appearing to be paragons of sweetness and affection. Even Byron seemed like an angel when he first met a woman, so that she tended to doubt his devilish reputation-a seductive doubt, for it allowed her to think of herself as the only one who really understood him. His cruelty would come out later on, but by then it would be too late. The victim's emotions were engaged,andhisharshnesswouldonlyintensify her feelings. In the beginning, then, wear the mask of a lamb, making pleasure and attentiveness your bait. First get under their skin, then lead them on a wild ride. 379 Phase Four Moving Infor the Kill confused and stirred them up-the emotional seduction. Now the time has comefor hand-to-hand combat-the physical seduction. At this point, your victims are weak and ripe with desire: by show-, ing a little coldness or uninterest, you will spark panic-they will come after you with impatience and erotic energy (21: Give them to fall-the pursuer is pursued). To bring them to a boil, you need to put their minds to sleep and heat up their senses. It is best to lure them into lust by sending certain loaded signals that will get under their skin and spread sexual desire like a poison (22: Use physical lures). The moment to strike and move infor the kill is when your victim is brimming with desire, but not consciously expecting the climax to come (23: Master the art of the bold move). Once the seduction is over, there is the danger that disenchantment will set in and ruin all your hard work (24: Beware the aftereffects). If you are after a relationship, then you must constantly re-seduce the victim, creating tension and releasing it. If your victim is to be sacrificed, then it must be done swiftly and cleanly, leaving you free (physicallyandpsychologically)tomoveontothenext victim. Then the game begins all over. 21 Give Them Space to Fall- The Pursuer Is Pursued If your targets become too used to you as the aggressor, they will give less of their own energy, and the tension will slacken. You need to wake them up, turn the tables. Once they are under your spell, take a step back and they will start to come after you. Begin with a touch of aloofness, an unexpected nonappearance, a hint that you are growing bored. Stir the pot by seeming interested in someone else. Make none of this explicit; let them only sense it and their imagination will do the rest, creating the doubt you desire. Soon they will want to possess you physically, and restraint will go out the window. The goal is to have them fall into your arms of their own will. Create the illusion that the seducer is being seduced. Seductive Gravity I n the early 1840s, the center of attention in the French art world was a young woman named Apollonie Sabatier. She was so much the natural beauty that sculptors and painters vied to immortalize her in their works, and she was also charming, easy to talk to, and seductively self-sufficient- men were drawn to her. Her Paris apartment became a gathering spot for writers and artists, and soon Madame Sabatier-as she came to be known, although she was not married-was hosting one of the most important literary salons in France. Writers such as Gustave Flaubert, the elder Alexandre Dumas, and Theophile Gautier were among her regular guests. Near the end of 1852, when she was thirty, Madame Sabatier received an anonymous letter. The writer confessed that he loved her deeply. Worried that she would find his sentiments ridiculous, he would not reveal his name; yet he had to let her know that he adored her. Sabatier was used to such attentions-one man after another had fallen in love with her-but this letter was different: in this man she seemed to have inspired a quasireligious ardor. The letter, written in a disguised handwriting, contained a poem dedicated to her; titled "To One Who Is Too Gay," it began by praising her beauty, yet ended with the lines And so, one night. I'd like to sneak. When darkness tolls the hour of pleasure,A craven thief, toward the treasure Which is your person, plump and sleek. . . . And, most vertiginous delight! Into those lips, so freshly striking And daily lovelier to my liking- Infuse the venom of my spite. Mixed in with her admirer's adoration, clearly, was a strange kind of lust, with a touch of cruelty to it. The poem both intrigued and disturbed her-and she had no idea who had written it. A few weeks later another letter arrived. As before, the writer enveloped Sabatier in cultlike worship, mixing the physical and the spiritual. And as before, there was a poem, "All in One," in which he wrote. Omissions, denials, deflections, deceptions, diversions, and humility - all aimed at provoking this second state, the secret of true seduction. Vulgar seduction might proceed by persistence, but true seduction proceeds by absence. . . . It is like fencing: one needs a field for the feint. Throughout this period, the seducer [Johannes], far from seeking to close in on her, seeks to maintain his distance by various ploys: he does not speak directly to her but only to her aunt, and then about trivial or stupid subjects; he neutralizes everything by irony and feigned pedanticism; hefails to respond to any feminine or erotic movement, and even finds her a sitcom suitor to disenchant and deceive her, to the point where she herself takes the initiative and breaks off her engagement, thus completing the seduction and creating the ideal situation for her total abandon. -JEAN BAUDRILLARD, SEDUCTION, The rumor spread everywhere. It was even told to the queen [ Guinevere ], who was seated at dinner. She nearly killed herself when she heard the perfidious rumor of Lancelot's death. She thought it was true and was so greatly perturbed that she was scarcelyabletospeak..She arose at once from the table, and was able to give vent to her grief without being noticed or overheard. She was so crazed with the thought of killing herself that she repeatedly grabbed at her throat. Yet first she confessed in conscience, repented and asked God's pardon; she accused herself of having sinned against the one she knew had always been hers, and who would still be, were he alive. She counted all of the unkindnesses and recalled each individual unkindness; she noted every one, and repeated often: "Oh misery! What was I thinking, when my lover came before me and I did not deign to welcome him, nor even care to listen! Was I not a fool to refuse to speak or even look at him? A fool? No, so help me God, I was cruel and deceitful! ... 7 believe that it was I alone who struck him that mortal blow. When he came happily before me expecting me to receive him joyfully and I shunned him and would never even look at him, was this not a mortal blow? At that moment, when I refused to speak, I believe I severed both his heart and his life. Those two blows killed him, I think, and not any hired killers. • "Ah God! Will I be forgiven this murder, this sin? Never! All the rivers No single beauty is the best. Since she is all one flower divine_ O mystic metamorphosis! My senses into one sense flow- Her voice makesperfume when she speaks. Her breath is music faint and low! Clearly the author was haunted by Sabatier's presence, and thought of her constantly-but now she began to be haunted by him, thinking of him night and day, and wondering who he was. His subsequent letters only deepened the spell. It was flattering to hear that he was enchanted by more than her beauty, yet also flattering to know that he was not immune to her physical charms. One day an idea occurred to Madame Sabatier as to who the writer might be: a young poet who had frequented her salon for several years, Charles Baudelaire. He seemed shy, in fact had hardly spoken to her, but she had read some of his poetry, and although the poems in the letters were more polished, the style was similar. At her apartment Baudelaire would always sit politely in a corner, but now that she thought of it, he would smile at her strangely, nervously. It was the look of a young man in love. Now when he visited she watched him carefully, and the more she watched, the surer she was that he was the writer, but she never confirmed her intuition, because she did not want to confront him-he might be shy, but he was a man, and at some point he would have to come to her. And she felt certain that he would. Then, suddenly the letters stopped coming-and Madame Sabatier could not understandwhy, since the last one had been even more adoring than all of the others before. Several years went by, in which she often thought of her anonymous admirer's letters, but they were never renewed. In 1857, however, Baudelaire published a book of poetry. The Flowers of Evil, and Madame Sabatier recognized several of the verses-they were the ones he had written for her. Now they were out in the open for everyone to see. A little while later the poet sent her a gift: a specially bound copy of the book, and a letter, this time signed with his name. Yes, he wrote, he was the anonymous writer-would she forgive him for being so mysterious in the past? Furthermore, his feelings for her were as strong as ever: "You didn't think for a moment that I could have forgotten you? You to me are more than a cherished image conjured up in dream, you're my superstition . . . my constant companion, my secret! Farewell, dear Madame. I kiss your hands with profound devotion." This letter had a stronger effect on Madame Sabatier than the others had. Perhaps it was his childlike sincerity, and the fact that he had finally written to her directly; perhaps it was that he loved her but asked nothing of her, unlike all the other men she knew who at some point had always turned out to want something. Whatever it was, she had an uncontrollable desire to see him. The next day she invited him to her apartment, alone. Give Them Space to Fall-The Pursuer Is Pursued • 387 Baudelaire appeared at the appointed hour. He sat nervously in his seat, gazing at her with his large eyes, saying little, and what he did say was formal and polite. He seemed aloof. After he left a kind of panic seized Madame Sabatier, and the next day she wrote him a first letter of her own: "Today I'm more calm, and I can feel more clearly the impression of our Tuesday evening together. I can tell you, without the danger of your thinking I'm exaggerating, that I'm the happiest woman on the face of the earth, that I've never felt more truly that I love you, and that I've never seen you look more beautiful, more adorable, my divine friend!" Madame Sabatier had never before written such a letter; she had always been the one who was pursued. Now she had lost her usual self-possession. And it only got worse: Baudelaire did not answer right away. When she saw him next, he was colder than before. She had the feeling there was someone else, that his old mistress, Jeanne Duval, had suddenly reappeared in his life and was pulling him away from her. One night she turned aggressive, embracing him, trying to kiss him, but he did not respond, and quickly found an excuse to leave. Why was he suddenly inaccessible?She began to flood him with letters, begging him to come to her. Unable to sleep, she would wait all night for him to show up. She had never experienced such desperation. Somehow she had to seduce him, possess him, have him all to herself. She tried everything-letters, coquetry, all kinds of promises- until he finally wrote that he was no longer in love with her and that was that. and the seas will dry up first! Oh, misery! How it would have brought me comfort and healing if I had held him in my arms once before he died. How? Yes, quite naked next to him, in order to enjoy him fully. . When they came within six or seven leagues of the castle where King Bademagu was staying, news that was pleasing came to him about Lancelot-news that he was glad to hear; Lancelot was alive and was returning, hale and hearty. He behaved most properly in going to inform the queen. "Good sir," she told him, "I believe it, since you have told me. But were he dead, I assure you that I could never again be happy." • . . . Now Lancelot had his every wish: the queen willingly sought his company and affection as he held her in his arms and Interpretation. Baudelaire was an intellectual seducer. He wanted to overwhelm Madame Sabatier with words, dominate her thoughts, make her fall in love with him. Physically, he knew, he could not compete with hermany other admirers-he was shy, awkward, not particularly handsome. So he resorted to his one strength, poetry. Haunting her with anonymous letters gave him a perverse thrill. He had to know she would realize, eventually, that he was her correspondent-no one else wrote like him-but he wanted her to figure this out on her own. He stopped writing to her because he had become interested in someone else, but he knew she would be thinking of him, wondering, perhaps waiting for him. And when he published his book, he decided to write to her again, this time directly, stirring up the old venom he had injected in her. When they were alone, he could see she was waiting for him to do something, to take hold of her, but he was not that kind of seducer. Besides, it gave him pleasure to hold himself back, to sense his power over a woman whom so many desired. By the time she turned physical and aggressive, the seduction was over for him. He had made her fall in love; that was enough. The devastating effect of Baudelaire's push-and-pull on Madame Sabatier teaches us a great lesson in seduction. First, it is always best to keep at some distance from your targets. You do not have to go as far as remaining anonymous, but you do not want to be seen too often, or to be seen as she held him in hers. Her love-play seemed so gentle and good to him, both her kisses and caresses, that in truth the two of them felt a joy and wonder of which has never been heard or known. But I shall let it remain a secret for ever, since it should not be written of: the most delightful and choicest pleasure is that which is hinted at, but never told. -CHRETIEN DETROYES, ARTHURIAN ROMANCES.  He was sometimes so intellectual that I felt myself annihilated as a woman; at other times he was so wild and passionate, so desiring, that I almost trembled 388 before him. At times I was like a stranger to him; at times he surrendered completely. Then when I threw my arms around him, everything changed, and I embraced a cloud. -CORDELIA DESCRIBING JOHANNES, IN S0REN KIERKEGAARD, THE SEDUCER'S DIARY, It is true that we could not love if there were not some memory in us-to the greatest extent an unconscious memory-that we were once loved. But neither could we love if this feeling of being loved had not at some time suffered doubt; if we had always been sure of it. In other words, love would not be possible without having been loved and then having missed the certainty of being loved. . . . • The need to be loved is not elementary. This need is certainly acquiredby experience in later childhood. It would be better to say: by many experiences or by a repetition of similar ones. I believe that these experiences are of a negative kind. The child becomes aware that he is not loved or that his mother's love is not unconditional. The baby learns that his mother can be dissatisfied with him, that she can withdraw her affection if he does not behave as she wishes, that she can be angry or cross. I believe that this experience arousesfeelings of anxiety in the infant. The possibility of losing his mother'slove certainly strikes the child with a force which can no more be intrusive. If you are always in their face, always the aggressor, they will become used to being passive, and the tension in your seduction will flag. Use letters to make them think about you all the time, to feed their imagination. Cultivate mystery-stop them from figuring you out. Baudelaire's letters were delightfully ambiguous, mixing the physical and the spiritual, teasing Sabatier with theirmultiplicityofpossible interpretations. Then, at the point when they are ripe with desire and interest, when perhaps they are expecting you to make a move-as Madame Sabatier expected that day in her apartment-take a step back. You are unexpectedly distant, friendly but no more than that-certainly not sexual. Let this sink in for a day or two. Your withdrawal will trigger anxiety; the only way to relieve this anxiety is to pursue and possess you. Step back now and you make your targets fall into your arms like ripe fruit, blind to the force of gravity that is drawing them to you. The more they participate, the more their willpower is engaged, the deeper the erotic effect. You have challenged them to use their own seductive powers on you, and when they respond, the tables will turn and they will pursue you with desperate energy. / retreat and thereby teach her to be victorious as she pursues me. 1 continually fall back, and in this backward movement 1 teach her to know through me all the powers of erotic love, its turbulent thoughts, its passion, what longing is, and hope, and impatient expectancy. -S0REN KIERKEGAARD Keys to Seduction S ince humans are naturally obstinate and willful creatures, and prone to suspicions of people's motives, it is only natural, in the course of any seduction, that in some ways your target will resist you. Seductions,then, are rarely easy or without setbacks. But once your victims overcome some of their doubts, and begin to fall under your spell, they will reach a point where they start to let go. They may sense that you are leading them along, but they are enjoying it. No one likes things to be complicated and difficult, and your target will expect the conclusion to come quickly. That is the point, however, where you must train yourself to hold back. Deliver the pleasurable climax they are so greedily awaiting, succumb to the natural tendency to bring the seduction to a rapid end, and you will have missed an opportunity to ratchet up the tension, to make the affair more heated. After all, you don't want a passive little victim to toy with; you want the seduced to engage their will in all its force, to become active participants in the seduction. You want them to pursue you, hopelessly ensnaring themselves in your web in the process. The only way to accomplish this is to take a step back and make them anxious. You have strategically retreated before (see chapter 12), but this is dif- Give Them Space to Fall-The Pursuer Is Pursued • 389 ferent. The target is falling for you now, and your retreat will lead to panicky thoughts: you are losing interest, it is somehow my fault, perhaps it is something I have done. Rather than think you are rejecting them on your own, your targets will want to make this interpretation, since if the cause of the problem is something they have done, they have the power to win you back by changing their behavior. If you are simply rejecting them, on the other hand, they have no control. People always want to preserve hope. Now they will come to you, turn aggressive, thinking that will do the trick. They will raise the erotic temperature. Understand: a person's willpower is directly linked to their libido, their erotic desire. When your victims are passively waiting for you, their erotic level is low. When they turn pursuer, getting involved in the process, brimming with tension and anxiety, the temperature is raised. So raise it as high as you can. When you withdraw, make it subtle; you are instilling unease. Your coldness or distance should dawn on your targets when they are alone, in the form of a poisonous doubt creeping into their mind. Their paranoia will become self-generating. Your subtle step back will make them want to possess you, so they will willingly advance into your arms without being pushed. This is different from the strategy in chapter 20, in which you are inflicting deep wounds, creating a pattern of pain and pleasure. There the goal is to make your victims weak and dependent, here it is to make them active and aggressive. Which strategy you prefer to use (the two cannot be combined) depends on what you want and the proclivities of your victim. In Spren Kierkegaard's The Seducer's Diary, lohannes aims to seduce the young and beautiful Cordelia. He begins by being rather intellectual with her, and slowly intriguing her. Then he sends her letters that are romantic and seductive. Now her fascination blossoms into love. Although in person he remains a little distant, she senses in him great depths and is certain that he loves her. Then one day, while they're talking, Cordelia has a strange sensation: something about him is different. He seems more interested in ideas than in her. Over the next few days, this doubt gets stronger-the letters are a little less romantic, something is missing. Feeling anxious, she slowly turns aggressive, becomes the pursuer instead of the pursued. The seduction is now much more exciting, at least for Johannes. Johannes's step back is subtle; he merely gives Cordelia the impression that his interest is a little less romantic than the day before. He returns to being the intellectual. This stirs the worrisome thought that her natural charms and beauty no longer have as much effect on him. She must try harder, provoke him sexually, prove to herself that she has some power over him. She is now brimming with erotic desire, brought to that point by Johannes's subtle withdrawal of affection. Each gender has its own seductive lures, which come naturally to them. When you seem interested in someone but do not respond sexually, it is disturbing, and presents a challenge: they will find a way to seduce you. To produce this effect, first reveal an interest in your targets, through letters or subtle insinuation. But when you are in their presence, assume a kind of coped with than an earthquake. . . . • The child who experiences his mother's dissatisfaction and apparent withdrawal of affection reacts to this menace at first with fear. He tries to regain what seems lost by expressing hostility and aggressiveness. The change of its character comes about only after failure; when the child realizes that the effort is a failure. And now something very strange takes place, something which isforeign to our conscious thinking but which is very near to the infantile way. Instead of grasping the object directly and taking possession of it in an aggressive way, the child identifies with the object as it was before. The child does the same that the mother did to him in that happy time which has passed. The process is very illuminating because it shapes the pattern of love in general. The little boy thus demonstrates in his own behavior what hewants his mother to do to him, how she should behave to him. He announces this wish by displaying his tenderness and affection toward his mother who gave these before to him. It is an attempt to overcome the despair and sense of loss in taking over the role of the mother. The boy tries to demonstrate what he wishes by doing it himself: look, I would like you to act thus toward me, to be thus tender and loving to me. Of course this attitude is not the result of consideration or reasoned planning but an emotional process by identification, a natural exchange of roles with the unconscious aim 390 of seducing the mother into fulfdling his wish. He demonstrates by his own actions how he wants to be loved. It is a primitive presentation through reversal, an example of how to do the thing which he wishes done by her. In this presentation lives the memory of the attentions, tendernesses, and endearments once received from the mother or loving persons. OF LOVE AND LUST sexless neutrality. Be friendly, even warm, but no more. You are pushing them into arming themselves with the seductive charms that are natural to their sex-exactly what you want. In the latter stages of the seduction, let your targets feel that you are becoming interested in another person-this is another form of taking a step back. When Napoleon Bonaparte first met the young widow Josephine de Beauhamaisin1795, he was excited by her exotic beauty and the looks she gave him. He began to attend her weekly soirees and, to his delight, she would ignore the other men and remain at his side, listening to him so attentively. He found himself falling in love with Josephine, and had every reason to believe she felt the same. Then, at one soiree, she was friendly and attentive, as usual-except that she was equally friendly to another man there, a former aristocrat, like Josephine, the kind of man that Napoleon could never compete with when it came to manners and wit. Doubts and jealousies began to stir within. As a military man, he knew the value of going on the offensive, and after a few weeks of a swift and aggressive campaign he had her all to himself, eventually marrying her. Of course Josephine, a clever seductress, had set it all up. She did not say she was interested in another man, but his mere presence at her house, a look here and there, subtle gestures, made it seem that way. There is no more powerful way to hint that you are losing your desire. Make your interest in another too obvious, though, and it could backfire. This is not the situation in which you want to seem cruel; doubt and anxiety are the effects you are after. Make your possible interest in another barely perceptible to the naked eye. Once someone has fallen for you, any physicalabsence will create unease. You are literally creating space. The Russian seductress Lou Andreas- Salome had an intense presence; when a man was with her, he felt her eyes boring into him, and often became entranced with her coquettish ways and spirit. But then, almost invariably, something would come up-she would have to leave town for a while, or would be too busy to see him. It was during her absences that men fell hopelessly in love with her, and vowed to be more aggressive next time they were with her. Your absences at this latter point of the seduction should seem at least somewhat justified. You are insinuating not a blatant brush-off but a slight doubt: perhaps you could have found some reason to stay, perhaps you are losing interest, perhaps there is someone else. In your absence, their appreciation of you will grow. They will forget your faults, forgive your sins. The moment you return, they will chase after you as you desire. It will be as if you had come back from the dead. According to the psychologist Theodor Reik, we learn to love only through rejection. As infants, we are showered with love by our mother- we know nothing else. But when we get a little older, we begin to sense that her love is not unconditional. If we do not behave, if we do not please her, she can withdraw it. The idea that she will withdraw her affection fills us with anxiety, and, at first, with anger-we will show her, we will throw Give Them Space to Fall-The Pursuer Is Pursued  a tantrum. But that never works, and we slowly realize that the only way to keep her from rejecting us again is to imitate her-to be as loving, kind, and affectionate as she is. This will bond her to us in the deepest way. The pattern is ingrained in us for the rest of our lives: by experiencing a rejection or a coldness, we learn to court and pursue, to love. Re-create this primal pattern in your seduction. First, shower your targets with affection. They will not be sure where this is coming from, but it is a delightful feeling, and they will never want to lose it. When it does go away, in your strategic step back, they will have moments of anxiety and anger, perhaps throwing a tantrum, and then the same childlike reaction: the only way to win you back, to have you for sure, will be to reverse the pattern, to imitate you, to be the affectionate, giving one. It is the terror of rejection that turns the tables. This pattern will often repeat itself naturally in an affair or relationship. One person goes cold, the other pursues, then goes cold in turn, making the first person the pursuer, and on and on. As a seducer, do not leave this to chance. Make it happen. You are teaching the other person to become a seducer, just as the motherinherown way taught the child to return her love by turning her back. For your own sake learn to relish this reversal of roles. Do not merely play at being the pursued, but enjoy it, give in to it. The pleasure of being pursued by your victim can often surpass the thrill of the hunt. Symbol: The Pomegranate. Carefully cultivated and tended, the pomegranate begins to ripen. Do not gather it too early or force it off the stem-it will be hard and bitter. Let the fruit grow heavy and full of juice, then stand back - it will fall on its own. That is when its pulp is most delicious. 392 • The Art of Seduction Reversal T here are moments when creating space and absence will blow up in your face. An absence at a critical moment in the seduction can make the target lose interest in you. It also leaves too much to chance-while you are away, they could find another person, who will distract their thoughts from you. Cleopatra easily seduced Mark Antony, but after their first encounters, he returned to Rome. Cleopatra was mysterious and alluring, but if she let too much time pass, he would forget her charms. So she let go of her usual coquetry and came after him when he was on one of his military campaigns. She knew that once he saw her, he would fall under her spell again and pursue her. Use absence only when you are sure of the target's affection, and never let it go on too long. It is most effective later in the seduction. Also, never create too much space-don't write too rarely, don't act too cold, don't show too much interest in someone else. That is the strategy of mixing pleasure with pain, detailed in chapter 20, and will create a dependent victim, or will even make him or her give up completely. Some people, too, are inveterately passive: they are waiting for you to make the bold move, and if you don't, they will think you are weak. The pleasure to be had from such a victim is less than the pleasure you will get from someone more active. But if you are involved with such a type, do what you need to if you are to have your way, then end the affair and move on. 22 Use Physical Lures Targets with active minds are dangerous: if they see through your manipulations, they may suddenly develop doubts. Put their minds gently to rest, and waken their dormant senses, by combining a nondefensive attitude with a charged sexual presence. While your cool, nonchalant air is calming their minds and lowering their inhibitions, your glances, voice, and bearing-oozing sex and desire-are getting under their skin, agitating their senses and raising their temperature. Never force the physical; instead infect your targets with heat, lure them into lust. Lead them into the moment-an intensified present in which morality, judgment, and concern for the future all melt away and the body succumbs to pleasure. Raising the Temperature I n 1889, the top New York theatrical manager Ernest Jurgens visited France on one of his many scouting trips. Jurgens was known for his honesty, a rare commodity in the shady entertainment world, and for his ability to find unusual acts. He had to spend the night in Marseilles, and while wandering along the quay of the old harbor, he heard excited catcalls issuing from a working-class cabaret, and decided to go in. A twenty-one- year-old Spanish dancer named Caroline Otero was performing, and the minute Jurgens laid eyes on her he was a changed man. Her appearance was startling-five foot ten, fiery dark eyes, black waist-length hair, her body corseted into a perfect hourglass figure. But it was the way she danced that made his heart pound-her whole body alive, writhing like an animal in heat, as she performed a fandango. Her dancing was hardly professional, but she enjoyed herself so much and was so unrestrained that none of that mattered. Jurgens also could not help but notice the men in the cabaret watching her, their mouths agape. After the show, Jurgens went backstage to introduce himself. Otero's eyes came alive as he spoke of his job and of New York. He felt a heat, a twitching, in his body as she looked him up and down. Her voice was deep and raspy, the tongue constantly in play as she rolled her Rs. Closing the door, Otero ignored the knocks and pleas of the admirers dying to speak to her. She said that her way of dancing was natural-her mother was a gypsy. Soon she asked Jurgens to be her escort that evening, and as he helped her with her coat, she leaned back toward him slightly, as if she had lost her balance. As they walked around the city, her arm in his, she would occasionally whisper in his ear. Jurgens felt his usual reserve melt away. He held her tighter. He was a family man, had never considered cheating on his wife, but without thinking, he brought Otero back to his hotel room. She began to take off some of her clothes-coat, gloves, hat-a perfectly normal thing to do, but the way she did it made him lose all restraint. The normally timid Jurgens went on the attack. The next morning Jurgens signed Otero to a lucrative contract-a great risk, considering that she was an amateur at best. He brought her to Paris and assigned a top theatrical coach to her. Hurrying back to New York, he fed the newspapers with reports of this mysterious Spanish beauty poised to conquer the city. Soon rival papers were claiming she was an Andalusian countess, an escaped harem girl, the widow of a sheik, on and on. He The year was 1907 and La Belle \Otero], by then, had been an international figure for over a dozen years. The story was told by M. Maurice Chevalier. • "I was a young star about to make my first appearance at the Folies. Otero had been the headliner there for several weeks and although I knew who she was I had never seen her before on stage or off • "I was scurrying along, head bent, thinking of something or other, when I looked up. There was La Belle, in the company of another woman, walking in my direction. Otero was then nearly forty and I was not yet out of my teens but - ah!-she was so beautiful! • "She was tall, darkhaired, with a magnificent body, like the bodies of the women of those days, not like the lightweight ones of today." • Chevalier smiled. • "Of course I like modern women, too, but there was something of a fatal charm about Otero. We three stood there for a moment or two, not saying a word, I staring at La Belle, not so young as she once was and maybe not so beautiful, but 395 396 still quite a woman. • "She looked right at me, then turned to the lady she was with-some friend, I guess-and spoke to her in English, which she thought I didn't understand. However, I did. • " 'Who's the very handsome young man?' Otero asked. • "The other one answered, 'He's Chevalier.' • " 'He has such beautiful eyes' ha Belle said, looking straight at me, right up and down. • "Then she almost floored me with herfrankness. • " 7 wonder if he'd like to go to bed with me. I think I'll ask him!' Only she didn't say it so delicately. She was much cruder and more to the point. • "It was at this moment I had to make up my mind rather quickly. La Belle moved toward me. Instead of introducing myself and succumbing to the consequences, I pretended I didn't understand what she'd said, uttered some pleasantry in French and moved away to my dressing room. • "I could see La Belle smile in an odd fashion as I passed her;like a sleek tigress watching its dinner go away. For a fleeting second I thought she might turn around and follow me. " • What would Chevalier have done had she pursued him? His lower lip dropped into that halfpout which is the Frenchman's exclusive possession. Then he grinned. • "I'd have slowed down and let her catch up." -ARTHUR H. LEWIS, LA BELLE OTERO made frequent trips to Paris to be with her, forgetting about his family, lavishing money and gifts on her. Otero's New York debut, in October of 1890, was an astounding success. "Otero dances with abandon," read an article in The New York Times. "Her lithe and supple body looks like that of a serpent writhing in quick, graceful curves." In a few short weeks she became the toast of New York society, performing at private parties late into the night. The tycoon William Vanderbilt courted her with expensive jewels and evenings on his yacht. Other millionaires vied for her attention. Meanwhile Jurgens was dipping into the company till to pay for presents for her-he would do anything to keep her, a task in which he was facing heavy competition. A few months later, after his embezzling became public, he was a ruined man. He eventually committed suicide. Otero went back to France, to Paris, and over the next few years rose to become the most infamous courtesan of the Belle Epoque. Word spread quickly: a night with La Belle Otero (as she was now known) was more effective than all the aphrodisiacs in the world. She had a temper, and was demanding, but that was to be expected. Prince Albert of Monaco, a man who had been plagued by doubts of his virility, felt like an insatiable tiger after a night with Otero. She became his mistress. Other royalty followed- Prince Albert of Wales (later King Edward VII), the Shah of Persia, Grand Duke Nicholas of Russia. Less wealthy men emptied their bank accounts, and Jurgens was only the first of many whom Otero drove to suicide. During World War I, a twenty-nine-year-old American soldier named Frederick, stationed in France, won $37,000 in a four-day crap game. On his next leave he went to Nice and checked himself into the finest hotel. On his first night in the hotel restaurant, he recognized Otero sitting alone at a table. He had seen her perform in Paris ten years before, and had become obsessed with her. She was now close to fifty, but was more alluring than ever. He greased some palms and was able to sit at her table. He could hardly talk: the way her eyes bored into him, a simple readjustment in her chair, her body brushing up against him as she got up, the way she managed to walk in front of him and display herself. Later, strolling along a boulevard, they passed a jewelry store. He went inside, and moments later found himself plopping down $31,000 for a diamond necklace. For three nights La Belle Otero was his. Never in his life had he felt so masculine and impetuous. Years later, he still believed it was well worth the price he had paid. Interpretation. Although La Belle Otero was beautiful, hundreds of women were more so, or were more charming and talented. But Otero was constantly on fire. Men could read it in her eyes, the way her body moved, a dozen other signs. The heat that radiated out from her came from her own inner desires: she was insatiably sexual. But she was also a practiced and calculating courtesan, and knew how to put her sexuality to effect. UsePhysicalLures • 397 Onstage she made every man in the audience come alive, abandoning herself in dance. In person she was cooler, or slightly so. A man likes to feel that a woman is enflamed not because she has an insatiable appetite but because of him; so Otero personalized her sexuality, using glances, a brushing of skin, a more languorous tone of voice, a saucy comment, to suggest that the man was heating her up. In her memoirs she revealed that Prince Albert was a most inept lover. Yet he believed, along with many other men, that with her he was Hercules himself. Her sexuality actually originated from her, but she created the illusion that the man was the aggressor. The key to luring the target into the final act of your seduction is not to make it obvious, not to announce that you are ready (to pounce or be pounced upon). Everything should be geared, not to the conscious mind, but to the senses. You want your target to read cues not from your words or actions but from your body. You must make your body glow with desire- for the target. Your desire should be read in your eyes, in a trembling in your voice, in your reaction when your bodies draw near. You cannot train your body to act this way, but by choosing a victim (see chapter 1) who has this effect on you, it will all flow naturally. Duringthe seduction, you will have had to hold yourself back, to intrigue and frustrate the victim. You will have frustrated yourself in the process, and will already be champing at the bit. Once you sense that the target has fallen for you and cannot turn back, let those frustrated desires course through your blood and warm you up. You do not need to touch your targets, or become physical. As La Belle Otero understood, sexual desire is contagious. They will catch your heat and glow in return. Let them make the first move. It will cover your tracks. The second and third moves are yours. Spell SEX with capital letters when you talk about Otero. She exuded it. -MAURICE CHEVALIER Lowering Inhibitions O ne day in 1931, in a village in New Guinea, a young girl named Tu- perselai heard some happy news: her father, Allaman, who had left some months before to work on a tobacco plantation, had returned for a visit. Tuperselai ran to greet him. Accompanying her father was a white man, ait unusual sight in these parts. He was a twenty-two-year-old Australian from Tasmania, and he was the owner of the plantation. His name was Errol Flynn. Flynn smiled warmly at Tuperselai, seeming particularly interested in her bare breasts. (As was the custom in New Guinea then, she wore only a grass skirt.) He said in pidgin English how beautiful she was, and kept repeating her name, which he pronounced remarkably well. He did not say You're anxiously expecting me to escort you \ To parties: here too solicit my advice. \ Arrive late, when the lamps are lit; make a graceful entrance - \ Delay enhances charm, delay's a great bawd. \ Plain you may be, but at night you'll look fine to the tipsy: \ Soft lights and shadows will mask yourfaults. \ Take your food with dainty fingers: good table manners matter: \ Don't besmear your whole face with a greasy paw. \ Don't cat first at home, and nibble - but equally, don't indulge your \ Appetite to the full, leave something in hand. \ If Paris saw Helen stuffing herself to the eyeballs \ He'd detest her, he'd feel her abduction had been \ A stupid mistake. . . . \ Each woman should know herself, pick methods \ To suit her body: onefashion . won't do for all. \ Let the girl with a pretty face lie supine, let the lady \ Who boasts a good back be viewed \ From behind. Milanion bore Atalanta's legs on \ His shoulders: nice legs should always be used this way \ The petite should ride a horse (Andromache, Hector's Theban \ Bride, was too tall for these games: no jockey she); \ If you 're built like afashion model, with a willowy figure, \ Then kneel on the bed, your neck \ A little arched; the girl who has perfect legs and bosom \ Should lie sideways on, and make her lover stand. \ Don't blush to unbind your hair like some ecstatic maenad \ And tumble long tresses about \ Your uncurved throat. - OVID, THE ARTOFLOVE "How do you attract a man," the Paris correspondent of the Stockholm Aftonbladet asked La Belle on July 3, 1910. • "Make yourself as feminine as possible; dress so that the most interesting portions of your anatomy are emphasized; and subtly allow the gentleman to know you are willing to yield at the proper time. . . • "The way to hold a man" Otero revealed a little later to a staff writerfrom the Johannesburg Morning Journal, "is to keep acting as though every time you meet him you are overcome with fresh enthusiasm and, with barely restrained eagerness, you await his impetuosity." -ARTHUR H. LEWIS, LA BELLE OTERO "I missed the mental stimulation when I was younger," he answered. "But from the time I began to have women, shall we say, on the assembly-line basis, I discovered that the only thing you need, want, or should have is the absolutely physical. Simply the physical. No mind at all. A woman's mind will get in the way." • "Really?" • "For me . . . I am speaking of myself. I don't speak for male humankind. I am speaking for what I've discovered or what I need: the body, the face, the physical motion, the voice, the femaleness, the female presence . . . totally that, nothing else. That's the best. There's no possessiveness in that." • I watched him closely. • "I'm serious," he said. "That's my view and feeling. Just the elementary much else, mind you-he did not speak her language-so she said goodbye and walked away with her father. But later that day she discovered, to her dismay, that Mr. Flynn had taken a liking to her and had purchased her from her father for two pigs, some English coins, and some seashell money. The family was poor and the father liked the price. Tuperselai had a boyfriend in the village whom she did not want to leave, but she did not dare disobey her father, and she left with Mr. Flynn for the tobacco plantation. On the other hand, she had no intention of being friendly with this man, from whom she expected the worst kind of treatment. In the first few days, Tuperselai missed her village terribly, and felt nervous and out of sorts. But Mr. Flynn was polite, and talked in a soothing voice. She began to relax, and since he kept his distance, she decided it was safe to approach him. His white skin was tasty to the mosquitoes, so she began to wash him every night with scented bush herbs to keep them away. Soon she had a thought: Mr. Flynn was lonely, and wanted a companion. That was why he had bought her. At night he usually read; instead, she began to entertain him by singing and dancing. Sometimes he tried to communicate in words and gestures, struggling inpidgin. She had no idea what he was trying to say, but he made her laugh. And one day she did understand something: the word "swim." He was inviting her to go swimming with him in the Laloki River. She was happy to go along, but the river was full of crocodiles, so she brought along her spear just in case. At the sight of the river, Mr. Flynn seemed to come alive-he tore off his clothes and dove in. She followed and swam after him. He put his arms around her and kissed her. They drifted downstream, and she clung to him. She had forgotten about the crocodiles; she had also forgotten about her father, her boyfriend, her village, and everything else there was to forget. Around a bend of the river, he picked her up and carried her to a secluded grove near the river's edge. It all happened rather suddenly, which was fine with Tuperselai. From then on this was a daily ritual-the river, the grove-until the time came when the tobacco plantation was no longer doing so well, and Mr. Flynn left New Guinea. One day some ten years later, a young girl named Blanca Rosa Welter went to a party at the Ritz Hotel in Mexico City. As she wandered through the bar, looking for her friends, a tall older man blocked her path and said in a charming accent, "You must be Blanca Rosa." He did not have to introduce himself-he was the famous Hollywoodactor Errol Flynn. His face was plastered on posters everywhere, and he was friends of the party's hosts, the Davises, and had heard them praise the beauty of Blanca Rosa, who was turning eighteen the following day. He led her to a table in the corner. His manner was graceful and confident, and listening to him talk, she forgot about her friends. He spoke of her beauty, repeated her name, said he could make her a star. Before she knew what was happening, he had invited her to join him in Acapulco, where he was vacationing. The Davises, their mutual friends, could come along as chaperones. That would be wonderful, she said, but her mother would never agree. Don't worry Use Physical Lures • 399 about that, Flynn replied; and the following day he showed up at their house with a beautiful gift for Blanca, a ring with her birthstone. Melting under his charming smile, Blanca's mother agreed to his plan. Later that day, Blanca found herself on a plane to Acapulco. It was all like a dream. The Davises, under orders from Blanca's mother, tried not to let her out of their sight, so Flynn put her on a raft and they drifted out into the ocean, far from the shore. His flattering words filled her ears, and she let him hold her hand and Mss her cheek. That night they danced together, and when the evening was over he escorted hertoherroom and serenaded her with a song as they finally parted. It was the end of a perfect day. In the middle of the night, she woke up to hear him calling her name, from her hotel-room balcony. How had he gotten there? His room was a floor above; he must have somehow jumped or swung down, a dangerous maneuver. She approached, not at all afraid, but curious. He pulled her gently into his arms and kissed her. Her body convulsed; overwhelmed with new sensations, totally at sea, she began to cry-out of happiness, she said. Flynn comforted her with a kiss and returned to his room above, in the same inexplicable way he had arrived. Now Blanca was hopelessly in love with him and would do anything he asked of her. A few weeks later, in fact, she followed him to Hollywood, where she went on to become a successful actress, known as Linda Christian. In 1942, an eighteen-year-old girl named Nora Eddington had a temporary job selling cigarettes at the Los Angeles County courthouse. The place was a madhouse at the time, teeming with tabloid journalists: two young girls had charged Errol Flynn with rape. Nora of course noticed Flynn, a tall, dashing man who occasionally bought cigarettes from her, but her thoughts were with her boyfriend, a young Marine. A few weeks later Flynn was acquitted, the trial ended, and the place settleddown. A man she had met during the trial called her up one day; he was Flynn's right-hand man, and on Flynn's behalf, he wanted to invite her up to the actor's house on Mulholland Drive. Nora had no interest in Flynn, and in fact she was a little afraid of him, but a girlfriend who was dying to meet him talked her into going and bringing her along. What did she have to lose? Nora agreed to go. On the day, Flynn's friend showed up and drove them to a splendid house on top of a hill. When they arrived, Flynn was standing shirtless by his swimming pool. He came to greet her and her girlfriend, moving so gracefully-like a lithe cat-and his manner so relaxed, she felt her jitters melt away. He gave them a tour of the house, which was full of artifacts of his various sea voyages. He talked so delightfully of his love of adventure that she wished she had had adventures of her own. He was the perfect gentleman, and even let her talk about her boyfriend without the slightest sign ofjealousy. Nora had a visit from her boyfriend the next day. Somehow he didn't seem so interesting anymore; they had a fight and broke up on the spot. That night, Flynn took her out on the town, to the famous Mocambo nightclub. He was drinking andjoking, and she fell into the spirit, and hap- physical female. Nothing more than that. When you get hold of that-hang on to it, for a short while." -EARL CONRAD, ERROL FLYNN: A MEMOIR A sweet disorder in the dress \ Kindles in clothes a wantonness: \ A lawn about the shoulders thrown \ Into a fine distraction: \ An erring lace, which here and there \ Enthralls the crimson stomacher: \ A cuff neglectful, and thereby \ Ribbands to flow confusedly: \ A winning wave (deserving note) \ In the tempestuous petticoat: \ A careless shoestring, in whose tie \ I see a wild civility: \ Do more bewitch me, than when art \ Is too precise in every part. - ROBERT HERRICK,"DELIGHT IN DISORDER," EROTIC POEMS Satni, the son of Pharaoh Usimares, saw a very beautiful woman on the plain-stones of the temple. He called his page, and said, "Go and tell her that I, Pharaoh's son, shall give her ten pieces of gold to spend an hour with me." "I am a Pure One, I am not a low person," answers the Lady Thubuit. "If you wish to have your pleasure with me, you will come to my house at Bubastis. Everything will be ready there." Satni went to Bubastis by boat. "By my life," said Thubuit, "come upstairs with me." On the upper floor, sanded with dust of lapis lazuli and turquoise, Satni saw several beds covered with royal linen and many gold 400 bowls on a table. "Please take your meal," said Thubuit."That is not what I have come to do," answered Satni, while the slaves put aromatic wood on the fire and scattered scent about. "Do that for which we have come here," Satni repeated. "First you will make out a deedfor my maintenance," Thubuit replied, "and you will establish a dowry for me of all the things and goods which belong to you, in writing." Satni acquiesced, saying, "Bring me the scribe of the school." • When he had done what she asked, Thubuit rose and dressed herself in a robe of fine linen, through which Satni could see all her limbs. His passion increased, but she said, "If it is true that you desire to have your pleasure of me, you will make your children subscribe to my deed, that they may not seek a quarrel with my children." Satni sent for his children. "If it is true that you desire to have your pleasure of me, you will cause your children to be killed, that they may not seek a quarrel with my children." Satni consented again: "Let any crime be done to them which your heart desires." "Go into that room," said Thubuit; and while the little corpses were thrown out to the stray dogs and cats, Satni at last lay on a bed of ivory and ebony, that his love might be rewarded, and Thubuit lay down at his side. "Then," the texts modestly say, "magic and the god Amen did much." • The charms of the Divine Women must have been irresistible, if even "the wisest men" were pily let him touch her hand. Then suddenly she panicked. "I'm a Catholic and a virgin," she blurted out, "and some day I'm going to walk down the church aisle wearing a veil-and if you think you're going to sleep with me, you're mistaken." Totally calm and unruffled, Flynn said she had nothing to fear. He simply liked being with her. She relaxed, and politely asked him to put his hand back. Over the next few weeks she saw him almost every day. She became his secretary. Soon she was spending weekend nights as his house guest. He took her on skiing and boating trips. He remained the perfect gentleman, but when he looked at her or touched her hand, she felt overwhelmed by an exhilarating sensation, a tingling on her skin that she compared to stepping into a cold-needle shower on a red-hot day. Soon she was going to church less often, drifting away from the life she had known. Although outwardly nothing had changed between them, inwardly all semblance of resistance to him had melted away. One night, after a party, she succumbed. She and Flynn eventually engaged in a stormy marriage that lasted seven years. Interpretation. The women who became involved with Errol Flynn (and by the end of his life they numbered in the thousands) had every reason in the world to feel suspicious of him: he was real life's closest thing to a Don Juan. (In fact he had played the legendary seducer in a film.) He was constantly surrounded by women, who knew that no involvement with him could last. And then there were the rumors of his temper, and his love of danger and adventure. No woman had greater reason to resist him than Nora Eddington: when she met him he stood accused of rape; she was involved with another man; she was a God-fearing Catholic. Yet she fell under his spell, just like all the rest. Some seducers-D. H. Lawrence for -operate mostly on the mind, creating fascination, stirring up the need to possess them. Flynn operated on the body. His cool, nonchalant manner infected women, lowering their resistance. This happened almost the minute they met him, like a drug: he was at ease around women, graceful and confident. They fell into this spirit, drifting along on a current he created, leaving the world and its heaviness behind-it was only you and him. Then-perhaps that same day, perhaps a few weeks later-there would come a touch of his hand, a certain look, that would make them feel a tingling, a vibration, a dangerously physical excitement. They would betray that moment in their eyes, a blush, a nervous laugh, and he would swoop in for the kill. No one moved faster than Errol Flynn. The greatest obstacle to the physical part of the seduction is the target's education, the degree to which he or she has been civilized and socialized. Such education conspires to constrain the body, dull the senses, fill the mind with doubts and worries. Flynn had the ability to return a woman to a more natural state, in which desire, pleasure, and sex had nothing negative attached to them. He lured women into adventure not with arguments but Use Physical Lures • 401 with an open, unrestrained attitude that infected their minds. Understand: it all starts from you. When the time comes to make the seduction physical, train yourself to let go of your own inhibitions, your doubts, your lingering feelings of guilt and anxiety. Your confidence and ease will have more power to intoxicate the victim than all the alcohol you could apply. Exhibit a lightness of spirit-nothing bothers you, nothing daunts you, you take nothing personally. You are inviting your targets to shed the burdens of civilization, to follow your lead and drift. Do not talk of work, duty, marriage, the past or future. Plenty of other people will do that. Instead, offer the rare thrill of losing oneself in the moment, where the senses come dive and the mind is left behind. When he kissed me, it evoked a response I had never known or imagined before, a giddying of all my senses. It was instinctive joy, against which no warning, reasoning monitor within me availed. It was new and irresistible and finally overpowering. Seduction-the word implies being led-and so gently, so tenderly. -LINDA CHRISTIAN Keys to Seduction N ow more than ever, our minds are in a state of constant distraction, barraged with endless information, pulled in every direction. Many of us recognize the problem: articles are written, studies are completed, but they simply become more information to digest. It is almost impossible to turn off an overactive mind; the attempt simply triggers more thoughts- an inescapable hall of mirrors. Perhaps we turn to alcohol, to drugs, to physical activity-anything to help us slow the mind, be more present in the moment. Our discontent presents the crafty seducer with infinite opportunity. The waters around you are teeming with people seeking some kind of release from mental overstimulation. The lure of unencumbered physical pleasure will make them take your bait, but as you prowl the waters, understand: the only way to relax a distracted mind is to make it focus on one thing. A hypnotist asks the patient to focus on a watch swinging back and forth. Once the patient focuses, the mind relaxes, the senses awaken, the body becomes prone to all kinds of novel sensations and suggestions. As a seducer, youare a hypnotist, and what you are making the target focus on is you. Throughout the seductive process you have been filling the target's mind. Letters, mementos, shared experiences keep you constantly present, even when you are not there. Now, as you shift to the physical part of the seduction, you must see your targets more often. Your attention must become more intense. Errol Flynn was a master at this game. When he ready to do anything in their desire to abandon themselves, even for a few moments, to their trained embraces. -G. R.TABOUIS, THE PRIVATE UFE OF TUTANKHAMEN, What is the moment, and how do you define it? Because I must say in all good honesty that I do not understand you. • THE DUKE: A certain disposition of the senses, as unexpected as it is involuntary, which a woman can conceal, but which, should it be perceived or sensed by someone who might profit from it, puts her in the greatest danger of being a little more willing than she thought she ever should or could be. -CREBILLON FILS, LE HASARD AU COIN DU FEU, QUOTED IN MICHEL FEHER, ED., THE LIBERTINE READER When, on an autumn evening, with closed eyes, \ I breathe the warm dark fragrance of your breast, \ Before me blissful shores unfold, caressed \ By dazzlingfires from blue unchanging skies. \ And there, upon that calm and drowsing isle, \ Grow luscious fruits amid fantastic trees: \ There, men are lithe: the women of those seas \ Amaze one with their gaze that knows no guile. \ Your perfume wafts me thither like a wind: \ I see a harbor thronged with masts and sails \ Still weary from the tumult of the gales; \ And 402 THE FLOWERS OF EVIL,  with the sailors' song that honied in on a victim, he dropped everything else. The woman was made drifts to me \ Are mmgied t0 f ee i everything came second to her-his career, his friends, every- odors of the tamarind, \ . , , . ... . . . . . , " , . , thing. Then he would take her on a little trip, preferably with water and melody, around. Slowly the rest of the world would fade into the background, and -charles baudelaire, Flynn would take center stage. The more your targets think of you, the less ¦exotic perfume," they are distracted by thoughts of work and duty. When the mind focuses tiic flowers or evil. one jj. and w hen the mind relaxes, all the little paranoid thoughts that we are prone to-do you really like me, am I intelligent or beautiful enough, what does the future hold-vanish from the surface. Remember: it all starts with you. Be undistracted, present in the moment, and the target will follow suit. The intense gaze of the hypnotist creates a similar reaction in the patient. Once the target's overactive mind starts to slow down, their senses will come to life, and your physical lures will have double their power. Now a heated glance will give them flush. You will have a tendency to employ physical lures that work primarily on the eyes, the sense we most rely on in our culture. Physical appearances are critical, but you are after a general agitation of the senses. La Belle Otero made sure men noticed her breasts, her figure, her perfume, her walk; no part was allowed to predominate. The senses are interconnected-an appeal to smell will trigger touch, an appeal to touch will trigger vision: casual or "accidental" contact-better a brushing of the skin than something more forceful right now-will create a jolt and activate the eyes. Subtly modulate the voice, make it slower and deeper. Living senses will crowd out rational thought. In the eighteenth-century libertine novel The Wayward Head and Heart, by Crebillon fils, Madame de Lursay is trying to seduce a younger man, Meilcour. Her weapons are several. One night at a party she is hosting, she wears a revealing gown; her hair is slightly tousled; she throws him heated glances; her voice trembles a bit. When they are alone, she innocently gets him to sit close to her, and talks more slowly; at one point she starts to cry. Meilcour has many reasons to resist her; he has fallen in love with a girl his own age, and he has heard rumors about Madame de Lursay that should make him distrust her. But the clothes, the looks, the perfume, the voice, the closeness of her body, the tears-it all begins to overwhelm him. "An indescribable agitation stirred my senses." Meilcour succumbs. The French libertines of the eighteenth century called this "the moment." The seducer leads the victim to a point where he or she reveals involuntary signs of physical excitation that can be read in various symptoms. Once those signs are detected, the seducer must work quickly, applying pressure on the target to get lost in the moment-the past, the future, all moral scmples vanishing in air. Once your victims lose themselves in the moment, it is all over-their mind, their conscience, no longer holds them back. The body gives in to pleasure. Madame de Lursay lures Meilcour into the moment by creating a generalized disorder of the senses, rendering him incapable of thinking straight. In leading your victims into the moment, remember a few things. First, Use Physical Lures • 403 a disordered look (Madame de Lursay's tousled hair, her ruffled dress) has more effect on the senses than a neat appearance. It suggests the bedroom. Second, be alert to the signs of physical excitation. Blushing, trembling of the voice, tears, unusually forceful laughter, relaxing movements of the body (any kind of involuntary mirroring, their gestures imitating yours), a revealing slip of the tongue-these are signs that the victim is slipping into the moment and pressure is to be applied. In 1934, a Chinese football player named Li met a young actress named Lan Ping in Shanghai. He began to see her often at his matches, cheering him on. They would meet at public affairs, and he would notice her glancing at him with her "strange, yearning eyes," then looking away. One evening he found her seated next to him at a reception. Her leg brushed up against his. They chatted, and she asked him to see a movie with her at a nearby cinema. Once they were there, her head found its way onto his shoulder; she whispered into his ear, something about the film. Later they strolled the streets, and she put her arm around his waist. She brought him to a restaurant where they drank some wine. Li took her to his hotel room, and there he found himself overwhelmed by caresses and sweet words. She gave him no room to retreat, no time to cool down. Three years later Lan Ping-soon to be renamed Jiang Qing-played a similar game on Mao Zedong. She was to become Mao's wife-the infamous Madame Mao, leader of the Gang of Four. Seduction, like warfare, is often a game of distance and closeness. At first you track your enemy from a distance. Your main weapons are your eyes, and a mysterious manner. Byron had his famous underlook, Madame Mao her yearning eyes. The key is to make the look short and to the point, then look away, like a rapier glancing the flesh. Make your eyes reveal desire, and keep the rest of the face still. (A smile will spoil the effect.) Once the victim is heated up, you quickly bridge the distance, turning to hand- to-hand combat in which you give the enemy no room to withdraw, no time to think or to consider the position in which you have placed him or her. To take the element of fear out of this, use flattery, make the target feel more masculine or feminine, praise their charms. It is their fault that you have become so physical and aggressive. There is no greater physical lure than to make the target feel alluring. Remember; the girdle of Aphrodite, which gave her untold seductive powers, included that of sweet flattery. Shared physical activity is always an excellent lure. The Russian mystic Rasputin would begin his seductions with a spiritual lure-the promise of a shared religious experience. But then his eyes would bore into his target at a party, and inevitably he would lead her in a dance, which would become more and more suggestive as he movedcloser to her. Hundreds of women succumbed to this technique. For Flynn it was swimming or sailing. In such physical activity, the mind turns off and the body operates according to its own laws. The target's body will follow your lead, will mirror your moves, as far as you want it to go. In the moment, all moral considerations fade away, and the body re- turns to a state of innocence. You can partly create that feeling through a devil-may-care attitude. You do not worry about the world, or what people think of you; you do not judge your target in any way. Part of Flynn's appeal was his total acceptance of a woman. He was not interested in a particular body type, a woman's race, her level of education, her political beliefs. He was in love with her feminine presence. He was luring her into an adventure, free of society's strictures and moral judgments. With him she could act out a fantasy-which, for many, was the chance to be aggressive or transgressive, to experience danger. So empty yourself of your tendency to moralize andjudge. You have lured your targets into a momentary world of pleasure-soft and accommodating, all rules and taboos thrown out the window. Symbol: The Raft. Floating out to sea, drifting with the current. Soon the shoreline disappears from sight, and the two of you are alone. The water invites you to forget all cares and worries, to submerge yourself. Without anchor or direction, cut off from the past, you give in to the drifting sensation and slowly lose all restraint. Reversal S ome people panic when they sense they are falling into the moment. Often, using spiritual lures will help disguise the increasingly physical nature of the seduction. That is how the lesbian seductress Natalie Barney operated. In her heyday, at the turn of the twentieth century, lesbian sex was immensely transgressive, and women new to it often felt a sense of shame or dirtiness. Barney led them into the physical, but so enveloped it in poetry and mysticism that they relaxed and felt purified by the experience. Today, few people feel repulsed by their sexual nature, but many are uncomfortable with their bodies. A purely physical approach will frighten and disturb them. Instead, make it seem a spiritual, mystical union, and they will take less notice of your physical manipulations. 23 Master the Art of the Bold Move A moment has arrived: your victim clearly desires you, but is not ready to admit it openly, let alone act on it. This is the time to throw aside chivalry, kindness, and coquetry and to overwhelm with a bold move. Don't give the victim time to consider the consequences; create conflict, stir up tension, so that the bold move comes as a great release. Showing hesitation or awkwardness means you are thinking of yourself, as opposed to being overwhelmed by the victim's charms. Never hold back or meet the target halfway, under the belief that you are being correct and considerate: you must be seductive now, not political. One person must go on the offensive, and it is you. The Perfect Climax T hrough a campaign of deception-the misleading appearance of a transformation into goodness-the rake Valmont laid siege to the virtuous young Presidente de Tourvel until the day came when, disturbed by his confession of love for her, she insisted he leave the chateau where both of them were staying as guests. He complied. From Paris, however, he flooded her with letters, describing his love for her in the most intense terms; she begged him to stop, and once again he complied. Then, several weeks later, he paid a surprise visit to the chateau. In his company Tourvel was flushed and jumpy, and kept her eyes averted-all signs of his effect on her. Again she asked him to leave. What have you to fear? he replied, I have always done what you have asked, I have never forced myself on you. He kept his distance and she slowly relaxed. She no longer left the room when he entered, and she could look at him directly. When he offered to accompany her on a walk, she did not refuse. They were friends, shesaid. She even put her arm in his as they strolled, a friendly gesture. One rainy day they could not take their usual walk. He met her in the hallway as she was entering her room; for the first time, she invited him in. She seemed relaxed, and Valmont sat near her on a sofa. He talked of his love for her. She gave the faintest protest. He took her hand; she left it there and leaned against his arm. Her voice trembled. She looked at him, and he felt his heart flutter-it was a tender, loving look. She started to speak-"Well! yes, I . . ."-then suddenly collapsed into his arms, crying. It was a moment of weakness, yet Valmont held himself back. Her crying became convulsive; she begged him to help her, to leave the room before something terrible happened. He did so. The following morning he awoke to some surprising news: in the middle of the night, claiming she was feeling ill, Tourvel had suddenly left the chateau and returned home. Valmont did not follow her to Paris. Instead he began staying up late, and using no powder to hide the peaked looks that soon ensued. He went to the chapel every day, and dragged himself despondently around the chateau. He knew that his hostess would be writing to the Presidente, who would hear of his sad state. Next he wrote to a church father in Paris, and asked him to pass along a message to Tourvel: he was ready to change his life for good. He wanted one last meeting, to say goodbye and to return the letters she had written him over thelastfew months. The father arranged a It afforded, moreover, another advantage: that of observing at my leisure her charming face, more beautiful than ever, as it proffered the powerful enticement of tears. My blood was on fire, and I was so little in control of myself that I was tempted to make the most of the occasion. • How weak we must be, how strong the dominion of circumstance, if even I, without a thought for my plans, could risk losing all the charm of a prolonged struggle, all the fascination of a laboriously administered defeat, by concluding a premature victory; if distracted by the most puerile of desires, I could be willing that the conqueror of Madame de Tourvel should take nothing for the fruit of his labors but the tasteless distinction of having added one more name to the roll. Ah, let her surrender, but let her fight! Let her be too weak to prevail but strong enough to resist; let her savor the knowledge of her weakness at her leisure, but let her be unwilling to admit defeat. Leave the humble poacher to kill the stag where he has surprised it in its hiding place; the true hunter will bring it to bay. -VICOMTE DEVALMONT, IN CHODERLOS DE LACLOS, DANGEROUS LIAISONS. THE LIBERTINE READER Don't you know that however willing, however eager we are to give ourselves, we must nevertheless have an excuse? And is there any more convenient than an appearance of yielding to force? As for me, I shall admit that one thing that most flatters me is a lively and well-executed attack, when everything happens in quick but orderly succession; which never puts us in the painfully embarrassing position of having to cover up some blunder of which, on the contrary, we ought to be taking advantage; which keeps up an appearance of taking by storm even that which we are quite prepared to surrender; and adroitly flatters our two favorite passions-the pride of defense and the pleasure of defeat. -MARQUISE DE MERTEUIL IN CHODERLOS DE LACLOS, DANGEROUS LIAISONS. What sensible man will not intersperse his coaxing \ With kisses? Even if she doesn't kiss back, \ Still force on regardless! She may struggle, cry "Naughty!" \ Yet she wants to be overcome. Just meeting, and so, one late afternoon in Paris, Valmont found himself once again alone with Tourvel, in a room in her house. The Presidente was clearly on edge; she could not look him in the eye. They exchanged pleasantries, but then Valmont turned harsh; she had treated him cruelly, had apparently been determined to make him unhappy. Well, this was the end, they were separating for good, since that was how she wanted it. Tourvel argued back: she was a married woman, she had no choice. Valmont softened his tone and apologized: he was unused to having such strong feelings, he said, and could not control himself. Still, he would never trouble her again. Then he laid on a table the letters he had come to return. Tourvel came closer: the sight of her letters, and the memory of all the turmoil they represented, affected her powerfully. She had thought his decision to renounce his libertine way of life was voluntary, she said-with a touch of bitterness in her voice, as if she resented being abandoned. No, it was not voluntary, he replied, it was because she had spurned him. Then he suddenly stepped closer and took her in his arms. She did not resist. "Adorable woman!" he cried. "You have no idea of the love you inspire. You will never know how I have worshipped you, how much dearer my feelings have been to me than life! ... May [your days] be blessed with all of the happiness of which you have deprived me!" Then he let her go and turned to leave. Tourvel suddenly snapped. "You shall listen to me. I insist," she said, and grabbed his arm. He turned around and they embraced. This time he waited no longer, picking her up, carrying her to anottoman, overwhelming her with kisses and sweet words of the happiness he now felt. Before this sudden flood of caresses, all her resistance gave way. "From this moment on I am yours," she said, "and you will hear neither refusals nor regrets from my lips." Tourvel was true to her word, and Valmont's suspicions were to prove correct: the pleasures he won from her were far greater than with any other woman he had seduced. Interpretation. Valmont-a character in Choderlos de Laclos's eighteenth- century novel Dangerous Liaisons -can sense several things about the Presidente at first glance. She is timid and nervous. Her husband almost certainly treats her with respect-probably too much of it. Beneath her interest in God, religion, and virtue is a passionate woman, vulnerable to the lure of a romance and to the flattering attention of an ardent suitor. No one, not even her husband, has given her this feeling, because they have all been so daunted by her prudish exterior. Valmont begins his seduction, then, by being indirect. He knows Tourvel is secretly fascinated with his bad reputation. By acting as if he is contemplating a change in his life, he can make her want to reform him-a desire that is unconsciously a desire to love him. Once she has opened up ever so slightly to his influence, he strikes at her vanity: she has never felt Master the Art of the Bold Move • 409 desired as a woman, and on some level cannot help but enjoy his love for her. Of course she struggles and resists, but that is only a sign that her emotions are engaged. (Indifference is the single most effective deterrent to seduction.) By taking his time, by making no bold moves even when he has the opportunity for them, he instills in her a false sense of security and proves himself by being patient. On what he pretends is his last visit to her, however, he can sense she is ready-weak, confused, more afraid of losing the addictive feeling of being desired than of suffering the consequences of adultery. He deliberately makes her emotional, dramatically displays her letters, creates some tension by playing a game of push-and-pull, and when she takes his arm, he knows it is the time to strike. Now he moves quickly, allowing her no time for doubts or second thoughts. But his move seems to arise out of love, not lust. After so much resistance and tension, what a pleasure to finally surrender. The climax now comes as a great release. Never underestimate the role of vanity in love and seduction. If you seem impatient, champing at the bit for sex, you signal that it is all about libido, and that it has little to do with the target's own charms. That is why you must defer the climax. A lengthier courtship will feed the target's vanity, and will make the effect of your bold move all the more powerful and enduring. Wait too long, though-showing desire, but then proving too timid to make your move-and you will stir up a different kind of insecurity: "You found me desirable, but you are not acting on your desires; maybe you're not so interested." Doubts like these affront your target's vanity (if you're not interested, maybe I'm not so interesting), and are fatal in the latter stages of seduction; awkwardness and misunderstandings will spring up everywhere. Once you read in your targets' gestures that they are ready and open-a look in the eye, mirroring behavior, a strange nervousness in your presence-you must go on the offensive, make them feel that their charms have unhinged you and pushed you into the bold move. They will then have the ultimate pleasure: physical surrender and a psychological boost to their vanity. take care \ Not to bruise her tender lips with such hard-snatched kisses, \ Don't give her a chance to protest \ You're too rough. Those who grab their kisses, but not whatfollows, \ Deserve to lose all they've gained. How short were you \ Of the ultimate goal after all your kissing? That was \ Gaucheness, not modesty, I'm afraid . . . - OVID, THE ART OF LOVE. I have tested all manner of pleasures, and known every variety of joy; and I have found that neither intimacy with princes, nor wealth acquired, nor finding after lacking, nor returning after long absence, nor security after fear and repose in a safe refuge-none of these things so powerfully affects the soul as union with the beloved, especially if it come after long denial and continual banishment. For then the flame ofpassion waxes exceeding hot, and the furnace of yearning blazes up, and the fire of eager hope rages ever more fiercely. The more timidity a lover shows with us the more it concerns our pride to goad him on; the more respect he has for our resistance, the more respect we demand of him. We would willingly say to you men: "Ah, in pity's name do not suppose us to be so very virtuous; you are forcing us to have too much of it." -NINON DE L'ENCLOS Keys to Seduction T hink of seduction as a world you enter, a world that is separate and distinct from the real world. The rules are different here; what works in daily life can have the opposite effect in seduction. The real world fea- - THE RING OF THE DOVE: A TREATISE ON THE ART AND PRACTICE OF LOVE. I knew once two great lords, brothers, both of them highly bred and highly accomplished gentlemen which did love two ladies, but the one of these wasof much higher quality and more account than the other in all respects. Now being entered both into the chamber of 410 this great lady, who for the time being was keeping her bed, each did withdraw apart for to entertain his mistress. The one did converse with the high-born dame with every possible respect and humble salutation and kissing of hands, with words of honor and stately compliment, without making ever an attempt to come near and try to force the place. The other brother, without any ceremony of words or fine phrases, did take his fair one to a recessed window, and incontinently making free with her (for he was very strong), he did soon show her 'twas not his way to love a I'espagnole, with eyes and tricks of face and words, but in the genuine fashion and proper mode every true lover should desire. Presently having finished his task, he doth quit the chamber; but as he goes, saith to his brother, loud enough for his lady to hear the words: "Do you as I have done, brother mine; else you do naught at all. Be you as brave and hardy as you will elsewhere, yet if you show not your hardihood here and now, you are disgraced;for here is no place of ceremony and respect, but one where you do see your lady before you, which doth but wait your attack." So with this he did leave his brother, which yetfor that while did refrain him and put it off to another time. Butfor this the lady did by no means esteem him more highly, whether it was she did put it down to an overchilliness in love, or a lack of courage, or a defect of bodily vigor. -SEIGNEUR DE BRANT6ME, LIVES OF FAIR & GALLANT LADIES tures a democratizing, leveling impulse, in which everything has to seem at least something like equal. An overt imbalance of power, an overt desire for power, will stir envy and resentment; we learn to be kind and polite, at least on the surface. Even those who have power generally try to act humble and modest-they do not want to offend. In seduction, on the other hand, you can throw all of that out, revel in your dark side, inflict a little pain-in some ways be more yourself. Your naturalness in this respect will prove seductive in itself. The problem is that after years of living in the real world, we lose the ability to be ourselves. We become timid, humble, overpolite. Your task is to regain some of your childhood qualities, to root out all this false humility. And the most important quality to recapture is boldness. No one is born timid; timidity is a protection we develop. If we never stick our necks out, if we never try, we will never have to suffer the consequences of failure or success. If we are kind and unobtrusive, no one will be offended-in fact we will seem saintly and likable. In truth, timid people are often self-absorbed, obsessed with the way people see them, and not at all saintly. And humility may have its social uses, but it is deadly in seduction. You need to be able to play the humble saint at times; it is a mask you wear. But in seduction, take it off. Boldness is bracing, erotic, and absolutely necessary to bring the seduction to its conclusion. Done right, it tells your targets that they have made you lose your normal restraint, and gives them license to do so as well. People are yearning to have a chance to play out the repressed sides of their personality. At the final stage of a seduction, boldness eliminates any awkwardness or doubts. In a dance, two people cannot lead. One takes over, sweeping the other along. Seduction is not egalitarian; it is not a harmonic convergence. Holding back at the end out of fear of offending, or thinking it correct to share the power, is a recipe for disaster. This is an arena not for politics but for pleasure. It can be by the man or woman, but a bold move is required. If you are so concerned about the other person, console yourself with the thought that the pleasure of the one who surrenders is often greater than that of the aggressor. As a young man, the actor Errol Flynn was uncontrollably bold. This often got him into trouble; he became too aggressive around desirable women. Then, while traveling through the Far East, he became interested in the Asian practice of tantric sex, in which the male must train himself not to ejaculate, preserving his potency and heightening both partners' pleasure in the process. Flynn later applied this principle to his seductions as well, teaching himself to restrain his natural boldness and delay the end of the seduction as long as possible. So, while boldness can work wonders, uncontrollable boldness is not seductive but frightening; you need to be able to turn it on and off at will, know when to use it. As in Tantrism, you can create more pleasure by delaying the inevitable. In the 1720s, the Due de Richelieu developed an infatuation with a certain duchess. The woman was exceptionally beautiful, and was desired by one and all, but she was far too virtuous to take a lover, although she Master the Art of the Bold Move • 411 could be quite coquettish. Richelieu bided his time. He befriended her, charming her with the wit that had made him the favorite of the ladies. One night a group of such women, including the duchess, decided to play a practical joke on him, in which he was to be forced naked out of his room at the palace of Versailles. The joke worked to perfection, the ladies all got to see him in his native glory, andhada good chuckle watching him run away. There were many places Richelieu could have hidden; the place he chose was the duchess's bedroom. Minutes later he watched her enter and undress, and once the candles were extinguished, he crept into bed with her. She protested, tried to scream. He covered her mouth with kisses, and she eventually and happily relented. Richelieu had decided to make his bold move then for several reasons. First, the duchess had come to like him, and even to harbor a secret desire for him. She would never act upon it or admit it, but he was certain it existed. Second, she had seen him naked, and could not help but be impressed. Third, she would feel a touch of pity for his predicament, and for the joke played on him. Richelieu, a consummate seducer, would find no more perfect moment. The bold move should come as a pleasant surprise, but not too much of a surprise. Learn to read the signs that the target is falling for you. His or her manner toward you will have changed-it will be more pliant, with more words and gestures mirroring yours-yet there will still be a touch of nervousness and uncertainty. Inwardly they have given in to you, but they do not expect a bold move. This is the time to strike. If you wait too long, to the point where they consciously desire and expect you to make a move, it loses the piquancy of coming as a surprise. You want a degree of tension and ambivalence, so that the move represents a great release. Their surrender will relieve tension like a long-awaited summer storm. Don't plan your bold move in advance; it cannot seem calculated. Wait for the opportune moment, as Richelieu did. Be attentive to favorable circumstances. This will give you room to improvise and go with the moment, which will heighten the impression you want to create of being suddenly overwhelmed by desire. If you ever sense that the victim is expecting the bold move, take a step back, lull them into a false sense of security, then strike. Sometime in the fifteenth century, the writer Bandello relates, a young Venetian widow had a sudden lust for a handsome nobleman. She had her father invite him to their palace to discuss business, but during the meeting the father had to leave, and she offered to give the young man a tour of the place. His curiosity was piqued by her bedroom, which she described as the most splendid room in the palace, but which she also passed by without letting him enter. He begged to be shown the room, and she granted his wish. He was spellbound: the velvets, the rare objets, the suggestive paintings, the delicate white candles. A beguiling scent filled the room. The widow put out all of the candles but one, then led the man to the bed, which had been heated with a warming pan. He quickly succumbed to her caresses. Follow the widow's example: your bold move should have a theatrical quality to it. That will make it memorable, and make your aggressiveness seem pleasant. A man should proceed to enjoy any woman when she gives him an opportunity and makes her own love manifest to him by the following signs: she calls out to a man without first being addressed by him; she shows herself to him in secret places; she speaks to him tremblingly and inarticulately; her face blooms with delight and her fingers or toes perspire; and sometimes she remains with both hands placed on his body as if she had been surprised by something, or as if overcome withfatigue. • After a woman has manifested her love to him by outward signs, and by the motions of her body, the man should make every possible attempt to conquer her. There should be no indecision or hesitancy: if an opening is found the man should make the most • of it. The woman, indeed, becomes disgusted with the man if he is timid about his chances and throws them away. Boldness is the rule, for everything is to be gained, and nothing lost. - THE ART OF LOVE The Art of Seduction part of the drama. The theatricality can come from the setting-an exotic or sensual location. It can also come from your actions. The widow piqued her victim's curiosity by creating the suspense about her bedroom. An element of fear-someone might find you, say-will heighten the tension. Remember: you are creating a moment that must stand out from the sameness of daily life. Keeping your targets emotional will both weaken them and heighten the drama of the moment. And the best way to keep them at an emotional pitch is by infecting them with emotions of your own. When Valmont wanted the Presidents to become calm, angry, or tender, he showed that emotion first, and she mirrored it. People are very susceptible to the moods of those around them; this is particularly acute at the latter stages of a seduction, when resistance is low and the target has fallen under your spell. At the point of the bold move, learn to infect your target with whatever emotional mood you require, as opposed to suggesting the mood with words. You want access to the target's unconscious, which is best obtained by infecting them with emotions, bypassing their conscious ability to resist. It may seem expected for the male to make the bold move, but history is full of successfully bold females. There are two main forms of feminine boldness. In the first, more traditional form, the coquettish woman stirs male desire, is completely in control, then at the last minute, after bringing her victim to a boil, steps back and lets him make the bold move. She sets it up, then signals with her eyes, her gestures, that she is ready for him. Courtesans have used this method throughout history; it is how Cleopatra worked on Antony, how Josephine seduced Napoleon, how La Belle Otero amassed a fortune during the Belle Epoque. It lets the man maintain his masculine illusions, although the woman is really the aggressor. The second form of feminine boldness does not bother with such illusions: the woman simply takes charge, initiates the first kiss, pounces on her victim. This is how Marguerite de Valois, Lou Andreas-Salome, and Madame Mao operated, and many men find it not emasculating at all but very exciting. It all depends on the insecurities and proclivities of the victim. This kind of feminine boldness has its allure because it is more rare than the first kind, but then all boldness is somewhat rare. A bold move will always stand out compared to the usual treatment afforded by the tepid husband, the timid lover, the hesitant suitor. That is how you want it. If everyone were bold, boldness would quickly lose its allure. Master the Art of the Bold Move • 413 Symbol: The Summer Storm. The hot days follow one another, with no end in sight. The earth is parched and dry. Then there comes a stillness in the air, thick and oppressive-the calm before the storm. Suddenly gusts of wind arrive, and flashes of lightning, exciting and frightening. Allowing no time to react or runfor shelter, the rain comes, and brings with it a sense of release. At last. Reversal I f two people come together by mutual consent, that is not a seduction. There is no reversal. 24 Beware the Aftereffects Danger follows in the aftermath of a successful seduction. After emotions have reached a pitch, they often swing in the opposite direction-toward lassitude, distrust, disappointment. Beware of the long, drawn-out goodbye; insecure, the victim will cling and claw, and both sides will suffer. If you are to part, make the sacrifice swift and sudden. If necessary, deliberately break the spell you have created. If you are to stay in a relationship, beware a flagging of energy, a creeping familiarity that will spoil the fantasy. If the game is to go on, a second seduction is required. Never let the other person take you for granted-use absence, create pain and conflict, to keep the seduced on tenterhooks. Disenchantment S eduction is a kind of spell, an enchantment. When you seduce, you are not quite your normal self; your presence is heightened, you are playing more than one role, you arestrategicallyconcealing your tics and insecurities. You have deliberately created mystery and suspense to make the victim experience a real-life drama. Under your spell, the seduced gets to feel transported away from the world of work and responsibility. You will keep this going for as long as you want or can, heightening the tension, stirring the emotions, until the time finally comes to complete the seduction. After that, disenchantment almost inevitably sets in. The release of tension is followed by a letdown-of excitement, of energy-that can even materialize as a kind of disgust directed at you by your victim, even though what is happening is really a natural emotional course. It is as if a drug were wearing off, allowing the target to see you as you are-and being disappointed by the flaws that are inevitably there. On your side, you too have probably tended to idealize your targets somewhat, and once your desire is satisfied, you may see them as weak. (After all, they have given in to you.) You too may feel disappointed. Even in the best of circumstances, you are dealing now with the reality rather than the fantasy, and the flames will slowly die down-unless you start up a second seduction. You may think that if the victim is to be sacrificed, none of this matters. But sometimes your effort to break off the relationship will inadvertently revivethespellfor the other person, causing him or her to cling to you tenaciously. No, in either direction-sacrifice, or the integration of the two of you into a couple-you must take disenchantment into account. There is an art to the post-seduction as well. Master the following tactics to avoid undesired aftereffects. Fight against inertia. The sense that you are trying less hard is often enough to disenchant your victims. Reflecting back on what you did during the seduction, they will see you as manipulative: you wanted something then, and so you worked at it, but now you are taking them for granted. After the first seduction is over, then, show that it isn't really over-that you want to keep proving yourself, focusing your attention on them, luring them. That is often enough to keep them enchanted. Fight the tendency to let things settle into comfort and routine. Stir the pot, even if that means a In a word, woe to the woman of too monotonous a temperament; her monotony satiates and disgusts. She is always the same statue, with her a man is always right. She is so good, so gentle, that she takes away from people the privilege of quarreling with her, and this is often such a great pleasure! Put in her place a vivacious woman, capricious, decided, to a certain limit, however, and things assume a different aspect. The lover will find in the same personthepleasureofvariety. Temper is the salt, the quality which prevents it front becoming stale. Restlessness, jealousy, quarrels, making friends again, spitefulness, all are the food of love. Enchanting variety? . . . Too constant a peace is productive of a deadly ennui. Uniformity kills love, for as soon as the spirit of method mingles in an affair of the heart, the passion disappears, languor supervenes, weariness begins to wear, and disgust ends the chapter. - NINONDEL'ENCLOS, LIFE, LETTERS AND EPICUREAN PHILOSOPHY OF NINON DE L'ENCLOS Age cannot wither her, nor custom stale \ Her infinite variety: other women cloy \ The appetites they feed; but she makes hungry \ Where most she satisfies. SHAKESPEARE, ANTONY AND CLEOPATRA Cry hurrah, and hurrah again, for a splendid triumph - \ The quarry I sought has fallen into my toils. . . . \ Why hurry, young man? Your ship's still in mid-passage, \ And the harbor I seek is far away \ Through my verses, it's true, you may have acquired a mistress, \ But that's not enough. If my art \ Caught her, my art must keep her. To guard a conquest's \As tricky as making it. There was luck in the chase, \ But this task will call for skill. If ever I needed supportfrom \ Venus and Son, and Erato-the Muse \ Erotic by name - it's now, for my too-ambitious project\Torelatesometechniquesthatmight restrain \ That fickle young globetrotter, Love. . . . \ To be loved you must show yourself lovable - \ Something good looks alone \ Can never achieve. You may be handsome as Homer's Nireus, \ Or young Hylas, snatched by those bad \ Naiads; but all the same, to avoid a surprise desertion \And keep your girl, it's best you have gifts of mind \ In addition to physical charms. Beauty's fragile, the passing \ Years diminish its substance, eat it away. \ Violets and bell-mouthed lilies do not bloomfor ever, \ Hard thorns are all that's left of the blown rose. \ So with you, my handsome youth: return to inflicting pain and pulling back. Never rely on your physical charms; even beauty loses its appeal with repeated exposure. Only strategy and effort will fight off inertia. Maintain mystery. Familiarity is the death of seduction. If the target knows everything about you, the relationship gains a level of comfort but loses the elements of fantasy and anxiety. Without anxiety and a touch of fear, the erotic tension is dissolved. Remember: reality is not seductive. Keep some dark corners in your character, flout expectations, use absences to fragment the clinging, possessive pull that allows familiarity to creep in. Maintain some mystery or be taken for granted. You will have only yourself to blame for what follows. Maintain lightness. Seduction is a game, not a matter of life and death. There will be a tendency in the "post" phase to take things more seriously and personally, and to whine about behavior that does not please you. Fight this as much as possible, for it will create exactly the effect you do not want. You cannot control the other person by nagging and complaining; it will make them defensive, exacerbating the problem. You will have more control if you maintain the proper spirit. Your playfulness, the little ruses you employ to please and delight them, your indulgence of their faults, will make your victims compliant and easy to handle. Never try to change your victims; instead, induce them to follow your lead. Avoid the slow burnout. Often, one person becomes disenchanted but lacks the courage to make the break. Instead, he or she withdraws inside. As an absence, this psychological step back may inadvertently reignite the other person's desire, and a frustrating cycle begins of pursuit and retreat.Everythingunravels, slowly. Once you feel disenchanted and know it is over, end it quickly, without apology. That would only insult the other person. A quick separation is often easier to get over-it is as if you had a problem being faithful, as opposed to your feeling that the seduced was no longer being desirable. Once you are truly disenchanted, there is no going back, so don't hang on out of false pity. It is more compassionate to make a clean break. If that seems inappropriate or too ugly, then deliberately disenchant the victim with anti-seductive behavior. Examples of Sacrifice and Integration 1. In the 1770s, the handsome Chevalier de Belleroche began an affair with an older woman, the Marquise de Merteuil. He saw a lot of her, but soon she began to pick quarrels with him. Entranced by her unpredictable Beware the Aftereffects • 419 moods, he worked hard to please her, showering her with attention and tenderness. Eventually the quarreling stopped, and as the days went by, de Belleroche felt confident that Merteuil loved him-until one day, when he came to visit, and found that she was not at home. Her footman greeted him at the door, and said he would take the chevalier to a secret house of Merteuil's outside Paris. There the marquise was waiting for him, in a renewed mood of coquettishness: she acted as if this were theirfirsttryst.Thechevalier had never seen her so ardent. He left at daybreak more in love than ever, but a few days later they quarreled again. The marquise seemed cold after that, and he saw her flirt with another man at a party. He felt horribly jealous, but as before, his solution was to become more attentive and loving. This, he thought, was the way to appease a difficult woman. Now Merteuil had to spend a few weeks at her country home to handle some business there. She invited de Belleroche to join her for an extended stay, and he happily agreed, remembering the new life an earlier stay there had brought to their affair. Once again she surprised him: her affection and desire to please him were rejuvenated. This time, though, he did not have to leave the next morning. Days went by, and she refused to entertain any guests. The world would not intrude on them. And this time there was no coldness or quarreling, only good cheer and love. Yet now de Belleroche began to grow a little tired of the marquise. He thought of Paris and the balls he was missing; a week later he cut short his stay on some business pretext and hurried back to the city. Somehow the marquise did not seem so charming anymore. Interpretation. The Marquise de Merteuil, a character in Choderlos de La- clos's novel Dangerous Liaisons, is a practiced seductress who never lets her affairs drag on too long. De Belleroche is young and handsome but that is all. As her interest in him wanes, she decides to bring him to the secret house to try to inject some novelty into the affair. This works for a while, but it isn't enough. The chevalier must be gotten rid of. She tries coldness, anger (hoping to start a fight), even a show of interest in another man. All this only intensifies his attachment. She can'tjust leave him-he might become vengeful, or try even harder to win her back. The solution: she deliberately breaks the spell by overwhelming him with attention. Abandoning the pattern of alternating warmth with coldness, she acts hopelessly in love. Alone with her day after day, with no space to fantasize, he no longer sees her as enchanting and breaks off the affair. This was her goal all along. If a break with the victim is too messy or difficult (or you lack the nerve), then do the next best thing: deliberately break the spell that ties him or her to you. Aloofness or anger will only stir the other person s insecurity, producing a clinging horror. Instead, try suffocating them with love and attention: be clinging and possessive yourself, moon over the lover's every action and character trait, create the sense that this monotonous affection will soon wrinkles will furrow \ Your body; soon, too soon, your hair turn gray. \ Then build an enduring mind, add that to your beauty: \ It alone will last till the flames \ Consume you. Keep your wits sharp, explore the liberal \Arts, win mastery over Greek \ As well as Latin. Ulysses was eloquent, not handsome - \ Yet he filled sea-goddesses' hearts \ With aching passion. . . . \ Nothing works on a mood like tactful tolerance: harshness \ Provokes hatred, makes nasty rows. \ We detest the hawk and the wolf, those natural hunters, \ Always preying on timid flocks; \ But the gentle swallow goes safe from man's snares, we fashion \ Little turreted houses for doves. \ Keep clear of all quarrels, sharp- tongued recriminations - \ Love's sensitive, needs to be fed \ With gentle words. Leave nagging to wives and husbands, \ Let them, if they want, think it a natural law, \A permanent state of feud. Wives thrive on wrangling, \ That's their dowry. A mistress should always hear \ What she wants to be told. . . . \ Use tender blandishments, language that caresses \ The ear, make her glad you came. - OVID, THE ART OF LOVE In Paris the band played a concert at the Palais Chaleux. They played the first half, and then there was an hour interval - intermission, we call it - during which there was a fabulous biffet on a great long table laden with delicious foods and cognac, champagne, wine and that rarity in Paris . . .Scotch. The people, aristocrats and servants, some on their hands and knees, were busily searching for something on the floor. A duchess, who was one of the hostesses, had lost one of her larger diamonds. . . . The duchess finally got bored seeing people looking all over the floor for the ring. She looked around haughtily, then took Duke by the arm, saying, "It doesn't mean anything. I can always get diamonds, but how often can I get a man like Duke Ellington?" • She disappeared with Duke. The band started the second half by themselves, and eventually Duke smilingly reappeared to finish the concert. - DON GEORGE, SWEET MAN: THE REAL DUKE ELLINGTON I do know, however, that men become bigger-hearted and better lovers once they get the suspicion that their mistresses care less about them. When a man believes himself to be the one and only lover in a woman's life, he'll whistle and go his way. • / ought to know; I have followed this profession for the last twenty years. If you want me to, I will tell you what happened to me a few years ago. • At that time I had a steady lover, a certain Demophantos, a usurer living near Poikile. He had never given me more than five drachmas and he pretended to be my man. But his love was only superficial, Chrysis. He never sighed, he never shed tears for me and he never spentthenight waiting at go on forever. No more mystery, no more coquetry, no more retreats--just endless love. Few can endure such a threat. A few weeks of it and they will be gone. 2. King Charles II of England was a devoted libertine. He kept a stable of lovers: there was always a favorite mistress from the aristocracy, and countless other less important women. He craved variety. One evening in 1668, the king spent an evening at the theater, where he conceived a sudden desire for a young actress called Nell Gwyn. She was pretty and innocent looking (only eighteen at the time), with a girlish glow in her cheeks, but the lines she recited onstage were so impudent and saucy. Deeply excited, the king decided he had to have her. After the performance he took her out for a night of drinking and merriment, then led her to his royal bed. Nell was the daughter of a fishmonger, and had begun by selling oranges in the theater. She rose to the status of actress by sleeping with writers and other theater men. She had no shame about this. (When a footman of hers got into a fight with someone who said he worked for a whore, she broke it up by saying, "I am a whore. Find something better to fight about.") Nell's humor and sass amused the king greatly, but she was lowborn, and an actress, and he could hardly make her a favorite. After several nights with "pretty, witty Nell," he returned to his principal mistress, Louise Keroualle, a well-born Frenchwoman. Keroualle was a clever seductress. She played hard to get, and made it clear she would not give the king her virginity until he had promised her a title. It was the kind of chase Charles enjoyed, and he made her the Duchess of Portsmouth. But soon her greed and difficultness began to wear on his nerves. To divert himself, he turned back to Nell. Whenever he visited her, he was royally entertained with food, drink, and her great good humor. The king was bored or melancholy? She took him drinking or gambling, or out to the country, where she taught him to fish. She always had a pleasant surprise up her sleeve. What he loved most of all was her wit, the way she mocked the pretentious Keroualle. The duchess had the habit of going into mourning whenever a nobleman of another country died, as if he were a relation. Nell, too, would show up at the palace on these occasions dressed in black, and would sorrowfully say that she was mourning for the "Cham of Tartary" or the "Boog of Oronooko"-grand relatives of her own. To her face, she called the duchess "Squintabella" and the "Weeping Willow," because of her simpering manners and melancholic airs. Soon the king was spending more time with Nell than with the duchess. By the time Keroualle fell out of favor, Nell had in essence become the king's favorite, which she remained until his death, in 1685. Interpretation. Nell Gwyn was ambitious. She wanted power and fame, but in the seventeenth century the only way a woman could get those Beware the Aftereffects • 421 things was through a man-and who better than the king? But to get involved with Charles was a dangerous game. A man like him, easily bored and in need of variety, would use her for a fling, then find someone else. Nell's strategy for the problem was simple: she let the king have his other girls, and never complained. Every time he saw her, though, she made sure he was entertained and diverted. She filled his senses with pleasure, acting as if his position had nothing to do with her love for him. Variety in women could wear on the nerves, tiring a busy king. They all made so many demands. If one woman could provide the same variety (and Nell, as an actress, knew how to play different roles), she had a big advantage. Nell never asked for money, so Charles plied her with wealth. She never asked to be the favorite-how could she? She was a commoner-but he elevated her to the position. Many of your targets will be like kings and queens, particularly those who are easily bored. Once the seduction is over they will notonlyhavetrouble idealizing you, they may also turn to another man or woman whose unfamiliarity seems exciting and poetic. Needing other people to divert them, they often satisfy this need through variety. Do not play into the hands of these bored royals by complaining, becoming self-pitying, or demanding privileges. That would only further their natural disenchantment once the seduction is over. Instead, make them see that you are not the person they thought you were. Make it a delightful game to play new roles, to surprise them, to be an endless source of entertainment. It is almost impossible to resist a person who provides pleasure with no strings attached. When they are with you, keep the spirit light and playful. Play up the parts of your character they find delightful, but never let them feel they know you too well. In the end you will control the dynamic, and a haughty king or queen will become your abject slave. my door. One day he came to see me, knocked at my door, but I did not open it. You see, 1 had the painter, Callides, in my room; Collides had given me ten drachmas. Demophantos swore and beat his fists on the door and left cursing me. Several days passed without my sendingfor him; Callides was still in my house. Thereupon Demophantos, who was already quite excited, went wild. He broke open my door,wept, pulled me about, threatened to kill me, tore my tunic, and did everything, in fact, that a jealous man would do, and finally presented me with six thousand drachmas. In consideration of this sum, I was his for a period of eight months. His wife used to say that I had bewitched him with some powder. That bewitching powder, to be sure, was jealousy. That is why, Chrysis, I advise you to act likewise with Corgi as. -LUCIAN, DIALOGUES OF THE COURTESANS.When the greatjazz composer Duke Ellington came to town, he and his band were always a big attraction, but especially so for the ladies of the area. They came to hear his music, of course, but once there they were mesmerized by "the Duke" himself. Onstage, Ellington was relaxed and elegant, and seemed to be having such a good time. His face was very handsome, and his bedroom eyes were infamous. (He slept very little, and his eyes had permanent pouches under them.) After the performance, some woman would inevitably invite him to her table, another would sneak into his dressing room, yet another would approach him on his way out. Duke made a point of being accessible, and when he kissed a woman's hand, his eyes and hers would meet for a moment. Sometimes she would signal an interest in him, and his glance in return would say he was more than ready. Sometimes his eyes were the first to speak; few women could resist that look, even the most happily married. With the night's music still ringing in her ears, the woman would show up at Ellington's hotel room. He would be dressed in a stylish suit-he "A wife is someone on whom one gazes all one's life; yet it is just as well if she be not beautiful"-so spake Jinta of the Gion. IH is may be the flippant saying of a go-between, but it is not to be dismissed too lightly. . . . Besides, it is with beautiful women as with beautiful views: if one is forever looking at them, one soon tires of their charm. This I can judge from my own experience. One year I went to Matsushima, and, though at first I was moved by the beauty of the place and clapped my hands with 422 admiration, saying to myself, "Oh, if only I could bring some poet here to show him this great wonder!" - yet, after I had been gazing at the scene from morning until night, the myriad islands began to smell unpleasantly of seaweed, the waves that beat on Matsuyama Point became obstreperous; before I knew it I had let all the cherry blossoms at Shiogama scatter; in the morning I overslept and missed the dawn snow on Mount Kinka; nor was I much impressed by the evening moon at Nagane or Oshima; and in the end I picked up a few white and blackpebbles on the cove and became engrossed in a game of Six Musashi with some children. -IHARA SAIKAKU, THE UFE OF AN AMOROUS WOMAN.  Men despise women who love too much and unwisely. -LUCIAN, DIALOGUES OF THE COURTESANS.  I shall endeavor briefly to outline to you how a love when gained can be deepened. They say it can be increased in particular by making it an infrequent and difficult business for lovers to set eyes on each other, for the greater the difficulty of offering and receiving shared consolations, the greater become the desirefor, and feeling of love. Love also grows if one of the lovers shows anger to the other, for a lover is at once sorely afraid that a partner's loved good clothes-and the room would be full of flowers; there would be a piano in the corner. He would play some music. His playing, and his elegant, nonchalant manner, would come across to the woman as pure theater, a pleasant continuation of the performance she had just witnessed. And when it was over, and Ellington had to leave town, he would give her a thoughtful gift. He would make it seem that the only thing taking him away from her was his touring. A few weeks later, the woman might hear a new Ellington song on the radio, with lyrics suggesting that she had inspired it. If ever he passed through the area again, she would find a way to be there, and Ellington would often renew the affair, if only for a night. Sometime in the 1940s, two young women from Alabama came to Chicago to attend a debutante ball. Ellington and his band were the entertainment. He was the women's favorite musician, and after the show, they asked him for an autograph. He was so charming and engaging that one of the girls found herself asking what hotel he was staying at. He told them, with a big grin. The girls switched hotels, and later that day they called up Ellington and invited him to their room for a drink. He accepted. They wore beautiful negligees that they had just bought. When Ellington arrived, he acted completely naturally, as if the warm greeting they gave him were completely usual. The three of them ended up in the bedroom, when one of the young women had an idea: her mother adored Ellington. She had to call her now and put Ellington on the phone. Not at all put out by the suggestion, Ellington played along. For several minutes he talked to the mother on the telephone, lavishing her with compliments on the charming daughter she had raised, and telling her not to worry-he was taking good care of the girl. The daughter got back on the phone and said, "We're fine because we're withMr.Ellington and he's such a perfect gentleman." As soon as she hung up, the three of them resumed the naughtiness they had started. To the two girls, it later seemed an innocent but unforgettable night of pleasure. Sometimes several of these far-flung mistresses would show up at the same concert. Ellington would go up and kiss each of them four times (a habit of his designed for just this dilemma). And each of the ladies would assume she was the one with whom the kisses really mattered. Interpretation. Duke Ellington had two passions: music and women. The two were interrelated. His endless affairs were a constant inspiration for his music; he also treated them as if they were theater, a work of art in themselves. When it came time to separate, he always managed it with a theatrical touch. A clever remark and a gift would make it seem that for him the affair was hardly over. Song lyrics referring to their night together would keep up the aesthetic atmosphere long after he had left town. No wonder women kept coming back for more. This was not a sexual affair, a tawdry one-nighter, but a heightened moment in the woman's life. And his carefree attitude made it impossible to feel guilty; thoughts of one's mother or Beware the Aftereffects • 423 husband would not spoil the illusion. Ellington was never defensive or apologetic abouthis appetite for women; it was his nature and never the fault of the woman that he was unfaithful. And if he could not help his desires, how could she hold him responsible? It was impossible to hold a grudge against such a man or complain about his behavior. Ellington was an Aesthetic Rake, a type whose obsession with women can only be satisfied by endless variety. A normal man's tomcatting will eventually land him in hot water, but the Aesthetic Rake rarely stirs up ugly emotions. After he seduces a woman, there is neither an integration nor a sacrifice. He keeps them hanging and hoping. The spell is not broken thenext day, because the Aesthetic Rake makes the separation a pleasant, even elegant experience. The spell Ellington cast on a woman never went away. The lesson is simple; keep the moments after the seduction and the separation in the same key as before, heightened, aesthetic, and pleasant. If you do not act guilty for your feckless behavior, it is hard for the other person to feel angry or resentful. Seduction is a lighthearted game, in which you invest all of your energy in the moment. The separation should be lighthearted and stylish as well: it is work, travel, some dreaded responsibility that calls you away. Create a memorable experience and then move on, and your victim will most likely remember the delightful seduction, nottheseparation. You will have made no enemies, and will have a lifelong harem of lovers to whom you can always return when you feel so inclined. 4 . In 1899, twenty-year-old Baroness Frieda von Richthofen married an Englishman named Ernest Weekley, a professor at the University of Nottingham, and soon settled into the role of the professor's wife. Weekley treated her well, but she grew bored with their quiet life and his tepid love- making. On trips home to Germany she had a few love affairs, but this wasn't what she wanted either, and so she returned to being faithful and caring for their three children. One day in 1912, a former student of Weekley's, David Herbert Lawrence, paid a visit to the couple's house. A struggling writer, Lawrence wanted the professor's professional advice. He was not home yet so Frieda entertained him. She had never met such an intense young man. He talked of his impoverished youth, his inability to understand women. And he listened attentively to her own complaints. He even scolded her for the bad tea she had made him-somehow, even though she was a baroness, this excited her. Lawrence returned for later visits, but now to see Frieda, not Weekley. One day he confessed to her that he had fallen deeply in love with her. She admitted to similar feelings, and proposed they find a trystingspot.InsteadLawrence had a proposal of his own: Leave your husband tomorrow-leave him for me. What about the children? Frieda asked. If the children aremore important than our love, Lawrence replied, then stay with them. But if you don't run away with me within a few days, you will never see mewrath when roused may harden indefinitely. Love again experiences increase when genuine jealousy preoccupies one of the lovers, for jealousy is called the nurturer of love. In fact even if the lover is oppressed not by genuine jealousy but by base suspicion, love always increases because of it, and becomes more powerful by its own strength. -CAPELLANUS ON LOVE You've seen the fire that smolders \ Down to nothing, grows a crown of pale ash \ Over its hidden embers (yet a sprinkling of sulphur \ Will suffice to rekindle the flame)? \ So with the heart. It grows torpidfrom lack of worry, \ Needs a sharp stimulus to elicit love. \ Get her anxious about you, reheat her tepid passions, \ Tell her your guilty secrets, watch her blanch. \ Thrice fortunate that man, lucky past calculation, \ Who can make some poor injured girl \ Torture herself over him, lose voice, go pale, pass out when \ The unwelcome news reaches her. Ah, may I \ Be the one whose hair she tears out in her fury, the one whose \ Soft cheeks she rips with her nails, \ Whom she sees, eyes glaring, through a rain of tears; without whom, \ Try as she will, she cannot live! \ How long (you may ask) should you leave her lamenting her wrong? A little \ While only, lest rage gather strength \ Through procrastination. By then you should have her sobbing \ All over your chest, your arms tight around her neck. \ You want peace? Give her kisses, make love to the girl while she's crying - \ That's the only way to melt her angry mood. - OVIDIO, THE ART OF LOVE.  again. To Frieda the choice was horrific. She did not care at all about her husband, but the children were what she lived for. Even so, a few days later, she succumbed to Lawrence's proposal. How could she resist a man who was willing to ask for so much, to take such a gamble? If she refused she would always wonder, for such a man only passes once through your life. The couple left England and headed for Germany. Frieda would mention sometimes how much she missed her children, but Lawrence had no patience with her: You are free to go back to them at any moment, he would say, but if you stay, don't look back. He took her on an arduous mountaineering trip in the Alps. A baroness, she had never experienced such hardship, but Lawrence was firm: if two people are in love, why should comfort matter? In 1914, Frieda and Lawrence were married, but over the following years the same pattern repeated. He would scold her for her laziness, the nostalgia for her children, her abysmal housekeeping. He would take her on trips around the world, on very little money, never letting her settle down, although it was her fondest wish. They fought and fought. Once in New Mexico, in front of friends, he yelled at her, "Take that dirty cigarette out of your mouth! And stop sticking out that fat belly of yours!" "You'd better stop that talk or I'll tell about your things," she yelled back. (She had learned to give him a taste of his own medicine.) They both went outside. Their friends watched, worried it might turn violent. They disappeared from sight only to reappear moments later, arm in arm, laughing and mooning over one another. That was the most disconcerting thing about the Lawrences: married for years, they often behaved like infatuated newlyweds. Interpretation. When Lawrence first met Frieda, he could sense right away what herweaknesswas: she felt trapped, in a stultifying relationship and a pampered life. Her husband, like so many husbands, was kind, but never paid enough attention to her. She craved drama and adventure, but was too lazy to get it on her own. Drama and adventure were just what Lawrence would provide. Instead of feeling trapped, she had the freedom to leave him at any moment. Instead of ignoring her, he criticized her constantly- at least he was paying attention, never taking her for granted. Instead of comfort and boredom, he gave her adventure and romance. The fights he picked with ritualistic frequency also ensured nonstop drama and the space for a powerful reconciliation. He inspired a touch of fear in her, which kept her off balance, never quite sure of him. As a result, the relationship never grew stale. It kept renewing itself. If it is integration you are after, seduction must never stop. Otherwise boredom will creep in. And the best way to keep the process going is often to inject intermittent drama. This can be painful-opening old wounds, stirring up jealousy, withdrawing a little. (Do not confuse this behavior with nagging or carping criticism-this pain is strategic, designed to break up rigid patterns.) On the other hand it can also be pleasant: think about Beware the Aftereffects • 425 proving yourself all over again, paying attention to nice little details, creating new temptations. In fact you should mix the two aspects, for too much pain or pleasure will not prove seductive. You are not repeating the first seduction, for the target has already surrendered. You are simply supplying little jolts, little wake-up calls that show two things: you have not stopped trying, and they cannot take you for granted. The little jolt will stir up the old poison, stoke the embers, bring you temporarily back to the beginning, when your involvement had a most pleasant freshness and tension. Remember: comfort and security are the death of seduction. A shared journey with a little bit of hardship will do more to create a deep bond than will expensive gifts and luxuries. The young are right to not care about comfort in matters of love, and when you return to that sentiment, a youthful spark will reignite. 5. In 1652, the famous French courtesan Ninon de l'Enclos met and fell in love with the Marquis de Villarceaux. Ninon was a libertine; philosophy and pleasure were more important to her than love. But the marquis inspired new sensations: he was so bold, so impetuous, that for once in her life she let herself lose a little control. The marquis was possessive, a trait she normally abhorred. But in him it seemed natural, almost charming: he simply could not help himself. And so Ninon accepted his conditions: there were to be no other men in her life. For her part she told him that she would accept no money or gifts from him. This was to be about love, nothing else. She rented a house opposite his in Paris, and they saw each other daily. One afternoon the marquis suddenly burst in and accused her of having another lover. His suspicions were unfounded, his accusations absurd, and she told him so. This did not satisfy him, and he stormed out. The next day Ninon received news that he had fallen quite ill. She was deeply concerned. As a desperate recourse, a sign of her love and submission, she decided to cut off her beautiful long hair, for which she was famous, and send it to him. The gesture worked, the marquis recovered, and they resumed their affair still more passionately. Friends and former lovers complained of her sudden transformation into the devoted woman, but she did not care- she was happy. Now Ninon suggested that they go away together. The marquis, a married man, could not take her to his chateau, but a friend offered his own in the country as a refuge for the lovers. Weeks became months, and their little stay turned into a prolonged honeymoon. Slowly, though, Ninon had the feeling that something was wrong: the marquis was acting more like a husband. Although he was as passionate as before, he seemed so confident, as if he had certain rights and privileges that no other man could expect. The possessiveness that once had charmed her began to seem oppressive. Nor did he stimulate her mind. She could get other men, and equally handsome ones, to satisfy her physically without all that jealousy. 426 • The Art of Seduction Once this realization set in, Ninon wasted no time. She told the marquis that she was returning to Paris, and that it was over for good. He begged and pleaded his case with much emotion-how could she be so heartless? Although moved, Ninon was firm. Explanations would only make it worse. She returned to Paris and resumed the life of a courtesan. Her abrupt departure apparently shook up the marquis, but apparently not too badly, for a few months later word reached her that he had fallen in love with another woman. Interpretation. A woman often spends months pondering the subtle changes in her lover's behavior. She might complain or grow angry; she might even blame herself. Under the weight of her complaints, the man may change for a while, but an ugly dynamic and endless misunderstandings will ensue. What is the point of all of this? Once you are disenchanted it is really too late. Ninon could have tried to figure out what had disenchanted her-the good looks that now bored her, the lack ofmental stimulation, the feeling of being taken for granted. But why waste time figuring it out? The spell was broken, so she moved on. She did not bother to explain, to worry about de Villarceaux's feelings, to make it all soft and easy for him. She simply left. The person who seems so considerate of the other, who tries to mend things or make excuses, is reallyjust timid. Being kind in such matters can be rather cruel. The marquis was able to blame everything on his mistress's heartless, fickle nature. His vanity and pride intact, he could easily move on to another affair and put her behind him. Not only does the long, lingering death of a relationship cause your partner needless pain, it will have long-term consequences for you as well, making you more skittish in the future, and weighing you down with guilt. Never feel guilty, even if you were both the seducer and the one who now feels disenchanted. It is not your fault. Nothing can last forever. You have created pleasure for your victims, stirring them out of their rut. If you make a clean quick break, in the long run they will appreciate it. The more you apologize, the more you insult their pride, stirring up negative feelings that will reverberate for years. Spare them the disingenuous explanations that only complicate matters. The victim should be sacrificed, not tortured. 6. After fifteen years under the rule of Napoleon Bonaparte, the French were exhausted. Too many wars, too much drama. When Napoleon was defeated in 1814, and was imprisoned on the island of Elba, the French were more than ready for peace and quiet. The Bourbons-the royal family deposed by the revolution of 1789-returned to power. The king was Louis XVIII; he was fat, boring, and pompous, but at least there would be peace. Then, in February of 1815, news reached France of Napoleon's dramatic escape from Elba, with seven small ships and a thousand men. He Beware the Aftereffects • 427 could head for America, start all over, but instead he was just crazy enough to land at Cannes. What was he thinking? A thousand men against all the armies of France? He set off toward Grenoble with his ragtag army. One at least had to admire his courage, his insatiable love of glory and of France. Then, too, the French peasantry were spellbound at the sight of their former emperor. This man, after all, had redistributed a great deal of land to them, which the new king was trying to take back. They swooned at the sight of his famous eagle standards, revivals of symbols from the revolution. They left their fields and joined his march. Outside Grenoble, the first of the troops that the king sent to stop Napoleon caught up with him. Napoleon dismounted and walked on foot toward them. "Soldiers of the Fifth Army Corps!" he cried out. "Don't you know me? If there is one among you who wishes to kill his emperor, let him come forward and do so. Here I am!" He threw open his gray cloak, inviting them to take aim. There was a moment of silence, and then, from all sides, cries rang out of "Vive l'Empereur!" In one stroke, Napoleon's army had doubled in size. The march continued. More soldiers, remembering the glory he had given them, changed sides. The city of Lyons fell without a battle. Generals with larger armies were dispatched to stop him, but the sight of Napoleon at the head of his troops was an overwhelmingly emotional experience for them, and they switched allegiance. King Louis fled France, abdicating in the process. On March 20, Napoleon reentered Paris and returned to the palace he had left only thirteen months before-all without having had to fire a single shot. The peasantry and the soldiers had embraced Napoleon, but Parisians were less enthusiastic, particularly those who had served in his government. They feared the storms he would bring. Napoleon ruled the country for one hundred days, until the allies and his enemies from within defeated him. This time he was shipped off to the remote island of St. Helena, where he was to die. Interpretation. Napoleon always thought of France, and his army, as a target to be wooed and seduced. As General de Segur wrote of Napoleon: "In moments of sublime power, he no longer commands like a man, but seduces like a woman." In the case of his escape from Elba, he planned a bold, surprising gesture that would titillate a bored nation. He began his return to France among the people who would be most receptive to him: the peasantry who had revered him. He revived the symbols-the revolutionary colors, the eagle standards-that would stir up the old sentiments. He placed himself at the head of his army, daring his former soldiers to fire on him. The march on Paris that brought him back to power was pure theater, calculated for emotional effect every step of the way. What a contrast this former amour presented to the dolt of a king who now ruled them. Napoleon's second seduction of France was not a classical seduction, following the usual steps, but a re-seduction. It was built on old emotions The Art of Seduction and revived an old love. Once you have seduced a person (or a nation) there is almost always a lull, a slight letdown, which sometimes leads to a separation; it is surprisingly easy, though, to re-seduce the same target. The old feelings never go away, they lie dormant, and in a flash you can take your target by surprise. It is a rarepleasuretobe able to relive the past, and one's youth-to feel the old emotions. Like Napoleon, add a dramatic flair to your re-seduction: revive the old images, the symbols, the expressions that will stir memory. Like the French, your targets will tend to forget the ugliness of the separation and will remember only the good things. You should make this second seduction bold and quick, giving your targets no time to reflect or wonder. Like Napoleon, play on the contrast to their current lover, making his or her behavior seem timid and stodgy by comparison. Not everyone will be receptive to a re-seduction, and some moments will be inappropriate. When Napoleon came back from Elba, the Parisians were too sophisticated for him, and could see right through him. Unlike the peasants of the South, they already knew him well; and his reentry came too soon, they were too worn out by him. If you want to re-seduce someone, choose one who does not know you so well, whose memories of you are cleaner, who is less suspicious by nature, and who is dissatisfied with present circumstances. Also, you might want to let some time pass. Time will restore your luster and make your faults fade away. Never see a separation or sacrifice as final. With a little drama and planning, a victim can be retaken in no time. Symbol: Embers, the remains of the fire on themorning after. Left to themselves, the embers will slowly die out. Do not leave the fire to chance and to the elements. To put it out, douse it, suffocate it, give it nothing to feed on. To bring it back to life, fan it, stoke it, until it blazes anew. Only your constant attention and vigilance will keep it burning. Beware the Aftereffects Reversal T o keep a person enchanted, you will have to re-seduce them constantly. But you can allow a little familiarity to creep in. The target wants to feel that he or she is getting to know you. Too much mystery will create doubt. It will also be tiring for you, who will have to sustain it. The point is not to remain completely unfamiliar but rather, on occasion, to jolt victims out of their complacency, surprising them as you surprised them in the past. Do this right and they will have the delightful feeling that they are constantly getting to know more about you-but never too much. A Seductive Environment/Seductive Time In seduction, your victims must slowly come to feel an inner change. Under your influence, they lower their defenses, feeling free to act differently, to be a different person. Certain places, environments, and experiences will greatly aid you in your quest to change and transform the seduced. Spaces with a theatrical, heightened quality - opulence, glittering surfaces, a playful spirit-create a buoyant, childlike feeling that make it hard for the victim to think straight. The creation of an altered sense of time has a similar effect - memorable, dizzying moments that stand out, a mood of festival and play. You must make your victims feel that being with you gives them a different experience from being in the real world. Festival Time and Place C enturies ago, life in most cultures was filled with work and routine. But at certain moments in the year, this life was interrupted by festival. During these festivals-saturnalias of ancient Rome, the maypole festivals of Europe, the great potlatches of the Chinook Indians-work in the fields or marketplace stopped. The entire tribe or town gathered in a sacred space set apart for the festival. Temporarily relieved of duty and responsibility, people were granted license to run amok; they would wear masks or costumes, which gave them other identities, sometimes those of powerful figures reenacting the great myths of their culture. The festival was a tremendous release from the burdens of daily life. It altered people's sense of time, bringing moments in which they stepped outside of themselves. Time seemed to stand still. Something like this experience can still be found in the world's great surviving carnivals. The festival represented a break in a person's daily life, aradicallydifferent experience from routine. On a more intimate level, that is how you must envision your seductions. As the process advances, your targets experience a radical difference from daily life-a freedom from work or responsibility. Plunged into pleasure and play, they can act differently, can become someone else, as if they were wearing a mask. The time you spend with them is devoted to them and nothing else. Instead of the usual rotation of work and rest, you are giving them grand, dramatic moments that stand out. You bring them to places unlike the places they see in daily life- heightened, theatrical places. Physical environment strongly affects people's moods; a place dedicated to pleasure and play insinuates thoughts of pleasure and play. When your victims return to their duties and to the real world, they feel the contrast strongly and they will start to crave that other place into which you have drawn them. What you are essentially creating is festival time and place, moments when the real world stops and fantasy takes over. Our culture no longer supplies such experiences, and people yearn for them. That is why almost everyone is waiting to be seduced and why they will fall into your arms if you play this right. The following are key components to reproducing festival time and place; Create theatrical effects. Theater creates a sense of a separate, magical world. The actors' makeup, the fake but alluring sets, the slightly unreal costumes-these heightened visuals, along with the story of the play, create illusion. To produce this effect in real life, you must fashion your clothes, makeup, and attitude to have a playful, artificial, edge-a feeling that you have dressed for the pleasure of your audience. This is the goddesslike effect of a Marlene Dietrich, or the fascinating effect of a dandy like Beau Brum- mel. Your encounters with your targets should also have a sense of drama, achieved through the settings you choose and through your actions. The target should not know what will happen next. Create suspense through twists and turns that lead to the happy ending; you are performing. Whenever your targets meet you, they are returned to this vague feeling of being in a play. You both have the thrill of wearing masks, of playing a different role from the one your life has allotted you. Use the visual language ofpleasure. Certain kinds of visual stimuli signal that you are not in the real world. You want to avoid images that have depth, which might provoke thought, or guilt; instead, you should work in environments that are all surface, full of glittering objects, mirrors, pools of water, a constant play of light. The sensory overload of these spaces creates an intoxicating, buoyant feeling. The more artificial, the better. Show your targets a playful world, full of the sights and sounds that excite the baby or child within them. Luxury-the sense that money has been spent or even wasted-adds to the feeling that the real world of duty and morality has been banished. Call it the brothel effect. Keep it crowded or close. People crowding together raise the psychological temperature to hothouse levels. Festivals and carnivals depend on the contagious feeling a crowd creates. Bring your target to such environments sometimes, to lower their normal defensiveness. Similarly, any kind of situation that brings people together in a small space for a long period of time is extremely conducive to seduction. For years, Sigmund Freud had a small, tight-knit stable of disciples who attended his private lectures and who engaged in an astonishing number of love affairs. Either lead the seduced into a crowded, festivallike environment or go trolling for targets in a closed world. Manufacture mystical effects. Spiritual or mystical effects distract people's minds from reality, making them feel elevated and euphoric. From here it is but a small step to physical pleasure. Use whatever props are at hand- astrology books, angelic imagery, mystical-sounding music from some far- off culture. The great eighteenth-century Austrian charlatan Franz Mesmer filled his salons with harp music, the perfume of exotic incense, and a female voice singing in a distant room. On the walls he put stained glass and mirrors. His dupes would feel relaxed, uplifted, and as they sat in the room where he used magnets for their healing powers, they would feel a kind of spiritual tingling pass from body to body. Anything vaguely mystical helps block out the real world, and it is easy to move from the spiritual to the sexual. Distort their sense of time-speed and youth. Festival time has a kind of speed and frenzy that make people feel more alive. Seduction should make the heart beat faster, so that the seduced loses track of time passing. Take them to places of constant activity and movement. Embark with them on some kind of journey together, distracting their minds with new sights. Youth may fade and disappear, but seduction brings the feeling of being young, no matter the age of those involved. And youth is mostly energy. The pace of the seduction must pick up at a certain moment, creating a whirling effect in the mind. It is no wonder that Casanova did much of his seducing at balls, or that the waltz was the preferred tool of many a nineteenth-century rake. Create moments. Everyday life is a drudgery in which the same actions endlessly repeat. The festival, on the other hand, we remember as a moment when everything was transformed-when a little bit of eternity and myth entered our lives. Your seduction must have such peaks, moments when something dramatic happens and time is experienced differently. You must give your targets such moments, whether by staging the seduction in a place-a carnival, a theater-where they naturally occur or by creating them yourself, with dramatic actions that stir up strong emotions. Those moments should be pure leisure and pleasure-no thoughts of work or morality can intrude. Madame de Pompadour, the mistress of King Louis XV, had to re-seduce her easily bored lover every few months; intensely creative, she devised parties, balls, games, a little theater at Versailles. The seduced revels in affairs like this, sensing the effort you have expended to divert and enchant them. Scenes from Seductive Time and Place 1. Around the year 1710, a young man whose father was a prosperous wine dealer in Osaka, Japan, found himself daydreaming more and more. He worked night and day for his father, and the burden of family life and all of its duties was oppressive. Like every young man, he had heard of the pleasure districts of the city-the quarters where the normally strict laws of the shogunate could be violated. It was here that you would find the ukiyo, the "floating world" oftransientpleasures, a place where actors and courte-sans ruled. This was what the young man was daydreaming about. Biding his time, he managed to find an evening when he could slip out unnoticed. He headed straight for the pleasure quarters. This was a cluster of buildings-restaurants, exclusive clubs, teahouses-that stood out from the rest of the city by their magnificence and color. The moment the young man stepped into it, he knew he was in a different world. Actors wandered the streets in elaborately dyed kimonos. They had such manners and attitudes, as if they were still on stage. The streets bustled with energy; the pace was fast. Bright lanterns stood out against the night, as did the colorful posters for the nearby kabuki theater. The women had a completely different air about them. They stared at him brazenly, acting with the freedom of a man. He caught sight of an onmgata, one of the men who played female roles in the theater-a man more beautiful than most women he had seen and whom the passersby treated like royalty. The young man saw other young men like himself entering a teahouse, so he followed them in. Here the highest class of courtesans, the great tayus, plied their trade. A few minutes after the young man sat down, he heard a noise and bustle, and down the stairs came a few of the tayus, followed by musicians and jesters.The women's eyebrows were shaved, replaced by a thick black painted line. Their hair was swept up in a perfect fold, and he had never seen such beautiful kimonos. The tayus seemed to float across the floor, using different kinds of steps (suggestive, creeping, cautious, etc.), depending on whom they were approaching and what they wanted to communicate to him. They ignored the young man; he had no idea how to invite them over, but he noticed that some of the older men had a way of bantering with them that was a language all its own. The wine began to flow, music was played, and finally some lower-level courtesans came in. By then the young man's tongue was loosened. These courtesans were much friendlier and the young man began to lose all track of time. Later he managed to stagger home, and only the next morning did he realize how much money he had spent. If father ever found out . . . Yet a few weeks later he was back. Like hundreds of such sons in Japan whose stories filled the literature of the period, he was on the path toward squandering his father's wealth on the "floating world." Seduction is another world into which you initiate your victims. Like the ukiyo, it depends on a strict separation from the day-to-day world. When your victims are in your presence, the outside world-with its morality, its codes,itsresponsibilitiesis banished. Anything is allowed, particularly anything normally repressed. The conversation is lighter and more suggestive. Clothes and places have a touch of theatricality. The license exists to act differently, to be someone else, without any heaviness or judging. It is a kind of concentrated psychological "floating world" that you create for the others, and it becomes addictive. When they leave you and return to their routines, they are doubly aware of what they are missing. The moment they crave the atmosphere you have created, the seduction is complete. As in the floating world, money is to be wasted. Generosity and luxury go hand in hand with a seductive environment. 2. It began in the early 1960s: people would come to Andy Warhol's New York studio, soak up the atmosphere, and stay awhile. Then in 1963, the artist moved into a new Manhattan space and a member of his entourage covered some of the walls and pillars in tin foil and spray-painted a brick wall and other things silver. A red quilted couch in the center, some five- foot-high plastic candy bars, a turntable that glittered with tiny mirrors, and helium-filled silver pillows that floated in the air completed the set. Now the L-shaped space became known as The Factory, and a scene began to develop. More and more people started showing up-why not just leave the door open, Andy reasoned, and come what may. During the day, while Andy would work on his paintings and films, people would gather-actors, hustlers, drug dealers, other artists. And the elevator would keep groaning all night as the beautiful people began to make the place their home. Here might be Montgomery Clift, nursing a drink by himself; over there, a beautiful young socialite chatting with a drag queen and a museum curator. They kept pouring in, all of them young and glamorously dressed. It was like one of those children's shows on TV, Andy once said to a friend, where guests keep dropping in on the endless party and there's always some new bit of entertainment. And that was indeed what it seemed like-with nothing serious happening, just lots of talk and flirting and flashbulbs popping and endless posing, as if everyone were in a film. The museum curator would begin to giggle like a teenager and the socialite would flounce about like a hooker. By midnight everyone would be packed together. You could hardly move. The band would arrive, the light show would begin, and it would all careen in a new direction, wilder and wilder. Somehow the crowd would disperse at some point, then in the afternoon it would all start up again as the entourage trickled back. Hardly anyone went to The Factory just once. It is oppressivealways to have to act the same way, playing the same boring role that work or duty imposes on you. People yearn for a place or a moment when they can wear a mask, act differently, be someone else. That is why we glorify actors; they have the freedom and playfulness in relation to their own ego that we would love to have. Any environment that offers a chance to play a different role, to be an actor, is immensely seductive. It can be an environment that you create, like The Factory. Or a place where you take your target. In such environments you simply cannot be defensive; the playful atmosphere, the sense that anything is allowed (except seriousness), dispels any kind of reactiveness. Being in such a place becomes a drug. To re-create the effect, remember Warhol's metaphor of the children's TV show. Keep everything light and playful, full of distractions, noise, color, and a bit of chaos. No weight, responsibilities, or judgments. A place to lose yourself in. 3. In 1746, a seventeen-year-old girl named Cristina had come to the city of Venice, Italy, with her uncle, a priest, in search of a husband. Cristina was from a small village but had a substantial dowry to offer. The Venetian men who were willing to marry her, however, did not please her. So after two weeks of futile searching, she and her uncle prepared to return to their village. Theywere seated in their gondola, about to leave the city, when Cristina saw an elegantly dressed young man walking toward them. "There's a handsome fellow!" she said to her uncle. "I wish he was in the boat with us." The gentleman could not have heard this, yet he approached, handed the gondolier some money, and sat down beside Cristina, much to her delight. He introduced himself as Jacques Casanova. When the priest complimented him on his friendly manners, Casanova replied, "Perhaps I should not have been so friendly, my reverend father, if I had not been attracted by the beauty of your niece." Cristina told him why they had come to Venice and why they were leaving. Casanova laughed and chided her-a man cannot decide to marry a girl after seeing her for a few days. He must know more about her character; it would take at least six months. He himself was looking for a wife, and he explained to her why he had been as disappointed by the girls he had met as she had been disappointed by the men. Casanova seemed to have no destination; he simply accompanied them, entertaining Cristina the whole way with witty conversation. When the gondola arrived at the edge of Venice, Casanova hired a carriage to the nearby city of Treviso and invited them to join him. From there they could catch a chaise to their village. The uncleaccepted, and on the way to their carriage, Casanova offered his arm to Cristina. What would his mistress say if she saw them, she asked. "I have no mistress," he answered, "and I shall never have one again, for I shall never find such a pretty girl as you-no, not in Venice." His words went to her head, filling it with all kinds of strange thoughts, and she began to talk and act in a manner that was new to her, becoming almost brazen. What a pity she could not stay in Venice for the six months he needed to get to know a girl, she told Casanova. Without hesitation he offered to pay her expenses in Venice for that period while he courted her. On the carriage ride she turned this offer over in her mind, and once in Treviso she got her uncle alone and begged him to return to the village by himself, then come back for her in a few days. She was in love with Casanova; she wanted to know him better; he was a perfect gentleman, who could be trusted. The uncle agreed to do as she wished. The following day Casanova never left her side. There was not the slightest hint of disagreement in his nature. They spent the day wandering around the city, shopping and talking. He took her to a play in the evening and to the casino after that, supplying her with a domino and a mask. He gave her money to gamble and she won. By the time the uncle returned to Treviso, she had all but forgotten about her marriage plans-all she could think of was the six months she would spend with Casanova. But she returned to her village with her uncle and waited for Casanova to visit her. He showed up a few weeks later, bringing with him a handsome young man named Charles. Alone with Cristina, Casanova explained the situation: Charles was the most eligible bachelor in Venice, a man who would make a much better husband than he would. Cristina admitted to Casanova that she too had had her doubts. He was too exciting, had made her think of other things besides marriage, things she was ashamed of. Perhaps it was for the better. She thanked him for taking such pains to find her a husband. Over the next few days Charles courted her, and they were married several weeks later. The fantasy and allure of Casanova, however, remained in her mind forever. Casanova could not marry-it was against everything in his nature. But it was also against his nature to force himself on a young girl. Better to leave her with the perfect fantasy image than to ruin her life. Besides, he enjoyed the courting and flirting more than anything else. Casanova supplied a young woman with the ultimate fantasy. While he was in her orbit he devoted every moment to her. He never mentioned work, allowing no boring, mundane details to interrupt the fantasy. And he added great theater. He wore the most spectacular outfits, full of sparkling jewels. He led her to the most wonderful entertainments-carnivals, masked balls, the casinos, journeys with no destination. He was the great master at creating seductive time and environment. Casanova is the model to aspire to. While in your presence your targets must sense a change. Time has a different rhythm-they barely notice its passing. They have the feeling that everything is stopping for them, just as all normal activity comes to a halt at a festival. The idle pleasures you provide them are contagious-one leads to another and to another, until it is too late to turn back. The less you seem to be selling something-including yourself-the better. By being too obvious in your pitch, you will raise suspicion; you will also bore your audience, an unforgivable sin. Instead, make your approach soft, seductive, and insidious. Soft: be indirect. Create news and eventsfor the media to pick up, spreading your name in a way that seems spontaneous, not hard or calculated. Seductive: keep it entertaining. Your name and image are bathed in positive associations; you are selling pleasure and promise. Insidious: aim at the unconscious, using images that linger in the mind, placing your message in the visuals. Frame what you are selling as part of a new trend, and it will become one. It is almost impossible to resist the soft seduction. The Soft Sell S eduction is the ultimate form of power. Those who give in to it do so willingly and happily. There is rarely any resentment on their part; they forgive you any kind of manipulation because you have brought them pleasure, a rare commodity in the world. With such power at your fingertips, though, why stop at the conquest of a man or woman? A crowd, an electorate, a nation can be brought under your sway simply by applying on a mass level the tactics that work so well on an individual. The only difference is the goal-not sex but influence, a vote, people's attention-and the degree of tension. When you are after sex, you deliberately create anxiety, a touch of pain, twists, and turns. Seduction on the mass level is more diffuse and soft. Creating a constant titillation, you fascinate the masses with what you are offering. They pay attention to you because it is pleasant to do so. Let us say your goal is to sell yourself-as a personality, a trendsetter, a candidate for office. There are two ways to go: the hard sell (the direct approach) and the soft sell (the indirect approach). In the hard sell you state your case strongly and directly, explaining why your talents, your ideas, your political message are superior to anyone else's. You tout yourachievements, quote statistics, bring in expert opinions, even go so far as to induce a bit of fear if the audience ignores your message. The approach is a tad aggressive and might have unwanted consequences: some people will be offended, resisting your message, even if what you say is true. Others will feel you are manipulating them-who can trust experts and statistics, and why are you trying so hard? You will also grate on people's nerves, becoming unpleasant to listen to. In a world in which you cannot succeed without selling to large numbers, the direct approach won't take you far. The soft sell, on the other hand, has the potential to draw in millions because it is entertaining, gentle on the ears, and can be repeated without irritating people. The technique was invented by the great charlatans of seventeenth-century Europe. To peddle their elixirs and alchemic concoctions, they would first put on a show-clowns, music, vaudeville- type routines-that had nothing to do with what they were selling. A crowd would form, and as the audience laughed and relaxed, the charlatan would come onstage and briefly and dramatically discuss the miraculous effects of the elixir. By honing this technique, the charlatans discovered that instead of selling a few dozen bottles of the dubious medicine, they were suddenly selling scores or even hundreds. In thecenturiessince, publicists, advertisers, political strategists, and others have taken this method to new heights, but the rudiments of the soft sell remain the same. First bring pleasure by creating a positive atmosphere around your name or message. Induce a warm, relaxed feeling. Never seem to be selling something-that will look manipulative and suspicious. Instead, let entertainment value and good feelings take center stage, sneaking the sale through the side door. And in that sale, you do not seem to be selling yourself or a particular idea or candidate; you are selling a life-style, a good mood, a sense of adventure, a feeling of hipness, or a neatly packaged rebellion. Here are some of the key components of the soft sell. Appear as news, never as publicity. First impressions are critical. If your audience first sees you in the context of an advertisement or publicity item, you instantly join the mass of other advertisements screaming for attention-and everyone knows that advertisements are artful manipulations, a kind of deception. So, for your first appearance in the public eye, manufacture an event, some kind of attention-getting situation that the media will "inadvertently" pick up as if it were news. People pay more attention to what is broadcast as news-it seems more real. You suddenly stand out from everything else, if only for a moment-but that moment has more credibility than hours of advertising time. The key is to orchestrate the details thoroughly, creating a story with dramatic impact and movement, tension and resolution. The media will cover it for days. Conceal your real purpose-to sell yourself-at any cost. Stir basic emotions. Never promote your message through a rational, direct argument. That will take effort on your audience's part and will not gain its attention. Aim for the heart, not the head. Design your words and images to stir basic emotions-lust, patriotism, family values. It is easier to gain and hold people's attention once you have made them think of their family, their children, their future. They feel stirred, uplifted. Now you have their attention and the space to insinuate your true message. Days later the audience will remember your name, and remembering your name is half the game. Similarly, find ways to surround yourself with emotional magnets-war heroes, children, saints, small animals, whatever it takes. Make your appearance bring these emotionally positive associations to mind, giving you extra presence. Never let these associations be defined or created for you, and never leave them to chance. Make the medium the message. Pay more attention to the form of your message than to the content. Images are more seductive than words, and visuals-soothing colors, appropriate backdrop, the suggestion of speed or movement-should actually be your real message. The audience may focus superficially on the content or moral you are preaching, but they are really absorbing the visuals, which get under their skin and stay there longer than any words or preachy pronouncements. Your visuals should have a hypnotic effect. They should make people feel happy or sad, depending on what you want to accomplish. And the more they are distracted by visual cues, the harder it will be for them to think straight or see through your manipulations. Speak the target's language-be chummy. At all costs, avoid appearing superior to your audience. Any hint of smugness, the use of complicated words or ideas, quoting too many statistics-all that is fatal. Instead, make yourself seem equal to your targets and on intimate terms with them. You understand them, you share their spirit, their language. If people are cynical about the manipulations of advertisers and politicians, exploit their cynicism for your own purposes. Portray yourself as one of the folk, warts and all. Show that you share your audience's skepticism by revealing the tricks of the trade. Make your publicity as down-home and minimal as possible, so that your competitors look sophisticated and snobby in comparison. Your selective honesty and strategic weakness will get people to trust you. You are the audience's friend, an intimate. Enter their spirit and they will relax and listen to you. Start a chain reaction-everyone is doing it. People who seem to be desired by others are immediately more seductive to their targets. Apply this to the soft seduction. You need to act as if you have already excited crowds of people; your behavior will become a self-fulfilling prophecy. Seem to be in the vanguard of a trend or life-style and the public will lap you up for fear of being left behind. Spread your image, with a logo, slogans, posters, so that it appears everywhere. Announce your message as a trend andit will become one. The goal is to create a kind of viral effect in which more and more people become infected with the desire to have whatever you are offering. This is the easiest and most seductive way to sell. Tell people who they are. It is always unwise to engage an individual or the public in any kind of argument. They will resist you. Instead of trying to change people's ideas, try to change their identity, their perception of reality, and you will have far more control of them in the long run. Tell them who they are, create an image, an identity that they will want to assume. Make them dissatisfied with their current status. Making them unhappy with themselves gives you room to suggest a new life-style, a new identity. Only by listening to you can they find out who they are. At the same time, you want to change their perception of the world outside them by controlling what they look at. Use as many media as possible to create a kind of total environment for their perceptions. Your image should be seen not as an advertisement but as part of the atmosphere. Some Soft Seductions 1. Andrew Jackson was a true American hero. In 1814, in the Battle of New Orleans, he led a ragtag band of American soldiers against a superior English army and won. He also conquered Indians in Florida. Jackson's army loved him for his rough-hewnways: he fed on acorns when there was nothing else to eat, he slept on a hard bed, he drank hard cider, just hke his men. Then, after he lost or was cheated out of the presidential election of 1824 (in fact he won the popular vote, but so narrowly that the election was thrown into the House of Representatives, which chose John Quincy Adams, after much deal making), he retired to his farm in Tennessee, where he hved the simple hfe, tilling the soil, reading the Bible, staying far from the corruptions of Washington. Where Adams had gone to Harvard, played billiards, drunk soda water, and rehshed European finery, Jackson, hke many Americans of the time, had been raised in a log cabin. He was an uneducated man, a man of the earth. This, at any rate, was what Americans read in their newspapers in the months after the controversial 1824 election. Spurred on by these articles, people in taverns and halls across the country began talking of how the war hero Andrew Jackson had been wronged, how an insidious aristocratic elite was conspiring to take over the country. So when Jackson declared that he would run again against Adams in the presidential election of 1828-but this time as the leader of a new organization, the Democratic Party-the public was thrilled. Jackson was the first major political figure to have a nickname. Old Hickory, andsoon Hickory clubs were sprouting up in America's towns and cities. Their meetings resembled spiritual revivals. The hot-button issues of the day were discussed (tariffs, the abolition of slavery), and club members felt certain that Jackson was on their side. It was hard to know for sure-he was a little vague on the issues-but this election was about something larger than issues: it was about restoring democracy and restoring basic American values to the White House. Soon the Hickory clubs were sponsoring events hke town barbecues, the planting of hickory trees, dances around a hickory pole. They organized lavish public feasts, always including large quantities of liquor. In the cities there were parades, and these were stirring events. They often took place at night so that urbanites would witness a procession of Jackson supporters holding torches. Others would carry colorful banners with portraits of Jackson or caricatures of Adams and slogans ridiculing his decadent ways. And everywhere there was hickory-hickory sticks, hickory brooms, hickory canes, hickory leaves in people's hats. Men on horseback would ride through the crowd, spurring people into "huzzahs!" for Jackson. Others would lead the crowd in songs about Old Hickory. The Democrats, for the first time in an election, conducted opinion polls, finding out what the common man thought about the candidates. These polls were published in the papers, and the overwhelming conclusion was that Jackson was ahead. Yes, a new movement was sweeping the country. It all came to a head when Jackson made a personal appearance in New Orleans as part of a celebration commemorating the battle he had fought so bravely there fourteen years earlier. This was unprecedented: no presidential candidate had ever campaigned in person before, and in fact such an appearance would have been considered improper. But Jackson was a new kind of politician, a true man of the people. Besides, he insisted that his purpose for the visit was patriotism, not politics. The spectacle was unforgettable-Jackson entering New Orleans on a steamboat as the fog lifted, cannon fire ringing out from all sides, grand speeches, endless feasts, a kind of mass delirium taking over the city. One man said it was "like a dream. The world has never witnessed so glorious, so wonderful a celebration-never have gratitude and patriotism so happily united." This time the will of the people prevailed. Jackson was elected president. And it was not one region that brought him victory: New Englanders, Southerners, Westerners, merchants, farmers, and workers were all infected with the Jackson fever. Interpretation. After the debacle of1824,Jackson and his supporters were determined to do things differently in 1828. America was becoming more diverse, developing populations of immigrants. Westerners, urban laborers, and so on. To win a mandate Jackson would have to overcome new regional and class differences. One of the first and most important steps his supporters took was to found newspapers all around the country. While he himself seemed to have retired from public life, these papers promulgated an image of him as the wronged war hero, the victimized man of the people. In truth, Jackson was wealthy, as were all of his major backers. He owned one of the largest plantations in Tennessee, and he owned many slaves. He drank more fine liquor than hard cider and slept on a soft bed with European linens. And while he might have been uneducated, he was extremely shrewd, with a shrewdness built on years of army combat. The image of the man of the earth disguised all this, and, once it was established, it could be contrasted with the aristocratic image of Adams. In this way Jackson's strategists covered up his political inexperience and made the election turn on questions of character and values. Instead of political issues they raised trivial matters like drinking habits and church attendance. To keep up the enthusiasm they staged spectacles that seemed to be spontaneous celebrations but in fact were carefully choreographed. The support for Jackson seemed to be a movement, as evidenced (and advanced) by the opinion polls. The event in New Orleans-hardly nonpolitical, and Louisiana was a swing state-bathed Jackson in an aura of patriotic, quasireligious grandeur. Society has fractured into smaller and smaller units. Communities are less cohesive; even individuals feel more inner conflict. To win an election or to sell anything in large numbers, you have to paper over these differences somehow-you have to unify the masses. The only way to accomplish this is to create an inclusive image, one that attracts and excites people on a basic, almost unconscious level. You are not talking about the truth, or about reality; you are forging a myth. Myths create identification. Build a myth about yourself and the common people will identify with your character, your plight, your aspirations, just as you identify with theirs. This image should include your flaws, highlight the fact that you are not the best orator, the most educated man, the smoothest politician. Seeming human and down to earth disguises the manufactured quality of your image. To sell this image you need to have the proper vagueness. It is not that you avoid talk of issues and details-that will make you seem insubstantial-but that all your talk of issues is framed within the softer context of character, values, and vision. You want to lower taxes, say, because it will help families-and you are a family person. You must not only be inspiring but also entertaining-that is a popular, friendly touch. This strategy will infuriate your opponents, who will try to unmask you, reveal the truth behind the myth; but that will only make them seem smug, overserious, defensive, and snobbish. That now becomes part of their image, and it will help sink them. 2. On Easter Sunday, March 31, 1929, New York churchgoers began to pour onto Fifth Avenue after the morning service for the annual Easter parade. The streets were blocked off, and as had been the custom for years, people were wearing their finest outfits, women in particular showing off the latest in spring fashions. But this year the promenaders on Fifth Avenue noticed something else. Two young women were coming down the steps of Saint Thomas's Church. At the bottom they reached into their purses, took out cigarettes-Lucky Strikes-and lit up. Then they walked down the avenue with their escorts, laughing and puffing away. A buzz went through the crowd. Women had only recently begun smoking cigarettes, and it was considered improper for a lady to be seen smoking in the street. Only a certain kind of woman would do that. These two, however, were elegant and fashionable. People watched them intently, and were further astounded several minutes later when they reached the next church along the avenue. Here two more young ladies-equally elegant and well bred-left the church, approached the two holding cigarettes, and, as if suddenly inspired to join them, pulled out Lucky Strikes of their own and asked for a light. Now the four women were marching together down the avenue. They were steadily joined by more, and soon ten young women were holding cigarettes in public, as if nothing were more natural. Photographers appeared and took pictures of this novel sight. Usually at the Easter parade, people would have been whispering about a new hat style or the new spring color. This year everyone was talking about the daring young women and their cigarettes. The next day, photographs and articles appeared in the papers about them. A United Press dispatch read, "Just as Miss Federica Freylinghusen, conspicuous in a tailored outfit of dark grey, pushed her way thru thejam in front of St. Patrick's, Miss Bertha Hunt and six colleagues struck another blow in behalf of the liberty of women. Down Fifth Avenue they strolled, puffing at cigarettes. Miss Hunt issued the following communique from the smoke-clouded battlefield: 'I hope that we have started something and that these torches of freedom, with no particular brand favored, will smash the discriminatory taboo on cigarettes for women and that our sex will go on breaking down all discriminations.' " The story was picked up by newspapers around the country, and soon women in other cities began to light up in the streets. The controversy raged for weeks, some papers decrying this new habit, others coming to the women's defense. A few months later, though, public smoking by women had become a socially acceptable practice. Few people bothered to protest it anymore. Interpretation. In January 1929, several New York debutantes received the same telegram from a Miss Bertha Hunt: "In the interests of equality of the sexes ... I and other young women will light another torch of freedom by smoking cigarettes while strolling on Fifth Avenue Easter Sunday." The debutantes who ended up participating met beforehand in the office where Hunt worked as a secretary. They planned what churches to appear at, how to link up with each other, all the details. Hunt handed out packs of Lucky Strikes. Everything worked to perfection on the appointed day. Little did the debutantes know, though, that the whole affair had been masterminded by a man-Miss Hunt's boss, Edward Bemays, a public relations adviser to the American Tobacco Company, makers of Lucky Strike. American Tobacco had been luring women into smoking with all kinds of clever ads, but the consumption was limited by the fact that smoking in the street was considered unladylike. The head of American Tobacco had asked Bemays for his help and Mr. Bemays had obliged him by applying a technique that was to become his trademark: gain public attention by creating an event that the media would cover as news. Orchestrate every detail but make them seem spontaneous. As more people heard of this "event," it would spark imitative behavior-in this case more women smoking in the streets. Bernays, a nephew of Sigmund Freud and perhaps the greatest public relations genius of the twentieth century, understood a fundamental law of any kind of sell. The moment the targets know you are after something-a vote, a sale-they become resistant. But disguise your sales pitch as a news event and not only will you bypass their resistance, you can also create a social trend that does the selling for you. To make this work, the event you set up must stand out from all the other events that are covered by the media, yet it cannot stand out too far or it will seem contrived. In the case of the Easter parade, Bemays (through Bertha Hunt) chose women who would seem elegant and proper evenwith their cigarettes in their hands. Yet in breaking a social taboo, and doing so as a group, such women would create an image so dramatic and startling that the media would be unable to pass it up. An event that is picked up by the news has the imprimatur of reality. It is important to give this manufactured event positive associations, as Bemays did in creating a feeling of rebellion, of women banding together. Associations that are patriotic, say, or subtly sexual, or spiritual-anything pleasant and seductive-take on a life of their own. Who can resist? People essentially persuade themselves to join the crowd without even realizing that a sale has taken place. The feeling of active participation is vital to seduction. No one wants to feel left out of a growing movement. 3. In the presidential campaign of 1984, President Ronald Reagan, running for reelection, told the public, "It's morning again in America." His presidency, he claimed, had restored American pride. The recent, successful Olympics in Los Angeles were symbolic of the country's return to strength and confidence. Who could possibly want to turn the clock back to 1980, which Reagan's predecessor, Jimmy Carter, had termed a time of malaise? Reagan's Democratic challenger, Walter Mondale, thought Americans had had enough of the Reagan soft touch. They were ready for honesty, and that would be Mondale's appeal. Before a nationwide television audience, Mondale declared, "Let's tell the truth. Mr. Reagan will raise taxes, and so will I. He won't tell you. I just did." He repeated this straightforward approach on numerous occasions. By October his poll numbers had plunged to all-time lows. The CBS News reporter Lesley Stahl had been covering the campaign, and as Election Day neared, she had an uneasy feeling. It wasn't so much that Reagan had focused on emotions and moods rather than hard issues. It was more that the media was giving him a free ride; he and his election team, she felt, were playing the press like a fiddle. They always managed to get him photographed in the perfect setting, looking strong and presidential. They fed the press snappy headlines along with dramatic footage of Reagan in action. They were putting on a great show. Stahl decided to assemble a news piece that would show the public how Reagan used television to cover up the negative effects of his policies. The piece began with a montage of images that his team had orchestrated over the years: Reagan relaxing on his ranch in jeans; standing tall at the Normandy invasion tribute in Lrance; throwing a football with his Secret Service bodyguards; sitting in an inner-city classroom. . . . Over these images Stahl asked, "How does Ronald Reagan use television? Brilliantly. He's been criticized as the rich man's president, but the TV pictures say it isn't so. At seventy-three, Mr. Reagan could have an age problem. But the TV pictures say it isn't so. Americans want to feel proud of their country again, and of their president. And the TV pictures say you can. The orchestration of television coverage absorbs the White House. Their goal? To emphasize the president's greatest asset, which, his aides say, is his personality. They provide pictures of him looking like a leader. Confident, with his Marlboro man walk." Over images of Reagan shaking hands with handicapped athletes in wheelchairs and cutting the ribbon at a new facility for seniors, Stahl continued, "They also aim to erase the negatives. Mr. Reagan tried to counter the memory of an unpopular issue with a carefully chosen backdrop that actually contradicts the president's policy. Look at the handicapped Olympics, or the opening ceremony of an old-age home. No hint that he tried to cut the budgets for the disabled and for federally subsidized housing for the elderly." On and on went the piece, showing the gap between the feelgood images that played on the screen and the reality of Reagan's actions. "President Reagan," Stahl concluded, "is accused of running a campaign in which he highlights the images and hides from the issues. But there's no evidence that the charges will hurt him because when people see the president on television, he makes them feel good, about America, about themselves, and about him." Stahl depended on the good will of the Reagan people in covering the White House, but her piece was strongly negative, so she braced herself for trouble. Yet a senior White House official telephoned her that evening: "Great piece," he said. "What?" asked a stunned Stahl. "Greatpiece," he repeated. "Did you listen to what I said?" she asked. "Lesley, when you're showing four and a half minutes of great pictures of Ronald Reagan, no one listens to what you say. Don't you know that the pictures are overriding your message because they conflict with your message? The public sees those pictures and they block your message. They didn't even hear what you said. So, in our minds, it was a four-and-a-half-minute free ad for the Ronald Reagan campaign for reelection." Interpretation. Most of the men who worked on communications for Reagan had a background in marketing. They knew the importance of telling a story crisply, sharply, and with good visuals. Each morning they went over what the headline of the day should be, and how they could shape this into a short visual piece, getting the president into a video opportunity. They paid detailed attention to the backdrop behind the president in the Oval Office, to the way the camera framed him when he was with other world leaders, and to having him filmed in motion, with his confident walk. The visuals carried the message better than any words could do. As one Reagan official said, "What are you going to believe, the facts or your eyes?" Free yourself from the need to communicate in the normal direct manner and you will present yourself with greater opportunities for the soft sell. Make the words you say unobtrusive, vague, alluring. And pay much greater attention to your style, the visuals, the story they tell. Convey a sense of movement and progress by showing yourself in motion. Express confidence not through facts and figures but through colors and positive imagery, appealing to the infant in everyone. Let the media cover you unguided and you are at their mercy. So turn the dynamic around-the press needs drama and visuals? Provide them. It is fine to discuss issues or "truth" as long as you package it entertainingly. Remember: images linger in the mind long after words are forgotten. Do not preach to the public-that never works. Learn to express your message through visuals that insinuate positive emotions and happy feelings. 4. In 1919, the movie press agent Harry Reichenbach was asked to do advance publicity for a picture called The Virgin ofStamboul. It was the usual romantic potboiler in an exotic locale, and normally a publicist would mount a campaign with alluring posters and advertisements. But Harry never operated the usual way. He had begun his career as a carnival barker, and there the only way to get the public into your tent was to stand out from the other barkers. So Harry dug up eight scruffy Turks whom he found living in Manhattan, dressed them up in costumes (flowing sea-green trousers, gold-crescented turbans) provided by the movie studio, rehearsed them in every line and gesture, and checked them into an expensive hotel. Word quickly spread to the newspapers (with a little help from Harry) that a delegation of Turks had arrived in New York on a secret diplomatic mission. Reporters converged on the hotel. Since his appearance in New York was clearly no longer a secret, the head of the mission, "Sheikh Ali Ben Mohammed," invited them up to his suite. The newspapermen were impressed by the Turks' colorful outfits, salaams, and rituals. The sheikh then explained why he had come to New York. A beautiful young woman named Sari, known as the Virgin of Stamboul, had been betrothed to the sheikh's brother. An American soldier passing through had fallen in love with herandhad managed to steal her from her home and take her to America. Her mother had died from grief. The sheikh had found out she was in New York, and had come to bring her back. Mesmerized by the sheikh's colorful language and by the romantic tale he told, the reporters filled the papers with stories of the Virgin of Stamboul for the next several days. The sheikh was filmed in Central Park and feted by the cream of New York society. Linally "Sari" was found, and the press reported the reunion between the sheikh and the hysterical girl (an actress with an exotic look). Soon after. The Virgin of Stamboul opened in New York. Its story was much like the "real" events reported in the papers. Was this a coincidence? A quickly made film version of the true story? No Appendix B: Soft Seduction: How to Sell Anything to the Masses one seemed to know, but the public was too curious to care, and The Virgin ofStamboulbroke box office records.A year later Harry was asked to publicize a film called The Forbidden Woman. It was one of the worst movies he had ever seen. Theater owners had no interest in showing it. Harry went to work. For eighteen days straight he ran an ad in all of the major New York newspapers: WATCH THE SKY ON THE NIGHT OF FEBRUARY 21ST! IF H IS GREEN-GO THE CAPITOL IF IT ISRED-GO THE RIVOLI IF IT IS PINK-GO TO THE STRAND IF IT IS BLUE- GO TO THE RIALTO FOR ON FEBRUARY 21ST THE SKY WILL TELL YOU WHERE THE BEST SHOW IN TOWN CAN BE SEEN! (The Capitol, the Rivoli, the Strand, and the Rialto were the four big first-run movie houses on Broadway.) Almost everyone saw the ad and wondered what this fabulous show was. The owner of the Capitol asked Harry if he knew anything about it, and Harry let him in on the secret: it was all a publicity stunt for an unbooked picture. The owner asked to see a screening of The Forbidden Woman; through most of the film, Harry yakked about the publicity campaign, distracting the man from the dullness onscreen. The theater owner decided to show the film for a week, and so, on the evening of February 21, as a heavy snowstorm blanketed the city and all eyes turned to the sky, giant rays of light poured out from the tallest buildings-a brilliant show of green. An enormous crowd flocked to the Capitol theater. Those who did not get in kept coming back. Somehow, with a packed house and an excited crowd, the film did not seem quite so bad. The following year Harry was asked to publicize a gangster picture called Outside the Law. On high-ways across the country he set up billboards that read, in giant letters, if you dance on Sunday, you are outside the LAW. On other billboards the word "dance" was replaced by "play golf' or "play pool" and so on. On a top corner of the billboards was a shield bearing the initials "PD." The public assumed this meant "police department" (actually, it stood for Priscilla Dean, the star of the movie) and that the police, backed by religious organizations, were prepared to enforce decades-old blue laws prohibiting "sinful" activities on a Sunday. Suddenly a controversy was sparked. Theater owners, golfing associations, and dance organizations led a countercampaign against the blue laws; they put up their own billboards, exclaiming that if you did those things on Sunday, you were not "OUTSIDE THE LAW" and issuing a call for Americans to have some fun in their lives. For weeks the words "Outside the Law" were everywhere seen and everywhere on people's lips. In the midst of this the film opened-on a Sunday-in four New York theaters simultaneously, something that had never happened before. And it ran for months throughout the country, also on Sundays. It was one of the big hits of the year. Interpretation. Harry Reichenbach, perhaps the greatest press agent in movie history, never forgot the lessons he had learned as a barker. The carnival is full of bright lights, color, noise, and the ebb and flow of the crowd. Such environments have profound effects on people. A clearheaded person could probably tell that the magic shows are fake, the fierce animals trained, the dangerous stunts relatively safe. But people want to be entertained; it is one of their greatest needs. Surrounded by color and excitement, they suspend their disbelief for a while and imagine that the magic and danger are real. They are fascinated by what seems to be both fake and real at the same time. Harry's publicity stunts merely re-created the carnival on a larger scale. He pulled people in with the lure of colorful costumes, a great story, irresistible spectacle. He held their attention with mystery, controversy, whatever it took. Catching a kind of fever, as they would at the carnival, they flocked without thinking to the films he publicized. The lines between fiction and reality, news and entertainment are even more blurred today than in Harry Reichenbach's time. What opportunities that presents for soft seduction! The media is desperate for events with entertainment value, inherent drama. Feed that need. The public has a weakness for what seems both realistic and slightly fantastical-for real events with a cinematic edge. Play to that weakness. Stage events the way Bemays did, events the media can pick up as news. But here you are not starting a social trend, you areaftersomething more short term: to win people's attention, to create a momentary stir, to lure them into your tent. Make your events and publicity stunts plausible and somewhat realistic, but make their colors a little brighter than usual, the characters larger than life, the drama higher. Provide an edge of sex and danger. You are creating a confluence of real life and fiction-the essence of any seduction. It is not enough, however, to win people's attention: you need to hold it long enough to hook them. This can always be done by sparking controversy, the way Harry liked to stir up debates about morals. While the media argues about the effect you are having on people's values, it is broadcasting your name everywhere and inadvertently bestowing upon you the edge that will make you so attractive to the public. Selected Bibliography Baudrillard, Jean. Seduction. Trans. Brian Singer. New York: St. Martin's Press, 1990. Bourdon. David. Warhol. New York: Harry N. Abrams, Inc., 1989. Capellanus, Andreas. Andreas Capellanus on Love. Trans. P. G. Walsh. London: Gerald Duckworth & Co. Ltd., 1982. Casanova, Jacques. The Memoirs of Jacques Casanova, in eiglt volumes. Trans. Arthur Machen. Edinburgh: Limited Editions Club, 1940. Chalon, Jean. Portrait of a Seductress: The World of Natalie Barney. Trans. 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Index Abrantes, Duchess d', 14 absences, see calculated absences Adams, Cindy, 221-23 Adams, John Quincy, 446-48 advertisements, xx, 444 Aesthetic Rakes, 423 Aga Khan III, 313 aggressive attention, 257 Aging Babies, 156-57 Agnelli, Gianni, 273 Alberoni, Francesco, 205 Albert, Prince of Monaco, 396, 397 Alcibiades, 46-47, 48, 74-76, 191-92, 243-44 Alexander I, Czar of Russia, 216-17 AlyKhan, Prince, 313-15, 317 American Tobacco Company, 448-50 Amoves, The (Ovid), 253-54, 331, 351-52 Andreas Capellanus, 134-35, 324, 422-23 Andreas-Salome, Lou, 45-47, 50, 52, 76, 154, 197-99, 227, 357, 390, 412 anger, 8, 9, 69, 76, 374 Anger, Kenneth, 50 Anne of Austria, 355 Anti-Seducers, xxiv, 3-4, 49, 65, 131-45, 155 aggressive attention of, 257 arguing by, 260 brutes, 134, 137-38 bumblers, 135, 138-40 complaining by, 135, 293, 378, 418, 421 crab as symbol of, 144 defensiveness in, 57 as deliberate disenchantment, 415, 418-20 disengagement from, 145 doormats, 134 examples of, 136-44 excessive pride in, 142 greed in, 142-43 impatience in, 134, 137-38 inattentiveness of, 136-37, 145 insecurity of, 131, 133, 138, 142 judgmentalism in, 133, 134 moralizers, 134, 143-44 neediness in, 59, 74, 75, 134, 293 perfectionistic dissatisfaction in, 140-41 reactors, 135 self-absorption in, 75, 131, 133, 137, 138, 140 self-awareness lacked by, 131 self-consciousness of, 135, 138-40 suffocators, 134 tightwads, 134-35 types of, 133-36 ulterior motives in, 142-43 ungenerosity of, 133, 134-35 uses of, 145 vulgarians, 135-36 windbags, 135, 145 Antony and Cleopatra (Shakespeare), 267-68, 418 anxiety and discontent, inducement of, 203-10, 236, 255, 376-77, 378, 418 Cupid's arrow as symbol of, 210 deceptive appearances and, 207 exotic stranger as, 208-9 lost ideals in, 203, 209-10 missing qualities in, 207, 208-9 personal criticism in, 205-7, 208, 209, 210, 423, 424 by politicians, 209-10 reversal of, 210 strategic withdrawal in, 388-89, 390, 391 Aphrodite (Venus), 8, 9-11, 14, 43, 122-23, 206-7, 256-57, 259, 269, 283, 403 Apollo, 55-58 Ardent Rakes, 19-21 arguing, 257, 260, 445 Aristophanes, 47, 207 armed prophets, 118 Arthur, King, 329 Art of Love, The (Ovid), xx, xxii, xxiv, 81-82, 135-36, 179, 221, 255, 279-80, 323, 371-72, 397, 408-9, 418-19, 423-44 As You Like It (Shakespeare), 50 Index Athene, 9-11 attention, aggressive, 257 attention, focused, 33, 273, 417 of Charmers, 79, 81-82, 86, 87 in mirroring, 226 physical lures and, 401-2 Auguste, Prince of Prussia, 187-88 authentic animals, charismatic, 104-5 Bacall, Lauren, 14 Baker, Josephine, 50, 61-63, 66 calculated surprise by, 248 French mirrored by, 225 banal conversation, 183 Bank, The, 58 Barbey dAurevilly, Jules-Amedee, 49 Barney, Natalie, xxiv, xxv, 154, 317, 323 spiritual lures of, 361-63, 364, 365-66, 404 Barrymore, John, 109 Bataille, Georges, 374-75 Bathsheba, xix, 237 , Charles Pierre, 14, 46, 170, 314-15, 354, 401-2 strategic withdrawal by, 385-88 Baudrillard, Jean, xxiii, 9, 126-27, 288,385 , 156 Belleroche, Maud de, 243-44 Bjerre, Poul, 47 Angel, The (Mann), 340-43 Boccaccio, Giovanni, 214-17, 233-37, 362-67 bold moves, 405-13 bracing effect of, 410 , 412 humility vs., 409-10 indirect approach preceding, 407-9 infecting with emotions in, 412 opportune moment for, 410-1 1 as pleasant surprise, 411 reversal of, 413 signs of readiness for, 408, 409, 411,412 summer storm as symbol of, 413 theatricality of, 411-12 vanity and, 408-9 , Lucien, 187 , Napoleon, see Napoleon , Emperor of France Bonaparte, Pauline, 14, 200, 297-99, 304-5, 326-27 Book of Laughter and Forgetting, The (Kundera), 66 Bourdon, David, 33-34 , Bernard, 173-74, -300, 304 Brantome, Seigneur de, 139-41, 268-69, 290-92, 409-10 breakups, 369, 378 see also disenchantment Brent, Harrison, 297-99 Brummel, George "Beau," 48-49, 52, 192, 434 , anti-seductive, 134, 137-38 Buckingham, George Villiers, Duke , 66, 235, 346-48, 355 bumblers, anti-seductive, 135, 138-40 Bunuel, Luis, 373 Butler, Samuel, 81 Byron, George Gordon, Lord, 26, 70, 153, 304 disarming weaknesses of, 290, 291 "honest" confessions of, 284 taboos transgressed by, 351-54, ,357 Caesar, Julius, xix, 7-8, 12, 13, 208, ,317 calculated absences, 288, 390, 392, ,418 in pain mixed with pleasure, 372, calculated effects, 188, 190, 289 -46 in re-seduction, 420-21 reversal of, 249 , Emperor of Rome, 136 Camus, Albert, 83 , Jules de, 326-27 Capote, Truman, 71 , Angela, 281 Carter, Jimmy, 202 Casanova, Giovanni Giacomo, xx, xxii, xxiv, 31-33, 36, 128, 373 142-43 mirroring by, 224 mixed signals and, 194 environment and time created by, 435, 438-39 spiritual lures used by, 367 temptation of, 236-37 , Baldassare, 133-34, 197-99,272 Castro, Fidel, 102 Catherine de Medicis, Queen of France, 15 Catherine II "the Great," Empress of Russia, 90-92, 93 provided by, 201 Potemkin and, 274, 300-303 Saltykov and, 37-38, 225-26 Chalon, Jean, 361-62 , Jessie, 205-6, 208 , Charlie, 58-59 charisma, xx, xxi, 95, 97-98, 329 , 3, 95-118, 317 adventurousness of, 101-2 as armed prophets, 118 to, 116-18 dangers to, 116-18 , 112-14 drama saints, 110-12 fatigue and, 117-18 of, 101 gurus, 109-10 lamp as symbol of, 11 6 magnetism of, 98, 102 miraculous prophets, 102-4 mysteriousness of, 95, 99 Olympian actors, 114-16 piercing gaze of, 95, 100-101, 102, 104 prophetic gifts in, 99, 104 purposefulness of, 98-99 saintliness of, 99 saviors, 107-9 seductive language of, 99-100, 108, 111, 114, 115-16 self-awareness of, 100 successors of, 118 on television, 114, 115-16 theatricality of, 100 types of, 102-16 uninhibitedness of, 100, 107 vulnerability of, 101 Charles I, King of England, 355 II, King of England, 201, 420-21 Charmers, 3, 79-93, 153, 210, 376 antagonism harmonized by, 82 art of, 81-83 dangers to, 93 deceptive appearances and, 85 of term, 81 ease and comfort created by, 79, 82, 86-87 examples of, 83-92 86, 87 indulgent attitude of, 79, 85, 418 mirror as symbol of, 92 by, 82 provided by, 82, 85 politicians as, 81, 82, 83-85, 87, -92, 93 by, 83 sexuality and, 81, 87 subtlety of, 81 timing of, 90-91, 92, 93 attitude of, 81 as useful to others, 83, 87 Chateaubriand, Francois Rene, Vi- comte de, 188, 226, 284, 337 ego ideal regression of, 343-46 Chekhov, Michael, 10 Chevalier, Maurice, 395-96, 397 Chiang Kai-shek, 88-90 Childe Harold (Byron), 351,352 China, xix, 15, 76, 88-90, 172-73, 174, 224, 267-69, 291, 297-300, 311-13 chivalry, 36-37, 38, 329-30 Choisy, Abbe de, 47-48 Chretien de Troyes, 329-30, 386-87 Christian, Linda, 398-99, 401 Churchill, Pamela, see Harriman, Pamela Churchill , Winston, 86, 115, 329 Clarissa (Richardson), 225, 315-16Claudin, Gustave, 60 ClaudiusI, Emperor of Rome, 136-37 Cleopatra, xix, xx, xxi, xxiv, 7-9, 13, 16, 184, 304, 378, 392, 412 -seduction as defense against, clothing of, 7, 8, 274 descriptions of, 8 insecurity fostered by, 208 isolation created by, 317 mixed signals sent by, 192 mood changes of, 7-8, 9 poeticizing of, 283 sensual appeals of, 159 theatricality of, 7, 8, 9 chosen by, 12, 172 voice of, 1,9, 14 Clift, Montgomery, 51, 125, 437 clinging behavior, 415, 417, 419-20 Clinton, Bill, 26, 27, 93 clothing, xx, 34, 434, 436 attention to details of, 265, 268, 269, 270, 272, 273, 274 of Dandies, 43, 44, 48-49, 50, 51 of Sirens, 7, 8, 13, 14-15, 274 Cohn, Norman, 103 Cold Coquette, The (Byron), 70 Colette, 48 complaining, 135, 293, 378, 418, 421 confessions, "honest," 284, 285, 287-88, 289 con men, 66 Conquerors, 153-54 Conrad, Earl, 398-99 Constant, Benjamin, 188, 344 contrasts, 201-2, 270-71, 274, 427, 428, 447 Cooper, Gary, 125 Coquettes, 3, 67-68, 156, 172, 237, 291,412 Cold, 71-73, 77, 78 confusion engendered by, 75 dangers to, 78 excitement engendered by, 75 hatred engendered by, 78 Hot and Cold, 67, 69-71, 76, 78, 192-93 jealousy incited by, 76-77 keys to, 74-77 narcissism of, 67, 73, 74, 75, 76, 77 politicians as, 77 selective withdrawal by, 67, 70-71, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 390 self-sufficiency of, 67, 71, 73, 74-75, 76, 77 shadow as symbol of, 77 spacecreated by, 73 timing of, 78 Coriolanus (Shakespeare), 107 courtesans, 11-12, 33, 38, 60-61, 75, 86, 192, 194, 291, 299-300, 361-64, 396, 412, 436 courtly love, 36-37, 325-26, 333 Crebillon, 33 Crebillon fils, 138-40, 401 criticism, personal, 205-7, 208, 209, 210, 423, 424 cmelty, 192, 349, 353, 356-57, 377, 379, 385, 390, 426 of Dandies, 43, 44, 45, 46, 47 of Rakes, 26 in transgressing taboos, 349, 352, 353, 356-57 Crushed Stars, 152-53 Cures for Love (Ovid), 9,172 Dandies, 3, 41-52, 75-76, 83, 153, 192, 434 aesthetic qualities in, 48-50, 51 ambiguity of, 41, 44, 45, 47, 51 bisexual appeal of, 50-51 confusion engendered by, 47 cruelty in, 43, 44, 45, 46, 47 dangerousness of, 43, 44 dangers to, 52 excitement engendered by, 47 Feminine, 43-45 impudence of, 49, 51, 52 keys to, 48-51 Masculine, 45-48 mental transvestitism of, 50 nonconformity of, 46, 47, 48-49, 51 orchid as symbol of, 51 physical image of, 41, 43, 44, 45, 48-49, 50-51 politicians as, 51 social seduction by, 48-50 visual style of, 48-49 Dandy, The (Baudelaire), 46 Dangerous Liaisons (Laclos), xxiv, 25, 127, 169-71, 287-89, 407-9, 418-20 dangerousness, 354 of Dandies, 43, 44 of Rakes, 17, 24, 25, 26, 27 of Sirens, 5, 11, 12-13 D'Annunzio, Gabriele, 21-24, 192, 291 death risked by, 327-29 flattery by, 218, 259 march on Fiume led by, 23, 273, 328 public spectacles given by, 275 Darvas, Lili, 123 d'Aunet, Leonie, 339 David, King, xix, 237 Davis, Ossie, 113 Dean, James, 123, 125, 127, 128 death, risking of, 327-29 Decameron, The (Boccaccio), 214-17, 233-37, 362-67 defensiveness, 57, 83, 207, 21 1,215, 219, 224, 246, 247, 260, 418, 434 de Gaulle, Charles, 99, 100, 101-2, 109, 114-16, 117,329 seductive oratory of, 114, 115, 253-54 "Delight in Disorder" (Herrick), 399 deliverers, charismatic, 112-14 demonic performers, charismatic, 106-7 Demonic Rakes, 21-24 Denon, Vivant, 213-15 destiny, sense of, 177, 359, 365 details, attention to, 38, 265-76, 425 banquet as symbol of, 276 of clothing, 265, 268, 269, 270, 272, 273, 274 gifts in, 265, 268, 269, 274-75, 279 mesmerizing effect of, 265, 267-69 reversal of, 276 sensuous effect of, 265, 269-72 slower pace in, 272, 273-74 of spectacles, 265, 267-69, 275 Devil Is a Woman, The, 373 Dewa, 37 Diderot, Denis, xxiv-xxv Dietrich, Marlene, 50, 121-23, 127, 128, 129, 130, 192, 342, 373, 434 DiMaggio, Joe, 11, 13 Dio Cassius, 7 Dionysus, 8 Diotima, 206-7, 208 Disappointed Dreamers, 150-51 disenchantment, 415-29 clean quick breaks in, 415, 418, 425-26 clinging behavior and, 415, 417, 419-20 deliberate, 415, 418-20 disillusionment in, 40embers as symbol of, 428 familiarity in, 415, 418, 421 inertia in, 417-18 pleasant separations in, 421-23 seea/sore-seduction Disraeli, Benjamin, 49, 57, 81, 82-85, 93, 143-44, 210, 236 attention to details by, 274-75 humor in persuasion by, 260 mirroring by, 225 poeticizing by, 284 victim played by, 292 dissatisfaction, perfectionistic, 140-41 Don Juan, legend of, xx, 19-20, 23, 24-25, 155, 170, 207-8, 209, 260, 400 Don Juan (Byron), 290 doormats, anti-seductive, 134 doubts, 215, 282-83, 321, 323, 324, 383, 389, 390, 393, 409, 410, 429 Drama Queens, 155 drama saints, charismatic, 1 10-12 Dream of The Red Chamber, The (Tsao Hsueh Chin), 224, 270-72 Drouet, Juliette, 339-40 Dryden, John, 233 Dulcey Sabrosa (Picon), 231-34 dullness, deliberate, 183 Dumas, Alexander, 385 Duncan, Isadora, 22, 259 Duse, Eleanor, 22, 259 Eastern Love, 137, 171 Easy Street, 58 Eddington, Nora, 399-400 Edward VII, King of England, 396 ego ideal regression, 337-38, 343-46 Einstein, Albert, 99 Eisenhower, Dwight D" 124, 174, 317 Eisenstein, Sergei, 59 Either/Or (Kierkegaard), 24, 256 Elizabeth, Empress of Russia, 90, 91 Elizabeth I, Queen of England, 75, 84, 209, 346 Ellington, Duke, xxiv, 182-83, 291, 419-20, 421-23 empathy, 81, 157 environment, seductive, 431-39 Casanova's creation of, 435, 438-39 crowded conditions in, 434, 437 Japan's ukiyo ("floating world") as, 435-37' mystical effects in, 434-35 theatricality of, 431, 434-35, 436, 439 visual stimuli in, 434 Warhol's Factory as, 437-38 envy, 16, 28 Epton, Nina, 326, 354, 355 Eros. 206-7, 208 erotic fatigue, 117-18 Escher, M. C" 128 Essex, Robert Devereux, Earl of, 209 Euripides, xx Europa, 180-81 Exodus, Book of, 98 Exotic Fetishists, 154-55 "Exotic Perfume" (Baudelaire), 401-2 Eyes of Youth, 43 Fallaci, Oriana, 374-76 falling in love, xix, xxi, xxii, 9, 36, 39, 44, 45, 46, 50, 76, 97, 134, 149, 164, 205, 246, 377 familiarity, 429 in disenchantment, 415, 418, 421 poeticizing oneself vs., 277, 281, 282, 284 fear, 412, 418, 424 in pain mixed with pleasure, 369, 377-78, 379 Feminine Dandies, 43-45 Ferenczi, Sandor, 126 festivals, 433, 434, 435 Fetishistic Stars, 121-23 Fiume, march on, 23, 273, 328 flattery, 22, 85, 218, 233, 259, 289, 376, 403 Flaubert, Gustave, 364-65, 385 Floating Genders, 160 "floating world" (ukiyo), 435-37 Flowers of Evil, The (Baudelaire), 314-15, 386, 401-2 Flynn, Errol, xxiv, 26, 130, 192, 201, 291,355 physical lures of, 397-402, 403, 404 Tantrism practiced by, 410 FourHorsemenoftheApocalypse, The, 43 Fraser, Flora, 300-301 French Revolution, 70, 116-17, 174, 187, 328 Freud, Sigmund, 70-71, 173, 182, 188, 449 Andreas-Salome and, 76, 198, 199 on bisexuality, 50 onchildhood as golden age, 55 disciples of, 76-77, 198, 199, 434 on narcissism, 73, 74 on sexual taboos, 352-53 on spoiled children, 61 on suggestion, 215 on transference, 335-36 on the uncanny, 126, 301-2, 304 Friedrich, Konrad, 297-99 Frohlich, Rosa (fict.), 340-43 Fu Chai, King, xix, 15, 311-13 Fujiwara no Korechika, 48, 65, 271 Fiilop-Miller, Rene, 104-5 Gallese, Duke and Duchess of, 22 Game of Hearts, The: Harriette Wilson's Memoirs (Wilson), 48-49 Gandhi, Mohandas K" 193, 358 isolation created by, 317 Garbo, Greta, 127 Garden of Eden, 24, 237 Gautier, Theophile, 49, 385 Genesis, Book of, 232-33 Genji, Prince (fict.), 63-65, 172, 269-71 George, Don, 419-20 Gerard, Franjois-Pascal, 187, 188 Gilbert and Sullivan, 189 Gilda, 314 Gillot, Henrik, 45 Gilot, I rancoise, 25 Girard, Rene, 199, 200 Gladstone, William, 85, 93, 143-44 Gleichen-Russwurm, Alexander von, xxi Goethe, Johann Wolfgang, 300-301, 354 golden age, childhood as, 53, 55, 59 Gottfried von Strassburg, 12, 190-92, 354-55 Grammont, Count de, 137-38, 183, 324-25 Grant, Gary, 125, 128, 129 Graves, Robert, 9-11, 55-58, 231. 287-88 Greco, Juliette, 313 greed, 199 anti-seductive, 142-43 Greek Myths. The (Graves), 9-11, 55-58, 231, 287-88 Greenfield, Liah, 102 guilt, sense of, 176, 369, 378, 379, 422-23, 426 in transgression of taboos, 349, 355,357 Guinevere, Queen, 329-30, 386-87 gurus, charismatic, 109-10 Gwyn, Nell, 201, 420-21 Hamilton, Lady Emma, 300-301, 304 Hamilton, Sir William, 300-301, 304 hard sell, 443 Harriman, Averell, 85-87, 273, 318 Harriman, Pamela Churchill, 85-87, 273, 274, 318 Hauptmann, Gerhart, 46 Hawthorne, Nathaniel, 74 Hayworth, Rita, 313-15 heat, projected, 393, 395-97 heated glances, 396, 397, 402, 403 Helen of Troy, xix, xx, 11, 13 Hellmann, John, 124, 209 Hera, 9-11, 256-58, 287-88 Hermaphroditus, 43-45 Hermes (Mercury), 9-10, 43, 55-58 Herrick, Robert, 399 Hibbert, Eloise Talcott, 172-73, 311-12 Hindu Art of Love, The (Windsor, ed.), 171-72, 411 Homer, 7-8, 11, 12-13, 256-58 "honest" confessions, 284, 285, 287-88, 289 honest courtesans, 38 Hot and Cold Coquettes, 67, 69-71, 76, 78 Hsi Shi, xix, 15, 311-13 Hugo, Victor, 338-40 Huxley, Aldous, 109 hypnosis, 261-62, 401, 402 Ibarruri, Dolores Gomez (La Pasion- aria), 99-100 Ibn Hazm, 126, 183-84, 409 Ideal Lovers, 3, 29-40 Beauty, 33-35 in courtly love, 36-37 dangers to, 40 effort required of, 33 keys to, 36-39 Madonna/whore as, 38 missing qualities provided by, 32-33, 34-35, 36, 39 noble qualities evoked by, 35-36, 39 patient attentiveness of, 38 politicians as, 38-39, 40 portrait painter as symbol of, 39 reputation of, 33, 37-38 Romantic, 31-33 self-sacrifice of, 36-38 subtle indications observed by, 33, 36 ideals, lost, 39, 203, 208-10, 226, 317 Idol Worshipers, 158 Idylle Saphique (Pougy), 362 Ihara Saikaku, 268, 421-22 Iliad, The (Homer), 256-58 illusions, creation of, 82, 295-307, 364 appearance of normality in, 304 changing the past in, 306 dreams realized through, 303-4 of gender, 297-300, 304 reversal of, 307 role playing in, 305 Shangri-La as symbol of, 307 uncanny effects in, 304 wish fulfillment in, 300-303 impatience, anti-seductive, 134, 137-38 improvisation, 164, 248, 411 in proving oneself, 324-25 imps, 56-57, 59-61, 66 inattentiveness, 136-37, 145 indifference, 409 indirect approach, 177-84, 408-9 bland appearance in, 183 bold moves after, 407-9 deliberate dullness in, 183 disguising one's feelings in, 183 friendship in, 177, 179-81, 182 illusion of control in, 181-82 neutral distance in, 182-83 reversal of, 184 sexual tension and, 182 spider's web as symbol of, 184 third parties in, 177, 183 see also soft sell infantile regression, 336-37, 338-40 innocents, 54, 58-59, 66 "In Praise of Makeup" (Baudelaire), 14 insecurities, 48, 71, 74, 76, 77, 87, 154, 155, 156, 163, 172, 173, 182, 193, 207, 210, 289, 291, 359, 369, 377, 412, 419 of Anti-Seducers, 131, 133, 138, 142 of countries, 225 flattery aimed at, 259 insinuation, art of, 127, 211-18, 389, 390 dropping hints in, 211, 216 gesturesand looks in, 211, 217-18 imagination and, 216 passing comments in, 211, 215, 216 pleasure provided by, 218 in politics, 216-17 retraction with apology in, 211, 215,217 reversal of, 218 seed as symbol of, 218 slight physical contact in, 215 slips of the tongue in, 217 vagueness in, 216 "Invitation to the Voyage" (Baudelaire), 314-15 irrationality, 55, 378 isolation, creation of, 309-18 deceptive appearances and, 315 exotic effect in, 311-13, 317 from family and friends, 316, 317, 318 hint of danger in, 317 on islands, 317 "only you" effect in, 313-15 from past attachments, 316-17 Pied Piper as symbol of, 318 by politicians, 317 by religious sects, 317 reversal of, 318 Jackson, Andrew, 446-48 Jagger, Mick, 50 James I, King of England, 66, 235, 355 reverse parental regression and, 346-48 Japan, 25, 37, 48, 50 child-rearing practices in, 335-36 ukiyo ("floating world") of, 435-37 see also Tale of Genji, The (Murasaki) jealousy, 70, 76-77, 248, 390, 421, 423, 424, 425-26 in pain mixed with pleasure, 372, 373, 374, 377 triangles and, 197-98 Jeffers, Robinson, 109 Joan of Arc, 102-4 Johnson, Lyndon B., 289 Joseph II, Holy Roman Emperor, 301-2 Josephine, Empress of France, xxiv, 13, 69-71, 74, 154, 217, 412 languorousness of, 12, 14, 69 selective disclosure by, 15, 237 selective withdrawal by, 70, 78, 390 tears as tactic of, 69, 70, 291-92 Journal of Our Life in the Highlands (Queen Victoria), 84 judgmentalism, 152, 404 in Anti-Seducers, 133, 134 Julius Caesar(Shakespeare), 258-60 Jullian, Philippe, 22 Jung, Carl, 76 Jungian archetypes, 36-37 Jurgens, Ernest, 395-96 Kaus, Gina, 303 Keaton, Buster, 58 Kennedy, John F., xxi, xxiv, 40, 51, 117, 123-26, 127, 128, 130, 224,329 adventurousness of, 101, 102 disarming weaknesses of, 290-91 insinuation used by, 217 isolation as technique of, 317 lost ideals and, 39, 208-10, 317 missing qualities offered by, 174 mixed signals sent by, 193 poeticizing of, 283 Key, Wilson Bryan, 289 Kierkegaard, Spren, xxiv, 24, 31, 169-70, 171, 172, 179-80, 181, 182, 193, 201, 224, 246, 254, 255-57, 279, 289-90, 291, 357, 373, 387-88, 389 King, Martin Luther, Jr., 113 Kissinger, Henry A., 93, 183, 374-75, 378 knights, 36-37, 329-30, 331-32 Kolowrat, Count Sascha, 122 Kou Chien, King, 15, 311-13 Kriegel, Maurice, 253 Krishnamurti,Jiddu, 75-76, 109-10, 358 Kuang Hsu, Emperor, 267-69 Kundera, Milan, 66 La Bruyere, Jean de, 49 Laclos, Pierre Choderlos de, xix-xx, xxiv, 25, 169-71,287-89, 407-9, 418-20 Ladd, Alan, 123 Lake, Veronica, 128 Lamb, Lady Caroline, 351-52, 353, 354 Lamotte-Valois, Comtesse de, 305-6 Lancelot, Sir, 329-30, 386-87 Lang, Lritz, 122 language, seductive, xx, 153, 251-63, 273 affirmation in, 261, 262 ambiguity and vagueness in, 254, 258, 262, 263, 448 arguing vs., 260 boldness in, 262 changes of perspective in, 261 of Charismatics, 99-100, 108, 111, 114,115-16 clouds as symbol of, 262 diabolic vs. symbolic, 262 emotion vs. reason in, 260-61 flattery in, 22, 85, 218, 233, 259, 376, 403 flowery language vs., 263 normal language vs., 258-59 oratory, xx, 22-23, 24, 114, 115, 235-36, 253-54, 258-60, 261, 275 producing an effect with, 254, 259 promises in, 259, 260 of Rakes, 17, 19, 20, 22-24, 25 repetition in, 261-62 reversal of, 263 self-absorption vs., 258 silence vs., 263 in soft sell, 445 strong emotions roused by, 261 seealso writing Lauzun, Antonin Peguilin, Duke de, xx, 75, 179-81, 201, 282 Lawner, Lynne, 13, 299-300 Lawrence, D. H., 205-7, 208, 209, 210, 400, 423-25 Leadbeater, Charles, 109 Le Gallienne, Richard, 191 Lemaitre, Jules, 49 Lenin, V. I., 98, 99, 101, 107-9, 183, 201-2 Leonardo da Vinci, 188 Lesbos, island of, 317, 362-63 Lewis, Arthur H., 395-96, 398 Lincoln, Abraham, 99 Lonely Leaders, 159 lost ideals, 39, 203, 208-10, 226, 317 Louis XIV, King of Prance, 19, 35, 47, 49, 179-81, 282 Louis XV, King of Prance, 16, 33-35, 36, 127, 216, 247, 249, 274, 435 Louis XVIII, King of Prance, 426-27 Louys, Pierre, 371-74 Love Happy, 10 lovers' quarrels, 76 Low, Ivy, 206, 208 Lucian, 420-21, 422 Lursay, Madame de (fict.), 138-40 Machiavelli, Niccolo, 118 Madame Bovary (Plaubert),364-65 Madonna/whore, 38 makeup, xix, 8, 9, 10, 13, 434 Making a Living, 58, 59 Malcolm X, 111, 112-14 Malet, Elizabeth, 26 Malraux, Andre, 121 Mandel, Oscar, 23, 208, 232 Mandrell, James, 200, 207 Mann, Heinnch, 340-43 Mansfield, Katherine, 206 Mao, Madame (Jiang Qing), 78, 173, 201.249, 379,403,412 Mao Zedong, 77, 78, 88-89, 99, 118, 173.201.249, 403 Margaret of Navarre, Queen, xxi, 326-31 Marguerite de Valois, 14-15, 412 Marianne (Marivaux), 75, 292 Marie Antoinette, Queen of Prance, 305-6 Marivaux, Pierre, 69, 75, 292 Mark Antony, xix, 8, 12, 13, 145, 159, 172,208,258-61,274, 283, 378, 392, 412 Marx, Groucho, 10 Mary, Queen of Scots, 346 Masculine Dandies, 45-48 masochism, 47, 71, 155, 237, 332, 357, 378 mass seduction, see Charismatics; politicians; soft sell Maurois, Andre, 83 Maxwell, Elsa, 313, 314 Mayer, J. P, 125 MemoirsfromBeyondthe Grave (Chateaubriand), 337, 345 Menken, Adah Isaacs, 100 mental superiority, sense of, 155-56 Merteuil, Marquise de (fict.), 418-20 Mesmer, Pranz, 434-35 Messalina, 136-37 Metamorphoses (Ovid), 43-45,71 -74, 121-23, 180-81, 182-83 Metternich, Prince Klemens von, 188, 343 Michels, Roberto, 77 Middle Ages, 103, 328 courtly love in, 36-37, 325-26, 331 religious mystics of, 366 troubadours of, xx, 36-37, 291, 325,331 Middleton-Murry,John,206, 208 Midgette, Allen, 72 Midsummer Night's Dream, A (Shakespeare), 297 Milbanke, Annabella, 353 Miller, Arthur, 12, 13 Ming Huang, Emperor, 76, 174, 270, 272-73 miraculous prophets, charismatic, 102-4 mirroring, 45, 219-27, 279, 403, 411,412 by Charmers, 82 focused attention in, 226 of gender roles, 224-25 hunter's mirror as symbol of, 226 imitation in, 221-22, 223 indulgence in, 219, 223 of lost ideals, 226 narcissism and, 224 by outsiders, 225 reversal of, 227 of spiritual values, 225 in writing, 257 missing qualities, 149, 207, 208-9 and choice of victim, 171, 173-74 Ideal Lovers and, 32-33, 34-35, 36, 39 mixed signals, 185-94, 223 artificial vs. natural, 189-91 cold vs. hot, 192-93; see also Coquettes depth suggested by, 185, 192 in first impressions, 191, 192-93 gender roles and, 192 gcod vs. bad, 187-89 imagination engaged by, 191 inner vs. outward qualities in, 192-93 paradox in, 190-91 in politics, 193 reputation and, 193 reversal of, 194 theater curtain as symbol of, 194 Mohammed Riza Pahlavi, Shah of Iran, 313, 375 Moliere, 22, 207-8, 258 Molina, Tirso de, 19-20, 232 moment, the, 423, 435 abandonment to, 21, 25 leading into, 393, 400, 402-4 Mona Lisa (da Vinci), 188 Mondale, Walter, 450 Monneyron, Prederic, 181-82 Monroe, Marilyn, xxiv, 9-11, 12, 13, 14, 16, 101, 125, 130, 192, 274, 291,338 MonsieurBeaucaire, 44 Montez, Lola, 173, 199-200, 357 Montpensier, Anne Marie Louise d'Orleans, Duchess de, 179-81, 201,282 mood changes, xix, 7-8, 9, 11, 249, 312, 418-19 moralizers, anti-seductive, 134, 143-44 Morin, Edgar, 121, 124-25 Morosini, Countess, 328 Moscovici, Serge, 83, 199, 221-22 Moses, 98, 113, 114 Much Ado About Nothing (Shakespeare), 183 Murasaki Shikibu, xxiv, 25, 61, 63-65, 140-41, 269-71, 287 Musil, Robert, 227 Musset, Alfred de, 40, 281 Mussolini, Benito, 102, 275 Mut, Professor (fict.), 340-43 Mythic Stars, 123-26 Napoleon I, Emperor of France, xx, 14, 99, 187, 200, 261, 298, 326 calculated surprise by, 243 as Charismatic, 101, 102, 111 Coquette played by, 77 French re-seduced by, 426-28 insinuation used by, 216-17 Josephine and, 13, 69-71, 74, 78, 154, 217, 291-92, 390, 412 missing qualities offered by, 1 74 Talleyrand and, 38-39 temptations created by, 235-36 Napoleon III (Louis-Napoleon), Emperor of France, 339-40 narcissism, 41, 45, 50, 82, 157, 219 of Coquettes, 67, 73, 74, 75, 76, 77 mirroring and, 224 Narcissus, 71-74 natural phenomena, 55 Naturals, 3, 53-66 dangers to, 66 disarming weakness of, 53, 56, 59 examples of, 58-65 fantasy world created by, 63 imps, 56-57, 59-61, 66 independence in,61 innocents, 54, 58-59, 66 lamb as symbol of, 65 naivete of, 58-59 as potentially irritating, 66 psychological traits of, 55-57 receptiveness of, 57 spoiled children as, 61 sympathy elicited by, 53, 56, 59, 66 undefensive lovers, 57, 63-65 wonder children, 57, 61-63 youth and, 66 neediness, 59, 74, 75, 87, 134, 293 Nelson, Viscount Horatio, 304 Nero, Emperor of Rome, 50 New Prudes, 151-52 New York Times, 189, 396 Nicholas, Grand Duke, 396 Nicholas II, Czar of Russia, 105, 107, 201 Nietzsche, Friedrich, xxii, xxiii, 36 Andreas-Salome and, 45-46, 47, 52, 197-98, 199, 227 Ninon de l'Enclos, xx, 75, 183, 192, 217, 223, 224-25, 293, 409, 417, 425-26 Niou, Prince (fict.), 25 Nisan, 37 Nixon, Richard M., 123-24, 374, 375 "No Tomorrow" (Denon), 213-15 Novices, 153 Octavia, 8 Octavius, 8, 16, 145, 378 Odyssey, The (Homer), 7-8, 11, 12-13 oedipal regression, 333, 337, 340-43 Olympian actors, charismatic, 114-16 Onassis, Aristotle, 313 On Love (Stendhal), 58, 170, 280-82, 284, 375-77 opinion, influencing, xx-xxi oratory, seductive, xx, 22-23, 24, 114, 115, 235-36, 253-54, 258-60, 261, 275 Orleans, Duchess d', 21 Orleans, Duke d', 19-20 Orlov, Gregory, 90 Orsay, Count d', 49 Ortega y Gasset, Jose, xxii, 282-83 Otero, Caroline "La Belle," 194, 398, 402, 412 heat projected by, 395-97 Overstreet, H. A., 60 Ovid, xx, xxii, xxiv, 9, 43-45, 71-74, 81-82, 121-23, 135-36, 172, 179, 180-81, 182-83, 221, 253-54,255,279-80,323, 331, 352, 371-72, 397, 408-9, 418-19, 423-24 Pahlavi, Mohammed Riza, Shah of Iran, 313, 375 pain,mixing pleasure with, 155, 159, 237, 369-79, 389, 391,410, 415, 418, 424-25 anxiety induced by, 376-77, 378 bracing effect of, 377 breakups in, 369, 378 calculated absences in, 372, 373-74 emotional highs and lows in, 371-74 fear in, 369, 377-78, 379 guilt in, 369 harshness and kindness in, 374-76 jealousy in, 372, 373, 374, 377 masochistic yearnings for, 47, 71, 155, 237, 332, 357, 378 precipice as symbol of, 379 reversal of, 379 timing of, 379 Pampered Royals, 151, 421 Paris, xix, 13 Judgment of, 9-11 Pasionaria, La (Dolores Gomez Ibar- ruri), 99-100 Patience (Gilbert and Sullivan), 189 Pawnbroker, The, 58 Pearl, Cora, 59-61, 66, 291 Pearson, Hesketh, 189-90 Peron, Evita, 110-12 poeticizing of, 279-81, 283-84 Peron, Juan, 111, 279-81 persuasion, xx-xxi, 215-16, 317 argument vs. humor in, 260 emotion vs. reason in, 260-61, 444 Peter I "the Great," Czar of Russia, 99 Peter III, Czar of Russia, 37, 90, 201, 225, 300 Petronius, 50, 201 Philip III, King of Spain, 234-35 physical lures, 393-404 devil-may-care attitude and, 404 disordered look in, 402-3 flattery and, 403 focused attention and, 401-2 heated glances in, 396, 397, 402, 403 as leading into the moment, 393, 400, 402-4 lowering inhibitions by, 393, 397-401 mental activity lulled by, 393, 400-401, 402, 403 physical excitation aroused by, 399, 400, 402, 403 projected heat in, 393, 395-97 raft as symbol of, 404 reversal of, 404 sensual appeal of, 402 shared physical activity in, 398, 400, 403 slight physical contacts in, 395, 396, 397, 400, 403 Picasso, Pablo, 25, 26, 45, 100, 379 art as lure of, 366 poeticizing of, 283 Picon, Jacinto Octavio, 231-34 Pillow Book of Sei Shonagon, The, 31-32,50,65,263 Plato, 74-76, 191, 206-7, 208 Plutarch, 8, 46-47, 261 poeticizing oneself, 277-84 bit of doubt in, 282-83 calculated absences in, 277, 283-84 familiarity vs., 277, 281, 282, 284 halo as symbol of, 284 idealizing one's targets in, 284 objects in, 283 reversal of, 284 self-image and, 281-82 shared experiences in, 283 politicians, xx-xxi, 101, 183, 366, 374-76 anxiety and discontent induced by, 209-10 as Charmers, 81, 82, 83-85, 87, 88-92, 93 as Coquettes, 77 as Dandies, 51 disarming weaknesses of, 292 as Ideal Lovers, 38-39, 40 insinuation used by, 216-17 isolation created by, 317 mixed signals sent by, 193 re-seduction by, 426-28 soft sell by, 446-48, 450-52 triangles created by, 201-2 victims chosen by, 174 war heroes as, 329, 446-48 see also Charismatics; oratory, seductive Pompadour, Jeanne Poisson, Madame de, 16,33-35,36, 127,249, 274, 435 pop art, 71-72, 73 Portsmouth, Louise Keroualle, Duchess of, 420 post-seduction, see disenchantment; re-seduction Potemkin, Prince Gregory, 274, 300-303 Pougy,Liane de, 361-62, 363, 364 Presley, Elvis, 28, 44, 50, 105-6, 107 pride, excessive, 142 Private Life of the Marshal Duke of Richelieu, The, 20-21 Professors, 155-56 prostitutes, 40, 354, 356 Proust, Marcel, 70, 283 proving oneself, 25, 321-32, 417, 425 apparent suicide in, 324-25 doubts allayed by, 321, 323, 324 improvisation in, 324-25 passing tests in, 326-31 persistence in, 324-25 rescue in, 329-30 resistance and, 321, 323, 324 reversal of, 332 risking death in, 327-29 self-sacrifice in, 326-27, 425 tournament as symbol of, 332 unhesitating action in, 329-30 by war heroes, 327-29 prudery, 151-52 Ptolemy XIV, Pharaoh, 7 Pygmalion, 121-23 Pygmalion complex, 173 Quicksand (Tanazaki), 356 rakehells, 25 Rakes, 3, 17-28, 49, 130, 152, 247, 315-16 as abandoned to moment, 21, 25 Aesthetic, 423 Ardent, 19-21 convention defied by, 26, 27 cruelty of, 26 dangerousness of, 17, 24, 25, 26, 27 dangers to, 28 Demonic, 21-24 derivation of term, 25 erotic vs. political, 24 extremism of, 26 as female fantasy figure, 17, 20-21, 23, 24-25, 26 fire as symbol of, 27 keys to, 24-27 masculine envy engendered by, 28 mirroring by, 225-26 obstacles overcome by, 21, 25, 225-26 pleasure offered by, 24, 25, 27 reformation of, 26, 225, 353, 354 Reformed, as victims, 1 50 reputation of, 20-21, 26-27, 28, 200-201 seductive language of, 17, 19, 20, 22-24, 25 voices of, 22-23 Rank, Otto, 76 Rasputin, Grigori Efimovich, 100-102,104-5 physical lures of, 403 spiritual lures of, 366, 403 reactors, anti-seductive, 135 Reagan, Ronald, 202 soft sell of, 450-52 Recamier, Madame, 187-89, 192, 217,237,343-46 Ree, Paul, 45-46, 197-98, 199 Reformed Rakes or Sirens, 150 regression, erotic, 333-48 bed as symbol of, 348 ego ideal, 337-38, 343-46 infantile, 336-37, 338-40 oedipal, 333, 337, 340-43 rebellion in, 348 reversal of, 348 reverse parental, 333, 338, 346-48 therapist role in, 336, 345-46 transference in, 335-36 unconditional love in, 336-37, 340 Reichenbach, Harry, 452-54 Reik, Theodor, 209-10, 336-37, 388-90 reliability, 243 Remarque, Erich Maria, 121 Remembrance ofThingsPast(Proust), 283 Renaissance, 12, 38, 356 reputation, 46, 193, 223, 314, 379 in creation of triangles, 195, 200-201 of Ideal Lovers, 33, 37-38 mixed signals and, 193 of Rakes, 20-21, 26-27, 28, 200-201 Rescuers, 157 re-seduction, 415-29, 435 calculated surprises in, 420-21 embers as symbol of, 428 fight against inertia in, 417-18 intermittent drama in, 423-25 maintaining lightness in, 418, 421, 423 maintaining mystery in, 418 political, 426-28 reversal of, 429 timing of, 428 resistance, xxiii, xxiv, 25, 154, 164, 172, 177, 181, 183, 188, 215, 216, 236, 289, 376, 400, 412, 449 and proving oneself, 321, 323, 324 to temptations, 236 reverse parental regression, 333, 338, 346-48 Richardson, Samuel, 225, 315-16 Richelieu, Duke de, 19-21, 25, 27, 170, 200, 247, 356, 410 Richthofen, Baroness Frieda von, 206, 423-25 Rilke, Rainer Maria, 46-47, 227 Ring of the Dove, The: A Treatise on the Art and Practice of Arab Love (Ibn Hazm), 126, 183-84, 409 Robespierre, Maximilien de, 116-17, 118 Rochester, Earl of, 26 Rohan, Cardinal de, 305-6 Romantic Ideal, 31-33 Romanticism, 226, 343 Roosevelt, Franklin Delano, 86, 98-99, 100, 102, 118 seductive oratory of, 260 Rothschild, Baron Elie de, 273 Roues, 157-58 Sabatier, Apollonie, 385-88 Sacher-Masoch, Leopold von, 372, 373-74 Sackville-West, Vita, 102 sadness, air of, 69, 76, 157, 172, 192, 292, 364-65 Saint-Amand, Imbert de, 69 Sainte-Beuve, Charles Augustin, 338-39 Saint-Germain, Count, 127-28, 216, 244 Salome, Lou von, see Andreas- Salome, Lou Saltykov, Sergei, 37-38, 225-26 Sand, George, 40, 49 Sappho, 317, 362-63 Satan, androgyny of, 51 Satyricon(Pe t ro nius),50, 201 saviors, charismatic, 107-9 Savonarola, Girolamo, 101 Schopenhauer, Arthur, 84 Sedgwick, Edie, 72 seducers, xix-xxv amorality of, xxiii-xxiv, 21, 47 appearance of, xix, xx, xxii consistency of, xxii falling in love with, xix, xxi, xxii male, xx other-directedness of, xxii-xxiii as providers of pleasure, xxiii resistance to, xxiii, xxiv seductive language of, xx sexual element utilized by, xxii strategic planning of, xx, xxii, xxiii subtle methods of, xxi surrender to will of, xxi, xxii, xxiv theatricality of, xx, xxiii warrior's outlook of, xxii Seducer's Diary, The (Kierkegaard), xxiv, 31, 127, 169-70, 172, 179-80, 182, 193, 201, 224, 254, 255-57, 279, 289-90, 357, 373, 387-88, 389 seduction, derivation of term, xxi Seduction (Baudrillard), xxiii, 9, 127-28, 288, 385 Sei Shonagon, 31-32, 50, 65, 263 selective disclosure, 14-15, 237 self-absorption, 87, 163, 173, 363, 410 of Anti-Seducers, 131, 133, 137, 138, 140 seductive language vs., 258 self-awareness, 100, 131 self-consciousness, 135, 138-40, 354, 359, 363 self-distance, 122, 130 self-esteem, 75, 79, 81, 158, 200, 208, 210, 224, 227, 282 self-image, 281-82 self-loathing, 154, 362, 363 self-sabotage, 378 self-sacrifice, 36-38, 82, 326-27, 425 self-sufficiency, 67, 71, 73, 74-75, 76, 77 Seneca, 50 Sennett, Mack, 58 Sensualists, 159 Sex Sirens, 9-11 Shahrazad, 245-47 Shakespeare, William, 50, 107, 183, 258-60, 267-68, 314, 316, 418 Shaw, George Bernard, 126 Sheik, The, 43-44 Shelley, Percy Bysshe, 353 Shi Pei Pu, 173-74, 297-300, 304 Shoulder Anns, 58 Shu-Chiung, 270 Sibony, Daniel, 351 Sieburg, Friedrich, 337 Silenus, 56, 191 Simone, 23 Sirens, xix, 3, 5-16, 26, 28, 152, 155, 184 adornment of, xix, 7, 8, 13, 14-15, 24, 274 appearance of, 8, 9-10, 13, 23 dangerousness of, 5, 1 1, 12-13 dangers to, 1 6 differentiation of, 12 keys to, 11-15 as male fantasy figure, xx, 5,9, 11, 12 men enslaved by, xix, 8, 12 mood changes of, xix, 7-8, 9, 1 1 movement and demeanor of, 5, 10, 15 in Odyssey, 7-8, 11, 12-13 pleasure offered by, 11 Reformed, as victims, 150 Sex, 9-11 Spectacular, 7-9 theatricality of, 7, 8, 9 of, 7, 9, 10, 13-14 water as symbol of, 15 Slater, Leonard, 313 Socrates, 74-76, 191-92, 206-7, 208 soft sell, 441-54 components of, 444-46 examples of, 446-54 hard sell vs., 443 origin of, 443 Solanas, Valerie, 78 Sons and Lovers (Lawrence), 206 Spanish Civil War, 99-100 spectacles, 265, 267-69, 275, 301, 447 Spectacular Sirens, 7-9 spirituality, 158 aura of, 38, 98, 358 mirroring of, 225 spiritual lures, 359-67, 403, 404 air of discontent in, 359, 364-65 artistic, 359, 361-62, 365-66 cultic rituals as, 362-63 ennoblement by, 365, 366 in environment, 434-35 lightness induced by, 363 occult fads in, 359, 365 pagan, 362-63, 365 religion in, 359, 363-64 reversal of, 367 sense of destiny in, 177, 359, 365 sexual undertones of, 359, 363-64, 366 stars in the sky as symbol of, 367 timeless relationship suggested by, 364, 365-66, 367 timing and, 365 worshipful feelings engendered by, 361-64 spoiled children, 61, 151, 348 spontaneity, sense of, 241 Stael, Madame de, 187-88, 343, 344 Stahl, Lesley, 450-51 Stalin, Joseph, 88-89, 108 Starkie, Walter, 22-23 Stars, 3, 119-30, 153 cinematic creation of, 124-25, 127 dangers to, 130 distinctive style of, 119, 122, 123, 125, 127, 128 dreamlike quality of, 1 1 9, 126, 127, 128 ethereality of, 119, 126-27 face of, 122, 123, 127, 128 Fetishistic, 121-23 glimpsed private life of, 128 identification with, 128-29 idol as symbol of, 129 inner distance of, 123, 125, 129 keys to, 126-29 Mythic, 123-26 as objects, 122, 127-28 obsessive attention to, 121, 122, 126,130 publicity and, 130 self-distance of, 122, 130 television and, 123-24, 125 Stendhal, 58, 170, 200, 217, 280-82, 284, 304, 371, 375-77 Stewart, Jimmy, 125, 129 "Story of the Butterfly, The," 298, 299 suffocators, anti-seductive, 134 Sukarno, Kusnasosro, 102, 221-23 Sukarno: AnAutobiography asToldto Cindy Adams { Adams), 222 Sun-tzu, 315 SuShou, 291 suspense, creation of, see calculated surprises suspicion, 289, 290, 441 sympathy, 53, 56, 59, 66, 285, 292, 293 Symposium, The (Plato), 74-76, 191, 206-7, 208 taboos, transgression of, 349-58 cruelty in, 349, 352, 353, 356-57 forest as symbol of, 358 going to extremes in, 349, 355, 358 incest in, 352-53 lost self recaptured by, 35 1-54 prohibited desires in, 352-53, 354-55 reduced outlets for, 354 reversal of, 358 secret sins in, 351, 352 sense of guilt in, 349, 355, 357 shared complicity in, 349, 352, 357 social limits in, 349, 353-55, 357, 358 value systems in, 349, 356 Tabouis, G. R., 399-401 Tale ofGenji, The (Murasaki), xxiv, 25, 61, 63-65, 140-41, 172, 269-71, 287 Tales from the Thousand and One Nights, 222-26, 244-47 466 • Index Talleyrand-Perigord, Prince Charles de, 38-39 Tanazaki, Junichiro, 356 Tantalus, 231 Tantrism, 410 Tarde, Gustave, 83 Tausk, Victor, 198, 199 tayus, 436 tears, 69, 70, 76, 78, 285, 291-92, 311, 373 television, 114, 115, 123-24, 125, 450-51 temptations, creation of, 229-38, 425 apple in Garden of Eden as symbol of, 237 barriers established in, 233-34, 236 challenges in, 236-37 deceptive appearances and, 234 forbidden fruit in, 231-34, 237, 244 future gains in, 235-36 opportunity in, 237 reversal of, 238 selective disclosure in, 14-15, 237 weakness as target in, 229, 234-37 That Obscure Object of Desire, 373 theatricality, xx, xxiii, 267-69, 421-23 of bold movers, 411-12 of Charismatics, 100 of environment, 431, 433-34, 436, 439 of Sirens, 7, 8, 9 spectacles in, 265, 267-69, 275, 301,447 Theosophical Society, 109 third parties, 273 in indirect approach, 177, 183 see also jealousy; triangles, creation of Thus Spake Zarathustra (Nietzsche), 46 Tiberius, Emperor of Rome, 317 tightwads, anti-seductive, 134-35 time, altered sense of, 431-39 Casanova's creation of, 435, 438-39 timidity, 410, 426 timing: of Charmers, 90-91, 92, 93 of Coquettes, 78 dramatic moments in, 435 of pain mixed with pleasure, 379 of re-seduction, 428 speed and youth in, 435 spiritual lures and, 365 Tito, Josef, 77 Todellas, Don Juan de (fict.), 231-34 Tragedy ofKingRichardlll, The (Shakespeare), 314, 316 transference, 335-36 triangles, creation of, 195-202 aura of desirability from, 195, 199-201, 202 contrasts in, 201-2 jealousy engendered by, 197-98 by politicians, 201-2 reputation in, 195, 200-201 reversal of, 202 rivalry stimulated by, 200 trophy as symbol of, 202 vanity and, 200, 201 Tristan and Isolde, 12, 190-92, 354-55, 357 troubadours, xx, 36-37, 291, 325, 331 Trouncer, Margaret, 187-88 Truman, Harry S., 99, 118, 123, 124, 128 Tsao Hsueh Chin, 270-72 Tsu Hsi, Empress Dowager, 267-69 Tullia d'Aragona, 12, 38, 40, 173, 182, 330-32 Tuperselai, 397-98 ukiyo ("floating world"), 435-37 ulterior motives, 21,142-43 unattainability, apparent, 192, 201, 321 "Uncanny, The" (Freud), 301-2 unconditional love, 336-37, 340 undefensive lovers, 57, 63-65 Valentino, Rudolph, 43-44, 52, 356-57 patient attentiveness of, 38, 43, 44, 50, 273-74 Valmont, Vicomte de (fict.), 25, 169-71, 287-89, 290, 407-9, 412 Valois, Mademoiselle de, 19-20 Vanderbilt, William, 396 vanity, 71, 74, 79, 81, 135, 171, 195, 199, 200, 210, 226, 235, 259, 314, 408-9, 426 victims, 147-60 Aging Babies, 156-57 Beauties, 156 Conquerors, 153-54 Crushed Stars, 152-53 Disappointed Dreamers, 150-51 Drama Queens, 155 Exotic Fetishists, 154-55 Floating Genders, 160 Idol Worshipers, 158 Lonely Leaders, 159 New Prudes, 151-52 Novices, 153 Pampered Royals, 151 Professors, 155-56 Reformed Rakes or Sirens, 150 Rescuers, 157 Roues, 157-58 Sensualists, 159 victims, choice of, 12, 40, 167-75 big game as symbol of, 174 deceptive appearances and, 173 evaluating responses in, 171-72 exciting tension in, 171, 173 imagination and, 172 leisure time in, 173 manly men as, 12, 172 missing qualities and, 171, 173-74 new types as, 170, 172 one's own type as, 149 personal reactions in, 167, 170, 171, 172, 290, 397 in politics, 174 repressed types as, 173-74 reversal of, 175 unhappiness and, 167, 172 vulnerability in, 170-71 victim strategy, 287-89, 292 Victoria, Queen of England, 51, 83-85, 143, 145, 210, 236, 274-75, 284 Vietnam War, 374-75 Villarceaux, Marquis de, 425-26 Virgin ofStamboul, The, 452-53 Viscontini, Countess Metilda, 377 Vivien, Renee, 317, 362-63 voices, 22-23, 34, 115, 259, 261, 268, 297, 351,395 of Sirens, 7, 9, 10, 13-14 Voltaire, 34 von Sternberg, Josef, 121-22, 373 vulgarians, anti-seductive, 135-36 Wadler, Joyce, 297 Wagner, Richard, 100 war heroes, 327-29, 446-48 Warhol, Andy, 33-34, 49, 52, 71-73, 78, 126, 128, 192 calculated surprise by, 248 Factory as environment of, 437-38 triangles created by, 200 Washington, George, 99 Wayne, John, 51, 125 Wayward Head and Head, The (Crebil- lon fils), 138-40, 402 weaknesses, disarming, 285-93 blemish as symbol of, 292 gender differences in, 291 genuine, 290 "honest" confessions of, 284, 285, 287-88, 289 of Naturals, 53, 56, 59 occasional glimpses of, 290, 291 pathetic vs., 290, 293 in playing the victim, 285, 287-89, 292 of politicians, 292 reversal of, 293 shyness as, 285, 290, 291 suspicion reduced by, 289, 290 sympathy evoked by, 285, 292, 293 tears as, 285, 291-92 of troubadours, 291 Weber, Max, 97-98, 106 Webster, Lady Frances, 352, 357 Wedekind, Franz, 46 Weekley, Ernest, 423-24 Welles, Orson, 313, 314 Wellington, Arthur Wellesley, Duke of, 188, 343-44 Welter, Blanca Rosa, see Christian, Linda Whitmer, Peter, 107 Wilde, Oscar, 49, 188, 189-90, 192, 193, 234 Williams, Tennessee, 72 Wilson, Harriette, 48-49 windbags, anti-seductive, 135, 145  withdrawal, strategic, 383-90, 418, 424 aggressive pursuit motivated by, 387, 389, 390 anxiety induced by, 388-89, 390, 391 doubts created by, 383, 389, 390 infantile experiences re-created by, 388-91 interest in another person as, 383, 387, 390, 392,419; see also triangles, creation of letter-writing in, 385-86, 387, 388, 389 pomegranate as symbol of, 391 reversal of, 392 role reversal engendered by, 391 selective, by Coquettes, 67, 70-71, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 390 sexless neutrality in, 389-90 subtlety in, 389 see also calculated absences WomanandPuppet{ Louys), 371-74 wonder children, Woolf, Virginia, 34 World War I, World War II, 86, 100, 114, 115, 217,253, 328 writing, 251, 254, 255-58, 288 guidelines for, 257-58 mirroring in, 257 in strategic withdrawal, 385-86, 387, 388, 389 Yang Kuei-Fei, 76, 174, 270, 272-73, 274 Zeus (Jupiter), xxiii, 9, 57, 58, 182-83, 256-58, 287-88 Zhou Enlai, 88-90, 93 In every corner of the world, on every subject under the sun. Penguin represents quality and variety-the very best in publishing today. For complete information about books available from Penguin-including Penguin Classics, Penguin Compass, and Puffins-and how to order them, write to us at the appropriate address below. Please note that for copyright reasons the selection of books varies from country to country. In the United States: Please write to Penguin Group (USA), P.O. Box 12289 Dept. B, Newark, New Jersey 07101-5289 or call 1-800-788-6262. In the United Kingdom: Please write to Dept. EP, Penguin Books Ltd, Bath Road, Harmondsworth, West Drayton, Middlesex UB7 ODA. In Canada: Please write to Penguin Books Canada Ltd, 10 Alcorn Avenue, Suite 300,Toronto, Ontario M4V 3B2. In Australia: Please write to Penguin Books Australia Ltd, P.O. Box 257, Ringwood, Victoria 3134. In New Zealand: Please write to Penguin Books (NZ) Ltd, Private Bag 102902, North Shore Mail Centre, Auckland 10. 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Keywords: seduzione, amore, desiderio, desiderio e seduzione; amore: desiderio e seduzione, ars amandi, ovidio, Grice, Multiplicity of being, aequi-vocality thesis, Pegasus, Bellerofonte, l’implicatura di Bellerofonte, possibilita, le categorie di Kant, puo essere, essere, piovera o no – Quine, ontologia – Grice, Pears, Metaphysics.Aristotle, what is actual is not also possible – the square of modalities – the nature of metaphysics. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bottiroli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bottoni – fototropismo in cabbages and kings -- de essential corporis humani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Grice: “Most Englishmen know of Bottoni because he is quoted by Burton in his “Anatomy of Melancholy,” re the imagination and reason – and how it affects melancholy.” “I call Bottoni a philosophical biologist – excretion (why?) – nutrition – surely nutrition – as part of birth – and growth – are essential requirements for a definition of ‘bios’ or life – and Bottoni knows that – as a philosopher. He studied philosophy and taught logic, like me. “De conservanda vita,” is more than a philosophy of life – it’s how the ‘essenza’ del ‘corpore dell’uomo’ is nutrition – and how the spiritus, and not just the anima, are involved. His model is functionalist, and Aristotelian, like mine!” – He also provides a philosophy of disease – which should make us wonder about whether we are endowed with a conceptual analysis of ‘health,’ a favourite term for Aristotle (‘healthy food,’ ‘healthy man,’ ‘healthy habit’). Uno dei grandi medici italiani del Rinascimento. La sua formazione avvenne nella città natale, dove si laureò in medicina e filosofia.  Dal 1555 divenne professore nell'Padova, dove insegnò in successione logica, medicina teorica straordinaria, medicina pratica e medicina teorica ordinaria. Introdusse l'uso del mercurio nella cura della sifilide. Fu rivale del medico padovano Ercole Sassonia, di cui tentò d'impedirne l'insegnamento.  I suoi contributi scientifici più importanti riguardano le funzioni dirette alla conservazione dell'individuo e della specie, quindi nutrizione, crescita e generazione, che definì tria suprema naturae munera.  Altre opere: “Della vita” “De vitta” “De vita conservanda, Padova, Iacobum Bozzam); De morbis mulieribus libri tres, Venezia, Paulum Meietum); Methodi medicinales duae, Francoforte); De modo discurrendi circa morbos, eosdemque curandi tractatos, Francoforte). Dizionario biografico degli italiani. Niuerfi corporis nostriesentiatribus potisfis mum perfici, Au&toreft Hip.Lib.depart: morbisuulg.contentis,nimirum continentibus nepartes omnes corporis nutriantur; immo eden dem subftantia panis incanefit. carocanis,fs= cut etiam in homine. Hoc autem nequaquam contingeret, nifi in u n o ecodem alimentomu mero delitescere nutrimentum simile omnibus dictispartibus) in diuerfis indiuidui sfpecie differentibus. Que igitur fit Nostri corporis t singularum partium essentia, ex quibus quotes qualibus conflatafit, explicareo portet. ) impetum facientibus, Quorum omniumuna o eadem eft effentia corporeaG substantia; distins guuntur folum prenestenuitaremecrasfstie, buiufe modi autem efemeia homini non ineftratione qua isiJA8.aph. homo vel animal aut planta, sed ratione qua mixtum, acproindecuilibetmixtogosina gulis cius partibus conuenit, ut ob i d Nutritioznis materia necà subftantia incorporea capienda fit, necà quolibeecorpore; fed folum àmixton Qua ratione fit, ut nullum c i e m e n t u m ratione: quá fimplex corpus eft, idoneum ad nutris 113 endumefe posfat, Nihil. niquodeft Complex, aprum Nullú natum est nutrire compositum; praeterea elementa fimp. Poteft mixtionis perfectione tumpænes corporis effens nutrire. Tiamtum complexionem.unum quodq;corpus maiorem eu minorem preparationem suscipit cumeafint corpora, quefummisqualitatibusprae Autrire dita funtLonge diftant,uiapra fine ad witam Jūscipiendam, fed faliusmixtionis causa, oris, tarinquolibetmixta difpofitioad aliquodeuis, Solum densuitæ genus, promaiori, etminori ad: Viræ gradum magis uelminus prestantem, Hon. Quod sanėincaufaeft, uthomoexcellentios remnitegraduimà deo bonorum omniumlars tiorem, gitore mixtione primooriuntur, paulomaioremaffinia Alimentatem nobif cum habere videntur. Quandoquis cum nódem ratione qua mixia sumt, triplicem illum partium mixtú.acceperit.Quia exAuic.senientiadonás uit il le meliorem temperaturam quam habeant caeteraomnia mundientia,Contra uerúelementa, quiamixtione adhuccarent, & fummis qualitatibus praedita funt, ideononsolumuita carent, fed tanquam corpora omnium impera fe&tisfima longa omnium diftant ab ipsauiça. Qua propter frustra quæriturex huiusmodicor poribusim perfectisfimis& uitae ineptisaliqua utritionis materia. Quæ uerò exclementorum et apti uir excellenuitzgradu obtineat parrium numerum obtinebunt, quibus diximus de fumi constitutam, efseuniuersammixtiefentiam, preterea ex precedente mixtione aliquam tempera- mixto. Turam consequeasunt, utego mixtionisratione, a qualitatumprimarumcomoderatione,minus ipfos elementis diftent à corpore nostro; Hec tamen prima elementorum mixtio adeo inperfecta eft, ut fufficiens minime fitper nutris tione facienda; Quia hac ratione quodlibet mixtum nutritioni idoneum forei', &t) uitæ cons feruationi,unde homoæq; nutririposset,ex las pidibuset metalis ficut ex pane et vino hoc samencum sensui repugnet, neccesario fequitur, preterpropofitam conuenientiamсex quo libct>mis latam ripaulo angustior existens, noftræ etiam mixtioamplam aliam requiri,queprio nifiemagispropinqua,hacautem qualisele debeat, naturae modus mixtionissutricns tise nutritideclarant:Nam quodnutriturumQuale eft, non folum mixtum utfitoportet,cuiusmos fitaprú disuntetiamlapidese mettalla,fedtalemnutri miscibilium commensurarionem haberedebet, qua lisrequiritur, esaptumfitsertiin fubftantiam nutriti, At quod nutriturnon folum corpus eft, non folum corpus mixtum, uerum etiam uita præditum, ergo quod est nutriturum, cum n uut pote nia tionis; tritosimileefedebeat,eammixtionem acmi scibilium mensuram habere opus eft,ut in sub ftantiamcorporisuertipossit,& iliusuitam conseruare: Cuius mixtionis defe tu lapides e metalla, ficut ad nullam vitaegradummanife ftumpreparatafuere, itanecuitam noftramtueri, aliquomodopoterunt, Quandoquidem in sui generatione longe aliam mixtionis rationem obtinuere,quam Viuentis corporis nutritia cxpos ftulets Alimentum de fumen. There are various types of tropisms in both cabbages and kings: photo-tropism, tropism to the touch, geo-tropism, or gravito-tropism, hydrotropism. Albertini Bottoni. Albertinus Bottonnus. Albertinus Bottoni. Albertino Bottoni. Keywords: de essentia corporis humani, vita, filosofia della vita, Grice on body and mind in ‘Personal identity’ – body, corpus Christi – corpus umano, corpus viris – essential corporis humani, l’essenza del corpo umano, corpo dell’uomo, corpo virile, corpo animato, corpo, fisica mecanica, moto del corpo, corpo, animazione, credenza che i vegetali non sono animale per che il moto non e volontario ma condizionato – fototropismo --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bottoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Boulagora – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Boulagora was a Pythagorean, and the fourth leader of the sect. He succeeded Mnesarco, the son of Pythagora, and was in turn succeeded by Gartida di Crotona. It was during the leadership of Boulagora that the Pythagoreans were expelled from Crotona.

 

Grice e Bouto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), he was a Pythagoean.

 

Grice e Bovio – il linguaggio – l’animale parlante – homo symbolicus – un tono, una figura -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trani). Filosofo italiano. Grice: “You’ve got to love Bovio; he has a stamp, I don’t. My favourite is his piece on ‘linguaggio,’ on the implicature (plural of implicatura) of the ‘animale parlante’ – ‘un tono, una figura, …’ – But he also philosophissed fascinatingly on ‘La lotta,’ which is a bit like my model of conversation as a competitive game.” politico italiano, sistematizzatore dell'ideologia repubblicana e deputato al Parlamento del Regno d'Italia.   La casa natale di Giovanni Bovio a Trani Giovanni Scipione Bovio nasce a Trani da Nicola Bovio di Altamura, impiegato, e Chiara Pasquini.  Autodidatta, pubblica Il Verbo Novello, un poema filosofico scritto con intonazione enfatica. Fra i suoi scritti si ricordano la Filosofia del diritto, il Sommario della storia del diritto in Italia, il Genio, gli Scritti filosofici e politici, la Dottrina dei partiti in Europa, i Discorsi. Sotto il Ministero Minghetti, ottenne il pareggiamento della cattedra di Storia del Diritto all'Napoli e, consegui la libera docenza in Filosofia del diritto.  Bovio fu anche deputato alla Camera: nel 1876, con il subentrare della Sinistra costituzionale alla Destra, fu eletto nel collegio di Minervino Murge. Il suo atteggiamento, diversamente da quello dei suoi compagni che condividevano l'idea repubblicana, non fu incline all'astensionismo.  Nel 1880 Bovio sposò a Napoli Bianca Nicosia dalla quale ebbe due figli, Corso Bovio, così chiamato in onore agli italiani di Corsica sottomessi al dominio francese e Libero Bovio, poeta ed autore dei testi di molte celebri canzoni napoletane. Libero Bovio, a sua volta, fu il nonno dell'avvocato, giornalista e docente Libero Corso Bovio. Napoli fu la sua città di adozione, dove morì. La città gli ha dedicato una piazza, che i napoletani continuano però a chiamare con l'antico nome di Piazza Borsa. La città di Firenze gli ha dedicato una strada. La città di Piombino gli ha intitolato la piazza sul mare più grande d'Europa, Piazza Bovio. La città di Teramo gli ha intitolato un importante viale. La città di Terni gli ha intitolato un intero quartiere che comprende tutta la zona est chiamato, appunto, Borgo Bovio.  «(Napoli) In questa casa morì povero e incontaminato Giovanni Bovio che meditando con animo libero l'Infinito e consacrando le ragioni dei popoli in pagine adamantine ravvivò d'alta luce il pensiero italico e precorse veggente la nuova età.»  (Epigrafe di Mario Rapisardi) Il pensiero Targa in memoria di Bovio nella piazza di Napoli a lui dedicata  Passo Corese: targa, con testo attribuito a Giovanni Bovio, dedicata a Garibaldi Giovanni Bovio era sostanzialmente contrario alla monarchia. Come ideologo repubblicano, Bovio ebbe il motto "definirsi o sparire": palesò insomma ai repubblicani l'esigenza urgente di un'impostazione non confusa e non settaria, di una chiara direzione che spinse poi i repubblicani a definirsi in partito di moderno tenore.  Bovio stabilì per il Partito repubblicano nessi e prospettive nazionali ed europee.  Egli considera la monarchia come l'attuale realtà italiana. Ne segue che la repubblica è utopia, e Bovio si dichiara utopista. Nel suo pensiero la monarchia cadrà, proprio quando dovrà risolvere il problema della libertà. Serve comunque un lungo periodo perché la situazione monarchica si deteriori. Colma evidentemente di determinismo, la sua filosofia si definiva come naturalismo matematico.  Differentemente dalla teoria socialista, Bovio riteneva che il nuovo Stato a venire avrebbe avuto una "forma storica", non potendo dimensionarsi unicamente sulla base di azioni economiche. Bovio introduceva dunque una concezione formale dello Stato, che si sforzò di divulgare anche presso i ceti operai.  Fu molto considerato anche a Matera dove non si dimenticava peraltro che nella locale "scuola detta regia, fondata da Bernardo Tanucci, libero pensatore dei tempi suoi, quando era libertà contrastare alle pretensioni papali, fu insegnante di letteratura e di diritto Francesco Bovio, il quale intese queste dottrine nella libertà e per la libertà. Quell'insegnamento fu seme fecondo, e dalla sua scuola venne fuori la nobile schiera dei martiri, i cui militi rispondono ai nomi di Giovanni Firrao, Giambattista Torricelli, Fabio Mazzei, Liborio Cufaro, Antonio Lena-Santoro, Gennaro Passarelli, Marco Malvinni-Malvezzi". Nel 1904, a circa un anno dalla sua morte, nella "giornata più adatta" come "il fatidico XX Settembre", gli intellettuali laici materani con la loro associazione "G.B. Torricelli" tennero una solenne commemorazione "per pagare un tributo di affetto e di riverenza al Grande, che ci fu Maestro e ci amò di quell'amore di cui sono capaci soltanto gli educatori come Lui" dice un oratore. E un secondo aggiunge che "la titanica figura di quell'illustre profeticamente ci addita il sole dell'avvenire", per cui il tributo di affetto al suo carattere fiero ed onesto è tanto più doveroso "in questi tempi borgiani". Un terzo oratore, rivolgendosi al sindaco Raffaele Sarra, e nel consegnargli la lapide, lo invita ad additare "quel nome a questi onesti operai per indirizzarli sulla via della dea ragione, scuotendo così il giogo dell'oscurantismo e della superstizione, che li avvince e li abbruttisce". Promessa che il sindaco Raffaele Sarra non esita a fare, ritenendo quel marmo "un severo monito all'indirizzo di tutti coloro i quali nulla fecero e tuttora nulla fanno per strappare la nostra plebe dalla miseria, dalla ignoranza, dalla superstizione, dall'abbruttimento secolare". Per la precisione, la lapide commemorativa, scoperta quel giorno sulla facciata del palazzo di giustizia, sarà tolta negli anni '30 per iniziativa della sezione fascista (e gli incauti scalpellatori si riferiranno nell'operazione).  Bovio ebbe comunque anche l'esigenza di definirsi rispetto agli anarchici. La forma repubblicana, scrisse, è a metà strada fra la monarchia e l'anarchia, vale a dire fra l'ipertrofia dello Stato e la sua totale anarchica abolizione. Non a caso, quando l'anarchico Gaetano Bresci compì l'attentato contro Umberto I, Bovio invitò tutti gli anarchici a desistere dalla violenza. In sostanza, un'esagerazione utopistica tradotta in atti sanguinari (l'opera degli anarchici) avrebbe prodotto un rafforzamento reattivo dell'autorità costituita, allontanando proprio il momento dell'avvento della repubblica. Troviamo in lui un tentativo di superare l'idealismo della metafisica idealistica e insieme con essa l'approccio empirico del positivismo. Fondamentalmente Bovio introdusse in Italia l'eco delle nuove correnti speculative nella filosofia del diritto.  «Giovanni Bovio — cittadino di spartana austerità — fra il mercimonio affannoso dei politicanti — pensatore solitario — fra lo strepito di cozzanti dottrine — artefice possente di stile — fra la pretenziosa nullaggine dei parolai — traversò impavido — le torbide correnti del secolo — e ne uscì puro a fronte alta — con l'animo illuminato — dalla fede confortevole — nell'ascensione perpetua del pensiero umano.»  (Epigrafe di Mario Rapisardi) Bovio e la massoneria Bovio fu un membro eminente della massoneria(raggiunse il 33º ed ultimo grado del Rito scozzese antico ed accettato), così come lo erano i suoi familiari (suo padre Nicola, suo zio Scipione e suo nonno Francesco Bovio). Iniziato nella Loggia Caprera di Trani nel 1863, il 17 giugno del 1865 Giovanni Bovio ne divenne oratore. Su invito della massoneria milanese, tenne a Milano la commemorazione del centenario della morte di Voltaire.  Nel maggio 1882 fu nominato membro del Grande Oriente d'Italia, di cui presiedette la Costituente del 1887. Eletto grande oratore, e restò in carica fino alla Costituente. In Campo dei Fiori a Roma, fu l'oratore ufficiale per l'inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, voluto dalla massoneria romana ed eseguito da Ettore Ferrari, che sarà gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Gran Maestro della Loggia Napoletana, nel 1896 fu candidato all'elezione di Gran Maestro nazionale.  L'8 giugno 1896, in un'interpellanza rivolta al presidente del consiglio e ministro dell'interno marchese di Rudinì a proposito dei provvedimenti che aveva annunciato contro la massoneria, Bovio disse «La massoneria è un'istituzione universale quanto l'Umanità ed antica quanto la memoria. Essa ha le sue primavere periodiche, perché da una parte custodisce le tradizioni ed il rito che la legano ai secoli, dall'altra si mette all'avanguardia di ogni pensiero e cammina con la giovinezza del mondo»  Il centenario della Rivoluzione di Altamura  Celebrazioni per il primo centenario della Rivoluzione di Altamura (con Giovanni Bovio) Giovanni Bovio partecipò alle celebrazioni del centenario della Rivoluzione di Altamura (nell'anno 1899), durante il quale fu eretto un monumento sulla piazza centrale di Altamura, che ancora oggi è presente e che fu realizzato da Arnaldo Zocchi. Il padre di Giovanni Bovio, Nicola Bovio, era di Altamura, così come lo era suo nonno Francesco Bovio, il quale insegnò diritto presso l'Università degli Studi di Altamura.  Nel suo discorso, Giovanni Bovio esaltò lo spirito degli altamurani e affermò che il concetto di libertà era stato sempre vivo nei loro cuori. Anche grazie al fervore di idee dell'antica Altamura, dotti, nobili e plebei altamurani si erano uniti tutti sotto l'idea di libertà ed erano pronti a sacrificare le loro ricchezze, i loro titoli e persino la loro vita per la libertà.  Antenati e discendenti di Giovanni Bovio Francesco Maria Bovio )nonno di Giovanni Bovioprofessore di diritto e lettere presso le Regie Scuole di Matera e l'antica Università degli Studi di Altamura. Fu anche "giudice interino di pace" e massone iscritto alla loggia "Oriente di Altamura". Difese inoltre la Repubblica Napoletana, prendendo parte alla Rivoluzione di Altamura Nicola Boviopadre di Giovanni Boviocarbonaro (iscritto alla vendita "il Pellicano" di Trani) Scipione Boviozio di Giovanni Boviocarbonaro (iscritto alla vendita "il Pellicano" di Trani) Corso Boviofiglio di Giovanni Bovio- avvocato del foro di Napoli e successivamente docente Diritto Penale Milano Libero Bovio figlio di Giovanni Boviopoeta e musicista Giovanni Bovio nipote di Giovanni Bovioavvocato del foro di Milano  Libero Corso Bovio pronipote di Giovanni Bovioavvocato, giornalista e docente Note  Matera contemporaneaCultura e società, Leonardo Sacco, Basilicata editrice  Alfonso Scirocco, BOVIO, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani,  13, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Gran Loggia. Massoneria e i suoi trecento anni di modernità, una mostra ricorda i massoni protagonisti del NovecentoGrande Oriente d'ItaliaSito Ufficiale, su Grande Oriente d'Italia).  Ferdinando Cordova, Massoneria e Politica in Italia, Carte Scoperte, Milano Biografia di Giovanni Bovio (con video GOI radio), su montesion Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma,  Copia archiviata, su comunedipignataro. Morto l'avvocato Bovio, "principe" della difesa, in La Stampa, Giovanni Bovio, Teatro morale dogmatico-istorico, dottrinale e predicabile, Roma, nella stamparia di Giorgio Placho presso a San Marco, Giovanni Bovio, Teatro morale dogmatico-istorico, dottrinale e predicabile. Tomo secondo, In Roma, per Filippo Zenobj stampatore, e intagliatore di n.s. Clemente XII, incontro il Seminario Romano, Repubblicanesimo Partito Repubblicano Italiano Piazza Giovanni Bovio (Napoli) Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Opere di Giovanni Bovio, su Liber Liber.  Opere di Giovanni Bovio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni Bovio,.  Giovanni Bovio, su storia.camera, Camera dei deputati.  Armando Carlini, BOVIO, Giovanni, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, giovanni-bovio. Alfonso Scirocco, BOVIO, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani,  13, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1971.Filosofia Politica  Politica Categorie: Deputati della XIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIV legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XV legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XVI legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XVII legislatura del Regno d'Italia Deputati della XVIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIX legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XX legislatura del Regno d'Italia Deputati della XXI legislatura del Regno d'ItaliaFilosofi italiani del XIX secoloPolitici italiani Professore Trani Napoli Repubblicanesimo Massoni Mazziniani Politici dell'Estrema sinistra storica Politici del Partito Repubblicano Italiano Studiosi di diritto penale del XIX secolo. Roma Utopista non è chi sogna, m a chi pensa, e tanto più profonda è l'Utopia quanto più il pensiero coglie la relatività dei tempi. Greca è dunque l'origine della utopia é utopista tipico fu Socrate che osó primo al costume civico contrapporre la missione individuale:– Io Socrate sono nato a liberamente filosofare e se cento volte per que sto iofossi morto e rinascessi, tornerei a filosofare. Non pena dun que mi è dovuta, ma il Pritaneo. Questo tentativo di ribellione dell'individuo contro il cittadino,del l'individuo che osa pigliarsi un mandato individuale che non solo valga il mandato civile m a ardisca riformare il costume, questo è punito e, in quella natura di tempi,era veramente crimine di Stato.Socrate anch'esso,come atterrito dal colpo ch'ei tira,sente che al cittadino è dovuta l'espiazione individuale, e rifiuta ausilio, e si apparecchia all'immolazione di sè non pure perché sente compiuta la sua mis sione e non gli piace vivere superstite a se medesimo, ma perchè vuole grecamente spirare:dum patriae legibus obsequimur.Che è quel l'ultimo pensiero del Gallo,che, rimossoillenzuolodalviso,eivuole sacrificato ad Esculapio? Vuol finire sul letto del carcere come fosse alle Termopili, e vuol morire con religione e costume attico come a punizione di alto trascorso individuale. L'individuo fu Socrate fi losofo; il moribondo è l'atenieserassegnato: ma il piùgrandeèque sto, che proprio questo ateniese punisce quell'individuo e non gli dà scampo. Pericle non potè salvare Anassagora; Socrate non vuole sal vare se stesso. Quando gli Dei patrii percossi dalla riflessione socratica supina rono sull'Olimpo muto, Epicuro sorridendo gitto sopra di loro un gran panno funereo e si rallegrò coll'uomo liberato dai divini terrori. Però quel panno che Epicuro gittava sull'Olimpo copriva tutta la Grecia; giacché quel panno che soffocava la lotta semi-divina era indizio della missione greca già finita. Perciò Epicuro la scia i giar dini greci, le dolcezze e i profumi arcadici, e se ne viene nel Foro romano, e siede e sentenzia e giudica e genera di sè due uomini diversissimi, Orazio e Lucrezio, o da Orazio poi il tipo di Munazio Planco e da Lucrezio quello di Papiniano. Sono troppe cose che io dico insieme, delle quali molte non dette ancora e nondimeno prova bili non pure con la forma del discorso,ma col testimonio dei fatti, Cicerone, vedendo Epicuro alle porte di Roma, cerca fulminarlo col medesimo effetto onde Pio IX fulminava il soldato italiano ve nuto innanzi a porta Pia.Erano saette sine ictu.Epicuro sorride dei fulmini di Cicerone come di quelli del Giove greco ed entra in Roma e prende Cicerone per mano e segretamente sel fa suo. Ma, appena entrato in Roma, Epicuro prende la natura del Giano latino, si fa bifronte, ed una sua faccia è quella di Orazio, l'altra di Lucrezio. Or come avviene codesto miracolo? Miracolo no:è la dialet tica del sistema epicureo che ha questi due lati. L'uno dice cosi: La vita è brede; di là non si continua; dunque godiamola di pre sente.La morte ci colga quando possiamo gittarle infaccia la scorsa del pomo della voluttà, tutto premuto. L'altro dice cosi: La vita è breve; di là non si continua; osiamo dunque eternarla con un'opera degna della immortalità della fama. Perchè tentare la turpitudine se nel punto di asseguirla la morte può spegnermi? Ecco le due fronti di Epicuro, che sulla porta di R o m a assume forma gianesca. L'una è di Orazio: Vitae summa brevis nos detat spem inchoare longam. Di lá non v'è vita: Non regna vini sortiere talis. La conseguenza ch'ei porge all'anima tua è sempre una: Carpe diem quam minimum credula postero. Questa illazione può signifi carsi con un grugnito del porco epicureo. L'altra è di Lucrezio: Omnia migrant, Omnia commutat natura et dertere cogit. Dalla quale migrazione eterna dell'essere deriva il summum crede nefas. Importa sol consegnare integra la lampa della vita alle generazioni sopravvenienti. Da Orazio nasce Munazio Planco, prima Cesariano, poi Pompeiano, poi repubblicano, poi di Antonio e di Cleopatra, poi cortigiano di Augusto e sprezzato da tutti: tipo del galantuomo di Guicciardini; e fini nella sua villa di Tivoli come Guicciardini nella solitudine di Arcetri. Da Lucrezio nasce il tipo del giureconsulto, Papiniano, che intese il dritto come bonum aequum, e non volle in Senato difendere un imperatore fratricida e piuttosto che l'onore volle lasciare la vita. Morendo,come avea sentenziato,provvide all'immortalità della fama. Cosi abbiamo dalla medesima scuola il porcus de grege Epicuri, c de acie Epicuri miles. N è questo doppio tipo fu smarrito nel p e riodo del risorgimento, quando dopo la scolastica platonica e aristo telica si riaffacció l'epicureismo: dall'una parte si ebbe il Pontano cantore della voluttà, dall'altra il Cavalcante cercatore austero, tra i sepolcri, della immortalità della fama. Da Epicuro il mondo romano prende il senso della positività, ed è però mondo di prosa non di arte, con missione giuridica, con lingua giuridica, con monumenti, storia, tradizioni giuridiche. La Grecia ci ha tramandato due insuperabili documenti, la tragedia epica e la tragedia filosofica, l'Iliade e il Fedone; Roma il Corpus juris, con due potenti compagni, l'epigrafe e il responso. Quanto all'epigrafe, specie sintetica di letteratura, nessun altro popolo nė lingua ha il quarto della maestà e rapidità dell'epigrafe latina, nata rebus agendis. Onde nazioni nordiche e neolatine e transatlantiche pigliano ancora, e avverrà per lungo tempo, da Roma antica l'epigrafe e il responso. E la più bella dell'epigrafi ha contenuto epicurco e giuridico: « Et creditis esse Deos?» la tomba negata a Catone e a Pompeo è superbamente data ad un mimo! Se gli Dei sono ingiusti, gli Dei non sono. E le epigrafi più solenni nascondono certa finezza d'ironia epicurea nel senso giuridico. L'epigrafe latina è solenne, perché è breve come il responso. Questa rapidità di percezione è dalla lingua istessa giuridica per eccellenza, imperativa e, se m'è lecito a dire, dittatoria: onde l'epigrafe è quasi sempre responsiva cioè di senso giuridico,e il responso è sempre epigrafico. Ed in Roma e possibile il tipo del giureconsulto, dell'uomo cioè che ha l'intera percezione del dritto, rapidamente e propriamente la significa e sa comandarla a sè stesso prima che agli altri. È tipo raro, tutto assorbito dalla meditazione etica, che traduce nella parola e nel fatto. Roma n'ebbe pochissimi e assai più pochi ne fiorirono in tempi posteriori. E quando oggi odo chiamare giureconsulti alcuni legisti meno che mediocri dico che o le parole non s'intendono o sono stravolte dall'adulazione. Quando la lingua latina canta di amore a me pare, senza esagerazione, udire il Ciclope favellare a Galatea. Non è qui la sua forza, la sua missione, il suo contenuto storico. Dica rapidamente il dritto, dica il fatto. Il responso e l'epigrafe, questo è il gran contenuto della letteratura latina, questo è suo proprio, è originale, è collatino, oso  ied « Quid quid praecifus, esto brevis, ut cito dicta Percipiant animi) dire: il rimanente é preso di qua o là e porta il mantello peregrino. Ed ha tre uomini sommi, Lucrezio, Papiniano e Tacito. Lucrezio non ha cantato un poema, nè si dà al mondo poema didascalico, ma ha dato l'esposizione epicurea della natura, la cui Venus non viene da Milo ma dal Foro e può somigliare ad Astrea. Papiniano ha dato il più alto responso, nel quale è la sintesi della missione latina e lo ha suggellato, come dovea, con la morte. L'olocausto di Socrate ci mandò la tragedia filosofica che è greca. L’olocausto di Papiniano citramanda la tragedia giuridica che è latina. Perchè dopo il Nerone e la Messalina non cantare anche questa che è più solenne? La storia di Tacito suona sulle rovine imminenti dello stato latino come la serventesi dell'ultimo degli albigesi. Tacito è fosco come la sera nebbiosadiuna grande giornata; è riflessivo come chirasenta le rovine; è triste come chi cerca una virtù ch'ei sa di non trovare. Perciò ei ritrae Tiberio assai meglio che Tiziano non ritragga Filippo II, ma dove pinge la virtù non è pittore molto ispirato. E grande col pen nello onde lo Spinelli ritraeva Satana. Ma se gli dai la tavolozza di Raffaello ei te l’annacqua. Lucrezio, Papiniano e Tacito sono tre che si somigliano nella forma di concepire e nella rapidità scolpita della espressione. Tacito, che. segna la decadenza e lavora come il Sisifo di Lucrezio, qui semper victus tristisque recedit, spesso ti accusa la maniera e quando è breve, quando è corto; ma è l'ultimo de' grandi romani. Chi cerca la grandezza del pensiero latino fuori di questi, e vuol trovarlo o nei la menti di Properzio e di Ovidio, o nel citiso di Virgilio e nelle primavere di Orazio, o pescarlo nel bicchiere di Catullo, o spiccarlo dagli orli della toga di Cicerone è come chi cercando l'anima del trecento,invece di volgersi a Dante e a Boccaccio, la spia negli occhi estatici di Caterina da Siena o nel cipiglio di Passavanti. In questo teatro giuridico, che è il mondo latino, ilcontenuto della lotta si trasforma e di semidivino diviene pienamente umano. Qui non han luogo cause per divinità. Qui Lucrezio può vuotare il Pantheon che accoglie indifferentemente tutti gl'Iddii per vederli indifferentemente sfatare dal sistematore della Natura. Lucrezio morrà non per accusa di Melito, di Anito, di Licone; ma morrá se gli piace, di sua mano, se il destino dell'uomo gli parrà troppo somigliante a quello di Sisifo. Allora la Venus genutrix gli si muterà in Venere Libitina, ed egli userà della vita secondo quello che gli parrå suo diritto. Io non credo all'aconito; credo suicida Lucrezio, e questo suicidio proprio di forma romana, come quello di Catone, cioè per  ius necis etiam in se. Questa lotta umana, iniziata non compita in Roma, questa che è tutta e sempre lotta civile dal ritiro della plebe sull'Aventino sino ad Augusto, qui omnium munia in se trahere coepit; questa epopea tutta latina non trovabile in Virgilio ma un frammento Ciò significa: Il mondo greco, cominciato religiosamente, finisce nella irreligione di Epicuro; il mondo romano pieno della dotta ir religione di Epicuro, finisce nel mistero cristiano. Come sia avvenuto questo fenomeno chiariremo nella nostra lezione intorno a Cristo. Questo vien chiaro di presente, che ilcontenuto giuridico in Roma non può porgersi come ius civile abstractum, ma come primo sentimento di equità, onde sigenera il Pretore, istituzione profondamente etica, ignota anche questa alla Grecia, e urbano e peregrino, e il cui fine è sempre l'aequitas, affinchè il summum ius, non diventasse summa iniuria o summa malitia. Quindi il placito del giureconsulto nella costituzione delle leggi. In rebus novis constituendis coidens esse de bet utilitas, ne animus recedat ab eo jure, quod diu AEQUUM visum est (Fideicom L. IV.). Chiaro è che l'equità costituisca la misura del dritto; che questa equità lungamente saggiata, traducendosi in dritto, genera l'utile sincero; e che questo utile debba essere evidente ai popoli nella costituzione delle leggi. Quindi l'iniquum erat injuria. Quindi l'aequitas appo i latini non è il concetto volgare che ci viene da Ugone Grozio, è l'assoluta, continua, ascendente correzione del dritto civile, cioè del dritto greco; e però cosi coloro che veggono pura medesimezza del dritto greco e romano, quanto quegli altri che continuano a favoleggiare intorno alla origine greca delle XII tavole mostrano ignorare la differenza delle due storie, dei due popoli, delle due lotte, delle due civiltà. E iltesto canta chiaro. Ius praetorium adiuvandi, del supplendi, vel CORRIGENDI iuris civilis gratia est introductum,propter utilitatem pubblicam. Che è quel ius civile bisognoso di correzione? È quello appunto che in Roma  patriziato il tribuno per una certa equa partizione di cose e di ufficii, e genero, ignoto alla Grecia. L'altro tra l'individuo per una certa equa emancipazione ignoto alla Grecia. dell'individuo il rimanente in Tacito, ha due periodi principali: l'uno tra plebe e e la comunanza, e genera Spartaco, Livio e La plebe fu vendicata da Mario e più da Cesare che se oppresso il tribuno era segno che non v'era più patriziato sovrano ed operoso. Spartaco, sopraffatto da Crasso e da Pompeo e morto nella pienezza della sua protesta, trova poco dopo più grande vendicatore, Cristo.   comincia a parere summa injuria, la cui correzione costituisce l'istituto pretorio, che è tutto romano, il cui programma si assomma nella sentenza. Placuit in omnibus rebus praecipuam csse iustitiae ac AEQUITATIS quam stricti juris rationem.Quello stretto dritto è greco, è puramente civile, è quiritario, è aristocratico, e trasmoda nell'ingiuria, o per violenza o per malizia, aut vi, aut fraude. Quell'acquitas è la correzione pretoria, è la grandezza dello spirito latino, che tutto si manifesta e dimora nella giustizia pretoria e urbana e peregrina. E quell'aequitas deriva dalla lotta umana, cosi della plebe contro il patriziato come del servo contro il padrone. Il ius civile e il risultamento della lotta semi-divina. L’aequitas è il prodotto della lotta civile. Quella è greca, questa è latina. Quella ha il suo fastigio storico da Socrate ad Epicuro, questa da Mario a Spartaco. Quella è lotta filosofica, questa è giuridica. I canoni di Epicuro sono l'orazione funebre all'Olimpo e però alla Grecia, la protesta di Spartaco è il requiem al superbo ciris romanus. Insomma la gloria storica di Roma non è il dittatore, nè il console, nè il senato, nè il questore, né l'imperatore, e nemmeno il tribune; è ilPretore. Il suo editto è la sintesi dei responsi; lo spirito dei responsi è l'equità. L’equità è il prodotto della lotta umana. Questa lotta è ilcontenuto della civiltà latina. Con questo spirito di equità torna agevole a Tacito descrivere il tiranno, scolpirlo. Volere parendo di rifiutare, comandare parendo di subire, far tutto parendo di non fare, questo è il tipo del tiranno, questo è il Tiberio di Tacito, rispetto al quale gli altri tiranni venuti di poi sono volgari, ubriachi, troppo scoperti e però troppo espo sti ad essere tiranneggiati. Tipico è questo Tiberio in Tacito, come Aiace in Omero, come Ugolino in Dante, come in Otello in Sakespeare, e non patiscono ritoccamenti di nessuna mano: chi si attenta a ri farli, sotto qualunque altra forma, disfà. E in Roma fu possibile il ritratto del tiranno, il pittore di Tiberio, perchè in Roma fu possibile il sentimento dell'equità, non astratto, ma tradotto in ragione pretoria.Ne Riccardo III, nè Arrigo VIII, nè Filippo II, nè Alessandro VI o Paolo IV ritrassero Tiberio. Vollero troppo, si chiarirono troppo, furono troppo tiranneggiati. Ma il tipo, spento individualmente, risorse collettivamente nella Compagnia di Gesù, che per 333 anni dilargò l'oligarchia nera sulla terra, parendo di non volere, di non comandare, di non fare. Ma e il gesuitesimo tiberiano, e il cesarismo gesuitico non possono essere tanto chiusi che il pensiero e la natura non v'entrino. Fu però equità piena, sincera, spiegata questa di Roma, siche la si trovi tutta adempita nella ragione pretoria? La lotta umana di Roma diede per risultamento il dritto umano? In somma il dritto romano si continua a studiare, a chiosare, ogni giorno in ogni parte civile della terra, perchè effettualmente è l'ultima parola del dritto? L 'aequitas in omnibus spectanda, quando non voglia essere un nome ma cosa, non un presentimento ma una idea, non in somma una esigenza ma un adempimento, bisogna che si manifesti come connessione ed equazione dei contrarii, ciod del genere coll'individuo, del cittadino con la persona, affinchè ne risulti l'interezza dell'uomo. Ora questa equazione torna possibile quando l'individuo si sia affer nato e contrapposto al cittadino e abbia avuto nella storia tanto va La cosa sta in questi termini: L'equitàs cientificamente intesa spetta: all'avvenire, che sarà la sintesi del cittadino coll individuo per costruire tutto l'uomo: l'equità latinamente intesa fu il transito dal cittadino all'individuo per costruire l'individuo. Il transito non è la sintesi, è il semplice avviamento dall'uno al l'altro dei contrarii, dall'azione alla reazione, dal bianco al nero, m a non è il cenerognolo in cui l'uno e l'altro si fondono. Fu larva dunque di equità: e non dimento anche come larva quel dritto è rimasto solenne, tipico nella storia, come presentimento di quello che il dritto è destinato ad essere. Dunque nella storia il mondo romano è l'esodo, il passaggio dal cittadino greco all'individuo germanico. E in questo transito dall'uno all'altro dei contrarii consiste, chi  30 -. ME  evoluzione quanta il cittadino se ne prese. Senza que stazione e reazione, o, come altrove dicono, senza questa tesi e antitesi nessun'armonia finale e completiva,nessuna sintesi piena e d u revole, Nessun equilibrio, nessuna equazione in somma è effettualmente possibile: e se l'equità non è questa equazione, è ancora un sentimento vuoto.Se ne deduce che Roma non poteva ancora nė ideare nè porgere la vera equità giuridica, perché l'individuo non avea compiuto la sua reazione storica, non avea dato tutti gl'istituti che dovevano nascere di sé, dalla sua antitesi o contrapposizione al cittadino. Dove s'era fatta la storia dell'individuo, l'autobiografia, per ché il Pretore potesse consapevole contemperare i contrarii, connetterli, equilibrarli? Vedesi dunque che questa equità è l'avvenire della storia non il passato; spetta alla giornata travagliosa dei posteri non alla lotta civile di Roma.Or dunque è stata spuma d'acqua sonante l'equità romana? Troppo sarebbe stato il rumore! consideri, l'universalità dell'impero latino. Il quale perde la sua ragione di durare quando Cristo compie l'emancipazione individuale. Ragioniamo brevemente di Cristo. Abbiamo nel nostro linguaggio certe parole fulminatorie che vogliono significare una gran fede e tradiscono l'ipocrisia di chi le dice; vogliono atterrire e producono invece l'impressione comica delle scomuniche di un certo vescovo provenzale sull'animo di Guglielmo IX, duca di Aquitania e conte di Poitiers.  questa, dopo la rinascenza, dettò a Galileo la riduzione delle leggi della mente e della natura sulla pietra Lavagna; anche oggi questa imponeva al Ferrari la riduzione de' periodi storici nel numero; e sempre questa tornerà dopo le brevi soste o deviazioni del nostro genio. Anche nella politica noi vogliamo misurato il nostro passo, e perd la nostra prudenza di governo e di popolo fu compendiata felicemente non nel cunctari nè nel festinare, ma in quel festina lente, che è la sintesi più mirabile e perfetta del nostro carattere. Non è già che ad ora destinata non abbiamo le rivoluzioni noi come gli altri popoli, m a i tremiti e le oscillazioni non le vogliamo, nè vogliamo rifare il passo. A rovinare i pensatori alquanto più arditi sino al 1860 avevamo tre terribili parole graduali: protestantismo, panteismo, materialismo. Oggi sono tre fulmini senza cuspide,   e a sprofondare gli scrittori di parte avversa, abbiamo sostituito a quelle tre altre parole terrifiche con la stessa sacramentale gradazione: repubblicanismo, socialismo, internazionalismo. Quelle tre prime parole suonavano una scomunica canonica, le seconde una scomunica politica. Ma nessun furore biblico traspare dalla faccia rubiconda di chi fulmina le prime o le seconde. Si voleva sino al 1859 perdere uno scrittore, un libro, anche un'opera d'arte? Una parola ba stava: è panteista! Il libro era proibito, l'autore sottoposto ad una o a più delle sette polizie, e il critico con quella sola parola acquistava autorità e dispensa da ogni altra confutazione. Oggi no: piùche I beni spirituali della celeste Gerusalemme si ha paura di perdere le palpabili dolcezze della Babilonia terrestre, ed a scomunicare un uomo, una dottrina, un pensiero, si grida la parola socialismo! e la quistione è finita lì, come se tutti oggi, in un certo senso, non fossimo socialisti, e come se oggi ci fosse al mondo un uomo, un cane, un rospo, una formica, una molecola dove non sia arrivata a penetrare la quistione sociale. Io ho udito nella camera un oratore dare del radicale al ministro più mite e conservatore che, a udire accusa tanto strana, rise forte e tra se colato, come volesse dire: Io! ... studio le costruzioni ferroviarie per muovere le vaporiere non gli uomini. Ne rise tutta la Camera. Ma notò sin dove sale l'ipocrisia del linguaggio. Sono, per contrario, parole privilegiate estillanti santità queste altre: serietà, galantomismo, moderazione. Queste parole sono guscio a molte lumache, scudo ad alcuni faccendieri, e bandiera a non pochi paolotti. La moderazione fu sempre virtù operosa de'fortissimi, non co stume dei pigri e degli adiposi: conosco in Italia uomini moderati in tutti I partiti, ma non conosco un partito moderato! Ci sono poi due parole antitetiche, mi si passi l'aggiunto, nella politica del giorno: piazza ed impopolarità. La prima di queste due significa l'estremo dell'avvilimento, l'altra della sublimità. L'equivoco però entra spesso ad alterarne l'uso corrente e le giuoca secondo i fini di parte. Se la piazza fa dimostrazioni festive ai sovrani, la chiamano cuore della nazione. Se ragiona e delibera su’dritti suoi, la chiamano canaglia. Impopolarità poi è parola stranissima, ma che può sve lare tutto un sistema. Ne' governi rappresentativi è alta prudenza ilcoraggio dell'impopolarità! E questo governo che e chi vorrà rappresentare? Sarà rappresentativo dei morti che si lasciano anatomizzare senza lamento, o dei gnomi che si stanno cheti nel centro della terra? Gli eccessi ai quali, oggis egnatamente, si lascia andare questo partito, in curante del popolo quanto sollecito di potere, nuderanno l'essenza delle istituzioni vacillanti. rappresentativo del popolo o d'una sètta? del popolo o dei fini di un ambizioso? e quando una Taide, nudandosi dove non conveniva, sfidava il pudore e lo sdegno di un popolo, mostra il coraggio dell'impopolarità? Eh via! Anche l'ipocrisia del coraggio ci voleva, e l'impopolarità doveva e s sere lo scudo d'Achille sul petto di Tersite. Capisco in giorni eccezionali l'impopolarità d'un sapiente, ma il sistema dell'impopolarità ne governi rappresentativi è una contraddizione ne’ termini. Continui chi vuole e può altre osservazioni intorno a parole convenzionali, sulla fraseologia, sul periodo ferma to innanzi al plauso prestabilito, specialmente in certi giorni, ma osservi pure che se il linguaggio assai volte è dato a nascondere il pensiero e ci riesce, non può riuscir mai a nascondere la mente ambigua, l'oscillazione del convincimento, l'ipocrisia, il carattere. Una più o meno visibile gonfiezza, un certo tono, una certa struttura e posa, una studiata semplicità, una bonarietà metodica, una figura, una parola, anche una reticenza ed una linea aprono, a chi non è volgo, tutto l'intimo dell'ANIMALE PARLANTE. Osservo infine che se i dialetti talvolta fanno capolino nelle nostre leggi, e specialmente nelle procedure, egli è segno che le regioni italiane non vogliono essere compres se e ricordano allo stato nazionale quella parte di autonomia ad essi dovuta. Non un filologo devevenire a correggere il dialetto nelle leggi, ma I dialetti si levano a correggere l'accentramento. Come dell'Oriente non si può narrare una vera storia del pensiero del pensiero come esame di sè e del suo oggetto, del pensiero come scienza così e per la medesima ragione non si può del diritto. Il diritto sorge come rivendicazione della persona o individua o collettiva, e la rivendicazione per virtù del pensiero, cioè del l'esame che comincia col rifermare la tradizione e finisce col distruggerla. Una vera storia del diritto anteriore alla storia del pensiero è un sogno, una favola. Nell'Oriente l'immaginazione e la fantasia tengon luogo del pensiero, e lo simulano in quanto lo prenunziano l'immaginazione più nella Cina, la fantasia più nell’India l'immaginazione che riproduce l'unità morta, la fantasia che variat rem prodigialiter unam (nol so dir meglio); e, mentre prenunziano il pensiero, non arrivano ancora nemmeno all'arte, nel senso più proprio di questa parola. Fanno e custodiscono, cristallizzandola, la tradizione; e però sono il basamento psicologico di tutte le religioni. Il mondo orientale, dunque, è religioso, semplicemente religioso; è pre i storico, in quanto prenunzia il pensiero, non lo annunzia; non dà la grande arte che non procede nè dalla immaginazione monotona nė dalla fantasia irrefrenata. Se in Oriente  - 51 Roma je, CO am ia olisi Ca, he l'inno e l'epopea avessero raggiunto quella eccellenza che vien sognata, si sarebbero per necessità geminate nelle arti sorelle, rimaste li tra il bizzarro, il deforme, l'industrioso e il fucato. E lo Stato orientale è veramente Stato quanto quella scienza è scienza, ed arte quell'arte. La tradizione è indiscutibile, è immobile: l'esame nè la riferma, nè la modifica, nè la distrugge, nè la integra. Non il popolo, che si disse e fecesi dire eletto, pose primo il problema antropologico; lo pose l'egizio, e lo simboleggiò nella Sfinge, problema irresoluto, perchè senza risposta. Il Greco risponde, primo, a questo perchè. La Sfinge muore innanzi ad Edipo e gli rinasce dentro. Edipo sparisce nella notte colonea, come Prometeo che con una favilla rapita al Sole aveva ani mato la statua l'uomo orientale immobile sconta il fallo nella notte scitica. La favilla doveva esser presa di dentro, non di fuori. Nosce te ipsum. Tal'è il destarsi del pensiero, tale il cominciamento della storia, e la protasi è greca. Quindi dalla preistoria, che è orientale, alla protostoria, che è greca, il passaggio è il problema egizio posto e non risoluto. L’Oriente è la fanciulezza che ripete, l'Egitto è l'adolescenza che interroga, la Grecia è la giovinezza che risponde. Cotesto pensiero consapevole avventa il dilemma: o greco o barbaro. Più che negli altri antichi questo dilemma è lucido in Aristotile, dove con la disamina tempera l'arroganza e pondera le costituzioni secondo il carattere de'popoli. Agli orientali egli da la scaltrezza, non la scienza (disse meglio del Ferrari sin d'allora), e la viltà che è degli scaltri; nota la selvatichezza ed il coraggio dei popoli nordici; e il coraggio e la scienza serba agli Elleni. Agli Elleni il pensiero e gli ardimenti del pensiero. E insieme con questo primo sorgere del pensiero è storica mente possibile alla Grecia la prima rivendicazione umana, cioè la prima determinazione giuridica. L'uomo, infatti, nella Grecia rivendica una parte di sé, quella che è più comune e fa più possibile la saldezza dello Stato che sorge come organismo politico insieme con la prima rivendicazione giuridica: l'uomo in Grecia non è più strumento inconscio di un potere sordo e in discutibile, ma si fa cittadino: e però la prima determinazione del diritto è puramente civile. Nè più nè altro poteva essere. O che prevalga l'aristocrazia come a Sparta, o la democrazia come in Atene, o che un Solone, per equilibrare le due parti, riesca semplicemente a mutare l'oligarchia eupatrida in oligar chia plutocratica, o che lo Stato si presenti federale come nella Tessaglia e nella Etolia, o che egemone come nella Laconia e nell'Attica, il certo è che alla rivendicazione dell'individuo non si arriva neppure come sentimento e assai meno come concetto. Né la lirica che in fondo è epica frammentaria sia gueriera come quella di Tirteo, sia molle come quella di Mimnermo, o sentenziosa con Teognide, o solenne con Simonide, nė il pensiero — sia il più largo e più trasmesso — come quello di Platone e di Aristotile superano questa posizione storica. Il pensiero non smentisce il fatto, e l'etica di Platone e di Aristotile sono a fondo civile. Quando lo stoico, superando il cittadino, si eleva sino all'u o m o astratto, e l'epicureo prefigura l'individuo, la Grecia gloriosa, la Grecia del pensiero, della parola e delle armi, è passata, e noi siamo innanzi ad altro pensiero, ad altra parola, ad altre armi. Roma è il campo dello stoico e dell'epicureo. Prima di toccare Roma e seguirla dalla prima alla *terza*, ei mi par di udire chi mi ripeta che la storia svolta sin qui sia del pensiero piuttosto che del diritto. Era storia del pensiero e del diritto, non separabili. I giuristi sogliono occuparsi men che poco de'filosofi, perchè, in generale, poco li conoscono; ma il naturalismo che vede la storia derivar dal pensiero in quella medesima guisa e proporzione onde il pensiero deriva dalla natura, non può procedere in altro modo. E se, giunto al mondo romano, avrò più ad indugiarmi intorno alle istituzioni e sulle testimonianze che ce le trasmettono,non è già ch'io non faccia egual conto delle istituzioni e degli scrittori greci, m a perchè il mio sommario va tutto raccolto da Roma ad oggi.Della Grecia e dell'Oriente si è detto quanto strettamente occorreva a lumeggiare il mondo latino e ciò che gli venne appresso. Due cose, belle a sapere, ma non assolutamente richieste dal sommario, io lascio del tutto: la storia geologica d'Italia e la storia etnografica. come intui il Leopardi, e gli sterminati periodi tellurici dal l'èra protozoica all'antropozoica, legga la geologia d'Italia nello Stoppani e nel Negri, e la misura del tempo nella geologia, nel Cocchi. Anche le terre d'Italia testimoniano da ogni regione nell'età archeolitica la presenza de'cavernicoli o, alla greca, trogloditi. Probabilmente &'incavernarono nelle montagne subalpine ed appenniniche, contro le spaventose vicissitudini dell'epoca dilu viale, e parlarono quello strano linguaggio che diè loro Pomponio Mela: strident magis quam loquuntur. Stridono a guisa di pipistrelli, aveva già detto Erodoto, che dié lor pasto di ser penti e di lucertole. E di questi non abbiamo a far parola, perchè sono, come si è notato, diis, arte, jure carentes, o, secondo Virgilio: gens duro robore nata Queis neque mos, neque cultus erat.  fumassero le Alpi e gli Appennini Dove andrei, se volessi rifar la storia geologica del mio paese, ed a che pro per il corso di questo anno? Chi voglia, dunque, conoscere l'una dopo l'altra tutte le epoche di questa terra italica, dall'eocenica alla pliocenica, e sapere perchè un giorno Come or fuman Vesuvio e Mongibello, Nè mi occorre far la storia etnografica dell'Italia. Dovrei correr dietro alle tradizioni d'una Italia popolata dalle immigrazioni de' Tirreni, degl'Iberici e degli Umbri? E poi investigare se i Tirreni ci sien venuti dalle falde del Tauro, cioè dal m ezzodi dell’Asia minore,e gl'Iberici dall'Asia centrale, e se gli Umbri, della gran famiglia de' Celti, sian entrati ad accasarsi nell'Umbria, partendosi tra Vilumbri ed Olumbri? Troppe le opinioni de' dotti e troppo disparate, più di cento le congetture, 1 non di poca importanza il dissenso tra Micali e Niebhur, l'uno risalendo agli autoctoni e l'altro negandoli,e ad un antropologo italiano fu forza conchiudere essere ancora oscurissima l’etnologia italiana: oscurità, che imponendo silenzio al Mommsen circa le altre due o tre immigrazioni, fecegli dire degl’umbri soltanto che la lor memoria giunge a noi come suon di campane di una città sprofondata nel mare. Questo a me par certo ed indiscutibile, che più genti si sieno incontrate e mescolate in Italia più che in ogni altro paese di Europa cosi ne'tempi preistorici come dopo la caduta dell'impero romano, donde poi la mirabile varietà non solo del genio ma DEL TIPO ITALIANO, e dell'uno perchè dell'altro. Quella che ne' tempi preistorici fu nella Italia nostra differenza tipica tra’ crani brachicefali e i dolicocefali, differenza rimasta alquanto notevole tra il tipo dell’Italia superiore e quello della inferiore, ne’ tempi storici divenne differenza di genio, di scuole, di sistemi, di governi, di dialetti, di tendenze, onde l'Italia è, per eccellenza, il paese più vario di Europa e più aborrente da qualunque forma e successione di governi accentratori. E questo fondamento naturale del nostro pensiero e della nostra storia vuol essere considerato non solo secondo la varietà delle genti che qui s'incontrarono, si urtarono, s'incrociarono e si fusero, ma secondo la non meno lieve varietà del suolo, del clima, delle acque e de'prodotti. Senza boria nazionale si può affermare che la nostra unità è la più ricca, perchè risulta della più disparata e molteplice varietà. Però, come a traverso i tanti dialetti suona armoniosa e pieghevole ad ogni sentimento la nostra lingua, come a traverso le tante scuole artistiche e regionali si scorge a prima vista la precisione e la contemperanza greco-latina della linea italiana, così a traverso  1, Pe mani TE can   lo sperimentalismo dell'Italia superiore e l'idealismo dell'Italia meridionale si vede la qualità dello ingegno italiano, che, con temperando la sintesi con l'analisi e il sentimento coll'esame, non disquilibra le funzioni della psiche, le quali, storicamente, si vanno a tradurre sempre nella politica del festina lente. Questa unità ricca, questa unità multiforme costituisce per eccellenza armonico il genio italiano. E quesť armonia lo fa artista in ogni cosa. E infelicemente riusciamo in quelle cose, nelle quali non portiamo dell'arte, non portiamo cioè del nostro genio. Allora per parere tedeschi o inglesi ci facciamo semplicemente bastardi. Fu detto che il mondo romano così poco artista, cosi strettamente giuridico e praticamente prosaico, fu non pertanto grandissimo e maestro inimitabile di grandezza. Ed ora accostiamoci ad osservare se il mondo romano disdica il carattere del genio italiano. Quando oggi i giuristi e gli storici più pensanti vogliono trovare un fondamento razionale alle istituzioni ed ai fatti di un popolo, prima salgono al genio ed al carattere del popolo stesso, in ultimo alle necessità naturali determinate, cioè al naturale ambiente, in cui sorge e si svolge la vita di quel dato popolo. Questo processo implica un sistema presupposto appunto il naturalismo. Donde i fatti e le istituzioni di un popolo? Dal genio e dal carattere: vuol dire, in fondo, dalpensiero. Donde il genio e il carattere? Dall'ambiente naturale, di cui primo prodotto è il tipo. E proprio così move il naturalismo. La natura si svolge e riflette nel pensiero. Il pensiero si svolge e riflette nella storia. La differenza, nella esposizione, è questa. Il filosofo move dalla natura e guarda alla storia; lo storiografo move dal fatto storico e ascende al fatto naturale. Non si è potuto fare altrimenti, quando si è voluto investi gare la causa dei fatti di Roma nel genio romano, e di questo genio nell'ambiente naturale di Roma. Anche quando, spostati i fatti, si riesce a spostare il genio di un popolo, si è costretti a spostare in ultimo il fondamento naturale. È un errore di fatti, che attesta la verità e la necessità del metodo.Cosi Mommsen, quando vuol dimostrare che il rapido crescere di Roma in ricchezza e potenza è dovuto al genio commerciale de’ romani, ricorre come ad ultima causa, a questo fondamento naturale. Roma è posta sopra un fiume grande, navigabile e non lontano dal mare. Sbagliata laprima causa – il genio romano sbaglia la seconda il fondamento naturale, quello che Dante chiama È costretto, dopo, a sforzare alcuni fatti ed alcuni testi, per sottometterli alla causa prestabilita. Ma più tardi egli corregge sè stesso, non rispetto al processo che è vero, si bene rispetto alla più sincera determinazione de'fatti e delle cause. Egli si accorge che in Roma manca il primo fatto, una classe di commercianti. Poi, che non poteva essere stato di commercianti il genio di Roma. In ultimo, che il Tevere, tenuto conto della sponda etrusca, non poteva avere una grande posizione commerciale. Quando il processo dello storico non va sino al fondamento naturale, simula le sembianze storiche, ma rimane metafisico. Si dice, per esempio, per ispiegare alcuni fatti ed istituzioni, che tale è il genio, tale il grado di coscienza o di pensiero in questo o quel popolo.Va bene, ma la storia cosi è fatta a mezzo, è fatta con la sola psiche, con lo spirito astratto, che, evulso dal fondamente naturale, diventa un fenomeno miracoloso. proprio questo il difetto della cosi detta scuola storica. Savigny, se voleva fare storia intera, non dovea dire soltanto che un tale o tal altro dritto è prodotto dalla naturale coscienza giuridica del popolo; ma dove dimostrare il fondamento naturale di questa naturale coscienza giuridica. Così non facendo, l'evoluzione rimane astratta, e le parole coscienza, genio, in  - Il fondamento che natura pone. È   dole, carattere diventano altrettante astrazioni, e,a dispetto del l'espressione naturale coscienza, la dottrina rimane puramente metafisica. Anche Hegel – il metafisico per antonomasia nire militare il genio di Roma, senti la necessità di salire sino ad un quasi dato etnografico,e di stimare, secondo le tradizioni, la prima società romana come una compagnia di ladri. E sopra questo dato giustifica la colluvies e poi la repentina nobilitas ex virtute di Livio; e la virtus dalla bravura, non pure personale, ma collettiva, quella appunto che giustifica le violenze; e dalla violenza la manus, la quale si manifesta dal matrimonio, in manum conventio, sino alla patria potestas, rispetto alla quale la schiava condizione del figlio era significata dal mancipium. Quindi, la durezza della famiglia, dello Stato, delle leggi inRoma; quindi, il cittadino romano da una parte schiavo, dall'altra despota, perchè della durezza che soffriva nello stato se ne ripa gaya nella famiglia. E tutta questa durezza compendiata in un assioma politico di Machiavelli, qui ripetuto da Hegel, cioè che uno stato formato da sè e adagiato sulla forza conviene che sia sostenuto con la forza Il corollario poi affatto hegeliano - è che tutto ciò che derivò da tale origine e da tale stato, non fu un convenio etico e liberale, ma una posizione forzata di subordinazione. Un carattere romano proprio cosi fatto non ispiegherebbe, io penso, l'origine, il valore e la diffusione invidiata non raggiunta del dritto romano nello spazio e nel tempo. Hegel, tenendo conto del dato naturale, non solo lo limita al puro elemento etnografico, ma impiccolisce anche questo, e non mostra tener conto del dato geografico, che è più obbiettivo del primo, e sforza il popolo romano a farsi non solo militare, ma agricolo. Questa indole agricolo-militare, questa appunto, fa la reli gione romana cotanto diversa dalla greca, e cosi spiacevole ad Hegel che la chiama la religione prosastica della limitazione,  - per defi   della corrispondenza allo scopo, la religione dell'utile. Ed ecco, troviamo, la seconda volta, negato il genio artistico a Roma. La prima, perchè è il popolo del diritto. La seconda perchè è il popolo dell'utile, a cui gli Dei giovano come i servi o come gli strumenti del campo. Hegel trova che i romani adorano la dea pace (pax, vacuna) e la sua contraria angeronia; la salute e la peste; trova che in Roma Giunone non è bianchi-braccia, ma ossipagina, e che Giove è *capitolino* piuttosto che olimpico. Chiama prosaiche queste divinità, ma nè cerca le divinità campestri, nè se le spiega, passando dal campo arato allo stato. Nell'arte - continua Hegel specialmente in Virgilio, creduto il poeta religioso per eccellenza, la religione è d'imitazione, la quale porta le divinità ex machina, non con la fantasia e col cuore. I giuochi stessi rimangono qualcosa di esterno, in quanto il romano è spettatore, non attore, e non ha poeta che di proposito li celebri: giuochi duri e prosaici come la famiglia, lo stato, la religione, le leggi. La somma del discorso è E dietro questa somma del discorso si scorgono le conseguenze, alle quali il filosofo tedesco vuol pervenire: 1° noi dobbiamo l'origine ed il progresso del diritto positivo all'intelletto non libero, privo di spirito e di sentimento, proprio del mondo romano; 2o che, se i romani giunsero a distinguere il diritto dalla morale, ed a liberarlo dalla variabilità del sentimento, concre  co’ romani si ebbe la prosa della vita, prosa, in ultimo, riflessa sopra Roma proprio dal carattere italico. Che è l'arte etru egli può conchiudere che sca? Noi troviamo nell'arte etrusca la massima prosa dello spirito, quanto più perfetta nella tecnica tanto più priva del l'idealità greca: è la stessa prosa che vediamo nello svolgimento del diritto romano e della religione romana. Que sto giudizio circa l'arte italica sarà più tardi esagerato dal Mommsen.   tandolo in alcun che di esterno e di obbiettivo, non arrivarono a conciliarlo con la libertà e con l'intimo dell'uomo; 3o che però non può essere il dato supremo della sapienza. Ben'altra parola avrà a dirsi sul diritto, quando si tratterà di connetterlo con la libertà. Certo, un altro mondo la dirå. E già s'intravvede che questa gloria il filosofo tedesco vuole serbarla al mondo germanico che succede al romano. Solo due cose si vedono: che Hegel lavora sopra un dato naturale incompiuto, e che la parte naturale soppressa è sosti tuita con rapidità magica dalla costruzione metafisica. Noi osiamo affermare che, se il dato naturale fosse compiuto cosi dal lato etnografico come dal geografico, il genio ed il carattere di Roma si mostrerebbero sotto altra forma. E si par rebbe che nè assolutamente prosaico e tutto pago della esteriorità è il genio italico, nè Roma – la severa Roma – con la rigidezza della formula giuridica riesce a rinnegare il genio co  [ Egli è davvero cosi? mune.  Allora, come oggi, la metafisica mi pareva vuota, l'avevo definito udenologia, ed il naturalismo mi si presentava come il successore storico d'ogni metafisica; m a nel farne applicazione, si volava ancora, ed al volo bastavano poche penne in spazio illimitato, senz'aria e senza tempo. Oggi non si vola, ma si misura il cammino, e si ha ragione di dire ai giovani che non facciano sostituzioni estetiche alla storia, le quali poco servono alla scienza. Espongo, adunque,ciò che intorno al carattere di Roma pubblicai molti anni addietro, e noto senza indulgenza i miei errori di allora, perché molti li ripetono e non trovano più scusa.  C'è un altro modo, più metafisico di quello usato da Hegel, di costruire il carattere romano, ed è di derivarlo non da un mezzo dato naturale, abbandonando l'altro mezzo a discrezione della metafisica, come vedesi aver fatto il filosofo tedesco, ma di costruirlo sopra alcuni documenti classici che si prestano alle più contrarie interpretazioni ed a tutt'i giuochi dell'estetica applicata e della critica letteraria. Non sarà inutile poiché questo modo, per essere il più comodo, è il più frequente presentarne un saggio, valevolecome criticasopra me medesimo, che, nella giovinezza, credei sostituire gli esercizii di estetica alla storia, ed al naturalismo la subbiettiva critica letteraria. 61 Utopista scrivevo allora- non è chi sogna, ma chi pensa,  e tanto più profonda è l'utopia quanto più il pensiero coglie la relatività dei tempi. Greca è, dunque, l'origine della utopia e utopista tipico fu Socrate che osa primo al costume civico con trapporre alcun che d'individuale: Io Socrate sono nato a liberamente filosafare, e, se cento volte per questo io fossi morto e rinascessi, tornerei a filosofare. Non pena dunque mi è do vuta, ma il Pritaneo. Questo tentativo di ribellione dell'individuo, contro il cittadino, dell'individuo che osa pigliarsi un mandato individuale che non solo valga il mandato civile, ma ardisca riformare il costume, questo è punito, e, in quella natura di tempi, era veramente crimine di Stato. Socrate, anch'esso, come atterrito dal colpo ch'ei tenta, sente che al cittadino è dovuta l'espiazione individuale, e rifiuta ausilio, e si apparecchia alla immolazione di sè non pure perchè sente compiuta la sua missione e non gli piace vivere super stite a sè medesimo, ma perché vuolegrecamente spirare: Dum patriae legibus obsequimur. Che è quell'ultimo pensiero del gallo, che, rimosso il lenzuolo dal viso, ei vuole sacrificato ad Esculapio? Vuol finire sul letto del carcere come fosse ad Anfipoli o a Potidea, e vuol morire con religione e costume attico, come a punizione di alto trascorso individuale. L'individuo fu Socrate filosofo; il moribondo è l'ateniese rassegnato: m a il più grande è questo, che proprio questo ateniese punisce quell'individuo e non glidà scampo. Pericle non potè salvare Anassagora; Socrate non vuole salvare se stesso. Come,secondo il mito,la Sfinge, negata di fuori, rinasce dentro Edipo, cosi, secondo la storia, lo Stato attico, offeso di fuori, si riafferma dentro di Socrate. O l'esilio di Colono o la cicuta, è sempre l'immolazione dell'individuo alla comunanza rappresentata dallo Stato. Quando gli Dei patri i per cossi dalla riflessione socratica su pinarono nell'Olimpo muto, Epicuro, sorridendo, gitta sopra di loro un gran panno funereo e si rallegra coll'uomo liberato dai divini terrori. Diffugiunt animi terrores. Però quel panno che Epicuro gitta sull'Olimpo, copre tutta la Grecia; giacchè quel panno che soffoca la lotta semi-divina, era indizio della missione greca già finita. Perciò Epicuro lascia i giardini greci, le dolcezze e i profumi arcadici, e se ne viene nel foro romano, e siede e sentenzia e giudica e genera di sè due uomini diversissimi, Orazio e Lucrezio, e da Orazio poi il tipo di Munazio Planco e da Lucrezio quello di Papiniano. Sono troppe cose che io dico insieme, delle quali molte non dette, ma provabili con la forma del discorso e col testimonio dei fatti. Cicerone, vedendo Epicuro alle porte di Roma, si arma di poma soriane, inserte in forma di fulmini, e cerca saettarlo con furore iperbolico, proprio nel modo onde il papato fulmina da Roma la rinascenza. Ma, come la rinascenza, mal grado i fulmini papali, siaccasava in Roma, invadeva il Vaticano, e faceva poetare e sermoneggiare i papi con civetteria anacreontica, cosi Epicuro spunta tra due dita i fulmini di Cicerone, come avea già spuntato quelli del Giove greco, e, toccata appena la spalla dell'oratore romano, se lo fa suo. Ma, appena entrato in Roma, Epicuro prende la natura del Giano latino, si fa bifronte, ed una sua faccia è quella di Orazio, l'altra di Lucrezio.Non èmiracolo, è il sistemaepicureo che, sotto la dialettica, manifesta queste due fronti. L'una viene a dire cosi: La vita è breve; di là non si continua; dunque, godiamola di presente. La morte cicolga, quando possiamo gittarle in faccia la scorza del pomo soave, tutto premuto. L'altra, cosi: La vita è breve; di là non si continua; osiamo, dunque, eternarla con un'opera degna della immortalità della fama. Per chè tentare la gioia stolta, se nel punto di asseguirla la morte può spegnermi? Ecco le due fronti di Epicuro. L'una di Orazio: Vitae summa brevis nos vetat spem inchoare longam. Di là non c'è vita: Non regna vini sortiere talis. La conseguenza che ei porge all'anima tua,è sempre una. Carpe diem quam minimum credula postero. Illazione esprimibile con un grugnito del porco epicureo. L'altra è di Lucrezio. Omnia migrant, omnia commutat natura et vertere cogit. Dalla quale migrazione eterna dell'essere deriva il summum crede nefas. Importa sol consegnare integra la lampada della vita alle generazioni sopravvenienti: Vitae lampada tradere. Da Orazio nasce Munazio Planco, prima Cesariano, poi Pompejano, poi repubblicano, poi di Antonio e di Cleopatra, poi cortigiano di Augusto e sprezzato da tutti: tipo del galantuomo di Guicciardini; e fini nella sua villa di Tivoli come Guicciardini, nella solitudine di Arcetri. Da Lucrezio nasce il tipo del giureconsulto, Papiniano, che intese il diritto come bonum aequum, e non volle in senato di fendere un imperatore fratricida, e piuttosto che l'onore volle lasciare la vita. Morendo, come aveva sentenziato, provvide alla immortalità della fama, et lampada juris tradidit. Da Epicuro il mondo romano prende il senso della positività, ed è però mondo di prosa, non di arte, con missione giuridica, con lingua giuridica, con monumenti, storia, tradizioni giuridiche. La Grecia ci ha tramandato due insuperabili documenti, la tragedia epica e la tragedia filosofica, l'Iliade e il Fedone; Roma il Corpusjuris, con due potenti sommarii, l'epigrafe e il responso. Quanto all'epigrafe, specie suggestiva di letteratura, come direbbesi in Francia, nessun altro popolo nė lingua ha ilquarto della maestà e rapidità dell'epigrafe latina, nata rebus agendis: onde nazioni nordiche e neolatine e transatlantiche pigliano ancora, e avverrà per lungo tempo, da Roma antica l'epigrafe!e il responso. E la più bella dell'epigrafi ha contenuto epicureo e giuridico: Et creditis esse Deos?  Cosi abbiamo della medesima scuola il porcus de grege Epicuri, e de acie Epicuri miles. Nè questo doppio tipo fu smarrito nel periodo del risorgimento, quando dopo la scolastica platonica e aristotelica si riaffaccið l'epicureismo: dall’una parte si ebbe il Pontano, cantore della voluttà, dall'altra il Cavalcante, cercatore austero, tra’sepolcri, dell'immortalità della fama.  La tomba, data umile a Catone, negata a Pompeo, ė superbamente elevata ad un mimo! Se gli Dei sono ingiusti, gli Dei non sono. E le epigrafi più solenni nascondono certa finezza d'ironia epicurea nel senso giuridico. L'epigrafe latina è solenne, perché è breve come il responso. Questa rapidità di percezione è dalla lingua istessa giuridica per eccellenza, imperativa e, se mi è lecito a dire, dittatoria: onde l'epigrafe è quasi sempre responsiva, cioè di senso giuridico, e il responso è sempre epigrafico. Ed in Roma fu possibile il tipo del giureconsulto, dell'uomo cioè che ha intera la percezione del dritto, rapidamente e pro priamente la significa e sa comandarla a sè stesso prima che agli altri. È tipo raro, tutto assorbito dalla meditazione etica, che traduce nella parola e nel fatto. Roma ne ebbe pochissimi che dopo quella Roma furono comentati, non risatti; e, quando oggi odo chiamare giureconsulti alcuni legisti che tirano a mestiere il codice, dico che o le parole non s'intendono o sono stravolte dall'adulazione. Quando la lingua latina canta di amore, a me pare- libero da preoccupazioni di scuola udire il Ciclope favellare a Galatea. I romani potean prendere le Sabine meglio con le braccia che col canto: manu, haud carminibuscaptae. Non ène'carmi la missione di Roma: dica rapidamente il diritto, dica il fatto; il responso e l'epigrafe, questo è il gran contenuto della letteratura latina, questo è suo proprio, è originale, è collatino, oso dire: il rimanente vien di fuori e porta il mantello peregrino. Ed ha tre uomini massimi, Lucrezio, Papiniano e Tacito. Lucrezio non ha cantato un poema, nè si dà al mondo poema didascalico, ma ha dato l'esposizione epicurea della natura, la cui Venus non viene da Milo, ma dal Foro, e può somigliare ad Astrea. Papiniano ha dato il più alto responso, nel quale è la) Quid quid praecipiens, esto brevis, ut cito dicta Percipiant animi. 5 UNIVERSITÀ DI Qurais ROMA CCHIO Lucrezio, Papiniano e Tacito sono tre che si somigliano nella forma di concepire e nella rapidità scolpita dell'espressione. Tacito, che segna la decadenza e lavora come il Sisifo di Lucrezio, qui semper victus tristisque recedit, spesso ti accusa la maniera e quando è breve, quando è corto; m a è l'ultimo dei grandi romani. Chi cerca la grandezza del pensiero latino fuori di questi, e vuol trovarlo o nella lirica di Orazio, ambigua, quanto alla forma, tra Pindaro ed Anacreonte, e ambigua nella sostanza tra lo stoico e l'epicureo, o trovarlo nell'epica incerta tra Virgilio e Livio, cioè tra le reminiscenze omeriche e le favole tra dizionali, è come chi, cercando l'anima del trecento, invece di volgersi a Dante e a Boccaccio, la spia negli occhi estatici di Caterina da Siena o nel cipiglio di Passavanti. In questo teatro giuridico, che è il mondo latino, il contenuto della lotta si trasforma e di semi-divino diviene pienamente umano. Qui non han luogo cause per divinità. Qui Lucrezio può vuotare il Pantheon che accoglie indifferentemente tutti gl’Iddii per vederli indifferentemente sfatare dal sistematore della Natura. Lucrezio morrà non per accusa di Melito, di Anito, di Licone; norrà, se gli piace, di sua mano, se il destino del l'uomo gli parrà troppo somigliante a quello di Sisifo. Allora la sintesi della missione latina, e lo ha suggellato, come dovea, con la morte. L'olocausto di Socrate ci mandò la tragedia filosofica che è greca; l'olocausto di Papiniano ci tramanda la tragedia giuridica che è latina. Perchè dopo il Nerone e la Messalina non tentare anche questa che è più romana? La storia di Ta cito suona sulle rovine imminenti dello Stato latino come la ser ventese dell'ultimo degli albigesi. Tacito è fosco come la sera nebbiosa di una splendida giornata; è riflessivo come chi rasenta le rovine; è triste come chi cerca una virtù che ei sa di non trovare. Perciò ei ritrae Tiberio assai meglio che Tiziano non ritragga Filippo II,ma,dove pinge la virtù,non è pittoremolto ispirato. È grande col pennello onde lo Spinelli ritraeva Satana; m a, se gli dai la tavolozza di Raffaello, ei te l'annacqua. Venus genctrix gli si muterà in Venere Libitina, ed egli userà della vita secondo quello che gli parrà suo diritto. Io non credo all'aconito; credo suicida Lucrezio, e questo suicidio proprio di forma Romana, come quello di Catone, cioè per jus necis etiam in sc. Questa lotta umana,iniziata,non compiuta in Roma,questa che è tutta e sempre lotta civile dal ritiro della plebe sull’Aven tino sino ad Augusto, qui omnium munia in se trahere coepit; questa epopea lutta latina, più in Livio che in Virgilio, ha due periodi principali: l'uno'tra plebe e patriziato per una cerla equa partizione di cose e di ufficii, e generò il tribuno, ignoto alla Grecia; l'altro tra l'individuo e la comunanza per una certa equa emancipazione dell'individuo, e generò Spartaco, ignoto alla Grecia. La plebe fu vendicata da Mario,e più da Cesare,che se op presse il tribuno,era segno che non v'era più patriziato sovrano ed operoso.Spartaco,sopraffatto da Crasso e da Pompeo e morto nella pienezza della sua protesta, trovò poco dopo più grande vendicatore, Cristo. Ciò significa: Il mondo greco, cominciato religiosamente, fi nisce nellairreligionediEpicuro;ilmondo romano,pienodella dotta irreligione di Epicuro, finisce nel mistero cristiano. La catastrofe religiosa in Grecia è spiegabile con la natura del pensiero, che comincia col rifermare le religioni e finisce col dissolverle; la catastrofe della irreligione in R o m a è spie gabile con la natura del pensiero istesso, che, se è dommatico, finisce col divorare se stesso. Chiariremo questo vero, quando saremo innanzi al cristianesimo. Questo vien chiaro di presente,che il contenuto giuridico in Roma non pud porgersi come jus civile abstractum, ma come primo sentimento di equità, onde si genera il Pretore, istitu zione profondamente etica, ignota anche questa alla Grecia, e urbano e peregrino, e il cui fine è sempre l'aequitas, affinchè il summum jus non si faccia summa injuria o summa malitia.    Quindi, il placito del giureconsulto nella costituzione delle leggi: In rebus novis constituendis eviders esse debet utilitas, ne a n i mus recedat ab eo jure, quod diu AEQUUM visum est (Fideicom. L. IV). Chiaro è che l'equità costituisca la misura del diritto; che questa equità lungamente saggiata, traducendosi in diritto, genera l'utile sincero; e che questo utile debba essere evidente ai popoli nella costituzione delle leggi. Quindi l'iniquum erat injuria. Quindi l'acquilas appo i latini non è il concetto volgare che ci viene da Ugone Grozio: è l'assoluta, continua, ascendente correzione del diritto civile, cioè del diritto greco; e però cosi coloro che veggono pura medesimezza del diritto greco e ro m a n o, quanto quegli altri che continuano a favoleggiare intorno alla origine greca delle dodici tavole,mostrano ignorare la diffe renza delle due storie, dei due popoli, delle due lotte, delle due civiltà. E il testo canta chiaro: Jus praetorium adiuvandi, vel supplendi, vel CORRIGENDI iuris civilis gratia est introductum, propter utilitatem publicam... Che è quel ius civile bisognoso di correzione? È quello appunto che in R o m a comincia a p a rere s u m m a injuria, la cui correzione costituisce l'istituto p r e torio,cheètutto romano,ilcuiprogramma siassomma nella sentenza: Placuit in omnibus rebus praecipuam esse iustitiae ac AEQUITATIS q u a m STRICTI juris rationem. Quello stretto diritto è greco, è puramente civile, è quiritario, è aristocratico, e tra smoda nell'ingiuria, o per violenza o per malizia, aut vi, aut fraude. Quell’aequitas è la correzione pretoria, è la grandezza dello spirito latino, che tutto si manifesta e dimora nella giu stizia pretoria e urbana e peregrina. E quell'aequitas deriva dallalottaumana,cosidellaplebecontroilpatriziatocome del servo contro il padrone. Il jus civile è il risultamento della lotta semi-divina, l'aequitas è il prodotto della lotta civile: quella è greca, questaèlatina: quellahailsuofastigiostoricoda So crate ad Epicuro, questa dalle dodici tavole a Spartaco: quella è lotta filosofica, questa è giuridica: i canoni di Epicuro sono l'orazione funebre all'Olimpo e però alla Grecia, la protesta di Spartaco è il vale al superbo civis romanus.Insomma la gloria storicadiRoma nonèildittatore,néilconsole,nèilsenato, nè il magister equitum e l'imperatore e n e m m e n o il tribuno, è il Prelore: il suo editto è la sintesi dei responsi; lo spirito dei responsi è l'equità; l'equità è il prodotto della lotta u m a n a; questa lotta è il contenuto della civiltà latina. Hegel che vede si addentro la cagione della rovina della repubblica romana e con Tacito giudica vana l’uccisione di Cesare, non vede con pari intensità in quella repubblica l'istituto pretorio e, sfuggi togli, tien conto solo della ratio strirti juris. Tutto il diritto r o mano gli si stringe nel summum jus. Non vide che la lotta umana era ed è l'equilà. Con questo spirito di equità torna agevole a Tacito descri vere il tiranno, scolpirlo. Volere parendo di rifiutare, c o m a n dare parendo di obbedire,far tuito parendo di non fure, questo è il tipo del tiranno, questo è il Tiberio di Tacito, rispetto al quale gli altri tiranni venuti di poi sono volgari, ubriachi,troppo scoperti e però troppo esposti al essere tiranneggiati. Tipico é questo Tiberio in Tacito, come Ettore in Omero, come Ugolino in Dante, come Otello in Sakespeare, e non patiscono ritocca menti di nessuna mano: chi si attenta a rifarli, solto qualunque altra forma,disfà. In Grecia fu possibile il sentimento del ti ranno, in Roma il ritratto tipico,perchè in Roma è delineato il concetto dell'equità. Tiberio non può esser veduto se non dielro il seggio del Pretore. Nè Riccardo III, nè Arrigo VIII, nè Fi lippo II, nè Alessandro VI o Paolo IV ritrassero Tiberio: vollero troppo, si chiarirono troppo, furono troppo tiranneggiati: ma il tipo, spento individualmente, risorse collettivamente nella C o m pagnia di Gesù, che per 333 anni dilargò l'oligarchia nera sulla terra, parendo di non volere, di non comandare, di non fare. Ma e il gesuitismo tiberiano e il cesarismo gesuitico non pos sono essere tanto chiusi,che ilpensiero e la natura non v'entrino. Fu però equità piena,sincera, spiegata questa di Roma,si    che la si trovi tulta adempita nella ragione pretoria? La lotta umana di Roma diede per risultamento il diritto umano? In somma il dirittoromano sicontinua a studiare,a chiosare, ogni giorno in ogni paese civile, perchè effettualmente è l'ultima parola del diritto? L'acquilas in omnibus spectanda, quando non voglia essere un nome,ma cosa, non un concetto,ma un sistema, non in somma un'esigenza,ma un adempimento,bisogna che simani festi come connessione ed equazione dei contrarii, cioè del ge nere con l'individuo, del cittadino con la persona, affinchè ne risulti l'interezza dell'uomo.Ora, questa equazione torna possi bile,quando l'individuo si sia affermato e contrapposto al citta dino e abbia avuto nella storia tanto valore e tanta evoluzione quanti il cittadino se ne prese. Senza quest'azione e reazione, o, come altri dicono, senza questa tesi e antitesi nessun'ar monia finale e completiva, nessuna sintesi piena e durevole, nessun equilibrio, nessuna equazione insomma è effettualmente possibile: e, se l'equità non è questa equazione, è ancora un presentimento Se ne deduce che Roma non poteva ancora sistemare la vera equità giuridica, perchè l'individuo non aveva dato tutti gl'istituti che dovevano nascere di se, dalla sua antitesi o c o n trapposizione al cittadino. Dove s'era fatta la storia dell'indi viduo, l'autobiografia, perchè ilPretore potesse consapevale con temperare i contrarii, connetterli, equilibrarli? Vedesi, dunque, che questa equità è l'avvenire dellastoria,non ilpassato;spetta alla giornata travagliosa dei posteri, non alla lotta civile di Roma.Or, dunque,è stata spuma d'acqua sonante l'equità ro mana? Troppo sarebbe stato il rumore ! La cosa sta in questi termini: L'equità scientificamente in tesa spetta all'avvenire, che sarà la sintesi del cittadino con l'individuo per costruire tutto l'uomo: l'equità latinamente intesa fu il transilo dal cittadino all individuo per costruire l'individuo. Il transito non è la sintesi, è il semplice avviamento dall'uno all'altro dei contrarii, a traverso i quali si vien costruendo l'uomo chiamato sintesi dell'universo e non divenuto ancora sintesi di sé medesimo ! Fu larva dunque di equità: e nondimeno anche come larva quel diritto è rimasto solenne, tipico nella storia, concetto più che presentimento di quello che il diritto è destinato ad essere. Dunque,nellastoriailmondo romano èl'esodo,ilpassaggio dal cittadino greco all'individuo germanico. E in questo transito dall'uno all'altro dei contrarii consiste, chi consideri, l'universalità dell'impero latino. Il quale perde la sua ragione di durare, quando Cristo annunzia l'emancipa zione individuale. Cosi me ladiscorrevo intorno al contenuto storico ed al carattere di Roma. Alcune delle cose dette, oggi, non ripeterei; m a ne accetto anche oggi moltissime, principalmente due: che la lotta inRoma èumana e senza neppur l'ombra del carattere religioso; e che risulta mento precipuo della lotta umana è l'istituto pretorio. Bastano queste due affermazioni per determinare tutto il ca rattere della prima Roma, e dal caratlere la sua missione, la gloria, l'universalità, la decadenza. A queste due affermazioni manca la giustificanza storica il metodo. Perché in Roma la lotta è del tutto umana? A questa interrogazione, quando non si voglia dare una ri sposta astratta, come la darebbe la scuola di Hugo e di Savi gny,cioè tal era la coscienza o ilgenio di Roma,ci sono due modi di rispondere, l'uno metafisico, l'altro naturale. Il primo risponde: Alla lotta semidivina dovevo succedere la lotta umana: la prima, compiuta in Grecia, non si poteva ripetere in Roma. Le due lotte sono due momenti del pensiero; e però Epicuro passa dalla Grecia a R o m a. Il secondo dice che questo lavorio del pensiero, affatto in d i sparte dal fondamento naturale, spiega la storia più che non [Quindi l'evidenza di lumeggiare la storia col naturalismo che le traccia il metodo. Ora, il naturalismo storico attraversa tre periodi notevoli: prima è teleologico, poi empirico, finalmente è scientifico È teleologico, quando presuppone i fini, e i fini diventano cause, e la natura è in gran faccenda a lavorare i mezzi per questi fini. In questo primo periodo il naturalismo non si è li berato ancora dalla metafisica, e, se non è essenzialmente antro pomorfico, è tale abitualmente. Questo periodo è rappresentato da Herder, il quale è vero che presume cercare la storia degli uomini nella storia del cielo, della terra e delle relazioni tra cielo e terra; m a, presupponendo ancora i fini nella storia dell'uomo e della natura, viene abitual mente a credere divino quel che dev'essere tutto e semplice mente naturale, e – ciò ch'è ancora più teologico -- ad esclu dere i popoli fieri e sanguinarii dalla possibilità di adempiere nella storia un qualche fine provvidenziale. Che cosa sarà per Heder il cristianesimo? — Il regno della giustizia e della verità ! Ecco la civiltà tedesca in forma di fine provvidenziale, che non poteva essere adempiuto dal popolo romano, perché aveva animo tirannico e mani insanguinate.] il genio o il carattere astratlo, m a in ultimo riesce astratto ed enigmatico anch'esso, perché il pensiero presuppone qualco saltro, da cui non si può divellere. È vero che altro è il genio greco, altro il romano; è vero che la lotta fatta in Grecia non si può rifare a Roma;è vero pure che Epicuro,passando dalla Grecia a Roma,accenna alla lotta umana che succede alla lotta religiosa: ma non si vede ancora perchè il pensiero si sia cosi determinato, e piuttosto in Italia che in Germania, e dell'Italia piuttosto in Roma che nell'Etruria o in altra regione. Sono, per conseguenza, da tenere in gran conto i momenti del pensiero che nè in sè nè nella storiasi ripete mai; ma re stano momenti vuoti, astratti ed inesplicati senza tenere in pri missimo conto il dato naturale.] il genio giuridico di Roma? e l'universalità del dominio romano? e la successione storica della civiltà romana alla greca? e l'am biente naturale di R o m a, rispetto alla terra ed all'aria? Tutto ciò sparisce, e restano un fine provvidenziale il cristianesimo, e l'odio tedesco contro R o m a, compagnia di ladri e nel principio e nel mezzo,cosi pel genio naturalista di Herder come per il genio metafisico di Hegel. Egli è perchè quella natura non è libera ancora da quella metafisica. È empirico il naturalismo, quando contende ogni investiga zione intorno agli ultimi fini e alla prima causa, e que'fini e quella causa respinge da se come contenuto della metafisica e campo Questo periodo è rappresentato da Comte, il quale respinge l'assoluto con troppo assolute negazioni,come Stuart Mill negava il sistema, sistemando; e però l'uno si dà a cercare l'invaria bile attraverso i fenomeni naturali, e l'altro il permanente attra verso i bisogni umani. Vanno cercando quell'assoluto che hanno assolutamente negato. Avviene, in questa scuola de'puri senomeni,che le catastrofi sono sostituite all'evoluzione; che il passato sarebbe assoluta mente morto, non trasformato; e che, come nell'ordine della successione filosofica il positivismo annunzia la morte di tutto il contenuto metafisico, cosi nell'ordine della successione politica ilperiodo industriale,p.e.,supporrebbeaffattospento ilperiodo legale, come questo supporrebbe spento del tutto il periodo m i litare.Da che sarebbe indicata la cessazione del periodo mili tare? Dalla caduta di Roma.Ed ecco che questaRoma,o forza di ladri o di soldati, non sarebbe stato altro che forza ! E ne il naturalismo teleologico nė l'empirico arrivano a vedere che in quella R o m a universale la forza fu universale quanto il diritto.  - come reazione mutila il contenuto scientifico, e non si accorge che quanto sot trae alla scienza tanto consegna alla religione. sino dal nome metafisica, dell'inconoscibile. In questo secondo periodo il natura lismo,aborrendo Finalmente il naturalismo storico esce dallo stato teleologico, dallo stato empirico, e diviene scientifico sotto queste determi nate condizioni: 1a sottraendo la statica e la dinamica so ciale all'indeterminato delle analogie e sottomettend le al cal colo determinato, nel quale sparisce l'uomo individuo e sorge l'uomo medio; 2a sottraendo il calcolo ai ritmi misteriosi o ca balistici e riducendolo alla legge di proporzione tra causa ed ef fetto; 3a sottraendo le cause allo indeterminato del numero e riducendole ad una causa sola, e facendo convergere tutti gli effetti verso un fine proporzionato alla causa medesima. Allora si viene a veder chiaro che la statica e la dinamica sociale fanno una fisica sociale che deriva dalla psico -fisica; che il pensiero si traduce nella storia con la medesima proporzione, onde procede dalla natura; che il calcolo, al quale sottostanno le scienze naturali, entra a dominare il mondo della storia; e che in ultimo l'uomo individuo,il quale sparisce innanzi all'uomo medio, vuol dire l'arbitrio che sparisce innanzi alla libertà. Più sparisce l'arbitrio come causa, e più si chiarisce la libertà come fine. A tutto ciò, che è pur grande, il mondo moderno non può sottrarsi. Ha prodotto tre saggi,che sono saggi ancora, ma che aspettano con irremovibile certezza la sistemazione scientifica, e sono la Fisica sociale di Quetelet, la Storia dell'Incivilimento in Inghilterra di Buckle e i Periodi politiri di Ferrari. Anch'io nel 1872 — nel Saggio Crilico del Dritto Penale e del Fondamento etico avevo cercato dimostrare in che ra gione si movono nel tempo storico le istituzioni avverse e per chè il tempo stesse rispetto alla successione del pensiero come lo spazio rispetto alla successione de'corpi; m a anche quel mio libro, come porta il titolo, rimane saggio, ed aspetta la sistema zione scientifica che si determina co' criterii sopra stabiliti, senza de'quali non è possibile un naturalismo scientifico. E con questo proposito io mi sento libero da qualunque ar bitrio individuale, da qualunque monomania di originalità so litaria ed astratta, perchè da una parte veggo di obbedire alla    ragion de'tempi e dall'altra al genio italiano. Questo genio, o che si manifesti nello sperimentalismo più cauto del Galileo o nel più libero idealismo di Bruno,ha sempre ultimo fondo delle cose la natura, fuori della quale nulla vede e nulla spiega. È però genio matematico per eccellenza, perchè ogni legge natu rale si stringe in numero. Fu, quindi, possibile nella scuola di Galileo un Vincenzo Viviani che faceva ciò che appena Leibnitz osava desiderare, sommettere cioè gli atti umani alla misura, l'etica alla matematica. Risalendo i tempi, incontravasi nella scuola di Metaponto; discendendo, preoccupava i periodi poli tici di Ferrari. Se è una sistemazione anche questa, perchè afferma l'evo luzione come processo dall'omogeneo all'eterogeneo, e non con sidera che l'evoluzione sarebbe impossibile senza la coesistenza dell'omogeneo con l'eterogeneo? Perchè non considera se quella che appare coesistenza immediatamente al senso,non si faccia mediatamente connessione? E, se cotesta connessione è recipro cità, perchè egli non mi lascia vedere le scienze esatte nelle naturali? Ne deriverebbe che, esclusa la possibilità di ogni ente metafisico, il suo positivismo farebbesi naturalismo. E tanto m e glio ! Tutte le perplessità finirebbero, e non si parlerebbe a n  Spencer pose gran cura a distinguere sė da Comte,ciò che oggi vuol dire positivismo inglese dal francese. Molte sono le differenze notate dallo Spencer, m a fan capo ad una: che Spencer cre le necessaria l'analisi psicologica, da Comte giudicata impossibile. E dietro quest'analisi Spencer perviene a quel s a pere unificalo, sotto il principio universale della evoluzione, che costituisce la sistemazione del positivismo. Innanzi all'universalità di queste leggi non vi sono per noi i riserbi, le oscillazioni dell'inconoscibile e del positivismo in glese; vi sono invece l'universalità e l'ardimento del naturalismo italiano, del quale cosi, senza taccia di orgoglio nazionale, ra gionavo nella mia conferenza a Torino: Che cosa manca?   Noi abbiamo affermato l'inconciliabilità tra l'infinità della natura e il vecchio caput mortuum della teologia.Non possiamo tornare indietro; e le perplessità del positivismo sono sdegnate dal naturalismo italiano. La parola stessa positivismo per noi è un equivoco: scientificamente ci suona semplice reazione alla metafisica, e moralmente dice negazione di ogni elevato ideale. La parola è sciupata. Il naturalismo dura quanto la natura, ed è proprio nelle nostre tradizioni, nel nostro indirizzo e nel n o stro genio. Non temo le conseguenze: la Verità e la Libertà sono, in fondo, una medesima natura (1). Dietro questi criterii, tenuto conto non di uno o due, m a dei precipui elementi naturali ch'entrano nella storia primitiva di Roma e che possono essere determinati come i faltori elemen tari dell'incivilimento romano, ne risulta che l'indole violenta ed il costume erratico de'primi congregati devono essere dal vasto campo costretti a farsi agricoli, e che il prodotto di questi due fattori, la violenza e l'agricoltura,doveva essere il genio m i litare di R o m a. E militari si annunziano il primo re, le prime istituzioni,iprimi fatti che aprono lastoria di Roma,come mi litare la postura della città istessi, ottima delle posizioni stratc giche in tutlo il Lazio. Or,dato un popolo agricolo e militare,un popolo,cioè,che [Bovio: Il naturalismo. Torino, Roux e Favale] vora dell'assolutamente inconoscibile, campo tetro,in cui possono rientrare tutti i vecchi pregiudizi, tutt'i terrori infantili e tutte le senili speranze sfatate dal naturalismo italiano. Diritto, ardito, impavido è l'ingegno nostro: è Colombo che, se ha da guardare verso l'America, non riguarda la Spagna; è Galileo che, se s'in china, non nega il moto; è Bruno che, se ode la sentenza, non disdice l'infinità della natura; è Cardano che ha più timore di smentire il proprio oroscopo, che di morire. Cosi pensa e cosi vuole: italianamente volere è come il supremo fato storico.   stabilisca il mio e il tuo e con la forza faccia rispettare il li mite,quale sarà la risultante di queste attitudini,quale lamis sione o il destino di questo popolo? È già evidente: sarà u n popolo giuridico per eccellenza, il popolo del diritto. Cosi va: la violenza e l'agricoltura fanno un popolo militare; l'agricoltura e la milizia fanno un popolo giuridico. La violenza temperata dall'agricoltura diventa milizia, a c u stodia del proprio campo; la milizia raddolcita dall'agricoltura diventa forza di equità. Cosi si scoprono i primi naturali fattori del genio romano: non forza contro il diritto (barbarie); non diritto contro la forza (decadenza ); m a diritto e sorza (civiltà giuridica ). Non basta dire il m o n d o greco fu della scienza e dell'arte, ilmondolatinofudeldirittoedelgoverno,ma bisognasapere perchè fu cosi. Allora occorre vedere non solo la successione cronologica delle idee e delle civiltà, m a indagare i naturali fattori che dispongono una nazione,piuttosto che un'altra, ad una deterninata civiltà, e proprio quella e non altra nazione. E per convincersi che quello fu davvero il genio di Roma e quelli i fattori dello incivilimento romano,gli studiosi rivolgano a sè m e desimi alcune domande.Eccole ordinatamente: Qual e fu, in generale, l'indole de’ popoli italici, e quale tra le genti italiche la postura di Roina? Quali i rapporti tra gli agricoltori e quale il costume? 4. Perchè fu tenace il costume e lento in Roma l'accu mularsi della ricchezza? Perchè gl'idillii greci in Roma diventano georgiche, come le cosmogonie diventano poemi della natura, ed in qual conto R o m a ebbe gli scrittori de re rustica e le divinità campestri? 6." Qual'è la forina più latina del pensiero latino? È vero, in ultimo, che quel pensiero e quella forma. Che cosa più occorre, quando questi rapporti e questo costume si elevano a missione giuridica?   sostanza e modo di un mondo affatto prosaico alito di arte? - non hanno Se ciascuna di queste domande non avesse in sè molta im portanza, tutte insieme parrebbero da fanciullo per la loro di sparatezza, mentre, per la loro intima connessione, posson fare una sola domanda. E l'ordine delle risposte può far bastare una pagina, dove occorrerebbe un volume. Le genti italiche – per quell'armonia di facoltà, della quale abbiamo sopra toccato l'origine portano in ogni cosa che pensano e che fanno,non solo un senso finissimo di arte,m a g giore dove meno appare,ma quella che chiamano nota giusta ed è espressione di senso pratico, che, in fondo, è senso poli tico.E dico senso non per traslato nè per uso di linguaggio co mune,ma proprio nel sensopiùitalianamente scientifico,perchè intelletto e volontà sono evoluzioni del senso. Quindi sono popoli che hanno meglio equilibrati gli ordina menti politici, e più disciplinati gli ordinamenti giuridici e m i litari. R o m a, e per i fattori del suo genio e perchè posta nel cuore della penisola,veniva naturalmente a concentrare tutto il genio italico e a dargli quella espansione che può raggiare da una città nel medesimo tempo giuridica e militare. Il genio di Roma,insomma,traperl'origine e per la postura è nelle con [Non sarà inutile ricordare ciò che scrissi nel citato discorso sul naturalism ap.19: Il senso era umiliato e depresso da due presupposti: che lo avevamo comune con le bestie e coi zoofiti; e che la ragione p o teva far senza di esso, come l'anima senza del corpo. Presupposti, come è chiaro, della vecchia psicologia metafisica, esagerati dalla scolastica, raffi nati dall'idealismo più recente. Il senso che si osserva,e che si sente,si alza,si riabiliti e testimonia e scrive di sè stesso: Il senso avverte il fatto naturale, il movimento del fatto e in ogni fatto la coesistenza dei contrarii, per es., identità e differenza, genere ed individuo, comune e proprio. Il senso avverte sè,ilmovimento da cui deriva e in cui si deriva,ed in sè la connessione dei contrarii, per es., infinito e finilo, causa ed effetto, necessità e libertà. Il senso avrerte la  dizioni più naturali per concentrare ed espandere il genio ita liano. E ne'popoli agricoli, più che ne'commercianti,sorge schietto il sentimento del diritto e poi dell'equità, perchè più semplici tra gli agricoltori, che non tra'commercianti,sorgono i rapporti sociali. E, sorti, trovano subito stabilità nel costume e certezza nelle forme, come stabile e certa è la terra, sulla quale e per la quale l'agricoltore vive, come certo e stabile il limite del colto. E da questa medesima stabilità e certezza, la tenacità del costume e la rigidezza avversa ai subiti e pericolosi guadagni del commercio. Però in R o m a fu lento l'accumularsi della ric chezza e ancora più lento il contagio del lusso. Se poi questi rapporti e questo costume, ne'quali si accentra il genio di tutto un paese, sono destinati ad elevarsi a missione giuridica, ciò che più occorre per tradurla in atto cotesta m i s sione segnatamente in mezzo ad un mondo barbaro è la forza. Perciò una grande missione giuridica, la quale non sia militare nel medesimo tempo,è un'astrazione da missionarj,come una gloriosa missione militare che insieme non sia giuridica e non si ordini a qualche alto fine civile, è un'astrazione da nar ratori ciclici. Il dominio di R o m a è pari alla forza, e l'uno e l'altra sono pari al concetto ed alla missione giuridica. Quindi, propria tendenza a trasmutare ilfatto naturale in fatto storico, a insi nuare nella storia il proprio moto e a determinare il fine del moto sto rico nell'equilibrio dei contrarii, per es.,persona e Stato, lavoro e pro dotto, dovere e dritto. Volete questi diversi gradi del sentire chiamarli senso,intelletto e vo lontà? Ritragga il linguaggio con queste parole questa distinzione di gradi, ma distinzione di gradi, non separazione di facoltà: distinzione di gradi nella evoluzione del senso,come ilsenso è dellanatura,non tante ipostasi di tante facoltà.Come l'evoluzione delle forze chimiche perviene sino al l'organismo e dell'organismo sino alla vita e della vita sino al senso,così l'evoluzione del senso sino all'intelletto e alla volontà. Nessuna ragione, m a il solo pregiudizio può condurci a moltiplicare i principii e le leggi.  col crescere e determinarsi del concetto giuridico si giustifica l'egemonia di Roma sopra tutto il mondo mediterraneo, e con la coscienza che Roma desta del medesimo concetto negli altri popoli, si spiega il testamentu di Augusto in Tacito: Addiderat consilium coercendi intra terminos imperii. Quindi, si spiega perchè in R o m a,mentre tutto è militare e la procedura giuridica non si scompagna dalla lancia, tutte le distinzioni civili e politiche sono derivate dalla terra. È patrizio chi possiede terra ed il segreto de'diritti inerenti al dominio; sono clienti, colientes,quelli che coltivano il campo del patrizio; plebei, quelli che coltivano e costumano vivere sul proprio campo; proletarii, quelli che non hanno campo, fuori del quale non c'è avere. E si ponga mente a questo, che nel cliente c'è la radice del colono; che ne' rapporti tra cliente e patrono è adombrata la prima tradizione feudale, che non si è interrotta mai nella storiadelmondo;cheilclienteècittadino,ma non saclasse di cittadini; e che in ciò principalmente si distingue dal servo che nè è persona, nè cittadino, nè fa classe di cittadini. Agraria è principalmente la lotta tra le parti in R o m a; agraria l'origine del dominio bonitario; agrario il fondamento del censo; agrarie le leggi provocatrici de'più grandi dissidii e di radicali riforme negli ordinamenti politici e civili di R o m a. L'evoluzione dello spirito romano porta sempre questa impronta del principale fattore del suo genio. Tra la legge licinia e la legge sempronia c'era sempre sull'agro pubblico tesa una corda, che, tocca, consuonava con l'animo romano. Campestri da Saturno al Dio Termine sono le deità indigene diRoma;ilcampoaratoèara;proarispugnare inanticoè difendere il campo; e da un fanciullo uscito dall'aratro impara rono l'arte degli aruspici, di gran momento nel cominciare le imprese civili e militari.Censorino scrive$ 4:Nec non in agro Tarquiniensi puer dicitur exar atus, nomine Tages, qui disci plinam cecinerit extispicii.– Anche negati gli aborigeni,restano gl’Iddii autoctoni che si piacevano di riti e canti campestri e 6 – G. B Vic. Disegno di una Storia del Diritto,ecc.,ecc.  da'campi mandaron voce ad Ercole di preferire le offerte di lampade accese ai sacrifizj umani. Gli Dei che dal primo anno urbe condita sino alla prima dittatura perpetua entrano in R o m a insieme co'popoli vinti, sono costretti ad entrare anch'essi in servigio del vincitore, dal quale assumono forma e costume. La Giunone di Grecia non è quella de'Latini,nè il Giove di Atene è quello di Roma. Quando non più assumono il costume del vincitore, non sono più adorati. Ma nė per numi peregrini nè indigeni c'è mai guerra tra i popoli latini, né dissidio civile, nè giudizio per divinità. L'aco nito di Lucrezio - se mai fu provato - non somiglia alla cicuta di Socrate: non ci fu accusa, da che i dotti di R o m a sentirono che il poema della natura era l'espressione più vera del senti mento contemporaneo. In Roma gli Dei sono piuttosto per l'uomo,che l'uomo per gli Dei, i quali più si allontanano come più si determina il sentimento del diritto, che ha dato alla lotta romana principalmente l'impronta agraria. — E l'ager romanus da prima determina le tribù, le quali sono non solo personali, m a locali secondo la partizione dell'agro. Nell'arte non si smentisce questo elemento precipuo del genio romano, anzi vi si determina e spiega. Se l'idillio greco entra in R o m a, si fa georgica, le quali Di patrii, Indigetes det tano ad alto fine: Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram Vertere, ulnisque adjungere vites Conveniat. Aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat. Ma,seèvero,comesentiHegel, chegliDeidiVirgilio ven gon giù dalla macchina, in queste georgiche la macchina è più visibile: mostrano abbastanza che vengono dopo il poema della natura, e che secondo leggi schiettamente naturali la terra vuol essere pulsata. E l'arte romana non ha nulla di più perfetto di    83 questo poema della natura e di questa applicazione che delle leggi naturali si fa nelle georgiche, poema agrario. Celebrati, dopo questi, sono scriptores rei rusticae et Gromatici veteres, per la tradizionale venerazione della coltivazione e della misura dell'agro: tra'primi M. Porcio Catone, Varrone e Colunella; tra'secondi Sesto Giulio Frontino, Aggeno Urbico, Igino. Humana ante oculos foede cum vitajaceret In terris oppressa gravi sub relligione Primum Grajus homo mortaleis tollere contra Est oculos ausus,primusque obsistere contra (2). Ed è chiaro:sarà questo in Roma il contenuto filosofico:lo stoicismo non sarà che di reminiscenze, e l'eclettismo, di s c m plice erudizione. Quinto Sestio,stoico più che eclettico, non saprà parlare di Giove che con un motto sarcastico, tramanda toci da Seneca: Iovem plus non posse, quam bonum virum; a Cicerone, eclettico più che stoico, morto otto anni dopo L u crezio, non saprà ammettere l'esistenza degli Dei che in via di sempliceopinione:Deosessenaturaopinamur.E idottisinno quanto questo opinatore magno, come Cicerone chiama sè stesso, confidi nelle sue opinioni teoretiche e teologiche. Intravedesi  E la filosofia? Dove sviluppato è il sentimento del diritto, e per questo appunto la lotta si fa tutta umana e principalmente agraria, gli Dei, a breve andare,si allontanano dalla scena.Epi curo occupa Roma è il suo campo naturale e Amafinio pubblicamente lo insegna in buona prosa latina come Lucrezio lo espone in versi mormorati a lui dalla natura ch'ei canta: Perchè? (1)Lib.3. Te sequor, o Graiae gentis decus, inque tuis nunc Fixa pedum pono pressis vestigia signis (1): (2)Lib.1. che la macchina teurgica non manca a Cicerone che prelude ai politici di razza latina, invocando gli Dei piuttosto a rincalzo dello Stato che a fondamento di religione. Ma sopra tutt'i poemi e tutte le prose latine l'epigrafe mi parve sempre la più latina forma del pensiero latino. Versi e prose se ne scrivono in ogni lingua, più o meno classica,e morta e viva; ma l'epigrafe, che non è nè prosa nè verso, non mi parve mai vera in altra forma fuor della latina. N'è prova il fatto costante: sempre che si voglia far vivo un pensiero sopra una pietra e quasi comandarlo alla memoria degli uomini,lo si fa latinamente. E,perchè il pensiero trovi equazione con la forma, bisogna che abbia alcun che di universale e d'importanza umana: una epigrase latina, oggi, sulla tomba di una giovinetta, di un fanciullo, di un uomo oscuro, accusa gli eleganti ozii di un pe dante, anche quando egli riesca alla pietosa eleganza di Antonio Epicuro, che gemeva in latino del cinquecento, e in dotte a n titesi, la sostituzione della morte alle nozze. Nam tibidumque virum, tedas, thalamumque parabam, Funera et inferias anxius ecce paro. Anche il nostro Settembrini, che avea gusto finissimo del bello, si lasciò ingannare dalsingultoin antitesieleganti, e non seppe distinguere tra l'epigrafe dotta e l'epigrafe latina. È vano sfatare l'epigrafe: sempre che si voglia dire con ef ficace brevità un pensiero universale o un fatto d'importanza universale, si dirà epigraficamente e latinamente.In altra forma e lingua apparirà lo sforzo, anche coperto dalla maestria del Giordani che sopra Colombo e Machiavelli scrisse le epigrafi meno incomportevoli. Noterò breve la ragione di questo fenomeno letterario. Quando si dice la lingua latina, imperatoria, ellittica, essere percið epigrafica, il discorso rimane all'esterno; e però viene a dire che la lingua latina è epigrafica, perchè è.– L'intimo è    che il pensiero latino — giuridico. Si dirà, per afferrare transiti dove sfuggono, che l'epigrafe è il passaggio dal verso alla prosa,dalla fantasia alla riflessione, e tiene però dell'una e dell'altra. No: l'epigrafe esprime il sommo della riflessione, perchè determina ciò che in una gene razione c'è di più universale, o come pensiero o come sentimento, e lo stringe sotto non il numero de' piedi o delle sillab e, ma delle parole,ed ha però forma egualmente discosta dal metro poetico e dalla licenza prosastica. Chi consideri come l'universalità del dirittosi determina nella precisione massima della parola, scopre subito l'equazione tra il responso e l'epigrafe, e conchiude senza peritanza, che, ri spetto al genio romano, sono di eguale importanza il corpus iuris e il corpus inscriptionum latinarum. Tutte le regole di Morcelli de stylo inscriptionum fanno la rettorica epigrafica, la più fatua melensaggine letteraria. Al g e suita mancava il pensiero. Intanto questa indole epigrafica di Roma, che riappare da ogni carta e da ogni pietra,in ogni parola e in ogni lettera latina, questa appunto per la sua espressione nuda e severa ha fatto dire che il genio di R o m a non ha nulla di artistico. Quel che di fluido e più abbondante s'incontra nella letteratura latina, è greco. Per gli odiatori del nome romano, Roma è la città della forza; per i più benevoli, è la città del di ritto; per gli uni e per gli altri il genio romano è meno estetico del cinese. Conchiudiamo questo capitolo, esaminando questa affermazione. Che il mondo romano sia stato poetico davvero, come fu la Grecia, e come la nostra rinascenza greco-latina da Dante in poi, non si può dire, si perchè nell'arte di R o m a non troviamo l'individuazione de'caratteri poetici, e si perchè il canto vera è universale, imperatorio, categorico. Per cosa ingiusta e con parole indecise non c'è forza di comando.Perciò ripeto che inRoma ilresponso è epigrafico, l'epigrafe è responsivamente poetico non si leva mai solo in un popolo, ma in un periodo in cui gli vengono successivamente compagne le altre arti: la pittura, la scultura, la musica, l'architettura.Non c'èragione, perchè, una volta accesa la fantasia di un popolo, si debba tutta e solamente stringere ne'metri poetici e non cercarsi il ritmo nelle altri arti: c'è invece la ragione contraria, che, nato il canto, si presentano l'una dopo l'altra tutte le altre forme della individuazione poeticil. I caratteri poetici migrano per le diverse forme dell'arte, finchè si adagino nella forma più propria, dalla quale sdegnano essere rimossi. Così il Giove di Omero passa in Fidia,e ilgiudizio di Dante in Michelangiolo. Ma,se ilmondo romano non è poetico, nel senso estetico della parola, è nondi meno artistico in grado inimitabile, perché non neglige la forma dietro la ricerca di un contenuto informe, ma la cerca in equa zione perfetta col contenuto, anzi dal contenuto si studia deri varla, perchè sente che un pensiero che si deterinina, facendosi, si crea determinatamente la sua forma. Il contenuto, la sostanza propria del pensiero latino è il diritto, il quale in Roma si connatura con la forma romana, come il Giove greco con la forma greca. La parola del giure consulto latino scolpisce come la subbia di Fidia. Come da quella subbia esce il sopracciglio cuncta movens, cosi da quella parola erompe l'imperativo giuridico. Or, questa perfetta equazione tra pensiero e forma, tra l'im perativo giuridico e il grammaticale, tra l'imperio concitato e la forma ellittica, quasi tronca, onde Leibnitz, dopo gli assiomi de'geometri, niente vede più certo de' responsi latini, questa appunto è intensamente artistica. Il giureconsulto non è il poeta, è l'artista del diritto.  86 E per provare col fatto, io ben ricordo che la lex XII T a bularum fu chiamata carmen necessarium, e, cresciuta l'equità, -orrendocarme;chequesto carme fugiudicato un severopoema, ricco d'immaginazione e a desinenze quasi ritmiche; che fu salto imparare a coro da'fanciulli; che Cicerone ne parla con   quell'entusiasmo (1),onde iGreci ricordavano l'Iliade; che i R o mani derivavano più onore dalle XII tavole,che non dalle guerre puniche; m a so pure che la voce carmen presso i latini ha si gnificato assai più largo che poesis, e mi baderò dal definire poema di qualsivoglia natura il carmen necessarium. Ma ag giungo subito che in queste medesime tavole si manifesta il genio artistico del legislatore romano, per una mirabile equa zione tra contenuto e forma, la quale ferma e stabilisce quelle tavole come tipo di tutta la legislazione romana, e le fa perenni nel culto di quel popolo togato e armato. Al primo sguardo sulla tavola prima si legge: SI IN IUS VOCAT,NI IT,ANTESTETOR;IGITUR EM CAPITO. Non un articolo, nè un pronome in caso reito; due impera tivi in cadenza, e tra'due, come a temperarne la durezza,l'igi tur, che presume parere la razionalità ed è la semplicità pri mitiva della legge.Ogni legge scritta è igilur in sè medesima, è il corollario particolareggiato di un principio generale e di una applicazione sottintesi; e però l'igitur espresso non è trovabile fuor della semplicità infantile della legge. Basta averlo trovato in prima, e non pare che vi s'incontri due volte.Hegel direbbe che questa procedura non solo insita nella legge m a soverchiante, ed a cadenze d'imperativi della specie di capito, ricorda troppo la manus.Due cose sono da rispondere:l’una,che laprocedura molta e stabile, diffusa in tutte la dodici tavole, anche nelle due ultime che Cicerone chiama inique (duadus tabulis iniquarum [Per Livio è fonte; per Tacito è fine; per entrambi è corpo del diritto: quindi, fons publici privatique juris in Livio; finis aequi juris in Tacito;corpus omnis romani juris ne'due storici e ne'giureconsulti. Ma più se n'esalta Cicerone nel De Oratore: Fremant omnes licet, dicam quod sentio.E dirà,giurando per Ercole,che ilsolo libretto delle dodici tavole per peso di autorità e di utilità avanza di assai le biblioteche di tutt'ifilosofi.Questo unus libellus era l'Iliade de'Romani.  87   legum additis), svelano l'indole di un popolo agricolo; l'altra, che tutta questa procedura primitiva, che è o la forza o simbo leggiata dalla forza, in R o m a è sempre in servigio di un diritto che determina un rapporto tra gli ordini noverati sopra, o tra due del medesimo ordine rispetto ad una medesima cosa. REM UBI PAGUNT,ORATO, Qui, nelle dodici tavole, é evidente, è propria, sto per dire, è bella: certo, come legge, questa evidenza epigrafica non è solo il sommo della brevità, ma dell'arte. Fuori della legge, in Tacito, assai volte la brevità perde l'evidenza e diventa cortezza, l'arte si svela e si fa sforzo, e l'oscurità della frase indica l'o scurità de' tempi e l'animo oscuro di chi si trova solo in mezzo a que' tempi. Bella ancora nelle XII Tavole la seguente procedura che sta bilisce equazione tra l'esrcizio della legge e del Sole: SOL OCCASUS SUPREMA TEMPESTAS ESTO. Tutt'i verbi trovansi all'imperativo, e l'imperativo nel rit mo,ma più di frequente questo verbo essere, come se l'essere in Roma questo dovesse significare principalmente: l'impera tivo giuridico. Parrebbe ai meno accorti soverchia la parola rem innanzi a pagunt: la levino e sarà come levata la parola inducias innanzi al pepigit di Livio. Le parole in quelle tavole sono numerate  88 Notinsi intanto l'evidenza nella brevità epigrafica, la rapidità del comando, la risolutezza della procedura. Non si saprebbe quale parola o monosillabo levare od aggiungere. È il getto di un pensiero giuridico, nato insieme diritto e procedura, impera tivo nella essenza e nel modo,ritmico senza esser verso, arti stico senza nulla di poetico. Notisi in questa ilmaximum della breviloquenza: si come nelle epigrafi, e risermano, con l'esempio, la dottrina espo sta intorno al genio di Roma. L'arte della legge,propria dello spirito romano, si annun zia sin da queste dodici tavole; e i primi ed i,secondi decem viri furono artisti. Coloro che anche in queste dodici tavole vollero vedere Atene, ed una legazione uscita romana e tornata attica, ed Ermodoro esule d'Efeso primo glossatore, e dietro le dodici tavole la statua di Ermodoro, furono confutati da Vico, e la confutazione fu di quelle che non ammettono replica. Non solo nella essenza delle dodici tavole c'è lo spirito originario di Roma,ma c'è ilgetto del pensieronellaforma.Le dodicitavole in greco suonano come l'Iliade in latino:chi sotto la forma indi gena non sente il pensiero esotico, è sordo ad ogni risposta di Cirra. Le dodici tavole,come forma,svelano ilgenio diRoma,mi rabile nella concezione ed espressione della legge, mirabile per quella equazione in che dimora l'arte di una qualunque disci plina; come fine, svelano un'altra equazione che è tutto il dise gno di un popolo giuridico:summis infimisque iura aequare; come origine, svelano la prima equità nella notizia del diritto, la promulgatio. La promulgatio accenna il transito dal s u m m u n ius all'ae quum bonum in un popolo che ha congenito il sentimento del diritto e lo sente e lo celebra come sua missione. Il Tribuno, provocando la promulgalio, astringerà il diritto consuetudinario e il quiritario a fissarsi sulle tavole; il Pretore, secondo i casi particolari, tradurrà il diritto scritto nell’equità naturale;ilGiureconsultotradurrà l'equità nelle regole uni versali di ragione. Il Tribuno sorge una generazione dopo ilregifugium ed una generazione prima delle dodici tavole: e, sorto tra queste due generazioni, significa, con la sua presenza, che, mutala forma di governo, si è mutato lo spirito di una nazione. Il Pretore, non quello semplicemente da prae ire, m a quello appellato urbanus,  Considerata l'origine del Tribuno, e i due primi, Giunio Bruto (forse nipote del primo) e Sicinio Belluto, tra patriziato e plebe; considerati nel Tribuno il vus auxilii, il ius interces sionis e il veto; considerata l'inviolabilità, ond’ era sacra la per sona del Tribuno, ed il violatore era caput Jovi sacrum; fu detto che il Tribuno è un tipo affatio italico, e del tutto italica l'istituzione del Tribunato. Doveva dirsi invece che il Tribuno, il Pretore ed il Giureconsulto sono tre grandi momenti dell'equità romana; e tre risultamenti memorabili della lotta umana ed agraria tra patrizio e plebe sono la promulgatio, l'editto ed il responso. E qui due considerazioni: la prima, come risultamento della lotta romana sono il Tribuno, il Pretore ed il Giureconsulto, tali hanno ad essere le dodici tavole, e tutte le leggi che da quelle promanano; l'altra, che chi credesse ancora tutto e solo della forza questo mondo di Roma, dovrebbe correggersi innanzi al Tribunato, al Pretorio ed al responso. In R o m a, desto il sentimento dell'equità, fondamento p e renne della lotta umana che si agita in tutti i tempi di Roma, si desta insieme l'accorgimento politico, onde il patriziato cerca prevenire gli strappi e capitanare le riforme che non può nè respingere nè fermare:quindi, è possibile vedere da una parte la lotta agraria, le guerre servili, la guerra sociale e la guerra gladiatoria, dall'altra Spurio Cassio, patrizio, giustificare col suo sangue la prima legge agraria, F. Camillo, patrizio, giustificare l'equità pubblica, presentandosi primo pretore accanto al tempio votato alla Concordia, Emilio Papiniano, patrizio, portare il re quod in urbe ius redderet,venne tre generazioni dopo la pro mulgazione delle dodici tavole, perchè dopo tre strappi fu m e stieri di chi piegasse la legge scritta verso la naturale equità. Il Giureconsulto accompagna tutti i tempi del diritto, m a domina l'imperatore e lo Stato, il mondo di allora e i secoli posteriori, quando libera l'equità dallo editto e la incarna in pronunziati universali.Quindi,più dileguasiilTribuno,più scende ilPretore, e più grandeggia il Giureconsulto.   Sempre che gli uomini pronunzieranno questa parola « EQUITÀ », la quale, in fondo, è libertà, ed è l'alto fine della storia, si ripresenteranno alla memoria di tutti il Tribuno, il Pretore, il Giureconsulto, il primo a promuoverla, il secondo a specifi carla, il terzo ad universaleggiarla. (1) Mi occorse nel 1881 rispondere ad alcune parole del Cancelliere del l'Impero tedesco ripetute nel Senato italiano, e pubblicai subitamente le parole che seguono per provare che non si hanno a chiamare concessioni quelli che nella storia sono strappi. Riconosco, nella calma dello scrittojo, la concitazione di alcune frasi che potrebbero alterare il senso positivo dellastoria,ma ilfondo rimane vero,epiùveroancora,chelapoliticafine dell'antico Senato oggi non può trovare imitatori nè in Germania, nè in Italia,nè in Francia.Ecco,intanto,le parole di allora: Giova ripetere il senso delle parole di Bismarck, ripetuto già nel Senato italiano, per mettere sotto gli occhi del principe tedesco e de' senatori italiani alcune verità storiche, alcune leggi e certi nomi che non dovreb bero essere mai dimenticati da'prudenti che presumono condurre gli Stati, lontani dai partiti estremi, e li trascinano fuori delle leggi storiche. Il Cancelliere ha detto: Da venti anni alla sommità dello Stato, ho potuto osservare che gli Stati,passando di una in altra concessione, pas sano dalla forma monarchica alla repubblicana. Il Senato ha detto: Le troppe concessioni al diritto di suffragio conducono al Senato elettivo. L'uno preoccupavasi della corona, gli altri della propria istituzione. Hanno ragione e torto. Ragione,perchè,passando di diritto in diritto,si perviene fatalmente alla sovranità nazionale senza delegazione, e a tutti gli ufficii per elezione. Torto,perchè non sono concessioni glistrappi.– Idirittifuronostrappati sempre dai popoli agli Stati, dalla scienza alla storia, non concessi mai. Si può dire al pensiero: « non conchiudere »,se la premessa è posta? Si può dire alla storia:« non gravitare »,se l'impulso è dato? Idivieti dello Stato non fermeranno la storia, come i divieti del sacerdozio non fermarono ilpensiero. Vo'mettere sotto gli occhi del cancelliere tedesco edeisenatoriitaliani quattro secoli di storia dell'antico senato romano, cioè la rapida succes sione democratica di quattordici generazioni, dal 260 di Roma al 684, af  91. sponso sopra l'imperatore Caracalla e per il responso lasciare la vita, come già Spuso Carisio per la legge agraria sulla rupe Tarpea. I Tribuni, i Pretorie i Giureconsulti, venuti dopo di quelli, arrivarono in ritardo, perchè altro ai tempi nostri è il contenuto dell'equità, altro il metodo, altri ne sono i rap presentanti. Ora questo è chiaro: mentre da Papirio a Papiniano si svolge il tipo del giureconsulto,non appariscono in Roma scrittori po litici. In Tacito comincia, declinando lo Stato, ad apparire la finchè si accorgano che gli strappi non sono concessioni e che la gravita zione storica è continua. Sino all'anno 260 di R o m a che è la plebe rispetto al patriziato? II senato, le cariche religiose e civili, il comando degli eserciti, il dominio ne' comizii curiati e centuriati, tutto è dei patrizii. Il plebeo che non può campar la vita dal ricolto o col magro bottino,è destinato a diventar d e bitore del patrizio, ad essergli venduto per aes et libram, a farglişi nexus o addictus. Ciònonèlungamentecomportevole. Iplebeisiritiranoinarmisul l'Aventino e ottengono due magistrati proprii, i tribuni. Iltribuno nacque come re:sacroecoldrittodiveto.Ilvetofu tri bunizio e destinato a farsi regio, perchè allora doveva essere limite all'ari stocrazia, oggi alla democrazia. L'attentato alla vita del tribuno era cri mine capitale.La formula è in Livio:Caput Jovi sacrum. Il veto e l'inviolabilità del tribuno furono concessioni? I costretti vol lero parere e chiamarsi provvidenti. Una generazione appresso (anno 292 diRoma)laplebefaintendereche non vale un magistrato proprio senza una legge comune e spiegata.Quindi, la mezza generazione che corre dal 292 al 303,è occupata da due decem virati, destinati alla compilazione delle dodici tavole, ispirate alla triplice necessità:promulgatio;libertasaequanda;provocatio ad popolum.Ecco, la legge è scritta, è promulgata, non è più un segreto patrizio che erompe, come responso,dall'atrium,è aperta la viadelpontificatomassimo ad un plebeo,a Tiberio Coruncanio. Fu concessione? Tacito accenna neque decemviralis potestas ultra biennium,e Livio spiega quanta plebe in armi è dietro Virginio e quanta se ne accampa sul monte Sacro. L’impulso è dato, la gravitazione è in ragion diretta della massa. Nel medesimo anno 305, in che precipita il decemvirato, la tegge delle dodici  Fu concessione o strappo? 92   93 politica; m a lo storico prevale anche in Tacito, perchè siamo ancora discosti dalla catastrofe. tavole è sorpassata dalla legge Valeria Orazia. Iplebisciti,proclamati ob bligatori per tutti,obbligano ilSenato.La formula è in Livio: Ut,quod tributim plebesjussisset,populum teneret. La conseguenza è immediata: una plebe legislatrice può imparentare col patriziato. Ed ecco Canulejo tribuno, quattro anni dopo,nel 309 di Roma, sorpassa la seconda volta le dodici tavole,spezza iriparitralecaste,pro clama il connubium patrum et plebis, incrocia, confonde, mescola i ceti. Concessione niente,fu sedizione audace e flagrante: seditiomatrimo niorum dignitate, ut plebei cum patriciis jungerentur. Lo strappo è net tamente stabilito nel primo Libro di Floro: Tumultus in monte Janiculo, duce Canulejo tribuno plebis, exarsit. Il senato non voleva, m a la plebe exarsit. Potrà, or dunque, il plebeo salire anche al consolato? Potrà sentirsi il rumore de'fasci in casa plebea? Si chiamino pure tribuni militari,ma la dignità consolare è divisa.Tacito scrive:Neque tribunorum militum jus consulare diu valuit;perchè,dopo unalottaquarantenne,ladignitàcon solare,ripreso il vecchio nome,non si limita ai vecchi uomini. Fattasi l'eguaglianza negli onori, è tempo che si proclami l'aequanda libertas, l'eguaglianza anche innanzi al diritto punitivo. Ed ecco,due anni dopo l'istituzione del tribunato militare, nell'anno di Roma 311,nasce il Censore che può notare d'infamia il plebeo e il senatore, il console ed il cavaliere, l'uom privato e il magistrato pubblico. La formula di codesta parità leggesi in Ascanio, Divinatio in Caecilium. « Hi prorsus cives sicnotabant,ut qui Senator esset,ejiceretursenatu;quiequesromanus, equum publicum perderet; qui plebeius, in tabulas Ceritum referretur et aerarius fieret ». Livio ammonisce nel libro sesto che non ci furono concessioni. Dopo le discordiae sedatae per dictatorem ci dice CONCESSUM ab nobilitate plebi de consule plebeio ! R o m a, che, dilargando il diritto, democratizza la repubblica e sale verso l'aequanda libertas,èinexpugnabile;Roma,chenellospaziodidue ge -  E si vien chiarendo insieme al disegno di questo libro, che, cioè, mentre grandeggia lo Stato romano, e come re publica e come impero, fiorisce il giureconsulto; e più il dominio si dilarga, più si fa universale l'intelletto del giu reconsulto, e più n’esce universale il responso, dal patrizio   al plebeo, all'italiano, all'uomo. È vano cercare lo scrittore politico in questi secoli di grandezze e di gloria: il politico non sarà mai contemporaneo del giureconsulto. Mentre la gran politica sarà nel patriziato e sarà pratica di governo, non sarà scritta. Disfatti gli Stati italiani e nata, di contro ai grandi stati e u ropei che si formavano,l'esigenza di uno Stato stabile, quale nerazioni, dal 200 al 311, ha posto di contro al patriziato il tribuno, la legge decem virale, la legge Valeria Orazia, la legge Canuleja, i tribuni militari ed i censori, non può, nelle due generazioni dopo l'istituzione censoria, nel 354, essere distrutta da'Galli Senoni; ma, uccisa nelle vie, esce rinata dal Campidoglio. Senno patrizio e valore plebeo, concordi, la rifeceru. Usciti dal Campidoglio, per comun valore, occorre che l'aequanda liberta sabbia la sua norma certa, temperatrice del certo jus summum, sta bilita nelle dodici tavole. Ed a tale uopo, una generazione appresso (387), sorge, come speciale magistratura, il pretore che col quadruplice editto piega, corregge e integra il diritto stretto nella giustizia pretoria. M a Roma,un secolo appresso,è già capitale d'Italia,ed un secolo in punto appresso (488) accanto al pretore urbano viene a sedere il pretore pere grino: due alte magistrature che si suppliscono a vicenda e che di patri zie si fanno popolane non per concessioni, ma per terribili strappi ehe dentro sono discordie civili, e fuori la guerra sociale, onde Italia, a conto di Vellejo Patercolo, vide sopra campi italiani, in meno di un anno,uccisi più di trecento mila italiani che seppero,morendo, tramandare ai super stiti il dominium ex jure Quiritium. Perchè, dunque, codesto dritto quiritario di patrizio divenisse popolare, e di romano divenisse italico, quante grazie, quante concessioni di patrizii sceserospontaneesullapleberomanaesu'popoliitalici?– Ricordisipiut tosto la storia della Lex Plautia (De civitate), e lascino stare le conces sioni e le grazie. E quando,superate le discordie civili e la guerra sociale, noi ci tro viamo tra le armi di Mario e di Silla e vediamo Montesquieu torcere lo sguardo da queste ire implacabili tra due titani, dobbiamo noi imitare la pietà che inspirava lo Spirito delle leggi? La critica storica è crudele:passa tra'cadaveri romani e vuol sapere perchè Silla fu'na di sangue latino. Silla preoccupa il ten'ativo di Giuliano che si fosse, in Italia, sorgono ed eccellono, sopra tutti gli altri, gli scrittori politici. Allora il diritto non istà da sè, m a cade in servigio delle due tristi necessità che hanno a fare lo Stato: la forza e la frode. I glossatori abbondano, ma il giureconsulto non verrà cortemporaneo degli scrittori politici.E più gli Stati rovinano, e più la politica si rifugia ne' libri. l'apostata: l'uno vuol rifare l'aureola attorno al vecchio senato, come l'altro intorno ai crani de'vecchi Dei. Ma,come Giuliano, dopo aver cac ciato dalla sua sede S. Attanasio e altri vescovi, non rialzò l'Olimpo, così Silla,dopo avere abbattuto la plebe, compressi i tribuni, abbassati i cava lieri e disciolte le assemblee tribute, non potè rialzare il vecchio senato. Perciò, dopo cinque anni, abbandono la dittatura, cioè abbandonò Roma alle leggi storiche. Tal significato ha l'abdicazione di Silla, e tale a m m o nimento ne deriva al Senato, che nè per colpi di Stato, nè per reazioni si rifà l'antico potere. E pure la generazione che ha combattuto la guerra sociale, nella quale fu stabilito il dirittoitalico, la guerra civile non riuscita a rialzare il vec chio senato, è destinata a combattere due guerre servili e la guerra gla diatoria, ordinata in apparenza a rialzare l'antico patriziato sul cadavere di Spartaco. M a si guardi che, se la guerra sociale è per il diritto italico, la guerra servile, che chiude il lavoro della medesima generazione, è pel jus humanım: si guardi Spartaco morire combattendo, senza domandare quar tiere o tregua: si pensi s'ei non aspetti qualcuno dietro di lui, e se egli non senta che il vecchio patriziato non si rialzerà sul suo cadavere. Il senato non concede mai nulla e non riesce mai ad arrestare la democrazia; lo strappo rende popolare quel ch' era diritto patrizio, italico il dirittoromano,umano ildirittoitalico.Ilsenatochehacredutodivincere la guerra servile, è già servo: At Romae ruere in servitium consules, patres,equites!  - Siamo innanzi ad un mondo nuovo e senza nessuna concessione del Senato ! Bene o male? Rispondo che fu quel che doveva essere. Inevitabile era il cammino della plebe sino alla proclamazione, in Roma, dell'equità umana che doveva dalle nazioni vinte esseretoltacontroRoma vincitrice. Io doveva dimostrare che tutto fu preso e niente concesso e che la grande politica del patriziato romano non consisteva soltanto nel cedere, sembrando concedere, ma nel preoccupare quel ch'era inevitabile nello svolgimento dell'equità: onde leggi democratiche si trovano più volte sotto l'auspicio di uomini consolari e di nomi patrizii. Quando lo Stato è in sul ricomporsi, e la rinascenza ita liana, che in parte ha fatto e in parte prepara le tre grandi ri voluzioni europee la germanica, l'inglese e la francese volge al suo compimento,allora abbiamo la sintesi degli accor gimenti co' responsi, della politica col diritto, e sorgono i giure consulti politici che sono filosofi della storia. Il giureconsulto è il tipo latino, il politico è u o m o della rina scenza, il giureconsulto politico è uomo moderno. Il primo è la pura esigenza dell’equità,m a dell'equità astratta, perchè il mondo romano era transito dal civismo ellenico all'in dividualismo germanico, e non riusciva a contemperare i due termini, perché il transito non è la sintesi. Il secondo simula il diritto, in cui traveste la forza e la fede, perchè meglio che a far l'uomo mira a rifare lo Stato. Il terzo che vien dopo l'evoluzione intera del civismo e dell'individualismo, riesce a contemperare i due termini e,rispetto ai mezzi,a comporre la politica col diritto, secondo la misura dei tempi e dei luoghi. Questo sentimento dell'equità,che,diffuso da Roma nel mondo faceva la grandezza di Roma e poi la rovina, questo medesimo ricostruivala centro del cristianesimo che era una nuova esi genza dell'equità, cioè non tra' cittadini e tra le nazioni, m a tra gl'individui. Perciò il mondo germanico potė diffondere il cristianesimo, non accentrarlo. E, quando il concetto dell'equità avrà superato anche il cri stianesimo, Roma proclamerà la laicità dello Stato. Ora seguiamo il genio di Rom a attraverso i periodi dei giu reconsulti.  Ferrari vide che il progresso umano è una risul tante del corso e ricorso, della rivoluzione e reazione, e che questa risultante è significata nella storia dalla soluzione. La rivoluzione e la reazione hanno per premessa la preparazione e per corollario la soluzione. Questo è il circolo sillogistico di Ferrari.– Ma nè questi circoli si concatenano, nè ci lasciano vedere dove vanno, nè l'autore vuole che si guardi fuori e so pra il circolo, dentro il quale l'uomo fatalmente si trova. I cir coli di Ferrari, salvo il criterio della misura, del quale si ha da tenere gran conto, ci lasciano poi innanzi al destino u m a no ciechi,come i circoli di Machiavelli. Vico, denominando le epoche e connettendone la successione, ci promette più larga notizia del nostro cammino, e poi riesce a chiudersi egli stes so dentro i circoli suoi. Ad ogni modo, noverando i periodi del diritto romano,è im possibile dimenticare Vico che non può oggi, come allora, vivere straniero e sconosciuto nella sua patria. Nessun genio compendio più dolorosamente la sua storia. Tutti oggi ripetia m o a coro gli errori di Vico, e ci pare grandezza perdonargli la sua teologia e le applicazioni storiche troppo ristretle al mondo romano, e non vogliamo sapere che la teologia di Vico è quasi di continuo una naturale teologia del genere umano,la quale va a confondersi con l'antropologia, e che il mondo romano,apparso universale,potė parere nel tempo un disegno reale di una storia universale eterna. Io non so se sia più n a turale la teologia di Vico o più teologica la natura di Herder m a vedo chiaro che, se Herder entra innanzi a Vico nell'esi genza del naturalismo storico come metodo, resta assai indie tro rispetto al contenuto. In Vico c'è più sostanza scientifica, perchè i presupposti teologici e metafisici sono in ciascun libro della scienza nuova superati dal naturalismo italiano che, oc cupando la filosofia della storia, fa Vico l'ultimo titano della rinascenza. Vico celebra la teologia ed è fatto naturalista dal genio italiano;Herder invoca la natura ed è fatto metafisico dal genio tedesco. Tengasicontodiquesteavvertenze:cheVico,ponendo Ba cone accanto a Platone ed a Tacito, poneva l'induzione sul contenuto classico; che l'induzione, prima di apparire teorica in Bacone, era stata teorica e prutica in Galileo e nella sua scuola;che venir dopo Galileo e Bruno in Italia significava portare nella storia le leggi della natura, come aveva tentato la medesima scuola di Galileo; e che in questo compito doveva concludersi lo spirito della rinascenza. Perciò, sebbene Vico una volta appena tocchi di campagne, di cielo, di acque, di zone e di mutua influenza di nazioni, pure mette di natura nel suo li bro quanta ce n'è nell'uomo, dal senso all'intelletto, guardando in Lucrezio e presentendo Darwin.– Non c'è,dunque,da per donargli la teologia, m a da intendere pensatamente che cosa sono in lui la teologia naturale e la teologia civile. Queste due parole sono reminicenze della scuola privata; ma il contenuto messovi dal Vico è della scuola italiana. Quanto all'applicazione, Vico e Ferrari furono tirati ad o p postissimi errori, l'uno dal difetto dell'erudizione contempo ranea, l'altro dalla mancanza di sistema. Vico neglesse i p o poli storici o li trasse tutti dentro R o m a, Ferrari portò i suoi periodi anche ai popoli estrastorici, dove cioè manca la vita e l'intelletto della storia. Vico noverð tre epoche del diritto e della procedura e, tro vatele in R o m a, conchiuse averle trovate in tutte le nazioni. Nella prima epoca il diritto è divino e tutto involuto nella ra gione degli auspicii,che presso i popoli gentili tien lungo del la rivelazione, onde Iddio privilegið prima gli Ebrei e poi i cri stiani. Nella seconda epoca il diritto è nell'equità civile che è ragion di Stato, della quale il Senato romano fu custode sa piente e geloso. Nella terza il diritto è nell'equità naturale che è ragion comune, esercitata dalle repubbliche popolari e dalle monarchie umane. A questi periodi del diritto rispondono altrettanti della pro cedura. La quale, mentre il diritto è divino,“si esercita, Dio auspice e testimone, ne' giudizii divini. Quando il diritto è p o litico, la procedura è nella scrupolosa esattezza delle formole e delle parole giudiziarie e contrattuali, talchè il diritto paia più nelle parole,che negli uomini.Quando,in ultimo,ildiritto viene a combaciare con l'equità naturale, la procedura diviene una logica tutta'intesa al vero de' fatti, governata dall'intel letto e interpretata dall'equanimità.Quindi,icorpi jeratici go vernano prima, poi gli eroici, in ultimo gli uomini modesti ed equanimi. Vico trova questa successione di epoche nella natura u m a na, poi in Roma, poi, perchè nella natura dell'uomo e nella storia di Roma,nel mondo. R o m a, l'urbs, la città per eccellenza, la città universale, gli è sostrato al disegno di una storia universale. Ma,sollevata a questo vertice di universalità, avviene che prima perde R o m a 'la sua particolare fisonomia in quella delle altre nazioni, poi le altre, e senza serbarne traccia,la perdono in Roma.Non ci si lascia scorgere e neppure intravedere la ragione, onde certe leggi, certi istituti, e magistrati, e carattere ed imprese, furono romani, affatto romani, non trovabili fuori e dopo R o m a, ne perchè certi altri uomini e fatti e leggi non sono trovabili in Roma. È conseguenza di una filosofia della storia, fondata sulla troppo comune natura delle nazioni, nella quale spariscono le differenze. Perché il tribuno, perchè il pretore e il giureconsulto v e g gonsi in Roma e non fuori,perchè nascono dalla lotta romana e non dalla greca e dalla germanica, perché il responso come ufficio, come valore e forma, permane latino e non è mai supe rato nè imitato, tutto questo che importa sapere, non vi si dice da Vico. Non vi poteva esser detlo, perchè Vico investiga la comune natura delle nazioni e non le differenze, e la investiga nella mente che è comune,non nel dato etnografico e geogra fico che, modificandola, spiega le leggi della successione e della varietà. Se vogliamo,dunque,le epoche storiche del diritto romano, del romano e non di altro, bisogna cercarle nella propria sto ria di Roma, espressione del genio romano. Non è facile l'esatta partizione de' periodi del diritto ro mano; non è facile almeno rispetto a tutte le sue parti:perchè,se il diritto pubblico si muove insieme con lo Stato e si trasmuta secondo le tre epoche apparenti della costituzione politica di R o m a, non si può dire il medesimo del diritto privato,di cui le divisioni meno apparenti sembrano assai più lente, più consentanee ad una legge continua di evoluzione. Nondimeno abbiamo susficienti criterii per ridurre a tre clas si gli storici che espongono i periodi principali del diritto r o mano. Gli storici che, secondo una dottrina di Vico, dividono le età di un popolo come quelle di un uomo, accettano una divisione fatta con lieve differenza - da Gibbon e da Hugo. Allora la storia del diritto romano vien divisa secondo i periodi d'infanzia, di giovinezza, di virilità e di vecchiezza. Gli storici che considerano il diritto come una funzione dello Stato e veg gono il diritto privato procedere dal diritto pubblico, dividono i periodi del dritto secondo i momenti della costituzione politica diRoma.Allora,lastoriadeldirittoromano nella monarchia, nella repubblica e nell'impero. Questa divisione pare accettata  100   dall'Ortolan che presume derivare la storia del diritto romano dalla storia del popolo.In ultimo, gli storici che studiano lo svolgimento del diritto romano nella missione peculiare che il diritto ha potuto avere nel mondo e nel genio di Roma, divi dono i periodi del diritto secondo i momenti dell'equità. Allora il primo periodo lo dicono conchiuso dalla venuta del pretore urbano, il secondo da Augusto, il terzo da Costantino. Questa partizione, posta da Hulzio, è di molto valore in sé, m i viziata nell'applicazione dall'autore istesso per difetto di filosofia e di critica storica. Non mancano alcune divisioni fatte secondo le condizioni e conomiche e morali di Roma,ma di lieve conto, perchè sono le più incerle ed arbitrarie. È nostro compito – confutate che avremo le due prime divisioni – recare a perfezione la terza. La prima divisione de' periodi pecca di troppa generalità. Anche ammesso che la vita dell'uomo sia divisibile in quattro periodi isocroni e che tutti e quattro col medesimɔ isocroni smo siano applicabili alla storia, n'uscirà sempre una curva comune a tutte le nazioni, nella quale non appare il profilo di ciascuna.Nè questa curva lascia scurgere il transito dall'un all'altro periodo. Se le date che hanno da fissare questi pis saggi non sono determinabili con esattezza nell'in lividuo, chi potrà affermare con certezza, qui finisce l'adolescenza di un p o polo e comincia la giovinezza? Quindi, vengon fuori quelle di visioni arbitrarie, nate piuttosto a comodo di una scuola o di una cronologia convenzionale, che delle intenzioni effettive della storia.Ecco, infatti,come procede questa scuola dell'isocronismo, che porta nella storia romana l'età dell'uom).Prende tredici secoli in Roma, dalla fondazione a Giustiniano, e li rompe in quattro parti quasi uguali, di trecento in trecento anni, e denomina ciascuna parte da una delle quattro età dell'uom ). L'infanzia del diritto romano dura dalla fondazione di Roma alle dodici tavole; la giovinezza, dalle dodici tavole a Cesare; la virilità,dia Cesare ad Alessandro Severo;la vecchiezza, da Alessandro Severo   a Giustiniano. L'infanzia sarebbe la monarchia, i primi consoli e iprimitribuni; lagiovinezza, tuttala repubblica, dalla promul gatio sino alla riapparizione di quella che Livio chiama Vetus Regia Lex simul cumur tenata; la virilità e la vecchiezza sa re h bero tutto l'Impero,da cotesta tanto contrastata Regia Lex sino al Codex Iustinianeus. M a ciascun vede che i transiti sono estrin seci ed arbitrarii, e non lascian vedere le necessità intime che governano la successione de'periodi.Nė appare perchè invano Giustiniano si sforza, con cinque tentativi, di stringere il cristia nesimo sotto le leggi romane spirito nuovo in vecchia cor teccia – nè come il Cristianesimo si vien costruendo la sua più naturale espressione giuridica nelle leggi germaniche e nel gius canonico. La divisione pui de'periodi giuridici, fatta sulla successione della costituzione politica,è fatta davvero grossamente, e non ci lascia vedere né i momenti principali della repubblica, nè i pe riodi che si succedono nell'istesso impero. È certo che, mutata la costituzione politica,non è soltanto mutata la forma di go verno,ma dev'essersimutatoinsiemeilcontenutodeldiritto pubblico, e, conseguentemente, del privato, sebbene la conse guenza non si mostri immediatamente; m a nessuno può affer mare che cotesti trasmutamenti non avvengano durante appa rentemente una medesima forma politica.Se l'epoca di Alessandro Severo può dividere in due periodi l'impero, perché la legge Publilia che dichiara popolare la repubblica, e la legge Petelia che libera la plebe dal diritto feudale rustico del carcere privato, non varranno, secondo la mente di Vico, a designare tanta di stanza tra repubblica e re ubblica, quanta forse non se ne trova tra Tarquinio e Bruto? Ma si faccia questa considerazione che è la più intensa e la meglio dichiarativa, nella storia, della successione de'fenomeni civili e politici.Nell'ordine ideale ed effettuale delle cose umane, la successione de'periodi politici determina e spiega la succes sicne de'periodi giuridici, o, per contrario, la successione dei periodi del diritto dichiara e prestabilisce la successione de'pe riodi politici? L'homessa intera la forma della domanda,perchè la risposta erompa da sè. Sebbene nella storia il diritto e la politica, la ragione del l'uomo e la ragion di Stato, si presentino come due concetti, due forze, e - mi sia lecito a dire – due istituti avversi, e la politica sembri nata per comprimere il diritto, ed il diritto per urtare e trascendere gli ordinamenti politici, pure, in fondo ed in ultimo, la forma dello Stato finisce per dischiudersi alla nuova esigenza del diritto. Così sempre: se un nuovo bisogno vien determinando una nuova idea del diritto, già si sente per l'aria il fremito di una rivoluzione; e se uno Stato nuovo sorge ad occupare questa nuova concezione giuridica, appena nato, già tende a cristallizzarla ed a mozzarne le illazioni. Tutto ciò può esser vero; m a pur si vede e s'intende che la nuova forma di Stato, quale che sia, s'è venuta organando intorno a quel nuovo concetto del diritto. Per non far, dunque, irrazionali ed astrologici i mutamenti politici, noi dobbiamo affermare che l'ordine naturale delle cose c'impone di non derivare dalle forme successive dello Stato i periodi del diritto, m a dall'evolu zione della coscienza giuridica i periodi politici. Perciò scrissi e ripeto che ne'periodi politici del Ferrari ammiro la genialità del pensiero e i germi dischiusi del natura lismo italiano; ma sono periodi,ai quali mancano le premesse. Si potrebbe rispondere che per queste ragioni appunto i mutamenti politici andrebbero intesi come segni esteriori e certi dei periodi del diritto. No - ripeto per due chiare ragioni: l'una, che per questa via si viene a rendere equivoco il pro cesso della storia, potendosi assai facilmente scambiare le cause con gli effetti, e scambiare il diritto che promuove il muta mento politico, con la legge che ne consegue; e l'altra, che verrebbero a mancare i criterii per distinguere i veri dagli a p parenti mutamenti politici e le rivoluzioni politiche dalle sor prese settarie e da'tumulli più o meno rumorosi e vuoti. Un mutamento politico è reale e durevole, se determinato da una nuova concezione giuridica;e,quando no,sidilegua,lasciando tracce di sangue, non d'istituzioni. Occorre,dunque,come si è detto,seguire lo svolgimento del diritto romano nella missione peculiare che il diritto ha potuto avere nel mondo e nel genio di Roma,e però dividere i pe riodi del diritto secondo i momenti dell'equità, onde procedono le successive forme della costituzione politica di Roma. Facciamo parlare i fatti. Perchè in Roma si passa dalla m o narchia alla repubblica e poi all'impero? Se rispondesi che Tarquinio potè estinguere il potere regio come Cesare rifarlo, si viene a conchiudere che l'origine e la rovina delle istituzioni sono in balia di un uomo. Una storia cosi fatta non c'è, nè c'è oggi chi torni a narrarla. Se Tarquinio potè finire il regno, perché l'impero non cessó in Domiziano, quando praecipua miseriarum pars erat videri et adspici? Altro, dunque, che la ferocia e la clemenza di un principe, di un sacerdote, di un capitano occorre per determi nare e spiegare la vita o la morte delle istituzioni politiche. Lasciamo a Voltaire la facilità di dimenticare le premesse del suo saggio su'costumi e sullo spirito delle nazioni, per affer mare che il delirio di un Cucupietre potè iniziare il periodo delle crociate, e gl'insidiosi interessi di monaci il periodo della riforma. Quanto a Roma,il vero si è che la reazione di Tar quinio mal poteva resistere ad una nuova esigenza giuridica, adombrata già dalla favola, che i Commentarii di Servio Tullio erano destinati a passare nelle mani di Giunio Bruto. Questo mito de'Commentarii era tutta una tradizione che diceva tra gli scritti di Servio Tullio essersi trovato nientemeno tutto intero il disegno di una costituzione repubblicana; che questo non era soltanto un disegno,ma un proposito di Servio; che questo proposito appunto gli era costata la vita; e che non dimeno disegno e proposito erano passati da Servio Tullio a Giunio Bruto. C'è, a primo intuito, qualche cosa in questa tradizione, la quale è assai più scientifica, che non una repubblica esplosa dalla superbia di Tarquinio, dalla fatuità di Bruto e dal cada vere di Lucrezia. La tradizione si fonda sopra questi dati di fatto: che la prima monarchia di Roma non somiglia a nessun'altra delle monar chie antiche e moderne,ed è,conforme al genio di Roma,una istituzione giuridico-militare; che, secondo questo carattere ori ginario e primordiale di R o m a, il diritto è una continua ten denza verso il suo natural fine che è l'equità; e che però i periodi nella evoluzione dell'equità devono essere i periodi sto rici del diritto romano. Ora,se il diritto inRoma sorge come istinto o genio di tutti da una parte, e dall'altra come sapienza privilegiata di un or dine, di quello cioè che si reputa destinato a conoscere e cu stodire le leggi, quale potrà essere il vero primo momento del l'equità? Suttrarre la legge al mistero, sottrarre la sapienza al privilegio, far la legge nota a tutti: promulgatio. Questa esi genza come diritto crea la repubblica; come legge, succede al decemvirato. Quindi, il primo momento dell'equità è l'equità formale, la promulgalio, ma necessaria, perchè dalla forma si passi alla sostanza. L'ignoto sfugge all’equità. E questa necessità sa liente a traverso il periodo regio spiega la tradizione de' C o m mentarii di Servio, la reazione del Superbo, la fine della m o narchia sotto questa reazione, l'avvenimento della repubblica col disegno di Servio passato a Bruto, e primo prodotto della repubblica il Tribuno che a sua volta produce la promulgatio. In fatti, quanto tempo corre dal regifugium alla promulgatio? Ben sessant'anni vi corrono, e tra queste due generazioni sorge in mezzo il tribuno. Accanto al cadavere di Gneo Genunzio sono possibili le rogazioni di Publilio Valerone, di Terentillo Arsa, di Siccio Dentato, sino alla istituzione de'Decemviri le gibus scribundis.Olitiche er io udo del gurt zione is ienterne cara 6; di Sem o chen Tulli e  Quando si domanda che è la legge scritta e promulgata, si risponde che è l'eguale notizia della legge. E codesta egualità è l'equità prima e rudimentale, è il primo aequum bonum, ė la prima aequitas spectanda, è la prima libertas aequanda, è il primo poter dire formalmente summis infinisque jura aequare. Formalmente ancora,anzi appena,ma quanto costa questa prima equità,senza della quale nessun'altra sarà possibile,quante secessioni della plebe, ed un tribuno ucciso malgrado il caput Jovi sacrum intimato all'uccisore, e finalmente la figura tipica di Cincinnato, intervenuto ad equilibrare le parti nella lotta d e cennale tra l'istituzione del Decemvirato e la promulgazione delle prime dieci tavole ! La promulgazione, primo grado dell'equità formale, appunto perchè tale, può far tanta ingiuria al fine ed alla natura del l'equità, da rilevare la contraddizione nella parola istessa. A l lora il patriziato può inventare una parola nuova, inciderla in una colonna, e la colonna alzare nell'area, dov'erano le case distrutte di un plebeo ucciso.AEQUIMELIUM:ecco la nuova pa rola che annunzia in tuono di sfida la contraddizione tra il fatto e la forma. Questa contraddizione dichiarata tra la legge nota a tutti e favorevole a pochi, questa spinge al secondo momento dell'e quità formale, all'eguaglianza di tutti innanzi alla legge. Questa seconda equità sforza a tenere equilibrato conto delle condi zioni o circostanze che accompagnano i fatti e le persone, gli effetti e le intenzioni, affinchè la parità innanzi alla legge sia reale. Ecco il Pretore. L'editto prelorio è da prima l'equità ne'casi particolari, è, ciò che dev'essere l'eguaglianza innanzi alla legge, l'equità particolareggiata. Forse l'avvenimento del Pretore è un fenomeno puramente giuridico o giudiziario in disparte dalla vita politica di R o m a?  È il prodotto della più travagliosa politica, determinata dalla più grande evoluzione giuridica della coscienza romana. II Pretore sorge,quando ai Decemviri legibus scribundis sono succeduti i Decemviri sacris faciundis, cioè quando il diritto augu rale è passato dal patriviato alla plebe,quando ai tribuni con solari patrizii si contrappongono le rogazioni licinie, quando la plebe sale ad occupare il consolalo, la dittatura, il diritto cen sorio ed ogni magistratura curule, quando le ragioni pubļilie ci avvisano che la republlica di aristocratica è fatta democratica: eguaglianza di tutti innanzi alla legge. Costituitosi l'istituto pretorio, si risolve un gran problema sociale e s'inizia un nuovo periodo politico. Il problema sociale, risolutosi nella quarta secessione della plebe e per la dittatura di Valerio Corvo, è la liquidazione dei debiti e la divisione dell'agro pubblico. Il pericdo politico che s'inizia,è l'unificazione d'Italia. Il periodo unitario è annun ziato dalla prima guerra sannitica. Tra l'unificazione d'Italia e l'unificazione di tutti sudditi dell'impero fioriscono tutt'i grandi giureconsulti, onde si onora e perpetua la sapienza latina, Elio,Catone, Scevola, Servio Sul picio,Labeone, Sabino, Giuliano, Gajo, Papiniano, Paolo, Ulpiano,  Perciò, quando Vico avvisa che con la legge Publilia e con la Petelia tra gli anni 416 e 419 di R o m a si passa dalla libertà signorile istituita da Giunio Bruto alla repubblica popolare,ebbe presente Livio: Quum tamen per dictatorem datae discordiae sunt, concessumque ab nobilitate plebi de con sule plebeio, a plebe nobilitati de proetore uno, qui jus in urbe diceret, ex Patrilus creando.- Ed ecco l'origine politica del pretore, la quale dichiara questo processo della storia romana: 1° esigenza giuridica rogazioni licinie; 2° mutamento poli tico repubblica popolare; 3° legge conditionibus se Se questo non fosse stato il processo della storia, e la legge non indicasse il mutamento politico, e questo non indicasse un periodo compiuto della coscienza giuridica, si continuerebbe a costruire una storia romana su'fasti femminei, e si direbbe che con Lucrezia cadde la monarchia, con Virginia il Decemvirato, e con una Fabia la repubblica signorile. editto pretorio. Sopra ogni altro è celebrato il responso di Papiniano,perchè più universale, e la cui ultima parola coincide con l'imperiale costituzione della cittadinanza universale. Il responso di Papirio, venuto prima del periodo unitario, e quelli di Ermogene, di Gregorio, di Triboniano e di Teofilo, arrivati con la decadenza, non ritraggono l'ufficio dell'equità romana. Ma codesta equità che di formale tende a farsi sostanziale, e da Roma si espande per l'Italia e dall'Italia nel mondo, è veramente l'equità u m ina? ha assunto l'ultima espressione nel responso di Papiniano? percið vive ancora, interrogata e cele brata in tutti gli Atenei del mondo? il mondo, insomma,studia il diritto romano),perchè fu davvero umano? S  Modestino. Più si dilata l'unificazione e più universaleggia il responso; e, come più il responso si fa universale, più ancora l'equità penetra dalla forma nel contenuto. A noi conviene esaminare partitamente i tre grandi periodi dell'equità in Roma. N e rimarrà illustrata la storia della nostra antica grandezza.  A m e par di avere con sufficiente chiarezza fermata questa legge storica: che nella successione delle cose civili il m u t a mento politico framezza tra una nuova esigenza giuridica e la legge scritta. A coloro che hanno paura di ogni formola, cre dendola una minaccia metafisica o una nuova invasione scola stica, e non sanno che le formole sono o definizioni genetiche o espressione di leggi naturali, traduco questa legge storica in queste espressioni più analitiche: prima si determina un nuovo bisogno ed una nuova coscienza giuridica; poi Se cosi non procedessero le cose civili, mancherebbe l'ar tefice della nuova legge, mancherebbe la causa de'mutamenti politici. Non parlo delle congiure, delle sėtte, de'regicidii e di altre cause apparenti de'mutamenti politici per non creare a me stesso objezioni puerili a pretesto di analisi lunghe e volgari: tutti sanno che non c'è effettuale mutamento politico,se in fondo non ci sia una grande e maturata esigenza giuridica, la dichia razione di qualche diritto comune lungamente contrastato: m a non tutti sanno se ogni nuova esigenza giuridica basti a cagio nare un mutamento politico.] stenze più o meno travagliose - un mutamento dopo resi politico;in ul timo, fica e sancisce dal nuovo potere costituito la nuova esigenza promana giuridica la legge. che speci   causa di mutamento politico ogni dichiarazione di diritto, che implica una diminuzione di privilegio nell'ordine domi nante. Cotesta dichiarazione ordinata a diminuzione di preminenze implica sempre,più o meno, un summis infimisque jura ae qu ire.Ogni periodo dell'equità, dunque, annunzia un nuovo pe riodo politico. Sono evidenti le due illazioni: non sono mutamenti politici quelli non giustificati da una nuova dichiarazione di diritti; non SONO mutamenti durevoli quelli non prodotti da larga e co sciente dichiarazione di diritti. Quindi, vi può essere molto sangue civile senza rivoluzione, ed una grande rivoluzione incruenta. N'emerge evidente non potersi fare la storia giuridica di un popolo senza la storia della costituzione politica: i periodi sono gli stessi: le fasi della causa si riscontrano nell'effetto. Nel momento,in che si passa dalla convivenza gentilizia alla costituzione politica, in R o m a comincia lo Stato: il m e m b r o della convivenza era gentilis, il membro della costituzione era civis. Le genti erano Ramnes, Tities, Luceres, Albani, Sabini, R o mulei; la loro unità civile e militare fece lo Stato. Secondo più o meno si partecipava della costituzione politica, si era più o meno cittadino: civis optimo vel non optimo jure; e l'unità fra tutti era personificata dal re, il quale, come ho detto, era unità giuridico-militare. Come istituzione giuridica, raccoglieva in sè il potere legislativo e giudiziario;come istitu zione militare, movea l'esercito e gli agenti esecutivi. Dissi ancora che non somiglia a nessun altro re antico e m o derno: non era assoluto, perchè la sovranità era nel popolo;ne costituzionale, perché il suo imperium era temperato dal genio giuridico di Roma e dagli ordinamenti patrizii, non da un co stituito potere rappresentativo.  Se la sovranità era nel popolo, l'imperium non si poteva esercitare dal re senza una legge curiata de imperio, una specie   di delegazione di sovranità.Mommsen non crede a questa legge primitiva de imperio e la dice trasportata per errore dalla ele zione consolare a quella de're. Ho ragione di credere piuttosto a Livio ed a Cicerone, i quali la deducono dall'istessa natura del potere regio, dall'essenza dello imperium. Non è lecito dubitare delle tradizioni del giure pubblico, del quale le for mole si trasmettono letteralmente. Rottosi il potere regio, l'imperium e conseguentemente la lex de impario, intesa come investitura, di perpetui divennero annui, cioè passarono dai re ai consoli, che Cicerone chiama potestas annua jure regia. Le altre magistrature ordinarie che sorgeranno più tardi, come la censura, l'edilità curule, la pre tura, la questura, saranno diramazioni del consolato. A voler secondare le tradizioni, niente è più difficile di co testo passaggio dalla monarchia al consolato. Secondo Tacito il transito sarebbe stato determinato dalla libertà,cioè dal proposito di più liberi ordinamenti. LIBERTATEM et consulatum L. Brulus instituit. Vico non consente, perché la repubblica sopravvenuta fu più signorile del principato,fu rivolta di patrizii che consen tirono a Bruto l'istituzione del consolato, non della libertà. C'è più di ragione in Tacito, perché il passaggio dal principato alla repubblica fu una evoluzione della legge curiata de imperio, la quale implicava la temporaneità e la responsabilità del potere. E questi due fattori che la tradizione doveva avere allogato nei Commentarii di Servio Tullio,passarono al primo Bruto.Non è di picciol valore la parola annua nella definizione data da Ci cerone alla potestà consolare, e, come più diminuisce la durata dell'imperium, più cresce la responsabilità. I re potevano allora, come oggi, rispondere innanzi alle rivoluzioni ed alla guerra; i consoli, compiuto l'anno, erano esposti, non rei gerundae caussa sed rei gestae, alle accuse de'loro concittadini. E mi piace di risermare contro M o m m s e n che non la lex de imperio è una evoluzione della repubblica, ma la repubblica è una evo luzione della lex dc imperio. E sotto questo rispetto si può ri   petere con Tacito: Libertatem et consulatum L. Brutus in stituit; s'egli è vero che la temporaneità e la responsabilità dell'imperium sono i primi fattori della libertà politica. Quando affermo che l'evoluzione della lex curiata de i m perio mena dalla monarchia alla tepubblica, io rifermo questo alto principio, che i rivolgimenti politici sono prima periodi nella evoluzione del diritto. Senza questo processo, tanto è razionale spiegare l'origine della repubblica romana con una insurrezione di patrizii, intesi a sostituire l'aristocrazia al monarcato,quanto era possibile alla congiura de'Baroni rovesciare nel reame di Napoli il principato, per ricostruire,con prelesto popolare, tutt'i vecchi ordini feudali. Bisogna quindi rifermare che,come Tacito, usando la parola libertà nel senso spiegato sopra, ha ragione contro Vico, cosi Livio, riserendo a tutte le otto generazioni passate attraverso i sette re la lex de imperio,ha pienamente ragione contro M o m m Se si sposta o si tronca questa tradizione, l'avvenimento della repubblica esplode, non si spiega. Non è facile spostare certe tradizioni nè confutare alcune parole dei classici. Caduto il monarcato, contro la mutabilità delle magistrature e l'incertezza delle deliberazioni popolari rimase, sola istituzione stabile, il senato, già corpo consultivo, durante il principato, e, nella repubblica, istituto legislativo, politico ed amministrativo. Il potere amministrativo gli apparteneva intero, cosi sull'agro pubblico come rispetto ai fondi del pubblico tesoro. Intero gli [Livio e Dionigi d'Alicarnasso ci tramandano quasi l'identica tradi zione della legge regia. Cicerone ne'libri della Repubblica cura di ripe tere per ogni elezione di re le parole dette per l'elezione di Numa Pompilio: Quamquam populus curiatis cum comitiis regem esse jusserat, tamen ipse de suo imperio curiatam legem tulit. La costanza delle pa role di Cicerone indica due cose: la tenacità delle formole del diritto p u b blico e idocumenti pubblici,ai quali Cicerone aveva dovuto attingere.Ed io,considerando la legge curiata come il fondamento di tutto ildiritto pubblico romano, non solo stimo il passaggio dalla monarchia alla repubblica essere stata una evoluzione di questa legge,ma stimo una evoluzione della  - sen.   apparteneva il governo della politica estera, per due ragioni: per la competenza e per il carattere militare dello Stato romano. È vero che tutti gli Stati sono gelosi e, quando possono, inva denti,e gli Stati antichi più de'moderni; ma sopra tutti gli antichi e moderni,lo Stato romano,al quale peregrinus erat hostis, e pax erat pactum, quasi stato di tregua, non di natura. Quanto alla politica interna ed al potere legislativo, il S e nato li aveva, partecipe il popolo convocato in comizii, i quali erano istituzioni giuridico-militari: giuridiche per il fine, mili tari nella forma. Militarmente il popolo interveniva, quasi exer citus urbanus, e militarmente non discuteva, m a rispondeva seccamente il suo uti rogas o antiquo. E bene, fu quest'assenza di discussione dall'assemblee p o polari la grande politica e la gran forza di Roma, fu il segreto della rapidità nelle deliberazioni, nell'esecuzione, e, assai volte, il segreto delle vittorie. Si o No. Ferrari, ricordando dall'Amlet che la discussione tronca il nerbo all'azione, vede l'inferiorità delle repubbliche quanto alla rapidità dell'azione; m a non vide di quanto la repubblica romana avanzava per senno politico le repubbliche elleniche, e per subitezza d'azione tutti gli Stati moderni, compresa l'Inghilterra. Devo ricordare che questo carattere militare che Roma manifesta sinanco ne'comizii, questo exercitus urbanus,che ricorda l'exercitus castris, non si dissocia mai dal genio giuridico di questo popolo agricoltore. Mai da' Romani fu fatta guerra per medesima iltransito dallarepubblica signorilealla popolare,edallare pubblica all'impero, quando,per nuove necessità, l'investitura de'poteri passò dalle magistrature temporanee all'imperatore. Nè dalla filosofia della storia né da'fonti mi risulta ragione alcuna, per la quale Mommsen possa affermare che la lex de imperio sia narrazione inventata evidente mente dagli insegnanti di diritto pubblico ai tempi della repubblica per loro fini. Per quali fini? Vedo invece che l'eridenza appunto manca alla sua affermazione,e che,facendo riposare egli stesso lalegge curiatasopra con suetudine antichissima,risale con Livio,con Dionigi d'Alicarnasso e col suo ingiustamente deriso Cicerone,sino ai tempi della prima monarchia romana) aggressione, more latronum; mai guerra non dichiarata o per cause ingiuste, bellum iniquum: volevano iustum, purumque duellum; e con l'intervento de custodi della fede pubblica che erano i feciali, volevano pium bellum. Popolo belligero questo di Roma, perchè una missione giuridica non fu compita mai co'sermoni,ma che per questo appunto conobbe ed osservò il diritto delle genti più che gli altri Stati meno bellicosi,special mente con l'osservanza massima del rispetto agli ambasciatori. Tutte le formule per la dichiarazione di guerra ci sono di stesamente tramandate da Livio. Coloniale,quello de'cittadini romani trapiantati in citta vinta. Cosi lo Stato romano, primo efficace colonizzatore del mondo, asseguiva due fini: dava stabilità alla conquista e sgravavasi, in parte, del proletariato urbano. I coloni conservavano la piena cittadinanza cum suffragio et iure honorum. Municipale era il diritto civile di un comune non conqui stato,ma ridotto ad obbedienzaversoRoma,conqualcheobbligo (munus), come o di servizio militare o d'imposizione tributaria o dell'uno e dell'altra. Municipes erant cives romani sine suf fragio et iure honorum. Provinciale era proprio il diritto che avanzava ai vinti.Non più civis né la quasi effigies populi romani, dove troviamo un populus stipendiarius, un popolo cioè senza cittadinanza, senza territorio proprio,e spesso senza il commercium.Che è,dunque, che può essere avanzato ai vinti? Non più di quel che si trova o nella clemenza o nell'ira o nella convenienza del vincitore. E la convenienza, sotto specie di magnanimità, prevaleva nel decreto del magistrato delegato ad ordinare la provincia. D u r a mente Gaio: Quasi quaedam praedia populi romani sunt vecti galia nostra atque provinciae. Il Mommsen segue Festo non Niebuhr nell'etimologia della parola provincia, da vincere, sia  ) 11'1 Con la guerra il diritto romano dilargavasi, e risultanze di verse della guerra erano le tre forme che, uscito di Roma, il diritto assumeva: coloniale, municipale, provinciale.   poi che pro significhi il procedere de'due eserciti consolari, come piace a Mommsen, sia che ante,come piacque a Festo. Il certo è che dalla diversa vittoria si traggono le distinzioni ve dute da Cicerone tra la Sicilia e le altre provincie. M a per giungere a lutte queste diverse gradazioni del dritto, suori di Roma,le quali sono effetti diversi della guerra, bi sogna aver superato il periodo della repubblica aristocratica,di quella immediatamente succeduta al regno, quando i patrizii avevano tre mezzi per deludere é menomare della plebe, ed essere entrati nel periodo della repubblica p o polare, quando, meglio equilibrate le parti, comincia l'epoca dell'unificazione italica. I mezzi de'patrižii erano la convocatio, l'auctoritas patrum e l’ius augurale. I patrizii potevano convocare le assemblee e cancellare, per vizio formale, le deliberazioni popolari; e, quando, convocata l'assemblea, il voto accennava ad un certo indirizzo, potevano troncarlo, spingendo l'augure - a sciogliere il comizio con l a formola: A l i o d i e: a tempo senza misura! I m porta ricordare le parole di Cicerone, DE DIVINATIONE: Fulmen sinistrum, auspicium optimum habemus ad omnes res, praeter quam ad comitia: quod quidem institutum reipublicae causa est, ut comitiorum, vel in judiciis populi, vel in iure legum, vel in creandis magistratibus, principes civitatis essent interpretes. Ecco, dunque, gl'interpreti de'comizii,principes civitatis; ed anche il fulmen sinistrum per frustrare il voto diveniva infau stum omen ! La formola,dunque, di Cicerone in DE LEGIBUS: Potestas in populo, auctoritas in Senatu sit, traducevasi una potestà senza potere. Occorrerà, dunque, qualche cosa, perchè questa potestà sia potere: occorrerà che trovi in sè l'autorità sua. Allora è necessario che il popolo abbia certa notizia della procedura, abbia certezza delle leggi, e che l'ignoto della legge le deliberazioni  115 ufficio patrizio   116 non sirisolva nell'arbitrio de'principescivitatis.Ed ecco la ne cessità della promulgatio, la quale non significa tanto notizia quanto certezza delle leggi. Non istiamo a ripetere quanta lotta costasse la promulgatio, perchè le parole di Livio e di Cicerone non superano il vero, quando affermano che prima della pubblicazione delle dodici tavole il diritto civile era riposto ne'penetrali de'pontefici: re positum in penetralibus pontificum; m a lo superano, quando si tirano sino ai tempi posteriori alle dodici tavole. Certo che lotta fiera si dovette combattere per sottrarre il diritto ai penetrali de'pontefici, cioè all'ordine, cui i pontefici appartenevano, il quale a sua posta governava i comizii con la convocazione, con l'autorità e col diritto sacro. M a senza bisogno di gran lotta venne la pubblicazione delle formole procedurali, fatta da Gneo Flavio un secolo e mezzo dopo le dodici tavole, pubblicazione intesa sotto il nome di ius civile Flavianum, con la quale la plebe liberavasi dal bisogno di ricorrere e consultare i ponte fici. Se le formole comprensive non saranno mai oziose, si può dire cosi: le dodici tavole democratizzano la notizia del diritto; l’ius civile Flavianum laicizza la procedura e la giuri sprudenza. Doveva costar lotta la premessa, con la quale apri vasi un periodo storico, non la conclusione, con la quale chiu devasi.  1 Considerando il significato della promulgazione, io non posso credere agli scrittori che con beata semplicità stimano poco de mocratico e niente normale l'ufficio del tribuno in Roma. A f fermo invece che le dodici tavole non si sarebbero potute mai promulgare senza gran lotta contro il patriziato, cui giovava il mistero delle leggi e segnatamente della procedura, senza della quale le leggi non si muovono; che questa promulgazione fu strappata in nome della prima equità,della prima aequanda li bertas, almeno circa la notizia e certezza delle leggi; e che questa prima equità sarebbe stata ineffabile ed inconseguibile senza la persona sacra del tribuno. Il tribuno è il risultamento più normale,più naturale della prima lotta tra il patriziato e la plebe; e non solo senza il tribuno non s'intenderebbe la p r o mulgatio, ma questa appunto compendia e spiega la più diretta missione dell'ufficio tribunizio: onde il popolo per conseguirla sospende nel decennio decemvirale sinanco la provocatio ad populum. Ora, quel che resta a sapere circa il valore della promulga zione, si è se quiesta prima equità consista soltanto nella eguale notizia della legge o, insieme, nella sostanza della legge istessa. (1) Bovio: Saggio critico del diritto penale e del nuovo fondamento etico. Napoli. Vedi ancora Corso di Scienza del Diritto. Napoli. Scritti filosofici e politici, Napoli. Cicerone, incerto sempre tra l'aristocrazia e la democrazia, ma,come tutte le tempre deboli e gli opinatori saliti in fama, piuttosto blanditore del patriziato, ecco ciò che fa dire contro il tribunato nel DE LEG.: N a m mihi quidem pestifera videtur (la potestà de'tribuni), quippe quae in  Un occhio alle dodici tavole chiarirà col fatto questo primo assioma di legislazione positiva: che, quanto più lato in uno statuto od in un codice è il diritto penale, tanto più stretta è l'equità civile. E questo spiega da una parte la voce continua dell'equità: Summum jussummainjuria; edall'altra,questa legge storica d'ogni legislazione positiva: il dritto penale e l'e quilà civile movonsi nella storia in ragione inversa (1). Credo avere largamente dimostrato in queste opere,che,quando si vo glia tener giusto conto de'fenomeni storici e considerare il valore degli istituti lungamente durati, convien dire che,come il naturale risultato della lotta tra la monarchia ed il popolo fu il consolato, cioè la regia potestà annua e responsabile, così il risultato naturale della lotta tra patriziato e plebe fu il tribunato, per la certezza de'diritti della plebe.Non solo nulla di anormale troviamo nell'istituzione tribunizia, la quale non fu mai un ba stone ferreo tra le ruote dello Stato romano,ma, fattasi popolare la re pubblica, tutte le magistrature troviamo come una evoluzione della potestà tribunizia. Gl'imperatori dovettero entrare in questa forma. Tacito pre senta Augusto consulem se ferens et ad tuendam plebem TRIBUNITIO IURE contentum, e il primo editto di Tiberio tribunitiae potestatis praescri ptione.   Esaminiamo. Cicerone vede il Libellus XII Tabularum superare le biblioteche di tutt'i filosofi per due ragioni: aucto ritatis pondere et utilitatis ubertate. Cosi, nel De Oratore. Nei libri della Repubblica l'entusiasmo sbolle, ed ei condanna gli ultimi decemviri: qui, duabus tabulis iniquarum legum additis, quibus, etiam quae disjunctis populis tribui solent, connubia, haec illi ut ne plebei cum patricibus essent inhumanissima lege sanxerunt. Ma è questa la sola ineguaglianza, onde Cicerone, ammiratore delle tradizioni, si lasci trasportare sino alla parola inumanissima? Furono più inumani,più patrizii, più aristocra tici i secondi decemviri legibus scribundis dei primi? Quando nella III Tavola leggiamo contro il debitore: Tertiis nundinis partis secanto; si plus minusve secuerint, ne fraude eslo; noi non dobbiamo commentare col relore Quintiliano che alcune cose illaudabili per natura siano permesse dal diritto, m a dobbiamo fingere di ricorrere ad una certa sapienza crudel srditione et ad seditionem nata sit: cujus primum ortum si recordari columus,inter arma civium etoccupatis etobsessisurbislocis,procrea tum videmus.Deinde quum esset cito letatus, tanquam ex XII Tabulis insigni ad deformitatem puer, brevi tempore ręcreatus, multoque toe trior etfedior natus est.IlTribunato,dunque,è venuto fuori come bam bino mostruoso e deforme! Ma come avviene che si svolge per tre secoli almeno di vita eroica? e v’ha nella storia un provvisorio di tre secoli? E nato ad seditionem o contra vim auxilium? Si può perdonare a Cicerone d'avere ignorato, allora, che tutt'i diritti nascono in seditione, m a non si può ignorare oggi che senza i tribuni nè icomizii tributi sarebbero mai nati, nè plebisciti si sarebbero mai fatti, né i plebis scita avrebbero in s e guito acquistato valore di populi scita, nè la promulgatio sarebbe mai avvenuta,nè mai pubblicate quelle tanto celebrate XII Tarole, delle quali tanto ammiratore si professa egli proprio,Cicerone,nè la repub blica di signorile sarebbe passata a popolare,nè,in ultimo,egli,Cicerone, sarebbe mai stato console, o, eletto, si sarebbe davvero detto di lui quello che in miglior senso diceva M. Catone: Dii boni, quam ridiculum con su lim habemus ! Seneca ci dice che ai tempi di Tito Livio disputavasi se fosse stato meglio per la repubblica che Cesare fosse nato,o no.Era meglio investigare,iodico,sesenzailtribunovisarebbemaistatarepubblica) mente pietosa escogitata da Aulo Gellio, che cioè gl'infelici sian fatti salvi dall'istessa enormità della pena: Eo consilio tanta i m manilas poenae denuntiata est, ne ad eam unquam perveni retur. La quale sentenza, divulgata ne'tempi dell'autore delle notti attiche, è respinta erroneamente sino ai tempi abbastanza reali del primo decemvirato: reali nel senso, che le leggi erano scritte per esser fatte. Se la carità del tempo ha voluto portar via dalla Tavola IV de jure patrio le disposizioni durissime circa la patria potestà sconfinata, resta la traduzione di Dionigi d'Alicarnasso che la riassumecosi: Siveeum (filium)incarcerem conjicere,sivefla gris caedere, sive vinctum ad rusticum opus detinere, sive occi dere vellet. Papiniano riassume in tre parole: Vitae necisque potestas. Forse sino alla virilità del figlio? Toto vitae tempore licet filius jam rempublicam administraret et inter s u m m o s magistratus censeretur, et propter suum studium in rempubli cam laudaretur. E si dà cura Dionigi di farci sapere che i D e cemviri non ebbero a portarla di fuori, come si favoleggiava, questa legge, m a a dedurla da quella che Papiniano chiamava lex regia, farla quarta delle dodici e metterla nel foro: Sublato regno,decemviriintercaeterasretulerunt,extatqueinXII Ta bularum, ut vocant, quarta, quas tunc in foro posuere. Ciò che resta di questa tavola, è il più umano, in che modo cioè si possa affermare:Filiusapatreliberesto;ma ciòcheil tempo ha cancellato, non è tale da giustificare tutto lo sdegno di Cicerone contro soltanto le ultime due delle dodici.  E che si deve dire, rispetto all'eguaglianza, quando si passa alla tavola V, per considerare la condizione delle donne, eccet tuate le Vestali? Anche qui il tempo ha passato la spugna,ma restano le istituzioni di Gaio per darci notizia di quel che manca: Veteres voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, prop ter animi levitatem in tutela esse... Loquimur autem, exceptis virginibus vestalibus, itaque etiam lege XII. Tabularum cau tum est.   Quando vuolsi davvero spiare dove un corpo privilegiato, predominante e nel medesimo tempo minacciato, studia l'alto riparo, si dà uno sguardo alla legislazione penale. L'abbon danza,la ferocia delle pene, la rapidità della procedura penale, compensano la parvità della ragion civile. Una tavola delle d o dici,l'ottava, de delictis, ci fa intendere che i decemviri,già scelti nell'ordine de'senatori,nè tra gli Dei indigeni nè tra'pe regrini accolgono la Dea Clemenza. Cicerone mostra consolar sene, assermando, ne'libri della Repubblici, che per pochi m a leficii le XII Tavole stabilirono la pena capitale. Il vero si è che, oltre il taglione, comune già a quasi tutte le legislazioni penali primitive, e le verghe che scendono ad illividire anche l'impu bere, la morte vi spesseggia, tanto che, traboccata dalla tavola ottava, entra ad occupare due disposizioni della nona, la quale tratta non più di reati e pene, ma de jure publico.  120 Si noti, a questo proposito, che l'assenza della morte dalla tavola X (dejure sacro) ricorda che la religione in Roma, se condo il carattere italico,non è l'elemento predominante, e che, come ho notato sopra,in Roma piuttosto gli Dei intervengono in servigio dell'uomo, che l'uomo degli Dei. E il rapido decre scere della giurisdizione pontificale ne'giudizii penali riserma questo concetto. Non è già che io tenga poco conto delle testi monianze di Dione, di Livio e di Tacito rispetto all’espiazione religiosa; ma voglio dire che nell'intervento del principio sa crale in tutte le legislazioni penali primitive è notevole questa differenza, che, dove presso gli altri popoli entra come conte nuto,in Roma interviene piuttosto come forma; altrove cioè gli offesi possono essere gli Dei che costituiscono espiatrice la pena, e in Roma l'elemento sacrale serve a rendere più temibile la pena, senza nè sospendere la provocatio ad populum, nè sot trarre ai comizii centuriati il diritto di sentenziare negli affari capitali per un cittadino romano. Cicerone ricorda nel De le gibus che le dodici tavole vietano di deliberare di cosa capitale fuori del comizio massimo: De capite civis rogari, nisimaximo   comitiatu, vetat.-- Non dimentico nemmeno l'etimologia sacra delle parole supplicium e castigatio; m a ricordo che Festo c o n corda con Cicerone, affermando: At homo sacer is est quem POPULUS indicavit ob maleficium. E quel populus chiarisce la molta differenza dal diritto germanico, secondo il quale la di vinità direttamente offesa chiede espiazione diretta per mezzo dei suoi sacerdoti. Avverrà subito, ed anche in seditione, che dall'una egua glianza si tenti passare all'altra, dalla formale alla sostanziale, dalla eguale certezza della legge,alla certezza della legge eguale, e che appunto il matrimonio sarà l'argomento del transito, perchè contro i corollarii, cioè contro gli effetti visibili, c o m i n ciano le sedizioni popolari; m a questa sedizione appunto, questa prima sedizione contro le dodici tavole, doveva avvertire Cice rone che quel divieto di certo connubio era il corollario, cioè  121 Tolto l'elemento sacro, resta abbastanza di asprezza penale per fare intendere quanto poco spazio resti alla ragione civile, la quale non può durare in tanta ineguaglianza, se non mante nendo la distanza tra' due ordini. Quindi, l’undecima tavola che vieta il matrimonio tra'patrizi e plebei, è l'espresso corollario delle dieci prime, è l'opera, onde i secondi decemviri compiono quella de'prini, è la lontananza custode dell'ineguaglianza. Come il senatore veneto non arrivava a comprendere il con nubio tra il moro Otello e la bianchissima Desdemona, cosi il senato romano non l'avrebbe compreso tra patrizii e plebei, due ordini lontani quanto due razze.La pari certezza della legge si,non la parità di diritti nelle leggi. Or,di che si sdegna Ci cerone? Che il matrimonio, permesso d'ordinario anche co'po poli stranieri, sia interdetto fra'plebei ed i patrizii con inuma nissima legge. È sdegno rettorico, è, almeno, poco logico, è troppo postumo, troppo gelido: egli aveva troppo ammirato le premesse. Le dodici tavole son fatte, perchè tutti abbiano l'e guale certezza della legge (e fu vittoria della plebe), e tutti la certezza della legge ineguale (e fu vittoria del patriziato).   che quella lontananza tra gli ordini era designata a custodire l'ineguaglianza tra'sommi e gl'infimi. È da esaminare, in fatti, donde comincia la reazione della plebe contro le dodici tavole, affinchè l'equità cominci a p e n e trare nel contenuto della legge. Non si deve credere che co minci con la legge Valeria Orazia De plebiscitis due anni dopo la promulgazione delle dodici tavole, per le seguenti ragioni: 1o perchè questa legge è la semplice soluzione di un diritto con troverso circa il valore de'plebisciti, non è l'affermazione di un diritto nuovo e contrastato; 22 che il plebiscito, anche fattosi obbligatorio per tutto il popolo, non si sottrae all'auctoritas patrum per l'esecuzione; 3a che non per questa legge arse la terza sedizione, di cui parla Floro, nè avvenne la secessione sul Gianicolo,della quale parla Plinio; 4a che questa legge non si intitola da tribuni, ma da consoli. Livio dice che si venne a questa soluzione, « ut quod tributim plebes jussisset, populum teneret », 0, per dirla con Plinio, « ut quod plebs jussisset, omnes Quirites teneret », perchè prima cið era in controverso iure. Ma quando fu che la plebe arse in vera sedizione sul Gia nicolo? quale e perchè una terza sedizione, dopo le due, l'una sul monte Sacro e l'altra sull'Aventino? e perchè contro le d o dici tavole, se tanto le aveva volute, e se la promulgazione di queste era stato il massimo ufficio tribunizio, e sei anni appena e non interi dopo la promulgazione? Ed, ecco, qui appare il nome di un tribuno, Caio Caruleio, una rogazione vivamente contrastata ed una sedizione vera di plebe che assale la legge nelle conseguenze ed osa divorar la distanza tra sé ed i patrizii per appianare l'ineguaglianza. La ribellione contro le dodici tavole comincia contro l'ultimo co rollario: la plebe non sillogizza invidiosi veri intorno alle cause, assale l'effetto. Rotto il primo, tira sulle cause. E quella gene razione che spezza il primo effetto, è destinata ad atterrare tutta l'istituzione. Tal è il significato della Legge Canuleia De connubio patrum et plebis. Fatta la breccia, esaminiamo che cosa in trent'anni resta di tutto l'edificio delle dodici tavole. Per la generazione che succede, si troverà che la cosa men necessaria è il carmen necessarium.Averlo fatto imparare e cantare a coro da fanciulli non vuol già dire che il carme dell'ira non suonerà più alto da coro di uomini armati. La prima sedizione è contro il supremo corollario delle d o dici tavole, contro il divieto di matrimonio fra patrizii e plebei; l'ultima sedizione di questa medesima generazione è contro il console patrizio, vietante la divisione dell'agro pubblico tra i plebei, i quali per questa via si liberavano di fatto dalla terza delle dodici tavole, dalla più aristocratica, da quella appunto che, secondo Vico, doveva sancire il diritto feudale rustico del carcere privato, che i patrizii avevano sopra i plebei debitori. E, sebbene il Console fosse vincitore o stesse sopra il terreno vinto, pur vide i Tribuni prevalere ed i lieti onori trionfali tor nargli ne'tristi lutti dell'esilio. Poche considerazioni storiche varranno a lumeggiare i fatti esposli in questo capitolo. 1. La legge agraria, reclamata e non potuta attuare dal l'anno 268 di Roma sino all'anno 299, cioè reclamata e non potuta attuare da tutta la generazione che precede alla promul gazione delle dodici tavole, é e doveva essere la conclusione pratica della generazione che succede alle dodici tavole. Ciò che erasi cominciato nel sangue patrizio di Spurio Cassio,dove vasi compiere con l'esilio di Furio Camillo, patrizio vincitore. 2. Questa generazione succeduta alla promulgazione delle dodici tavole, cominciando la lotta contro la legge sul matri monio e conchiudendola con la divisione dell'agro pubblico sopra il territorio de'Vejenti, volle togliere la distanza tra gli ordini per giungere all'eguaglianza degli ordini. Potè essere detto, con sentimento del vero, che la divisione dell'agro accen nava finita la divisione de'ceti. 3. Questa divisione dell'agro dopo la comunanza de'm a trimonii, per l'eguaglianza degli ordini, dice che l'equità non  è più nella sola notizia della legge, m a dentro la legge. L'anno 363 di Roma annunzia che le XII tavole, benefiche quanto alla conseguita promulgazione, sono state superate nel conte nuto: annunzia che l'equità è passata dalla forma nella sostanza. Dietro il Tribuno verrà il Pretore, e già Caio Canuleio chiama il figlio di Furio Camillo. Se è vero che la lotta per l'esistenza, la quale è di tutti gli animali, si faccia lotta per il diritto per diventare u m a n a, è vero pure che in nessun luogo questa lotta ebbe una espres sione più pura,cioè più umana,che in Roma,ed in nessun tempo quanto nella generazione che succede alla promulgazione delle dodici tavole. Posso dire che gli ottant'anni che corrono tra il tribuno Caio Canuleio ed il primo pretore, figlio del già espulso patrizio Furio Camillo,comprendono la più alta espres sione della lotta per il diritto. Si può dire che dentro questo periodo si raccolgono le premesse eterne della lotta umana. Dico la più pura espressione, non per enfasi, ma perchè questa lotla si fa tra uomo ed uomo, tra ordine ed ordine di cittadini per la parità civile, politica e sociale, senza intervento di Numi, senza pretesti religiosi, senza fini sovraumani.E, se in questo tempo la plebe, strappando il diritto augurale, fa n a scere i Decemviri sacris faciundis, non è già per propiziarsi i Numi o per un fine direttamente religioso, ma per un fine assolutamente ed umanamente giuridico. Questa è la grandezza di Roma, ed il segreto dello studio non solo continuo, m a crescente, intorno all'indole tipica del diritto romano. Compiamo questo esame con la ricerca dello istituto pre torio e del responso. Nella suc cessione delle cose civili il mutamento politico framezza tra una nuova esigenza giuridica e la legge scritta. Ho dimostrato, infatti, che,quando l'equità s'impone come eguale certezzadella legge,iltribunato diventa magistratura tipica; e,quando l'equità s'impone come uguaglianza nella legge, la repubblica signorile si fa popolare. Non solo tutte le magistrature si aprono alla plebe, m a alcune restano esclusivamente plebee. Non si deve ricorrere, per vederne la formazione, ai m o menti astratti del pensiero, cioè ad una successione puramente logica d'idee, m a al pensiero determinato dal bisogno, cioè dalla natura,considerata sotto il doppio rispetto, nella compagine della persona e nello ambiente. Cotesto è il naturalismo storico. Il bisogno insoddisfatto ed assolutamente insuperabile per le condizioni della natura circostante non lascia sprigionare il pensiero nè iniziare civiltà veruna. Un bisogno superato, per condizioni benigne dello ambiente, libera il pensiero, ond'esce la prima favilla di una civiltà e di una storia. Insieme col pensiero sorgono alcune pretensioni, cioè una certa coscienza giuridica, proporzionata a quel bisogno, e, poco  Ora, ci sarebbe impossibile aprire questo capitolo e proce dere innanzi senza investigare come e perchè si formi una nuova esigenza giuridica. dopo, una determinata forma politica, proporzionata a quell'esi genza giuridica. Mutato,crescendo,ilbisogno,si dilatailpen siero, si evolve la coscienza giuridica, si muta la forma politica, si cangia la legislazione del giure pubblico e privato e delle rispettive procedure. Se il pensiero cresciuto levasi a superare di tanto il bisogno naturale, quanto il bisogno ha superato i mezzi e l'ambiente, allora non c'è da aspettare,nè altra forma politica, nè altra le gislazione che duri: si aspetta la rovina che seppellisce una civiltà finita, per dare origine ad una civiltà nuova che equilibri le funzioni della vita,instaurando la proporzione tra il pensiero ed il bisogno, tra il bisogno e l'ambiente. Ora, è forse un annunzio di rovina la sentenza di Plinio: Latifundia perdidere Italiam,jam vero etprovincias? Asseguita la divisione dell'agro pubblico, con la quale si chiude il periodo della forte generazione che succede alla pro mulgazione delle dodici tavole,abolita di fatto la tavola III delle dodici (1), depositaria della preminenza di un ordine di cittadini sull'altro, si vede nascere un gran numero di piccoli proprie tarii che comincia a formare come uno stato medio in Roma, il quale meglio de'due estremi traduce in atto il genio agrario di Roma,e,mentre da una parte serba integro il maschio co stume antico e militare, dall'altra annunzia che l'equità ha fatto gran cammino: dalla forma è passata nella sostanza delle leggi. Abolita di fatto la terza delle dodici tavole, le altre undici stanno ritte come mummie che più tardi arriveranno dall'Egitto, documenti di una civiltà sepolta. Il carmen necessa rium si canterà come memoria di popolo legislatore che ha bisogno di ricordarsi per innovarsi. Per estimare quanta parte di vero si contenga nell'annunzio di rovina,che ci viene da Plinio,bisogna avere in vista il ca rattere di proprietà in Roma. Dico tirsa o quarta ecc., per seguire l'ordine più accettato. dilui. No:lalottatramonarchiaepatriziato prima, e poi, continua, tra patriziato e plebe, è possibile in Roma, in quanto qui più che prima e fuori è spiccato il sentimento personale: sentimento proprio, più che ad altri, ad un popolo agricoltore e militare, il cui genio sarà giu ridico. Chi coltiva il campo specialmente nel modo in tensivo dei primi nostri e lo disende, sente insieme più intenso il sentimento del mio e del luo, e, per conseguenza, dell'io e del tu. Intenso è, dunque, nel cittadino romano il sentimento della proprietà personale, quanto illimitato il sentimento di disporne: e l'uno e l'altro contenderanno allo Stato romano la facoltà di un'imposta fondiaria. Nė ci fu contesa: lo Stato non osò esco gitarla: vi si sarebbe ribellato ilgenio agrario di Roma.Quando dicesi mancipium, si accenna all'origine romana dellaproprietà; quando mancipatio, alla libera trasmissione; quando dominium ex jure Quiritum, all'effetto dell'uno e dell'altra; e quando res mancipi e nec mancipi, si accenna non solo ad una divisione tra le cose,ma alla prima possibilità di una possessione boni taria accanto al dominio quiritario. Troviamo, in fatti, un limite nelle dodici tavole alla facoltà di possedere e di disporre? Rispetto alla prima, non altro limite che quello di vicinanza, donde quelle servitù o recipro canza di oneri, che sono strettamente in rerum natura. La ta vola VII è mirabilmente sottile nel determinare i modi,aflinchè il dominium ex jure Quiritum non ne resti di troppo m e n o mato: neppure le chiama servitù; m a le fa passare sotto il ti tolo de jure aedium et agrorum. E rispetta tanto la pietra ter minale, segno di proprietà sovrana, che, per entrare nel campo vicino a cogliere un frutto caduto dal proprio albero, ha avuto  Bisogna,innanzi tutto,smettere ilpregiudizio,cheloStato di R o m a ripeta lo Stato greco o di nazioni incivili, durante la civiltà romana: bisogna rimuovere quest'affermazione di Hegel, che cioè il padre sfogava sulla famiglia quella durezza che lo Stato sopra   gran bisogno di dirlo: Ut glandem in alienum fundum proci dentem liceret colligere. Cosi fatto dominio, perchè del tutto quiritario rispetto al l'origine ed al genio, sarà tale anche rispetto all'estensione ed alvalore:ilforestiero non lo acquisterà innessun modo,nė per mancipazione, nè per usucapione, nè per cessione innanzi al magistrato (injure cessio), nè in maniera quale altra si vo glia. – Tal è il significato vero ed intero di quella legge della Tavola VI (altri impropriamente dicono della III): ADVERSUS HOSTEM AETERNA AUCTORITAS. E tutto questo è cosi assolutamente romano, che,per farlo greco più o meno,si ricorrerà invano a Solone. Sciendum est, in actione finium regundorum illud observandum esse,quod ail exemplum quodammodo ejus legis scriptum est, quam Athenis Solonem dicitur tulisse. Un quodammodo non basta a tramutare la leggenda in istoria. Rispetto poi alla facoltà di disporre, non altro limite in tutto questo periodo primitivo che quello della parola pro nunziata. QUUM NEXUM FACIET MAMCIPIUMQUE, UTI LINGUA NUN CUPASSIT, ITA JUS ESTO. Ne,quanto al testatore,sopravvengono limiti maggiori: UTI LEGASSIT SUPER PECUNIA TUTELAVE SUAE REI, ITA JUS ESTO. È facoltà sovrana di cittadino sovrano, di chi possiede ed esercita la lex curiata de imperio. Quando più tardi verrà una legge Cincia de donis et m u n e ribus ad annunziarci la necessità di un limite alla facoltà di di sporre, Questo che ho detto, non mi consente di accostarmi, come fa Mommsen,a Niebuhr che vuole introdurre qualcosa di do rico e forse di germanico,cioè di comune,nell'indole della pro prietà prediale romana,la quale fu affatto personale. Quanto alla mancata persona del figlio, non fu senza senti mento del vero averla spiegata e per la manus  1 128 è segno che la proprietà è mutata, è mutato con essa il diritto di proprietà, e che in un altro periodo è entrata la storia di Roma. espressione   del carattere militare la quale il marito aveva sopra la m o glie, e per l'istinto di padronanza che il civis optimo jure sen tiva sopra ogni suo prodotto, compreso il figlio. Non si dura fatica a vedere che la patria potestà nel civis sorge, si deter mina e si svolge piuttosto come un sentimento di proprietà, che di carità. Erano già, sin da prima, due modi di possedere separabili, perché, dove mancava la possibilità della patria p o testas, mancava il dominio ottimo; e l'uno e l'altro comprende vano facoltà illimitata di disporre. Non parmi aver dimenticato gli argomenti addotti da Ihering contro l'analogia veduta tra il dominio oltimo e la patria p o testà. Io vado oltre la semplire analogia, trovo poco calzanti le osservazioni di Ihering,e domando,poichè grave è la quistione, le seguenti cose: 1.9 Fuori del sentimento o, a dir chiaro, fuori del concetto di padronanza sul prodotto, secondo il dominio ottimo, dove si andrebbe a trovare la ragione storica, efficiente, della patria potestà,cosi illimitata,cosi personale,cosi aristocratica in Roma? La si presenterebbe come una esplosione inesplicabile, della quale poi si andrebbero a cavillare le origini dentro qualche piccolo istituto tra lo storico ed il mitico e non rispondente alla grande importanza dello effetto. Le azioni per rivendicare un figlio sottostanno alla procedura delle azioni reali? Non è il giuoco della dialettica giuridica,che modella le azioni di famiglia sulle actiones in rem: è invece la costituzione della famiglia, che crea cotesta proce dura. Ogni procedura è tale, in quanto procede da un diritto e per un diritto. È un errore ricorrere ai limiti escogitati intorno alla patria potestà per separarla, o distinguerla almeno, dal dominio, perchè anche intorno al dominio furono escogitati alcuni limiti e ne'tempi più rigidi della patria potestà. Il figlio istesso poteva provocare l'interdizione pretoria contro il padre che dava fondo alla cosa domestica: Moribus per praetorem interdicitur. 9- G.Bovio.DisegnodiunastoriadelDiritto,ecc.,ecc. in  Ecco,nel medesimo tempo,un limite alla potestà ed al do minio; m a non crea differenza. 4. Ed è un errore ricorrere al peculio, acquistabile dal figlio, per crearla una differenza tra potestà patria e dominio, perchè il peculio non arriva a distinguere, rispetto al potere paterno,illfigliodal servo.Tre cose,circailpeculio,dicechiaro Varrone: chi può possedere il peculio (i minori ed i servi); chilopuòpermettere(ilpadre edilpadrone);echeèilpe culio la pecudibus dictum). Se un istituto c'è, in cui il pater ed il dominus si presentano proprio sotto il medesimo aspetto è appunto il peculio; e, se un luogo che possa riconfermarcelo, è questo di Varrone. 5. Gli è vero, in ultimo, che, quanto al modo testamen tario di disporre, si vedono in fascio figli, servi e cose? Nella Tavola V si legge: Uli legassit super pecunia tutelave suae rei, ita jus esto. Occorrono davvero tempi umani per tradurre u m a namente: sulla tutela de'suoi.Ma legassit implica dominio ed ordine; super spiega l'obbietto; suae rei dice in che rapporto si trovavano i suoi verso il testatore. Non ignoro che questo modo d'intendere la patriapotestà ha messo in mala vista il mondo romano innanzi agl'intelletti miti e pietosi. Ma questi hanno a considerare che una civiltà vuol essere giudicata da'suoi effetti; che il sentimento giuri dico, diffuso da Roma nel mondo, deriva dal sentimento perso nale più forte in Roma che in Grecia ed assai più che in oriente; e che da questo virile sentimento personale derivano le lotte intestine di Roma, la proprietà romana e la potestà patria. Vico crede ripetuta questa eroica barbarie nel diritto feudale, e ripetuta la distinzione tra dominio quiritario e bonitario nella differenza tra il dominio diretto e l'enfiteusi, le mancipazioni nelle solennità del diritto feudale, e le stipulazioni nelle investi ture, come aveva veduto ripetersi le adunanze aristocratiche dei Quiriti nelle corti armate e ne'parlamenti, che nella rinnovata barbarie decisero de'nobili e delle loro successioni.  Vedremo che nè i tempi ricorrono, nè le analogie sono fon damento di ricorsi, né il tribuno, il pretore e il giureconsulto si sono ripresentati alla storia. Diciamo di presente soltanto questo, che, quando in Roma si giunse a poter dire: « Patria potestas magis in charitate quam in atrocitate consistere debet » è segno che il dominio quiritario è mutato. Ed è un gran cri terio di medesimezza tra'due istituti - il dominio ottimo e la potestà patria - l'isocronismo delle loro fasi neil'evoluzione. Chi mettesse occhio a cotesto,smetterebbe dal cercare differenze sottili che non arrivano a distruggere il fondo comune. La generazione cheabolivalatavolaterza,determinanteildo minio ottimo, segnatamente nel creditore, aboliva di fatto anche la quarta, scemando il soverchio della patria potestà. Può af fermarsi, senza alterare la storia, che dal giorno,in cui la Legge Petillia Papiria de nexis, secondando i tribuni Sestio e Licenio, disse inumano e proibì che i debitori potessero darsi per acs et libram in servitù al creditore, e al dominio ottimo fece un grande strappo, sottraendo la servitù de'nexi, da quel giorno cominciò ad attenuarsi sopra i figli la potestà patria, crudele assai volte quanto quella de'creditori e de'padroni,per l'eterna ragione espressa in ferrea forma dall'Alfieri: « Poter mal far grand'è al mal fare invito. » Cosi potevano e facevano il padrone,ilcreditore, il padre, sul medesimo fondamento del dominio ottimo. Seneca, tratlando della clemenza, accusava Erixo che, senza convocare un consilium, aveva incrudelito nel figlio, sollevando lo sdegno del popolo che voleva esercitare contro lo snaturato le stesse forme sommarie che quegli aveva contro il figlio. Ma questa collera di popolo, della quale parla Seneca, non è una esplosione, è figlia del maturo sentimento dell'equità e risale sino a que'tempi della repubblica, ne'quali un malvagio credi tore, L. Papirio, sfogando la sua crudeltà ne'debitori, provocava una sedizione popolare, un'altra collera, onde nacque la legge    de nexis, che, già svelando la presenza del pretore, chiarisce l'equità essere passata dalla forma nel contenuto della legge. Tito Livio, in fatti, ricorda la Legge Petillia Papiria come coro namento della generazione, nella quale è apparso il pretore. Eo anno plebi romanae, velut aliud initium libertatis factum est, quod necli desierunt. Mutatum autem jus ob unius foeneratoris simul libidinem, simul crudelitatem insignem. Tre osservazioni facciano i pensatori intorno a questo luogo di Livio. La prima, che quell'aliud inilium libertatis si ha da tradurre un nuovo momento dell'equità, cioè l'equilà passata dalla forma della legge nella sostanza. La seconda, la causa o c casionale, la crudeltà falla libidine, che chiarisce e documenta la sentenza di Alfieri. L a terza, nel quale si compie appunto la generazione che tra le ire civili vide appa rire, componitore equo, il pretore. Assai prima che Alessandro Severo obbligasse un padre ad accusare il figlio ai giudici ordinarii, assai prima dico, proprio nel miglior fiorire della repubblica, scaduto, innanzi a questo aliud initium libertatis,ildirittoquiritario,furonorallorzatiquei consigli domestici che frenarono l'arbitrio paterno. Nella generazione,in cui apparisce ilpretore,segnacolo del l'equità nella legge, cioè dell’aliud initium libertatis, la ditta tura può essere plebea, assolutamente plebeo uno de'censori, i plebisciti, che avevano conseguito già università di leggi, si li berano dall’auctoritas patrum, si pubblicano i fasti e si pubbli cano le azioni della legge, e, pubblicati i fasti, un plebeo può  E intorno al medesimo tempo era cominciata a prevalere la sentenza di Cicerone, negli Ufficii, circa le tutele, le quali non volevano essere considerate tanto come un diritto privato ed una quasi surrogazione della potestà patria,che le imponeva incondi zionatamente,quantocome un beneficousfiziosociale,ad utilitatem corum qui commissi sunt, non ad eorum quibus commissa est. E di quest'ordine delle date è da tenere gran conto per la giusta valutazione delle istituzioni.   salire al pontificato massimo. Cajo Marzio Rutiliano e Tiberio Coruncanio sono due nomi plebei che significano adempita l'equità civile e politica nella legge:il primo plebeo dittatore ed il primo plebeo pontefice massimo. Fermiamoci, per fare poche osservazioni. Che significa nell'anno 458 di Roma,ottoanni dopo la pub blicazione de'sasti e delle azioni di legge, trent'anni in punto dopo la Legge Petillia Papiria de nexis, e due generazioni dopo l'apparizione del pretore, che signisica, domando, nell'anno 458 la Legge Ortensia De plebiscilis, quando, prima e dopo del pre tore,c'erano già state la Legge Valeria-Orazia De plebiscitis e la Legge Publilia, quella ·appunto che, secondo Vico, dichiarò popolare la repubblica romana? Quando vediamo Livio, Plinio ed Aulo Gellio ripetersi intorno a questa legge de'plebi scili,e ripresentarla, riproducendo le meilesime formole,noi vo gliamo sapere se occorrevano tre leggi, o una medesima legge in tre tempi diversi,per far entrare i plebisciti tra le sorgenti di diritto pubblico e privato. M 'ė parso di vedere la critica storica imbarazzata e quasi sospettare della sincerità delle formole tra mandateci dagli scrittori citati sopra. Or bene,a me par chiaro che le tre leggi de plebiscilis in tre tempi, che abbracciano un secolo e mezzo, cio è dalla prim a i m mediata reazione contro le dodici tavole, e direttamente contro la nona, sino alla dichiarazione ellettuale della repubblica popo lare, non si ripetono,perchè in nessuna istoria si trovano nè sono possibili coteste ripetizioni, m a sono tre momenti progressivi del l'equità nel medesimo obbietto, cioè nei plebisciti, ordinati a d e mocratizzarela repubblica. Con la prima, cio è con la Valeria – Orazia, si viene a dar valore di universalità ai plebisciti, secondo le tre formole con sone, l'una di Livio: Ut quod tributim plebes jussisset, populum teneret; l'altra di Plinio: Ut quod ea jussisset, omnes Quiriles teneret; e l'altra di Aulo Gellio: Ut eo jure,quod plebes statuis set, omnes Quirites tenerentur. Con la seconda, che è la Legge Publilia, che altri mettono sollo la data del 415, altri del 416, alcuni sotto il nome di C. Publilio Filone, tribuno della plebe altri di Q. Publilio Filone, dittatore (Vico lenne giustamente io credo pel dittatore), vennesi a fare non solo obbligatoria, ma presta bilita l'auctorilas patrum per tutti i progetti di legge sottomessi ai comizii centuriati. Tito Livio scrive: Ut legum quae comitiis centuriatis forrentur, ante inilum suffragium, Patres auctores ficrent.Ed,ecco,quell'ante initum suffragium siela l'arclorilas di un caput mortuum, sopra il quale Silla vorrà invano alitare la vita. Con la terza, che è la Legge Ortensia (458, che Plinio dice essere stata di Q Hortensius dictator, l'auctoritas è troncata di netto. La formola che abbiamo già detta di Cicerone: « Potestas in populo, auctoritas in Senatu sit », è già superata. La potestà trova in sè l'autorità, e la Legge Ortensia è l'espressione radicale della repubblica popolare.Mi sia lecito dire che la suprema equilii è questa equazione tra la potestas e l'auctoritas. Mi è parso necessario notare che l'universalilà de'plebiscili, l'obbligatorietà prestalilita dell'autorizzazione e, in ultimo, l'a bolizione dell'autorità estrinseca sono non ripetizioni di una m e desima legge, m a tre leggi plebiscitarie che dinotano dalle dodici tavole sino alla Legge Ortensia tre gra di progressivi dell'equità nella legge,tre momenti notevoli, onde la repubblica si democratizza. Chiariamolo anche meglio con una breve considerazione circa la pubblicazione de'fasti. La plebe un secolo quasi dopo i Decem virilegibus scrilun dis(292)consegui iDecemvirisacrisfaciundis(386),edunaltro mezzo secolo dopo, democratizzata civilmenie e politica mente la repubblica, riusci a democratizzarla anche religiosa mente, occupando le dignità sacerdotali, sicchè di otto nel col legio de'pontefici ne prese quattro, e cinque de'nove nel col legio degli auguri. È segno che il giureconsulto è uscito dal l'atrium, che il suo responso non è più un oracolo, che i fasti sono pubblicali, e che la procedura, nella quale il diritto si ha  per il 416 e   da muovere, non è più un segreto di parte, ma è promulgata come il diritto istesso. L'ius Flavianum (450) ha questo grande significato: non vi sono piu misteri. E questa espressione tra dotta dalla lingua religiosa nella lingua politica significa: non vi sono più privilegi. Questa promulgazione de'fasti, de’misteri giudiziarii e delle formole sacramentali per via di semplice evoluzione,senza urti, senza rogazioni, nè sedizioni, nè secessioni,parve alla plebe ro mana un si grande miracolo, che volle, dentro i tempi storici, creare una favola plebea e contrapporla ad una favola patrizia, cominciata a diffondersi in questi tempi. La favola patrizia era quella di Furio Camillo,scoppiato ful mineo sulla bilancia del Gallo, ed acclamato secondo fondatore di Roma.Cosi potè dirsi,un patrizio, Giunio Bruto, fondò la repubblica; un patrizio, Furio Camillo, la salvò. La favola ple bea fu quella del liberto Gneo Flavio che ruba il mistero della procedura al giureconsulto patrizio Appio Claudio Cieco e butta in pubblico i fasti e le formule sacramentali. Certo, Polibio e Diodoro Siculo non parlano del miracolo di Furio Camillo, e il loro silenzio è troppo tardi interrotto dalla narrazione drammatica di Tito Livio. E, per simile, molte erano ai tempi di Cicerone le controversie circa l'origine della pro mulgazione laviana, nè Cicerone osa spiegarsela. Ma ben si vede in quel liberto, profanatore del mistero, la plebe fatta libera, ed in quell’Appio Claudio Cieco il patriziato ignaro dei tempi. In Gneo Flavio,di liberto,creato tribuno, senatore ed in magi stratura curule, è passato l'occhio mancato ad Appio Claudio. Que'che, tormentando anche le parole,mettono in forse tante narrazionidellastoriadiRoma,daRomolo aVirxinia,perché non hanno osato portare la critica storica dove più occorreva, sull'origine dell'ius Flavianum? Altri, per fare più credibile il racconto, dissero che Appio Claudio della famiglia claudia, stata sempre nemica alla plebe, e punito di cecità da’Numi in età adulta per non si sa quale colpa, si fece lui proprio ispi E, dopo queste brevi considerazioni, possiamo spiegarci intero l'ufficio del pretore. Tra le sorgenti del diritto pubblico e privato sono entrati i plebisciti.Sublata auctorilatepatrum,larepubblicaèdemocra tizzata del tutto. Le leggi son,ma chi pon mano ad esse? Il Magistrato. Farle è del Senato, della plebe, del popolo; dirle è del magistrato. Altro è ius condere, altro è ius dicere: due funzioni distinte e connesse. Condere è la parola potesta tiva del legislatore; diccre è la parola sacramentale del magistrato. Dicere è la parola generale dell'applicazione della legge: i modi sono ius dicere, cdicere, aldicere, interdicere. Il derivato è edictum.L'edictum è la viva vox juris civilis. Questo è saputo, e con questo, che, quando si pronunzia la parola edictum assolutamente,ilpensiero non ricorre nè all'edic tum aedilitium, nè all'edictum provinciale, nè alle forme più o meno secondarie di edicta perpetua,repentina,tralatitia,ma ri corre direttamente all'cdictum praetoris. Non è cecità nè arbi bitrio del pensiero moderno, è perchè cosi, prima di noi, inte sero e dovevano intendere gli antichi. Quando Papiniano parla del diritto onorario, lo dice cosi nominato ad onore del pretore; quando Gaio parla dell'editto che emenda le iniquità del diritto, si riserisce all'editto del prelore; ed al pretore si riserisce A s c o nio, quando accenna la ragione dell'editto perpetuo; e del pre tore si duole Cicerone, quando vede l'editto superare le dodici tavole.La ragione storica è questa:la presenza del pretore si gnifica che le due parti avverse, nelle quali era divisa R o m a, si sono equilibrate; il suo editto, in quanto spiccatamente porta ratore a Gneo Flavio, plebeo e figlio di un liberto, della novità benefica che è l'ius Flavianum, onde i pontefici furono obbligati a far pubblico il calendario. La versione pare più mitica del mito. questa impronta di equilibrio, suona l'equità passata nella legge, l'aliud initium libertatis, la repubblica signorile fatta popolare; il suo editto è, perciò, la voce viva dell’ius civile, rimasto voce morta; e però entra innanzi alle dodici tavole che in vano Cice rone lamenta neglette. Questo aliud initium libertatis è a b b a stanza commentato dalla definizione che del diritto pretorio ci manda Papiniano,ilgiureconsultomassimo:Juspraetoriumest, quod praetores introduxerunt, adiuvandi, vel supplendi, vel cor rigendi juris civilis gratia, propter utilitatem publicam, quod et honorarium dicitur, ad honorem praetorum sic nominatum. Se temesi che questa correzione pretoria sul diritto civile possa tornare precaria ed incerta, la Legge Cornelia provvede a sostituire l'editto perpetuo al repentino: Ut praetores ex edictis suis perpetuis jus dicerent.Se Cicerone duolsi del vedere torpide le dodici tavole innanzi all'editto, e se teme le sedizioni tribu nicie, dica se abbia trovato, il temperare il s u m m u m jus, altro mezzo evolutivo suori dell'edillo pretorio. Il summum jus a lui era summa injuria, a Terenzio summa malilia, a Gaio iniqui tates juris. Chi tempera quell'ingiuria, corregge quella malizia, e all'iniquilà sostituisce l'equilà? La risposta è di Gaio: Haec juris iniquitates edicto praetoris emendatae sunt. Si dorrà forse anche di questo Cicerone, di vedere il m a g i strato sostituito al legislatore, la sentenza alla legge, la persona allo Stato. E davvero il caso parrebbe strano, se non fosse spie gabile in questo modo:che il pretore significa l'unità della legge, dove il legislatore era stato duplice — patriziato e plebe; e si gnifica l'equilà ristretta ai casi particolari, senza forma impera tiva, la quale è tutta del legislatore. Dove compiuto è il periodo dell'equilibrio delle parti, e co mincia il periodo unitario di R o m a nella politica, ivi è segno essere cominciato il periodo unitario del diritto nel pretore. Ne procede questa definizione dell'editlo pretorio, la quale compie,non nega la definizione di Papiniano: L'editio pretorio è l'equilà ne'casi particolari, cioè volta per volta ed anno per anno, ed indica affermato l'equilibrio delle parli in R o m a, e co minciato il periodo unitario nel diritto e nella politica. La gloria del tribuno è di aver provocato la promulgazione delle dodici tavole; del pretore, averle superate con l'editto. La promulgatio chiarisce e denuda la repubblica aristocratica; S'ignorano davvero due cose: in che tempo la Legge Aebutia abolisse le legis actiones, e sino a che punto. La disputa è in decisa. Io credo che la legge Aebutia sia apparsa tra l'uno e l'altro pretore, l'urbano ed il peregrino, e che abbia abolito gran parte delle legis actiones, quando già alla procedura del vecchio diritto l'editto pretorio aveva contrapposto una procedura con suetudinaria. Composto, nella persona del pretore, il dualismo, e c o m p i u t a, nella significazione dell'editto, l'unificazione giuridica, comincia l'unificazione politica nella generazione immediatamente succe duta al pretore. Il pretore appare tra il 387 ed 88; tra il 411 e 13 compiesi la prima guerra per l'unificazione politica. Questa unificazione politica ha due periodi: 1° l'unificazione d'Italia;2° l'unificazionedelmondo mediterraneo.Ilsecolo quarto di R o m a abbraccia il periodo della unificazione giuridica, e si conchiude col pretore; il secolo quinto abbraccia il p e riodo della dictum la demolisce e l'annunzia democratica. l'e Sono da fare due considerazioni. L'una,che gli editti, non essendo espressione di facoltà legislativa,non portano forma i m perativa, e non possono averla ne rispetto all'origine che è giu risdizionale, nè rispetto all'obbietto che non è universale. In tutta la forma dell'editto appare la faccia benevola dell'interprete, non la severa del legislatore. L'altra è che l'editto, per suggel lare l'equità, deve aver superato non solo il vecchio diritto civile, ma la vecchia procedura:e però,se da una parte si lascia in dietro le dodici tavole e le iniquitates juris, dall'altra supera r a pidamente le legis actiones, cioè quella vecchia e aristocratica procedura,dentro la quale si muovevano iprivilegiati della re pubblica signorile.  unificazione politica, e si conchiude col giureconsulto. Tra l'uno e l'altro periodo della unificazione politica, cioè tra quello della unificazione ilalica e l'altro dell'unificazione della civiltà m e d i terranea, appare il pretore peregrino, che è l'apparizione del diritto delle genti, il quale viene a fare umana l'equita latina. Il periodo dell'unificazione italica abbraccia le tre guerre sannitiche. E nel'a generazione immediatamente succeduta comincia il periodo per l'uni ficazione del mondo mediterraneo, che abbraccia le tre guerre puniche. Il disegno e l'effetto delle tre puniche non furono la semplice indipendenza dell'Italia.Come dopo le sunnitiche a Roma fu facile la guerra tarantina, nella quale meglio che il ferro occorse l'oro per occupare la città da Milone messa all'incanto, e farsi signora della regione che dalla Macra e dal Rubicone va sino al capo Spartivento ed alla punta di Leuca, cosi dopo le puniche le fu facile la guerra corintiaca,onde si annesse l'Acacia ed alla civiltà ellenica sostitui definitivamente la latina. T:11 era l'effetto, perchè tale il disegno. Mommsen ammira come gran falto nazionale de'Romani la costruzione della flotta, ed io ripeto che quella impresa fu più che nazionale, più che italiana, e fu il disegno del gran duello per l'egemonia sul mondo mediterraneo. Come le guerre san nitiche significavano che l'unità d'Italia spettava od ai Romani od ai Sanniti, cosi le guerre puniche significavano che l'unità del mondo mediterraneo speltava o ai Romani od ai Carta ginesi. Fu crudeltà, ma fu politica. Delenda Carthago è la conse guenza di un dilemma: la metropoli del mondo mediterraneo o Roma o Carlagine. E Roma vinse,non perchè Marco Porcio Ca  È discutibile se sieno più feroci le guerre per l'indipendenza o quelle per l'egemonia. Queste io credo: perchè alle prime b a sta disarmare il nemico; alle seconde occorre sterminarlo: D e lenda Carthago !   140 tone fu inesorabile e l’Affricano secondo più crudele del primo, m a perchè R o m a aveva un ideale, una missione ed un convin cimento che mancavano a Cartagine. Questa non è la metafisica della storia circa la predestina zione de'sini, è la rislessione storica sugli effetti determinati. Roma vinse, e con essa il Diritto romano che si farà umano, salendo,frapoco,dall'edittoalresponso;ma con Cartagine,se fosse stata vincitrice, non si sa quale alto fine civile sarebbe slalo vittorioso. Non è già che il popolo romano vinse, perchè aveva e sentiva astrattamente la missione giuridica; ma aveva questa missione, perché sin da principio il suo genio si era d e terminato di agricoltori e militari. E che si fosse cosi m a n t e nuto sino alla guerra corintiaca – malgrado la casa di Emiliano già aperta a Polibio, a Plauto, a Terenzio ed a Pacuvio si chiarisce dall'ordine espresso dal console Lucio Mummi o ai romani deputati a portare a Roma da Corinto le meraviglie del Il pretore urbano prenunzia il periodo unitario. Espressione di cotesto periodo sono due grandi istituti della vita romana: il prelore peregrino ed il giureconsulto. Chiamo istituto, piullosto che ufficio,quello del giureconsulto per ragioni che si parranno (Giunti al respɔnso, non possiamo trovara nulla di più alto e di più comprensivo nella storia del diritto romano. Stimiamo utile far conoscere ai giovani studiosi come si scriveva la storia del diritto romano ai tempi di Pompinio, mettendo in questa nota sotto il oroocchi il frammento che togliamo dal primo libro del Digesto, e lasciando a loro la cura di correg gere le inesattezze che troveranno non solo rispetto ad alcuni fatti e nomi, m a alla cronologia ed ai criterii. Utile e non difficile lavoro, per la cura che abbiamo posta nello accennare le date principali ed i criterii storici che governano gl'istituti giuridici di maggiore importanza. Grozio discute assainelleVitaejurisconsultorumde'duePomponii.Zimmern- trattando  l'arte greca. tra poco. Il pretore peregrino è l'espressione viva e concreta dell'uni ficazione italica; il giureconsulto; della unificazione del mondo mediterraneo (1)   Il pretore peregrino compie il pretore urbano, in quanto di larga l’equità, senza dilungarsi da’casi particolari; ma, en e non dalle Variae lectiones. Ecco Pomponio: Necessario ci pare il mostrar l'origine propria e il procedimento del diritto. Al principio della nostra città il popolo cominciò ad operare senza legge certa, senza stabile diritto, e tutto reggevasi per mano dei re. In appresso, cresciuta in qualche modo la città,clicesi lo stesso Romolo dividesse il popolo in trenta parti, che chiamò curie, perciocchè a sen tenza di queste parti disimpegnava allora le cure del governo. Ond'è che ed egli ed i seguenti re proposero al popolo alcune leggi curiate, le quali tutte trovansi scritte nel libro di Sesto Papirio che fu uno dei principali personaggi a'tempi del Superbo, figlio di Demarato da Corinto.Questo libro è intitolato diritto civile Papiriano, non perchè Papirio v'abbia aggiunto alcun che di suo,ma perchè egli raduno in uno le leggi promulgate sen z'ordine. Cacciati quindi i re per legge tribunizia, tutte quelle leggi andarono in disuso, e il popolo romano cominciò di nuovo a reggersi con diritto in certo, e più dietro la consuetudine che secondo alcuna legge emanata; e così continuò per circa venti anni. Dopo le sannitiche,unitasi a Roma l'Italia,ilgenio dell'urbs si senti tocco, e però modificato,da due correnti nuove: il c o m mercio e la presenza degli stranieri. La rustica Dea Pales, in dividuazione mitica del genio originario di Roma, sentivasi mutar costume, e tollerava, con la presenza degli stranieri, que'commerci che erano parsi spregevoli al primitivo genio agricolo e militare di Roma. In nome di questa tolleranza un secolo ed alquanti anni (307) dopo il pretore urbano sorse il pretore peregrino, qui inter cives et peregrinos, plerumque inter peregrinos jus dicebat. L'equità estendevasi a quelli che prima del periodo unitario erano designati con tre nomi: hostes,pere grini, barbari. del diritto privato romano tiene pe'due. Puchta nel ('orso delle Isti tuzioni– tieneperunsolo.Unasolacosaècerta,cheilframmentoche noi riportiamo, è dall'Enchiridion non ricordato dall'indice fiorentino   tralo per tolleranza, gli sottosta, se non in grado di ufficio, in dignità; nè metterà fuori un editto che contraddica a quello pubblicato dal pretore urbano; nė tra gli antichi troverà chi voglia commentare il suo editto, privo di originalità. I giure consulti che vennero di poi, mentre inducevano la regola uni versaledidirittodall'edittodelpretoreurbano,non commen tarono mai l'editto del pretore peregrino. Anche io credo che il commentario di Labeone non resista alla critica. Giunto a questo fastigio del diritto romano, dove col pretore peregrino par nato l’jus gentium, e col responso l'equità ro mana sale a diritto umano, mi occorre vedere onde la deca denza imputatada Plinio ai latifondi, e come il giureconsulto, nel vero senso della parola, possa trovarsi coevo con la rovina della repubblica e compagno della corruzione imperiale. Onde ciò non avesse a durare più a lungo, piacque allora che fossero nominati per pubblica autoritàdieci,iqualitogliesseroleleggidallegreche società, e la città munissero di leggi. Incise su tavole d'avorio,le esposero sui rostri, affinché si potessero le leggi meglio imparare; e fu loro dato in quell'anno il diritto massimo nella città,di correggere,se facesse bi sogno,e d'interpretare le leggi,nè vera appello da loro come dagli altri magistrati. Essi medesimi avvertirono mancar qualche cosa a quelle prime leggi, perciò l'anno seguente viaggiunsero altreduetavole, ecosìper l'accidente del numero furono chiamate leggi delle XII Tavole.Narrano alcuni che la composizione di esse fosse stata proposta ai decemviri da un certo Ermodoro da Efeso, esule in Italia. Promulgate queste leggi,avvenne,come naturalmente suole,che per l'interpretazione si desiderasse l'autorità dei prudenti e la necessaria d i sputazione del Foro; questa disputazione e questo diritto ordinato dai prudenti, senza che venisse scritto, non ha nome in alcuna parte propria, come vengono distinte tutte le altre con proprio nome,ma chiamasi con titolo generale diritto civile. Quindi,dietro queste leggi,quasi contemporaneamente furono composte le azioni, colle quali gli uomini agitassero i litigi nati tra loro;le quali a zioni,affinchè il popolo non le facesse a capriccio, vollero che fossero sta bili e legali; equesta parte del diritto chiamasi azione di legge,cioè le gittima. E così quasi in un tempo medesimo nacquero questi tre diritti,  delle XII Tavole,da cui scaturi ildiritto civile,e quindi leazioni.Siperò l'interpretazione delle leggi,si le azioni spettavano al collegio dei ponte fici,dai quali ogni anno sceglievasi chi dovesse soprantendere ai privati, e per circa cento anni il popolo segui quest' uso. In appresso, avendo Appio Claudio proposto e ridotto a forma queste azioni, Gneo Flavio, suo scrivano e figlio di un liberto, sottratto gli il libro, lo fece di ragione del popolo; il quale servigio fu al popolo tanto grato, che elesse lui tribuno della plebe e senatore ed edile curule. Questo libro contenente le azioni chiamasi diritto Flaviano, siccome quell'altro d i ritto Papiriano; ma neppur Gneo Flavio aggiunse alcun che al suo li bro. Cresciuta la città e mancando alcune specie di azioni, Sesto Elio non molto dopo ne istituì altre, e pubblicò il libro che chiamasi diritto Eliano. Quindi,essendovi nella città la legge delle XII Tavole e ildirittocivile e le azioni di legge, accadde che, venuta la plebe a discordia coi padri e separatasene, istituì le leggi che chiamansi plebisciti, cioè decreti della plebe. Non guari dopo, richiamata la plebe, perchè frequenti discordie n a scevano intorno a questi plebisciti, per la legge Ortensia fu stabilito che avessero anche quelli per leggi; e cosi avvenne che i plebisciti e le leggi differissero pel modo di farle,ma ne fosse eguale l'autorità. Quindi,perchélaplebeaccordavasi difficilmente,emoltopiùdifficil mente il popolo in si grande moltitudine di persone,fu d'uopo che si affi dasse al senato la cura della repubblica. Così cominciò ad intromettersi il senato, ed osservavasi tutto quello ch'esso avesse decretato, e questo di ritto fu detto senatoconsulto. A quei tempi anche iMagistrati proferivanogiudizi;ed,affinchéicit tadini sapessero qual giudizio intorno ad ogni cosa si proferirebbe e se ne premunissero, pubblicavano gli editti che costituirono il diritto onorario, così detto perchè veniva dall'onore, cioè dalla carica di pretore. Da ultimo, siccome pareva che l'autorità di far leggi fosse, per natu rale effetto delle cose,passata al minor numero,un po'per voltaavvenne che fu necessario che un solo provvedesse alla repubblica; poichè il senato non poteva del pari amministrar bene tutte le provincie. Stabilito quindi il principe, gli fu dato il diritto, che si avesse per rato checchè egli d e terminasse. Così nella nostra città o si giudica pel diritto, cioè secondo la legge; o v'è diritto civile, che consiste solo nell'interpretazione dei prudenti,non iscritta; le azioni di legge,che contengono le forme da usare; i plebisciti, che furono emanati senza l'autorità dei padri; gli editti dei magistrati, donde nasce il diritto onorario; i senatoconsulti, che emanano dal solo    senato costituente senza legge; e le costituzioni del principe, quello cioè che il principe determinò si osservi come legge. Conosciuta l'origine e il procedimento del diritto,conseguita che discor riamo i nomi e l'origine dei magistrati, perchè, come abbiam mostrato,da quelli che presiedono a far leggi, acquistano gli effetti. Imperocchè, che varrebbe essere nella città, se non vi fosse quegli che potesse far leggi? Dopo ciò parleremo degli autori che si succedettero l'un l'altro, giacchè il diritto non può sussistere senza che siavi qualche giurisperito,dal quale esser possa mano mano migliorato. Quanto ai magistrati, nei primordi della nostra città i re ebbero tutto il potere. I tribuni dei celeri comandavano ai cavalieri, ed occupavano quasi ilsecondo posto dopo ire;del qual numero fuGiunioBruto,autore del discacciamento dei re. Espulsi i re, furono stabiliti due consoli, ai quali per legge fu concesso il supremo diritto: così chiamati, perchè bene provvedevano (consulebant) alla repubblica. Onde pero non si arrogassero regio potere in tutto,fu per legge stabilito che vi fosse appello da loro, nè potessero punire verun cit tadino romano senza il consenso del popolo: a loro fu soltanto concesso di obbligare e di far mettere nelle pubbliche prigioni. In appresso, dovendosi rinnovare il censo che da ogni tempo non erası fatto, nè bastando i consoli a questo incarico, furono stabiliti i censori. Aumentando il popolo, e nascendo frequenti guerre, delle quali alcune assai gravi, mosse dai confinanti, piacque di eleggere,ogni qualvolta il bi sogno richiedesse, un magistrato con potere maggiore; furono per tanto istituiti i dittatori, dai quali nessuno poteva appellarsi, e che avevano a n che podestà di vita e di morte.Questo magistrato, perchè aveva un po tere sommo,non poteva durare più di sei mesi. A questi dittatori aggiungevansi i maestri, vale a dire comandanti dei cavalieri, nella stessa guisa che ai re i tribuni dei celeri, la quale carica equivaleva presso a poco a quella dei prefetti del pretorio: m a i magistrati erano tenuti per legittimi. Quando poi, circa diciassette anni dopo la cacciata dei re, la plebe si separò dai padri, crearonsi sul monte sacro i tribuni, ch'erano magistrati plebei,e fu loro dato tal nome,perchè una volta ilpopolo era diviso in tre parti, e da ciascuna se ne sceglieva uno, o perchè venivano nominati per suffragio della tribù. E parimenti, affinchè fosse chi soprantendesse agli edifizii, nei quali riferiva tutti decreti la plebe,deputarono a ciò due della plebe, che fu rono chiamati edili. Avendo poi l'erario del popolo cominciato ad esser pingue,furono nominati i questori che ne avessero cura; cosi detti, perché dovevano esigere (quaerere o inquirere) e tenere conto del danaro. E perché, secondo abbiamo detto, non era concesso ai consoli pronun ciare sentenza di morte contro un individuo romano senza permissione del popolo,furono dal popolo nominati iquestori del parricidio,che giudi cassero i delitti capitali: di essi fa menzione anche la legge delle XII Tavole. Ed,essendo piaciuto che si facessero ancora altre leggi, fu proposto al popolo che tutti i magistrati si dimettessero, e furono nominati i decem viri per un anno. Questi si prorogarono la carica e si condussero ingiu stamente,nèvolevanoristabiliredinuovo imagistrati,peroccupareglino e il lor partito il potere; e colla lunga e crudele dominazione loro con dussero le cose a tale, che l'esercito si ribello alla repubblica. Dicesi che capo di questa ribellione sia stato un certo Virginio.Questi vide che Appio Claudio, contro il diritto ch'egli stesso dal diritto antico aveva inserito nelle XII Tavole, gli aveva tolto il possesso della propria figlia, e giudi cato in favore di colui che, subornato dallo stesso Appio,laripeteva come sua schiava, perchè, acciecato dall'anjore per la fanciulla, non aveva più guardato a diritto o a torto, sdegnato che gli fosse tolto il diritto anti chissimo sulla persona della figlia, a somiglianza di quel Bruto primo con sole, che aveva dichiarato libera la persona di Vindice schiavo dei Vitellj, per aver rivelata la congiura; e, riputando la castità della figlia essere da preferire alla vita, tolto un coltello dalla bottega di un macellajo, u c cise la figlia per sottrarla colla morte al disonore dello stupro; e tosto, grondante ancora del sangue della figlia, corse tra'suoi compagni d'arme. I quali tutti dall'Algido, dove le legioni trovavansi a cainpo, abbandonati i capi, trasferirono le bandiere sull'Aventino, e là pure si condusse tutta la plebe della città. Allora altri dei decemviri furono uccisi in prigione, altri cacciati in esilio, e fu ristabilito nella repubblica l'ordine di prima. Alcuni anni dopo la pubblicazione delle XII Tavole, la plebe venne a contesa coi padri, volendo che i consoli si eleggessero anche dal suo corpo; al che opponendosi i padri, avvenne che si creassero, parte dalla plebe, parte dai padri, i tribuni militari con podestà consolare, i quali varia rono di numero,poichè furono ora venti,ora più,non mai meno. Essendosi quindi convenuto di creare i consoli anche dalla plebe, si cominciò ad eleggerli dai due corpi. Afinchè però ipadri avessero qualche cosa più della plebe, piacque allora che si eleggessero dal loro ordine due edili curuli. E,perchè i consoli erano occupati dalle guerre coi vicini, nè vi aveva chi nella città potesse amministrar la giustizia,si creò un pretore,chia mato urbano,perchè amministrava la giustizia nella città. G. Bovio.Disegno di una Storia del Diritto, ecc., ecc. Dopo alcuni anni, non bastando quel pretore, perchè accorreva nella città moltitudine di forestieri,fu creato un altropretore,dettoperegrino, perchè per lo più rendeva giustizia ai forestieri (peregrini). Poi,essendo necessario un magistrato che presiedesse ai pubblici in canti, furono stabiliti i decemviri per giudicare le liti. A quel tempo furono pure nominati quattro soprantendenti alle strade, i triumviri monetali che vegliavano alla fabbricazione delle monete di rame,d'argento e d'oro,ed itriumviri capitali che custodivano le pri gioni, si che,quando dovevasi punire, facevasi col loro intervento. E,perchè nelle ore vespertine i magistrati non avevano obbligo di tro varsi in officio, furono istituiti i quinqueviri di qua e di là dal Tevere, che ne facessero le veci. Conquistata poi la Sardegna, quindi la Sicilia,la Spagna e la provincia Narbonese, furono creati tanti pretori quante nuove provincie, i quali so prantendessero parte alle cose urbane, parte alle provinciali. Quindi Cor nelio Silla istitui i processi pubblici, come di falso,di parricidio,dei sicarj, ed aggiunse quattro pretori. In appresso Cajo Giulio Cesare istituì due pretori e due edili, detti cereali da Cerere, perchè soprantendevano ai grani. Così si ebbero dodici pretori e sei edili. Poi il divo Augusto portò a sedici il numero dei pretori, ai quali il divo Claudio altri due ne aggiunse, che giudicassero intorno ai fedecommessi;ildivo Tito ne soppresse uno,e il divo Nerva ve lo aggiunse; essi giudicavano le liti fra il fisco e i privati. Per modo che diciotto pretori amministravano la giustizia della città. Tutto ciò si osserva, quando i magistrati sono nella città; quando poi ne partono, si lascia uno che solo rende giustizia e chiamasi prefetto alla città, il quale una volta si nominava all'occorrenza, dopo fu stabile per le ferie latine,ed eleggesi ogni anno.Ilprefetto dell'annona e dei vigili,cioè delle guardie notturne, non sono propriamente magistrati, m a furono stabi liti straordinariamente per comodo: quelli però che abbiamo detto nomi narsi di qua dal Tevere,per decreto del senato venivano poi creati edili. Dunque,fra tutti, dieci tribuni della plebe, due consoli, diciotto pretori, sei edili nella città amministravano il diritto. Moltissimi e chiarissimi personaggi professavano la scienza del dritto civile, m a ora ci basta parlare di quelli che in maggiore stima furono presso il popolo romano, affinchè apparisca da chi e quali leggi ebbero origine e ne furono tramandate.E prima di Tiberio Coruncanio non ricordasi alcuno che pubblicamente professasse questa scienza; tutti gli altri fino allora a v e vano creduto di tenere occulto il diritto civile,o soltanto si prestavano a chi li consultava, piuttosto che a chi volesse imparare. Tra i primi periti del diritto fu poi Publio Papirio, che radund in uno  le leggi dei re. Dopo questo, Appio Claudio, uno dei decemviri, il cui senno molto valse nel comporre le XII Tavole.Appresso viene altro Appio Claudio che ebbe grandissima scienza in questa parte, e fu detto centimano. Fece egli costruire la via Appia, derivò l'acqua Claudia, e persuase di non ricevere Pirro nella città. Si disse aver egli pel primo scritto le azioni in torno alle usurpazioni, il qual libro però non esiste. Sembra che il m e d e simo Appio Claudio abbia inventato la lettera R, onde si disse Valerj in vece di Valesj,e Furj invece di Fusj. Dopo questi, di grandissima scienza fu Sempronio che ilpopolo romano chiamò coçov (sapiente), nome che a nessun altro fu dato nè prima nè dopo ali lai.Ma vi fu anche Cajo Scipione Nasica che dal senato fu chiamato ottimo, al quale fu anche data del pubblico una casa sulla via Sacra, onde più facilmente si potesse andare a consultarlo. Appresso fu Quinto Fabio che, mandato ambasciatore ai Cartaginesi, essendogli poste innanzi due schede,unaperlapace,l'altraperlaguerra,econcesso a luil'arbitrio di portare a Roma qual delle due gli piacesse, le prese ambedue, e disse dovere i Cartaginesi chiedere e ricevere qual più volessero. Fu,dopo questi,Tiberio Coruncanio chepelprimo,come dissi,cominciò a professare il diritto: di lui,sebbene non restò veruno scritto, si ricordano molte e memorabili risposte. Quindi Sesto Elio col fratello Publio Attilo ebbero grandissima scienza nel professare ildiritto,e furono anche consoli. Sesto Elio è lodato anche da Ennio, e di lui esiste un libro intitolato Tria partita, che contiene i primi elementi della scienza del diritto:gli fu dato quel nome, perchè,proposta la legge delle XII Tavole, vi soggiunse l'inter pretazione, e quindi vi unì l'azione di legge. Dicesi esserci di lui tre altri libri che alcuni però gli negano.Le pedate di questo calcò Marco Catone, capo della famiglia Porcia, del quale sussistono alcuni libri, m a più ancora di suo figlio; da questi vennero tutti gli altri. Tennero dietro a questi Publio Rutilio Rufo che fu console in Roma e proconsole nell'Asia; Paolo Virginio e Quinto Tuberone,ilprimo stoico e discepolo di Panezio che fu anche console. Di quel tempo e pure SESTO POMPEO, zio di Gneo Pompeo, e Celio Antipatro che scrisse storie, ma at tese più all'eloquenza, che alla scienza del diritto. Lucio Crasso, fratello di Publio Muzio,e chiamato anche Muciano,da Cicerone è detto ilpiù facondo dei giureconsulti. Quinto Muzio, figlio di Publio e pontefice massimo, ordind pel primo il diritto civile, raccogliendolo in diciotto libri.  In appresso Publio Muzio, Bruto e Manilio fondarono il diritto civile: Muzio lascio dieci libri, Bruto sette, Manilio tre; e di Manilio sussistono a monumento alcuni volumi scritti, Bruto fu pretore, gli altri due consoli, e Publio Muzio anche pontefice massimo.   Muzio ebbe più discepoli, tra i quali maggior fama acquistarono Gallo Aquilio, Balbo Lucilio, Sesto Papirio e Cajo Giuvenzio: Servio dice che Gallo ebbe grande autorità presso il popolo. Di tutti questi si conserva memoria,perchè Servio Sulpizio pose nei suoi libri iloro nomi: ma non restano loro scritti che tutti desiderino ed abbiano tra le mani: pure Servio compi i libri suoi, dai quali si ha memoria dei predetti. Servio che nel perorare le cause occupò il primo posto dopo Marco Tullio, si dice essere una volta andato a consultare Quinto Muzio intorno ad un affare d'un suo amico; e, non avendo compreso quello che Muzio rispondeva intorno al diritto,gliripeté ladimanda;ma,non avendo meglio compreso la risposta,Muzio lo rimproverò,dicendo esser vergogna che un patrizio e nobile, che perorava cause, ignorasse il diritto che pure avea sempre tra le mani. Tocco da questo affronto, Servio si applicó al diritto civile, e fu discepolo a molti di quelli che abbiamo nominati: Balbo Lucilio gli diede i primi rudimenti, e lo perfeziono Gallo Aquilio da Cercina, onde di lui abbiamo molti scritti in Cercina. Morto in un'ambasceria, il popolo romano gli eresse una statua che tuttora si vedle sui rostri di Augusto: lasciò forse centottanta libri, assai dei quali restano ancora. Da questomoltissimiimpararono;quelliperòchelasciaronolibri,sono Alfeno Varo, Caio Aulo Otilio, Tito Cesio, Antidio Tucca, Anfidio Namusa, Flavio Prisco, Cajo Atejo, Placurio Labeone Antistio, padre dell'altro L a beone Antistio, Cinna e Publio Gellio. Di questi dieci, otto scrissero libri, che da Anfidio Namusa furon tutti ordinati in cenquaranta libri,ed acqui starono grande celebrità Alteno Varo ed Aulo Otilio,dei quali il primo di ventò anche console, il secondo cavaliere soltanto. Fu questi amicissimo di Cesare, e lasciò molti libri che trattavano ogni parte del diritto civile, scrisse anche pel primo intorno alle leggi della vigesima ed alla giurisdi zione. Il medesimo pel primo commentò con grande diligenza l'Editto del pretore, mentre pria di lui Servio avea intorno a quello scritto soltanto due libri brevissimi, diretti a Bruto. Di quel tempo furono anche Trebezio, discepolo di Cornelio Massimo, Aulo Cascellio, Quinto Muzio, discepolo di Volusio che ad onore di quello lascia per testamento erede il suo nipote Publio Muzio. E questore, n è a c cettar volle onori maggiori, sebbene Augusto gli offerisse anche il conso lato. Di questi dicesi che Trebezio su più istrutto di Cascellio, e questi più eloquente del primo; di ambidue più dotto fu Otilio.Di Cascellio non resta che un libro solo di bei motti;molti di Trebezio,ma poco ricercati. Quindi v’ebbe Tuberone discepolo di Ofilio, patrizio, che dal trattar le cause passo ad esercitare il diritto civile, specialmente dopo ch'ebbe ac cusato Quinto Ligario senza poter ottenere da Caio Cesare che fosse con  148   dannato.Questo Ligario, mentre comandava nelle spiagge d'Africa, non vi lasciò approdare Tuberone malato, nè prender acqua: di ciò accusato, fu difeso da Cicerone, del quale esiste la bellissima orazione intitolata A f a vore di Quinto Ligario. Tuberone fu dottissimo nel diritto pubblico e pri vato, e lasciò molti libri intorno all'uno e all'altro; affetto per altro lo scrivere antiquato, e perció i suoi libri piacciono poco. Seguono Atejo Capitone, discepolo di Ofilio, ed Antistio Labeone che tutti questi udi,ma fu istruito da Trebazio.Atejo fu console: e Labeone, offerendogli Augusto il consolato per sostituzione, non volle accettar l'o nore, per non interrompere i suoi studi, giacchè avea cosi ripartito l'in teroanno,chestavaseimesiinRoma coglistudiosi,glialtriseisene ritirava per attendere a scriver libri, e lasciò quaranta volumi, molti dei quali corrono per le mani di tutti. Costoro formarono quasi due sette o p poste: poichè Capitone seguiva il vecchio che gli era stato insegnato; L a beone, per natura dell'ingegno suo e per fiducia di sapere, poichè avea atteso anche agli altri rami della sapienza, intraprese d'innovare moltis sime cose.E così a Capitone succedette Massimo Sabino,a Labeone Nerva, i quali due accrebbero quella divisione. Nerva fu amicissimo di Cesare; Massimo fu cavaliere, e pel primo diede risposte in pubblico, secondo gli fu concesso da Tiberio Cesare. M a, come tutti sanno,prima di Augusto non dai principi concedevasi il diritto di dar risposte in pubblico, ma chiunque confidava negli studi fatti, ri spondeva a quanti lo consultavano. Nè però davansi queste risposte in iscritto,ma perlopiùlescrivevanoigiudicistessi,oleattestavanoquelli che gli avevano consultati. Il divo Augusto pel primo, onde in maggiore stima venisse ildiritto,ordinò che si dimandasse per l'innanzi,come pri vilegio, di poter dare risposte in pubblico. Poscia Adriano,principe ottimo, avendogli alcuni, ch'erano stati pretori, domandato di poter essere consul tatiinpubblico,cosilororescrisse: Nonvolersiciòdimandare,ma fare; consolarsi,se vi avesse qualcuno che,in se confidando, si apprestasse a ri spondere al popolo. Da Tiberio Cesare, adunque, fu concesso a Sabino che rispondesse al popolo. Questi entrò nell'ordine equestre nella avanzata età di quasi quarantacinque anni; ebbe scarse sostanze, ma fu molto aiutato da'suoi ascoltatori. Gli successe Cajo Cassio Longino, la cui madre era figlia di Tuberone o nipote di Servio Sulpizio, perciò egli chiama Sulpizio suo proavo. Fu console con Quartino al tempo di Tiberio,e godette grande stima nella città, fintanto che Cesare non lo caccio. Andò quindi in Sar degna, e, richiamato da Vespasiano, mori in Roma.A Nerva succedette Proculo.Diquei tempi fuancheNervafiglio,edun altroLongino,cava liere, che poi sali fino alla pretura. M a autorità maggiore ebbe Proculo e  i seguaci delle due sette di Capitone e di Labeone; presero allora il nome di Cassiani e di Proculiani. A Cassio succedette Celio Sabino che molto potè ai tempi di Vespasiano;a Proculo,Pegaso che sotto lo stesso impe radore fu prefetto della città;a Celio Sabino,Prisco Giavoleno;a Pegaso, Celso;a Celso padre,Celso figlio e Prisco Nerazio,iquali furono ambidue consoli, anche Celso due volte;a Giavoleno finalmente succedettero Aburno Valente, Tusciano e Salvio Giuliano. Il periodo unitario, per non rovinare nello accentramento, è equilibrato da quattro contraccolpi che sono le due guerre ser vili, la guerra sociale, la guerra civile e la guerra gladiatoria. Il Pretore ha annunziato una parola solenne nel diritto: l'e+ quità. La parola equità non è in Roma una legislazione, è una correzione, m a intanto col pretore è giunta al suo secondo periodo, è passata cioè dalla eguale notizia della legge dentro la legge istessa. Dove il legislatore era stato duplice, ed in dis sidio continuo, l'equità non poteva entrare che come correzione e in forma di casi particolari. L'equitå vorrà dire, di certo, che la repubblica signorile è fatta popolare; che i peblisciti contrappesano i senato -consulti; che le grandi differenze si livellano; m a dice qualcosaltro: l’e quità è una certa unità giuridica che preannunzia l'unità po litica. Ho designato i due grandi periodi dell'unità politica:l'unità italica; l'unità della civiltà mediterranea. Le sannitiche ele pu niche determinano specialmente questi due periodi.   Che cosa furono le due guerre servili e la guerra gladiato ria, quale valore e significanza ebbero, e furono guerre davvero, o un impeto disperato senza eco e senza effetto? Gli storici an tichi non danno ó fingono non dare molta importanza alle due guerre servili, con le quali si apre e chiude la generazione che 1.   152 va dal 619 al 651. L'alto rumore di ciò che gli storici latini chiamarono Graccanae, e poi della guerra giugurtina, e poi della invasione dei Teutoni e dei Cimbri, gli uni sterminati da Mario nella Gallia transalpina, gli altri nella cisalpina, e poi della guerra sociale, e,immediatamente dopo,della prima guerra civile tra Mario e Silla, occasionata da Mitridate VII,tutto questo che non è poco rumore insieme con la politica sprezzante verso i servi, non arriva a spegnere il furore nè a soffocare il grido de' servi, che, levatisi a guerra vera contro i padroni, si batterono, vinsero, e poi caddero uccisi piuttosto che sconfitti. Strana guerra, m a spiegabile in Roma e dopo il pretore e nella repubblica popolare. La voce dell’equità pretoria, l'aliud initium libertatis, che equilibra patrizii e plebei, l'imperio consolare coll'ausilio tri bunizio, creditori e debitori, padri e figli, romano e peregrino, quella arriva tra servi e padroni. I servi cominciano a voler essere considerati non romana mente, perché non sono e non si sentono di Roma,ma umana mente,da che sono venuti a Roma da ogni parte dell'umanità, ed hanno veduto in Roma la lotta per l'equità. Hanno veduto e saputo che i diritti si strappano, e la solle vazione comincia dalla Sicilia, dove maggiore era il numero dei servi condannati alla coltivazione de'latifondi. Primo ucciso Da mofilo,proprietario di latifondi, in Enna,oggi Castrogiovanni; poi, disfatti quattro eserciti romani; in ultimo, de'settantamila servi cinquantamila uccisi in guerra, ventimila in croce. Nella seconda servile il moto fu più ampio: non si sol levarono i servi soltanto, m a insieme gli oppressi peggio che servi: proletarii e diseredati. I servi superstiti alla guerra si scan narono tra loro. Simile guerra non si era veduta mai, e la lotta per l'equità facevala possibile a Roma.Ed alle servili somiglia la guerra gla diatoria che può anche passare come terza delle servili, e della quale gli storici del diritto costumano non toccar motto. Eglino Gli storici romani lodano Spartaco a denti stretti, chiamano guerra appena le due servili e la gladiatoria, e non si accor gono che sono le prime guerre,dopo le quali la sconfitta è toc cata ai vincitori. Da Euno a Spartacoilgridoè uno,quellodellavecchiaplebe romana: libertas aequanda;summis infinisque jura aequare.Cið che rispetto a quella plebe sediziosa erano stati i Gnei Genunzio ed i Publilii Volerone, surono,rispetto ai servi ribelli,ilsiro Euno e il trace Spartaco: gli uni tribuni della plebe romana, gli altri tibuni dell'umanità servile: quelli per giungere all'equità latina,questi all’equità umana. Senza queste prime considerazioni non sarebbe intesa l'uni versalità del responso. Mentre si acqueta la seconda guerra servile, divampa la guerra sociale,col proposito di conseguire non l'equità umana, ma l'equità romana e con effetto immediato. La guerra sociale durd men di due anni, rapida e violenta, se a conto di Vellejo Patercolo costo all'Italia più di trecentomila uccisi. E fu detta sociale non già nel senso moderno della parola,ma perchè mossa contro R o m a da’socii italiani, reclamanti parità di diritti politici e civili co’romani, dopo aver falio insieme con quelli la potenza diRoma.L'aspettazione c !epromesse eranostatelunghe;iltri huno Livio Druso che ricordavale, mettendo in una tre rogazio ni, fu morto prima de'Comizii;e con quella morte fu inteso che i diritti, data l'ora, si strappano, non s'impetrano.  non sanno che possono a lor grado diminuire i nomi di Euno, di Cleone, di Trifone e di Atenione,condottieri di servi,ma per nessuna via giungeranno a diminuire il nome di Spartaco che all'altezza del proposito univa l'arte dei mezzi. Spartaco intese l'ora e il luogo,cioè quando doveva dare il segnale della rivolta e come uscir d'Italia; intese ancora come gli restava a cadere, quando l'Italia gli si era fatta terra fatale. -- I seimila gladiatori, lungo la via Appia, appesi alle croci,come già i ventimila servi, dicono uno sterminio, non una sconfitta. Di quindi la confederazione repubblicana, della quale i socii elessero centro Corfinium, cui posero nome Italica per signifi care il carattere nazionale della confederazione e della lotta. I centomila combattenti de'confederati si elessero duce Pompedio Silone, nome di un sannita,che ai popoli italici dev'esser sacro quanto il tribuno alla plebe romana, quanto Spartaco ai servi di ogni paese. Fu morto anche lui, uccisi i suoi,dopo la rovina di quattro eserciti romani,ma questa volta chiaramente i più scon fitti furono i vincitori. La guerra fu cominciata e mentre durava, il diritto italico cominciava a farsi romano con la lex Julia,e,finitalaguerra,tuttal'Italiaacquistava idiritti di cittadinanza romana con la lex Plautia. Ecco l'evoluzione di questi diritti di cittadinanza derivati dalla guerra sociale: 1a gl'Italiani furono, per l'esercizio del suffragio, classificati in otto tribù nuove,aggiunte alle trentacinque pree sistenti; sicché tutta l'Italia venne a conseguire otto voci,quando Roma ne aveva trentacinque:sproporzione subito corretta, per chè gl’Italiani riuscirono in breve tempo a farsi distribuire pro porzionalmente nelle trentacinque tribů romane; 2° il suolo italico è distinto dal suolo provinciale, è equiparato all’ager r o m a nus e liberato dal vectigal.L'italiano ha guadagnato ildominium ex jure Quiritium. Dopo la guerra sociale il diritto romano ė diritto italiano.Tra il romano e l'italiano sparisce il pretore peregrino. Non si ripeta questo errore,che le guerre servili furono ster minio senza essetto, e che feconda fu la guerra sociale. Dicasi invece che gli effetti delle guerre servili sono immediatamente invisibili e saranno più tardi raccolti dal filosofo e confidati al l'ideale di un jus hominum, mentre immediati sono gli effetti della guerra sociale, immediatamente saranno raccolti dal pre tore e dal giureconsulto, e passeranno nella costituzione politica diRoma.IlgeniomilitarediRoma potevaabbandonareiservi su'colti, m a non poteva espandersi senza de’socii. Interpretiamo la prima guerra civile.Da questa Montesquieu    torse gli occhi, e dentro questa bisogna ficcarli, per intendere la decadenza. L'Italia ha conseguito lacittadinanza romana,quando in Roma la cittadinanza ha perduto d'intensità quel che ha guadagnato di estensione. L'Italia, contro la vittoria di Silla, ultimo vindice della ragione quiritaria, ha afferrato il dominio ex jure Quiritium; m a i Quiriti dove sono? Dove i patrizii ed i plebei? Se tra l'i taliano ed il romano è sparito il pretore peregrino, si può dire che il pretore urbano duri per sentenziare tra il patrizio ed il plebeo? La guerra civile è una funesta rivelazione, non per le proscrizioni, ma pel sinistro lume sparso sulla rovina morale de'romani. Con la guerra civile si apre la reazione de'grandi de litti contro le tradizioni dell'eroismo civile. Accenniamo, non possiamo narrare Quelle facce sinistra mente predesignate di Mario e di Silla rivelano due diversi tipi di sanguinarii, vuoti d'ideali. Mario agitavasi in nome di una plebe ch'ei non ama, perchè non trova;Silla reagisce in nome di un patriziato ch'egli, quando non può rialzare,disprez za.Sapevano guerra e movere legioni agguerrite; ma caddero sopra sė medlesimi, senza lasciar traccia, perchè vissuti senza disegno. Mario finisce, non ricordando la plebe, m a sforzandosi dimenticare sė; Silla, ricordando sè solo, e buttando la ditta tura che sforzavalo a ricordarsi d'altrui. Grande fu lo stupore del gran rifiuto non per viltà,ma per disprezzo: Silla non aveva potuto rizzare il vecchio patriziato, come Giuliano non evocare gli Dei morti. Nulla dicono intanto quei funerali di Silla,e due mila corone d'oro intorno all'arca marmorea, e lo scorruccio d'un anno alle matrone? Dicono una sola cosa:che la repub blica è finita, e che R o m a aspetta il principe col motto di Asinio Gallo in Tacito: U n u m esse reipublicae corpus, atque unius animo regendum. L'assenza delle due parti che han fatto l'alto dissidio di R o m a, delle parti che han combattuto la lotta pel diritto, composta nel l'equità, l'assenza di quella plebe indomita e gelosa della sua maestà, e di quel patriziato che, quando non arriva a giustificare la preminenza con diversioni eroiche, tramuta in concessioni gli strappi, è accusata in Roma da due fattiirrefragabili: dalla uni versale viltà che accompagnò le proscrizioni sillane, e dal soli loquio infecondo dell'ultimo Gracco,al quale,moriente,addicevasi meglio il motto di Bruto minore. E,dato il significato delle guerre servili,della gladiatoria,della sociale e della civile,è tempo di spiegarsi l'assenza delle antiche parti, la quale lascia intravveder l'Impero. La devastazione bellica, segnatamente dopo laseconda punica, e l'importazione commerciale sono le due cause precipue,onde i piccioli fondi cominciano a sparire per formare i latifondi,e però cominciano a spostarsi le parti, sostituendo alla questione poli tica la sociale: dov'erano patrizii e plebei cominciasi a vedere ricchi e poveri. Quindi, il potere pe’ricchi,le frumentationes pe' poveri, l'agricoltura pe’servi.Quindi,mentre da Silla a Pompeo la facoltà de'giudizii ballottavasi da’senatori a'cavalieri e viceversa, l'ordine giudiziario corrompevasi, di giuridico facendosi politico, e, più che politico, personale. Quindi,mentre i Gracchi e Mario cer:ano invano la vecchia plebe, da che la nuova, secondo Sal lustio, privatis atque publicis largilionibus excita, urbanum otium ingrato labori praetulerat, Silla cerca invano il vecchio patriziato,corrotto da'nuovi cavalieri,tra'qualisiviene a reclutare la mala genia de'publicani. Mentre si fa la romanizzazione del (Alcuni,per trovare qualche cosa di liberale intorno a questo tempo di Roma,hanno avuto ricorso persino alla congiura di Catilina,celebrando quest'uomo con inni assai postumi ed assai brevi, e allogandolo quasi tra il socialista e il nichilista de' nostri tempi. Mala storia non patisce queste violenze e sfata questi travestimenti insignificanti. Catilina è rientrato s u bito nel posto destinatogli dalla storia, a documentare due cose: la degra dazione del patriziato e la reazione dei grandi misfatti contro le tradi zioni dell'eroismo civile. Ciò ch'egli non poteva trarre dal valore militare, splendido in Mario e Silla, voleva dalla congiura.E la degradazione morale fu chiarita dalla guerra combattuta in quel di Pistoia, dove l'esercito m a n dato contro Catilina era condotto da un complice nella congiura ! mondo, il genio di Roma si sposta:l'agricoltura ch'era romana, diventa servile; ed il commercio che non era romano, diventa cavalleresco. Costituiti ilatifondi, l'agricoltura, per necessità, diventa ser vile e produce meno, giusta la ragione di Plinio: Coli rura ab ergassulis pessimum est, ut quidquid agitur a desperantibus. Il commercio diventa deʼricchi, e però assume le forme peggiori, quelle della soperchianza senza lavoro:le societates publicanorum corrompono leggi, megistrature, popolo. E da qui, secondo Ta cito, anche le provincie presentivano Augusto: Suspecto senatus populique imperio,ob certamina potentium et avaritiam magi stratum: invalido legum auxilio, quae vi, ambitu, postremo pe cunia turbabantur. Spariti i piccoli possidenti agricoltori, dopo tante lotte per le leggi agrarie i discendenti della plebe si trovavano più poveri di prima, m a tristamente paghi di questa povertà, alimentata prima dalle frumentationes, e poi da'congiaria. Alla plebe plebiscitaria era succeduta la plebs frumentaria. È certamente una costituzione politica che si sfascia, quella caduta tra due classi estreme (ric chissimi e proletarii), non equilibrate da quell'ordine intermedio che è diffusivo di sua natura, e per creare il quale Roma aveva combattuto tante lotte agrarie. Basti, per ispiegarsi molto,voler sapere la popolazione d'Italia verso il tempo delle guerre servili. Eccola: quattordici milioni quasi i servi; quasi sette milioni i liberi, e di questi almeno sei milioni i proletarii. Era naturale:una ricchezza di cinque milioni di denari era povertà; e per esse ricco bisognava con Crasso, co'liberti Lentulo e Narcisso, ed anche con lo stoico Seneca,sa lire a più centinaja di milioni ! Conchiudiamo:dove c'è questa ricchezza di centinaja di milioni, ci dev'essere a fianco un vasto proletariato; e dov'è finita la plebe romana, è finito il patriziato. Non c'è più plebe,da che è frumentaria,non più patriziato da che è pubblicano,non c'è senatus popolusque nè populus plebs    que romana: c'è un volgo immenso o mobile o profano, volgo sempre, diviso tra ricchi e poveri. E contro questo volgo si av ventano implacabili i classici, tante volte volgo anch'essi, da che furono corrotti gliscente adulatione. Gli Augusti ed i loro m i n i stri -- Mecenati o Sejani che sieno sono divi non solo per i bramosi di pane e giuochi, non solo per i liberti imperanti e per gli stoici traricchiti, ma per gli scrittori che più simulano sdegno contro l'adulazione pubblica, quanto meno la possono su perare ne'loro versi e prose. Nė in tanto scadimento dell'anima civitatis resta la religione come supplementum civitatis defectui. Il mondo romano ha avuto più o meno di superstizione, e forse molta,ma religione sempre poca. Assai prima che Lucrezio derivasse nella cosmologia latina l'atomismo epicureo e creasse un poema ateo senza riscontro il poema dei dotti romani assai prima Lucio Azzio,il primo tragico nato in R o m a, faceva rappresentare pubblicamente sue tragedie poco riverenti agl’Iddii patrii. Nè di questa irriverenza gli faceva rimprovero il vecchio Pacuvio, ma della durezza de' versi, onde per contrario Azzio lodavasi, perchè quella durezza faceva riscontro alla fierezza delle sentenze.E iversi atei e duri del poeta tragico, attraversando i secoli più molli, erano letti e recitati al tempo di Lucrezio, di Silla e di Cicerone. A questi piaceva udire una voce antica, quasi divinatrice, di poeta: Neque profecto Deùm summus rex omnibus curat. Cosi trovasi da secoli apparecchiato l'ambiente ad Epicuro, ad Amafinio che lo esporrà in prosa, ed a Lucrezio, in versi. E, quando lo stoicismo con simulato sopracciglio verrà a velare la dottrina epicurea, Seneca ripeterà con gonfiezza stoica sen tenze lucreziane: Mors est non esse. Hoc eritpost me quod ante fuit. Ed altrove: Cogita illa quae nobis inferos faciunt terribi les, fabulam esse: nullas imminere mortuis tenebras, nec flu mina flagrantiaigne,necoblivionisamnem,nectribunalia.Lu serunt ista poetae, et vanis nos agitavere terroribus.  158 Jam jam neque Dii regunt, Questo spiega come, mentre agli auguri è possibile sorridere guardandosi l'un l'altro, a Catilina è lecito patteggiare co' con giurati sino gli ufficii ed i gradi sacerdotali, dopo avere, impu nito, stuprato una vestale ! Spiega perchè, in questa decadenza, ai vincitori di Annibale sia fatto difficile vincere un Giugurta che sin da Numanzia aveva imparato a chiamare vendereccia R o m a, ed era incatenato da un peggiore di lui, Mario; come a narrare un Catilina occorreva un più tristo, Sallustio.— Spiega anche più: dove la religione dechinava senza esservi stata mai gran fede, e però nessuna lotta religiosa, era imminente, non che possibile, una religione nuova: i primi cristiani sarebbero stati perseguitati come rei di Stato,non come religiosi.Sarebbero stati mai, come religiosi, puniti dai ricordatori di Lucio Azzio, dagli uditori di Amafinio, dagli ammiratori di Lucrezio e dai ripeti tori di Quinto Sestio? Dov'erano stati condannati e sbandeggiati gli Dei pel solo sacrifizio d'Ifigenia,sarebbero stati glorificati nel sangue di migliaia di cristiani?  Questo è scadimento, perchè, mentre da una parte si fa la romanizzazione, come la dicono, del mondo, dall'altra si fa la degradazione di Roma.Dovrebbe parere che, mentre l'umanità siromanizzava,per contraccolposiumanizzasseRoma:ma non si può dire cosi, perchè Roma portava al mondo il diritto, e il Deducta est,non ut,solemni more sacrorum Perfecto,posset claro comitari Hymenaeo: Sed casta inceste nubendi tempore in ipso Hostia concideret mactatu moesta parentis, Eritus ut classi felix, faustusque daretur. Tantum relligio potuit suadere malorum. Empio è detto da Vico questo epifonema,piaciuto ai vecchi romani che in forma induttiva trovavano raccolto in esso un sentimento comune,e giudicavano, secondo equità, più empio il rito che l'epifonema. E pel m e desimo sentimento dell'equità,più intenso del sentimento religioso,riscon trata la sepoltura di Pompeo e di Catone con quella di un mimo,poterono domandare: Et creditis esse Deos?  (1) N a m sublata virum manibus tremebundaque ad aras   mondo portava a Roma le spoglie che facerano il lusso, come il lusso faceva la barbarie raffinata che è la decadenza. Quale umanesimo potevan portare a Roma la Grecia disfatta e le pro vincie barbare? La romanizzazione si fa più rapidamente nelle provincie bar bare, che non dov'è la civiltà disfatta: prima si romanizzano la Spagna, le Gallie, le provincie britanniche e le danubiane, e dopo le greche e le fenicie che a R o m a contrappongono quale le tradizioni e quale la prosunzione. La Grecia riesce a insinuare la lingua di Omero e di Platone sin nelle ordinanze e ne'giudizii de'magistrati romani: ma la lingua del diritto finisce col vincere quella della poesia e della metafisica ed a portare tra il portico ed il liceo, contro le pe tulanti proteste de'retori, la scuola del giureconsulto.Allora è che il romano, mentre deplora la decadenza interna, glorifica in ogni forma la sua vittoria giuridica sopra il mondo. Allora Virgilio dice al greco superbo: T u parla e scolpisci meglio; noi domineremo te e il mondo con le leggi, perdonando ai vinti e vincendo i superbi (1). Allora è che Plinio dice che l'Italia, romanizzando il mondo,ha dato l'umanità all'uomo ed una pa tria sola a tutte le genti: Colloquia et umanitatem homini daret, breviter una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret. E sotto questo rispetto fu possibile un cosmopolitismo più pratico di quello degli stoici, in quanto non negava le nazioni,ma dava loro unità e colloquio da Roma:concetto raccolto da un impe ratore in questa sentenza: Patria mei, Antonini, Roma: hominis, mundus. Ciò è vero ed è grande: ma che portavano a Roma que're  Excudent alii (e sono i Greci) spirantia mollius aera. Credo equidem, vivos ducent de marmore vultus. Orabunt causas melius, coelique meatus Describent radio, et surgentia sidera dicent. Tu regere imperio populos, Romane, memento: Hae tibi erunt artes...incatenati, que'servi, que’gladiatori, que'retori e mercanti? Come uomini gonfiavano la superbia del vincitore, come vinti lo corrompevano. Ma non bastava ad umanizzare vincitori e vinti il Diritto che era nella missione di Roma e da Roma dettato al mondo? Certo, bastava, se il diritto romano fosse stato tutto il diritto umano,tutto,come oggi lo intendiamo,come oggi la scienza e la storia ce lo han fatto. M a non dobbiamo preoccuparle questa scienza e questa storia:dobbiamo vedere come in mezzo a que sta decadenza che abbiamo descritto, sorge e grandeggia il giu reconsulto. Il giureconsulto è l'espressione più elevata e più certa di questa romanizzazione del mondo. Più si dilarga la forza uni taria di Roma, e più il responso del giureconsulto universaleg gia. Il responso vero, quello che diverrà fondamento d'istitu zione e di legislazione nel medesimo tempo,spazia tradue leggi de civitate, cioè dalla cittadinanza italica sino alla cittadinanza universale.Che importa che Roma corrompa sė,romanizzando il mondo? Certo è che Roma non poteva fare l'unità delle genti senza disfarsi, e che questa unità doveva avere la sua espres sione giuridica. Ecco il giureconsulto. Dove la legge de civitate assume l'espressione più ampia e tocca il fastigio, ivi sorge il giureconsulto massimo che dà il più universale responso, il più umano,e rifiuta la vita per la santità del medesimo. Fa gene rosamente per il responso ciò che Catone uticense ostinatamente per la repubblica. Né le dodici tavole vecchio diritto aristocratico,nè le ro gazioni tribunizie vindici della ragione plebea, nè l'editto pretorio espressione limitata dell’equità, potevano esprimere Ja missione giuridica di Roma nell'unità del mondo. Tribuno e Pretore erano romani; il Giureconsulto romanizza. Romanizza in tre periodi e modi: 1° elevando l'equità partico lare ad equità civile; 2° l’equità romana ad equità italica; 3o l'e quità italicaad equità umana.Ilresponsouniversaleggial'editto. Disegno di una Storia del Diritto,ecc.,ecc.  L'editto ha sempre qualcosa di particolare rispetto all'obbietto, alle persone, al tempo, alla forma. Di repentino farsi perpetuo non significa farsi universale: solo comprenderà quanti casi con simili entreranno nel giro di un anno. Certo, chi legge che l'e ditto pretorio è fatto jurisdictionis perpetuae causa, non prout res incidit, può credere che quella perpetuità sia universalità; è invece la perpetuità della giurisdizione pretoria, la durata di un anno.Perciò non ismette la forma individuale, non assegue mai nè l'universalità teoretica delle formole razionali, nė l'im perativo impersonale delle dodici tavole. Tutti gli editti pretorii che oggi leggiamo,come de jurisdic tione, de pactis, de in jus vocando, de edendo, de postulando, de iis qui notantur infamia, de procuratoribus, de negotiis gestis, de in integrum restitutionibus, de nautis, cauponibus et stabu lariis recepta ut restituant,dejurejurando voluntario, de publi ciana in rem actione, de servo corrupto, de aleatoribus, de his qui effuderint vel dejecerint, tutti hanno la forma individuale, espressa in ultimo dalle parole jubebo, servabo, dabo, cogam, animdvertam e simili, o anche dall'espressione più individuale permissu meo, come in questa de in jus vocando:– Parentum, patronum,patronam, liberos,parentes patroni,patronae, in jus sine permissu meo ne quis vocel. E non solo l'edittodel pretore,ma anche l'aedilitium edictum, ma col dabimus, tenuto conto che due erano gli edili curuli o maggiori, come già due gli aediles plebeii. Ex his enim cau sis,judicium DABIMUS.Hoc amplius, si quis adversus ea sciens dolo malo vendidisse dicetur, judicium dabimus. Non è già che qualche volta non s'incontri la formola più generale, ma o come dichiarazioni o come illazioni della for mola singolare che distingue propriamente l'espressione giuri sdizionale dalla legislativa.Per l'utilità di queste notizie ho riportato in nota il frammento di Pomponio.    Ora veniamo alla sostanza. Come fa il pretore ad insinuare l'equità nell'editto senza aperta violazione del s u m m u m jus? Che sarà questa gratia corrigendi juris civilis, per non essere negazione del diritto civile e sostituzione dell'arbitrio indivi duale? Sarà, più che di frequente, una finzione pretoria che verrà ad alterare il fatto per serbare inalterato il diritto, e a p punto questa finzione di fatto correggerà la iniquità di diritto. Cosi il pretore fingerà pazzo il savio, vivo il morto, morto il vivo, e per processo di finzioni insinuerà da presso ai c o n tratti ed ai delitti i quasi-contratti ed i quasi-delitti. Que'quasi che degradano all'indefinito, sono indici dell'alterazione di fatto. La necessità che sia corretta questa contraddizione che con trappone la fictio facti all'iniquitas juris, indica la necesstà di un istituto che superi l'editto pretorio. Nell'editto l'equità pre domina,ma particolare,intrusa sotto la finzione di fatto con trapposta all'iniquità di diritto. Che è la finzione di fatto? È il prodotto di un mutato criterio di diritto, è la protesta del fatto contro il vecchio diritto, è l'impotenza del vecchio diritto a c o n tenere il nuovo fatto e la nuova vita. Quindi, la necessità che il diritto si alzi a quel criterio presupposto dalla finzione di fatto.Questo criterio liberato dalla condizione di semplice pre supposto, questo criterio espresso e messo in grado non di torcere il fatto, ma di contenerlo tutto, di contenerlo come è nella storia e nel costume, costituisce il responso del Giurecon sulto. L'editto è costretto a torcere il fatto; il responso univer saleggia il criterio inventivo che simula e dissimula il fatto. E con questo l'iniquità di diritto cade non per finzione, m a per natural ragione. Il responso corregge la correzione del diritto, erchè il diritto dev'essere il supremo correttore della vita so ciale. Per via di questa finzione di fatto il mondo non si sarebbe mai romanizzato,non l'avrebbe intesa nè imitata; ma per via del responso il mondo non si sente debellato, ma vinto vinto, perche issimilato. A questa universalità non si può giungere se non per la via delle definizioni, natefatte per universaleggiare, e per la via del metodo scientifico che mena alle definizioni reali e razionali. E del metodo vien dato merito a Servio Sulpizio; delle definizioni a Quinto Scevola. I quali due sono giuristi e letterati per asse guire quel romano nihil tam proprim legis quam claritas:lode data da Cicerone sopra ogni altro allo Scevola, perchè adjunxit eliam el literarum scientiam. Con che si dice che la letteratura, la quale per altri è ornamento e pura erudizione, pel giurecon sulto è scienza. E, giacchè questa scienza e come metodo e come arte qui comincia, ho potuto affermare che il Giureconsulto grandeggia tra le due leggi de civitate, cioè dalla cittadinanza italica sino alla cittadinanza universale, dal 664 al 964 — tre secoli — dalla lex Julia sino ai libri quaestionum, responsorum et definitionum di Emilio Papiniano. E cosi sorge e cosi vien su e sale ampio il responso. Come Aulo Cascellio non volle mai deviare il responso da'fini dell'editto ed adattarlo sopra įli ordini emessi da’triumviri, affermando alto che la vittoria non giustificata non è titolo di comando; cosi P a piniano volle piuttosto perdere la vita, che giustificare il fratrici dio commesso dall'imperatore, e adattare ilresponso a difesa del l'assassinio (1) Tale il tipo del giureconsulto. Entriamo a considerare il responso prima nella forma e poi nella sostanza. Venendo il giureconsulto con definizioni e metodo a liberare dalla condizione di presupposto il criterio che regola le finzioni di fatto contro le iniquità di diritto, egli universaleggia, innanzi tutto, l'equità, derivandola da una legge universale, superiore (1) So che gli storici contemporanei contestano la verità di questo fatto; m a ricordo che scrivevano sotto gli sguardi imperiali, e non sanno addurre altra ragione veruna della morte di Papiniano per ordine di Caracalla,se condo Dione Cassio ed Aurelio Victor.  104   alle dodici tavole, superiore all'editto del pretore ed a tutti i s e coli della letteratura e delle tradizioni giuridiche, e la chiama, con Cicerone, lex nata ante saecula, comunis hominibus et Diis, quibus universus hic mundus quasi una civitas existimanda. È, dunque, una regola di ragione, alla quale uomini e Dei non possono sottrarsi e per la quale il mondo è come una città sola.Il concetto pare stoico, m a risale i tempi sino alle tradizioni itali che,nelle quali è detto:Idem est ralioni parere ac Deo.La ra gione comincia a prendere il luogo del vecchio Fato che dalle spalle passa di fronte a Giove. E da codesta universalità della regola razionale derivasi la definizione della giurisprudenza: Notitia rerum divinarum atque humanarum, justi atque injusti scientia, ars boni et aequi. E di qui le tre regole comuni,secondo le quali le leggi hanno a farsi, ad interpretarsi, ad applicarsi: honeste vivere, neminem laelere,suum unicuique tribuere. Quanto alla forma, il giureconsulto non fa opera scolastica, non largheggia nelle definizioni: postane una in principio, piut tosto genetica che nominale, tira giù rapido alle applicazioni più pratiche, più vicine all'uso. - Movendosi rapido, usa termini tecnici ed evidenti, non moltiplica definizioni. Questo fine pratico ed immediato gli sta sempre innanzi,e fa il suo valore filosofico e letterario. Perciò, in mezzo alle antitesi ed alle gonfiezze della decadenza, il giureconsulto rimane artefice di stile e di lingua, epigrafico come ilgenio romano, e come abbiamo veduto Galileo e la sua scuola scientifica sottrarre il genio italiano agli artificii letterari del seicento. Quando il giureconsulto divaga dalla definizione fondamen tale e dal rapido processo dialettico, per qualcuna di quelle logofobie che sono imposte dal tempo, egli non cade nella reli gione, m a in qualche superstizione raccolta dalle tradizioni ita liche piuttosto che da altra parte. Paolo nelle senlenze stima p e r fetto il feto venuto fuori di sette mesi, secondo la ragione de'n u meri di Pitagora, dimenticando che perfettissimo a Pitagora era  il nove, quadrato di tre. E, mentre il giureconsulto ragionava con proprietà e rapidità matematica,cercando un contenuto quasi matematico all'equità, pure secondo il costume latino sapeva cosi poco di geometria da supporre la superficie del trian golo equilatero'eguale alla metà del quadrato eretto sopra uno de'suoi lati. E ciò che appunto di più notevole trovasi nella forma del giureconsulto, non è l'imperativo inflessibile delle dodici tavole, nè il futuro personale dell'editto,ma l'espressione universale de rivata dall'equo buono, inteso come equità civile piuttosto che penale,e più umana che romana. E questa universalità sciolta dalle finzioni e definizioni,rapida, evidente, immediatamente applicabile, sa epigrafico il responso più che l'editto,più che le formole delle rogazioni tribunizie, e quanto le dodici tavole che restano sempre tipo formale delle leggi romane.Porciò l'epigrafe monumentale al Rubicone - già confine di R o m a fu, sebbene oggi se ne contesti l'autenticità, detta una volta - ore digna jurisconsulti. Rispetto alla sostanza, il responso è da considerare nell'ori gine, nelle scuole e nella conchiusione. Il primo periodo del responso è un semplice astiarre e ge neralizzare lo spirito degli editti pretorii, ordinandoli e colle gandoli. Anche questa opera si giova del metodo scientifico e della definizione, e però nasce con Aulo Ofilio che si assimila, JUSSU MANDATUVE POPULI ROMANI Cos.IMP.TRIB.MILES TIRO COM MILITO ARMATE QUISQUIS ES MANIPULARIE CENTURIO TURMARIE LEGIONARIE HIC SISTITO VEXILLUM SINITO ARMA DEPONITO NEC CITRA HUNC AMNEM RUBI CONEM SIGNA DUCTUM EXERCITUM COMMEATUMVE TRADUCITO SI QUIS HUJUSVE JUSSIONIS ERGA ADVERSUS. PRÆCEPTA JERIT FECERITQUE ADJUDICATUS ESTO HOSTIS POPULI ROMANI AC SI CONTRA PATRIAM ARMA TULERIT PENATESQUE SACRIS PENETRALIBUS ASPORTAVERIT. S. P. Q. R. ULTRA HOS FINES ARMA AC SIGNA PROFERRE LICEAT NEMINI.  Epigrafe legislativa, documento della missione latina. per ordinare gli editti, l'opera di Servio Sulpizio e di Quinto Scevola: nasce ai tempi di Cicerone, nella generazione istessa della Lex Plautia de Civitate, con Aulo Ofilio Caesari familia rissimus, qui edictum praetoris primus diligentur composuit), e si chiude con Salvio Giuliano, legum et edicti perpetui subtilis simus conditor, il quale per disegno di Adriano stabilisce nel vero senso l'editto perpetuo, al quale i magistrati conforme ranno le loro disposizioni. Il responso assorbe il diritto onorario e lo supera. Il secondo periodo determina il metodo nel processo d'astra zione,lascia l'editto, e costituisce la scienza,creando due scuole nel vero senso della parola, e cosi chiamate dagli antichi:la scuola deSabiniani,che ebbe duce Attejo Capitone,ela scuola de'Pro culejani, derivata da Antistio Labeone. È vano dissimulare la dif ferenza: c'è nella qualità dell'ingegno e del carattere de'due m a e stri, nel contenuto de'responsi e nel conato posteriore di c o m perre le lue dottrine e le due scuole. In Labeone è più evidente l'indirizzo filosofico, in Capitone il metodo storico: non già che l'uno non tenga conto della storia e l'altro della filosofia, e che l'uno e l'altro non abbiano innanzi un fine immediatamente pratico: ma nell'uno prevalgono la de finizione e il discorso, nell'altro la tradizione. Sesto Pomponio nel frammento, da noi recato in nota,della sua storia del Diritto (De origine jurisetomnium magistratuumetsuccessionepruden tium ) dice de'due: Antistius Labeo, ingenii qualitate et fiducia doctrinae, qui et in caeteris sapientiae partibus operam dederat, plurima innovare studuit: Atejus Capito in his quae et tradita erant, perseverabat. Il terzo periodo raccoglie le due scuole non in un eclettismo di Miscelliones, sognato da Cujacio, ma nella sintesi di Papi (1)Va inteso che le controversie storiche saranno da me discusse, quando potro liberare la storia del diritto dalla strettezza presente e confidarla a tutta l'espansione del pensiero. È chiaro qui che la perpetuità in senso di universalità viene dal giureconsulto,non dal pretore.niano che nel responso raccoglie con mirabile armonia il dop pio indirizzo, e ispira nella legge ciò ch'è sacro nella ragione e nella storia. Oltre quest'altezza il diritto romano non poteva salire. L'impero aiuta l'ufficio del giureconsulto per queste ragioni: gl'imperatori odiavano il vecchio diritto aristocratico che aveva armato la mano di Bruto e di Cassio e non dimenticava privilegi impossibili innanzi all'imperatore:astiavano il diritto onorario,di origine aristocratica, e gareggiante con la potestà del principe nell'emissione dell'editto: e, scaduta la tribuna, vedevano volen tieri all'eloquenza giuridica succedere l'investigazione giuridica, all'oratore il giureconsulto. Potei,dunque,scrivere che,come iltribuno impiccioliva innanzi al pretore, così il pretore innanzi al giureconsulto. La promul gazione avvia all'editto, l'editto al responso. Il principio della reciprocita conversazionale.  lavoro o, come dicono, la specifi cazione; nė deve, sino a quando è semplice uso, alterare la forma in che si presenta la cosa. L'uso prepara la proprietà, il frutto la determina.- Ciò torna a significare che il prodotto è del produttore, solo proprietario dell'o pera sua.- In queste poche parole è tutta la dimostrazione.- Ma non vediamo, si dice,assai volte che la proprietà è di uno,ilfrutto di un altro? Vediamo anche peggio: vediaino la successione, la donazione, la prodigalità, l'avarizia, l'usura; m a quello che fu ed è   la proprietà non è quello che può e deve rimanere. L'usufrutto si presenta come risultamento d'illimitato dominio e nega nel mondo economico il principio di causalità.Il prodotto essere del produttore vuol dire che il frutto determina la proprietà. Il frutto la determina, il contratto l'esplica. Anche l'animale è produttore, può sopra le cose avere uso e frutto, m a il contratto è dell'uomo, perchè ei solo è onnimodo ed ha biso gno di tutti imezzi.— Perciò Dante partecipa all'agricoltore la gen tilezza di Francesca,la fierezza di Farinata,l'austerità di Catone, la salvazione di Manfredi, la misura della giustizia nell'universo; l'agricoltore partecipa a Dante la misura del frumento. Senza quella partecipazione superiore, l'agricoltore è animale; senza la parteci pazione frumentaria Dante è cadavere o inetto. Dirà che sa di sale ilpane altrui,ma lo mangerà,equel cibo glisitramuterà incanto. Questa è la circolazione della vita.- In somma ilprodotto è del pro duttore; il contratto lo fa sociale: il prodotto è individuale; il con tratto lo fa umano. L'umanità è socialità, e questa è contrattualità. È il solo punto di vista da cui il filosofo deve considerare il con tratto. L'umanità è socialità,perchè l'assoluto monos non sarà mai l'uomo non salirà mai all'universalità della ragione, m a rimarrà chiuso nel l'egoismo,che più trasmoda e più imbestialisce.La ragione,essendo dialettica, non può attuarsi nell'io e nel tu, m a nel noi. È dunque intrinsecamente sociale.La società dunque non è convenzione, ma natura. Non si nega già che l'uomo sia passato dallo stato troglo ditico al sociale; ci passo di certo, e al passaggio fu aiutato da ter ribili esplosioni della natura esteriore:ma ilprimo e poi non toglie naturalezza alle cose. Il volgo crede che le cose più naturali sono le primitive e sino ad un punto a questo pregiudizio si accomoda l'istesso linguaggio hegeliano:ma da un punto più sicuro si deve dire che le cose asseguono la loro sincera natura nel fastigio non inprincipio.Dico che l'uomo è naturalmente uomo,è tale secondo la natura sua,quando ragiona,non quando vagisce;ma la ragione  Abbiamo varietà di vocazione, di lavoro, di produttori, di pro dotti, dunque di proprietà. Quindi proprietà agronomica, industriale, artistica, letteraria: non di ciascuno,m a necessarie tutte a ciascuno, perchè tuttefanno ilcumulo dei mezzi necessarii al fine umano. Come dunque passano da produttore a produttore e fanno la comu nità della vita, la totalità dell'uomo? - Mediante il contratto, che però è definito l'esplicatore della proprietà.   è il fastigio dell'individuo umano e della storia, è la sui-aequatio, non il saluto di chi arriva.La naturalezza vera di una cosa è dun que l'equazione della cosa con sè medesima,cioè del soggetto con la propria essenza. Però l'uomo non è il troglodita, m a il cittadino e non l'esclusivo cittadino ma l'io-civile,il noi. -La società dun que non è da convenzione m a da natura: l'umanità è socialità. Ogni istante della vostra esistenza civile implica un concorso di volontà,un consensus,in somma un contratto espresso o tacito. Lo stare qui ad udirmi, il rientrare nelle vostre case, il cibo, il riposo sono atti della vita che implicano un consenso,un concorso di volontà, un esplicito o implicito contratto. E considerando che la socialità è contrattualità hanno distinto il contratto in pubblico e privato, e patto pubblico fondamentale hanno chiamato quello che då forma allo Stato.Forse non sarà veramente pubblico questo patto fondamentale, m a hanno avuto bisogno di crederlo e chiamarlo tale. Che cosa manca alla sincera pubblicità del patto fondamentale? Manca la natura della società presente, la quale, non uscita dallo individualismo, rende unilaterale e pero artifiziale la più parte dei contratti che oggi si fanno.La soperchianza dell'individuo sulla col. lettività si traduce nella soperchianza del più forte dei contraenti. Quando ilbisognoso corre all'abbiente sa di subire tutte le condizioni imposte dal capitale, il dieci, il trenta, il cento per cento, la tarda mercede e macra,i fastidii, il oa e torna che è furto di tempo,ed altro.Nondimeno corre,torna,incalzato dal carpe diem,avvenga pure che il di appresso debba essere sospeso all'albero infelice.La prudenza gli dice che domani il capitalista lo spellera; il bisogno lo persuade a risolvere l'oscurissimo problema dell'oggi.Il bisogno immediato vince dove affatto precaria è la condizione della vita e il domani si porge ignoto.Quindi quella forma di contratti che vogliono avere tutta la sembianza di bilaterali, dialettici, umani, m a in sostanza sono unilaterali e soverchiatori in maniera blanda e insi diosa. Questi contratti hanno un consenso apparente, un dissenso  In che consiste questa socialità?- In uno scambio perenne, con tinuo di mezzi con libera necessità cioè in una volontaria permuta zione continua.Questa volontaria permutazione è il contratto. Dunque l'umanità è socialità; questa è contrattualità. Il corollario è questo: qual'è in un tempo la forma della società tal'è del con tratto. Oggi la società è malthusiana, nel senso detto sopra; m a l thusiano è il contratto.- Valgano i fatti a dichiarare questa dottrina.   Nessun Codice scritto può far riparo a questi contratti simulati, unilaterali, e di mala fede, a questi bugiardi consensi di uomini che profondamente dissentono anche quando mostrano di consentire, a queste soperchierie distillate dalle procedure e da quel summum ius che fu sempre summa malitia.Infatti che riparo metterebbero i Codici?-Multe,carceri,sanzione di nullità,questi sarebbero isommi ripari; e varrebbero ad addoppiare la simulazione del contratti,o ad ammortire il capitale, a fermare la circolazione economica cioè alla stasi sociale. Altri ripari occorrono, e di questa forma unilaterale saranno i contratti sino a quando la forma sociale non sia mutata e il lavoratore, mediante il lavoro associato, non entri nella possi bilità di far la concorrenza al capitalista.Malthusiana è la società, tale dev'essere il contratto; il capitale costituisce la plutocrazia, il contratto la subisce;l'individualismo nummulario si oppone alla ve nuta dell'uomo,ilcontratto dev'essere unilaterale,una contraddizione ne’ termini. Non i Codici debbono integrare il contratto, ma la società dev'essere rimutata dal fondo. Non co'Codici direttamente lo Stato presente può integrare il con tratto:ogni suo intervento sarebbe malefico;ma dovrebbe,pare,per mettere al lavoro di associarsi. Mostra di farlo, m a la sua natura nol consente: dall'una parte permette le associazioni,dall'altra crea tanti intoppi di leggi e balzelli e contatori e pesatori e pretesti di ordine pubblico che il lavoro rimane estenuato e impotente di qualunque ris par mio. Par facile il dire: risparmiate l'obolo; ma è difficile risparmiarlo dalla fame. Cosi il lavoro non potendosi capita lizzare,non può creare la concorrenza al capitale.Quindi la rivolu zione economica non è possibile senza la rivoluzione politica,e que sta, alla sua volta, non asseguirà il suo fine, che è la libertà, se non compita la rivoluzione economica che equilibra la proprietà. Il capitalista e l'operaio sono nemici; il contratto tra loro non può essere che una simulazione; la sola guerra è possibile. Lo Stato presente ad evitare la guerra permette l'associazione e ne soffoca l'effetto; impotente alle riforme civili promettele riforme penali, scherno a bastanza scoperto e deriso. Se manderanno via il boia, diceva Langassieres, ho ancora il mio rasoio,ho la mano ben ferma, e la volontà è lapadronanzadime. Ho ildisprezzodituttoquelloche mi circonda.Ho capito il significato delle parole Dio, ordine, stato,  reale, e per questo appunto sono unilaterali, e sono nondimeno la massima parte dei contratti odierni,perché questa è la forma della società,è malthusiana, pontefice e re ilcapitale. e Codice: parole belle per chi se ne ha da servire. A te!- Or che ti han fatto grazia della vita,tagliati tranquillamente le canne e di mostra anco una volta che l'uomo è il solo animale che ha piena si gnoria di sé. O suicida o rivoluzionario, questo è il solo dilemma che lo Stato presente mette innanzi all'operaio. Il suicidio,per esteso che sia,non può assumere che forma ec cezionale;e però la sola rivoluzione oggi si porge come norma. E sarà politica e sociale insieme, perché sono momenti inseparabili. Pervenuto a queste necessità, mi fermo un istante e odo le parole che mi si dicono attorno:-Scrioi un corso di Scienza del Dritto o fai dellapolitica? Rispondo che obbedisco alla necessità, la quale non può separare la scienza del Dritto dalla Filosofia della storia, che additando il cammino, dice che i popoli perverranno dove gli Stati non vogliono. Il tempo verrà testimone non lontano delle mie conclusioni. Questa è la sola conseguenza possibile a cui poteva condurmi la teorica della proprietà. Ora entriamo a ragionare dell'individuo umano considerate come autonomo. Anatomici. Cripturus ego de Capite, composito hominis principali,cui merito reliqua corporis membra universa obtemperant, & subduntur, friteor luf scientia mihi vela non elle, adlulcandum immenlumhoc pelagus doctrinarum, quas de cognitione interiorum tot Authores copiofelparferunt, & effuderunt. Nimium elevatus mons eft, ad quem pertingere pes debilitatus nequit: nec volucrium in paluftribus locis immorandum alar volatum aquilarum audacium & generofarum exuperare poliunt: luffecerit mihi fi procul Carlum hoc contemplates fuero, li radices montis hujus circumire,  fi fragili fcapha maris hujus immenii rivos aliquos mihi findere licuerit: ut ne videlicet in hoc volatu cum Je aro fubmergi, in hac viiione cum Philippo excarcari & de Ipeciolis hujus montis ruinis cum Polidamente opprimi mihi contingat. De olle nil referam, licut &c pauca  de ollibus in sequenti Anatomia tradaturus  fum, tanquam iis,  qua:  nec  dodrinas  hieroglyphicas, nec lymbolicas,  Emblemadcas,  Proverbiales,  nec hiftorias,  nec ritus,  obfervationes, confuetudines,  nec alia admittunt  (II  inde Anatomicas,  & myfticas detraxeris) de quibus non folum, fed  & de  univerhtate  partium  humanarum ratiocinari  conftitui.  Difcurrant  prolibitu  luo Audiores  de  olle  cranii, & commilluris  ejus, cur  compofido  ejus  & cralla  & rara  fit: & ut totius fit corporis  quali  caminus  aliquis, de  duplici  tubulato  Cranii, ulum praefatarum commillurarum, Lambdoides, reda; fagittalis, & coronalis exponant: discooperiant frontilpicium  cum Occipite, denudent  Calvariam  totam, ut  vilui  reprxfentent  quae  Com-  milliira:  verte  lint, qua:  impropria : cur  ha  in  modum fquammarum  lint : recenfeant  & explicent  ufum  primum,  & fecundum: numerent in ordine unumquodque olTium cranii,  delcribendo  ad  punctum ulque,  figuram  illorum,  & fubftantiam,  &foflas,  & foramina, & Imus; examinent  cujusque  horum feparatim,  & formas,  & litus,  & ellentias,  & difpolitiones  ollium, Occipitis  <k  Sincipitis,  & temporum: horiun dilparitatem, inaqualitatem,  limilitudinem,  proportiones,  & qualitates: examinent porro horum eminentias  &procel!us,  notent inter calvariam & maxillas diftantiam: ubi os Iphenoides litum fit,  & cum occipite connedatur, & pofthac prolixa ftrudura fua ollibus  temporum conjungatur, quod habitu  &: conliftentia sua totum inaqualeeft.  Dicant quod eorum quadam poros fuos habeant, a Galeno Scarlattmi Hominis Synbolki  Hm. I. oblervatos,  per quos propagines nervorum & arteriarum ferantur; Del Cendant hinc ad os Ethmoides,  idque exponant perforatum,  non fecus ac cribrum,  ejusdemque rationem adducant; cur proinde ex parte una lit tanquam chrifta galli gallinacei, ex altent  rarum,  laxatum,  fungofum,  fpongiofum,  in modum pumicis,  quod cavitatem liarium adimplet,  undeattrahantur  odores,  quod loco  fuo memorabitur: Denique perfcrutentur  ii Cranium figuTam det cerebro aut cerebrum Cranio; hasaliasqueqUxftiones,  non mediocres,  has indagines,  has  facultates, in quibus tam pratenti quam prxfentis Esculi celeberrima ingenia deiudarunt, interim pretereo, tanquam partes inanimas privatas rationali anima, & ad  conlide-  randa  pretiola  earum  contenta  accingor. Fadurus  niliilominus  idiplum  cum  omi  brevitate  pollibili, imitando  viam  & methodum  Andrex  Laurentii Inclyti  Viri, qui  nomen  liiumper  Illuftriores  Mundi  fcholas  iniignivit, qui  ampliari , & dilatari Lauros suas in quadam prima Regiarum totius Univerlitatis fecit,  Francix nimirum, ubi inter lilia copiosius viridefcere edodus est, & famam suam, dc xftimationem, & authoritatem adaugens , utpote qui eoufque clarus lit,  brevis,  fuccofus,  exadus,  ut nulla fit nec minutiflima partium, nullus ibi  mufculus,  fibra nulla,  quantumvis abditillima,  & remotiflima,  quam non in lucem produxerit.  Hic metam, normam, & lumen lcriptioni mea:  fugge Iturus erit. Hic  ergo cum tanto authore Os Cranii apertum intueor,  ubi dux le mihi membrana offerunt ab Arabibus antiquitus pia:  Matres appellata: qua:  videlicet non lecus ac fideles genitrices tenerrimum cerebrum,  aliaque his contigua tanquam filios cum cautela  &  fedulitate magna compleduntur  & tuentur. De his refert Hippocrates, eas temporis fuccellii converti in tunicas, earumque difcrepantiam, in tenuiori et craifiori elle materia: continent  ha:  & fubtus  & supra,  cerebrum:  quarum exterior dura eft,  cralla,  & cuticularis,  correlpondens figura fua,  & magnitudine proportioni  Ollis  Calvaria:: dum cranium nec linum,  nec cavitatem  habet, qux  hac  ipla  non  repleantur;  Infuprema  regione  dura:  Meningis  nomen  habet,  qua;  durities  correfpondet  pleura:, & peritoneo:  in regionibus  vitalibus,  & naturalibus,  ex  omni  parte  Duplex  eft,  unde  & Moderni  unam  earum  internam  ftabiliunt, candidam, & humore aqueo  alperfam,  qua;  tunicam tenuem relpicit,  alteram externam  Olli  Calvaria:  contiguam.  Verfatillimus  Laurentius non nili unam solam agnofdt, & ait,  duram  hanc Meningem firmiter adhxrere bali Calvarix, de superiori nihilominus parte Cranii  eatenus latam, quate-A nus dilatando,  vel  conftringendo cerebro necelle est,  colligatur  autem Cranio,  mediantibus villis, qui per commilluras creicendo, ipsum  propemodum  pericranium conftituunt: conneclitiir membrana:  tenui mediantibus venis, quarum  opera cerebrum firmum redditur.   Hac membrana multis foraminibus per via  eft, per qua fe nervi,  arteria  & vena: tanquam  per  infundibulum fuum  in  medullam  dorlalem  effundunt: In lummitate capitis reduplicatur,& dextram  a fmiftra cerebri parte  difcriminat nec tamen  ad  bafin  pertingit,  fed  ad  cerebi  medium  usque, ubi  duplicatione  liia  falcem mellorum  reprefentat, unde  &c  a peritis  Anatomicis tali  nomine  appellari  confuevit,  In  pofteriori  vero parte  quadruplex  eft,&  illic  cerebrum  a cerebello,  non  totum  fed  ex  parte  diftinguit.  Inter  has  plicaturas & duplicitates  quatuor  (inus  confpicui  reperiuntur  qui  tanquam  abundantes  rivi, & valoram  majorum vicarii undequaque per fubftantiam  cerebri  lan-  guinem  diffundunt.   Intrant  in  hos  iinus  vente  interna:  jugulares: cumque cerebrum  amplidimum  fit, nec  trunci  venarum  ad  illud  usque  pertingere  poflint,  hos  Rivos  natura  fabricavi r, tanquam  aquadudtus, in quos vente copioflflimum  fanguinemeffundant, ad nutrimentum cerebri, dc generationem spirituum  animalium. Horum finuum primi duo laterales funt, &  eorum exitus  primus  grande  foramen,  vicinum  occipiti,  format;  per  quod  jugulares  vente  ingrediuntur , qua: ad principium Sutura:  Lambdoidis  terminantur, ubi utrteque uniuntur.  Nafcitur de his frnus tertius, qui per longitudinem commillura fagittalis  difcurrens,  ad  olfa  narium  conducitur: de  his  vero  vagando  multa:  venula: ex  omni  parte  per  membranam  tenuem  dilperla  procedunt:  extenditur  fmus  hic  ad  extremitatem  frontis,unde  no  immerito  docet  Hippocrates,  percullafronte, caput univerlum inflammari. Quartus finus cteteris brevior inter  cerebrum, & cerebellum vadens, in extremitatibus convexis cerebri terminatur, nates cerebri ab Anatomicis appellata: harum ufus admirabilis eft,  ficut & venarum ab eo linu,t anquam a perenni fonte,divaricatio.   In  aliis  corporis  partibus  vena  in  tantum  arteriis  vicina  funt,ut  le  invicem  tangant,  & vena  arterias  libi fociasfemper  habent:  in cerebro autem,  varia  &  diilimilis hac diftributio  est, dum  orificia  venarum  deorfum  verfa  funt, arteriarum  vero  furfum  fp edant.   Irrigant  laudabili  fucco  cerebrum  vena, arteria vero  Ipiritum  continent,qui  per  levitatem  luam  facile  afcendit: Cum ergo vena  orificia  fua  deorlum  Ipedantia  habeant,  primo  illis  afcendendum  erat, quod  nec  per  cutem  externam  poterant,  nec  per  ofla,  nec  per  medullam  interiorem  cerebri, itaque  id  fit  per  duplicaturam dura meningis.   Multiplex  ufus  est  Membrana  dura: primus  eft  cooperire  cerebrum, dc  medullam  Ipinalem, atque  eandem  contra  injurias  quasvis  tueri:  fecundus  eft,  difterminare  cerebrum  in  latus  dextrum, & finiftrum,  in  anticum  d: pollicum:  Tertius  ad  recipiendum  venas omnes, qua calvariam  nutriunt,  fitque  tanquam  caldarium  cerebro,  &c  membrana  tenui, qua  continet: de  qua  etiam  partes  fanguinem  fuum  pro  necessitate  recipiunt.  Detrada  nihilominus  & rupta membrana crafla, confpicuam fe & vilibilem reddit Pia mater, propter tenuitatem  & mollitiem luam fic nominata:  qua talem feu compofitionem habet, ut in omnem cerebri linum fe iniinuare facile polTit, ita  ut  per  gravitatem  fuam  onerofa  cerebro  non  ht,iimul  ut  per  totum  corpus  illius  portare  vafa  poflit,  ideo  &    Secundina  nomenclaturam  adepta  eft.  Hac  proprium velum, &c  operimentum  eft  cerebri, quippe qua  non  folum  fuperficiem  externam  operit, led  ultra tendit, inque occulta penetralia 8c recellus ingreditur: extendit  fe, dc prolongat in ventriculos usque, nona parte luperiori, ut vulgus opinatur, led inferiori: in his partibus afcendit, ubi velut catinum quoddam eft, per quam portantur arteria quadam exigua de iis venis qua carotides,  & cervicales  nominantur  per  latera fphenoidis.   Admirabilis  hic  providentia  natura  eft  in  harum  membranarum  fitu,iicut  cnimCreator,focum  tenuif-  limum, leviflimum  & ratiflimum  feparavit  a terra,  craila,denfa, gravillima, & opaca, idqueper aeris Ipatia,  & aquarum  divortium: ita &c Natura imitatrix & amula divinorum operum,  duriflimam calvariam a mollilHmo cerebro per interpolitionem gemina membrana diftinxit: quam triftis, quam injucunda hiturafuilletvita noftra, fi tenera d: durafe invicem lemperline medio ollo colliderent, & concuterent?   Hac  porro  meninge  pia  remota.  Cerebrum  iplum  prodit.  Hoc  illud  eft,  quod  jundum  cordi  ellentiam  homini  miniftrat,  de  quo  videhcet  formatur  ratio, in-telligentia & ratiocinatio, unde  formantur  nutrimenta &  ipirituum  univerlorum  generatio: animalium  prafertim: a quo, & per  quod  formatum  caput  eft,  contentum  continente  luo  multo  nobilius, quamvis  & hoc  quaquaverlum  Ipedabile  fit, cum  caput in  omni  natione  terrarum  tanquam  lacrum  aliquid  fem-  per  lit  in  veneratione  fua  habitum,&obfervatum,  per  quod  y£gyptii  Sacerdotes  jurabant : quodlecum  radios majeftatis  portat,  in  quo  etiam  Iplendores  divi-  ni perlucent,  tanquam  opus,  de  lublime  artificium  altimmi  Del   Hac  pars  excelfior  cateris,  de  vicinior  ccelo  eft:  hac  fidilhma  petra  fenfiium  eft : altiffimum  mentis  culmen: hac  Regimen  de  gubernaculum  totius  ob-  tinet : cerebrum non tantum fedes eft lenluum de motuum: fed  Artifex  vaftiflimam  molem  membrorum dirigens, licut  de  pratumida  corpora  nervorum, id que  per  flbras, non  fecus  ac  per  mulculos,  ad  eorum, qui  conftrudionem  iftam  diligentius,  defolertius  perveftigaverint,ftuporem  de  miraculum:   Hoc  domicilium  fapientia  eft,  de  memoria,  de  ju-  dicii: audacis natura prodigium.  Hoc  in  formam  orbicularem  compohtum  eft, tum  ut capacitas ei major ellet,  tum  ut  fecurius  adverlitad  omni, quacunq-,  eventura  fit,obliftere  valeat, nec quovis  modo  ab  eadem oflenfionem  ullam  patiatur.  Accedat ad  hac,  quod  huic  parti  propemodum  divina, figura  quoque  omnium  perfedtillima,  nonpromilcua  conveniebat:  cujus  praterea  magnitudo,  quod  vis  animalium  caterorum cerebrum  facile  vincit: ita  quidem  ut  hominis  unius  cerebrum  duorum  boum  cerebro  aquivaleat,  de  mole, de  quantitate.  Hoc  ita  per  ingeniofam  natura  providentiam  dilpofitum  fuit  ad  varietatem  fundtionum  animalium  exercendam, imo  perfedtio-  nandam.  Sentiunt  quidem  de  bruta,  fed  eorum  len-  ius totus  in  gratiam  eft  appetitus  animalis : qua  etiam  naturali  quadam  intelligentia  condudla , a noxiis  ab-  horrefeunt, de  per  inlitam  inclinationem  ad  libi  profutura feruntur   Subftantia  cerebri  mollis  eft, candida,  de  medullaris, de  purillima  leminis  de  Ipirituum  portione  fabricata, ita  libimetiph  propria,  ut  in  compolito  alio  nunquam  eadem  ipfa  inveniatur : nec enim  medulla  qua  in  cateris  ollium  cavernis  eft , 'huic  par  eft, illa  enim  non colliquatur, nec  vero  inedia,  aut  febrili  calore diminuitur: continetur  autem  calvaria  fua, ut  cranium  nutriat: cranium  nutritur,  ut  continere  medullam  hanc  poflit.  Ait  Galenus  fluidam  efle  me-  dullam oflium,  fimilemque  pinguedini,  nec  tunica  coopertam, nec interfecatam arteriis, aut  venis, nec  participationem  ullam  habere  cum  mufculis, aut  nervis, prout  facit  medulla  cerebri, qua glutinofa  magis  quam  pinguis  eft: quam  Hippocrates  idcirco  partem glandulofam  appellavit, cum iit candida, & friabilis. Hac  capiti  has  commoditates  lubminiftrat.   Sedet in fimilitudinem ventofa, atque ideo inferiorum partium refpirationes omnes abiorbet, quarum exhalationibus li calvaria ofcitationefua,  ut ita dixerim, meatum non daret,  & niii  tantisper  hiatu  Quare  fubfe  quod;un  aperiret,  nimio  fe  calore  cerebrum  reple-ftantia  cere-  ret.  Subftantiacerebri  mollis  eft,  tum  ut  tanto  facibri  mollis  lius  imaginationes  rerum  vifarum fe  imprimant,  tum  fit.  ut  nervi  tanto  tractabiliores  iint,tum  denique  ut  ponderosa  duritie  fua  non  gravet.  Candida  eft, quia  {permatica:  idque  ratione  finis,  ut  videlicet  animales fpirituslimpidiflimifint,  &:  non  obfcuri, veltenebrofl: quales  melancholicorum  funt.   De  hac  etiam  medullari  fubftantia,  temperamen-  tum frigidum  & humidum  colligitur:  his  qualitati-  bus excedit, ne  forte  cogitationum  continuatione  fuccendatur, cum  fit  pars  hominis  liifce  fundionibus  deftinata  j tum  vero  etiam quod fpiritus animales  facillime diflipari  & evanefeere  pollent.  In  cerebro  calido,  motus  furibundi  eflent,&:  temerarii,  & delirantes ienfationes, ficut  phreneticorum  funt.  Jungantur his  fomnia  inquieta,  qua:  li  modum  fuum  teneant, facultatibus  animalibus  quietem  indulgent: &  qiue-fi  calidum  cerebrum  ellet,  de  limpiditate  fua  defcifcerent,  cum  Ut  proprium  caloris,  fuble  vare  & perturbare rerum  comequentia.   Cerebro  re-  Cognovit  Peripateticus  officium  principale  in  ceffigeratur  rebro,nempe  ut  inde  cor refrigeretur: Galenus  nihil-  cor.  ominus  ad  hunc  folum  uliim  confti  tutum  elle  intelligi   8.  de  u fu  par-  nonvult,  quin  potius  ut  facultatibus  fenfuum  &ho-  tium.  rum  principiorum  exitum  pradoeat: tum  ut  generationi Spirituum  animalium  inferviat.   Motus  ce-  Habet  motum  fuum  non  animalem , autvolunta-   rebri.  rium , nec  violentum,  fed  naturalem, & hic  proprius & peculiaris  eft  generationi  Ipirituum  animalium,  temperamento, & purgamento  aliarum  praeterea  rerum,non  fecus  ac  arteriarum.  A femetipfo  fe  dila-   tat & contrahit: in  diaftole  fua  cum  admirabili  plica-  tura fpiritum  & aerem  narium  trahit: in fyftole,  interiores finus  contrahit, & profundit fpiritum animalemin ventriculos fuperiores,in  tertium,  & quartum,  ficut & fenfum  in organa.  Sentit cerebrum, cum fit fenfuum  author, iplum tamen fine lenfli eft, cdm communis fensus fedes fit, omnium enim horum Ju- dex eft: ficut  ergo nec  audit,nec  videt, fic nec tadum ad fenfibilia fentienda poflidet. Strudura Quemadmodum praecipuum membrum hoc dicerebri.  verfarum  facultatum  matricium  fenfificarum  faber  eft,  ita  & mirabiliter cum  di verfarum  partium  ftru-  8.C.9.  de  ufu  (ftura  fabricatum  eft.  Preefatas  partes  copiofiflime  Anatom  defcripferuntjprimum  Galenus,  tum  & Velalius  exana  om.  7.  obfervator : didas  partes  cum  claritate   limpidiflima  exponit  audior  meus: qua:  lingula  a me  (qui  brevitati,  quantu  poflibile  eft, confulo) an  exade  reprefentan  polfint, nescio.  Dicam  inprimisomnem  eam  partem , qua  a nobis  calvaria  nominatur , cere-  brum appellari  folitum  efle : duo ejus extrema funt, anterius nimirum, & pofterius: quorum illud primum retinet totius nomenclaturam, pars pofterior cerebellum appellatur: ha autem partes  invicem  di-  viduntur de  medulla  quadam  crafla, per  duplicatu-  ram quandam,  non  ex  omni  parte  tamen,  fed  ex  fupe-  ScarUttini  Hominis  Symboliii  Tom. I demotu  mufe.  libello  de  glandtdii.    riori  folum,  namqj  in  media  & inferiori unum  alteri  vicinum  & contiguum  eft.   Rurfum  anterius  cerebrum  mediante  proprio  diaphragmate in  dextram  & liniftram  partem  deferibitur, intercedit  autem  portio  quadam  dura  meningis,  qua  a figura  fua,prout  memoratum  eft, falx  nominatur : idque  ob  faciliorem  motum, & levitatem,  & nutritionem  medulla  interioris.Hujus  fuperficies exterior fubcinericia  potius,quam  candida  apparet,  multos  habens  anfradus  6c  circumvolutiones, quarum  non  pauca  fubftantia  ipfam  cerebri  introgrediuntur  &pe-  netrant,unde  & fubftantia  talis  varicofa  nominata  eft.   Ridendi  funt, qui  cumEraliftrato  hos  linus  formatos idcirco  credunt,  ut  per  eos  intelligenda  formetur,  quia  tali  modo  8c  ipfi  afini  (ait  Laurentius) intelligerent  utique.  V ult  hic  cum  Galeno,  tali  ratione  cum  tot  meandris , & intorfionibus  cerebrum  formatum  elle, ut  habere  nutrimentum  fuum,  & fuftinere  tot  varia  ad  fe  fpedantia  poflit : cum  enim  illic  moles  ejus  vaftiflimafit, qu'i  heri  poteft, ut  vena  & arteria , qua  per  fuperficiem  lolam  difcurrunt,fufticientes  fint , ad  nativum  calorem  illi  fubminiftrandum ? Quidam  arbitrantur  hos  gyros fabricatos  efle  , propter  le vitantem, ut nimirum  tanto  promptius moveri  poflit : alii  rurfum  ut  medulla  ejus  tanto  tortior  & robuftior  fit,  ita  ut  molle  humidumque, ab  hac  & illa  parte  difeurrerec:  dixerunt  nonnulli  idcirco  fadum,ut  fpiritus  &  fanguis  levamentum  fuum  habere,  8c  recreari  pofllnt,  ne  videlicet  didam  cerebrum  in  diaftole  fiia, tempore  plenilunii  exceflivo  calore  fuftbcetur.  Concludunt  alii  propterea  factum, ne  continuo  motu  fuo  vafa  disrumpantur  aut  relaxentur.   Qui,  prout  debet,extemam  hanc  fuperficiem  con-  templatus fuerit, fiquidem  duobus  tribusve  digitis  hecc  medulla  cerebri  in  profundum  fecata  fuerit,con-  tinuopars  altera  candida, & durior,  cum  venulis  qui-  busdam, &:  arteriis  parvis,  qua:  aciem  oculorum  prope fubterfugiunt, apparent:  connexam  habet  membranam quandam  tenuem, qua:  corpus  callofum  appellatur, hujus  interventu  ea:  partes,  quee  prius  difere-  tee  fuerant, in  dextra,  & finiftra  continuantur.   Eft  corpus  callofum  hocinipfopropemodum  cerebri medio  (hocque  inter  fupremum  &c  imum  intel-  ligendumeft)  apparet  autem  duobus  ventriculis  cavatum, dextr o,  inquam,  & finiftro.  Hi  primi  finus  cerebri funt,  qui  a Galeno  anteriores  nominantur  j melius a nobis  fiiperiores  dicantur, figura ampliilimi,  fi- cut  & litu , & magnitudine  & ufu,  reliquis  omnino  fimiles,  portant  figuram  lemicirculi,  aut  falcis,  aut  Lu-  nee  falcata: : in  medio  cerebri  lituantur , eodem  enim  intervallo  a ffonte,quanto  ab  occipitio  diftant, tanto  a  bafe, quanto  a fummitate: propter  quod  non  rede  anteriores dicuntur: fed  potius  primi  vel  fiiperiores  dicendi  funt.  Magnitudinem  ^qui  valentem  habent,  cum  fecundum  proportionem  aliarum  partium  am-  phslimi  1 int : nam  tales  efle  oportet, ut  fpiritum  cras-  liorem  continere  valeant.  Duo  funt, ut  impedito  altero, hce  fundiones  intercepta:  non  lint,alterque  alterius  vicem  fiippleat.   Multiplex  horum  vaforum, vel  ventriculorum  ufus  eft: inprimis  ad  preeparationem  Ipirituum  animaliuin, unde  8c  inchoatio  fpiritus  appellantur:  deinceps ad  infpirationem  & relpirationem  cerebri:  tertio  ad  recipiendum, 8c  attrahendum  odorem.   Sunt  illic  qual  1 labyrinthi  quidam  exigui, qui  per  particulam  unam  membranee  tenuis , quee  afeendit,  difeurrunt: in  quorum  medio  fpiritus  animalis  coquitur,  attenuatur,  & preeparatur: duo  illic  procefliis  , vel  tubercula  protenduntur  fimillima  papillis  mamillarum, parti  inferiori  horum  A 2 finuum    Inii  teli».    limium,  aut  vero  oflibus  nari um  propinqua, in  modum cribri  perforata,  cooperta  membrai  ia  tenui,  qux  tamen  inter  nervos  non  numerantur,  cum  de  cranio  non  cadant.  Per  hic  ad  cerebrum  aer  portatur, &  ad  idipfiimfpecies  odorum  conducuntur:  unde  8c  organa odoratus  nominantur: id  quod  Hippocrates  di-  xit : Olfacit  cerebrum  h umidum  exiftens  aridorum  odorem, u?ia  cum  aei  e per  corpufcula  ipfum trahens.   Diftinguit hos  fuperiores  ventriculos,  certa  qui-  dam cerebri  particula,  quileptum  lucidum, aut  petra  (pecularis nominatur. Sub hoc illud eft,  quod  Arandus a figura  vermiculari,  & bombicina  nominavit.   Tertio  loco  (e corpus calloium  offert,  compofitum  per  modum  cameror  vel  fornicis,  idcirco  & camerale  didtum,  quali  tribus  quibusdam  columnis  fiiftenta-  tum  &c  eredhim : reprarfentat  autem  compofitione  fua  figuram  triangularem,  conftantem  lateribus  inaequa-  libus, a parte  poft  eriori  quali  duplici  arcu,  ab  anteriori uno  (olo.  Ulus corporis  hujus,  idem  qui  in  fabricis fornicum  vel  archi trabium  eft,  quod  &teftudo  nominatur,  qui  licut  alter  Atlas  ampliliimam  mo-  lem cerebri  totius  luftentat , ne  ventriculum  tertium  comprimat.   Apparet  lub  camerato  hoc, finus  tertius, qui  aliud non  eft, quam  cavitas  communis  ( &c  concurliis  duo,  qui le in cavitate pridida explicant)  qui  cum  humillima  fedefiia  quodammodo  cedit.  Hiclinus  a  Galeno  ventriculus  medius  appellatur,  vel  quod  intra duos  fuperiores,  & quartum  inferiorem  litus eft,  vel  quod  quali  centrum  cerebri occupet , dum  tantundcm  diftat  ab  occipite, quantum  ab  olle  frontis.  In  eo  obfervantur  meatus  vel  canales  duo, quorum unus ad balem cerebri  delcendit,  alter in quartum linum dirigitur: unus eorum  &c  ftatu, & politione  humiliori ultra  tendit, in  cujus  extremitate oftium  quoddam parvum eft  membrani  tenuis, primum  quidem  dilatatum, &:  apertum, pofthic  anguftius  in  fimilitudinem  infundibuli, unde  &:  nomen  illius,  licut  & catini  mutuatur; perhoc  tanquam  per  manicam Hippocratis,  percolatur  pituita  cerebri. Sub  hoc  catino  extenditur  glandula  pituitaria  di-  <fta , qui  tanquam  lpongia, aut  caro  vaporo! a,  & bibula, attrahit,  imbibit  excrementa  (uperffua  cerebri, Sc ea lenlim per cunei foramen diftillat. Apparent hic  a lateribus  plexus duo,  qui  a Galeno  rete  nominantur: T res  hi  particuli, nempe  Infimdibulum,  glans  pituitaria,  & rete  monftran  non  poliunt,  nili  detradfa,  nudata,  Sc  levata  medulla  cerebri  uni  veri  a.   Meatus  alter  aut  canalis  ventriculi  tertii,  amplior  primo  ad  quartum  linum  dirigitur,  de  hocq;  ad  illum  via  eft, in  qua  particuli  quidam  exigui  le  offerunt, &  primum  quidem  gl andul  a turbinati  figun, non  dill imilisnuci  pineali;  dicunt  eam  pro  fundamento, & firmamento venis  dle, &  arteriis  in  cerebro  fparlis,  licut  & aliis  glandulis  puris, ut  libera  via  pateat  omni  ani-  mali Ipiritui,  ad  tertium  & quartum  ventriculum.   A tergo  canarii  corpulcula  quidam  rotunda  funt,  & duriora, qui  quali  nates  formant,  fub  quibus  tu-  bercula quidam  apparent,per  modum  teftiiun: quorum ulus  eft, ut  canalem  forment,  qui  de  tertio  ad  quartum  ventriculum  defeendat, & (ut dici folet)  (alvum  condudtiim  Ipiritui  animali pribeat.   Denique  (mus  quartus  occurrit, communis  cerebello, & medulli  ipinali: minimus  omnium  parvitate fua, led folidior  citeris; Hic  a principio  luo  dilatatus, fenfimreftringitur,  donec  in  acumen  terminetur, in  modum  pennilcriptorii,  unde  &c  hoc  nomine a verfatiflimis Anatomicis  appellatur, inter quos Hierophylus  eft. Errant autem qui opinantur,  membranam  elle  tenuem  & plenam  rugis : necellanum  autem  erat  hunc  in  dilatatione  cerebri  diftendi,&  in  ejusdem  contractione  complicari.  Brevis & fuccida  eft  hic  deferiptio  cerebri  anterioris,  <k  partium  ejus.   Succedit  huic  cerebrum  pofterius,  appellatum  Cerebellum, quod  a natura  ad  beneficium, & levamentum prioris  formatum  videtur:  idque  ut  fpiritus  animalis de  finubus  cerebri  tranlinillus,  hujus  opeconlervetur,  aptetur , & ad  medullam  fpinalem  ablegetur. Figura  ftu  largius  eft,  quam  longum  fit  aut  pro-  fundum, exprimens  formam  fphiri,  vel  globi  com-  prelli,  8c  dilatati : quod  iplum  quoque  membrana  tenui  & dura  opertum  eft, non  ex  omni  parte  nihil-  ominus: ab  inferiori  parte  enim  viciniori  cerebro  contiguum  eft , & color  ejusftibcinericius,  fubftantii  craflioris & durioris  anfraCtiis  ejus  exteriores  lunt,  8c  ad  ulteriorem  ufque medullam pertingunt: decuplo minus eft cerebro.  In illa parte calvarii litum eft, qui duabus foflis occipitis circumi cribitur: totum ex quatuor partibus formatur, quarum dui laterales funt, & quali binos globos libi invicem oppolitos conftituunt; dui reliqui in medio confiftunt, & quali  procellus  quidam  lunt,  qui  vermium  figuram  relerunt,  undeSc  processus  vermiformes  vocantur:  quarum  unus  anterior,  meatum  apertum  tenet  de  tertio  ad  quartum  linum:  alter  ad  partem  poileriorem  medulli  Ipinali  incumbit, & ad  quartum  linum  refledtitur, qucn> apertum ad motus necessarios tenet.   Interim de substantia unius alteriufque cerebri tanquam  de  radicibus  luis propriis egredinir ramus,  lpmahs,  inquam, medulla, a quibuldam  cerebrum  longum  appellata.  Spiritus  Sanctus in  Eccleliafte,  cum  eleganti, quamvis  oblcura  allegoria  hanc  medullam funem argenteum  nominat , lic  & receptaculum ejus  fiftula  lacra  dicitur:  appendix  autem  & vicaria cerebri  reputatur:  nec  enim  hujus  dignitas  &  officium  inferiora  funt  dignitati  cerebri,  lic  nimirum  hujus  & illius  natura  fe  providam  confervatricem  pribet: & quemadmodum  cerebrum  ollibus  calvarii munitum,  & circumvallatum,  duabufq;  tunicis opertumeft.  lic  altera,  circumdata  eft  & munita  vertebris luis,  tanquam  lepimento  fuo, tecta etiam dura & c tenui  meninge, diuturnam  opprelflonem  non  fhflert. Sed veteres  opinati funt integra  defludtione  quadam, aut  vero  etiam  luxatione  lola vertebrarum  liibitaneam  evenire  polle  mortem.  Necellaria  fuit  creatio hujus: line concurfii etenim ejus per univerfum corpus derivari nervi non poterant: priierrim qui lexti conjugationis eft,  tam minutus, ut ad plantas ulque prolongari non potuillet:nec vero etiam prididti nervi vaftillimam membrorum molem commovere. Idcirco altiilimus Deus medullam creavit, cui fecunditatem  generandi nervos contribuit. Nafcitur hic de utroque cerebro, non de inferiore aut cerebello lolo (prout minus experti judicant) cum mediante illo,  tanquam de communi officina  & aquidudtu fpiritus animales diffundere le in nervos debeant, tanquam in rivos, atque inde in totum corpus defeendere: qui  fpiritus  perfectionem  fuam  in  limibus  cerebri  nacifcuntur.  Conveniens  itaque  erat  locare  8c  ftabilire  principium  illius  prope  illorum  Ipi-  rituum  officinam : qui  etiam  in  tertio  & quarto ventriculo continentur: &:  hi  punllimi  lunt,  omnimodo  ab  omni  impuritate  delicati,  6c  mundi.  Spinalis  medulla ergo de quatuor quali magnis  formatur  radicibus, quarum  dui  majores  de  una  alteraque  cerebri  parte  nalcuntur:  alteri  dui  minores de  cerebello. De his quatuor  limul  jundtis  medulli  (pinalis  corpus  compingitur.  De  hoc  autem  deinceps  quali  infiniti  quidam  iurculi  oriuntur, &in   plures ramos  fru&ificant, qui  in partes  corporis  uni-  verfas  propagantur: de  qui  a veteribus  Anatomicis  olim  in  varias  conjugationes  diftindd  fuerunt.   De  Modernis  noitris  lic  medulla  hxc  dividitur  :  pars  ejus,  inquiunt,  calvaris  includitur,  & illic  obfe-  ratur, altera  foris  eft.  De  illa  qus  ab  intro  eft,  le-  ptem  nervorum  paria  nafcuntur : hinc  proceilus  ma-  millares lunt,  & principalia  odoratus  organa.  Altera medulla:  pars, inunita  de  circumvallata  vertebris, motum  lyftolcs,  autdiaftoles  non  habet , ut  nimirum  fiibftanda  fe  cerebri  includeret  olfibus,  qus  motum  habent : unde  hic  apparebit, qualiter  nervi  per  brachia  , per  femora  , perque  alias  principales  partes  , & inferiores  divaricentur.   Hic  caudex, aut  ramus  cerebri  coopertus  membrana tenui , aliquantum  diftat  a dura: per  teneram  autem venuls  qusdam  diicurrunt  , de  arteris  minuta:,  diveriimode  implicats,  qus  medullam  nutriunt, de  per  eandem  vitales  fpiricus  diffundunt.   Egreditur  medulla  hsc  per  foramen  amplum , de  rotundum  e calvaria:  primum  amplillima , de  cral-  fiiTima, qus  paulatiin  attenuatur, dum  de substantia  ejus  deperit  aliquid, nil  tamen  de  corporea  mole,  quam  ubique  eandem  retinet : pertingens  denique  ad  dorli  finem  in  varios  ramos  coni umitur,  qui  omnino  caudam  equi  figurant: atque  hic  terminum  tuum  confequitur.   Quaii-  infinitus  nervorum  numerus  eft,  qui  ab  eadem derivantur:  hi  vero,  dum  illi,  qui  quali  infiniti  lunt,  egrediuntur,  le  uniendo  tanquam  corpus  unum  formant; volueruntque  Anatomici  tot  nervorum  elle  paria,  quot  lunt  vertebrarum  foramina.  Omnis  interim  nervus  a principio  ortus  lui  multas  habet  fibras  conflatas, dc  produdtas  de  lubftantia  medullari, de  membrana  tenui: dc  hs  fibrs  defeendendo  paulatiin  de  medulla  leparantur, dc  dum  foraminibus  vertebrarum appropiant,  cralla  quadam  membrana,  tanquam tunica  mduuntur,dc  in  unum  le  reducendo  nervum conftituunt, qui  dum  per  foramen  fuum  egrefliiseft,  in  iisdem  foribus  rurfiim  divellitur.   Interim  quanto  longius  1'pinalis  medulla  defeen-  dit,  tanto  altius  nervorum  fibrs  nalcuntur, dc  longinqua habent  principia:  licut  nervi  dorfales,  delumbares, fi  attentius  obiervati  fiierint , de  cervicali  medulla delcendunt.  Ab initio lumborum ufique ad extremum Ollis Sacri multi funiculi cralliores  inveni-  untur, qui  tamen  invicem  uniuntur, ea ratione, qua pori  vertebrarum,  ut dum in  anteriora,  dc  pofteriora  {pinalis medulla  incurvatur, non  nimium  violenter  agitata,  aut  premeretur,  aut  rumperetur,  necellarium  itaque  erat  eam  in  inftrumenta  capillaria  terminari.  De  his  autem  haefenus  rationatumlit : quandoquidem definire  fingula  cum  circumftantiis  dc  conditio-  nibus fuis , idem  eilet,  ac  munerare  velle  arenas  maris , dc  ftellas  firmamenti.   Cum  autem  calamus  mihi  fit  in  prsdi&is  dc  brevis, dc  imperfectus  ( prsfertim  quod  hsc  profeilionismes  nonllnt,  qua  mihi  cura  animarum  non  cor-  porum incumbit ) multo  potius  talem  illum  elle  conconfiteor, in  difeutiendis  qusftionibus  illis  arduis  Galeniftarum , contra  Peripateticos, Hippocratis ,  Avicenns,  Ralis,  dc  intra  modernos  Velalii : videli-  cet an  cerebrum  principium  lit  facultatum : quomodo facultas fenfitiva  duplex  fit, interna, dc  externa:  qua  ratione  fiant  imaginatio  , dc  intelligentia: de  quali  temperie  cerebri,  fedes  memoris  fiat:  de  loco  majori,  dc  litu  principali  anims  rationalis : cum  Hie-  rophylus  eam  in  vale  cerebri  collocet , Xenocratres  in  vertice  capitis, Eraliftratus  in  membranis  cerebri,  Empedocles, Epicurei, dc  Aigyptii  in  thorace  pedfoScarlattim  Homini Sjmbohci  Eom.  I.    ris,  Morchius  in  univerfo  corpore,  Heraclitus  in  agi-  tatione extrinleca  , Herodotus  inauditu  , Blemor  Arabicus , dc  Sinenfis  Medicus  Cyprius  in  oculis,   Strato  Phylicus  in  fuperciliis , Peripatetici  dc  Stoici  facultatem  hanc  omnem  in  corde  collocent.  Con-  cludam ego  cum  Vetulo  famofo  Coi: Cerebro , ait,  intclhgimns , deliramu,  in  f animus , cum  aut  calidius  fuerit , aut  fjcc.us , aut  frigidius, idipfinn  dc  Galenus ientit.  Hifce  auream  Philonis  lentendam  adjungo,  Je  f fi qui  ait: ubicunque  fate/litium  regium  eft  , & Rex  a fe£Hs.  jute ihtio  (liparas  fidem  habet  • fed  totum  anima  fiatellitium , finf/mm  quippe  organa  in  capite  fit  a funt, bi  ergo  fedes  an  ima  praepua.   Nec  vero  etiam  mentis  oculum  ulque  adeo  p er-  ipi cacem  elle  reor,  ut  adimam  omnes  ledes,  dc  relidendas facultatum dignolcere valeat:  id  folum  referam quod  Galenus  Ientit  , qui  arbitratur, earum  Ut  Placitis,  omnium  originem  in  cerebro  elle, non  in  csteris  organis, prout  facultas  motus  eft,  dc  (enfiis.  Arabum  univerla  Schola  harum  diverfas  manfiones  partita  eft  in  cerebro  , dc  cuique  facultatum  fuam  propriam  fe-  dem dejlinavit: idipfiim  etiam  Avicenna  dc  Averroes  voluerunt.  Ha:  opiniones  validioribus  argumentis  ftabiliri  pollent: fed iis ea remitto, qui hxc tufius aut tractare, aut indagare ftudendo  latagunt.  Porro  nec  modica  nec brevis  quxftio  eft, fi  nimirum  facul-  Fen-1 tates praecipua:  a temperie  cerebri  dependeant, aut de conformatione  ejus:  hoceft,utrutn  actiones  fimiticfi  ltfi  de  lares lint , aut  organica-.  Obfcurillima  quaftio, in  memoria.  qua  fe  plura  etiam  illuminata  ingenia  intricarunt.  Ad  hanc  nihilominus  obfcuritatem  magnam  attulit  elu-  cidadonem  Plato,  tum  cum  nos  monet : Non retlc  inTheeteto:  f habet  anima, in  denfo , aut  lutulento  , molh  nimis ,  aut  duro  cerebro : molle  enim  celeres  quidem  ad  perci-  piendum efficit , fed  eosdem  oblivio fos-^  durum  dau  me-  mores, fed  ineptos  ad percipiendum efficit : denfium fi-  mulacraobficur  a continet.  Et  Galenus:  Melius  foret  8 • Ue  ufh  par-  exifiimare  Imellettum  fiequi  non  varietatem compof-  “Hm  tioni , fed  corporis , quod  cogitat , laudabilem  tempe-  riem j neque  enim  perfeEHo  intellcchts  quantitati  (pi-  r it  ustam  artribuendaeft, quam  qualitati.  Unde  ad  fuperiora  qux  aprxfads  allata  funt , concludit  Lau-  7fi-   rentius.  Ex  hi*  fiatis  parere  arbitrantur  quid.am  fiacultates  Anima  non  a conformatione  , fed  k temperie  cerebri  exerceri.   De  ufii  cerebri  Ariftoteles  fentit, idipfiim  folhm  ad  refrigerandum  cor  formatum  elle, itaque  compo-  fitionem  ejus  humidam  elle  dc  frigidam:  quam  len-  tendam Galenus  refutat.  Cum  cerebrum, inquit,  Ue  h[h  paraffu,  quovis  ambiente  aere, etiam  aftivo  calidum  fi;}  u“m-  quomodo  refrigerabit  cor  ? an  non  ab  aeri*  infpiratu  hauritur? temperabitur  potu  ?f dicam  Peripatetici non  fufficere  aerem  externum  refrigerando  cordi , fed  requiri  aliquod  vifcu*  internum  : hoc  eis  obtrudam,  cerebrum  longi  (fimo  intervallo a corde  diffitum  efie,  CE  ofiibus  calvaria  undique  obvallatum : debuiffet, msher-  cule,  aut  in  thorace  locari  cerebrum , aut  faltem  inter -  jeEia,  cervice  oblongiore  non  diftingui.  Hxc  Quxftio  non  de  limplici  penna:  tradbu  eft, dum  per  has  undas  experriffima  edam  navigia  naufragarunt: cumque  fe  in  portum  evadere  polle  delperarent,  prout  non  ra-  ro accidit  iis,  qui  margaritas  pileantur, cellare  ab  indagando  coacfti  fiint:  unde  dc  ego,  dum  tales  video  illuc  non  potuille  piertingere  , iter  tam  laboriolum,  de prxdicftasfyrtes evito:  videlicet  qualis  fit  fpintuum  natura, modus , dc  locus  generationis: erronea  de  hoc  opinio  Argenterii  , admirabiliter  a ailigcn-  tilTimo  Authore  meo  confutata : utrum  prarte-  rea  fe  cerebrum  moveat  violenter, dc  vigore  connaturali, aut  vero  per  motum  arteriarum :   A 3 ardua, longa, &  difficilis  omnino  quxftio , fi  ulla  alia,  an  nimirum  (entiat  cerebrum , & quomodo: in  quo  loco  rurfiim  diverlx  fimt  Galeni, Hippocratis, tk  Peripatetici lentenda'.  Prxtereo  hatce  do&rinas,  tum  quod  obfcura fiint  & difficiles, tum  quod  non  tam  ad  Anatomicum  ha  fpedent, quantum  illa  qua  fuperius  jam  relata,  & adhuc  referenda fiint,  podus  ad  philosophiam  naturalem  pertinent.   Quapropter  in  ulrimo  loco  fe  mihi  offert  dequalitadbus  licut  & de cerebri temperamenco  ratiocinatio: ubi  denuo  nonpauca’  fimt  a multis  partibus  introdudfre  opiniones,  quas  egotame  qua  polium  brevitate  perftringam.Conlentiuntinterimhic  & Peripatetici,  & Medici, cerebrum  in  qualitatibus  luis  activis  frigidum elle,  in  pafiivis  humidum:  dillentiunt  nihilo-  Departibiu  minus  Medici  ab  eo, quod  Peripateticus  retulit, dum  Animal.  c.  7.  cerebrum  frigidum  idcirco  ftatuit,  ut  refrigerando J.  cordi  ferviret:Medici  non  minus  calidum  volunudum   illud  Galenus  quovis  atitivo  acre  calidius  elle  docuit.   Sunt  nonnulli, qui  Galenum, & Ariftotelem conciliant, duplex  temperamentum  cerebri  admittendo, infitum  imum,  alterum  influens.  Frigidilfima  eft  compolitio  medullaris  fubftantia:  illius,  led  de  influente lubftantia  calefitjdum  circumdatum  & perfufum  eft  a Ipiritibus  multis,  multisquc  Arteriolis  interceptum. Si  innatam  temperiem  ejus  intuemur  eadem  eft,  qua:  fpinalis  medulla? dum  filbftantiam  cum  eadem  communem  habet: li  ad temperiem  influentem  refledimusjunum  altero  calidius  dicitur,idque  ob  arteria-  rum copiam,qua:  fe  vaporofis  filis  & fumidis  exhalationibus lublevant.   Quidam  fiiftinent  cerebrum  ablolute,  (impliciter calidum  elle , led  iola  comparatione  frigidum : <$c  C. y.lib.ix.  Galenus:  Cerebrum  quamvis  calidum, frigi dijfimo  de  Tetnper.  corde  e/l frigidius: propter  quod  Hippocrates  fedem  fertincntibtu.  j]jucj  frigoris  appellat : hanc  tamen  Laurentius  non  approbat, dicendo: liquidem  illud  frigidius  eft  cute,  qua:  videlicet  extremitatum  medietatem  tenet,  potius  frigidum  quam  calidum  elle  debebit: illud  vero  cute  i'Je  tempera  frigidius  elle  Galenus  docet.  Contra  quidam  argument.c.y.  mentantur,  qui  dicunt,  nudato  cerebro , continuo  ab  aere  refrigerari, quod  ab  ambiente  non  evenit.  Rc-  fpondetur  alterari  cerebrum , dum  aeris  alluetum  non  eft,  prout  cutis:  fic  Sedentes,  non  allueti  aeris  conti-  nuo ab ipfo lividi  fiunt,  ipfinn  etiam  cerebrum  calidius cute,  dum  calvaria  cooperitur,  de  arteria  etiam  & membrana  multos  plexus  habet.  Concluditur  ex  his: Cerebrum  de  temperie  1'ua  innata  frigidius  elle,  & de temperie  influente,  calidius : atque  ejusmodi  illud elle  oportuit,  ne  portio  dedicata continuis  medirationibus  accenderetur, ne  evanefcerent  fpiritus  animales, qui  tenuifrimi  funt , ne  motus temerarii  essent, &  fentationes  delira;,  quales  phreneticorum  funt.   Adverfarii  hic  novis  argumentis  inlurgunt, dum  ajunt: fi  temperamenti  frigidi  eft  cerebrum , qua  ratione fpiritus  animales  progignit,  &c  vitales  attenuat,  qui  effectus  vehementimmi  caloris  fimt? Relpondetur attenuari (piritumin  plexibus  parvarum  arteria-  rum, in  illis viarum anguftiis: non  minus  etiam  fpiritum  animalem  fieri, non  tam  per manifeftam  qualitatem, quam  per infitam  quandam  & abditam  proprietatem: cum  enim  fpiritus  cordis, quamvis  calidiflimi,  crafiiores  fiant,  quam  illi  cerebri,  qui  frigidiflimi  fimt,  evenit  hoc  imbecillitate  caloris  agentis  ,  fed  de  dilpoljtione  materis  patientis  generat  cor  fpiritus  vitales  de  (anguine  per  venam  cavam  porrato.  Fabricat  animales  lpiritus  cerebrum  de spiritu vitali tenuillimo,  ita  &:  calor  modicus  alimentum debile  concoquit,  validus  id  quoderaffius  eft.   Sit  itaque  in  adtiva  quantitate  fua  frigidiflimum    cerebrum, in  pafiivis  non  eft  qui  ambigat  illud  humi-  dum elle,  non  minus  & inlitafua,  influenteque  temperatura. Cum  hac  videlicet  temperie  creatum  a  Natura  eft, propter  perfectionem  qualitatis  fenfibilis,  fenfatio  autem  ha’C  a paflione  fit , & id  quod  humi-  dum eft, facilius  lpe&ra  & imagines  recipit:  pari  ratione ad  ortum  & propagationem  nervorum, qui  fi  de  duriori fiubftantia eflent,  xgrius  utique  dederentur,  tum  proinde  ne  duritie  fua  & pondere  aggravarent:  denique  ne  membrum  illud  ad  perpetuum  motum,  fenfationes, & cogitationes  deftinatum  in  flammaretur: Sic  enimvero qualitate qualitati unita cerebrum humidum potius quam frigidum  eft,  & inter partes humidas  tertium  ordinem, & inter frigidas quali  poftremum obtinet. Occurrit hic alia infuper non modica,  & necellaria admodum quceftio,  quanta  lmt  &£  qualia cerebri  excrementa, per quos etiam canales  & condudus  expurgetur. Cerebrum ergo cum temperamenti medullaris, frigidi  fit , & humidi, nutritum fanguine pituitofo, per virtutem libi innatam,  & natura: fua:  propriam  de superfluitatibus  alimentorum  copiam  grandem  excrementorum  generat:  fed  cum  (it  totius  corporis  caminus,  in  limilitudinem  cucurbita:  parvae,  autcujusdam  ventofie,  cujus  figura  ab  amplitudine  in  anguftum  aut  acutum  terminatur,  iniidet  trunco  corporis, &d  partibus  infer ioribus,omnium  generum  refpirationes  attrahit  &:  abforbet  j tefte  Hippocrate.   Inde  dubitandum  non  eft,  quin  vaporibus  his  im-  Libella  de  pletum, &fine  intermifiione  imbutum,  & quali  in-  gUndulu.  ebriatum  , in  (emet  multa  fiiperflua  & (iiperabun-  dantia  contineat,  ita  quidem,  ut  cum  humidum  fit,  &J  frigidum,  ratione  mamfeftifiimi  fitus , excrementis  multis , &.  materia  crafliori  abundet.  Ha:c  autem ,  fi  Hippocrati  & Galeno  fides  habetur,  duorum  gene-  rum eft:  altera  enim  tenuis,altera  crallaeft:  quarum  illa  vapori , aut  fuligini  non  dispar, per  condudus  infenlibiles  transpirat: altera  autem  per  meatus  con-  fpicuos,  & ex  inferiori  parte  apertos  purgatur.llcut  il-  lafiiperior  per  partem  fuperiorem.   Excremento  tenui  & vaporofo  redundat  cerebrum  ratione  (ituationisjhalitus  enim  adfpartem  lupcriorem  alcendunt,  & vafa  in  capite  terminantur.in  partes  vero  inferiores  quod  craflum  eft propter frigidam  & humidam  temperiem  facilius  delcendit, unde  plus  reliquis  vifceribus  omnibus  hoc  humore  abundat.  Hujus  excrementi  eradi  pars  pituitofa,  aquea,  de  ferofaeft,  pars  biliofa , pars  melancholica: quorum  illud  quod  aqueum  eft,de  reliquiis  fanguims  pituicoli  & crudio-  ris producitur  : biliofiim  vero  de  portione  melancholica, terrena,  allata,  &c  torrida, propter  caloris  excesum, portio  videUcet  alimenti  illius,  propter  quod&  facile  amarefeit.   Arbitratur  Argenterius  aqueum  illum  & muco-  fum  humorem  qui  per  nares  & palatum  (eparatur  &  emungitur,  proprium  cerebri  excrementum  non  e(-  fe  : cum  multi  nec  fpuant,nec  emungant  hanc  pituitam: led  humorem  quendam  elle  generatum  in  hepate, miftum  (anguine  in  venis  detento, qui  generatio-  nem luam  in  cerebronon  habeat, led  illuc  portari,  quando  per  imbecillitatem  facultatis  concodr  icis,aut  vero  per  intemperiem  frigidam  aflimilari  cerebro  ne-  queat , ita  vero  tanquam  luperfluum  per  nares  & palatum emitti.  Hoc  li  verum  eft, ad  quem  ufiim  in  (ede  (phenoidis  extenditur  glandula  carnis  poro(ae,&  bibulx,prout  didtum  eft? hxc  ergo  ad  hoc  deftinata  non  eft,  ut  hanc  eluviem  recipiat,  & expurget  ? fi  humor  hic  pituitolus  in  cerebro  male  temperato  ge-  neratur , quis  glandula:  ufus  erit, qux  in  cerebro  quamvis  temperato  repetitur ? Natura  fagax  Sc    Libello  de  llandulu.   C.  i;.  Anis  parva.   C.  2-  lib.  2.  de  locis  ctffe-  clis  Aphor.  2  Seft.i.  c.  prudens  nil  fruftra  operatur : quod  fi  vero  dodbrina  Argentarii  valida  eft, fupervacaneum  erit  infundi-  bulum, & glandula  pituitaria:  praeter  harc  prafatus  author  inquit, bene  temperatos  nunquam  pituitam  hanc  iputo ejicere,  contrarium  tenet  Galenus, ita-  que excrementa  pituitofa  & mucola  propria  fimt  cerebri, & proprios  canales  fuos  habent,  ad  hoc  fabricatos, ut  inde  expurgentur.   His  ftabilitis  Sc  in  ordinem  redadtis,  fupereft,  qui-  bus itineribus  hac  expurgatio  fiat  , difcutere.  Excrementum quod  tenue  eft,  &fuliginofum,  cum  ex  fui  levitate fupcriora petat,  per  Meningem  evaporatur, per  cranium  deinceps, & per  cutem, idque  infenlibili  tranlpiratione, dum  corpus  humanum  per  modum  (pongix,  foramina  multa  in  fe  continet.  Inde eft  , quod  cum  per  olla  penetrare  hac  fuligo  nequeat, provida  natura  commifluras  in  cranio,  plurelque  cavitates  ejus  diftinxit,  & collocavit.   Excrementa  vero  crafliora , cum  ex  fui  dilpofitione  naturali  ad  partes  inferiores  ferantur, canales  ha-  bent confpicuos,  nondum  a Medicis  ftabilitos.  Hippocrates leptem  condudhis agnofcit,  per quos de cerebro humor  hic  defiuat,  per  aures  nimirum, per  nares,  per oculos,  per  palatum,  per  partes  guttura-  les,  per gulam , per  venas  , & medullam  lpinalem  in  languine.  Galenus  eorum  quatuor  aflignat, hoc  eft:  palatum, nares,  aures, & oculos:  idiplum etiam alibi  fentit,  <Sc confirmat: quamvis in Commentariis  non  nili  nares,  &c  palatum  enumeret,  dum  ait:  declives cerebri meauts  tum per palatum  in  os, tv,m  per corpus narium , conjpicuis ac magnis orificiis craffa cruciam  excrementa. In primo lymptomatum  lolum  ad id vult idonem elle palatum, dum  opportune  concoquitur, &:  nares pro  odoribus  folis  compofita  fint,  &:  pro  refpiratione lic  in  variis  locis  diverfimode  hic  Medicorum  Antelignanus  dilcurrit.   Hinc  eft,  quod  do&iflimus  Audior  meus,  adeoncilanda  loca  tam  diverla , primo  fui  intuitu  libi  admodum diilentientia  , per  varios  condudtus  varia  cerebri exprementa,  pkuitofi  nimirum,  biliofa , & me-  lancholica expurgari  credit: Horum  condudtuum  alios  natura:  ordinarios  elle,  multiim  familiares , &  confuetos : alios  extraordinarios,  nec  ulque  adeo  congruos. Ordinarii  ad  expurgandam  pituitam  dedicati  lunt,  ut  palatum,  & nares  plus  tamen  illud,  quam  ha: , cum  potiflimum  pro  odoratu  fabrefabta  lint.  Ipfa adeo Anatomia docet,  condu&um  vifibilem , &  conlpicuum  de  tertio  cerebri  iinu  formari , qui  ad  an-  teriorem ejusdem  balem  extendatur , in  cujus  extremitate tenuis  quadam  membrana:  particula,  primum  larga,  & patula,  deinceps  anguftior,  & ftndior  appareat, per  modum  infundibuli , quodienfim  in  pa-  latum, & in  os  deftillat: & hic  eft,  ubitanquam  per  Hippocratis  manicam  (prout alibi  relatum  eft)  hu-  mor percolatur,  & a glandula  pituitaria  pofthac  re-  cipitur. Quod  fi  fuperiores  cerebri  ventriculi  quandoque abundent,  & eluviem  mucofam  diftillent,hanc  per  tubercula  fim illima  papillis  & per  os  Ethmoides  vel  cribriforme  emittunt: ex  hinc  fubtus  materis  bi-  liofs  continuo  per  nares  expurgantur.   Quidam  fic  philofophantur  materias  hafce  bilio-  fas  ad  aures  rejici , ut  earum  olla  calore  &c  ficcitate  fiia  defendant : pituitofas  vero  per  os  &r  nares  evacuari , ut  videlicet  hi  meams  aperti  humiditate  pradidta  a ficcitate  prohibeantur.  Hi  canales  ordinarii  lunt,  per  quos  confiieto  natura:  ordine  cerebrum  purga-  tur. Illic  rurftim  alii  lunt,  extraordinarii, per quos  cerebrum,  humorum  copia  pragravatum  fe  nonnun-  quam  exonerat.  Sunt  autem  oculi , Medulla  fpinalis,  & Nervi , unde  paralylis  oritur  : quandoque  & per    1   venas, &per  arterias  id  contingit , dum  humorum  decubitus  in  parotides  contrahitur.  Hac  autem  excrementa particularia  cerebri  non  fimt,  hoc  eft,  me-  dullaris fubftantia, aut  de  ventriculis  ejusdem, fed  potius  de  his  vafis, de  venis  & arteriis  videlicet, ex quibus  tumores  glandularum,  opthalmiae,  3c  aurium  inflammationes  lequuntur.   Hac  excrementa  interim  cerebri  temperati , iii  fubftantia  lua  nihilominus, & quantitate  qualitate  intemperata  fimt.  Tempora  quo  excernuntur  fluida  funtlubftantiafua,  qua: non nimium  cralla  eft,  nec  humida : taliter  in  quantitate  lua  funt, nec  enim  copia abundanti  luxuriant: in  qualitate  vero  nec  acrk  lunt,  necfidla:  prafertim  fi  fuccefiu  temporis  a facultate lua  concoquantur, Sc feparentur.   Reftat  breviter  videre  per  quos  condtidus  excrementa  quarti  imus , & de  cerebello  purgentur.  Non  abs  re  erit  nolle  , hac  excrementa  pauca  admodum  elle, tam  propter  cerebelli  duritiem , quam  quod  hu-  jus iinus tenuilfimi  fpiritus  lint,  &c  finceri,  jam  omni-  modo expurgati, ita  ut id  quod  illic  facile  colligitur,  facile  etiam  dilTipetur: id  quod  in  cerebro  non  eve-  nit, cumlithumidum,  continens  fuperfluitates  nori  modicas, atque ideo  copiofa  expurgatione  necelle  habet.   Grandis,  laboriofa,  8c  non  minus  fuperioribus  dif-  ficilis indagatio  eft, nolle  numerum, ufiim, 8c  praftantiam  ventriculorum  cerebri.  Ego  vero  intuens  meoccurfum  difcuilionishujus  declinare  hon  polle:  ut  inde  aliquid  etiam  adducam, cum  Authore  meo,  dicendum  qualiter  ventriculos  quatuor  Galenus  fta-  biliat,  fuperiores  duos , quos anteriores  vocat,  unum  in  medio,  quem  communem  nominat,  ultimum  deinceps, qui  cavitas  eft.  Avicenna  non  nili  tres  aflignat :  iupremum,  medium , depoftremum.  Verum  qui-  dem eft fub  titulo  unius  priores  duos  ab  eo  mtelligi,  cum  unius  adeo  figura:  lint, 8c  fitus,  & magnitudinis,  & ftrudtura.  Verlatiflimus  alioqui  Velalius  repre-  hendit in  hoc  loco  Galenum  de  ufu  ventriculorum  fuperiorum,  idcirco  quod  hosfinus  organa  odoratus  elle  voluit , &c  eofdem  etiam  pituitam  in  os  cribriforme percolare.  Author  meus  in  defenfam  Galeni  ait , Imus  anteriores  in  tantum  organa  odoratus  ap-  pellari, quod ad  eos  odores  ferantur, de  quibus  eli-  gunt, rejiciunt,  vel  judicant, nec  tamen  propterea obftare  quicquam, quin fi cerebrum  eluvie  mucofa  refertum  fit,  in  eos finusle  fundat:  cum  pituita  non  raro  quoquo  verfum  in  cerebri  corpus  fe  difpergat,  prout  fape  in  Apoplexia  contingit,  le diffundendo  in  nervos,  &c  in  lpinalem  medullam : unde paralylis.   Argumentantur  in  contrarium  alii,  dicendo:  extingui  utique  odoratus  lenium,  fi  per hunc  pituitola  tranfcolatur materia,  prout  experientia  docet.  Re-  Ipondetur  ad  hac,  hoc  de  fluxione  continua  & magna humorum  abundantia  provenire,  qui  tum  obftrudti-  onum  in  proceflibus  caufafunt:  non  fecus  ac  in  perpetua occlufione  pororum  qui  in  offibus  fimt.  Quidam Modernorum fuftinent  anteriores  ventriculos  non  ad  praparandos  fpiritus  fadtos  elle,  cum  fint  excrementorum receptacula,  ipiritumvero  animalem  cavitate  fenfibili  non indigere.  His  Galenus  refpondet,  ventriculos  fuperiores  ad  purgationem  Ipiritu-  umminifterium  fuum  exhibere, & ad  expurgatio-  nem materia:  fuperflua.  Ita  per  Ethmoidem  odores  afeendunt,  & non minus fuperflua  evacuantur. Sic  emmvero  de  excrementis  cerebri  dicendum , qua  per  palatum  & nares  Ime  intermiflione  excernuntur,  quod nullum  omnino nocumentum  nec  odoratui,  nec guftui  adierant, fiquidem ciun  moderamine  defluxerint. Quod  priftantiam  & dignitatem  horum  ventricu-  lorum, quifuperiores  funt,  attinet,  ambigendum  non  eft;  quin citeris ex omni ratione poftponendi lint, non quod citeri  principalis facultatum ledes lint,  fedquodin iis generatio (pirimum animalium fiat. C.3./.7. Totum  hoc  Galenus  doce.  Cum  interim quatuor ventriculi  fint, quiritar  quis  eorum  potior  Iit,  & nobilior: vult Galenus Imus  luperiores  citeris  elle ignobiliores, idque  exemplo  adolelcentis  cujusdam  demonftrat,  qui  Joniiin  Civitate  Smymenfi  recepto  vulnere  in  his  linubus  fiiperioribus, vita?  &:  ianitati  reftitutus  eft.  Non  cum  tanta  elevatione  loquitur  de  his  citatus  Galenus dum  de  tertio  & quarto  trade  ufu  par-  &ac.  inquintoenim  capite  ad  tertium  de  locis  ajfefUs  Uum primatum  pofteriori  donat : hic  verba  ejus  funt: Spiaep  aatu.  rptlts  animalis  in  cerebri  ventriculis,  maxime  in  pofteriori  continetur: quamvis  non  contemnendus  fit  medius.  Ipfe  etiam  Hippocrates: poftremi  quidem  ventriculi  vulneratio  maxime  omnium  animal  Lcdit,  fecundo  loco  medii , minima ex  anterioribus  utrisque  noxa  contrahitur.  Hoc  id.em  quod  feStiones, collifones quoque  faciunt.   His  omnibus  ratio  (iiffragatur,  dum  ventriculi  ignobiliores  apparent,  qui  majorem  habent  amplitudinem,  Quartus  Imus  omniii  anguflillimus  eft,&  mi-  nimus, Ipiritumque animalem lmcerum,  delicatum,  Sc omnimodo  expurgatum  continet.  Reliqui  duo  pra?parando  folum  Ipiritui  ferviunt:  itaque  omnium  nobilillimus  eft  quem  dixi.   Videtur  Galenus  his  contrarium  lentire, illic  ubi  5 .delocuaffe  ait:  Si  aliquando  tota  anterior  cerebri  pars  afficiatur,  Ftu  C 2.  cM'  ca  qua  funt  circa  fupremum  ventrem  (liipremum  au-  ue  locis  C.  1, tem eo Joco  medium  intelligit,  nelcio  ob  quam  ratio-  nem) ei  conflit  ire  neceffie  efl  difeurfivas  omnes  ailio-  nes  vitiari.  Si  difcurlus  in  medio  finu,  ergo  nobilior.  Hic  ergo  prirogativam  linui  tertio  allignare  videtur.  Sic  in  capite  ultimo  fabulam  Vulcani  exponens,  cmn  caput  Jovis  bipenni  conquallallet, eum  inde  Minervam Deam  Sapientia? traxille ait: per quod videtur non minus ventriculo tertio prirogativam hanc donare. Hanc dignitatem ftni&ura memorati  ventriculi admirabilis  indicat, dum vulnera occipitis minus periculola funt, quam qui in  fyncipite  hunt: ita  (enti  tHippocrates: Pluresex  his,  qui  pofteriori  capitis  parte  funt  vulnerati,  mortem  effugiunt,  quam  qui  anteriore.   Conciliabitur  itaque  Galenus,  li  dixerimus:  quod  dum  linum  quartum  priftantiorem  elle  inquit , Sc  digniorem  , hoc  eum  luo  arbitratu  dicere,  dum  autem de  tertio  ratiocinatur  , eum  lentendas  aliorum  fequi, & in  particulari  Nicrophyli,  prifertimqued  facultatibus  pricipuis  fuas  fedes  proprias  non  ad-  Icriplit liciit  alibi  memoratum  eft.  In  vulneribus  occipitii  raro  admodum  ventriculus  quartus  offenditur, dum  carojiicut  Sc  cralfities , Sc  durities  ollis  ve  hementer  refiftunt : fed  in  lyncipite,  hoc  eft  in  ven-  triculo tertio  olla  tenuiora  lunt: Hinc  Author  meus  ait: non  erralle  Galenum  in  hiftoria  prifente  cerebri totius, nili  in  mirabilibus  ejusdem  plexibus.  Hoc  os  in  homine  usque  adeo  breve  & parvum  eft, ut  pene  oculorum  aciem  effugiat.  Hunc  plexum  coronalemqui  in  ventriculis  Cerebri  luperior  eft,  cum  Mo-  dernis quampluribus  Rete  mirabile  nominat; dum  ineo  Spiritus  vitalis  attenuatur,  & animalis  certum  quoddam  rudimentum  Sc  praeceptum  coiifequitur.   Ex  tot  igitur  operationibus, qui  de  interioribus  Capitis  proveniunt,  nobile,  lingulare,  Sc  elevatum  hoc  Compofitum , plus  adeo  quam  quodvis  aliud  in  humano  corpore  dicendum  eft: Altillima  rupes,  in qua  pricipua  vicini  civitatis  conftrudba  lunt  propugnacula : nili  malumus  cum  majori  proprietate  illud  nominare, Metropolim  famofam  fubje&arum  libi  Regionum  : vel  Primum  Mobile,  fub  quo  reliqui fphiri  inferiores  moveantur,  vel  luminofum  Solem,  qui  partes  omnes,  tam  vicinas,  quam  longe  diflitas,  illuminet  Sc  perluftret   vel  Officinam  ubi  pungenriflima  tela,  aaitiflimarum  cogitationum  fa-  bricentur: vel  Ditifiimum  Aerarium , de  quo  tot  po-  tentiarum Sc  effedtuum  thefauri  depromantur,  vel  Compendium, in  quo  Univerfitatis  totius  negotia  reftringannir, & epilogentur.  Vel  fontem  peren-  nem de  quo copiofimmi rivi  profluant,  ad  inundanda Sc  fcecundanda  prata  membrorum  tam  qui  pro-  piora , quam  qui  longius  collocata  funt j Vel  Principem abiolutum,qui  de  partibus  libi  fubditis  homagi-  um  fidelitatis  exigat,  Caput,  inquam,  quod  jure  merito  Principium,Dominatorem,  Patronum,  Ante-  fignanum,Ducem,&  Magiftram  dixeris  omnium  eorum,qui  humano  corpore  continentur: Mundus  eft,  propter  quem  Mundus  creatus  eft.  Sc  quidquid  in  his  lphiris  mortalibus  Sc  immortalibus  concluditur:  vivum  fimulacrum,  Sc  Imago  Altisfimi, qui  in  hac  prodigium  admirabile  Omnipotentiae  fui  manifefta-  re  voluit.   Sed  li  tot,tamque  inexplicabiles  dotes  in  hoc  con-  tento includuntur: fi  divina  manus  in  interioribus  tot  mirabilia  Sc  ftupenda  operata  eft, unde  ad  dignitatem tantam  profecit, nondisfimili  gloria  fcintilla-  re.  Video  Continens,  hoc  eft  Faciem,  illam  dico,  in  quam  Creator  Deus , fpiravit  fpiraculum  vita, &  fattus  efl  Homo  in  animam  vi  ventem.  Facies  qui  tali  nomine  infignita  eft,  quod  univerfa  operetur  Sc  faciat, prout  j arn  fupra  determinatum  eft   Facies  fine  qua  imperfefta,in  anima  line  vitalitate, fine fpiritu  reliqua membra  poftrata  jacerent: line  qua  tanqua  truncus monftruofiis, inutilis, & abominabilLS,  reliquu  corpus omne  decumberet; Facies  qui  imprimit, & ex-  primit objecta  tam  interna, quam  externa,  per quam  Homo  ab  Irrationalibus  diftingiiitur  : qui  fola  radium circumfert  Majeftatis, typum  Sc  copiam  Originalis illius  fupremi,quod  beatitudinis  noftn  obje-  dum  in  coelis  eft:  perquam  folam  cogitata  interna  producuntur:  lola  pulchritudo,  Sc  complementum  corpons,per  quam  folam,  & non  per  aliud,  liti,  triftes,  fupplices,  eredi,  aut  fubmiffi  fumus:  Hic  prima  eft  quiplacet,qui  attrahit, qui  commovet,qui  am-  pleditur,qui  repudiat.  Indicat  hic  fexum, itatem, decorem, Sc  ftirpem: in  qua  manifeftiflima  mortis  Sc  vici  indicia  defignantur.   Jam  vero  quod  partes  ejus  Anatomicas  concernit, dehisintradatu  de  maxillis  abunde  ratiocinabimur. Supereft  hic  videre  paucis,ad  Encomium  potius, quam  Anatomicam  ejusdem expolitionem,  cur  in eadem  Facie  omnes  adeo lenius  collocati,  cur eorum quinque  lint,  Sc  non  plures:  de  quibus  illud  inpvimis  dicendum  eft, quod  cum  anima  Hominis  for-  marum 01  nnium  prima  fit , quotquot  earum  fub  concavo Luni  reperiuntur, eaquenobiliifima, quantumvis individa, polita  in  hoc  Corporis  Ergaftulo,  eam  nihilominus  fine  fenfuum  adjumento  inteliigere  non  polle.  Cum  his  ratiocinatur, difeurrit,  Sc  lpeculatur: inter  phantafmata  Sc  opiniones  verfatur:  unde  non  immerito  Philosophus  dixit; Nihil  eft  m  IntelleSiu, quin prius  fuerit  in  sensu.   Cum  igitur  Caput fedes  iit  facultatum  animalium,  tum  vero  etiam  domiciliumRationis, congruum  erat ut  lenfus  omnes  velut  fatellitium  libi  fubditum, Sc  tanquam  aulifui  miniftros  principales  imperio  fuo  obtemperantes, & in  Regia  cerebri  libi  allidentes  haberet. Senilium  vera  numerus  quinarius  eft, qui   numero    Facies   comparata   ftellis.    3. de  Anima.    Td&llS  &  guftus  iimpliciter  necellarii  ad  Vitam.  humero  aliorum  tot  fimplicium  inmiindo  corporum  correfpondet,  carli,  videlicet,  &:  quatuor  Elementorum. Potentia  villis  juxta  Platonicos  elemento  ftellari  correlpondet, qute  ftellte  non  minus  oculi  calorum  nominantur:  hx  inquam  facula: quarum  objectum  corpus  Iplendidun)  &c  flammigerumeft, quamvis  non  urens.  Odoratus  objedaim  igneum  eft,  omnia  Equidem aromata  calida  funt: Auditus  quidquid  aereum  eft,  Guftus  compolita  aquea, Tadhis  terrena.   In univerfitate  aurem  quidquid  continetur, in  quinque objedadiftingui poterit,  in  colores,  in  fonos,  odores,  sapores.  & qualitates  omnes  tradabiles  tam  primarias,  quam  le-  cundarias.  Arrogant  autem  libi  quod  Peripateticus  dixit:  Media  quibus  fent  imus  quinque  tantum  modis  alterari  possunt.  Inde  profequitur : Medium  cfle  fenlum  vel  internum,  vel  externum: Externum  aerem, vel  aquam  ; Internum  membranam  & carnem: quorum  illa  pruna  alterentur  rebus externis,  vcluti  iis  qua: luminofa  funt,  tunc  enimvero  objeda  funt  visus ; aut  vero  iis  qua:  rara  funt, Sc  mobilia,  & tunc  auditui  ferviunt:  aut  vero  iis  qua:  humiditatem  cum  decitate  permifccnt,  6c  ad  odoratum  pertinent , fubjiciendo  libi  carnem,  & membranam ; aut  vero  temperiem  qualitatum primariarum  fequuntur.autmixtionem  licci,&  humidi:  & tali  modo  illa  quidem  objeda  tadus  dicuntur, ha:c  objeda guftus.   Denique  quinque  folx  fenfationes  funt:  tot  enim  earum  neceflariaPerant , non  plures: alise  quidem  fimpliciter  &  abfolute,  alia: ad  jucunditatem  Se  dulcedinem  vita: abfolute  neceflarii funt tadus, 5c guftus:  Tudus fundamentum  animalitatis  eft  (ita  fentit philosophus ) guftus  viciffim  fundamentum eft  nutritionis. linequa  abfolute  vivere  nemo  mortalium poteft: Vifus,  Odoratus, Sc  Auditus  idcirco  data  ftint,  ut  vitam  beatiorem, & magis  tranquillam  degeremus.   Hi  ergo  quinque,  ut  ita  dixerim,  Favoriti  funt  magna:  illius  Reginas, anima  nimirum; inter  quos  vifus/apicntium  omnium judiao,  propter  eximias  ejusdem  utilitates  & commoda,    priorem  fibi  locum & prorogativam  vendicat.  Proflantiam   illius  &dignitatem  quatuor  res  potilumumindicant.Primum   varietas  rerum,  qua:  repraftentantur: tum  deinde  modus  aftionis  inter  omnes  alias  nobihftlmus: pon  o convenientia  Sc  proprietas  cujusq; objecti particularis,  quo  quafi  lux  divina  adionum  omnium  eft: denique  horum  omnium  certitudo.   Omnium  rerum  vifibilium  differentias  vifus  dcmonftrat,  cum  omne  propemodum  objedum  coloratum  fit , & visibile: hinc oculus,  prseteripfum  objedum  multa  fibi  infuperad-  Dicnicas  &  fcifcit,  hoc  eft,  figuram,  magnitudinem,  numerum, motum,  nnb,unri,  ftaium,  fitum,  Se  diftantiam: unde  apnffimus  dicitur  ad inventionem  difciplinarum.  Intelledus  ideas  recipit , ab  omni imperfedione  materia: omnino  liberas j oculos  itidem species incorporeas,  qua:  per  barbarifmum  Intentionales  vocan-  tur- Intelledus  uno  eodemque  tempore  binas  res  invicem  contrarias  comprehendit,  tum  potiftimum,  cuma  falfo  verum difeernit. sic potentia visus inter nigrum  Sc  album  diju-  dicat. Intel. edus  liberum  mentis  luae  vigorem  Se  fortitudi-  nem confervat, ita  ut  nulla  ei  vis  hanc  libertatem  adimat:  eandem  quoque  oculus  praefefertin  videndo,  qui  hbertns  nihilominus exteris fenfibus  negata  eft:  nares  enim, & aures  nunquam  non  aperra:  funt,  nec  aliter  poflunt; non  fic  oculi  qui  ad  libitum  clauduntur,  Scaperiuntur  (ficut  in  eorum  anatomiadicendum  eft) in  nollro  fiquidem  beneplacito  eft,  videre,  vel  non  videre.Nobiliffimum  denique  objedum  ocu-lorum eft,  lux  nimirum,  prxftantiflJma,  communiffima,  &  notiflima  qualitatum  omnium ; Hac  ratione  motus  Theopbraftus  formam  hominis  ex  vifu  definiri  ajebat: Anaxagotas ad  hoc  dixit  natum  hominem, ut  videat.  Multo  plura  his  in  Anatomia  particulari  oculorum  dicentur.   Debilem  nihilominus  in  his  & imperfedam perfpicacita» tem meam recognofco,  unde  ne a tanta luce  cxcaccari  mihi  contingat,  ab  ulteriori  Capitis  indagme  me  retraho, qui  opti menovi cum aquilis  nec  noduas  nec talpas  proportionem  ullam  habere.  Tu qui magis oculatus es,  conjice  vifium tuum in  Anatomicorum  lucem,  qui tibi ledionibus  difertioribus,   & clarioribus in  hilce  fibras  profundius  abllrufas,  Sercpofi-  tas  uuein,  ego  interim  accingor  ad  contemplanda     )^!d^m“UtmJicMet  ^“tumrupra  torehdum  nobis  promptilTimani)  cumabomni  tuIt) symbol nos  divina  tutela  vigilet  (tumpnefertim  ad  fucSenrlmim  Hominis  Sjmboltoi  Tom,  I.    ' ; T - '-uiiidu  U1I1IUI1U-   mano  auxilio  deftituti  fumus, lupra  id  quod  antiquitus  Marco  Valerio  Corvino  accidit, cum in lingulari certamine cum hofte  confligeret: caput armatum callide  depinxit, cui corvus  infidebat, adjungendo Epigraphen: Infperatum auxilium. Generofus miles, fk intrepidus dimicabat viriliter, fed fortafte fuperams ellet, nili corvus inopino adventu , & rostro, & unguibus  adverlarium  laedendo  perterruillet,  ut  tandem  luccubuerit.  Hoc  divinum  liiblidium  a  S.  Auguftino  firnra  id  quod  in  nuptiis  Cana:  Galilaee  hb.i.adverf,  facftum  eft,  inhnuatur,  dum  redemptor  nofter  divi-  H&res.  mfTimce  matris  lua:  precibus  qua?  commenfalium  curam agebat  ( vinum,  inquit , non  habent)  annuit,  vocans  eam  mulierem: & quia  in  hydriis  reliduum  aliquid  remanferat,  evacuantur  vafa, &c  rurfum  aqua  adimplentur, exhinc  admirabilis  illa & prodigiofa  Argumen-  cranfmutatio  apparuit.  Ha:c  autem  ejus  propria  funt    verba: Propter  hoc  properante  Maria  ad  admirabile  tum  oppor-  vini  signum, ante  tempus  nolente  participare  comtunum.  pe.ndii  poculum, repellit  dicens: Nondum  venit  hora  mea:  expeSlans  eam,  qua a patre  fuit  in  opportunum  auxilium  pracognita.  Fortificabat  his  le  fuosque  Philo Hebraus: bono  , inquit,  animo  eflote  fratres,  ubi  enim  humanum  cejfat  auxilium, divina  non  deflituemur  ope: neminem  dereliquit  Deus.  Elevatif-  fimaMusafuaJoannesCiampolusin  amaritudine  liniftne  fortuna;  folabatur  animam suam,in  paraphrafi super  pfalmum: Jf)ui  habitat: de  verfu  illo : quoniam  in  me fperavit  liberabo  eumfic  feriptum  relinquens:   Fiduccia  confolata  fo  pur  fon  certo,   Se  la  Reggia  m e chiufa,   Che  fla  tra  facre  mura  il  Cielo  aperto E che  far  fordo  a i voti  il  Ciel  non  s’ufa.    it  pede  pauperum  tabernas, regumque  turres : alius  i eodem  fenfu  fcripfit:  zJMors  nullo  varcit  honori:  sntentia  qua:  limiliter a philolopho  Pnoclide  consirabatur  dum  ajebat: Communis  omnes  locus  mait ,tum pauperes tum Reges.  Si quis le fortuna:  totum  dedicaflet, Iperans ab eaem  Ubi  bonum  omne  eventurum , lic  ab  authore  uodam  reprelentabatur: Juvenem  figurabat, refcilim  caput  fuum  fortuna:  immolantem:  hxc  vero  Fortuna  in  -  iolefeentis  collo  Leonis  caput  inferebat,  tum  etiam  conftans.  iputferpentis,  Sc  monftruoli  praeterea  animalis  cu  isdain  i mentem  fuam  his  verbis,exponens: Bellua  t,ccec  'e Jiat uit, qui  credit  fe  forti.  Heec  quatuor  Ca-  ita  in  quatuor  cyathis  a Plutarcho  exprella funt:   'ortuna,  inquit,  nobis  cyathos  exjiccantibus  prabet : De  tranquilf  unum  bonum  infundat, tria  mala  minijlrat.  Hi s ta(e  amm&.  iblcripfit  Quintilianus  cum  ait: Cum  fortuna  ruere  Decia.  4.  ementia  eft.  Et  Seneca  : Suis  contenta  viribus  in enit pericula  fine  Authore  Nullum  tempus  ei  ccrtm  ef: in  ipfs  voluptatibus  caufe  doloris  oriuntur.    nevitabilis  Idem  Paradinus , manum  armatam  fica  reprefen-  ra  Dei. tat, quajamjam  caput  quoddam  perculliira  eft:  inferipiit  autem  hanc  fententiam : Fcl in  ara. volens  indicare, vinditftam  divinam  ubivis  locorum  paratam  ad  caftigandos  protervos  efie,  ubivis  etiam  locorum,  quantumvis  privilegiatalint,  crimina  fontium  punienda. Id  quod  inter  alios  filio  Francifci  Sforza:,  nomine Galeazzo  contigit, qui  etiam  ante  ipfam  aram  facram  ab  Andrea  Lampuniano  interfe&us  eft.  Hanc  inamilTibilem  vindittam  verebatur  propheta  Regius,  duminquiebat:  6)uo  ibo  djpiritu  tuo,&  quod facie  tua  fugiam  ? Si  ajcendero  in  c&lum  tu  illic  es, & ea  qua:  fequuntur.  Magifter  ille  morum  Gabriel  Si-  meon  volens  inferre  fublimitates  Regales,  & eminentias per  mortem  adaquari  vilitati  plebejorum  (unde  & purpura  Agefilai  cum  cineribus  Ergafti  Paftoris  in  ^/Iors  o- una  eadem  lociatur) Calvariam  hominis  figuravit  nnia  ada:-  inter  fceptrum , & Ligonem politam cum hac declaratione : Mors  fceptra  ligonibus aquat: quod omne  iorat,i.Car-  ab  Horatio  mutuatus  eft,  qui  ait: Mors  aquo  pul-    Sinceritas   cordis.    Apud  Diogen  U-7-   Inion, depetit. Confu-  tat.   Satira  17.    Concordia  quam  Iit  utilis.    Mors&   memoria  ejusdem.   12.  Mor.   De  vita  Re-  fur.    Lib.  4.  Hexa-  emeron. Redtitudo & Sinceritas.   Sinceritas  &c  redbitudo  animi  potiffimum  ex  tran-  quilitate, & hilaritate  vultus  cbgnofcitur.  Qua  de  caulajoannes  Ferrus  faciem  repra? lentavit  ridentem & venuftam,absqiie omni  ruga,  ligni  ficarionem  . apponens  eum  hac  Epigraphe: Raro  fallit.  Hoc  ipium  Cleantes  indicare  voluit,  dum  ait: Ex  Jpccie  comprehenduntur  mores.  Et  Euripides  : Ad  yultum  boni  viri  ajpicere  dulce  est.  Et  Tullius  : Inultus, ac  frons  animi  efl  anna  , qua  fignificant  vo-  luptatem abditam,  & occultam.  Quamvis  Juve-  halis  nos  aliter  doceat : Fronti  nulla  pdes  , inquit.  Utique  enim  verificatur  non  raro : in  vultu  rolas  apparere, tegi  fpinas  in  corde.   Arma  gentilia  & antiqua  excellentiUima?  Domus  Trivultii,  quae  e tribus  vultibus  compotita  lunt, indicando quantum  ad  felicitatem  vitae, &c  ad  omnem  inimicam  poteftatem  profligandam  valeat  concor-  dia,anfam  dederunt  Antonio  Trivultio  , qui  Atavus  fuit  Magni  illius  Joannis  Jacobi , ut  in  vexillis  militaribus tres  lacies  has  repraefentarct : adjundbo  lem-  mate : Mens  unica.  Et  ha?ceft  laurea  illa  tantopere celebratae  lentendae  Saluftianae: Concord  a res  parva  crefcunt, difcordia  ruunt.  Zelantiflinms  Calliodorus  inter  liios  vel  minimum  indignationis  fu-  furnun  ferre  non  poterat, unde  &:  cuique  iuorumajebat ; Summopere  jurgia  fuge, nam  contra  parem  contendere  anceps  eft , cum  Juperiore  fur  tofum  > cum  inferiore  fordidum, maxime  autem  contra  fatuum  contentionem  inire.  Sancbus  Gregorius  Papa  omne  tanquam  fordidum  explodebat, quodcunque  manu  datur,  vel  recipitur,  ubi  cor  maculatum  efl:  rixis  8c  dillenlionibus  : Munus, inquit,  non  recipiatur, nifi  prius  difcordia  repellatur  ab  animo.  Vere  illud  Davidicum  experimento  certiflimum  efl: Ecce  quam  bonum, & ejuam  jucundum  habitare  fratres  in  unum.  Hoc  ipfumS.  Auguftinus  innuit,  qui  tam  fratribus  Religiolis  regulas,  quam  & univer-  fo  Mundo  praefcripl it , dum  ait: Lites  nullas  habea-tis , aut  quam  celerrime  finiatis  , ne  ira  crefcat  in  odium  , & trabem  faciat  de  f e flue  a.   POtentillimum  ffjrnum  ad  retinendum  hominem  a fofla  praecipitii , & peccati  ruina, memoria  efl  folia?  lepulchralis.  Veritas  non  folum  quotidie  in  roflris  iacris  declamata  , fed  a Reufnero  quoque  intelletfla , qui  depingi  puerum  fecit, incumbentem  cranio  humano: adjungendo  1'ignificationem  cum  hac  Epigraphe  : rive  memor  Lethi.  In  eundem  lenium  verba  S.  Gregorii  incidunt , ubi  inquit :  Jfifuiconfiderat  cjualis  erit  in  morte,  femper  pavidus  erit  in  operatione. atejueinde  in  oculis  fui  Conditoris  vivit.  Magnus  ille  Mediolanenfis  Ecclelia?  Archi-Epifcopus  S.  Ambrolius  iic  illud  exprellit: Mors  pro  remedio  nobis  data  efl.  Si  primi  noftri  parentes  divinum  illud  vetitum  obfervaiient : quacunque  ho-  ra comedentis, morte  moriemini, lucceilores  luosin  tantum  mileriarum  barathrum  non  praecipicalfent :  fed  tentatorlpirituscumluo:  nequaquam  moriemini,  promittens  ejus  vitam,  ad  excidium  conduxit,  ex  quo  proinde  origo  decidii  fubfecuta  efl  : iic  Balili-  ' us  Seleucienlis  meditatur : ^fljuarcns  Sathan  Protoplaflorum perniciem  , conatur  ab  eis  memoriam  mor-  tis eripere,  nequaquam,  inquit,  moriemini.    JUxta  commune  Axioma  : Cum  caput  dolet,  c at  er  a membra  languent,  quod  quidam  fapienter    dixit : Et  ego  convenienter  dico  Iic  mentem  huma-  nam elle  oportere : defaecatam  nimirum, & ab  omni  tenebrofo  vapore  partialitatis, Sc  proprii  commodi  1'eparatam,  utfane  & prudenter  a&iones  inferiores  gubernare  & dirigere  pollic : liciit  caput  cfrm  fanum  efl,  & purgatum, vitalitatem  aqualiter  in  reliqua  membra  partitur  ; hoc  ipium  Plutarchus  intendit,  cum  ait : Mens  cernit , mens  audit , reliqua  fur  da , De  Alexand  cacaque  fiunt,  & rationis  indigo, Pulcherrimum, fortitudine.  arbitratu  meo  , quamvis  compendiofum  id  , quod  Euripides  affert , dum  Helenam  formbflUimam  de-  feriberet : Mens  optima  vates  efl, ac  bonum  confi-  In  Helenk  lium: Hoc  idem  encomio  lingulari  Seneca  depraedi-  cavit , dum  ait : Cogita  in  te  pr ater  animum  nihil  effi  mirabile, cui  magno  nihil  efi  magnum.   Caput  jure  merito  Caminus  totius  corporis  appellandiun  eft,ad  quod  exhalationes  omnes , & flumina  commeftibiliumalcendunt:  dumque  his  prater  mo-  dum gravatur,  recidunt  cum  damno, & totius  corporis incommodo.  Quis  non  ex  hoc  dignitatem  Per-  RedbaPrin-  fona?  Principis  figuratam  videat,  qui  per  modum  cacipis  operapicis  tanquam  verus  caminus, quidquid  exhalatiotionis  de  fuorum  fubdicorum  motu  extollitur , in  le  re-  cipit ? Jam  vero  li  Princeps  male  ordinatus  eft , nimi-  isque fumis  & caliginibus  repletus,  non  nili  popularis  perturbatio  in  membris  ejus , in  flatu, & corpore  po-  litico expedfcanda  eft.  Inculcat  Socrates  hoc  Principi luo,  ut  mentem  ab  omni  fecum  illuVie  puram  teneat, dum  ait : jrcrifjimos  ejfe  honores  Princeps  exide  Principe,  firmet, non  qui  in  propatulo  cum  timore  fiunt, fed  quando fubditi  apsid  fe  fioli  mentern  principis  potius , quam  fortunam  admirantur.  Et  magnus  Pythagoras  pra?-  ex  Lzertto. videns  nocumenta, quae  ex  hac  vaporum  attradbione  lecutura  ellent, hcfcriplit  : Princeps  non  ideo  crea-  tus efl, ut  Iader ct , fed  ut  juvaret.  Ut  ha?c  flumina  reprimeret,  Claudianus  Honorium  luumlic  horta-  batur : t Tunc  omnia  ‘fur a tenebis,   Cum  poter  is  Rex  effc  tui  proclivior  ufus  -7   In  pejora  datur, fundet  q3  licentia  luxum,   Sed  comprime  motus.   Polb  Cordis  generationem , prout  univerfa  Medicorum lchola  docet,  in  capite  cerebrum  generatur,  quod  ex  lui  natura  frigidum  &:  humidum  excellivo cordis calori  opponitur.  Proferam  ego  id, quod  jam  Protedbio  ante  me  alius, intelligens  nimirum  in hoc  loco Mariam Virginem  gloriolimmam, qua?  in  myftico Eccleiia?  ginis.  Corpore,  poftChriftum,  quem  in  corde  figuramus,  primum  libi  locum  vendicat : ha?c  enim  ardores  cordis in  juftiriaa?ftuantes  contemperat.  Conflagrare  magnitudine  criminum  luorum  jam  Mundum  opor-  tuerat : hoc  exprellit  S,  Anteimus : Dudum  calum  Sehm.  de  N*-  Cf  terra  rui  flent, nifi  Maria  precibus  fuflvntaffer. tlv-  Quod  S.  Bernardus  mellifluus  Iic  expofuit : ut  fiole  Serm.  dt  Af-  fiblato  nihil  luce fc it,  fic  fublata  Maria,  nihil  d mfijfima  tenebra  relinquuntur: S.  Auguftinus  cum  dulciloquio  luo  hunc  lenium  ita  dedit : Autlnx  peccati  Eva , Auttrix  meriti  Maria Eva  occidendo obfuit,  Maria  vivificando  pro  fuit, illa  percufiit,  ifia  fianaviti   De  humiditate  cerebri  canities  nafeitur:  hxcvero  Pietas  elee-  Sapientum  judicio  prudentiam  indicat,  juxta  oracumofyna, tilum  divinum: Cani  fiunt  fenfus  hominis  : de  calore  mor.  calvities  oritur  : Symbolum  illud  eft  , prout  fuo  loco  demonftrabitur,  Eleemolynar: unde  optimum  eri:,  ut  homo  ad  hanc  partem  refledbendo, in  frigiditate  ‘Timorem  Domini  contempletur,  in  humidirate  Pie-  tatem. His virtutibus  armatur  homo  rationalis, canquam  telo  pungenti flimo,  cum  quo  & tempus,  &  oblivionem,  tk.  peccatum  ferit.  Hoc  omne  de  ra-  8 1 rioiie. In  Hermath.    Imperium.    Cuftodia.    C.7.   Divina  myiteria.   Tfal.  i$o.   Chriftus.   adColojf,  i.   Serm.  de  Elia,   E/>.  f 8.    in  Mxtth.  c .  40.   Super  Mare.  6 r-  Pf-  59-  Fervor  devotionis.   Cap.  II.  Defomn.  Nabuih. de  pro  fagu.   1 3 y  cif- 4S 7. Errores.   -JK   Triftitia.t: r  • ii   SuperFf.  18. A   Suggeftio-   rione  provenic  5 qua:  ecerebro  elicitur,  <*c  in  eodem  fundatur,  unde  <Sc  Ingenium  derivatur.  T otun  1 il-  lud Phoclides  Philofophus  explicuit. Ratio, inquit,  hominis  telam  eft  acutius  ferro.   Diligens  obfervator  Goropius  feriptum  reliquit,  in  primitiva  lingua  pronuntiationem,  &c  denominationem Capitis  Ionum  cdidille  fimilem  hui  c:  Heet,  quod  imperium  , 8c  dominationem  indicat:  idque  non  immerito,  dum  caput  exteras  corporis  partes  gubernat,  & ditioni  fuce  iubjicit,prout  opportunitas,  & necdfitas exigit in unoquoque fuorum fenfuum  (e exercens.  Prxtcrea  caput  quoque  cum  hoc  Nomi-  ne Huet  exprellum  fuit, quod  Tutela,  & Cuftodia interpretatur, non abs re,  dum  fine illius  fablidio, extera membra  non  fecus ac militaris  phalanx  interrup-  to ordine  hac  illacque  palantes  habens  milites  , line  Duce, rnani feftum  incurrit  periculum.   Cum  tot  ergo  tantisque  praerogativis  decoramm  fit, mirandum  noneft,  iihoc  Nomen  Altillimo  Deo  adferibitur,  prout  legitur  in  Daniele,  qui  fub  figura  capitum  divinam  texit  ellentiam , nec  ea  videre  dete-  da  diledus  Apoftolus  potuit, per hoc significans quantum  inacceffibilis  lit  vel  minima  cognitio  my-  fteriorum  ejus, qua  tantopere  elevatafunt.  Hoc inferre propheta Regius voluit, dum ait: Obumbrafti caput ejus in die belli: alludens myfterium paffionis, quod omnem intelledum humanum transfeendit. Infcripturis lacris per nomen Caput Chriftus Redemptor nofter lapius  fignificatur. Paulus hoc inquit:Primum noftrum Caput eft Chriftus, nos que membra de membro: Sic  Eucherius  Se  Ambrofius,  prout  S.  Bernardus  fentit,divinam  ellentiam  indicant.   Vult  S.  Auguftinus,  cum  Maria  Magdalena  caput  Chrifti  lnimgere, idem  elle,  ac  eum  cum  frudu  bona operationis  laudare.  Origines  conliderando  Joannem  Baptiftam  decapitatum  , vult  in  metaphora  Chriftum  intelligi  a Judaifino  derelidum,  & a lege  Judaeorum  fublatum.  Hieronymus  Sc  Hilarius  id-  ipfum  referunt  ad  Judaeos  gloriantes  & praetendentes  Chriftum  a Prophetis  feparatum : fuperhxc, gloriam  Legis  ab  iisdem  levatam  elle.  Caput  aureum  in  Sa-  cro Cantico  memoratum , juxta  Richardum  de  S.  Victore , perfedum  flatum  charitatis,  intentionem devotam, &:  fervidum  Cadi  defiderium  indicat.  Supra id, quod  in  Levitico  ordinatum  eft.  Caput  Sa-  cerdotis non  radendum, Philo  Hebraeus  in  lxcu la-  res illos  invehimr, qui  le  negotiis  ingerere  ecclelia-  ftricis  non  erubefcunL  Id  quod  in  Geneli  de  capite  Jacob  feriptum  reperitur,  quod  lapidibus  capite  luo  dormituras  incubuerit,lubjungit Beda, intelligi  polle  hic  principatum  Chriltianilmi  hmdatum  & ftabili-  tumfupra  Petram  Chriftum,  cum  & ipfe  Apoftolus  dicat: Petra  autem  erat  Chriftus.   De  Capitibus  decalvatis  filiarum  Sion,  quorum  mentio  fit  in  Ifaia,  Jeremia  & Ezechiele,  Sancti  Hilarius & Ambrofius  errores  Oratorum  Sc  Rabularum  intelligunt,  quorum  infidelis  dicacitas  decalvatur , 6c  denudatur , nihil  habens  de  ornamentis  Chriftianx  veritatis  & eloquentia?.  Per  caput  opertum, licut  in  locis  pluribus  Regum,  Efther  &:Job  legitur, Lirantis fraudulentiam  intelligit, & dolum  larvatum,  quandoque  velo  pietatis  religionis  involutum.  Magnus  Mediolanenfis  Eccleliae  Archi  - Epilcopus  Ambrofius,  de  intrepiditate  animi, qua  mulier  illa  Apocalyptica  continuit  caput  ferpentis  , hanc  mora-  litatem  eruit,  dum  ait:  lic  omnino  caput  nafcentis  fuggeftionis  conterendum  elle,  ne  in  cor  noftrum  ulterius ferpendo  irrepat.  Applauferunt  Auguftinus  & Gregorius  adioni  Davidis , dum  jadandam  illam  Goliathgigands  truncato  capite  repreilit, ubi  dicunt:    intelligi  polle  per  Goliath  Luciferum, cui  caput  abi  a-  S. Pfal.  1 r, j.  tum  eft,  ut  Chriftus  effet  caput  gentium.  Sed  ne  ultra  de  i.Reg.).  ariditate  rivorum  meorum  guttas  quasdam  diftillem,  fufticit  in  materiis  hisce  me  de  plurimis,  qua?  dici  pof-  lent,dixille  pauca:Liberum  relinquens  Ledon  fedul reftinguere  fitim  luam, h  lic  placuerit,in  amoeniffimis  verfionum  facrarum, &c  Glollatorum  fontibus, de  quibus  fine  intermillione  dodrinae  perennes  icatu-  riunt.  PRoverbia originem fuam vel  ab  experientia,  vel  ab  ufu, vel  etiam  abufii, aut de partibus aut de proprietatibus humanis, vel  de  didis  lapientibus  aut  vulgaribus  traxerunt.  Caput  fcabere,  ab  inferiori- Cogitabunbus  multis  ad  eos  refertur,  qui  fixam  mentem,  muldus.  tumquein  cogitationibus  filis  abforpeam  tenent:  per  quod  tanquam  per  clari flimum  radium  oculus  mentis  illuftratur, ut  homo  videre  bonum  fuum  poffit , &  malum  evitare.  Inter  alios  id  Quintilianus  innuit:   Cogitatio , inquit , paucis  admodum  horis  c au  fas  etiam  magnas  complectitur.  Et  Marcus  T ullius : In  omni-  bus negotiis, priusquam  aggrediar  c , adhibenda  eft  p re-  paratio diligens.  Et  Euripides : Et qua  longe  abfunt,   £r  qua  prope funt,confderari  debent.   Optimum  documentum  ad  monendum,  & corridendum Amicum  cum  trito  illo  adagio  infinuatum  fuit: Capite  admoto:  hoc  eft,  111  ablentia  Arbitram,  Judicum,&extrapublicum,iinbcum  iuavitace  verborum, fine  omni  afperitate.  Juxta  divinum  ma-  gifterium: St  peccaverit  in  te  frater  tuus, corripe eum inter te,  & ipfum  folum.  Quae  veritas  & gentili-  bus non  ignota  fuit, inter  alios  Euripides ait:   Amor simpliciter  objurgans  magis  premit. Propter  quod  Diogenes  canis  appellatus  eft, qui  cum  nimia  libertate  edam  in  publico  importuna  reprehenfione  mordebat.  Pro  verborum  dulci  moderamine  falu-  berrima  dodrina  Chryfoftomi  eft : Circa  vitam  tu-  am eft  0, aufterus,  circa  alienam  benignus : audiant  te  homines  parva  mandantem , & gravia  facientem.   Venufta  ficies,&  alpedus  comis , cui  nihilominus  didamen  rationis  delit , & qui  judicio  privatus  fit,  hoc  dicio  figurabatur: Caput  vacuum  cerebro.  Et  hxc  eft  Alfopicae  vulpis  fignificatio,  qux  ftatuarii  of- ficinam ingrefla,  atque  illic  formatum  caput  inveniens, fed vacuum  videns  , a fe  projecit,  dicendo:   O quale  caput: fed  cerebrum  nen  habet.  His  obje-  dis,  eorumque  blandimentis  fallacibus  fidem  non  habere  admonet  Lucilium  fuum  Seneca : Erras ,   Inquit , fi  i florum, qui  tibi  occurrunt  vultibus  credis:  hominis  effigies  habent, mores  autem  ferarum.  Quafi  diceret;  Attende  tibi,  ferpens  enim  in  viridi  prato  abfeonditur, illic  podllimum, ubi  te  amoenitas  flo-  rum arridebit.  Quis  credidillet  unquam  Alcibiadem  fub  cxlefti  vultus  decore,  nutriville mores  inferni?   Amarus  pavonum  cibus  eft,  cum  cantus  nihilominus  viventium  fit  faftus,&  decor.   Per  Nutrices, qua?  quandoque  cunas  in  caput  le-  vant , ubi  infantulus  quiefeit, tk.  de  loco in  locum  transferunt, inferre  Plato voluit, cum  quanto  affectu  amicus  amici  fui  commodis, <3c  utilitatibus  fervire  debeat: unde  & vulgare  illud  axioma  ortum  eft:   Capite  ge flare, hoc  eft:  omnem  ad  id  cogitatum  fuum applicare.  Exadiflimum  prxeeptum  divinus  Ariftoteles  nos  docet:  didamque  legem  cum  omni perfectione  obfervare  vult:  Amicus  fc  debet  habere  ad  amicum  tanquam  ad  feipfum, quia  amicus  efialter  ipfe.  Et  S.  Auguftinus, amicum dimidium amms>   O'  medicamentum  vita  appellabat.   Gerion olim, live propter compofitionem infoli-  lib. 10.  /»Hippol. Corredio remoca, privata. apud?  latorum de  Amic.  Adulator.    Facies  ab  opere  diver-  la.   Ep.  2®3- Cap.  10  de  Republ.   Vera  ami-  citia.   4. Et  hic.   3Confejf.    Lib.  6.  de  Cht.  Dei.    Diftradfcio  in  negotiis.   In  Pfal.  8.    Sur.  in  Vit.  23.  April.    Difficultas   negotio-   rum.   3. Metamorph,    Cognitio   matura.    Ethicorum.  Vt  ira  lib.  u,    Sententia   pedaria.    tam  membrorum,  infpecie  trium  corporum  figura-  batur, five  id  fadhim  alia  decaufa,  ut  videlicet  hominem pluribus  negotiis  diitradhim  repraTentarent ,  occafionem autem  proverbio  dedit:  Ertium  caput.  Similitudine  infper a bajulis  fumpta,  qui  fiepius  onera  fua  ab  humeris  ad  caput  transferunt.  Vitium  hoc  evagationis  tantundempemiciofumeft , quantum  e it  utilis  recolledtio, &.  tot  curarum  depolitio.  S.  Au-  guifinus  commentando  lupra  verfum  pfalmi:  niam  tu  Domine  fu  avts  ac  mitis , ita  eum  dilucidat :  Nil (lultius , quam fi feipfum  quisquam [educat:  attendat ergo, & videat  quanta  , & qualia  aguntur.  Conlimilis  huic  aphonlmus  est: Age  quod  agis.   Inimicus  nofter  communis , ut  nos  a redo  virtutis  tramite  aberrare  faciat,  non  aliis  potentioribus  armis  contra  nos  militat,  quam  diftradione  mentis.  Dixit  hoc  B.  Aigydius  in  vita  S.  Francifci: Ditem  oranti  intendit cUmon , tanquam  animatus  prado.   Ad  indicandum  hominem  fic  negociis  fuis  implicitum , & immerfum , ut  non  nili  argre  le  inde  eripere  & extricare  poiTit, ita  ut  in  Labyrintho  D.edaleo,  vel  in  Ergallulo  , vel  in  compedibus  cC  manicis  fe  elle  credat,  fuerunt  qui  adagium  illud  effinxerunt : nec  caput, nec  pedes.  Innuentes  usque  adeo  negocium  hoc  intricatum  elle,  ut  principio  & fine  careat.  Non  eft  vermis  tantopere  mordax  ad  confumenda  &c  rodenda corpora,  quantum  animabus  alfligendis, &c  mortificandis  ejusmodi  iunt  intricata  negocia: Ita  fentit Ovidius :   Attenuant  vigiles  corpus  m' fer  ab  ile  cura.   Ad  hos  laqueos  dillolvendos  , & tales  occupatio-  nes allumendas  , quibus  fuccefius  non  difficilis  fit,  hoc  confilium  Ariftoteles  fuggerit : ln  negotiis  oportet unum  negociari  ad  unum  opus , quia  melior  eft  cura  intenta  in  unum , quam  circa  plura.   Perfedfa  rei  cujusdam  notitia  fic  exprimebatur  olim : a capite  usque  ad  calcem: quod  his  quoque  ver-  bis dici  poterit: d capite  ad  pedes, ab  ingreftu  ad  coronidem, a vertice  ad  talos.  Quemadmodum  autem,  prout  lupra  relatum  eft, negotiorum  incompolita  turba',  in  ns,  qui  veram  eorum  praxin  ignorant,  per-  turbationem animi  adducit, ita  & matura  prcemedi-  tatio  tantundem  expeditum  iter  habet  ad  eadem  feliciter terminanda,  &infecuritatem  collocanda,  ex  quibus  optimum  judicium, & rerum  quantumvis  involutarum  diferiminatio  oritur.  Magnus  Peripa-  teticus nofter  fic  ait:  unusquisque  bene  judicat,  quod  cognofcit.  In  eundem  fenfum  Seneca,  iracundum  hominem vult  prius  de  re  quaque  diligenter  inquirere,  qum  in  iram  erumpat : totum  infpice  mentis  tua  ady-  tum : etiamfi  nihil  mali  falli  poffit  face  fe.  Et  Quintilianus: Nofcat  fe  quisque  non  tam  ex  communibus  praceptis, quam  ex  natura  fua  capiat  confilium  for-  manda aIHoms.   Stupiditas  qmedam, aut  mentis  infenfata  durities,  de  ignorantia  cralla  exordium  fuumfumens, in  iis,  qui  pro  cujusque  ratiocinantis  arbitrio  & voluntate, vituperium & laudem  fine  diferimine  cuique  rei  attribuunt, hoc  adagio  figurabatur  : Caput  fine  lingua.  Hoc  idem  Sententia  Pedana  infinuatur, qua  olim  Senatores  determinationes  fuas, pedelignificabant,  Sc  concludebant : unde  Sc  Senatores  pedarii  appellati  funt,qui  lapiendorum  fe  judicio  conformabant.  Talis  erat  Marci  Tullii  filius,  qui  nunquam  os  fuurn  aperi-  re ad  fententiam  dandam,  vel  mutire  noverat,  procul  degenerando  ab  intelligentia  patris  fui.  Horum  calamitatem deplorabat  Demofthenes,  illic  nimirum  in  Olyntho,  ubi  in  ejusmodi  plures  invehens,  declamabat : Homines  focor des prafentia  negligunt,  futura  bene  fuccejfura  putant.  His  adjungatur  illud  J uvenalis.    Inguinis  capitis,  qua  Jint  difcrimina  nefeit.   Quod  idem  eft,  ac  fi  dixerim: nefeire  eum  inter  turpe & honeftum,  inter  nigrum  & album diferimen.   Similium  converfationem  hominum ne  in  fomnio  quidem,  ne  dixerim  in scholis suis Plato perferre  po-de  Scienti/ii  terat,  quos tanquam  infideles  rejiciebat: Nfaenti  quid  laudet, aut  quid  vituperet,  non  eft  adbibenda  fides.   De  merda  Adienad,qu:e  lapientia  & fobrietate  inftiu-  dta  erat,  contra  eos  qui  his  finibus  non  tenebantur,  fed  de  vitio  nefando  ebrietatis  facrificabant, mufto  domiti, Proverbium  illud  vibratum  fuit: Capita  qua-  tuor  habens: utpote  quibus  unicum  objedtum , in  varia multiplicatum  apparet.  Nec mirum  eos  canta  videre,  qui  tot  vitis  oculos  epotarunt: Hi  fumo  vini  vaporolo  tantopere  lui  compotes  non  funt, ut  nil  eis  fubfiftere, fed  eunda  vacillare  videantur.  Enormitatem  vitii  hujus  aureum  Chryfoftomios  fic  super  Gtn.  deteftabatur: Ebrietas  exc&cat  fenfus voluntarius  hom  29.  efl  damon: Ebriofo  Afinus  melior  : Ebrietas  qua-  SuPer  Mntth„  dam  Ira,  Mater  eft  Scortationis  j tene  pe  flas  tam  in  ^om'  <‘9'  animo, quam  in  corpore.  Natus  eft  inter  fulmina  Xom  1°™'  Bacchus  ( fic  fabula;  tradunt)  hac  prudenti  mydiologia  docendo, de  abundantia  vini  fulgura  procedere,  qua;  facile  eidem  deditos  in  cineres  redigant.  T Am  a Primordio  Mundi  Hieroglyphica  nata  funt, in  j ea  videlicet  hominum  tetate,  qus  adhuc  balluciens  'dici  poterat,  nondum  habens  characteres  alios,  qui-  bus mentem  fuam, aut  fenilium  animi  exprimeret :  itaque  neceflarium  eis  erat, communibus  inltrumen-  tis,  & rebus  ad  ufum, & utilitatem  hominum  fadis  cogitata fua  exponere.  Inter  alias  autem  harum  inventionum maxime  ferax, populatiflima  ./Egyptio-  rum  Regio  fuit, ubi  in  parietibus  interiora  animi  prodebant.  Ha  vero  obiervationes  d viris  fapienti-  bus,  tanquam  myfterio  plens  colleds  funt, quas  ego  quoque  prout  rerum  materies  aut  occafio  exegerit , in  medium  adducam, ut  figuratus  homo  meus  ex  omni  adeo  parte  obfervata  utilitate,  curioforum  oculis  le-  gendus proponatur.   Igitur  per  Caput  judicioli  progenitores  noftri  tx  Valeriano  principium  cujusque  rei  fignificabant, prout  Caput  de  Capite.  verum  hominis  principium  eft.  Sic  Varro  docet:  Bonum  Caput  corporis  eft  initium, eo  quod  ab  ipfo  capiant  princi-  principium  fenjiis  , & nervi.  Sic  adagium  fonat : pium.  pifcem  d capite  primum  putere.  Caput  itaque  bene  collocatum, bonam  membrorum  conftitutionem,   & complexionem  denotat  j fic  prout  qusque  res  bo-  num habet  principium, ita  finem  quoque  ilium  feli-  cius confequitur  : Dimidium  finis, qui  bene  ccepit  habet.  Sic  Mula  poeta;  Venulini  fonat.  Quam  id  ftudiosc  obfervandum , & ledulo  huic  invigilandum  fit,  Peripateticus  innuit: Principium  quantitate  eft  Eltnch.  2.  minimum, pote  flate  maximum , D hoc  invento  facile  eft  augere.  Volebat  Tullius  initia  a fuperis  fumenda  Uh,  2. de  legib .  elle: A Diis  inquit  immortalibus  funt  nobis  capienda initia.   Per  Caput  itidem  res  principalis  figurabatur : Res  princi-  unde  Marcus  Tullius  ad  Appium  icribendo,  fic  ajc-  palis,  bat: An  tibi  obviam  non  prodirem  f Primum  Appio  Claudio , demde  Imperatori, deinde  more  majorum  j  deinde  {quod  Caput  eft)  amico  ? Omne  fibri  principium Caput  vocatur,  fic  nomen  illud  Berelith  in  feri-  pturis  idem  eft, quod  vulgariter  Caput, aut  vero in principio. Quidam facrorum interpretum  per no-  Divina  men  Capitis  filium Dei intellexerunt, quandoqui- principia dem per verbum  ejus  diviniffimiam  mundus  produ- incompteduseft. Et Adamantius, per Seraphim, qui  binis  heniibil ia,  alis  Caput  Dei  velabant,  incompreheniibilia  eilc  m-  B 3 quit, Divina ientia. Religio. hb. 1 Parvus  mundus. Itb. 4. Caput fup altare. ef_ inquit, nec detegi polle divina principia. £t cum Iit ellentiadivina omnium rerum tam carieftinm, quam terreftrium perfedillima, iic ab Eucherio nomine capitis appellatur. Quod  tantopere  interTgyptios  v?nerationem  tk  reverentiam  auxit  (juxta  id  quod  Hieronymus  refert)  ut  injuriam  Divinitati  crederent  fieri,  liquidem  qualecunque  caput  aut  male  cibatum,  aut  male  tra&atumfuillet,  mortuum  uque  ac  vivum.  Usque  adeo  Religio  ab  iis,  qui  non  nili  in  oblcuro  eam  noverant, oblervata fuit: fecundum quod  Plinius lenior fcriplit : Religione  vita  confiat: & in  eundem  fenfum  Livius : Omnia projpera  fequentibus Deos eveniunt,  adverfa (pernentibus. Schola Platonica nobis  feripto  reliquit.  Caput  noftrum ad  fimilitudinem  Mundi  compolitum  elle,  atq,  idcirco  Microcofmum  appellatum.  Quis  vero  eft,  qui  hoc  non  fateatur  ? dum  illic  ik  imprelliones, &c  Planetae,  &tot  negotia  exercentur,  & generantur?  Illic anima?  noftru, tanquam Ipiritiu  informanti,duos  dederunt  circuitus  : atque  ideo  membrum  hoc  partem divmillimam,&  principium reliquarum partium appellarunt,  utpote qua?  huic  in  iervitium data?  lunt.  Et  quemadmodum  Deus  iple  per  potentiam  fuam, &  prulentiam  mundum  replet  univerlum,  ita  & deli-  ciae illius  Tunc  converlari  in  orbe  terrarum,  prout  liber fapientix  teftificatur. Quantumvis  autem  huc  probatione  non  indigeant, atidiatur  nihilominus  inter  tantos Manlius:   An  dubiam  cjl  habifare  Deum  fub  pectore  noflro?   In  ccelumcjuc  redire  animam . c.-doque  venire?  ia  Adhanccapitis  lublimemdignitatfem  magnam  authoritatem  tribuit  Helichius  Hierofolymitanus: ob-    Dignitas   terrena.    Principi  reverentia debetur.    I/Mi    fervans  ritum  facrum,  in  lege  veteri  celebrem, per  quem  caput vidtimu  lupra  altare  collocabatur,  nobilius corde  uftimatum,  cor  enimirafeibilis,  &con-  cupifcibilis  fons eft , itaque  non  immerito  fe  caput  a  corde  feparavit:  pofthuc  iubjungit: Non  decet  au-  tem mentem  folum  dtvidi, Jcd  efl  e velati  vinculum,  quod  ajfeSlus  nojlros  ad  fanam  rat  ionem  adjungat,  at  fe  devinciat.   Dum  de  culefli  ad  principatum  terreftrem  defeenditur,  hunc  Aigyptii  adumbrare  volendo,  caput  proponebant vel  fiilcia  regia  vel  diademate,  vel  camauro  cindtum: Porro  Artemidori  fequaces, 8c fodales,  quamvis vana  luperltirione,  liquidem  ejusmodi caput  in  lomno  cuidam  appareret,  futurum  Dominium  8c  Principatum  portendere  crediderunt.  Cum  quanta  igitur  reverentia  caput  noftrum  conli-  derandum  & honorandum eft, cum  tanta  quoque  revereri, metuere, &:  honorare  Principes  oportet,  tanquameosqui  luminaria  lunt  mundi:  lucerna?  politu lupra  candelabrum,  civitates  fandu  fupra  montes collocata?.  Imo  & ipla  omnipotentia  divina  Principibus  prophetas  fuos  viros  lapientillimos  able-  gavit, iisdemqueiplis,  per  figuras  & unigmata  locuta  eft.  Curtius  etiam, qui  tanta  de  principatu  fcriplit ,  hoc  pruceptum  dedit : 0 '0 [equio  mitigantur  imperia.   Longe  quidem  a proportione  Architebtonica,  vicinam nihilominus  in  contemplatione, a cceleftibus rebus dependentiam  rerum  terrenarum  elle,  ut  an-  tiqui ob  oculos  ponerent.  Imaginem  Serapidis  Dei  repra?fentarunt, per  quam  moles  mundi  intelligeba-  tur,  led  qua?  loco  capitis  ingentem  ca?lo  vaftitatem  portabat.  In  gratiam  quoque  Nicocreontis, Regis  Cypri  fequentes  verius  addiderunt:   Sum  Deus,  ut  difeas , talis , qualem  ipfe  docebo.   Colefiis Mundus Caput efl,  Mare venter  opacum, Terra  pedes,  aures  ver  famur  m athere fummo,  Lux  oculi, quam Solis habet jplendentis Imago, Hinc Palladem de Capite Jovis prodeuntem de Contemculo defcendille fibulati lunt: prudenter nos inftrupiatio Para-  'ehdo, cogitationes  noftras  ad  culum  lemper  dire-  d]ji.  ttas  elle  oportere, ficut  diredum  eft  caput  noftrum.   Ad  hoc  S.  Ignarius  Loyola  refpiciens  exclamabat  :   G)uhm  fordei  mihi  tellus, dum  c silum  afl>icio  ! & S.   Zenon  Epifcopus  Veronenlis: Jjhiamdiu , inquit,  Ser. de  Manytethrum  umbra  profumunt , quamdiu  fumofarum  fib.  urbium  nos  carcer  includit? Et  S.  Cyprianus  ?  fefiinemus  ingredi  in  illam  beatam  requiem.  Aliaque  iniuper  centum  millia  fidelium.  Propter  quod  &  infideles,  illi  fiimptuofiflimis  delubris  prufati  Serapidis imaginem  decorarunt:  Et  in  Alexandriavi-  lum  fuit  ejusdem  limulacrum  tam  procera?  magnitu-  dinis, ut  ambabus  manibus  duos  ponderofos  luftine-  ret  parietes  de  ligno & metallo  conftrudos  : 'Ut  ni-  hil non  complecteretur-,  lubj unxit  Valerianus,  quod  terra  vel  proferat, vel  intra  vifcera  abditum  occultavit.   Adus  naturalis,  quo  quisque  mortalium,  dum  ei  Salus  vita?,  periculum  ludionis  imminet, objeda  manu  caput  tuetur, a celebrioribus,  tSc  notioribus  terra?  Natio-  nibus pro Hieroglyphico  receptus  fuit:  unde   & Aigiptiis  lolemne  erat in  quocunque  ludu  vel  inopino cafule  capiti  devovere, per  illud  jurare,eidemq-,  fe  commendare.  Hinc  Tiberius  Gracchus  olim  fa-  lutem  populo  devovere  volens, hoc  fidiilimo  figno  in  Capitolio  comparuit.  Sic  Ariftophanes  ab  Anacarnanis  poftulabat:  Etfi  jufla  non  profatus  fuero,  manu  fupra  caput  impofita, quaque  univerfus  approbet populus.  Ipfa  adeo  portenta  ca?li  his  fuffragari   videntut ; quandoquidem  Ca?faris  ftatua?  in  templo  omnes  fulmine  de  culo  milio  in  caput  percullu, pru-  fagium  deftrudionis  Sc  ruina?  principatus  hujus  fue-  runt qua?  etiam  poft  Neronis  mortem  evenit.   Usque  adeo  Romani  olim  prudentillimum  Ale-  xandri Severi & Antonini  pii  filii  ejus  regimen  acceptum & gratum  habuerunt,  utfimulacra  tk  piduras  cum  bino  capite, fimul  invicem  jundorepru-  fentaverint.  Huc  in  annulis,  tk  monilibus  porta-  Profperita'  bantur, huc  auro  <Sc  argento  imprimebantur : pro-  Imperii.  utGruci & Macedones  in  figura  Alexandri  fecerunt:  ita  ut  matronu  illuftres  pro  ornamento, & mundo  muliebri  his  figuris,  tk monilibus  uterentur.  Huc  fuperftitio a Chryloftomo  Magno  reprobatur , inve-  hente in  illam  cum  prophetico  dicSto: Mendaces  filii  hominum  in  flateris.  Huc  bina  capita  dixerim  ego  elle  oportere,  providentiam  in  bono, 8c  prucautio-  neminmalo,  cum  axiomate  philofophiu  naturalis:   Bonum  ex  integra  caufa,  malum  ex  quocunque  de-  fieflu.  Diodorus  volens  Mufarum  lignificare  impullum, quu  videlicet  cum  fuavi  quadam  violentia.ad  fe  pQ^t2.>  Genium  attrahunt,  Caput  Fuminu  reprufentavit ,  quu  capillos  in  fronte  contortos , vel  involutos, aut  quali  per  humeros  expanfos  monftrabat.  De  his  Sulmoneniisajebat :   Efl  Deus  m nobis, agitante  calefcimus  illo:   Sedibus  othereis  (pintus  ille  venit.   Et  elevarilllma  pcnnaCommendatorisT  efti  fic  exprimebat :   A me  di  quei  lumi  IA  Infiuen  ce  cor  te  fi  Genii  inflillaro  a Cafle  mufeamico:   Si  lungo  i duo gr an  fiumi  Aufido , & Imeno  apprefi  Urattar  con  ‘Tofe a man  plettro  pudico ,   Tungi  da  rei  co (lumi   Folfi  il  pie  vergognofo,  &dove  fiorfi   Reqnar  virtude  , m amor. sto  jo  cor  fi,   Inulrimis,  vel  primis  Corinthi  viciniis  inveniebatur   olim    Liba.de  Con-  scierat. ad  Eugentum Obftinatio  in peccato,  absque  pavore peccati. Occultare  [e ad ailalcum inimici. In  Ef. \n  hifloria  S axonum.    Sui  ipfius  cuftodia.    In quodam Serm.    De  arte  amandi.    olim  caput  mulieris  usque  adeo  deforme  , & horridum, utipfe  terror,  fi  ad  fui  expreffionem, fimula-  chrum  ei  vel  imago  eligenda  fuillet,  invenire aliud  monftruofius  illo  non  potuillet.  Paufanias  vir  literatus, & Legislator  ibidem  nominatifllmus  legem  pro-  mulgavit, per  figuram  hanc,  intelligi  oportere  ima-  ginem, terroris.  Quidam  illud  imaginem  eile  Ca-  pitis Medufe  voluerunt,  Domitianus  ex  hinc  volens  quandoque  iis,  qui  fe  non  alio  oculo, quam  exterioris apparentia: intuebantur,  terrorem  incutere,  &fe  formidabilem  reddere  , caput  hoc  in  pedore  porta-  bat. Hoc  eorum  obverfandum  ellet  oculis, qui  dum  male  operantur,  divinam juftitiam  poli  tergum  fil-  um collocant.  Sed  nimium, pro  dolor ! verificatur  illud,  quodS.Bemardus  ait : Cor  durum  eft,  quod  nec  compunctione Jcinditur, nec  ' pietate  mollitur , nec  movetur  precibus, nec  minis  cedit,  exemplis  non  inducitur, beneficiis  induratur, flagellis  non  eruditur,  & ut  in  brevi  cunCti  horribilis  mali  mala compleCtar,  ipfumefl  quod  nec  Deum  timet, nec  homines  reveretur.   Obfervarunt  Aftronomi  intra  decem  gradus  Scor-  pionis afcendentis  fupra  Horizontem  Caput  quoddam omnino  deforme,  & cum  prominendis  fiuis  tortuosum,  fiipcr  hac  cavitates usque  adeo male  compositas  &inamvenas,  ut,  fi  fieri  pollet,  hac  portentosa deformitas  ipfi  adeo  cceIo  terrorem  incuteret.  Confiderando  peffimam  figni  hujus  qualitatem, &  afpedum  ejus horrificum, dixerunt profati Astronomi, ab hoc inftrudionem moralem nos deducere  polle, ut nimirum noverimus ab allaltu inimicorum pra:cavere, qui non fecus ac lignum illud in medio blanditiarum, & amplexuum,  eludunt,  decipiunt,  & opprimunt.  Pra:ceptum  politicum  eft  Principi  contra  hujusmodi  occultos  hoftes,  non  minus,  quam  contra  inimicos  exercitus  praemunitum  elle  oportere,  fi  vel  minimum  prudentis  fenfum  pofiideat. Chrytostomus  etiam  minimos  horum  adverlariorum  obfervare  moms,  eloquentia  fiua  docet: ubi  tam  in  campo  verfare  gladium, quam  in  templo  pastorali  pedum  polle  videtur.  Nihil,  inquit,  perniciofius  est, quam  hoftem  , quamvis  imbecillum  con-  temnere. Et  Vegetius  nos  inftruit: quod  adverfaruts  reconciliatus  etiam  vehementer  cavendus  fit.  Universum  hoc  etiam  de  invifibili  inimico  intelligi  poterit, qui,  juxta  Apoftolum, tanquam  Leo  vorax,  circuit  quarens  , quem  devoret.   Cum  per  natura:  legem,  ad  lui  tutelam  quisque  fe  pradervare, & defendere  poflit, idipfiun  Aigyptii  indicarunt,  cum  bina  aut  depi&a  aut  fculpta  capita  expofuerunt, virile  alterum, quod  introrfiun  lpedlabat,  alterum  muliebre,  quod  circa  exteriora  objefta  pupillam  oculorum circumgyrabat.  Horus Appollo figuras  & significationes confimiles,  usque  adeo  perfpicuas  elle  dixit,  ut  ulteriori  expofitione,  aut  externa  inferiptione  non  indigeant.  His  imagi-  nibus, cum  fuperftitiofa,  dixerim.  Religione,  prophani idolorum  cultores  Diis  infernalibus  defun-  ctorum animas  commendabant, adjundtis  literis  duabus  D.  & M.  Si  cum  hac  cautela  incederent  hi ,  qui  paffionibus  filis  in  tranfverfum  rapiuntur , & fe-  ducuntur  , non  tam  incaute  fspius  aperto  pedore  in  telahoftium,  in  globos  lediales, in  gladios  & in-  fidias  incurrerent.  Per  commune  proverbium  S.  Bernardus  nos, quantum  dodtrina  hsc  cuique  ho-  minum proficua  lit, inftruit  dum  ait: Solet  dici,  bonum  cafiellum  cuftodit,  qui  feipfum  fervat,  & ob-  fervat.  Dumque  nos  amare  docet  Ponti  Incola,  fic  ait:   Non  minus  eft  JAirtus, quam  quarere,  parta  tueri:   Cafus  ineft  illic: hic  erit  Artis  opus. Corroborat  qua:  di&a  funt  Hieroglyphicum  pru-  dentis , quod  a fapientibus  Romanis  in  fimulacro  Jani  bicipitis  figuratum  fuit : cujus  finis  erat  ut  re-  Janus,  prsfentaretur  memoriam  fidelem  confer vandam  prsteritorum , & futurorum  eventum  cum  fagacitate  prsvidendum.  Unde  juftiflima  eft,  & nonabs  Prudentia»  re , de  eodem  fubjeCto  Perfii  exclamatio :   O Janae  d tergo  quem  nulla  ciconia  pinxit.   Inde  templum  quod  Antevorta,  & Poftevorta  appel-  latum, 8c  a Romanis  cum  fingulari  judicio  apertum  fuit.  Sed  de  his  figuris  maturius  in  fecunda  parte  in-  tegri hominis  ratiocinabimur  : quod  prsfens  attinet  adhuc  illud  referendum  eft, quod  Demofthenes  in  Apudstobt*  Olyntho  ait : Non  tam  videndum  quid  in  pr&fentia  umblandiatur , quam  quid  deinceps  fit  e re  futurum.  Et  Plutarchus: Prudentia  non  corporum  fed  rerum  eft  injpeElio.  Sed  hic  le&orem  meum  primitus  ad  vivum fontem  Ediics  Ariftotelics  tranftmitto: imo  vero  advenas  perennes  gloriolillimi  DoCtoris  Ange-  lici Divi  Thoms  de  Aquino denique  ad  id  quodcun-  que pofteritati  imprellum, 8c  latiori  deferiptione  dif-  fufiim  reliquit  Comes  Emanuel  Thefaurus  in  Plfilo-  fophia  lua  morali.   Porro  ut  antiquitus, in  uno  fimul  omne  tempus  TemporsU  colligatum  reprslentarent,  prsteritum,  prsfens,  &  futurum,  inunobufto  terna  capita  figurarunt.  Sic  Hefiodi  interpres  ratiocinatur.  Inventio  hsc, prout  refert  Paufanias,  Alcamenis  eft: Et  de  Luna  Virgilius: Luna,  Tergeminamque  Hecatera,  & l^irginis  ora  Diana.   Uthsc  tempora  fedulo  dilpiciamus,  &prsvidea-  mus.  Sapiens  nos  exhortamr  dicendo  : Omnia  tem-  pus habent:  Et  hinc: Tempus  plantandi, &  tempus  evellendi  quod  plantatum  eft.  Hic  Cardo  major  eft,  ut  in  Mundo  vivere  bene  noverimus: Tempori  par-  cere, id  eft, opportunitatis  locum  expeClare,  optimi,   & prudentis  eft, fic  Marcus  Tullius  inquit.  Et  Ovid.   Dum  licet , & flant  venti  navis  eat.  Sic  vulgo  dicitur: Dum  ferrum  candet,  cudendum eft.  Sed  nimium vera  funt  qus  S.  Bernardus  inquit : N ihil pretio fi  us  tempore, fed  heu! nihil vilius hodie invenitur QUamvis  jam  & vulgo  notiffimuin  fit  , nihil-  ominus ego , ne  ab  ordine  mihi  pnelcripto, in  Principio  Oftentuum  & Prodigiorum  difcedam,  non  polium  quin  illud  tantopere  decantatum  commemo-  rem , de  quo  inprimis  mencionem  Plinius  habet: vi-  lib.  28.  c.  2,  delicet  tum  cum  prima  Romane  Urbis  fundamenta  Fundamen-  jacerentur,  in  ruinis  hifce  profundis  inventum  fuille  taRomat.  caput,  recenti  fanguine  tindhim,  conlperfum  , &  quali  diftillans,  itauta  bullo  noviter  avulfmn  credi  potuerit : quod  futura:  felicitatis  huic  urbi  omen  fuerit, pra-iagiens  eam  non  tantum Romani Imperii, sed  totius  iniuper  orbis  Caput  futuram.  Sic  enimvero  pluries, qiue  nobis  contigille  fortuito  cafii  videri  pollimc, divina  pratordinatione  diriguntur, ut  Mundus  his  moneatur,  & in  futurum  fibiprofpiciat  Variis  adeo  Altillimus  uti  mediis  confuevit,  quibus  hominem  adfevocet.  Non  cafu  quodam,  fed  ad  inftrudlio-  Vocativo  nem  & difciplinam  converfionis  olim  in  afigypto  divina,  plaga;  Pharaonis  contigerunt:  in  Rubo  flamma.   Columna  nubis,  & ignis.  Virga  prodigiofa, manus  repente leprofe.  Mons  fumigans,  & horum  fimilia.   Sed  cum  ejusmodi  portentis  non  corrigerentur,  ecce  illud  Salomonis  experientia  comprobatum  elt:  Uiro  Proverb.c.19,  qui  corripientem  dura  cervice  contemnit, repentinus  ei  fuperveniet  interitus,  & eum  fan itas non sequetur.  Propter  quo  fagacitate  opus  eft, ut  hac  prasfa-  giapoffint  intelligi:  ficut  nec  illud  Amalecits  fortuitum fuit,  cum  fceptrum , Sc  Regalem  Saulis  paludem   Regi    Prafagia.    lib.  x.  Hift,    Caput  in   tempeftate   delapfum.    Mutatio   Regiminis.    E[>.  ad  Bovil-  lum.    Unde  monstra.    1 6 Regi David,  tum quidem adhuc Duci turma:  militaris, ad pedes projecit, iedhic rurium Lectorem meum, li de hac materia eivifimi fuerit ampliora nolle, ad Davidem meum mu ficum armatum  ablego.   Bugattus  fcripto  reliquit: ante  mortem  Barnaba  Viicontis,  qua:  paucis  pcfthac  fubfecutaeft:  in  palatio  ejusdem  incendium  occepille, atque  in-  ter atra  flammarum  volumina  comoaruilie  Caput. quod  ipiiun  quoque  ardere  vilum  lit , idque  multo  temporis  (patio  non  dilparuille.  Sic  Anno  Domini  noltri  millelimo  quingentefimo  qua-  dragelimo  quinto, tum  cum  Henricus  Dux  Brun-  Ivicenlis  cum  Duce  Saxonico  belligeraret , in  civitate Argelia  exotica*  magnitudinis  grando  delap-  Li  eit , inter  hos  autem  glaciales  globos, caput  quoddam  reterens  imaginem  Saxonici  Ducis  inven-  tum eft  , a quo  poftea  Brunluicum  m'bs  & Regio  debellata  fuit.  Seducftor  lpiritus, ut  animos  ad  cultum  lui  quamtumvis  prophanum  alliceret  , de-  cidentibus calo  laxis  , jumentis  humana  voce  loquentibus  , cumque  aliis  diverlorum  generum  monltris, porro in  victimis  luis, quas  quan-  doque omnino  inter  manus  Sacrificantium  disparentes reprafentabat, non  lolum  militares  viros , fed  ipfas  adeo  matronas  ad  lacrificia, ad  Lupercalia,  ad  Ledlifternia, ad  Saturnalia, 8c ad  innumeros  ejusmodi  ritus  gentiles  currere  , Sc  properare  fecit. Unde  & in  pluribus  locis  Livius  refert,  quod  majoribus  hoftiis  placata  ftnt  Numina . De  tonitru autem  8c  fulminibus , qua  quali  quotidiano  even-  tu decidebant  Poeta  inquit :   Difc it cjuftitiam  moniti, & non  temnere  divos.  lpia  quoque  omnipotentia  Divina, quamvis  inter  candelabra  aurea,  lacerdotali  indumento  vel  podere veftita, in  labiis  Iliis  nihilominus  gladium  utraque  parte  acutum  portat : & hic  ille  ei!  de  quo  propheta  meminit : Si acuero ut  fulgur  gluti, um  meum, oS  arripuerit  judicium  manus  mea.  Utque  hunc  gladium  metuamus  Regius  Propheta  inquit : Nift  converf  fueritis  gladium  fuum  vibra-  vit , arcum  tetendit , & paravit.  Felix  qui  ex  ejusmodi  magifterio  novit  emolumentum  fuum  capere.   Dum  Galba  Provinciam  Tarraconenfem  introi-  ret , & in  vicinia  publici  fani  caput  infantis  immo-  laret, idipfum  continuo Sc  ex  improvifo  in  leni-  lem  canitiem  transmutatum  fuit  , cum infolito  circumdantium  ftupore  , unde  dc  Harufpices  de  hoc  lplo  prafagierunt, futuram  propediem  ftatus  & regiminis  mutationem; id  quod  etiam  fuble-  cutum  efl.  Non  minus  prodigiofiim  fuit  Caput  ihud, quod  pontificia  tiara  redimitum  compamit  non  modico  tempore  in  acre , circa  annum  Chri-  (fi  quingentelimum  odavum.  Relationes  Craco-  v lenies  recenfent. in  Sarmatia  Anno  Domini  mil-  lelimo  fexcentelimo  vicelimo  tertio  e flumine  Villu-  la c aquile  pilcatores  pileem  humano  capite  lpedta-  bilem.   Sagaciflima  inventio,  qua: de  manu  ingeniofif-  lima  Creatoris  procedit ! verum  enim  eft,  quod  poeta  inquit :   l^uait  m humanis  divina  potentia  rebus.   Sic  deledatur  Deus  operibus  fuis  nobiliflimis, &: pulcherrimis, contraria  omnino  producere.  Eve-  niunt monftra  vel  excellii, vel  defeclu  natura:  :  dum  vel  nimium  eft  quod  operatur , vel  dum  in toto, aut  parte  quadam  totius  deficit  j hinc eadem  pulchritudo,  juxta  fententiam  ejus,  qui  Amator  Lama:  fuit,  eo  quod  videatur  terminos  concinnitatis    excedere  , intuendo  & membrorum  proportionem  monftruola  appellata  fuit.   Oh  delle  Donne  altero, e raro  moftro !   Hinc  cum  in  domum  Xandii  introduceretur  >  atque  in  ingrellu  luo  dElopus,  hic  Carbo  animatus,  e Phrygia  usque  adeo  difformis  , <Sc  tam  prodigio-  (z  turpitudinis  appareret, univerfa  familia  conturbata  obftupuit , da  materfamilias  ingenti  vocife-  ratione virum  liium  inclamat: Unde  hoc  mihi  monftrum  attulifii? Monftruolum  appellari  con-  fueverat  ingeniiun  D.  Thoma:  Aquinatis , tanquam  quod  communes  intelligentia  humana  limites  tranli-  ret , & omnino  etiam  optimis  praftaret: vera  aquila , qua fixis  oculorum  pupillis  intendere  poterat in  lolem  illum , quem  tam  condigne  porta-  bat in peclore. Nero  monftrum  crudelitatis  nominatus fuit.  Hoc  etiam  nomine  transmutationes  vel  Metamorphoies  nominantur  : unde Ovidius  de  fororibus  Phaetontis  in  populos  arbores  transmutatis  inquit :   Affuit  huic  monftro proles  fthenclcta  Cygnus .   Sic  Gygantes  , & Pygmati  , fic  qua  pracocia  & pramatura  linit  in  homine, vel  mixtis, vel  animalibus,  vel  plantis, vel  petris, vel in  lignis,  quidquid  aut  excedit, aut  deficit  in  communi  natura curfii , monftrum , aut  monftruofum  dicitur:   Lac  praterea  nomina  fortiens : Oftentum,  Portentum, Prodigium, Miraculum.  Inde  iis  inharendo, &c concludendo  qua  lupra  jam  relata  funt,  pro  coronide  hujus  capitis  vel  capituli  referam  id  quod  Ilidorus  fcripfit : Monftrum  ita  nuncupatur, Lj^  2>  or^  quia  aliquid  futurum  monftrando  homines  moneat  \  quapropter  nonnulli  hac  ratione  dubii  monftrum  qua-  Ji  moneflrum  appellarunt, vel  quia  monendo  aliquod  myfterium  diviru  ultionis  pr.tmonftret , vel  quia  ali-  quid ftngulare  a ftngulis obfervetur, & propter  ad-  mirationem digito  monftretur.  Ipfa  adeo  Iris  in  pulchritudine  fua  prodigiofa  nos  exhortatur  ut  Factori fuo  debitas  referre  gratias  de  tot  benefadtis  erga  nos  non  definamus: quod  fi  minus  fa&um  fuerit,  intuendo  eam  ut  arcum  incurvatam,  utique de  irafeente  Deo  habemus , quod  vereamur,  cui  nunquam  deerunt  fagitta, ad  feriendos  impios,  qui  vitam  luam  male  degunt.   A.   PAgani  olim  barbaro  omnino  , fuperftitiofb,\   imo  <k  nefando  ritu  Larunda  Dea  , vel  Ma-  nia , qua  Deos  Lares  genuit, humanum  Caput  litarunt , opinati  hoc  lacrificio  nefando  penates  fuos  ab  omni  invaiione  hoftili  fecuros  fore  : qua  impietas  e medio  fublata  , dc  penitus  a Junio  Bru-  to Conlule  abolita  fuit  , qui  ftatuit  ut  in  vicem Capitum  humanorum  capita  papaverum  immola-  rentur & dedicarentur.  Hoc  cruentum  nihilominus  idololatraram  facrificium  mftru&ionem  prafefert  maxime  utilem  & moralem  patribus  familias  &:  qui-  buscunque aliis, quibus  domus  cura  concredita  eft,  ut  videlicet fe  laribus  fuis  dedicent,  mentem  fuam  dc  cogitata  fua  ad  domefticorum  & domus  totius  adifi-  cationem  & gubernaculum  dirigant-fui  &:  fuorum  in-  defeflam  follicitudinem  gerant,expenlas  cum  receptibus fuis ponderando  : tantopere  morigerati,  & disciplinatifint,  ut  nemo  habeat, quod  de  prapofte-  ro  agendi  modo  conqueratur. Ad hunc  fcopum  collimant  Doftrina  Peripatetici  noftri , in  Ethica:  ubi  ceconomica  , herilis  , familiaris, & monaatica  vita  &:  regimen  defcnbuntur.  Imo  & Apoftolus   Pau-    Regimen  domus.  Epift.  ad  Tim.  c.j.   jipud.Phaar.    Memoria  mortis  in  Conviviis.    24.   12.  Moral    Fortitudo  contra  ad-  verlitates,  & passiones.    6.  JEneid.    De  irae.  3.    Paulus  definiens  Epilcopi  boni  munera , inter  alias  virtutes  eidem  necellarias  requirit : ut  fu  a domui  bene prapofitus  Jit, jufta  illatione  inferendo, fi  quis  autem  domui  fu a praejfe  nefeit, quomodo Ecclefut  Dei  diligentiam  habebit? Sic  Prienenfis  Bias  inquit:  Optima  illa  domus  efi,  in  qua  talem  fe  proflat  Dominiis, qualem  foris  leges  cogunt.  Et  Cleobolus  apud  Diogenem: Priusquam  domo  quis  exeat,  quid  altu-  rus jit  apud  fe  perrrafiet : rurfus cum  redierit,  quid  egerit  recogitet. Et  Pythocles: Oprime  conjiituta  domus  , in  qua  fuperfuum  nihil  abundet, & necessarium  nihil  defit.   In  more  politum  Celti'  antiquitus  barbara  gens  habuit, de hoftium occiforum  corporibus  amputare capita, atque eadem  evacuata, Sc  exiccata,  tum  deinde  auro  tedla  in  conviviis  Sc  folennitatibus  proponere, iisdenique  pro  poculis, dc  patinis  uti.  Si  tantundem,  quantum  cum  luorum  hoftium  calvariis agebant  hi  barbari,  Chriitiani  quoque  inuni-  verlum  mortuorum  fuorum  capita  in  conviviis  exponerent, fi,  inquam  in  his  lautis  epularum  lolem-  nitatibus  defiindtorum  memoria  Eepius  revivifeeret, & tanquam  Ipeculum  convivantium  oculis  proponeretur, fortallis eorum  menfie  frugalius  plandtu  , quam  ebrietate  aliisque  iniuper  indecentiis, rixis  , dilcordiis  , &:  perturbationibus  inordinatis, qui  ex  ebrietatis  vitio  derivant  replerentur.  Sic  Moraliita  eos, qui  talibus  menfis  absque  omni  metu  allident  , cum lient  in  ipfo  limine  lepulchri,  vellicat  ? Jfuia  incertum  e[t, quo  loco  te  mors  ex-  pellet , tu  omni  loco  illam  expctla.  Et  Gregorius :   confiderat  quali s erit  in  morte , femper  pavidus  erit  in  operatione.   Arieti , utpote  primo  Zodiaci  figno, Sc  quod  ejusdem  caput  lit , &:  omnem  in  eo  potentiam , for-  titudinem, &:  vigorem  pollideat , antiquiores Astronomi  Caput  amgnarunt , dicendo: Eos  qui  lub  hac  conftiturione  in  trino, aut  lextili  nati  fuerint,  optime  lituatum  caput , bene  fanum, fine  doloribus, line  fluxionibus  habituros.  Sed  ego  potius  hoc  Caput  optime  flabilitum  dixerim,  quod  plenum  generofitate, & virili  fortitudine , finiltris  tortum  calibus, vel  palfionum  violentiis  contrallare  nove-  rit. Obdurandum  adverfus  urgentia, in  luis  Emblematibus exclamat  moraliflimus  Alciatus.  Dicebat Diogenes  ad  magiftrum  Ilium  fe  percutientem: Non  tantum  tibi  virium  erit  ad  me  ferien-  dum, quantum  roboris  ell  dorfo  me6  ad  fuftinen-  dum.  Et  hoc  ell  illud  unde  Aineam  fuum  animabat  Sibylla  apud  Mantuanum.   Du  ne  cede  malis , fed  contra  audent ior  ito.  Quod  vero  attinet  palfionum  vidtoriam , & clavi  Herculis , & fcuta  Atlantis  , & igides  Palladis, Ancilia  Numi , ipecula  Ubaldi  , annuli  Melilfi  , convenientes ad  hoc  allegorii  funt. De his  etiam  Bernardus  ait : Major  ejt  viEloria  hominum, quam  Angelorum : Angeli  fine  carne  vivunt  homines  in  carne triumphant.  Portentolum  erat  videre  Senecam  ( prout  ipfe  de  feiplo  refert,  dum  de  viifroria  fenfus,  & de  hominis  irafeibili  loquitur) fufpenfa  in  acre  manu,  qui  flagellum  tenebat,  cailigaturumfervum  immorigerum, dumque  in  hoc  a£tu  deprehenliis,  interrogaretur, quid  hoc  rei? relpondit : Exigo  poenas ab  Iracundo.  Ut intentiones, & affedus, & palfiones  humani exprimerentur,  a fapientibus  llatuarum,  8c  Scarlattini  Hominis  Symbolici  'Tom.  I.    fimulacrorum  ullis, una  cum  variis  corporis  &  membrorum  dilpolitionibus  inventus  fuit , quibus  vel  ftuporem,  Vel  confidentiam  , vel  amorem  , vel  odium,  aliasque  in  homine  pndominantes  qualitates figurabant.  Statuariorum  , & fymbolici  artis  peritorum  hic  gloria  eil  , e pidlis  telis  fuis,  & lapidibus Iculptis  etiam  line  voce  humana  loqui  potu-  ille.  Cum  ergo  affedlus, & commotiones  animi  ad  hominem  fpe&ent, non  fine  lingulari  defedtu, 8c  imperfectione  propoliti  operis  hujus  foret, de  his nil  meminiile, fed cum  filentio  priteriille.   Ut  cum  facilitate  & delectatione  duarum  nobis  Dolor  li-  humanarum  qualitatum  notitia  daretur , quarum  ncia  ima  non  nego, media  ell , odiofa,  8c  noxia, duo  Capita Joannes Baptilla  Porta,  nobis  videnda  demlibr.de  dit,  quorum  alterum  fixis  oculis  , & melancholico  Fort.  lit.  notis.  intuitu  terram  Ipedlabat, alterum  hilare  & jucundum cilos  intuebatur : in  horum  uno  dejectionem  animi notabat, tum  cum  curarum  ahxietate  deprimitur , & languentibus  oculis  in  terram  fixus, fe  in  hafce  tenebras  praecipitare  velle, alterum ad tranquillitatem illam gloriae alpirare de approximare videtur, quae  ell  finis  & meta  humanae  vita:  iloltra? In  altero  horum  Synterefis  culpae  recognofcitur,  qua:  Synterefis  tanq  lam  gladius  fupra  caput  Demadis  Rei  fufpenfa  in  Innocen»  rr. initatur: alterum  per  modum  Apodis  ultra  nubes  tia.  le  volam  fuo  levans  , inferiptionem  illam judiciosam  confecumm  ell: Defpicir ima.  Alterum  non  fine  ratione  dici  poterit  Cain  aliquis  fratricida  , im-  pius, perfri&ae  frontis  , & inhumanus,  alter  econ-  tra  manfuetus  Abel , plenus  tranquilitate , & amoe-  nitate vultus.  Hic  velut Democritus  femper  ridens,  prout  eum  Poeta  loquentem  introducit:   E vanita, 0 Mortali  Brufin,   Delie  miferie  voflre,   Dalle  affhte  pupille   Con  infimo  dolor  gron dare  il  pianto »   Alter  velut  Heraclitus  femper  plorans, in  antro Trophonii  fepultus,  quem  nec  menfa:  Luculli, nec  Panchaia:  amoenitas  , nec  Tempe  confolari  potient.   De  uno  eorum  ajebat  Marcus  Tullius: Ego  femper  hac  opinione  trattus  fui , ut  eum , qui  nihil  commfi-  Jn  rit , fibi nullam  poenam  timere  exiflimdrim : de  Al-  tero fapiens  ait  : fugit  impius  nemine  perfequente :   Quibus  S.  Bernardus  adjungit : Infernus  quidam , prov  lg  & carcer  an ima efi,  rea confici entia. Serm. di Porro ad eorum frangendam &: terrendam impieaijjumpt. tatem, qui non verentur detecto sarcophago, & lapide lepulchrali amoto, defunCtorum famam sub terra dilacerare, inlculpi talibus faxis MeduEe caput  iacobon  in  antiqui  voluerunt,  cujus  capilli  degenerabant  in  co-  Apo/og  de  lubros.  Prudens  enim  vero  inventum,  ex eo  quod  Z’"*  i*”*  infamis  carnificina  eil  fevire  in  corpora  mortuo-  ^on  mur'  rum,  quorum  anima:  quotidianum  implorare  fubti-  murandum dium  non  ceilant.  Cum  Larvis  non  luttandum, m°rtuiSi»   ait  Moralilla  Alciatus.  Viliffimum  pecus  leporum  ell,  qui  pedes  Leoni  mortuo  vellicant , fic  recenlet  Homerus: Non fianttum  efl  viris  interfettis  infui-  tare.  Ad  hujus  vitii  deformitatem  luculentius  de-  monftrandam  , ejusmodi  homines  Plato  canibus  aquiparat, quijatfrum  in  fe  lapidem  mordent,  cujus  hxc  verba  funt : JJ)uid  putas eos,  qui  ita  fe  gerunt,  tib.  $.  de  differre  a canibus , in  jacio  s lapides  fivienribus  , eo  Repub.  qui  jecerit pratermiffo  ?   Intellexit  ManaflesRex  , cur  fibi  videntium  no-  men propheta*  adlcifcant : Hic  enim  Ifaiam  prophetam c medio  fuflulit , confcindens vivi  corpus  ferra,   C &    CAPUT.    18   & pofthac  fe  in  forma  quinque  capitum  depingi , &  fculpi  fecit : ftulte  ratus,  /e  totum  Mentem  eile , non  pravifo  pracipitio  fuo , & infelici/lima  morte, &  condemnatione  fua.  Solet  hoc  evenire  temerarie  pra/umentibus , qui  cum  fe  omnia  nolle  arbitran-  tur , nil  omnino  norunt.  Id  palam  exprellerunt  My-  thoiogi  in  fabulis  Icari,  & Phaetontis.  Etiam  infima  fortis  hominum  hac  fententia  e 11 : eos qui  alta  con-  templantur, cadere.  Inaqualitatem  tam  Archite&onicam, quam  moralem  6c  numericam  inter  ho-  mines fuftulit  S.  Auguftinus  his  verbis  pulcherrimis :  De  Civit . Dei  Jatlantiam  tolLu, CA  erimus  pares.  Hugo  Cardina-  eap.  a.  jis  ejusmodi  progeniem  hominum  fequentibus  ver-  Lib.  de  Ani.  gls  explodit  : lnfipcns  , quid  tibi  prodejl  vana  gloria  memoria,  fi  ubi  es, torqueris , ubi  non  es,  latu  daris  ?   In  gratiam  vulgi  (quamvis  id  a multo  tempore  jam  periti  viri  , 6c  fapientes  noverint)  id  quod  fe-  Caput  Adit-  quitur  apponam: nempe  Calvaria  montem  ( lic  tm  m monte  Nauclerus  opinatur)  idcirco  appellatum  eile,  quod  Calvar  i a.  in  ea  folia,  m quam  crux  Chrifti  collocata, & in qua  cruce  Redemptor  mundi  affixus  fuit , calvaria  vel  caput  hominis  inventum  fuerit , idque  volunt  protoparentis  noftri  Adam  fuille.  Voluit  per  hoc  lapientia  divina  & infallibilis  indicare,  quod  illic  ubi  caput  hoc  condemnationis  noftra  origo  fuit,  ibi  per  merita  tam  excelli sacrificii  pofteritati  falus  exoriretur; & ubi  per  lignum  mors  vidtorio/a  in-  travit, per  lignum  delfrueretur.  De  primo  S.  Pau-  Vita  $C  Sa-  lus  inquit: Aicut  m Adam  omnes  moriuntur, ita  his  per  & inChriflo  vivificabuntur: De  lecundo  ficEccle-  Chriftura.  /ia  canit : qui  in  ligno  vincebat, in  ligno  quoque  vin-  1« Cor.  15.  ceretur:  quod  myfterium  prafatus Apostolus  Paulus optime  concludit: fattus  cjl  primus  hamo  Adam  in  animam  viventem  , noviffimus  Adam  m fpiritum  vivificantem.  Et  paulo  infra: Primus homo  de  terra  terrenus,  fecundus  homo  de  calo  caleflis.  Supra  quod  Super  hunc  j]lc{oms  ClarusUt  cum  audimus  Adam  illum  prio-  rem  factum  m animam  viventem, id  eft , ut ft  cor-  pus animale,  quod  nunc  circumferimus , confdere-  muspoferiorem  Adam  pr&flantiora  allaturum  , qua  fprritus  appellatione  vocanda  fint.  TTEroicus  non  minus, quam  utilis  & decorofus  JL  Jl  lemper  a: Hamatus  fuit  ullis  humanas  partesdno-  netis  imprimendi , ut  per  orbem  univerfum  magna-  nima gefta, heroica-  adtiohes  tran/currerent, &  aternitatem  quondam confequerentur: ftimulus  proinde  generoiis  pedtoribus  daretur  ejuscemodi  illuftribus  fadtis, unde fama nominis nunquam intermoritura nalcatur, devovere animum. Pracipue  tamen hac  gloriola  memoria  Principibus  refervata  eft.  Sic  videlicet  excellentia  figurati  magnificatur,  in  hujusmodi  fymbolis  virms  fimul  & adtio  con-  nectuntur,  ejus,  qui  in  uuoque  horum  vel  tanquam  literatus, vel  tanquam  Heros  de/udavit.  In  mone-  Clementia  C;1  quadam  area  Caput  Julii  Calaris  corona  civica  Principis,  decoratum  cernitur,  quod  clementiam  ejus  figurat:   Principibus  enim  quam  maxime  convenit  tales  erga  cives  fiios  fe  exhibere.  Hanc  clementiam  , tan-  quam praclari/Iimam  Principum  dotem  iisdem  Vopifcus  allignavit : Prima, inquit.  Dos  Impera-  torum Clementia.  Et  Diogenes  lcriptum  reliquit:  Contubernales  juflitia  fient  pietas  , cP  clementia.  His  potilfima  olim  /acrificia  Athenis  , in altari  eisdem deftinato, mactabantur. In  quibusdam  praterea  nummis  humanum  ca-  put monftrabatur  lauro  redimitum , quod  pharetram, aut  telum  in  occipitio  luo  portabat,  fronte ftellam contingens.  Per  hac  intelligi  conferva-  Pier,  lib.z  3.  toris  Apollinis  beneficium  influxum  volebant,  Hieroglyph.  (prout  Valerianus  fentit)  ftella  autem  virtutem  radiorum ejus  denotabat.  Porro  6c  caput  aliud spedabatur pelle  caprina  coopertum , habens in  faucibus luis  fulmen  , & in  occipite arcum: ex  altera  Vigilantia,  moneta  facie  imago  Pega/i  apparebat , & fagitta  alata : qua  fimulacra  mentibus  hominum  repra-  fentabant , non  folum  Principis  , fed  omnium  eti-  am eorum, qui regimini  populorum  praftituti  funt,  in  rebus  agendis , & ad  fublevandos  fubditos  inde-  feflam  celeritatem  ,& promptitudinem.  Septem  petra  quas  Alti/fimus  Zacharia  Pj;opheta  monftravit , feptem  principams  figurabant: ha infuper  /eptem  oculis  dotata  erant,  licut & virga  quajeremia  propheta  monftrata  ftiit.  Non  usque  adeo  in  exercitiis  navigationis  fua  intentus  eile  potuit  Palinurus, tum  cum  infortunia  calamitofa  temporis  imminerent, ut non  in  unico  oculi  nidhi  in  naufra-  gium inopinum  incurreret , qui  tamen  juxta  Vir-  gilium :   ....  Clavumque adfxus,  &hstrus   Nunquam  amittebat,  oculosque  fub  aflra  tenebat.  Docti/Iimus  Erizzus  oblervav  it  in  monetis  Antonini  Pii  caput  matrona  plenum  majeflatis  idque  coronatum, qua  corona  c multis  turribus  compofita  erat ,  in  limilitudinem  Dea  Opis, quam fibula  docent.  Laodicea,  Hac  figura  fortitudo , &:  propugnacula  Laodicea  civi&tis  reprafentabanmr, qua  tot  annis  impavide  hoftibus  fuis  reftitit.  Ex  altera  parte  caput  hominis  erat , quod in  occipite  caduceum  Mercurii  monftra-  bat,  per  qua  promptitudinem  obedientia  fua,  tum  & pacem, & erga  principem  fuum  fubmilfionem  denotabat.  Talem  eile  oportet  Vafallum  , juxta  mentem  Pythagora: Subditi non  tantum  morigeri  Principes,  fnr,  fed  amahtes  etiam  fuorum  magiflratuum.  Hac  &c  fubditi.  in  fe  invicem  correlativa  fiunt  patris  ad  filium  , imo  capitis  ad  membra: atque  idcirco  ( prout  Ca/Iio-  dojrus meminit) Membrum  fcqui  debet  caput. Caput  arietinis  cornibus  inligne  , per supra memoratum observatorem Jovis lignum erat apud Amonitas Gentem ferocem: cum  aries  apud  veteres  inflrumenmm  bellicum  , &c  fortitudinis  lymbolum  Cornua  infuerit. Imo vero  cornu  infigne  honoris  erat : non  /igne  ho-  uno  id  loco  Propheta  Regius  inquit: Exaltabuntur noris.  cornua  fttfii.  Exaltetur  Deus  cornu  falutis  mea.  Sic  cum  fabula  referunt  Jovem  Nutricis  Amalthaa  Abundan-  Comucopia,  omnigenis  bonis  adimplefle,  Mytho-tiadeUr-  logis  campus  apertus  eft  dicendi : abundantiam  pro-  bium  forti-  venire  , liquidem  civitates  , & regionum  limites  ficatione  cum  fumma  vigilantia  muniantur, &:  cuftodiantur.  provenit.  Hoc  ipfum  per  Numina  tutelaria  intelligitur.  Natui.  Co-   Caput  hominis  venuftum , & juvenile, mediam Mytkol,  inter  virihtatem  & adolelcentiam  praieferens  atatem, lnnumifinate exprelliim, idque corona cin- 6him, unde  ramus lauri egrediebatur, Solem  denotabat, qui  folus  inter  planetas  coronam  portat,cui  etiam  Laurus  dedicata  eft,quod  in  amoribus  Daphnes,  qua  in  Laurum  converiaefl:,veteres  indicare  voluerunt.   Idem  ipfe  Sol  per  caput  radiatum  in  medio  templi  quadrati  exprimebatur,  quali  lucidillimum  fimulacrum hoc,  per  mundi  ambitum  idcirco  volvatur, ut in gratiarum adtionem fibi debitam,  facrificia  ab  homi-  nibus, per  hoc  mundi  templum  ornati/limum  exigat.   Eadem  imago  Solis  per  faciem  juvenilem,  cui  nulla  in  mento  barba  erat, figurabatur,  tum  vero  etiam    De  Sole  Hiercglyph.    Gratiarum   actio. Philip,  i.   Victoria   pbtenta.   Hie-   rogi-    Roma  Caput Mundi.    Lib.  Hieroglyp.   Saturnus  Agricultura; Inventor.   Lib.  1.  num.  cap. Bonum  Sc  malum.    Lex  contra  Adulteros.   fparfos  habens  capillos,  duos  ab  auribus  fiiis  ferpen-  tes  pendulos  reprafentans, prout  jam  memoratus  Audior  annotavit: exponens  nil  elle  in  terrarum  orbe  tam  remotum, quo  radii  folis,  (quos  difperfi  cri-  nes referunt ) non  pertingant: Sc  quia  Sol artatis  de-  trimentum &:  caducitatem  nullam  novit, Adole-fceiltulum  eum,  & imberbem  elle  voluerunt.   Refert  itidem  Valerianus  vidifle  fe  in  numilmate,  veteri  fculptam  faciem, coronatam  radiis,  balatam infuper  manum, qua;  in acrem  levabatur  , in-  dicans prima  orientis  folis  itinera.  Tanta  erat  huic  Datori  luminum  Sc  obfervacio , Sc  miniftratio , Sc  adoratio.  Interim  gratiarum  adtio, fpeciofiflfma  Sc  acceptiflima  eft  monetarum  omnium  , qua donari poilimt  ; atque  ideo  Marcus  Tullius  ajebat:  Cui  gratia  referri  non  potefl, quanta  debetur,  habenda tamen  efl  quantam  maximam  animi  nojlri  capere pofjint.   Quandoque  Capita  monetis  imprefia,  cafus  militares cum  felici  fuccellu  terminatos  figurabant.  Sic  in  numismate  quodam  Imago  Claudii  Calaris,  juxta  mentem  prafati  Erizzi , vidloriam  illam  quam  Romani  adverfus  Barbaros  impetrarunt, ligni  ficavit.  Ad  victoriam  hanc  exprimendam, Valerianus vir  do&ffifiiuus,  caput  mulieris  alatum,  cum  capillitio  retorto  demonftrabat, allerens  fe  id-  ipfum  in  quam  plurimis  monetarum  infculptmn  obfervafle.  In  his  ipiis  idem  Caput  muliebre,  fed  coopertum  callide  apparebat: de  quo non  pauci  dixerunt, eiie  illud  effigiem  vel  imaginem  Urbis  Roma, qua;  virtute  armorum  Iliorum  Caput  Orbis  effecta  elt: ex  altera  parte  vultum  ilium  infculplit  Julius  Cadar,  fed  in  figura  Martis:  alludere  volens,  debere  originem  luam  Romanos  huic  numini  belligero. Quidam etiam  non  irrita  cogitatione  prafagierimt , Romam  Caput  fidei  Chriftiana  futuram,  ubi  Caput  Apoffolorum  Petrus  primariam  pontificiam ledem  luam  collocavit,  ubi  hac  eadem  fides  gigantea , Sc gloriola  membra  fua  extendit,  Sc  non  lecus  ac  Davidica  illa  vitis , potius  quam  illa  fabu-  lofa  Aftyagis  a mari  usque  ad  mare  extendit  propagines fitas : atque  adeo  Petrus  Petra  nominatus., eft,  immobile  Capitolii  faxum  relpiciente  Redemptore  noftro.   Inventa  lunt  moneta;  quadam, qua;  ex  una  parte  duplicem  faciem  in  cervice  una  inonft rabant : dum  ex  altera  figura  navis  cerneretut.  lineas  Vicus  di-  ligens horum  infignium  obfervator  , per binam  faciem hanc,  honores,  & facrificia  dedicata  Saturno  vult  intelligi, qui  videlicet  mortalibus  ufum  tam  agricultura, quam  plantandi, putandi, Sc.  conlervandi  vices  edocuit.  Rurluin  alii  per  hoc  intelligi  volunt  lapientem  Legislatorem, ante cujus  confpedfcum  ftare,  inquiunt,  oportet  faciem  boni  Sc  mali,  ad reprimenda damna  unius, Sc. ad  commoda alterius procuranda.  Commentati  funt  alii  per  hoc  utriusque  fortuna; , tam  profpera , quam  adver-  fantis  tanquam  fluminis  decurfum  figurari  , ut quisque  noverit , tam  per  citatos  vortices, quam  per  placatas  undas  felici  navigatione  ad  portum  fu-  nm  appellere.   De  Tenedo  Nummus  comparuit, qui  ex uno  latere  duo  capita monftravit, ex altero  lecurim,  cum  hac  circulari  inlcriptione: fccuns Tenedia:  explicatio  lemmatis  hujus, vel  proverbii  inde derivavit. Rex  Provincia;  illius  ieveriffimis  legibus,  Sc  poena  capitis  mul&abat  adulteros,  fadum  eft:  autem  ut  genuinus  ejusdem  filius  hujus criminis  reus  deprehenderetur: quidquid pro  eo  plebs  intercede-ret, ut  in  Yiiceiubusiuis  propriis  poenam  hanc  moderari dignaretur, inflexibilis  ad  hac  pater,  coram  omnium  oculis  palam  eum  pledti  capite  imperavit :   Sc  ut  hac  adtio  leveritatis  retinaculum  ellet  e ftr cena-  ta; liventia:  in populo, prafatas  monetas  elaborari  juflit , cum  pramemorata  inferiptione: Verum enim est,  quod literatiflimus  Vir  Camerarius ait:  Lib. j.  amor  urit adulte f  Relliquias  Domina,  relliquiasque  domus. Et juxta lententi am Ambrolii: Adulterium natura Lib.  r.  de  injuria  efl : Hoc  enim  etiam  feris  , ac  barbaris dete Abram, flabile.  Huic  legi  fimilis  illa fuit,  quam Seleucus  promulgavit: ut  adulteris  excavarentur  oculi: deprehenditur filius ejus,  ne  utrumque  oculum  amitteret,   Pater  pro  filio  unum  perdere  maluit.   C^Uin  quanta  devotione  proftratum  humi  non  j oporteret  efle  hominem, ad  referendas  Creatori luo  grates, qui non  folum  ei  divinum  Ipiritum  fuum  inlpiravit,  dum  animam  dedit,  non  folum  eum  de  peccati  iervitute,  fundendo  fanguinem  luum,  redemit: propter  quem  folum  cadi  fabricati  funt,  qui  in  hunc  mundum  tot  bonorum  feracem  locatus , di-  vitiis elementorum gaudet , equorum  qualitatibus  Oompolitus  eft : in  hunc  mundum, inquam,  in  tot  mixtis  ftecundilm: prater  hac  nihilominus  etiam  in  herbis,  in  arboribus,  in  frudribus  , in  foliis , Sc  in  Eloquentia  floribus, quali in  tot  voluminibus  conftitutionem  Arboriinu  humanam , conditionem  fuam , Sc  llatiim  , Sc  asiones, demotus,  Sc imaginem fuam cognoffiit. Propter quod Sc fagacillimi  indagatores, medicinas,  ad reprimenda mala fua, congrua invenerunt. Ditiffi- ma Natura, Sc provida omnino, qua signatufis etiam externis eos, qui horum scientiam habent admonet, ut in  tempore  luo  Alexipharmaca  Sc  Reper-  culliva  remedia  adhibere  malis  fuis  non  negligant,  quibus  utique  propter  Protoplafti  peccamm  lat  abimdanter  lubjicimur.  Quot  folia,  tot  lingua  filfit,  qua  cum  eloquentia  non  verborum  fed  fidiorum,  nobis  utile noftruminfinuant,  imo  bonum  noftrum,  felicitatem , Sc  commoda  noftra, Sc experientia nos docent, le oratores elle non  verbis, fed  fadlis  fce-  cundos.  Benefica  Creatoris  nollri  manus, cuique  plantarum,  Sc  herbarum  virtutem  luam  indidit : Sc in  ipfo  cortice  lignatura  fua  nobis. exprellit ea,  qua  fub  eodem  continentur.  Dixerim  ergo  ftudium  hoc  non  minus  cateris  inperfedlo.  .Botanico  utiiitafcc  plenum  elle,  ut  videlicet  in  cognitione  lignaturarum, de  quibus  didtumeft, virtutes herbarum  nolle  elaboret, Sc  ab  externis  adinterna  penetrare  fatagat.   Hic  ergo,  ubi  de  Capite  n-y  hi  fermo eft, de  harum  virtutum  nonnullis  mccindtam  mentionem  fadluriis  fum:  ut  videlicet  nec  Ledlori meo, nec libro  copia  rerum  earum  defit,  quasliic  deducere  prafiunpfi.   Primum  libi  locum  vendicat  Nux  juxta  eorum,  qui  maxime  fenfati  funt  , opinionem.  Nux  arbor  fortuna  eft, qua  quandoque  inveteratum  illiud  axioma falfiim  reddit: Nux  cjuafi nex, & nux  a riotendo: utpote  qua  cortice  fiio  utilitatem  fuam  adfert.   Hac  integram  humani  capitis  figuram  hareditavit.   In  exteriori  Sc herbofo nucis  cortice,  tota  pericranii  jqux  f]crha  forma  apparet;  in  cortice duro, parte  videlicet  ejuscura  dem  folidiore  cranium  figuramr.  In  pellicula  irtte-  qs  riore  qua  nucleum  ambit,  quis  non meningem, aut  piam  matrem  ut  cum  vulgo  loquar,  circumdantem  cerebrum, quod in nucleo repraffentatur,  cognofcat?   Non  igitur  mirum, fi decodlio corticis, aut  externi  involucri  aptiffima  tingendis  capillis  eft.  Et  quod  his  potius  eft, lal  inde  extra&us  potentiffimum  remedium eft, pro  pericranii  vulneribus. C 2r  Prouti  etiam  Phylici  docent, fiquideni nucleus contulus fuerit,  Sc  pulfui  applicitus,  Alexipharmacum  elle  adverlum  venena, & cephalalgiis mederi.  Nux  Indica  etiam  cum  magnitudine  fua  limilitudi-  nem  capitis  refert,  atque  ipiiim  pene  caput  adaquat,  unde  edam  fi  oleum  ex  eadem  extraxeris , corrigendis capiris  vitiis  Sc  defedibus  , potens medicina  eft.  Flos  pceonia:  colledhis,  Sc  intra  folia  ejusdem  admo-  dum grandia  reftrichis,  non  folum  prolatam  jfimili-  tudinem  gerit, fed  etiam  in  hilaris  luis , nili  melius  dixerim  juncturis  , qua;  eundem  reftringunt , vera quxdam  effigies  Commiilurarum  Lambdoidum, Sc  redarum,  velfagittalium  reprxfentatur: Hinc  etiam  pro  infirmitatibus  cerebri,  & radices  e jus,  & femina,  & flores,  8c  folia  cum  utilitate  adhibentur.  Serpit  Sc  in  altum  levatur  Betonica,  Sc  Stoechades,  quali  cum  rotunditate  foliorum, & floris:  diceres  per  Iulum  quendam  imitari  velle  figuram  fupra  memoratam  :  unde  nec  a medicamentis  excluduntur  , qua caput  concernunt.  Capitatum  papaver, tum  & poma  Cydonea, ficut  Sc  cucurbita  Sc  melopepones  eandem  portare  videntur  capitis  imaginem : unde  Sc  a Medicorum Schola,  inter  prxfervativa,  Sc  lenientia  adhibentur, ad capitis  dolores  mitigandos.  Inter  alias  Anrirrhinonfylveftre,  <Sc  quod  flore  fuo,  Sc  femine  calvariam  humanam prxfefert, prxftantiffimum  propulfandis  capitis  doloribus  medicamen  elle  com-  pertum eft.  Sic  verum  illud , quod cenfet  Ofvaldus  Crollius,  Magnam  illam  Matrem Naturam, lemper  ad  fer  virium  noftrum  applicatam,  lemper  beneficam ignaturii  elle.  Omne , quod  occultum  ejl , inquit,  & intnnfe -  u.  cum , fert  illius  extrinficam figuram, tam in  finfibi-  libus  quam  infenfibihbus  creaturis : tacentibus  nobis  loquitur  vel  uti  quibusdam  natura , ac  ingenium  cuj  us-  que & mores  revelat.  Quas  igitur  gratiarum  adiones, quam  gratimdinem  referet  homo  huic  dextera:  Dei  altiflimx, qua  terram  dedit filiis hominum, prout  Regius pfalmifta  canit?  SUblimillimus, utililTimus, Sc  generofiffimus  fcopus,  ad  quem  mortalium  genus  in  omni  tempore £c in  omni  acate  potiflimiim  colliniavit  Religio  Religio in  est.  Sapienter  enim  de  calo  eunda  nobis  provenire  quanta  apud  le ftatuerunt, propter  quod  Sc  voca  diis  fuis  vo-  arftimatio-verunt, vidimas immolarunt,  Sc  facrificia  obtulene  fit  habiriint.  In  iplis  adeo  primordiis  feculi  hoc  Reges  Phari  ta.  demonftrarunt, qui  pyramidibus  eredis,  in  quibus   Hieroglyphica  fculpta erant,  numinibus  fuis  memoriam beneficiorum  acceptorum  infcriplerunt : Sc quamvis  illis  fupremi  Entis, hoc  eft  DEI,  notitia  nul-  la eilet , in  immolandis  nihilominus  vidimis  fuis  veraci  pietate  quadam  non  caruerunt , Sc  compoli-  tione  precum  fuarum  uli  funt.  Elevatillima  hxc  virtus eft,  fienim  a fine fuo  fpecificantur  adiones  no-  ftrx,  hxc  pro  fcopofuo  cultum  habet  alti/limi  Dei :  Etich.  4 Magnifica  fiunt , ficut  & honorabiles  , qua deorum caufia fiunt dedicationes, feribebat Philosophus. De honore illis debito, ipfam pene elevatiflimam sapientiam xmulando, dodilnmc scripferunt, non inter ultimos, sed primos numerandi  philofophi,  Linus,  Orpheus,  Tales  , Mufxus , quos  Zoroafter  ftella-  rum  omnium  indagator  inter  Deos  adorabiles  annumeravit.   Ve  lfid e & Sic  Aigyptii, prout  Plutarchus  Sc  Diodorus  voojuule.  lLlnt , res  eximias,  Sc  negocia  ponderis  magni,  monumenta templorum  , icripturarum  interpretatio-  nes, prxmia,  Sc  muldas, adferibi  facerdotibus,  per  eosdem  gubernari , tradari,  dividi,  & concludi  voluerunt: Denique,  prout  M.  Tullius  inquit , omnes  6.  Aci . in  religione  moventur  , & deos  patrios, quos  a majori-  Verrem,  bus  acceperunt, colendos  fibi  diligenter, & retinendos arbitrantur.  Unde  Sc  ego  in  horum  confidera-  tione,  opus  hoc meum, Sc obtufum,  Sc  lumine  fuo  deftitutum  arbitrarer, nifi de facriflciis quoque, Sc dedicationibus, (quamvis eorum milii pauca admodum occurrant) nonnihil etiam afferam, de iis videlicet, qua: pro cultu numinum de partibus humani corporis fada funt. Jovi itaque, tanquam Cadorum  Capiti,  quidam  Caput  de-  antiquitus  Caput  obtulerunt:  arbitrantes,  quod  ficut  dicatum  fub  illo  (de  quo  Lucretius  inquit  : fupner  efi  quod-  Jovi.  cumque  vides, quocunque  moveris) extera  Deorum  turba verfatur , fica Capite  extera  quoque  membra  dependere: opinio , quam  ita  fixam  elle  oportet  in  iis,  qui  Deum  adorant, ficut ei  lubftantialeeft,  rationalem elle.  Jjfua  Dii  vocant, eundem,  lic  vociferantur non  Chriftianorum, fed  paganorum  lcholx.   Ita  vero  Sc  verba  Senecx  in  hunc  lenium  mordacia  Sc  pungentia  funt,  qux  prxterire  nequeo,  dum  de  penna  gentili  volatum  Chriftiani  adverto.  Prope  Deus  efi:  tecum  efi,  intus  efi  : Ita  dico  Lucili : fiacer inter  nos  Seneca  ad  fur  itus  fidet, bonorum  , malorumque  nofborum  ob-  Lucilium,  fervat or , & cufios : hic  prout  a nobis  tr ablatus  efi,  ita  nos  ipfie  trabi  at.  Bonus  vero  vir  fine  Deo  nemo  efi.   Quidam  intuendo  in  circulum  folis,  dum  nubibus  fuis  cindtus,  fele  hominum  afpedui  videndum  prx-  bet, Sc  in  eodem  fimilitudinem  capiris  figurantes  (a quo  etiam , tanquam  a capite, fonte, Sc  origine  Caput  dequadam  omne  bonum  noftrum  derivare  non  cellet)  dicatum  habere  eum  itidem  in  generatione  hominum  partem  Soli,  principalem,  juxta  illud:  Sol  & homo  generant  homi-  nem: illi  vota  fua  folverunt , Sc prxfatam  majorem  partem  caput  nimirum  fub  dominio  ipfius  colloca-  runt. Quanto  potius  igitur, Sc  quanto  utilius  Anima  Chriftiana  fe  Redemptori  fuo  devovet: qui  Solem  Chriftus  fiuum  oriri  facit  fuper  bonos  & malos: prout inquit  Sol.  Apoftolus?  Hic  verus  foleft,  de  quo  propheta  Ma-  Malachias.  lachias  inquit: Orietur  vobis  timentibus  nomen  meum  Sol juJhtia: Atque  idcirco  huic  fupremo  foli  noftro  plus  quam  Achxi, plus quam  habitatores  Heliopo-  leos,  plus  quam  Arcades  (de  quibus  Pomponius,  Sc  Melas,  Sc  Suidas,  Lactantius  , & Macrobius  Sc alii  meminerunt)  oportet  ut  Chriftiani  laetificemus, dedicemus non  tantum  caput, fed  Sc  corda  noftra.  In  hunc  modum  Gloriofiflimus  inter  Sandos  Antonius  S.  Antonius  Patavienfis  feripto  reliquit : Sol  eft  Chriftus,  qui  In-  Patavienfis.  cem  inhabitat  inacccjfibilem: cujus  claritas  omnium  Sanbtorum  radiolos,  fi  ei  comparentur , obfufiat, & In  Apocal.  denigrat,  fifihua  non  eft  Sanblus, ut  efi  Dominus.  Confiderando  virtutem  Sc  potentiam  Arietis,  quippe  qux  in  ejusdem  capite  lita  eft ; (Etenim fi  hanc  partem  exceperis,  non  habet  unde  le  defendat, vel  offendere  pollit) Cum prxterea  lignorum  Zodiaci  Caput  caput  lit : ubi  fol , pro  communi  Mathematicorum  arietis.   Sc  Aftronomorum  lententia, curfum  anni  novi  orditur: fapienter  ftatuerunt  hunc  parti  illi  hominum ,  capiti  nimirum  patrocinari.  Propter  quod  fub  fe-  lici hujus conftel latione  natos  , immunes  a fluxionibus, abfceflibus, catharris,  epilepfiis,  & horum limilibus  futuros  ominantur: ficut contrarium  evenire iis,  qui  eam  male  pofitam  Sc  fituatam,  fub orientis porta invenerint.  Hic  ego  dixerim  imitandum  Refiften-  nobis  hoc  animal  elle,  ut  videlicet  opprefllonibus,  Sc  dum  Infor-  infortuniis  fortiter  refiftamus.  Melius  enim  Nau-  mnils  cleri peritia  patet,  ubi  fludus, Sc ferocitas  tempestatis defxviunt.  Spetlaculum  fove  dignum, in Seneca,  quit  Seneca, videre  hominem  in  affiibhonibus  pofi-  tum.  Reftitit  magnanimi  ter  his  fortunx  liniftrx  cafibus  Propheta  Regius,  dum  inquiebat:  Impulfus,  everfus  fum  ut  caderem: Dominus autem fufcepit  me.  Memoriam  immortalem  nominis  lui  pofteritatitransmii erunt,  ambuftamanu,  Scavola , Cocles  fupra  pontem  , Curtius  in  voragine, Gracchi,  Meffalla,  8c  Corvini  ciun  hoftibus  conflictati : & Ana-  xarcus, contufus  & contritus ab  Anacreonte  Tyranno , tum  cum  ajebat: tundite  Anaxarcum  Ji-  dera  celfa  petit.  Bonum  e it  limilem  eile  Lima, de  qua  fcriptum  : Oppojita  Clarior : aut  vero  flumini,  de  quo  illud  refertur  : Quanto  pia  fi  rattien, vie pias  smgroffa.  Ita  lilium  inter  Ipinas: magis  redolet : & rofa  odorem  fuum  fpargir: Oppojitis  fra-  grant ior.  Non  minus  quoque  Palma  de  leipfa  loquens  introducitur: adverfum  pondera  furgo.  Sub lus  oppreflionibus  vegetiores  & firmiores in  perlecutione  Algyptiaca  apparebant  Hebrai : unde  in  fcripturis  divinis  relatum  eit : Quanto  opprimebat  eos, tanto  magis  multiplicabantur  , & crefcebant. Ita Seneca in Hercule  luo  furente  ait:   Seneca.  HuSjepuam flygias fertur  ad  undas   Inclita  virtus.  yiv ite  fortes.   Hac  JLethaos fitva per amnes  Hos Fata trahent. Sed cum fummas Exiget auras confumpta dies, Iter ad superos gloria pandet.  confcendendum  decorofum gloria clivum ,  & vidorem fele demonftrandum, & ad  jubilandum in excellis honorum faftigiis, in quibus (olis  aeternitatem  jfiuna  adipilcitur  homo,  feverifSmi  Hiftoria.  Duces  fuerunt  femper  viri  illuftres  heroicis  adionibus  fuis  inclyti, qui virtutiun, & meritorum  fiuorum  alis innixi, illuc  nobis  iter  ftraverunt,  & callasapplanarunt: Qui plus quam Atlantis  fcutum,de  nebulosis ignorantias  tenebris nos expediendo,  iicut Dii Terminii in triviis difficillimarum ambagum redtum nobis tramitem demonftrarant. Fuerunt hi veraces  Ariadnae,  qui Theleis in labyrintho dubiofo difficultatum intricatis felicem exitum edocuerunt. Hoc ipfiim Imperator Leo, tanquam feveriflimum praJlpud BeiercePami dedit  filio  fuo.  Eu per hiflorias veteres ire ne linch. Iit, h. recufa ibi reperies [me labore, qua alii cum labore Utftor. collegerunt. Magna utilitas, magna securitas, nolle viam ingredi, cujus  terminus  gloriofus  iit,  qua nullis  fit  prasdonibus  infefta, nullis occupata monftris, non anceps,  non  periculofa,  fed  direda,  amoenitate,  &  fecuritate  plena.   Inter  Heroes  fiapientiffimi,  dum  non  ignorarent,  non  minus  Mundo  proflituras  eilhiftorias, quam  ipfa  armorum  gefta,  e Belliducibus fadi  Hiftoriographi,  depolito  gladio,  pennam  arripuerunt , &  chartas  atramento  tinxerunt : atque  illic  certo  quo-  dam modo torrentibus  fanguinis  inundare  campos  fecerunt.  Sic  vidorias  Luas  defcripferunt  Moyies,  Jofue,  Gedeon,  Neemias,  David,  Salomon,  Job.  Ipfa  adeo  divina  omnipotentia  in  habitu  feriba  appa-  ruiile  videtur,  tum, cum  eum  Ezechiel propheta libi  Deus  in  ha-  vifumeileteftatuseft:  Ve[ itum  lineis , & atramen-  bitu  feriba.  tanum  ad  renes  ejus.  T entet  quantum  volet  nos  in  pulverem  redigere  edax  rerum  tempus  , coniumat ipia  marmora,  &c  celiiffimas  rupes  cum  profundiili-  mis  vallibus  adasquet,  & in  nihilum  deducat: Hifto-  ria  nihilominus  has  moles  renovatura  eft,  8c  rurfum  humi  ftrata  fublimabit : redintegrabit  in  memoriis  geftorum  hominem,quamvis  jam  corruptum,  quamvis corrofiim,  abolitum.  Idcirco  Sc  ego  nonpof-  fum  quin  hic  reiterem  verba  Tullii,  jam  alibi  memo-  Ve  Orat.  rata : nimirum  quod  : Hiflona  ej}  tejlis  temporum,    lux  veritatis, vita memoria , magiflra  vita.  Hoc  ipfiim  ego  mecum  ponderans,  ubicunque  ratio  po-  ftulaverit , tam  in  partium  hominis , quam  in  to-  tius delcriptione  capitulum fadurus  fiuin proprium:  non  tamen  eousque  in  longum  evagabor,  ut  qua:  po-  tiorafimt  lilentio  pratereantun   Fuit  inter  Scythas  olim  gens,  qua’  ficut  a communi  Caput  lon-  hominum  genere  & climate  fuo  , & vivendi  medio  gum.  do,  «Sc  moribus diftabat,ita & fingulare deledamen-  tum  habebat , ipfa  quoque  membrorum  conftituti-  one  & figura  corporis  dilcrepare.  C)b  quod  etiam  ciun  inter  eos  infans  natus  eiiet,  prehendebat  utraq-,  manu  nutrix  tenelli  caput , idque  fortiter  premen-  do in longitudinem  ludum  figurabat; ik  ne  in  pristinum  ftatum  luiun  feniim  dehiberetur  , ik  rurium  fe  contraheret , linteaminibus , & falcibus  111  eadem forma  conftridum  confervabat.  Hic  ufus  Hipp.de  Aert  pofthac, &hoc artificium,  beneficio  temporum,  &c  Au.toc.  statum  in  naturam  degeneravit: ex  hinc  proverbium quoddam  exortum  eft,  ut  liquando  in  ejusmodi  formato  oblongo  capite  compareret  homo, continuo reperiebantur  qui  dicerent: oportet hunc  Ma-  crocephalum  Scytham  efle.  Sic  enim  vero  apud  hanc  gentem,  qui  produceret,  prolongaretque  frontem  luam,  & majoris  animi , &|generoiioris, tum  etiam  majoris  virtutis  credebatur. Subjungit  igitur  Au-  thor  ille: Hunc non  tam  Longis  amplius  capitibus  najcuntur , quemadmodum  prius, lege  per  incuriam  hominum  non  amplius  durante.   Pericles  grandis  ille  Orator,  &. Miles,  qui  virtute  armorum  fiiorum , 8c  literarum, tam vicinas quam  longe  dillitas  iibi  lubjugavit  provincias: qui  vibrante gladio  luo  ejaculari  fulmina  videbatur,  fed  non  minus  etiam  perorando,  fulgur  jaciebat  ex  oculis.   De  hoc  memoria  eft , eum  usqueadeo  oblongum  habuilie  caput, ut  intuitu  reliquarum  corporis  par-  tium lymmetriam  omnes  excederet,  8c  deformita-  tatem  incurreret : unde  etiam  fadhim , ut  ubicunque  ftatua  ejus  eredfca  ellent , aut  pileo  quodam, aut  callida:  tedta  viderentur  , ne  vitium  illud  capitis  ( lic  ajunt ) fpedtantium oculis  patefeeret.  Hac  igitur  corporis  torma , otiolis  Sc  malevolis  garrien-  di caulam  luggellit: unde 6c  Poeta’  Athenienfes,  &  reliqui  contra  eum  liniftre  aftedti,  propter  eandem  Plutarch,  in  capitis  amplitudinem  per  detradbionem  latyricam  Pertch  eum  Schinocephalmn  appellabant.  T eleclides item  faceta  quadam  ironia  illudendo  ei  (in  quo  nihilomi-  nus a vero  non  aberrabat)  eum  capite  gravatum  le-  dere  dixit,  cum  tot  negotiis  pra’gravatum  lupporta-  re  v ix  pollet.  Detradbor  ille  interim  hoc  alio  reberei is, eum  111  opem  confilii,&  parcum  lagacitate  intelligi  voluit.   Sic  enimvero  in  omni  atate  critica  vafrities  fagit-  tas  fuas  vibravit: in  hoc  loco  autem  pro  fcopo  fuo  fi.  Detradtio.  bi  elegit  virum  inter  heroes  , non  tantum  fui , led  & fecuiorum  praueritoruin  , aque ac  venturorum  pralbantillimum.  Videant  igitur, qui  regimini  Reipublica  praiunt  cum  quanta  libi  cautela  agen-  dum lit , ii  ik  vitia  corporis  ik  natura  iri  cenfuram  cadunt , ubi  nullum  nec  meritum  nec  demeri-  tum eft: quid  cum  iis  luturum  erit , qui aut  fpon-  Cautela  tanea  mente , aut  incuria  quadam , in  damnum  ple-  pro  mini-  bis  peccaverint? Lucerna, qua:  ad  illuftrandum  ex-  ftris  pubi  polita  lunt  , ventorum  datu  agitantur: iple  adeo  cis.  loiincurfu  oblervatores  habet  j Phenomena,  qua  vitia  natura  lunt,  curiolius  examinantur.  Quin  &c  arundines  Midam  habere  aures  afininas  loquuntur.   Progreditur  hac  cenluracnuca adcolum  usque,  &  ad  iputa  decrepitarum  vetularum, dum fila  lua  de  fuio  trahunt.  Sonat  fchola  Magni  Stagyrita,  quod :   C 3 parvus  error  m principi eribus  c(l prafentia  mala  in  lingua  habere,    Jnfita  ob-    Thcatr.  viu  hum.    fit  maximus.   leilatio  mulio   lic  de  cythara  fua nos Euripides  docet.  Non  eft  aura  peftiientior  alia,  qua’ totius  amicitia  campum  infectat, & venuftiffimos  Ipei  flores  marcidos  reddit, pro-  Vuguftinus  ait.  Detratlio  e(l  venenum  ami-  DicebatTeleclides  memoratus  decitato  Heroe: de  hoc  capite  cndcc  ahno, hoc  cft  fefquipedali,  magnum  oriturum  efle  tumultum.   Refert  Suidas  de  Philocle,  Nepote  vEfchyli  (hic  autem nefcio,  ii  textus mendofus non  eft. humicum  ponens,  pro Comico) qui  caput  oblongum  habebat,  Caput  upu-  & criftauum  infimilitudinem  upupa: unde Halmion,  uaii  falinator, vel  acrimonia  diCtus  fuit:  deduCta  'talle  comparatione  & Metaphora  ab  ave  illa  foli-  taria&  foetente.  Annales  Sarracenorum  recenlent,  Mahomethum  Legiflatorem, & primum Turearum Imperatorem, Caput habui Ile enormiter magnum,  & faciem intermixtam colore rufo, & albo. Indecens tinCtura, ubi anima  tantopere  nigra  erat, qua: tot animarum ruina & jam antehac  fuit,  &eft  hodie-  dum,  Sc  deinceps  futura  erit:  & in hoc  cranio  tam  fpatiolo,  tanquam  in  aula  vacua  liberum  fuit  fpiritui  rebelli  pro  voluntate  fua  incedere  quippe  qui  illic  habitaculum fuum  fixerat: poterat  illic  pro  libitu  luo  extendere  figuras,  & formas  iiiiquilTimarum  legum  luarum,  quas  ad  Catholica:  veritatis  exterminium  ex-  cudere, & promulgare  aulus  eft.  Verus  Goliath  corde  non  corpore,  qui  ab  innocentc  paftorculo  humi proftratus  eft.  Ubi  virtus  AlciHimi  opifex  eft,  illic c formicibus  prodeunt  veri  Myrmidones,  qui  me-  tuendos alioquin  orbis  domitores  defedelua  deturbare norunt.   Berlinchius  vir  doCtiffimus  refert:  non  paucis  abhinc annis  in  Belgia:  urbibus , oftentui  publico  cir-  cumlatum fuille infantem , gracili  omnino,  & fubtiliffimo  corpore,  led  capite  usque  adeo  infigniter  ma-  gno , ut  amplitudinem  vafis, ad  menfuram  modii  usque  capacis,  ada:quaret , vix  puer  ille  aratis  fute   annum  unum  expleverat.  Illud  ipfum  caput  ad  fimilitudinem  fluxus  & refluxusm aris,  jam  intumefee-bat,  jam  rurfus  comprimebatur:  dum  ab  intro  fub-  tus  membranas  humor  aqueus  dii  currere,  inflari,  8c  elevari  videbatur.  Monftmm  prodigiofum:  Cc  quia  a coniueto  natura:  curfu  exorbitavit, in detecftu  luo  Spes  vana,  propediem  collapfum  eft.  Sic  & vitam  ephemerem  habent  fpes  capitis  noftri, quae  inconftanti  viciffitudine,  non  fecus  ac  decrefcens  acfuccrelcens  Oceanus, periodis  luis  nunc  extollitur, nunc procidit.  Alludebat  adipes  Capitis  noftri  eloquentiillma  mula  Commendatoris  Teftii:   VagaSoondo  p en f iero   Dove  v.u, Cr  d’onde  torni, e che pretendi?  ui fu tale leggiero Ora parti, ora torni,  orpoggi,  or  fcendi:   Et  nel  tuo  moto  c terno Sei lijjion  dc  tamorofo  inferno.   Sic  illud  velificatur,  quod: Spes  temeraria  ple-  rumejue  homines  fallit.  Sicut  Euripides  ajebat.  Pindarus vigilantium  fomma  ha:c  nominabat.  Etiam  vicinus  eft  naufragio,  qui  navem  luam  ad  Caput  bona  fpei  dirigit.   Non  minus  curiofa,  quam  faceta  erat  inter  antiquos conliietudo,  qua  Athenienllum  quaque  domus  utebatur  : qua:  de  Gimcia  etiam  fuccellu  tempor  um  Romam  usque  migravit: videlicet  tum  cum  ad  patronos fuos  primum  ingrederentur  mancipia,  ierv  itura. Ut  enim  eos  vel  ad servitutem animarent,  vellit, orumone-  fubjedtionis, & onerum  qua:  portanda  ellent,  memiraium.  mllent,eorum  capicadiverli  generis  & farmentis , &    Apud  Stobe-  um  ibi.    Caput  fer-    fruCtibus , Sc  nucibus , & beta , &c  caftaneis,  & leguminibus aliisque  inluper  rebus  onerabant: quos  cum  poftea  lic  oneratos  per  univerfam  domum  traduxif-  lent,  Ik  in  cubile  eorum  pervenillent, onus illud in pavimentum  cadere  linebant,  idque  catachyfmum  nominabant,  hoc  eft  effufionem,  profimdendo  id  quod  in  capite  gellerant; hocque  illis  poftea  pro  mercede  erat,quamdiu  in  eadem  domo  morabantur.  Un-  de Demas  cum  Siro  luo  rurliim  reconciliatus  illic  in  Terentio  ajebat.   Huc  ad  me  Sire, ut  tibi  caput  demulceam:   Perfundere  unguento  frudi  ib  m.   Hxc  ceremc^ia  pro  ligno  abundantia:  annualis  ha-  bebatur. Hujus  conluetudinis  Theopompus  taliter  Qe[  c.c.c,,  meminit: Verlificatores,  vel  poeta:  pra’miabantur,  antiq,  leclion.  imo  vero  delibuti  &c  uncti  unguentis variis: lic  &c  ex  Suida.  matrona:  civitatis  Segefta:,  tum  cum  Diana:  flmula-  chrum  pro  more  portaretur,  redimire  caput  iuum  co-  rona de  diveriis  floribus  contexta, variisque  un-  Cicero  in  Ar-  guentis delibuta  confue verant,  atque  ita  exornatae  virone-  cos & compita  transibant,  idolum  fuum  profequen-  tes.  Hinc  Themiftii  pater  ut  Epicurum,  quamvis  falso, percelleret , inculans  eum  lenluali  voluptati  datum  efle  ( de quo ne  fomniare  quidem  ei  in  mentem venit,  qui  voluptatem  nullam  ftabilemnili  in-  telleCfus,  & animi  agnovit ) vas  ei  unguentarium  lupra  caput  effudit, fragranda  odoris  eum  tingens:  volens  per  h.ec  mollitiem  ejus  vellicare,  qui  tamen  lemper  durum  ik  inflexibilem,  adverfus  delectamenta  fenluum  fe  praebuit.   De  hoc  ulu  fortalle  Novendiales  ceremonia  deri-  vata: lunt , in  quibus  , prout  Athenaeus  reccnlet  ex  Gellio, novem  continuatis  diebus , patresfamilias  fttccindti  mantilibus , manicisque  replicatis, accum-  bere fervos  fuos  facieb.int , illisque  fervidum  pra:be-  bant , illorum  fe  imperio  iubjicientes.  Quid  plura  ? Pes  Pra Spes  prtemii  vigorofillimum  calcar  eft  ad  quod  vis  mn*  lub jugale  ammafetiam  tardillimum incitandum.  Id  quod  ipfe  quoque  Altiflimus  iape  in  ele&is  luis  prae-  fluit, dum  iis  gloria  fua  portas  referavit: prout  patriarcha  Jacob, &c Stephano  contigit.  Pro-  pheta regius  vir  optimus,per  hoc  le lingulariter  ad  bene operandum pelleCtum  elle fatetur: Inclrnavicor  meum  ad  faciendas  juftific  at  iones  tuas  propter  retribu-  tionem. Veritatem  hanc  inter  alios  Marcus  T ullius agnovit,  dum  ajebat:  Ncc  domus, nec  refp.  fare  De  natura  poffunt, fi  in  ea  nec  rette  fadtis pramia  extent  ulla,  nec  ^>eorum.  fupplicia  peccatis.  Nec  tantum  in  uis  fatyris  Juvena-  lis ablorptus  fuit, ut non  renumerationi  locum  luum  tribueret.  enim,  inquit,  virtutem  am-  Satyr.  io plettitur, ipfa  pr&mia  fi  tollas? Non  veretur  carduelis quamvis  fubtilillimo  pede  luo  hirfutas  cardui  fpinas  calcare  tk  premere, cum  Iperet  ex  ejusdem  femine  le  cibandum.   Exponebant  fe  olim  durilHmis  & periculofilE-  mis  confliCtibus  viri  bellatores,  dum  ob  oculos  libi  ponerent , ftmplices  lauros , & quercuum  frondes:  certam  enim  nominis  lui  libi  immortalitatem  ex  vi-  ridantibus his, &  perennibus  foliis  Ipondebant.  Incertis fluCtibus  maris, Sc  infeftationibus  piratarum  fe  committit  de  litore  luo  procul  navigans  ratis,quia  portum  fuum  libi  promittit.  Cum  fudore  vultus  lui, infatigabilis  arator  glebas  kindit, eo quod in tempore fascundam meilem libi de labore liio futuram augurat: denique  lic  ait  Ponti  infelix  in-  P Trt'  cola;  ftdus  Eleg.  ij.   Non  parvas  animo  dat  gloria  vires:   Et  facunda  facit  pcdlora  laudis  Nmor.   Hac  fpealleCtus  Pallas  Spartanus  (referente Pau- In  pbocitu,  fima)  ferociter  dimicabat,  ik  jam  corde  fixum  tenebat, Tarentum  urbem  tum  quidem  ditiilimam,  omnique  genere  abundantia, ii  ullla  alia  illuftrem  expugnare: fed  fpe  fua  delufus  e fi;,  dum  non  minori  valore  & animoiitate  exercitus  ejus  a loci  incolis  Civitas  au-  propulfatus  & proftratus  eft.  Hic  aliquando  mcefti-  gurio  capta,  da  & dolore  plenus,  mfmus  uxoris  fuce  (cui  nomen dEthra)  caput  inclinaverat , quod  illa  pedhne  mun-  dabat, tum  cum  ille  amarillime  fleret,  memoria  repetens  qure  perdidillet: junxit  illa  lacrymas  fuas,  quas  calidas  deftillabat  incumbentis  caput.  Tumenim-  vero  in  memoriam  ei  rediit,  quod  ab  oraculo  quon-  dam audierat,  futurum  ut  civitatis  & campefttium,  potiretur,  fiqtiidem  ei  ab  Afthra  iiiper  caput  pluvia  decidiilet : fufcepit  augurium , colledisque  rurfiim  ordinibus , nova  vi  aggreifus,  & extrema  aufus,  muros & urbem  usque  adeo  in  anguftias  compulit , ut paucis  eam  diebus  ditioni  fuce  liibjecerit.   O fi  Chriftiani  noftri  & mentem , & aures  ad  ora-  culum fuurn  adverterent, dum ad  corda  eorum  pul-  fat,  plantarent  utique  vidoriofum  vexillum  fuurn  in  civitate  illa  fanda,  quce  utique  dc  ipfa  vim  patitur,  Infpirado  quam  violenti  rapiunt.  Hoc  pundum  tale  eft,  divina.  ut  concionem  integram  mereretur  : fed cum  id  jam  inldtuu  mei  non  fit, nec  hic  fitfeopus  meus  preeeipuus,  ad  paucas  admodum,  & fuccindas  me  reflexi-  ones reftringo.  Idfolum  referam,  quod  de  Diledo in  Cantico Canticorum  recenfetur, qui  ad  portam  anima;  fanda;  pullando  ftabat, dum illa  pigritando  veftimenta  fua  inquirebat;  cum  vera  jam  compofita  eflet, prompta  voluntate  exiit,  fed:  ille  declinaverat.  Ruina  totius  Hierofolyma;  qua:  Salvatori  noftro  lacrymas extorlit,  aliunde  non  contigit,  teftante  ipfo  Redemptore,  quam:  quod  non  cognoverit  tempus  vifitatioms  fua.  Homo  nonnunquam  iplis  infenlibilibus  rebus  infenlibilior  eft.  De  rofa  feribitur: Dejlafi a/lojpuntar  dei, primo  raggio: hoc  eft: ad primum  Solis  radium  excitatur: & Claudianus  de  magnete  Claud.: Arcanis  trahi  tur  pemma  de  conjuge  nodis. De  magnete.  Ad  primum  Auftri  flatum  Laurus  germinat: ipfa aftra  influentiis  filis  loquuntur.  Unde  laudabiliter  ab  homine  fieret,  fi  quandoque  internis  commotionibus, quibus  ad  bonum  incitatur  , locum  daret :  haenim f unt illa  memorata  pluvia  y£thra.  Loque-  batui  ut  Poeta,  nihilominus  ut  Chriftianus  Com-  mendator Teftius , quando  Matdiaiun  Sacchettum  fic  affari  voluit:   puelle,  Matteo, che  miri   Entro  al  opaco  velo   Dela  notte  brillar  faci  fuper  ne,   E che in  perpetui  giri  Parte  fiampan  nel  Cielo  Con  lumino fo  pie  flrade  et  er  ne.   Parte  a lialtri  Zaffiri   Del  firmamento  immobilmente  inferte,   Han  piuflabde  ardor ,fedi piu  certe:   Otiofe  pitture ,   Stampe  in  utili  d’oro   Non  fion, qual fe  le  crede  il  volgo  in  fano,   Piove  da  raggi  loro   Jfhtagiu.  t ’ lnfluffi  omnipotente  mano. Denique  quam  bonum  eft  imitari  exemplum  Apoftolorum  Andrea  & Petri,  qui  unica  hac  Redempto-  ris & fimplici  voce  : Venite  pofi  me, factam vos  fieri  pifcatores  hominum, relittis  retibus  fecmi fiunt  Do-  S.  Grego-  minum.  Supra  quod  S.  Gregorius  inquit : nulla  eum  rius.  fecijfe  miracula  viderant, nihil  abeo  de  pr&mio  at  er  na.   retributionis  audierant, & tamen ad unum  Domini  praceptum  fecuti  fiunt  eum.    2?   Salutatio  vita'  civilis  &r  politica  fundamentum  eft:  hac  omnium  negotiorum,  hac  commerciorum  & tractatuum  pofta  eft.  Hac  vitam  focialem  mfti  -  tuit,  &ioiidat.  Cum  hoc  ligno  cor  loquitur,  ajquc  facunde,  ac  maxime  elaborata  eloquentia.  Hac  tam  faciliorum  praeteritorum, quam  modernorum  con-  fuetudo  eft : unde  & ad  omnem  occurliim  , & caput fuurn  difeoopenebant , & levabant.  Quidam  na-  Salutatio  nu,  quidam  nutu  le  explicabant: potillima  tamen  deteblo  ca-  pars  detecto  capite : per  quod  iecreta  iuciina  Iliorum  pire,  cordium  fe  palam  facere  credebaut; lic  nos  Varro  f  apud  Plinium  docet.  Quandoque  edam  id  fanitads  lib.  zS.eo(.6.  intuitu  liebat.  Multi  enim  in  juvenili  atate  adliuc  vegeta , detedlum  caput  contra  frigus , & calorem,  conducere  ianirati  arbitrabantur: Ego  idiplum  Me-  dicorum fcllola  dilcutiendum  relinquo.  DeAigypdis  refernir, eos  femper  nudato  inceffille  capite,"  &  robulboris  lanitatis  fuilie,cum  c contra  Periiani  operto capite  femper  imbecilliores, & infirmiores  corpore viliiint.  Illud  certum  eft  de  Hannibale,  & de  Julio  Caelare  lingulariter  id  recenferi,  ut  aliorum  He-  Imperato-  roum  non  meminerim ( quod  infatigabiles  ad  ardo-  res&  Belli-  resiolis,  adventos, ad  grandines,  ad  gelu,  ad  plu-  ducescapite vias, ad  omnem  temporis  injuriam  invidi  detecto  femper  de-  femper  capite  in  militaribus  expeditionibus  luis  com-  cedo,  paruerint : demonftrando, fe  line  caffide  ferreum  caput,  de  adamantinum  in  caftris filis  Sc  inter  arma  animum  geftare.   De  Mallmiila  Numidarum  Rege, qui  Romano-  Geniat.  dit-  rum  potentiam  fregit, &ad  praicipitium  ruina:  fua:  ruml-7-‘-i9-  pene  propulilfet; recenfet  Alexander,  nec  eumaftu,  nec  frigoribus,  nec  temporum  vicifimidine, ncc  cali  inclementia  adduci  unquam  potuille,  ut  caput  fuurn  operiret.  Idem  de  Adriano  refernir,  & Severo,  prin-  cipibus tanti  vigoris, ut  in  graviffimis  hyemis  cem-peftatibus  nunquam  caput  vel  pileo,  vel  alio  tegumento operuerint.  Sed  quodialtutationem  attinet,  recenfet  Egnatius , Petrum  Laurentii  Celfi, Ducis lib. 9. t.,2. Veneti Pacrem eousque obftinatum fiiiife, ut nunquam perfuaderi potuerit adoccurfumfilii fui difeo- operire caput filum: unde ut hic errorpublicus tollerenir, crucem auream in capitis fui tegmine affigi juilit, ut Patri occafio ellct, fe  detegendi  occurrente  filio  Duce,  refpiciendo  ad  lignum  hoc  redemptionis  noftra.  Icaque  omnino  utihilimafalutatio  eft, & ne  cellaria,  quippe  qua  confervat , imo  & inftituit,  familiaritates,  amicitias, societates,  affinitates,  contubernia: efficitque  ut  homo  per  hac  ad  cognitionem, & confortium lui  fimilis  perducatur.  S.  Paulus  eos  C«f.  12.  Romanos,  qui  nunc  in  arte  magiftri  felit,  de  hoc  vehementer admonitos  elle  volui  edum  ait: 'honore invicem f revomentes:  fillicimdine non pigri. Bonum enim elfe  cenfiiit, imo&adfalutem animarum proficuum, per  hujusmodi  reverentiam  inclinationem  animi  benevolam  demonftrare  adverfus  proximum  fuurn ; procul  ab  afpericate  & duritie  morum,  & (re-  fluum, qua  quandoque  rixarum,  & querelarum  incentivum elfe  folent.  A Philofophis moralibus  hac  reciproca  reverentia  definitur:  quod  iit: honor  exhibitus m teflimonium  virtutis.  Et Aqui-  a.  ?«.  j,. neniis  inquit: Revererieft  adhss  timoris,  & ut  debetur  Deo,  eft ailm Utris.  Ipla  adeo  irrationabilia  ani-  mantia hujus rei  nobis  prabent  exemplum.  Admi-  rabile in  hoc  examen  apum  eft: de  quibus  libri  me-  morant, quod  in  venefatione  &fubmiifione  et»a  Duces  luos  le  emutemur  obfecjniis: quod  cum  illo  fuperiori  convenit: honore provenientes.  Eximia  eft  Elephanti  proprietas,  qui  ad  primum  Luna  ortum   fe  tanquam  luminis  hujus  Adorator  pro-  fternic. In  petit. Conful.   Loriacio  vana , ut  non  dixerim, temeritas  eft,   JTsquiparanda  iis, qua maxime  vetantur,  de  exterioribus lignis hominis,  interna  ejus  penetrare  velle. Qui  id  pnefumpferit, ad  hoc  le  praeparet,  ut  in  Veliivii  luminolis  vorticibus  mortem  nancifcatur  :  & naufragus  in  abylium  maris  demergatur & rurium  dictum  illud  redintegret: O Jbtffe  tu  me  cape,  cjuia  teipfum  non  capio.  Sapientia  Salomonis  infinuat: Sicut  aqua  profuud.t, Jic  cogitationes  in  corde  viri.   Quis  eft  qui  fundum  fluminis  non  tranfuaderefo-  lum, led&  prolpicere  poflit,  cum  turbidum  eft,  Sc  inundatione  intumefcens? Quis credidillct in corporetam exiguo Alexandri Magni domicilium suum collocasse animum, qui capacitate sua mimdum univerfiim poffidaret? Subinluliis  et turpibus membris Faunorum Sc Sylvanorum, prarftantillimx quandoque virtutum Idea:  deprehenfiefunt,  Sc  cultum  venerationis debita:  obtinuerunt? Quoties  fub  cadefti  forma  corporis  infernale  monftrum  vitiorum  latuit?  Fatui  lunt, qui  de  cortice  externo  le  profunda  qua-  litatum internarum rimari  polle  gloriantur.  Siquidem ars talis  dari  pollet,  fruftra  Momus  in  pedbori-  bus  hominum  feneftrellam  deiideraflet, ut&  cogitata Sc corda hominum videri  pollent.  Hinc  Sc  Trina  illa,  Cv  Sextilia  ab  Aftronomis  pra:  lignata, fiepius  in  momento  temporis  in  quadratum, Sc oppolitiones noti  vas  convertuntur.  Cum  eadem  facilitate, qua  le  ludum  cadum in  obnubilum  commutat, etiam  mens  hominum  involvitur, Sc obnubilatur.  Magna  voce  nos Apoftolus  Joannes  exhortatur, ejusmodi ligna corporis forinlecus Ipe&abilia ad formandas genituras limiles non trahere, nec prafcriptiones inde, aut allerta producere: Molite, inquit, judicare Jecundum faciem, fedjuflum judicium  judicate. Ha’c  mihi  adverlum  eos  Icribere occurrerunt,  qui  per  Phylionomias  Sc  fomnia  ratiocinari  pradumunt de internis hominum, atque inde lignificata quadam bene lolidata deducere. Negari interim nequit,  accidentali quadam dilpolitione de ftatu, infirmitate,  vel  fanitate  hominis indicia fumi polle. Fultus ac frons,  amm&janua, ejUA fignipcat voluntatem abditam. lic Marcus Tullius  icr ipto reliquit.  Motus  enim  Ira,  Sc  limi  lia  externa  qua  accidunt,  antequam  loris  promineant,  prius  fedem  fixerant in corde. Dabimus itaque ligna  phy lionomica. Sc  lomniorum,  qua  Sc  ante  me  ab  aliis  annotata  & figurata lunt.   Dixerunt  itaque,  qui  antiquitus  jam  talibus  cor-  poris indiciis  le  applicarunt: Caput  grande  , excedens cateram  membrorum  proportionem,  indicare  hominem  pigrum , & mente  ftupidum: licut  Sc  exi-  guum nimis oc  gracile  fatuitatem  Sc  ftultitiam  notare: idquenon  Imeratione, illic enim  vapores  nimii  levantur  i hic  vero exiguitas  Organi,  Sc  Receptaculi,  nutrimentum  debitum  impedit, ut  cognitionis  perfectionem maturare non  queat.  Scriplerunt  quidam,  fi  vertex  capitis  promineat, ita  ut  in  limilitudinem  pini  terminari  videatur,  taliter  natum,  inverecundum  fine  fra:no, &:  Ime  pudore  palfionum  fiiarum  futu-  rum elle:  & ut verum fateamur cum ibidem magna fiat Ipirituum attradtio, qui in lummitate  illa  nimium  acuta  reftringuntur,  & uniuntur,  fieri  non  poteft,  ut  temeritatem, & inconlideratam  proterviam  non  eliciant.   Caput  crafliim,  Sc  in  fuperficie fua planum,  &: adaequatum, omnem morum pravitatem Sc licentiam portendit:  tanquam illic in Ipatiofo campo,  audacia. arrogantia, Sc affedtuum inaequalitas vagari,  Sc dilatari liberius  pofiint.  Concavum in anteriore parte fraudulentiam, dolum , tSc effrontem excandelcentiam  notat.  Dixerim id rationem quandam habere phylicam:Ira enim in hoc ventriculo comprefla, sicut ignis fubtus terram, aut in tormento bellico conclusus, quanto plus obstaculi invenit, tanto vehementius exploditur,  & viam sibi aperit, feriendo. Caput bonam humorum temperiem Sc constitutionem indicans tale est: proportionatum videlicet cum reliquo corpore:quamvis lint,qui afferant, fi in longum protendatur, maturitatem Sc prudentiam designare. Talis erat Pericles,homo sagacissimus: tales etScytha:, Sc Parthi, prout supra memoratum est. Hac sunt qua cum vanitate observantur in homine, cum experientia quotidiana in contrarium militet: cogitta enim mortalium, non fecus ac Maris unda sunt, inquit Gregorius, quarum nec origo, Morat. nec medium, nec finis reperitur. Mare mens hominis, (jf cjuafi fiuclus maris cogitationes metitis: jungatur his educatio, qua plerumque ordinem natura interturbat. & pervertit: adjungantur Sc fines, qui adtiones hominum fpecificant,Sc tanquam fcopi funt, ad quos humana’  cogitationes  colliniant : quamvis Ovidius  dicat: Heu cjtiam  difficile e jl  crimen  non 2. Metam, prodere vultu! In vultu enim & ego non  negaverim  Bonus Sc tanquam in Tribunali accufationes Synterefeos appa- malus ex rere :unde Sc Cleanthes illic apud Diogenem ait: vultuco- Ex specie comprehenduntur mores. gnofcun-  Quod iomnia attinet, cum quanta de his vanitate cor. Cardanus in Interpretationibus luis Icripfit, tantum- Cleanthes, dem averitate nullatenus aberravit,cum ait, eos qui alioquin fomniandi conluetudinem non habent, liquidem repente fomniare coeperint, aut morti, aut faltem longiturna: infirmitati vicinos elle. Id reor fenfit, ob abundantiam humorum, qui  heterogenei  aut  mconcodti,  in  tali  corpore  detinentur,  fomnia-  runt  itaque,  aut  in  vanum  oblervarunt,  qui  dicunt:  fomniare  de  capite, Principatus eventuri  indicium  Caput  vielle,  autDominii,  Honoris,  Ingenii,  Gubernaculi,  {Q1T1  per  & Regiminis  domeftici.  Huic  fententia:  Sc  ego  fub-  {omnium  fcriplerim: liquidem per  harc  dici  volunt:  omnes  hos  inchoans  Principatus,  dcCelfitudines  terreftres  oriri  Sc evane-  Pnncipa-  fcere  ut  fomnium,  velphantalma.  Dixit  hoc  Pfal-  CUm.  mifta Regius:  Dormierunt fomnumfuum, & nihil invenerunt  omnes  viri  divitiarum  in  manibus  fisis.  pfal.  72.  Et  paulo  infra  de  eadem  materia: Felut  fomnium  ibidem.  Domine  in  civitate  tua  imaginem  illorum  ad  nihilum  redioes. De  hac  negociorum  turba, de  his  dignitatum  humanarum faftigiis,  de  hoc  ambitu  gloria:,  qui  termi-  num non  invenit, S.  Balilius  Seleucienlis  Epifcopus fic inquit: Mox una  febris , aut  certe  pleuritis  abrc-  lib.  4 Hexaeptum  hunc  e medio  hominum  coetu  rapuit,  & fiplcn dor meron. ille majcflatis et gloria, ad mfomnii fimilitudinem  momento dijp aruit.  Et  S. Chryloftomus.  Fabula  qu&-  Ex Patre damefi vitanofira. In scena  aulao  fublato  variet  a-  Marttneng.  tes  dijfolvuntur, & omnia corufcante  luce  avolant   p0fJilm  fomnia.  Interrogatus  Diogenes  tum,  cum  in  agone  piumrchus  '  vita:  fus  conftitutus  ellet , Sc  quafi  fomnoientus  in-  in  Con/olati-  dormifceret,  a Medico  luo,  qualiter  haberet,  relpon-  oneadApol-  dit : Nullam fentio  molefiiam, nam  frater  fororem  ^on'  anticipat, forantis mortem: Recordor  Sc  me  quoque  in  flerenti  adhuc  a:tate  mea  fic  cecinille :   Vita  noftra  fomniis  eft.   Giaccion  Debe,  Mumantio,  Ilio,  e fagunto,  E le moli  cti  alz.o  Memfi  fuperba:   Fatte  fpoglie  dei  tempo , or  copre  I Erba  Nea  le  grandez.z.e  lor  refla  un  fol  punto.    Quanta:  uti-  litatis lint  charade rum  notce. C.  2f    Tai  di  chi  dorme  a /e pupille  apunto  II finno lufinghier  pompe  riferba:   Ma  tolto  at  dolce  Lnganno,  oh  come  acerba  Sparvela gloria, arido  i honor  confunto!  Dorme  il regnante,  e d’  alta  vite mtanto   Dn  ramo  a quel  potente  il  crin  circonda, Che pia alfigho  portende  augufio  il  manto.   Si  dei  fafto  mondan  fotto  ala  fronda   Chi  fi  adagia , rvmira  il  legno{  oh  quanto  Di  morte  alfine  al  A quilon fis fronda. C. INgeniosissima (fi ulla unquam inter homines fadta est) inventio charaderum fuit, tam necessaria (ut reliquorum non meminerim) potidimum Principibus, utpote  quibus  negotiorum  iumma  &c  ellentia  conficitur  literis : dum  ubi  fua  interdie  viderint, celant qua: volunt,  promilcuam  plebem rurfiim  autem quibus volunt,  eadem  propalant. His  nil  tam  pernitiofum  est, quam ii de pedore fuo iacrato exeuntes , prophana*  plebi  fe  divulgaverint , atque  ita ie malevolorum oculis expofuerint, fapientillinia, inquam,inventio, manifeftare feipfum,  nec  ta-  men cognofci, iicut Ulylles nube tedus. Sic sapienter Demaratus cum Lacedamoniis ulus est. Senatus Spartiatarum cum Belliducibus fuis, Hiftieus cum mancipiis, Bedacum Principibus, Trithemius cum focis aereis: Harpago in  ventre  timidi  leporis coni  ilia  magnanimitatis  abicondit.  Denique  his  ad   compoi  itionem  Veteris  Teftamenti , per  quod  no-  vum figuraretur, ipie  altiffimus  uti  voluit. His a me rite  ponderatis  , qui univeriitatis utilitati servire intendo, 8c  qui a Phyfionomicis inftrudus sum, & praeleram ab ingenioiiilimo viro Joanne Baptista Porta, qualiter  fagaces  quidam  &c  acuti,  fe  in  variis  corporis  membris  contingendo  majores  & principaliores  Alphabeti  literas  exprellerint: unde etiam qua:  volebant  integra  dida  concinnare poterant, atque ita hac quahmuta eloquentia invicem fabulabantur:Ego, inquam,non ad horum intelligentiam,  sed qualiter antiqui notas fuas defignaverint, expoliturus fum: ne liquando in lapidis cujusdam aut monumenti inferiptionem quis inciderit, nec propter fenfuscombinationem, Sc interpretationem, prima fronte involutam &confidam fe expedire pol- fit, vehementius in duritiem obfcuritatis offendat, quam in laxum ipfum. Propterquod,cum contingendoCaput C. literam lignificare voluerint: Quidha’clitera fola, quid conj unda cum aliis indicaverit, paucis expediam.  C. itaque  folum  line  copula  alterius  liter#  lequentia  verba  denotat: Comitia, centum, Cajus, caufa, condemno. CA.  AM.  Caufa  amabilis.  C.  B.  Civis  bonus: Civis  Corynthius.  C.  C.  Calumnia  caufa.  C.  C.  E.  Caufa  conventa  efl.  CC.  Circum.  CCC.  DE.  Tercentu, Duplex, CCC. Tp. Tercentum  Terra  pedes.  C.  C.  F.  Cajus, Caji  filius.  CS.  Caufa.  CA,velCAM.  Camillus.  CAE.  Cafar.  CJE.  AJA.  GG.  Cafdrea  Augufla.  CAR. COfV. Carijfima  Configi. CARIS.  Cariffimus.  CB.  Commune  bonum , Civis  bonus. CC.  Ducenti.  CCER.  Caufam  claram  Regi.  CR.  Con-  trarius. CC.  confilium  capit : Cefft  calumnia: Cau-  fa contractus.  CS.  Cujus.  CDC.  Quadringenta  condemnatur. C D.  Condignum  : Quadrirtgentum.  CEL.  Celeres.  CEN  PE.  vel  CEAfS.  PP.   . Cen for  perpetuus.  CEN.  A.  Cen foris  arbitratu.  C.  E.  N.  T.  Centuria : Centurio.  C. E.  N.  T.  JA.  Centuriones. C.F.  Cajiflms.  C F R.  Caufa  filice  Regis.  C H.   - Cufios  hortorum  : Cufios  Haredum.  C M.  Centum  Scarlattim  Hominis  Symuolici  Tom.  I.    millia.  C I C.  Cicero  C.  I.  C.  Cajus  f alius  Cafar.  C.  T.  IN.  Cubitos  tres  invenies.  C f.  vel  C.  1.  P.  P .  Cippius  feu  terminus, ut,  ad  tertium  Cippium , feu  lapidem. CIJA.  Civitas,  Civis.  C 1 N-  Caufa  fuffctta.   cc.c CCI.  P. Cubitos  duos  invenies  plumbum. C.C.Caju  Claudius.  C E.  JA.Clariffmus  JAir.  CE.  F.  Clariffima  foemina  vel  familia.  CE.  Claudius. C.E.D.B. E.  Caufam  Eaudabilem.  C.  E.  CajiEibertus , vel  Eiberorum.  CEBCE.  Con liber u Clarijfima.  C.  MAR.  P. Caput  margine  pleno  C.M.Comus.  CME.  Centum  millia.  CMS.  Comis.  CM.  Civis  malus.  CM.  vel  CA.  M.  Caufa  mortis.  COM.  Comitia.  CMS. Caufa  malt  fui.  CME.  Crementum  multum.  CME.  XII.  Came-  los duodecim.  CN.  Cneus.  C.  N.  Caj/ss  nofler.  CN.E.  Cnei  Eibertus.CO.  Conjugi.C.O.  Civit  as  omnis: Controverfa.  COM.  OB.  Comitia  obdurata.  CON.  Con-  futaris. CON.  SEN.  E. OR.  P.  QfR.  Conjenfu  Senatus , equeflris  ordinis , populique Komani. CONS.  vel  CS.  Confit liari us.  COE.  vel  CE.  Colonia  : Coloni .  COEE.  Collega : Collegia.  COE.  Collega  : Colonia:  Columen.  COEE.FABR.  Collpoium  Fabrum.  C.O.  H. Cohors. CONjV.Conjunxit.  CONfJA.  O.Conju-  gi  obfequentiffmx.  C 0 Nf~U  G.  M.  Conjugii  Mercurii  CONX.  Conjux.CONEIB.  Conlibertus:  Con  liberta.  CONTUB.  Contubernalis. COR. Cornelius.  COR.  Corpus.  CORN.  R.F.  Cornelia  Regis  filia.  CORN.  A VRS.  Coronas  aure  as. COS. Con fui. COS.QffAR,  vel  IIII.  Conful quarto. COSS.  DESSIG.  Confules  defignati. CSS. Confulis.  Confularis.  COS.  DES.  Conful  Dcfignarus.  CP.  Civis  Publicus,  C.  P.  Caffa  publica. CPS.  Capfa.CP .Caufa  petitionis: Caufa pofuit. CPRSS, Cupreffi. C.  R.  Civis  Romanus . CR.  Creticus  : Crifpus : Contraibas. C. R. C. Cujus  Rei  Caufa.  C.  R.  C.  P. Cujus  rei caufapromifit. CS.  Communis.  CS.  A.  Cafiar  Auguftus.  CS.  IP.  Cafat  Imperator,  C.  S.  S. Cum  fuis  fervis.  C.  S.  FE. Cum  fuis  filiis.  C.  S.  H.  Cum  fuis  Heredibus.  C.  S.  P.  E.  Cum  fua  pecunia  efl.  CTS.  Controverfia.  CT.  V.  O.  A.  B.  Civitas  vita  omnia  aufert bona. C. JA. Centum viri : Clariffimus vir: Cafii  Virginum.  CIJA. Civis:  Civitas.  Civitas,  CEE.  Cultores,  CVR.  Curionum:    Curiarum.  Cur  for.  C.  X.  IN.  AR.  Cubitos  decem  ihvenies  argentum.  C.XX.1N.  ADR.  M.  Cubitos  viginti  invenies  aurum  mirabile.  Quot  myfteria  di-  fcooperit,  quot  thelauros  effodit,  qua abfeondita revelata h#c admirabilis charaderum inventio, quorum indagatio nec pauca eft, nec brevis,  nec expedita? Scio apud Authores antiquos, te his plura inventurum esse. Nihilominus haec qua: pradento,parca non sunt, quippe qua: plurium Authorum leduram, & fatigationem tibi in compendium redigunt. Sequuntur.  In materia Adjundorum vel Epithetorum, documenta multa 8c prafferiptiones, per occasionem partium, 6c membrorum humanorum tibi occurrent, ex quibus facile videre tibi liceat, quam neceilana lint, quanerque virtutis pradata Epitheta, tam in Necessitas, arte poetica, quam oratoria: cum ex his de cor, & pulufus et qua duritudo omnis formetur. Epithetum enim est, quod litates Epi- propritates significat, interiora exponit. Illud denithetorum»  que est, quod unit, dividit, separat, incorporat, declarat, et implet  didionem, et periodum omnem. In Hypotypofi potillimum, aut deferiptionibus, pars eilentialis nominari poterit: per hanc enim objeda quali ante oculos statuuntur. Epithetum est, quod qualitates, conditiones, etc eiientias rerum reprarientat. Sicut in Terentio, quem citat famosissimus Co. Emanuel Thesaurus (cujus diffuliori ledtura: te remitto) qui Phormionem introducit haec dicentem:Nonno- vi hominem: cui Pamphilius respondet; Faciam ut nofcas: Magnus, rubicundus,cnjpus, craffus, eafus. Qua- circumflantia:, in deferiptionibus evidentiamadjungunt objedtis,dulcedinem orationi, cognitionem partis de toto. Ut ergo hunc Tractatum tam copiosum cum omnibus circumstantiis fuis, &per atteflationem autliorum maxime illustrium concludam,primus mihi obviam procedit Martinus Capella qui caput rutilans apellat. Jffuod rutilum circum caput gejlabat. Pontanus illud Auricomum vocat: Praradiat caput Auricomum, rofeusque per auras, it decor. Strozzius illud honestum appellat: At procera caput cervix fu Ic ibat honestum. Tibullus nitidum: Nec nitidum tarda compferit arte caput. Purum Ovidius: Eonga probat facies capitis difcrimma puri. Flavum Virgilius: Summa flavum caput extulit unda. Ro- (eum Textor:Et rofeumpubens oculis, herba caput. Venale Juvenalis. Et prabere caput domine venale fub hafla. Idem ipse vacuum appellat: Nacuumque cerebro jam pridem caput. Invilum denuo Ovidius. Protinus invisum nec petet ajlra caput. Indeploratum idem. Indeploratum Procere caput. Horatius illud perfidum vocat. Obligafli persdum votis caput. Ab eodem inlanabile vocatur. Si tribus Antyciris caput infanabile nunquam Eon fori Eyctno commiferit. Laurigerum a Politiano: Eaungerum morti subjicere caput. Manto impavidum vocat. Impavidum- r  que  ultro  caput  ad  tormenta  reportat.  Ruinofiun  ab  eadem  nominatur: Fecla  rumorum  caput  inclinare  videbat.  Ab  eadem funeftum: Funcflum  dirumque  caput.  Adhuc  ab  eadem  implume: Implume caput Grande a Prudentio: Grande per infirmos caput excifur a miniflros. Eximium ab eodem: Servajfet caput eximium, sub Ime, beatum. Hostile a Statio. Spetlat atrox, hoslile caput. Furiale ab eodem. Obnubit furiale caput. Ab eodem adhuc venerabile. Meritaque caput venerabile quercu. Si heee tibi forte non luffecerint, copiosius Authores evolvere placeat, ex quibus tibi major fuppellex luppeditabitur. Solet Convivalis Menla, pofl cibos, necessarios, et madteas fuccoias, ut commenfialium palatus indulcoretur, inter bellaria, laporolissimos, et exquifitilfimos  fiudeus  proponere.  Ego  itaque  pariter  in  hocTradtatu  meo,  in  hac  menla, non  Lotophago-  rum, autLa-ftrygonum,  quamvis humanis membris inftrudta, in apparatu bellariorum, fi non prout oportet, laltemin ellentia, hoc est, ad manum fiem-per habens Authores quibufeum loquor, tibi satisfacere fatagam. Et hi ipli Coci Atheniensies fiunt, quos omni scientia ad certum quendam terminum inftrudtos volunt, li fides habenda Magno Maficardio, qui Authores nominat, Athenaeum & Plutarchum. Itaque ut ego te non fine frudlu quodam dimittam, in cujusque Tradatus fine pro conclusione tibi Oden quandam poeticam offeram, qua: fi aliunde,  & non de calamo meo prodierit, ficio te fipiritum aut dulcedinem in ea desideraturum non elle. Sed fi paupercula Mula mea tibi donum hoc dedent, precabor te, ut cum eam incultam, & infiulfiam adverteris, infirmitati compatiaris: siquidem etiam in habitu quandoque veteri, aut nimium prolixo, aut in lacerna vili comparuerit, nolfie oportet me Protheum non elle, qui versicolorem me pnebeam, fiemper idem lum. Nec in diebus meis histrionem unquam egille memini,  ut quotidie glorier, me indumenta mea,  & personam tranfimutare. Invidus fium iis, qui imitantur funambulones, tam perite fiupra funes choreas ducentes. In tanta autem vivacitate, cogitationum in tot quorundam conceptibus, & influentiis, quisque quantum potest, bilancem in a: quipondio teneat: li autem in unam vel alteram partem inclinaverit, videat ne impingat, &c Ce contubernalium rifioni exponat. Non ignoro & hic ollam mihi fiat bullientem non efle. Ad omnem nihilominus greflum pedum meorum intentus fium, ne forte procidam, cum noverim in terram hic cecidille, mortaleelle, sicut jam videre licuit. Libet mihi pedibus potius incedere, quam equo effreni, aut refradario me committere: qui me de lella excutiat, cum ficiam Hippogryphos Atlantis, et Chymreras Bellerophontis fabulofas  elle.  Pauci  & rari  fiunt, qui  fiupra  dorfium  Pegafi fialtare noverint: & fiquidem ille cum ungvulafiua effodere Caffalium fontem potuit, quem lateat cuique fialtem licitum elle fontem hunc attingere? Hic cum perennis fit, pauperi irque jc diviti potum minillrat: qui etiam diun equi ungvula tactus Fuerit, tam pauca, quam multa luggerit: tam cui datum eft  fiolis ungvulis intralle, quam totum fie immerfille. Fateor parfimoniam pedis mei, qui non nili intingere ungues potuit. Id totum retuli, ut benigne ledor occafio tibi detur, qua mihi  compati  velis, fiquidem ubi de deliciolis Pindi convallibus meliores irudus non attulero, quam quos tibi in hoc loco obtulille me vides: Argumentum tale etl. Laus Capitis. Supra sententiam Philonis, ubi ait: Ubicunque fate/litium Regium efl, ibi Rex fatellitio Jhpatus fedem habet. Sed totum anima fatcllitium, sensuum nempe organa in capite sta funt. Del medemo suo Autore eccelsa Imago, A cui pur volle il Creator Sovrano, Ne lia gr and opra efercitar la mano, Se flejfo in lei d'effgiarfi vago. Sfavilli il Sole, e folgoreggi il Fago, Futto e creato al beneficio humano: Infufe l’Alma in lui: celefle arcano: Onde foffe di glorie altero, e pago. Come qualos di chi mirar s’avenne Sotto al suo Redi purpurati Eroi, Glorioso Senato in Di folenne, In fmil guisa a miniflri fuo i Principi  numerar subditi  ottenti  e, Se potenz.e vitali il capo in noi. Giovanni Bovio. Keywords: implicature di ‘animale parlante’, ‘un tono, una figura’ – homo symbolicus, Aristotele, Grice – i gesti e suoni degli animali sono signi – i suoni e i gesti dell’uomo sono simbolo. Non e manifestazione – delo – chiaro – la manifestazione o rivelazione appertiene all’animale – nell’uomo il simbolo e arbitrario, e ‘ad placitum.’ NB Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bovio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bozzelli – L’implicatura di Lucano – su Catone il Giovane – Catone in Utica -- filosofia italiana – Luigi  Speranza (Manfredonia). Filosofo italiano. Grice: cf. tragic dialogue – Oreste a Pilade – and Enea’s Niso e Eurialo’ – Grice: “Not to mention the rape of Lucrezia, and Romolo killing Remo, and the rest of it.” -- Grice: “You’ve got to love Bozzelli; at Oxford, it would be difficult to find an English philosopher interested in English tragedy, but Bozzelli’s expertise is ‘tragedia romana’ – Ercole and the rest! Philosophically, Bozzelli speaks indeed alla Aristotle of the tragic – alla Nietzsche, too – since ‘lo tragico’ is possibly a philosophical category – On top,  if I have been called a mimetist, so is Bozzelli – ‘lo tragico’ becomes an adjective, and qualifying ‘imitation’ – Aristotle’s principle for mimesis and tragedy as meant for catharsis – with Bozzelli, it is ‘imitazione tragica.’ He wisely skips (almost) the Middle Ages and reviews ‘tragedia romana’ and how it becomes ‘tragedia italiana’!” Noto per essere stato l'estensore della Costituzione del Regno delle Due Sicilie. Dopo le scuole secondarie dagli Scolopi, Studia a Napoli. Laureatosi, entra nell'amministrazione statale: uditore giudiziario presso il Consiglio di Stato. Entra nella sopraintendenza della Salute, dapprima come ispettore generale e poi come segretario. Nello stesso tempo si dedica all'attività metafisica. Pubblica "Poesie varie" una antologia di versi scritti secondo il gusto del XVIII secolo. Di sentimenti liberali, prese parte ai moti costituzionali che gli costarono dapprima la prigione e successivamente un esilio che trascorse in Francia. Durante l'esilio espose in numerosi saggi le sue concezioni politiche di liberale moderato, fautore di una monarchia costituzionale e avverso al programma democratico-radicale. Scrisse inoltre saggi filosofici di etica e di estetica. Rientra in patria. La fama di grande cultura e di integrità morale acquistata durante l'esilio, lo garante un grande prestigio all'interno del partito liberale delle Due Sicilie. La sua popolarità divenne ancora più grande dopo un nuovo periodo di prigionia assieme a Carlo Poerio e a Mariano d'Ayala. Pertanto, dopo l'inizio dell'insurrezione siciliana e incaricato dal presidente Serracapriola di preparare il decreto reale che fissa i principi costituzionali. Nominato ministro degli Interni, in sostituzione di Cianciulli, con l'incarico di stendere il testo della Costituzione.  Dapprima  fautore, con Poerio ed Ayala, dell'idea di ripristinare la Costituzione napoletana. Tuttavia, poco dopo si convinse della necessità di stendere carta costituzionale completamente nuova, un compito che porta a termine da solo e in soli dieci giorni. La costituzione delle Due Sicilie approntata da lui e composta di 89 articoli. Rcalca di fatto sia la Costituzione francese (eccetto nei punti in cui si trattavano le autonomie locali) che la Costituzione belga. La sua Costituzione venne tuttavia criticata immediatamente dai democratici perché non offer sufficienti garanzie di libertà ai cittadini, limita i diritti elettorali su base censuale e lascia al Re ampi poteri discrezionali. Venne escluso dal governo costituzionale di Troya per divergenze sulla politica estera (e contrario alla guerra contro l'Austria). Partecipa invece, come ministro degli Interni e dell'Istruzione Pubblica, al governo Spinelli costituito dopo il colpo di mano di Ferdinando II. Sebbene il suo'intento e quello di mitigare la reazione regia e affrettare il ritorno alla legalità, venne accomunato dall'opinione pubblica nel discredito del governo delle Due Sicilie, nonostante fosse sostituito agli Interni con Vignali per ordine dello stesso Ferdinando II. Si ritira a vita privata avendo come unica fonte di reddito la pensione maturata per essere stato consigliere di stato. Con la conquista del Regno delle Due Sicilie il nuovo Regno d'Italia gli revoca anche questa. Supremo Magistrato e Soprintendenza Generale di Salute delle Due Sicilie, Giornale di tutti gli atti, discussioni e determinazioni della Sopraintendenza Generale e Supremo Magistrato di Sanità del Regno di Napoli. In occasione del morbo contagioso sviluppato nella città di Nola. Napoli: nella Stamperia Reale. Poesie varie. Napoli: da' torchi di Giovanni de Bonis. La strega di Manfredonia. Napoli: Guida. Della imitazione tragica presso gli antichi e presso i moderni: ricerche del cavalier Bozzelli. Lugano: Ruggia. Dizionario biografico degli italiani. Per quanto voglia rifrugarsi attentamente negli annali della filosofia romana, risalendo fino all'epoca in cui la conquista della Macedonia menò con altri a Roma Panezio, e per mezzo di essi fe’scintillare i primi raggi di una positiva coltura filosofica tra quei feroci repubblicani, è difficil cosa il concepire quali sono ivi le origini, quali segnatamente i progressi del concetto del tragico. – CATONE UTICENSE: tragedia? TRAGEDIA PRETESTA – INCORONAZIONE DI POPPEA? LA MORTE DI DIDONE? IL FRATRICIDIO DI REMO? GL’ORAZI E I CURIAZI – MARCO – COROLIANO? L’ASSASSINIO DI GIULIO CESARE? Non possiamo di rettamente giudicarne da ciò che tentarono in questo genere Andronico e Gnevio, Ennio e Pacuvio, i quali precedettero il principato di Ottaviano; perchè le loro opere non sono giunte insino a noi. Lo stesso è a dirsi relativamente a quelle che furono scritte alquanto più tardi, quali, a cagion d'esem pio, furono la Medea di Ovidio e il Tieste di Vario, con altre molte che le ingiurie de' tempi ci hanno ugualmente involate. Questo fatto notabile ci vien però attestato da Orazio, che alla sua età la moltitudine interrompea spesso ne' teatri la rappresentazione di una favola tragica, per chiedere che se le desse invece a spettacolo un combattimento di fiere o una pugna di accoltellanti: ond' egli stimava che ciò scoraggiasse o distraesse i poeti dall'intraprendere quella carriera. Ecco i suoi versi all'uopo: Saepe etiam audacem fugat hoc terretque poetam, Quod numero plures, virtute et honore minores, Indocti, stolidique, et depugnare parali, Si discordet eques, medio inter carmina poscunt Aut ursum, aut pugiles: his nam plebecula gaudet. Il fatto dee tenersi per innegabile. Orazio lo afferma sto ricamente; nè può supporsi ch' ei si piacesse di mentire in faccia a ' suoi proprii contemporanei, ed allo stesso Augusto, a cui quei versi erano indirizzati. Ci vorrà intanto esser per messo di non consentir di leggieri nella induzione ch'egli ne cava, dando quel disordine, vergognoso invero a un popolo incivilito, a motivo di scoraggiamento ne' poeti. È certo che una simile plebecula esisteva pur essa in Atene, quando la tragedia vi nacque; e, gridando d 'impazienza che tal novità non avea niente a fare con Bacco, ella ben avrebbe gradito di veder piuttosto satiri, col volto intriso di feccia di vino, avanzarsi giocondi sopra ornate carrette per divertirla con racconti osceni e con ditirambi da ebbri. Non però Eschilo ne fu smagato. Forte del sentimento ardito che lo ispirava, e della profonda conoscenza che acquistato avea del cuore umano, ei seppe con la occulta seduzione operata da' suoi prodigiosi dipinti, innalzare il popolo insino a lui; e riem piendolo di maraviglia e di stupore, obbligarlo ad accoglier le sue opere co ' più straordinarii applausi, per cosi produrre una rivoluzione istantanea nella maniera di sentire, non già guasta, ma non ancora educata, del pubblico, in fatto di tragedia. E un simil fenomeno fu osservato poco tempo dopo, rela tivamente alla commedia greca. Il basso popolo, avvezzo a udir sulla scena il licenzioso linguaggio Aristofane, e a vedervi rappresentate sconce o grossolane situazioni, benchè sempre condite di un lepore comico ammirabile, mal sofferse che Cratino, cangiando sistema per la ingiunzione delle nuove leggi che miravano a reprimere quello scandalo, gli offrisse a spettacolo più decenti orditi; e un giorno andò fino a scacciarlo dal teatro con tutta la comitiva de' suoi attori. Chi non lancerebbe a piena mano i motteggi e il disprezzo su tanta corruzione di gusto e di costumi? E questo esempio frattanto non valse a scoraggiar Menandro, il quale, creando la nuova commedia, la depurò delle antiche sozzure, e ne fu coperto di lodi. Il popolo adunque s'increbbe non del decoro dell'azione, perchè lo applaudiva in Menandro, bensi del poco senno e della insipidezza onde Cratino, che era un me diocrissimo poeta, si avvisò di adombrargliela: ed era natu rale, se non lodevole, ch' ei preferisse le lascivie che gli te neano sveglio ed ilare il sentimento, ad una decenza freddis sima che lo facea sbadigliar di noia. Or fu il citato disordine che impedi ad un Eschilo di apparire, o non piuttosto la man canza di un Eschilo che suscitò un tal disordine in Roma? Questo problema non è sfuggito' a' critici moderni: e, benchè tutti lo abbiano riguardato da un solo aspetto, e non forse il più sicuro, ciascuno ha pur tentato di scioglierlo a suo modo. Interpretando a capriccio, ed oltre misura esten dendo il frizzo di Orazio, alcuni hanno attribuito quella penu ria di tragici presso i Latini alla grande ignoranza del popolo, il quale, avviluppato nelle sole abitudini di una vita pratica e materiale, non offria stabil presa a' poeti da esaltarlo ad alti concepimenti con lo spettacolo di azioni drammatiche. Altri ha soggiunto che ciò inoltre derivasse dall'affluenza de' tanti stranieri ammessi a cittadinanza, i quali aveano tras formata la città di Roma in un miscuglio informe di nazioni senza omogeneità nelle maniere di credere, di vivere e di sentire. I più arditi alfine, risalendo a cagioni ancor più uni versali, han pensato spiegar l'enigma con la mancanza presso che ivi assoluta di tradizioni eroiche, di abbaglianti remini scenze, di antichità remote, le quali, ricongiungendo l'ori gine delle umane razze a quella delle razze celesti, furono si feconde di nazionale orgoglio e di spontanee ispirazioni presso i popoli della Grecia. Esaminiamo in breve ciò che può es servi di falso e di vero in queste diverse ipotesi. Innanzi tutto, allor che gli eruditi con si franco animo attribuiscono il difetto di tragici ne' Latini alla grande igno ranza del popolo, par ch' essi non abbiano presente di quella storia se non lo splendido periodo in cui le vacche di Evan dro ivano mugghiando non custodite per le strade ancor de serte di Roma. Se non che la curiosità dell'osservatore non è suscitata che dal vedere quel difetto continuarsi nel cosi detto secolo di Augusto, il quale vantò storici ed oratori e naturalisti e filosofi e giureconsulti di tanta eccellenza; e pro dusse in breve spazio di anni nobili poesie di ogni genere, se non di conio eccelsamente originale, ritemprate almeno con felicità portentosa e con mirabile forza d'immaginazione. Quando dunque con la parola popolo non voglia significarsi una frazione infinitesima della società, quella pretesa igno ranza in tanto apogeo di coltura intellettuale rimane incom prensibile, come l'idea di un vasto incendio che si súpponga scoppiato senza materie combustibili atte a servirgli di ali mento. Ed a chi volesse limitar l'accusa ad un solo oggetto, domanderei, onde tanta cecità in quel popolo per la ' sola poesia tragica, in mezzo a tanto e si dilicato senso di ammi razione per tutte le altre arti gentili? Noi ignoriamo alle opere drammatiche di qual poetonzolo il popolo impaziente facesse l ' oltraggio di cui parla Orazio. Quel si discordet eques, che questi non obblia d'indicarne a motivo, può interpretarsi in tante maniere !.... È certo non esservi memoria che ivi fosse interrotta del pari la rappresen tazione delle commedie di Plauto e di Terenzio: ed è sopra tutto nota la lusinghiera accoglienza che il primo eccitava sempre da parte degli spettatori. Taluno ha preteso che ciò dipendesse dalle troppo libere immagini onde talvolta questo comico solea rifiorire il suo dialogo: ma, non essendo questa libertà da imputarsi al nodo de ' suoi orditi, è poco presumi bile ch'ei fosse unicamente applaudito per l'espressione licen ziosa degli ornati. Senza che il divulgato aneddoto, che un fre mito di assenso e di approvazione universale si levò un giorno nel pubblico, udendo dire a un personaggio teatrale, Homo sum, nihil humani a me alienum puto, prova interamente il contrario: anzi ci dà a divedere di qual gusto squisito e di qual diritto senso morale fossero allora dotate le genti latine; poiché quel motto, riunendo in sė poetica bellezza a filosofica verità, par dettato alle muse latine nella santa scuola di Ari stide e di Focione. In quanto al concorso degli stranieri ammessi a cittadi nanza, per effetto del quale si è voluto far di Roma una Ba bele, in cui per la diversità de' linguaggi l'uno per poco non intendea più l'altro, mi sia permesso di riguardarlo come una esagerazione di dati e di conseguenze ugualmente privi di rea lità. Allor che il dritto di cittadini romani concedevasi a in tere popolazioni, come avvenne a molte del Lazio e prima e dopo lo stabilimento della repubblica, queste non trasmi gravano subito, a guisa di mulacchie, per andarsi ad attendare nel recinto de'sette colli: e allor che si conferiva quel dritto a semplici individui, eran questi ordinariamente principi e magnati che il senato volea rendere a sè benevoli, soffre gando loro quel titolo reputato, come avvenne a tanti celebri Germani, Celti ed Iberi, i quali essi stessi non sempre lascia vano le loro patrie per dimorare stabilmente in Roma. Nella sola classe de servi, il numero degli stranieri era immenso per l'abuso delle conquiste: ma nè il teatro era instituito pe’servi o frequentato da servi, nè la potenza de liberti usciti del loro seno, che infestarono Roma delle loro turpitudini, appartiene al secolo di cui qui si tratta. Una massa di veraci e purissime antiche razze romane esisteva dunque in quel centro di universal dominio, a cui i tragici poteano indiriz zarsi con buon successo: e l'osservazione che siegue ne dará evidentemente la prova. I latini scrittori non ebbero tutti la culla alle falde del Tarpeo; ne vennero dalle diverse regioni d'Italia, e sin dal l'Asia, dall'Africa dalla Spagna: ' e non dettavano al certo le loro opere ne' dialetti municipali o nelle straniere favelle 1 CICERONE, Vitruvio, Orazio, Ovidio nacquero in quel che oggi chiamasi regno di Napoli: Catullo, Livio, Cornelio Gallo, Virgilio, in quel che oggi chia masi regno Lombardo - Veneto: Plauto e Properzio nacquero nell'Umbria, Sal Justio ne' Sabini, Tacito in Terni, l'ersio in Volterra, Plinio il giovinc in Como: Fedro fu trace, Terenzio cartaginese; e più tardi Columella, Seneca, Marziale, Lucano, furono spagnuoli, ec., ch'essi erano stati avvezzi a balbettar nell'infanzia, ma in quella lingua nobile, purgata, numerosa, che, parlata gene ralmente in Roma, ogni di s’illeggiadriva e si magnificava nelle strepitose discussioni del fòro e della tribuna. Or come spiegar questo fenomeno allor che si niega ivi l'esistenza di un fondo, e di un fondo estesissimo di ingenua romana gente, la quale avesse quella rigorosa omogeneità nelle maniere di credere, di vivere e di sentire, senza cui una lingua nè sì forma, nè s'ingrandisce, nè si conserva? Era dunque per incantar le orecchie de' non Latini, che quegli scrittori avean cura di esprimersi nel più gentile latino idioma? era con la grammatica scarmigliata e con la mozza fraseologia de' Germani, de' Celti, degl'Iberi e de' Britanni di quella età, che si giudicavano meritevoli di elogio le tante sublimi opere di poesia, di storia e di eloquenza che videro ivi la luce? E può mai supporsi composta d'ignoranti o barbari quella folla di popolo che, siccome Tacito narra, uditi un giorno in teatro alcuni versi di Virgilio, tutta si levò in piedi con entusiasmo spontaneo, e fecegli riverenza come se fosse stato Augusto? Ne’ teatri di Roma erano stabiliti seggi distinti pe'con soli, pe’ senatori, pe' pontefici, pe' tribuni, pe' magistrati d'ogni ordine e d'ogni specie, e fin anche per le vestali; chè sotto il principato di Tiberio troviamo un decreto del senato, con cui si conferisce a Livia il privilegio di seder tra le vestali negli spettacoli. E dee dirsi che i vecchi sopra tutto li fre quentassero; essendo ivi legge antica, la quale obbligava i giovani, ovunque nelle sale degli spettacoli un vecchio si pre sentasse, a levarsi immediatamente in piedi, e cedergli il luogu per venerazione. Di questa massa principalmente for mavasi colà dunque il pubblico de' teatri: ed a questa massa dovea senza fallo aver Terenzio la mente, allor che asseriva non esser altro lo scopo di un poeta drammatico, se non quello di far gradire al popolo spettatore le favole ch'egli or diva; onde esclamò nel prologo dell’Andriana: Poeta cum primum animum ad scribendum appulit, Id sibi negoti credidit solum dari Populo ut placerent quas fecisset fabulas. Or io ripeto: era per lusingare un popolo di barbari e d'igno ranti che quel Cartaginese mettea tanto studio nel portar la favella de’ Latini al sommo della grazia e dell'eleganza, era per lusingar barbari ed ignoranti che Lelio e Scipione, rino mati a quei giorni per saviezza, per virtù e per credito, con fortavano questo poeta de' loro benevoli aiuti e de’ loro illu minati consigli? È fuor di dubbio finalmente che ad attingere svariate ma terie di rappresentazioni tragiche i Romani ebbero anch'essi dovizia di memorie nazionali ed eroiche; ove guerre di pas sioni, assedi di città, imprese di vendetta, mutamenti di sta ti, ratti di donne, e fratricidi e commozioni e rovesci e ma raviglie di ogni specie si succedono e si confondono ad im prontar di poetica grandezza le più lontane origini di quel popolo. Nè al mio soggetto fa ostacolo che quelle famose tra dizioni siensi trovate spoglie di storica certezza dalla nuova scuola in questo genere, che, aperta dal Vico in Italia, ė stata poi continuata dagli Alemanni. Verità o favole, storie positive o allegorie inventate per vaghezza di portenti, basta per me il sapere che eran generalmente divolgate e facean parte delle credenze pubbliche de' Romani a' tempi della loro intellettuale coltura. Per quanto infatti si tenga oggi per as surda la venuta di Enea in Italia, è pur vero nondimeno, e Tacito non isdegna di attestarlo gravemente, che la famiglia de' Giuli, perché supposta discendere da quel Troiano, si ri guardava di buona fede come del sangue di Venere. Le menti anzi con tal fervore si pascevano di siffatte finzioni, che dopo averle vagheggiate in quei vecchi canti rozzissimi che ne ser barono da prima le oscure reminiscenze, le videro un giorno con applauso universale rinfrescate di si egregi colori ne' qua dri dell’Eneide, la quale può da questo lato considerarsi co me un vasto tesoro delle più remote antichità latine. E se non vi ebbe tra’ Romani quella profusione di celesti discendenze onde i Greci avean abbellite le origini delle loro più insigni razze principesche, pur nondimeno una illusione prestigiosa, capace ivi d'imprimere forte movimento a tutte le facoltà poetiche, preoccupava tenacemente gli spiriti. E fondavasi nell'immagine di Roma, per memorandi oracoli riguardata come potenza eterna, invincibile, dominatrice; in nanzi a cui tutti i popoli della terra doveano tardi o presto piegar la fronte sommessi; che i numi stessi del cielo non aveano forza di abbattere; che la religion civile avea riposta finalmente a simbolo d'immensità fra le tenebre misteriose onde nell’Olimpo era inviluppato lo stesso Destino. Sicché ad un Romano bastava il tenersi parte integrale di questa città per credersi di discendenza più che celeste, e trovar nell'esaltazione di cosi nobile sentimento l'alito animatore di tutte le grandi imprese nelle arti della pace, come in quelle della guerra. E a far della tragedia una creazione indigena, oltre all'abbondanza delle loro nazionali antichissime vicen de, oltre a quel fermento di orgoglio che l'immagine di Roma suscitava in tutti, i Romani ebbero il medesimo o pri mitivo impulso che per facili associazioni d'idee la fe ’ nascere dalle feste di BACCO ne' Greci; avendo pur essi posseduto in certa guisa i loro Epigeni e i loro Tespi negli autori di quelle rinomate favole Atellane, che veniano rappresentate sopra palchi ambulanti nelle pubbliche solennità. Rimosse adunque come false o mal distinte le spiegazioni addotte sinora intorno all'oggetto che ci occupa, e sino a quando da’ricercatori dell'antichità non ne sieno poste innanzi delle meglio fondate, a me non resta che di attenermi al nudo fatto, quello cioè che grandi e veri tragedi mancarono assolu tamente a Roma per trasportar l' animo anche de' più ritrosi nella sublimità di questo genere di produzioni; e non conve nir quindi trattar con troppo di asprezza il popolo che osò far sene beffe. Nè poi questo fatto è realmente unico: chè lo veggiamo più volte ripetuto nella storia delle lettere moder ne. Or domando: trovandoci spiacevolmente arrestati dalla penuria di siffatte opere presso i Romani della età di OTTAVIANO, scenderemo noi ad attinger ivi contezza di quest'arte dal solo teatro di Seneca, apparso in tempi ne'quali, non che annien tata ogni reliquia dell'antica virtù, libertà ed altezza di so ciali condizioni, la stessa lingua che risonò con si dolce fre mito ne’versi di Catullo e di Orazio, di Lucrezio e di Virgilio, cra caduta quasi che pienamente nel fango? In verità, se per avventura il popolo romano potesse risorgere alcun poco da quel sepolcro che si erge smisurato al par di lui nella immensità de' secoli, e ricollocarsi gigante qual era nel periodo della sua letteraria grandezza, non so se oserebbe assumer senz' onta titoli di gloria per l'arte tragica, indicando unicamente codesto suo retore famoso, che rubò non saprei donde la maschera di Melpomene per introdursi sconosciuto nella schiera degli eminenti e benemeriti cultori di lei. Eppure, avendo egli acquistata una celebrità che nel suo genere assomigliasi di molto a quella di Erostrato, non è più concesso a' di nostri di tacerne, senza destar maraviglia ne' più timorati. Ognun rammenta che il Corneille, il Racine e l'Alfieri, benchè, grazie alla dirittura delle loro menti, uscissero incontaminati dalla compagnia di questo autore, non però sdegnarono di corteggiarlo: ognun rammenta che fra quei veterani dell'erudizione classica, i quali dal decimoquinto secolo in poi attesero con si lunghe vigilie a impinguar di chiose, di comenti e di elucubrazioni d'ogni specie tutte le opere de' Latini, i più valenti si fecero suoi campioni. Ma vi è alcun lume a trarre dall'autorità di questi ultimi, quando noi li veggiamo per troppa carità di patrocinio avvolgere i loro panegirici in mille ampollose stranezze, e storti giudizi; e contraddizioni evidentissime? Eccone in breve alcun passeg giero esempio. Giulio Cesare Scaligero sostiene che le tragedie di Se neca non sono per maestå in nulla inferiori a quelle di tutti i Greci, e che anzi per ornamenti e per grazia superano di molto le tragedie di Euripide. Questa bestemmia, uscita francamente dal labbro autorevole del patriarca de' dotti, non fu combattuta nel suo general dettato: ma i confratelli di lui della medesima scuola non si peritarono d'indebolir la, accapigliandosi bizzarramente fra loro per emendarla ne' particolari. Non si può senza rimanere attoniti percorrere quel che ne scrissero a vicenda Giusto Lipsio, Daniele Einsio, Giuseppe Scaligero, ed altri moltissimi che sarebbe infinito il citare. Uno trova la Tebaide si bella da crederla degna del secolo di Augusto; l'altro prendendo scandalo di questo giu dizio, la estima indegna della stessa penna di Seneca. Questi antepone la Troade a quanto sul medesimo argomento ci ha uno, di più alto fra i Greci; quegli la dichiara bruscamente opera di un poeta da bettola. Qui si esalta come magnifica l' Ottavia; lå si deprime come la più vil cosa della terra. E avvisi di tal sorta, non pur diversi, ma del tutto opposti fra loro, baste rebbero da sè soli a spandere il discredito su quel teatro: pe rocchè il bello è come il vero; e la natura doto gli uo mini, con più o meno di piezza, ma indistintamente tutti, della facoltà di scernerlo dovunque splende: sì che dissen sioni cosi risaltanti non possono altrimenti spiegarsi, che at tribuendole tutte a un inesplicabile delirio. Noi non vorremo a ogni modo, usando di un metodo che il buon senso condanna, nè accoglier cieche prevenzioni con tra il teatro di Seneca, sol perchè i giudizi che se ne fecero da molti sono fra loro contradittorii; nè cercar troppo innanzi ne'motivi da cui que' giudizi medesimi derivarono in tempi ne' quali era vastissima l'erudizione, ma non ancor nata la critica. Astretti a parlarne un po' minutamente, non foss' altro per indicarlo a' giovani poeti come uno scoglio fu nesto, a cui senza pericolo di naufragio non è lor permesso di avvicinarsi, il nostro cammino intorno a questo autore sarà più spedito e più breve. Indagheremo da prima di qual tempra fossero le potenze costitutive del suo ingegno, le tendenze morali che il dominavano da presso, le filosofiche dottrine ond’ era inflessibilmente preoccupato, e qual necessaria in fluenza esercitassero le particolari circostanze del secolo in cui visse, a rafforzare ed estendere queste predisposizioni del suo essere. Scendendo in seguito all'esame imparziale de' fatti, ci avverrà forse di scoprire ch ' ei fu il discepolo ingegnoso nelle cui mani ebbero sviluppo ed incremento i germi delle innovazioni di cuiEuripide fu l'inventore; e ch'egli pervenne ad esagerarle ne' più strani modi, a crearne delle più mo struose ed ardite, ed a svolger cosi l'attenzione pubblica dalle originarie bellezze ond'Eschilo e Sofocle aveano rivestito que sto ramo dell'arte. In assai fresca età SENECA era stato condotto di Cordova sua patria nella capitale del mondo; e correano forse gli ultimi anni del regno di Augusto. Vi fece i suoi studii sotto la dire zione di quei celebrati retori e filosofi, i quali prendeanvanto d'insegnare a'loro allievi tutte le scienze umane e di vine: concutiebant foecunda pectora, ut inde omnigenas cogitationes exprimerent. Dotato di uno spirito severo, vi goroso, penetrante, abbracciò le dottrine della setta stoica che ancor predominava in Roma; dedicossi alla carriera del fòro, ove acquistò riputazione di felice oratore, e mancò poco che un tal successo non gli riuscisse funesto, perchè suscitò le gelosie del frenetico Caligola. Fu avido di gloria e di sape re; ma e altresì di onori e di ricchezze; e a procacciarsi que st' ultimo intento gli era mestieri di un mecenate. Ne trovo uno efficacissimo in Domizio Enobarbo, rinomato a quei tempi per credito e per potenza, perchè del sangue de' Cesari: ed è fama che Seneca gli pervertisse la moglie, quasi a dargli un pronto attestato di riconoscenza per la protezione ottenutane. Se non che la nerezza di questo attentato pare attenuarsi nel rammentare che quella moglie fu Agrippina, il cui nome non venne mai registrato per avventura nel novero delle vestali: tal che non può determinarsi con sicurezza s'ei fosse il sedut tore o il sedotto. Ne’primi anni dell'impero di Claudio, accusato da Messalina di aperta complicità nelle turpitudini di Giulia, nipote di quel principe, fu esiliato duramente in Corsica, fosse vera o non vera la sua colpa. Ivi compose il suo libro de Consolatione, in cui adulò bassamente l'imperadore, e lo indirizzò a un costui favorito liberto, perchè quei servili omaggi non si restassero ignorati e senza effetto: il che non impedi che più tardi, non avendo più cagioni da temerne, gli scrivesse contro una velenosissima satira. Non si potrebbe definir net tamente s'ei mentisse innanzi alla sua coscienza quando pro fuse le lusinghe o quando scagliò le ingiurie: è certo che, toccando in cosi brusca guisa i due opposti estremi, non mo strò di avere un culto troppo edificante per gl'interessi della virtù e della verità. Intanto Agrippina avea lanciato l'inco modo marito nella eternità; e, divenuta sposa di Claudio suo zio, dopo l ' uccisione di Messalina, sua prima cura fu di ri chiamar Seneca dall'esilio. Reduce in Roma, ei fu accolto festosamente in corte, decorato delle insegne pretorie, e dato a precetlor di Nerone, il quale tenne a fortuna il poter apprendere da tanto maestro le scienze morali, le lettere genti li, e l'arte di regnare, a cui Agrippina sua madre occulta mente lo destinava. " Ignoro quai progressi facesse quel giovinetto eroe nella pratica della virtù: so che non ne fece molti nelle lettere, perchè fu pessimo poeta e scrittor da nulla: e si segnalò solo nella perizia del canto e della musica, che non gli furono cer tamente insegnati da Seneca. Quindi è che, proclamato impe radore ad esclusione di Britannico, più prossimo erede del trono, bisognò a Seneca dettargli le orazioni, le lettere, i re scritti da recitarsi o da inviarsi al senato: e divenne questa per lui una nuova sorgente di gloria, essendosi divulgato in Roma che que' lavori eran suoi, e che Nerone parlava imboc cato. La voluttà che egli traea da questo genere di distrazioni intellettuali, si trasformò subito per esso in cosi dolce abitu dine, che, avendo quel pietoso principe ucciso prima il fra tello e poi la madre, ei non seppe resistere al solletico di scri verne le apologie da comunicarsi a’ Padri, in nome di lui: e non già ch'egli approvasse quei misfatti, ciò disdicendosi a filosofo; ma per non defraudar forse il popolo romano di una elegante perorazione in favor del fratricidio e del matricidio. Si può comprendere quanto ei si rendesse caro al suo augusto allievo per cotai servigietti, a ' quali aggiugnevansi quelli di essergli sempre intimo consigliere nelle alte cure dello stato, e talvolta per indulgenza verso la troppo fragile gioventù, anche mezzano in qualche intrigo d'amore con le sue liberte. Fu quindi colmato di ricchezze, che Tacito porta fino a trenta milioni di sesterzii; si fabbricò magnifiche abita zioni in villa ed in città; tolse in isposa la bella Paolina; e cercò di obbliare nell'opulenza i dispiaceri che gli cagiona vano i piccoli traviamenti a cui Nerone lasciava di tanto in tanto trasportarsi per eccesso di zelo in vantaggio del buon 1 Fu alla morte di Claudio, che Seneca, immemore de' mendicati favori, onde questi lo avea ricolmo, gli detto contra, sotto il titolo di Apocolokintosis, la satira di cui è detto pocanzi. Fa meraviglia che Agrippina potesse in questo li bello veder con tanta indifferenza smascherate le brutture di una Corte, di cui essa era l'arbitra. Ma vi si parlava della grand'anima di Nerone, il quale dovea succedere al defunto principe, come il più degno: e ciò spiega tutto l'enigma.ordine; traviamenti che Seneca vedea col medesimo occhio del suo collega Burro, morens et laudans. Non per ciò i suoi principii stoici cambiarono d'indole; anzi si tennero sempre incontaminati. Nuotando nelle ricchezze, scrivea su di una tavola d'oro con uno stiletto di diamante massime nobilissime in lode della innocente povertà: e, ritraendosi dalle stanze di Nerone, opere della più pura morale sgorgavano dalla sua intelligenza ad esaltare i preyi- della virtù e dannare il vizio all'obbrobrio de'secoli. Ma era Seneca veramente stoico? Intendiamoci. La filo sofia stoica fu coltivata in Atene nella sua parte teorica e nella sua parte pratica. Que' savi che la professavano, aspirando a un cotal sommo bene di cui si erano formata un'idea miste riosa, spregiavano gli onori, le ricchezze, le delizie della vi ta, e viveano intemerati e paghi solo di quell'interno con tento che vien luminoso e spontaneo da una coscienza in pace con sè medesima. Da gran tempo era stata introdotta in Ro ma; e, per analogia di abitudini austere, vi fiori pura e splendida fino alla morte dell'ultimo Romano, il quale bestem miando la virtù per impeto d'indignazione, parve segnar quasi direi il cominciamento alla decadenza di quelle famose dottrine. La filosofia pratica di Epicuro, se non pur forse quella di Aristippo, sottentrava destramente a tenere il cam po: e ad assicurarle il trionfo concorreano tutte le volontà, quantunque per diversi motivi: chè quell' efferato Governo aveva interesse di evirar tutti gli animi con la corruzione, per comprimere gradatamente le forze politiche dello stato, e cosi dar base alla concentrazione di un poter unico ed assoluto: ed il popolo avea bisogno di sommergersi in tutta l'ebbrezza de' piaceri sensuali per non sentir l ' acerbo contrasto fra una servitù divenuta inevitabile, e una libertà, che, di fresco spenta, non erasi ancor tutta obbliata. Per quanto però la depravazione de' costumi fosse gene rale e progressiva, le rimembranze della filosofia stoica non erano poi del tutto cancellate: ne restavano ancora le teorie astratte, i pomposi dettati e l’esteriore affettazione de’modi: e quei ne faceva più solenne apparato che più tendeva precipito samente a seppellirsi in tutte le iniquità della vita domestica e sociale. Pur nondimeno, quando sotto i successori di Augu sto le persecuzioni inferocivano, e Roma erasi trasformata in un miserando teatro di stragi e di rapine, lo stoicismo parve risorgere a metter vigore negli animi per un solo oggetto..... il disprezzo della morte. Il suicidio, quest'atto si altamente riprovato dalle più sante leggi della natura e della religione, rivesti la falsa maschera di una virtù, che per nuove malva gità di tempi fu abbracciata da moltissimi. Da prima fu ispi rato da tenerezza paterna. Le condanne per imputazioni poli tiche importavano la confisca de’ beni a vantaggio de’delatori: ma il senato pendeva per la regola che un individuo non per desse il suo patrimonio, quando preveniva la condanna con morte volontaria: si che, appena un Romano sentivasi accu sato, si affrettava subito ad uccidersi, per non gittare i suoi figliuoli nella miseria. E non vi era da nutrire speranze illu sorie; perché la semplice accusa era in quei tempi una sen tenza di morte. Tiberio contraddisse; dimostrò al senato esser quella una regola scandalosa ed assurda; sarebbe mancato co' premii il coraggio a' sostegni dello stato; e intendea con questo nome indicar le spie e i delatori. Questa prima cagione di strutta, non però i suicidi diminuirono in numero ed in fero cia: restava un altro non men potente motivo a renderli po polari ed onorati: quello cioè di sottrarsi all'infamia di cadere sotto la scure del carnefice. Accesi da questo sentimento che rammentava i bei giorni della romana fierezza, vedeansi uo mini, rotti ad ogni perversità, morir da forti dopo esser vi vuti da vili. Le storie latine son piene di siffatte risoluzioni che imprimono un particolar carattere di sopraumana costanza a quei popoli, e di cui non vi ha che pochissimi esempi presso gli altri popoli dell'antichità, anche de'più famosi e magna nimi. Erano anime maschie, gigantesche nelle virtù come ne' delitti, che riunivano in sè tutti i contrari: nobili pre cetti, azioni scelleratissime, vite degradate, morti eroiche e generose. Seneca fu stoico in questo senso, perchè in que sto solo senso lo furono tutti i suoi contemporanei. Or cer chiamo di ritornare al nostro proposito con un'altra general considerazione, che metterå suggello a tutte le precedenti. ne, La fantasia non può supporsi disgiunta dagli affetti, dalle opinioni, dalle abitudini dell'uomo: chè anzi questa facoltà non sembra attinger vita se non dal concorso di tutti i feno meni sensitivi, i quali agiscono in essa per conferirle tempra e serbianze analoghe, e su i quali essa reagisce dal suo canto ad estenderne e rafforzarne l'indole: si che, immedesimati in un sol tutto indivisibile, rivestono in comune caratteri, at titudini e colori identici. Un essere morale non si forma inol tre da sè solo e indipendentemente dagli altri esseri di simil natura che lo circondano. Rarissimi sono i casi, ove pur ve ne abbia di positivi a citarne, in cui un uomo, ergendosi come gigante isolato sulla terra, ben altro che ricevere la menoma impronta dalle condizioni de' suoi tempi, sembra de stinato a comunicar loro le sue proprie fattezze, e a divenirne a un tratto l'arbitro e il modello. Nelle ordinarie occorrenze della vita, l'uomo, considerato sotto tal rispetto, può dirsi come il lento prodotto dell'azion progressiva che in esso eser cita il secolo in cui si trova; onde, ritrattane in sé l'immagi ei lo rappresenta al vivo nelle sue moltiplici maniere di vivere e di sentire. Seneca, non ostante il suo fortissimo e riflessivo inge gno, era precisamente di questa tempra; e non avea in se nulla di straordinario che lo rendesse capace di luttar con le circostanze per imprimer loro una direzione più alta. Mancava sopra tutto di quel carattere d'indipendenza che la storia ci mostra come dote inerente a tutti i grandi poeti. La condotta che ei tenne con Claudio lo prova; e in quella cheadottò con Nerone, vi è peggio. Non arrossendo in prima di asserire che Nerone col suo regno lietissimo avea fatto obbliar quello di Augusto, andò poi sino a chiamarlo amantissimo della veri tà, modello d'innocenza, benevolo e clemente a'suoi stessi nemici: e non seppe scuotere la polvere de' suoi piedi, e ri trarsi da quella fogna di nequizie, se non quando la morte violenta di Burro gli fe' prevedere la sua, e sentir la neces sità insuperabile di rassegnarvisi. Quindi la sua fantasia, svi luppata e quasi direi nutrita in mezzo a tante nefandigie, non poteva esser troppo abile a sfangarsene per trasportarsi in altri elementi, e vagheggiarvi la creazione dal suo lato pill splendido. Egli stesso par che fosse ingegnoso a spezzarne le ali con quella sua trista inclinazione ad ammassar tesori: per chè lo veggiamo accusato in Tacito di rapace, e in Dione di prestatore ad usura. E se queste imputazioni son false, con vien dire almeno che il suo procedere fosse tale da dar facile presa a simili calunnie. Basterà dunque collocarlo nella sua propria sfera per riassumere in brevi detti quali esser potessero le disposizioni del suo spirito nell ' intraprendere la carriera tragica. Vide i principati di Tiberio, di Caligola, di Claudio e di Nerone: e questo nobile quadrumvirato non era certamente fatto per ispi rargli nozioni troppo rallegranti sulla dignità della natura umana. Ovunque ei volgesse lo sguardo, non iscopriva che orrori; e profondo indagatore qual erasi delle più occulte pas sioni del cuore, non ravvisava intorno a sè che depravazione di sentimenti, sete d'oro e di dominio, tendenze alla ven detta ed alle stragi, tanto da non poter egli rappresentarsi l'uman genere, se non come una congrega di mostri, bale strati sulla terra dal genio del male, perchè vi si divorassero a vicenda. Preoccupato quindi come attore e come spettatore più nella conoscenza degli uomini che in quella dell'uomo, egli dovea per necessità sentirsi tratto a rigettare in un mondo d'illusione ogni specie d'infortunio, che, derivante da for tuiti casi, potesse rannodarsi poeticamente alla segreta in fluenza di una fatalità invisibile: e a non veder quaggiù di positivo e di reale se non delitti e virtù in contrasto, carne fici e vittime in azione, e sempre il più debole schiacciato con perfidia o con violenza dal più forte. Non altrove in fatti che su queste basi egli attese ad innalzare il suo tra gico edifizio. Determinata cosi l'idea fondamentale che dovea servir di unico anello agli orditi, era geometricamente inevitabile che a riempirli con analoga successione di parti, gli fosse pria d'ogni altro mestieri di spingere ancor più oltre il sistema di conferire intensità concentrata alle situazioni, a' caratteri ed agli affetti, onde in tal guisa tutto concorresse ad isolar le im magini per rappresentarle ne' loro nudi e più rilevati contor ni. Quindi nelle sue sceniche figure vi ha sempre, se cosi è permesso di esprimersi, un esagerato lusso di anatomia, ed una secchezza di commessure che colpisce e non incanta: nulla è in esse tracciato sopra linee ondeggianti, ove l'occhio possa riposarsi con equabile digradazione di movimenti; nulla è la sciato ad arte nelle ombre da esser supplito dalla fantasia dello spettatore. La materia de' suoi componimenti, definita per ciò appunto sin da' suoi primi sviluppi con metriche dimensioni, e le più volte attinta più da' tesori della scienza che da quelli della poesia, non poteva allora che rivestire forme rigide, scarne e prive di calore e di vita; perché non si riferiva ad alcuna flessibile immagine che dominasse da lunge a spander vaghezza ed armonia di variati colori ne' suoi dipinti. E ciò spiega nettamente il biasimevole abuso che ei fe'de' monologhi, in cui talvolta si avviene a comprender l'esposizione intera di una tragedia. Il monologo è certamente in natura. Quando le passioni fermentano, l'uomo si piace a disvelare a sè stesso i sentimenti da cui la sua anima è coster nata; e riesce così a comprimerne o a rinfiammarne l'impe to, secondo che la ragione esercita in esso un impero più forte o più debole. Ma questa rivelazione ha pur essa le sue leggi rigorose ed inviolabili. Perché abbia luogo, bisogna che in quel momento gli affetti si trovino in un certo stato di equi librio e di moderato temperamento che loro permetta di rive stir forme possibili di linguaggio. Per l'opposto, le passioni attualmente in tumulto sono mute; perchè aggorgandosi con veemenza per le vie dell'anima, la rendono incapace di espan dersi di fuori e di manifestarsi con altra eloquenza che con quella di un convulsivo silenzio: sopra tutto quando esse son prossime a risolversi in atti esterni, perchè allora si opera e non si parla; e l'azione scoppia in tanto più spaventevole, in quanto fu meno preceduta da quella loquacità importuna che l'annunzia più romorosa che devastatrice. È sol quando mo strasi grave di calma passeggiera e bugiarda, che la tempe sta minaccia una più desolante rovina. A ciò si aggiunge che la rivelazione degl ' interni affetti è propria dell'infelice e non del colpevole: poichè il primo, as sorto ne’dolori che gli vengono da vicissitudini accidentali ed estranee, sembra ne' suoi solitari lamenti voler interrogare Dio e l'universo intorno alla cagione de' suoi infortuni; dove il secondo, il quale opera per impulsioni di volontà consapevo le, apprestasi a compiere il meditato delitto, ma rifuggendo sempre dal trovarsi troppo in presenza del suo delitto; altri menti se gli solleverebbe la coscienza, e le più volte sarebbe distolto dall'iniquo disegno diconsumarlo. Quindi avviene che in questo ultimo caso il personaggio è tratto sovente a discor rere con sè stesso, non di affezioni, ma di avvenimenti: e questo in poesia drammatica è un assurdo; perchè gli avve nimenti sono di loro essenza inalterabili, e, considerati nu damente in sè medesimi, non ribollono mai nell'anima a segno da indurci a rivelarli partitamente a noi stessi per alleviarne il peso. Or si osservino da presso i monologhi di SENECA: sono spessissimo declamazioni fuori natura, det tati da intemperanza prosuntuosa di far pompa di parole, o di narrar fatti che il poeta non sa rinvenir mezzi migliori da comunicare al pubblico; e agghiacciano la immagina zione, perchè interamente privi di convenienza e di verità poetica. Si richiedea l'occhio penetrante di Aristotile per disco prire che in Euripide i cori deviavano talvolta dalla loro bel lissima ed originaria istituzione; ma non vuolsi tanto corredo di sagacità per discernere ne' cori di Seneca un simile difetto; perchè vi è portato sconciamente all'estremo, e snatura l'in dole di questa preziosa macchina teatrale per cosi ridurla scientemente ad un vano frastuono di cantici estranei all'azione rappresentata. Sono ivi d'ordinario introdotti a tener veci di sinfonie per indicare i trapassi da un atto all'altro; e quindi senza alcun legittimo scopo in quanto al fondo dell'arte; se già non fosse per dar pretesti all'autore di sfoggiar la sua abilità nella lirica. Nè vorrò qui ripetere a lungo quanto dissi nel precedente capitolo intorno alle cagioni che spogliarono il coro tragico, si efficace ne' due primi Greci, di ogni specie di drammatico prestigio. Basti aver sempre innanzi agli occhi, che questo era un danno inevitabile per qualunque poeta, il quale, pari al tragico latino, tendesse unicamente verso un genere di immagini esclusivo di ogni conforto di pompa e di espansione. Non potendo io cessar mai d'insistere sopra un oggetto che reputo importantissimo, mi sia dato di riassumerne per un'ultima volta il senso. Lo spettacolo delle sventure, dipendenti da' casi della vi ta, eccita, per l'infelice che ne soffre, una serie di compas sionevoli simpatie, le quali si prolungano di là da' recinti del teatro, e si risvegliano con forza tutte le volte che noi ci fer miamo a riflettere sul nulla della condizione umana: per con seguenza i cori riescono splendidissimi ed utili a preparare, ad accendere ed a protrarre quelle tumultuose affezioni che il poeta seppe far nascere in altri. Per l'opposto, lo spetta colo della distruzione del più debole derivata dalla malvagità del più forte, eccita meno simpatie di pietà per l'oppresso, che sentimenti di abbominio per l'oppressore: e queste non son durevoli, perchè richiamano a non so quale immagine di desolante necessità, la quale concentra l'anima in sè stessa, e non lascia luogo alla fantasia di svagare in alcuna idea di possibilità che la vittima avesse potuto sfuggire al carnefice: quindi allora non vi è alcun partito a trarre dall'intervento de' cori; perchè le passioni odiose non han nulla di effusivo da esigere imperiosamente che si dispongano personaggi in termedi per farle passar con rapidità e veemenza nell'animo degli spettatori. Non vi ha dubbio esser questi propriamente difetti che appartengono alla sola esecuzione: ma io non mi sono tratte nuto alquanto ad indicarli, se non perchè li veggo suggeriti dalla stessa particolare idea che l'autore si elesse a guida, ed a cui si ricongiungono strettamente come necessari effetti di una cagione aperta ed immutabile. E non da altro fonte derivò pure quello smisurato lusso di motti, di sentenze e di arguzie, di cui Seneca si piacque d'ingemmare con tanta pro fusione le sue tragedie, le quali da questo aspetto rassomi gliano ad una collezione di aforismi spessissimo empi e sto machevoli. L'asprezza delle situazioni si presta difficilmente ad una calda ed espansiva magniloquenza; e sembra esigere di siffatti modi saltellanti di linguaggio, che dieno scolpiti ri salti ad attitudini si rigorosamente stentate. Nè gli era biso gno di molta tensione di spirito per rinvenirne in abbondan za: bastava frequentar, come lui, le anticamere de'potenti, per ammassarne de' più spaventevoli, si veramente che ne' suoi personaggi vien rappresentata piuttosto la natura de' Latini de' suoi tempi, che la natura umana in generale: e in cotal guisa perdė fin anche il merito della invenzione. Procuriamo di somministrarne in breve una prova. Quel suo celebre si recusares, darem, dato in risposta da un principe malvagio a chi gli chiedea la morte per uscir di tormenti, non è in sostanza che il feroce motto di Tiberio, il quale osò dir freddamente a coloro che gli domandavano in grazia di far perire un Romano ch'ei perseguitava: Adagio; non l'ho ancor perdonato. Quel detto del suo Atreo: Mise rum videre volo, sed dum fit miser, appartiene di diritto a Caligola, il quale prendea diletto ad assister personalmente alla tortura delle sue vittime, per pascere i suoi sguardi nel veder messe in pezzi le loro membra: e sdegnavasi contra i car nefici che non erano abbastanza lenti nella esecuzione de' loro nefandi incarichi: e Seneca dovè udirlo più volte dallo stesso Nerone, il quale non ordinava l ' assassinio di un infelice, se non dicendo à' suoi satelliti: Fategli sentir la morte; tal che nella congiura di Pisone un suo sgherro si vantò di aver tronca la testa di un cospiratore con un colpo e mezzo. Quell'ini quo tratto della sua Medea, Perfectum est scelus — vindicta nondum, era l'espressione favorita di tutti mostri che da Silla in poi aveano insanguinato Roma. Se si confrontassero alfine le sentenze di Seneca con quelle qua e là rapportate da Tacito e da Svetonio, si troverebbe ch'esse in gran parte sono di origine storica, più che formate dalla sola riflessione del tragico. Nė la ricca merce che in questo genere gli offrivano i suoi contemporanei, gli era pur sufficiente: spigolava ne' Greci at tentissimo; e dovunque scorgea una massima atroce, era in gegnoso ad annerirla più oltre per appropriarsela. Euripide, a cagion di esempio, fe’ dire ad Eteocle nelle Fenisse, che se per possedere un trono bisognava violar la giustizia, era pur bello il divenire ingiusto: massima che il buon Cicerone dolevasi di udir sempre ripetere da Cesare, come se Cesare avesse potuto aver massime di diversa specie. Ma Seneca la trovò gretta e leggiera: una semplice violazione della giustizia avea per lui certo che di vago e d'indeterminato che non rilevava troppo l'orrore della immagine: gli bisognò quindi ritoccarla per darle maggior precisione; e fe' dire più netta mente a Polinice: Pro regno velim patriam, penates, coniu gem flammis dare. Per la patria e i penati s'intende; rap presentano il capro espiatore di tutte le colpe d'Israele: ma quella povera Argia che gli avea somministrato un esercito floridissimo, avrebbe mai potuto credere che il tenero marito fosse disposto in ricompensa a gittarla tutta vivente nelle fiamme per ottenere un trono? Non per ciò Seneca mancò sempre di altissimi dettati. Quel Siste ne in matrem incidas, profferito dal cieco Edipo, allor che dopo la morte di Giocasta ei brancolando cercava una via per uscir di quella reggia contaminata, esprime un terror profondo di cui è difficile immaginar l'eguale. Si è tanto ammirato quel Medea superest, imitato in seguito con tanta felicità dal Corneille: ma ne' frammenti che di lui ci ri mangono delle Fenisse, vi è un tratto di simil natura che a me sembra non meno poetico ed eloquente. Antigone, per metter calma nell' esule padre, gli dice affannosa: nell' uni verso intero che più ti rimane a fuggire? Me stesso, risponde Edipo con fremito disperato. Ed è immagine bellis sima, perchè disvela come lampo tutta la tremenda condizione di quell' infelice famoso. Nella stessa tragedia, Edipo, volendo nell'eccesso del suo delirio uccidersi, sollecita Antigone a porgergli il ferro col quale ei versò il sangue paterno; ed ac cortosi del silenzio di lei, esclama con impeto: hai tu quel ferro, o i miei figli lo han conservato per essi con la mia corona? E questa terribile e veramente tragica idea riceve lume dagli amari motteggi, ond' ei riversa le sue imprecazioni sugli empi fratelli, che, dopo averlo bandito del regno, sel contendeano fra loro con le armi: Me nunc sequuntur: laudo et agnosco lubens..... Exbortor aliquid ut patre hoc dignum gerant..... Agite, o propago clara; generosam indolem Probate factis..... Frater in fratrem ruat.... Ciò prova senza equivoci che, almeno nel linguaggio, Seneca non mancò al certo di bei momenti di forza. Ma che va le? È forza d'un ingegno fantastico ed intemperante, che non conosce modi, non ammette leggi, e confonde spesso il su blime con lo strano. Perocchè talora, imbattendosi in un alto concepimento, non gli giova esprimerlo d'un sol tratto; ei vi ritorna le mille volte, lo stempera in mille diverse guise, ne amplifica le forme con mille ricercati contorni, ed an nientando gli effetti di prima impressione, produce sazietà e disgusto: tal altra, per troppa smania di dire e di ripetere e di girar lungamente intorno ad un medesimo dettato, inciampa senza far colpo, e va sino a render puerili e ridicoli i più tra gici caratteri; perchè le immagini di spavento ch' ei cerca di eccitare, si risolvono allora prestamente in concetti ed in arguzie di spirito, e da'concetti e dalle arguzie si passa a poco a poco a vere scene di farsa. Nè vi ha uopo d'indagarne al trove la cagione che in quella perenne boria di mostrarsi nuovo ad ogni costo, e di prender dagli aridi campi di una prevenuta intelligenza quel che non sa troppo facilmente rin venire ne' regni fertilissimi di una spontanea immaginazione. Siemi concesso di trarne un solo esempio dalle medesime Fenisse. Edipo annunzia di voler morire; ma non per le ragioni che altri per avventura supporrebbe: ama le tenebre, e desi dera procurarsene di foltissime nella notte del sepolcro, per chè quelle della sua cecità non gli sono abbastanza profonde. Antigone piange in udir questa risoluzione; non si costerni dunque l'amata figlia; non più si muoia; eidecide di piantarsi ritto sul pendio di una rupe a proporre indovinelli a’ viandanti. A questo nuovo disegno le lacrime di Antigone si aumenta no, perchè vede allora nel padre, non più indizi di cordoglio, ma di demenza; si consoli dunque la infelice, non si rinnovi la storia della sfinge. Si crederà forse ch'egli le promet tesse di sopportar con dignità e rassegnazione la sua sventu ra? No: per render la calma a quella sconsolata donzella, e darle ampio attestato della sua riconoscenza, ei le offre di volere a un cenno di lei traversare a nuoto l’Egeo, e andare a raccogliere nella sua bocca tutte le fiamme dell'Etna. Hic OEdipus ægæa tranabit freta, Jubente te; flammasque, quas siculo vomit De monte tellus igneos volvens globos, Excipiet ore. Or non doveva essere per Antigone un gran principio di con forto, udendo il cieco padre che per diminuire le angustie di lei vuol mostrarle di possedere il coraggio di Leandro e i pol moni di Encelado? Seneca finalmente sentiva in astratto, che non è poesia dove non è pompa d'immagini; e che la stessa semplicità, piuttosto che nuocere alla pompa, concorre a renderla più splendida e più evidente. Se non che obbliava che questo in dispensabile pregio di esecuzione prende la sua prima radice nell'indole stessa del soggetto, il quale spontaneamente la produce, come fiore ingenerato dal successivo sviluppo del germe che ne contiene in sè le forme vaghissime, benchè in visibili all'occhio nudo: ond'è che dove il soggetto non ne somministri gli elementi, il poeta si studia invano di crearla per sua sola opera dal nulla; specialmente allor che le dispo sizioni del suo animo lo traggono ad abbandonar le illusioni della fantasia per tutto concentrarlo nella sollecitudine di sfog giar dottrine e di annerir la natura. La sua infatti riesce sem pre pompa di esteriore apparenza, 0, per dir meglio, pompa sovrapposta e forzata, che, non ricongiungendosi per alcun legame al fondo dell'idea, degenera sovente in apertissima stravaganza, e vien come clamide imperiale, che, gittata sulle spalle di un satiro, contribuisce meno ad abbellirlo, che a farne risaltar più oltre la villana difformità. Ne addurremo più giù gli argomenti di fatto incontrastabili. Ei tolse tutti i soggetti delle sue tragedie dalla mitologia greca; nè l'Ottavia fa eccezione, perchè ormai gli eruditi convengono non esser sua. A raggiugner però quelle situa zioni richiedeasi il volo dell'aquila; ed il tragico latino avea per avventura un manto di piombo ancor più grave di quelli che Dante pone addosso a una schiera di dannati. Per valu tarne il merito in complesso, giovi poter distinguere anche in lui tre diverse maniere di concepire e di dipingere i suoi qua dri. Allor che il soggetto era di tal condizione fitta ed invariabile ch'egli non potea da verun canto cangiarne l'idea pri mitiva, s' industriava di farne un'amplificazione da collegio, e di acquistare in una specie di morbosa gonfiezza quel che dovea necessariamente perdere in forza ed in elevazione: e fu questo particolarmente il caso dell'Edipo. Quando alcuna materia se gli offriva da esagerare a suo modo l'immagine del delitto, ei sentivasi nel suo vero elemento a dar libero corso alle sue predilette tendenze: e ne diè prova nel trattar la Me dlea. Piacendosi alfine di spingere all'estremo la dipintura delle atrocità meditate, riprodusse il Tieste, quasi a chiuder la strada che altri confidasse di sorpassarlo in questo mo struoso genere. L'esame analitico di queste tre sole fra le sue tragedie giustificherà quanto finora si è detto intorno alla in trinseca tempra di questo autore. Edipo. Se un contagio sterminatore non si fosse ma nifestato in Tebe, che obbligo di ricorrere agli oracoli per ap prendere i mezzi di porvi un termine, i casi di Edipo non si sarebbero mai scoperti. Quindi Sofocle, nella magnifica espo sizione della sua tragedia su questo soggetto, parla di quel flagello, ma in poche linee: il sacerdote non ne fa menzione al re che a solo fine di spiegargli il motivo per cui tutto il popolo è accorso in atto supplice a implorare i consigli e l'aiuto del savissimo de'principi. Seneca per l'opposto, ob bliando esser quello un incidente su cui non bisognava molto fermarsi, giudicò necessario d'impiegar tutto il primo atto del suo tessuto a una minuta descrizione della peste onde la città è tribolata. Edipo, dopo aver accennata la maledizione che pesa sul suo capo di divenir parricida e incestuoso, senza che alcun ordine d'idee ancor lo esigesse, togliesi di raccon tare a Giocasta, che dovea pur supporsene istruita, i feno meni meteorologici onde quella calamità pubblica era disgra ziatamente accompagnata: calori eccessivi, calme soffocanti, torrenti disseccati, campagne isterilite, tenebre profondissi e in mezzo a questo disordine degli elementi, prodigi straordinari, apparizioni di ombre, spiriti ululanti la notte sull'alto de' tempii, e simiglianti. Usciti appena di questa prolusione di fisica sperimentale, l'autore ci introduce in una sala di clinica, menando il coro con una descrizione patologica della peste a fare una mala giunta a quella di cui ci gra tificò Edipo. Gli spasimi, le convulsioni, le febbri, l'abbatti mento delle forze, i gavoccioli, e fin la tosse che affligge gl' infermi, somministrano materie al suo canto: nė vi man cano pure i portenti: perchè le fontane versano sangue invece di acqua, forse per alcuna chimica trasformazione operata dagl'influssi del pestifero contagio. Creonte, che era stato inviato a consultar l'oracolo, giu gne al secondo atto per dire al re, che, a cessar que’mali, era volontà de’numi che l' uccisore di Laio fosse punito: nė tras cura di narrare a lungo le difficoltà incontrate dalla Pitia per destar lo spirito profetico nel suo seno e dare i responsi analoghi alle domande. Mentre il re lancia, come in Sofocle, le sue tremende imprecazioni contra il colpevole, il cieco Tire sia, seguito dalla sua figliuola Manto, che gli serve di scorta, vien sulla scena, non si sa da chi chiamato, traendosi dietro altri ministri di tempii con un toro e una giovenca per fare un sacrifizio nella reggia: e richiesto del nome dell'omi cida, protesta di non saperlo; ma i numi glielo rivelerebbero mediante quell'olocausto. La cerimonia è immediatamente disposta; e le particolarità che l'accompagnano, benchè visi bili a tutti, pur vi sono minutamente notate per mezzo di lungo dialogo tra l'indovino e la figlia, pieno di mistiche al lusioni a' futuri casi di Edipo e di Giocasta, e fin di Eteocle e Polinice, che son personaggi estranei all'azione. La fiamma del rogo scintilla de' più variati colori, ed è solcata di strisce sanguinose ed insolite, si divide in due da sè stessa, ed oltre ogni espettazione si spegne prima che le manchi l'alimento. Il vino offerto in libazione si cangia in lurido sangue, e globi di fumo si spiccano dall'altare e van rotando intorno al dia dema del re. La giovenca cade al primo colpo della scure; ma il toro spaventato sembra fuggir la luce del sole; e men tre stenta a morire, il sangue che gli sgorga dalle ferite, spandesi a coprirgli gli occhi e la fronte. Le viscere sono aperte alle vittime per leggervi il gran segreto: ma nulla vi si scorge al suo luogo, cuore, fegato, polmoni, tutto è in dis ordine: le leggi della natura vi appariscono violate: la gio venca inoltre ha concepito, e il frutto che porta nel ventre, é extrauterino; fenomeno di cui Manto pare istruita più che a vergine si convenisse. Compiuta però questa dimostrazione anatomica, il re crede invano aver tocca la meta de' suoi desiderii con la sco perta del reo; quel romoroso apparato di strane investiga zioni fu opera perduta: Tiresia dichiara esser tuttavia al buio della verità, e quindi bisognargli evocar da' regni della morte l'ombra stessa di Laio che gliela riveli. Ei parte infatti per adempiere in luoghi solitari questa specie d'incanto magico: e Creonte, che con altri fu deputato ad assistervi, ritorna ed apre il terzo atto col racconto di tutto ciò che quivi era avve nuto. Poco lungi da Tebe è una selvaggia boscaglia: ei ne descrive la posizione, gli alberi, le acque, e fino i venti che vi dominano. Tiresia ordina che vi si scavi un ampio fosso, che vi s'innalzi sopra un rogo, e vi si gittino molti animali in sacrifizio con le consuete libazioni di vino e di latte, men tr' egli intonando lugubri carmi con voce minacciosa, invoca gli spiriti ad uscir fuori dell'Erebo. Si odono allora urlare i cani di Ecate; la terra trema; e sprofondandosi apre le vora gini dell'abisso, in fondo al quale si veggono le pallide divi nità infernali passeggiar confuse con le ombre; e con esse le Furie armate di serpi, i fratelli nati da' denti del dragone di Dirce, la Sfinge che fu flagello di Tebe, e tutti i mostri spa ventevoli che abitano quel nero soggiorno. A cosi tetro spet tacolo gli astanti sono inorriditi: ma Tiresia, intrepido sem pre, invoca con maggior forza gli spettri, che a torme innu merevoli arrivano volando sulla terra, e si spandono con fre mito, lungo la selva. Ne sono indicati i nomi come in una rassegna di eserciti: e lo spettro di Laio, che sfigurato dalle ferite è l'ultimo ad apparire, annunzia infine con voce tre menda, che a rimuovere i disastri di Tebe, doveasi cacciarne Edipo, ad espiazione di aver egli ucciso il padre, e di essersi congiunto in matrimonio con la madre. Udita la narrazione di tanto prodigio, il re costernato esclama esser falsa l'accusa, perchè suo padre Polibo ancor vive, ed egli è lontano dalla sua madre Merope. Quindi sospetta che sia quella una calunnia di Tiresia per torgli lo scettro e darlo a Creonte, cui altresi ca rica di rimproveri e minaccia di morte. Si osservi di passaggio che questo sospetto è ragionato in Sofocle, perchè l'accusa vien dal labbro di un uomo qual è Tiresia: ma in Seneca è stolto, perchè quella rivelazione è fatta dall'ombra stessa di Laio che tutti hanno udita. Intanto Edipo, compreso di cruccio e di terrore, ricomparisce al quarto atto con Giocasta; e chiesti nuovi schiarimenti sulle circostanze della morte di Laio, sovviengli di aver egli ucciso un uomo pria di condursi a Tebe; e mentre alle risposte di lei i suoi timori si accrescono, un vecchio pastore corintio sopraggiugne a dirgli che Polibo avea cessato di vivere, e ch'egli era invitato ad occuparne il trono. A questo annunzio ei si piace che l'oracolo da cui fu minacciato di divenir parri cida, siesi pienamente smentito; ma, temendo egli tuttavia l'incesto, il vecchio lo affida, svelandogli che Merope non era sua madre, e ch'ei, ricevutolo bambino da un pastore di Tebe, lo fe ’ adottare in quella corte. Quest'ultimo è appellato per dichiarar la nascita di Edipo, e tutto alfine si scopre come in Sofocle. Al quinto atto un messo accorre a narrare che il re, dopo aver percorso da furioso la reggia, avea risoluto in prima di uccidersi: ma poi, avendo meglio e più filosoficamente pe sate le cose, erasi contentato di strapparsi gli occhi; e che, fatto cieco, ancor levava in alto la testa per assicurarsi s' ei lo fosse interamente, stracciando una per una le fibre che nelle cavità nude gli rimaneano, per impedir forse che qual che filamento muscolare non si trasformasse in nervo ottico a dar passagio alla luce. Edipo stesso apparisce in questo de plorabile stato; e Giocasta gli è a fianco per convincerlo che i suoi delitti erano sola opra del fato: se non che alle voci di lui, che inorridito cerca di allontanarla da sè, delibera an ch'essa di morire. In qual parte del corpo le conviene intanto ferirsi? Quistione essenziale in tanta circostanza; ond' ella la esamina con logica rigorosa, e si colpisce al ventre, che die ricetto a un figlio divenutole marito. A questo nuovo accidente Edipo riconosce sè stesso doppiamente parricida, avendo la sua disgrazia provocata la morte anche della ma Nell'Ercole all Eta di Seneca, Deianira propone presso a poco a sè stessa le medesime quistioni prima di uccidersi dre: e disperato abbandona la patria, invocando tutti i mali di Tebe a seguirlo nel suo esilio. Se per una di quelle insensate pratiche, usate nelle vec chie scuole di rettorica, un giovine studente fosse stato inca ricato dal suo maestro di fare un'amplificazione a sua guisa della greca tragedia di Edipo, io non credo che il mal senso delle descrizioni estranee all’azion fondamentale avesse po tuto esser spinto più oltre. Era serbato a Seneca il sommini strar compiuti modelli di siffatta specie di mostruosità: nė chiunque ha fior di gusto e di senno esigerà che io m'impacci a provargli un difetto sì aperto con appositi commentari; ba stando la nuda esposizione dell'ordito a convincerne senza più anche i meno veggenti. Un critico francese ha cercato di giu stificarne l'autore, allegando che quelle opere teatrali non erano destinate alla rappresentazione; e che in conseguenza il lusso delle descrizioni eterogenee avea per iscopo di ren derne meno inefficace la lettura in alcun privato crocchio di conoscitori, ove soleano venir declamate. Se non che la tra gedia è un particolar genere di poesia che ha le sue leggi sta bili e determinate: e non mi consente la ragione che queste leggi nella tragedia letta, possano esser diverse da quelle re putate indispensabili nella tragedia rappresentata. Quando uno e fisso è il genere, non può esso andar soggetto a variazioni pel vario ed accidental modo di darne conoscenza altrui. Se il poeta estimava che le ampollose descrizioni, bene o mal coerenti a un tragico tessuto, fosser le sole che avesser potuto fare impressione in un'adunanza di ascoltanti oziosi, potea comporne a suo bell'agio distaccate con titoli convenienti, senza contaminarne un'arte che non è fatta per accoglierle. Sarebbe cosi divenuto il precursore di Stazio, lasciando una collezione di Sylvæ, più o meno sopportabili, in luogo di scene tragiche meravigliosamente insopportabili. Medea. Sin dalle prime scene, sentendosi tradita e derelitta, Medea non respira che sangue ed eccidii: ma gli eccidii e il sangue non le sembrano ancora se non leggeris simo alimento al suo animo inferocito. Vorrebbe ritrovare un' atrocità nuova, sconosciuta, straordinaria, che facesse parlar di lei nella più lontana posterità. Nel vederla si libera ne' suoi spaventevoli disegni, la nutrice, che l'è da presso, non sa immaginare altre vie a calmarla, se non rammentan dole che per menar tutto a termine sicuro ella dee nasconder la sua collera; perocchè, ove questa si mostri di fuori troppo apertamente, ricade le più volte sopra colui che ne e animato, e distrugge i mezzi della vendetta. Massima infernale, ma vera; e posta leggiadramente in pratica da tutti i contempo ranei di Seneca. Il re intanto, che teme le arti e le insidie della irritata maga, vien cruccioso ad ordinarle di sgombrar subito da' suoi stati. Indarno ella fa lungo racconto di tutto il passato per mettere in risalto la iniqua condotta di Giasone e la ricompensa infame onde l'ingrato la rimerita de' tanti be nefizii ricevuti; indarno cerca di muovere in quel principe tutt' i sentimenti capaci di piegarlo a rivocare quella dura ri soluzione; questi si rimane inflessibile; e nel ritrarsi dalla scena consente solo a permettere, com' ella ferventemente chiede, che almeno i due suoi figliuoli continuino a dimorar ivi col padre, e che diesi a lei un giorno di tempo per ab bracciarli, e disporsi ad abbandonar per sempre quelle re gioni: favore di cui ella gode nel suo segreto, giudicando bastarle quello spazio a poter tutta rfversar la sua ira contro i suoi implacabili persecutori. Giasone offresi allora con bizzarro monologo a far com prendere che il re minaccia morte a lui ed a' suoi figli, ov'ei nieghi d'impalmar Creusa: nė vi ha cenno che in parte spie ghi o giustifichi questo mezzo speditissimo di concludere un matrimonio; se già qualche maligno spirito non voglia sup porre che Creusa fosse incinta, onde, a salvarle la fama, si obbligasse il profugo seduttore a scegliere fra il talamo nu ziale e la scure. Medea, che di lui si accorge, gli va incontro scoppiante rabbia e dolore. A' veementi rimproveri di lei egli dice che il re l'avrebbe fatta perire, s' ei non lo avesse in dotto a contentarsi di scacciarla solamente dal regno: la solle cita quindi a sottrarsi tusto allo sdegno di chi ha il potere di opprimerla. A fin di scoprire il lato debole del cuore di lui, ella finge di cedere, ed implora che non le sia vietato di menar seco que’ medesimi figliuoli che pocanzi pregava il re a lasciare in cura del padre; e compiacendosi nell'udire esser sulla scena, per lui impossibile di staccarsi da quei fanciulli, si restringe a chiedergli di poter dar loro l'ultimo addio; grazia che il re le avea di già conceduta. Rimasta sola, medita il disegno di disfarsi della rivale, inviandole in dono una veste avvelenata; e corre a farne confidenza alla sua nutrice. Questa rivien e narra i prodigi operati da Medea per compiere il suo funesto disegno. Con le sue arti magiche avea nelle sue stanze attirati il dragone della Colchide, l'idra uccisa da Ercole, e i più mostruosi rettili della terra; e ne' loro veleni, misti a sangue di uccelli impuri ed a fiamme divoratrici, avea confuso i succhi di quante erbe narcotiche allignano sulla faccia del globo. Dopo questa relazione, che è lunga e minuta più che non bisognerebbe a descrivere anche il laboratorio di un farmacista, la maga ella stessa riapparisce; e invocando Ecate con orribili scongiuramenti a discendere dal cielo per assisterla, si ferisce al braccio per far del suo sangue una libazione alla Dea. Terminato cosi l'incantesimo con un sa lasso, intinge in quel liquore la veste già preparata, e manda i figliuoli a farne presente a Creusa. L'effetto è subito prodotto. Un messo viene a raccontar distintamente che l'incendio si è manifestato nella reggia al solo contatto di quel dono fatale, e che il re e la figliuola vi sono rimasti amendue spenti. Medea, che in udir tale annun zio gioisce di aver colto il primo frutto delle sue trame, si dispone a coronar l'opera, uccidendo i figli, per cosi vendi carsi delle perfidie del marito. Questi era corso con gente d'arme a sorprenderla: ma ella erasi rifuggita co ' due fan ciulli e la nutrice sull'alto della casa. Di là parlando a sè stessa intorno a quel che le conviene di fare, dice che il de litto è compiuto, ma non ancor la vendetta; trucida furi bonda uno di quei disgraziati, e ne gitta il cadavere sangui noso a Giasone che dal basso la mira imprecando e fre mendo: e mentr' egli la scongiura inorridito a conservare almen l'altro in vita, ella lo trafigge sotto i proprii occhi; e chiamandosi dolente di non averne avuti che due soli ad immolare, vuol cercar nel suo seno se vi sia il germe di qualche altro figliuolo per istrapparselo a brani dal fondo delle viscere. Innalzandosi alline sul suo carro magico, Ricevi, dice al marito insultando, ricevi i tuoi nati; io mi slancio al di sopra delle nuvole. Si, quei le risponde, assorto nel raccapriccio e nella disperazione; và per gli alti spazii dell' acre ad attestare all' universo che non esiste al cun Dio: Per alta vade spatia sublimi ætheris Testare nullos esse, qua veheris, deos. Tratto divino !.... esclamava un critico: veramente, ripigliava un altro scherzando sulle parole, non vi è nulla che sia men divino ! Sull'indole di questa ributtante favola drammatica dissi altrove abbastanza: e qual pessimo governo Seneca ne facesse ad ancor più oltre annerirla ed a gonfiarla di vento, ciascuno può giudicarne da se medesimo. Non è intanto superfluo il notare una circostanza che sembra sfuggita costantemente a' dotti illustratori di questo tragico antico. Orazio inculcava severamente a ' poeti di non mai dare a spettacolo una Medea che trucida i figli al cospetto del popolo; poichè un simile atto da far fremere sterilmente la natura, dee riuscir più or rendo che tremendo per chiunque non abbia rinunziato ad ogni sentimento di umanità. Che Seneca infrangesse un cosi savio precetto, chi ben conosce la tempra della sua fantasia ne comprenderà facilmente i motivi. Ma donde Orazio lo trasse? Questo fu per me sempre un enigma. Un precetto che vieta una difformità in poesia, è come una legge che vieta un delitto in politica: suppongono amendue che un dis ordine abbia esistito per lo passato, e mirano ad imporre un freno affinché non si riproduca nell'avvenire: e non vi ha esempio in cui la giurisprudenza civile fulmini un'azione che non ha mai avuto luogo nella condotta degli uomini, come non vi ha esempio in cui la critica letteraria basimi un difetto di gusto del quale non vi è traccia nella storia delle arti. L'in duzione a trarsi da questo principio è semplicissima. Orazio non potea certamente aver letta la sconcezza, ch' ei riprova con si grave dettato intorno a Medea, nè in Euripide il quale avea saputo evitarla, nè in Seneca il quale fioriva quando egli era già spento. In conseguenza è a dirsi, ch ' ei la scor caso, gesse in qualcuno de' poeti latini suoi predecessori o contem poranei, le cui opere sono a noi sconosciute. E in questo che io lascio agli eruditi di verificare, non possiamo nel precettor di Nerone ravvisar nè anche l'esistenza di una facoltà, disgraziatamente assai comune; quella cioè di saper ritrovare da sè stesso una turpitudine. La predilezione de' Latini per la favola di Medea costi tuisce inoltre un fenomeno che merita ugualmente di esser notato. In Grecia non imprese a trattarla che il solo Euri pide; e dopo di lui una tragedia sopra il medesimo soggetto, che non è pervenuta alla posterità, fu scritta da un tal Neo frone, di cui non ho mai saputo novella. In Francia non è da citarsi che la Medea del Corneille; poichè i tentativi di Pe louse, di Longepierre e di Clement sono ormai obbliati. Nella sola polvere degli archivii se ne additano due in Italia, una del Torelli, l ' altra del Gozzi: e parlo fino al 1820; perchè, se altre ne sieno apparse dopo, lo ignoro, e non ho mai cu rato d'informarmene. Non ne apparvero, a quanto io creda, fra gli Alemanni e fra gli Spagnuoli; e può dirsi nè anche fra gl' Inglesi; poichè quella del Glower non è calcata sulle memorie antiche. Questo poeta, in ciò di squisito senso, benchè non di alta sfera nel resto, osò con fermo proposito guastar piuttosto la tradizione ricevuta, che denigrare con una esagerazione si assurda il prezioso carattere di madre: ei suppose che Medea uccidesse i figli in un eccesso di frene tico delirio che le impediva di riconoscerli. E ritornata in sė stessa, la dipinse preda alla disperazione per l'involontario attentato, anzi che lieta e trionfante di aver dato opera a una vendetta che innanzi ad ogni essere ben costituito dalla na tura dovea necessariamente colpir di preferenza il di lei pro prio cuore. In Roma per l'opposto par che non vi fosse poeta tragico il quale non avesse tentata una Medea. Vi si segnalarono Ennio, Pacuvio, Accio, Ovidio, Seneca, Materno ed altri: e Tertulliano parla di un Osidio Geta, che nel primo secolo dell'era cristiana compose tutta di versi di Virgilio una nuova Medea, di cui lo Scriverio si è dato l'inutile pena di raccogliere alcuni frammenti. Con queste tendenze di ferocia ne' drammatici latini, vi è poi tanto a stupire che ivi la sana tragedia non mai prosperasse con la dignità richiesta? Tieste. La scena è nella reggia di Micene; e l'azione si apre con l'Ombra di Tantalo, la quale, tratta sulla terra da una delle Furie infernali, è da essa spinta a metter odio e furore nell'animo de'due fratelli Tieste ed Atreo, suoi discen denti, onde seguano fra loro i più orribili misfatti. Al solo aggirarsi dello spettro in quelle mura fatali, Atreo, che vi tenea scettro, è subitamente invaso da fieri desiderii di ven detta contra Tieste, che gli ebbe un tempo pervertita la sposa ed involate le ricchezze, e che állor viveasi profugo in terre straniere nella più estrema miseria. Memore de' torti rice vuti, ei non più spira che minacce di esterminio: e trattiensi a parlar con uno schiavo suo conſidente intorno al modo più sicuro da immolar l'abborrito fratello all'ira che lo investe. Il ferro per lui è arma di tiranni volgari: ei vuol supplizii e non morte; poichè nel suo regno la morte debb' esser consi derata come una grazia. Meditando un eccesso che possa spa ventar gli uomini e la natura, ei risolve di richiamar Tieste dall'esilio con finte proteste di pace e di obblio del passato; ed attiratolo cosi nella reggia, trucidargli a tradimento i figli, e preparargliene pasto neſando in una cena notturna. Ei va gheggia lungamente il suo infernale disegno; e già ordina i mezzi da eseguirlo. Tieste, sollecitato da iniqui messaggi, cade nella rete insidiosa; e, costretto dall'indigenza, presen tasi con tre suoi figli in Micene, non senza terribili presenti menti di ciò che possa ivi essergli ordito di atroce. Atreo, che ne è subito avvertito, affrettasi ad incontrarli ebbro di esultanza nella certezza di aver finalmente le vittime fra i suoi artigli; e coprendo il suo empio pensiero, avanzasi con benevolo sembiante ad abbracciar Tieste ed a chiedergli il bacio fraterno. A udirlo, era quello per lui un vero momento di felicità; onde bisognava deporre gli antichi rancori, e non più ascoltar che la voce della pietà, della concordia e del sangue. Tieste si precipita a' suoi piedi, implora il suo per dono, e tra le lagrime della tenerezza e del pentimento lo prega di accogliere sotto la sua mano protettrice quegl' inno centi giovinetti. Da prima ei ricusa di accettar la metà del regno che il re gli offre con simulati affetti: si terrebbe felice di vivere suo suddito, e di poter espiare i suoi falli co' suoi fedeli servigi: ma cede alfine alle iterate insistenze del per fido Atreo, il quale, invitandolo a cingere sul suo capo vene rando il diadema reale, annunzia con espressioni di doppio senso che, a suggellar la pace tra loro, ei va intanto a disporre un sagrifizio. Questo inviluppo in sè occupa i tre primi atti della tragedia. Al quarto un messo appare sbigottito, e con le più rac capriccianti particolarità narra il già consumato eccidio al coro. Innanzi tutto ei descrive la parte remota del palazzo ove so leano soggiornare i principi di quella contrada, ed a lungo enumera gli straordinari ed incredibili portenti di cui quel sito sembra essere il magico ricettacolo. Ivi Atreo erasi con dotto in segreto con suoi fidati sgherri, trascinandosi dietro i figliuoli del fratello, ch'egli stesso avea già carichi di catene, ed a foggia di vittime inghirlandati di fiori e di bende. Or rendi altari vengono al momento eretti, arde l'incenso, le libazioni versate spumeggiano, la scure tocca il capo di que' mi seri, e tutte le formalità di un ordinario sacrifizio son diligen temente osservate. A tal sacrilego apparato, ed a'cupi urli di Atreo, che pronunciando funebri preghiere intuona l'inno della morte, la vicina selva trema: la reggia sembra crollar dalle fondamenta, il vino effuso cangiasi tosto in sangue, il dia dema cade tre volte dal fronte del re, il quale pari a fame lica tigre avventasi su i tre indifesi nipoti, e l'un dopo l'altro trafiggendoli, spande il terrore ne' circostanti satelliti. Ciò compiuto, egli strappa loro le viscere per leggervi entro i presagi del destino; mette finalmente in pezzi le loro membra ancor palpitanti, ne prepara col fuoco l'infame cena, e la fa recare a Tieste, che ignaro degli eventi, lo attendea nelle sale dell'ordinario convito: e cosi quel padre infelice, che in abito festivo crede per la prima volta gustar la voluttà della con cordia con lo snaturato fratello, divora le carni de' propri figliuoli. A questa immonda narrazione, che può star leggia dramente a fianco delle additate nelle due precedenti trage die, il coro prorompe in esclamazioni analoghe allo spavento di cui si trova compreso. Il quinto atto ci rappresenta il ritorno di Atreo, il quale, dopo aver pasciuto i suoi sguardi in quella mensa infernale, vien fuori gridando con frenetica ed orribile compiacenza: Æqualis astris gradior, et cunctos super Altum superbo vertice attingens polum, Nunc decora regni teneo, nunc solium patris. Dimitto superos: summa votorum attigi. e Ma il fatto atroce non ancora lo appaga: gli bisogna compiere il lutto di un padre, rivelandogli il tremendo mistero, a fin di saziarsi di vendetta in veder gl' impeti del suo disperato dolore. All'appressarsi quivi di Tieste, ei da prima si cela per udirne il solitario linguaggio: indi si mostra; ed invi tando il fratello a finir seco di celebrar quel giorno di letizia, gli offre una tazza di vino in cui è misto il sangue de' prin cipi uccisi. Questi, contento in parte della riacquistata pace, e in parte agitato da oscuri perturbamenti di animo, chiede affannoso che gli sia concesso di porre il colmo al suo giubilo abbracciando i figliuoli. Atreo lo tien sospeso con espressioni equivoche, e lo sollecita sempre più a bere in quella tazza: se non che a quel misero, nel riceverla, sembra veder fuggire il sole, scuotersi la terra, sconvolgersi gli elementi; e rinno vando le istanze di rivedere i figliuoli, il mostro si scopre, glie ne gitta a ' piedi le teste sanguinose, dicendo: gnatos ecquid agnoscis tuos? Qui Seneca ritrova uno di quei felici motti, per la cui vibrata energia è solamente notabile: peroc chè Tieste ansante a cosi nero attentato, non richiama in se gli accenti smarriti, se non per esclamare, agnosco fra trem !.... e cade in delirio smanioso. Credendoli solamente uccisi, ei domanda con fremito di poterne almeno seppellire i cadaveri; allor che l'empio gli svela ch ' ei li avea già divo rati, e gli narra tutto lo scempio che si era studiato di farne. Le furie di Tieste e le insultanti risposte di Atreo, che gode a quello spettacolo di orrore, chiudono la scena. Vi ha certa memoria che una tragedia di Tieste fosse anche stata scritta da Euripide, la quale va fra le tante di quel teatro che si sono sventuratamente perdute: e Seneca forse l'ebbe sott'occhio, ad attingerne per lui, non foss' altro, la stomachevole idea. Quali forme particolari di dramma tica esecuzione il Greco poi avesse adottate con destrezza per temperar l'orribile del soggetto fondamentale, non vi ha sto rico indizio da poterne rettamente decidere. Altrove si è però notato, che non ostanti le tendenze di quel poeta per la di pintura degli eccessi dolosamente criminosi, tendenze che fra le sue mani pervertirono si bruttamente l'arte, il popolo di Atene gli era pur tuttavia di costante freno a non lasciarsi precipitare in troppo aperte mostruosità; ed ei più volte ne avea fatto a suo danno e scorno il crudele esperimento. Può in conseguenza tenersi ch' ei procurasse di velare in gran parte le incredibili atrocità onde le vecchie tradizioni aveano corredato a' posteri quel famoso avvenimento de' tempi eroici della Grecia; e che Seneca s ' industriasse al suo solito di anne rirlo oltre misura, frastagliandolo a modo proprio con quella sua fantasia pregna dello spettacolo reale di tutte le più turpi enormezze. Alcuni han creduto infatti, che la descrizione di quella parte della reggia di Micene ove si finge che Atreo spegnesse i nipoti, fosse fedelmente ritratta da quella parte del palazzo de' Cesari in Roma, che Nerone avea destinata alle sue laide passioni e crudeltà segrete. È possibile ancora che Seneca traesse altre ispirazioni alla sua opera dalla tra gedia latina, che, siccome Ovidio narra, Vario e Gracco com posero insieme su i casi di Tieste, e che probabilmente è la stessa in seguito divulgata sotto il solo nome di Vario, di cui la storia di quel secolo ci ha serbata rimembranza. A ogni modo, il fatto vero o non vero su cui si fonda questo tragico lavoro, non meritava esser cosi rilevato in tutta l'asprezza delle sue giunture e l'abbominevole nudità delle sue forme, che in un secolo in cui i più esecrandi at tentati e le più truci e inudite vendette facean parte integra e special delizia della vita pubblica e privata di ogni uomo. Col sicuro presentimento che a' suoi contemporanei non ne sarebbe incresciuta la dipintnra, Seneca lo tratto senza velo: e i suoi sforzi nel dare alcun contrasto di luce a quelle tene bre infernali, restarono inefficaci. I tre giovinetti sacrificati all'ira dello scettrato cannibale di Micene, non muovono che una pietà volgare e ſuggevole, poiché cadono pari a mutoli agnelli che il famelico lupo divora mugolando nelle sue grotte di sangue. Nè alcuna di più eminente ne muove pure lo sten tato ritorno di Tieste sulle vie della virtù e della giustizia, si perchè un tal ritorno può sospettarsi dettato dalla pienezza delle sue miserie, e si perchè il suo violento e consumato in cesto con la sposa del germano, è un fatto di sua essenza ir reparabile, e non si cancella o ripurga per pentimenti per lacrime. L'orror cupo e nefando che spira il carattere di Atreo, è l'unico affetto che domina e inviluppa ferocemente l'azione: se non che, soffocando a un tratto tutte le potenze dell'anima, le addormenta in uno stupor convulsivo, che di strugge ogni vitalità di sentimento negli spettatori, ed abban dona il personaggio alla sola compagnia di sè medesimo. E conviene saper grado all'autore di aver nell'ordito messa giù ogni maschera d'ipocrisia. Conscio che il suo Atreo è un mo stro fuor di natura, ei lo allontana diligentemente da ogni specie di contatto con la natura. In lui, niuno di quei palpiti precursori che si associano al concepimento di un grave e spaventevole delitto; niuno di quei terrori salutari che arre stano involontariamente la mano armata di un pugnale omi cida; niuno di quei rimorsi che la rea coscienza genera a un tempo e ritorce contro a sè stessa innanzi allo spettacolo di una già eseguita scelleratezza. A che infatti porre in mostra gli ordinari fenomeni del cuore umano per attaccarli a un essere al cui tipo la tempra dell'umanità rimansi compiuta mente estranea? Ma usciamo alfine di questo pattume: i comentari sono superflui dove i fatti parlano da sè in guisa, che ad ogni uomo di mente sana e di cuor non guasto è facil cosa il valu tarli. Ne mi rimane intorno a questo autore se non a preve nir brevemente qualche obbiezione che molti per avventura saran tentati di oppormi. Alcuni, per esempio, col bel romanzo del Diderot alla mano, diranno che io in questo esame ho troppo annerito il carattere morale di Seneca; ed a costoro, senza inutili contese, lascio piena libertà di alimentare la loro passione pe' romanzi, e di farsene un idolo: l’umana viltà sovente ha deificato tanti mostri, che aggiugnervi anche quello il quale, giusta la grave testimonianza di un Tacito, diede apertamente opera, se non a concepire, a consumare almeno un matricidio, non dee poter cagionare alcun nuovo scan dalo. Altri, con l'autorità di Marziale e di Sidonio Apolli nare, diranno, dall'altro canto, che vi ebbero tre fratelli conosciuti sotto il nome di Seneca; e che il teatro venne ascritto sempre, non al primo che fu precettore di Nerone, ma bensì ad Annio Novato, ch'era il secondo. Potrei rispon dere che uomini dottissimi in fatto di latina erudizione, quali sono un Giusto Lipsio, Erasmo, Einsio, i due Scaligeri, ed altri non pochi, attribuirono al filosofo gran parte di quelle trage die, senza lasciarsi punto illudere dalla circostanza ch'esse fos sero state pubblicate col nome del fratello: e ch'egli real mente vi abbia cooperato, lo attesta Quintiliano, il quale net tamente lo addita come autore della Medea. Potrei soggiu gnere che, ove quelle tragedie si paragonino attentamente con le prose del filosofo, basta la più leggera critica per rav visar nelle une e nelle altre le medesime tendenze di spirito, le medesime pretensioni di dottrina, spesso il medesimo fondo di pensieri, più spesso ancora le medesime stentate forme di lingua e di stile. Se non che tutte queste discettazioni erudite sono di niuna importanza per me. Quando anche mi si dimostri con matematica evidenza che le persone eran diverse, niuno potrà luminosamente provarmi che la tempra delle anime non fosse la stessa. Nelle mie investigazioni è stato in me principal di segno di apprendermi, non all'individuo materiale, che in teressa la storia degli uomini più che la.critica de' tempi, ma bensì all' individuo astratto, che vien come lucido specchio in cui fedelmente si riflettono le sembianze di un secolo con tutte le caratteristiche impronte, e tenaci abitudini, e maniere sue proprie di sentire, di pensare e di vivere. Se infatti biz zarria taluno volesse attribuir quel teatro ad altro poeta con temporaneo, a Lucano, per esempio, ch'era figlio del terzo fratello di Seneca il filosofo, cangerebbe egli mai lo stato della quistione? Il famoso cantore della Farsalia non fe' onta all' egregio zio: prese parte attiva in una congiura celebre, che mise Roma tutta in commozione; e, scoperto appena, tentò fuggir morte, denunziando vilmente i suoi complici, tra per i quali era sua madre: condannato indi a perire, perchè non era facile il placar Nerone per simil genere di meriti, affetto eroica fermezza; e ne’momenti supremi declamò versi allu sivi al suo stato; e del sangue che gli usciva dalle segate vene fe ' generosa libazione a Giove liberatore. A che andar più oltre mendicando prove, fatti e ravvicinamenti? Eran tutti cosi: ed il mio scopo essenziale si fu di chiarire, che ingegni educati disgraziatamente in mezzo a realità prosaiche e ributtanti, non poteano produrre che opere drammatiche ributtanti e prosaiche. Le ingenue ispirazioni della natura esigono am piezza di spazii congiunta a splendore di analoghe circostan ze; e le grandi fantasie non si sviluppano al certo nelle piazze de' patiboli. La morale di questa filosofia fu scritta da un altro napole tano esiliato per i moti politici del 1820 21; che merita anche lui almeno un breve ricordo in questa storia: Francesco Paolo Bozzelli. La sua vita ha molti punti di contatto con quella dello scrittore del quale abbiamo ora finito di parlare; e meriterebbe uno studio speciale. Il Bozzelli nacque in Manfredonia il 22 aprile 1786 (1).A venti anni era a Napoli a studiar leggi sotto Michele Terracina e Ni cola Valletta. Si laureò avvocato; ma presto abbandonò la car riera forense, essendo stato nominato per concorso U d i tore del Consiglio di Stato. Nel 1815 fu ispettore generale della Sopraintendenza generale di salute; e l'anno seguente per lo zelo e l'operosità dimostrata in occasione della peste di Noia, pro mosso Segretario generale della stessa Sopraintendenza e nominato cavaliere. Nel 1820 presentato dal Parlamento in una terna per Consigliere di Stato; ed ebbe infatti questo alto ufficio nel di cembre di quell'anno (2).Nel successivo fu nominato Commissa rio civile per l'approvvigionamento delle truppe in Abruzzo. Ma, caduta la libertà, dovette anch'egli cadere; e fu imprigionato, quindi proscritto. Nel giugno 1822 si rifugiava a Parigi; donde passò nel '26 a Londra, per tornarvi. E a Parigi quindi (1) Traggo le notizie biografiche di lui da un clogio funebre, scritto su informazioni fornitedalnipoteomonimo del Bozzelli:Sulferetrodelcav.F. P.Bozzelli,paroledette il 27 febbraio 1861 nella Congrega dei ss. Anna e Luca dei professori di belle arti, dal l'architetto CAMILLO CASAZZA. Napoli,Cons,;opuscolo di 8 pp.in-4.°posseduto dalla Società napoletana di Storia patria. (2)Diluinon sidicenullanell'opuscolo,delrestopertantirispettideficientissimo, di VINCENZO FONTANAROSA, IParlam.nas.napol. perglianni1820e1821,mem.edoc., Roma,Soc.D. Alighieri,837; nel qual anno gli fu dato finalmente di ri tornare a Napoli.Dove riprese la carriera forense,e rimase tutto il resto di sua vita. Per sospetto di cospirazione, e arrestato e tradotto nel forte di S. Eramo; ma riottenne subito la libertà, anzi acquisto la fiducia di Ferdinando II. Il quale lo n o mino socio ordinario della R. Accademia delle scienze morali e più tardi Presidente perpetuo dell'intera Società Borbonica,ora Reale; e nel 1848 lo chiamò a far parte del Ministero, come ministro del l'interno. E d egli redasse lo statuto. Si ritirò nell'aprile e fu n o minato un'altra volta Consigliere di Stato.Ma nel maggio tornò al potere e condusse la reazione che seguì all'infausto 15 di quel mese. E ministro resto, da ultimo col portafogli dell'Istruzione, fino all'agosto 1849. Quindi si ritrasse a vita privata,in una villa della collina di Posillipo,dove fini isuoi giorni il2 febbraio 1864. 2. Come scrittore è particolarmente noto per le sue ricerche Della imitazione tragica presso gli antichi e i moderni (1), dove in tese a combattere la tesi difesa dallo Schlegel nel suo Corso di lette ratura drammatica.Ma eglifuanche poeta non mediocre(2),eau tore di parecchie altre soritture di estetica; fra le quali meritano speciale menzione le seguenti: De l'esprit de la comédie et de l'in suffisance du ridicule pour corriger les travers et les caractères, p u b blicata in francese a Parigi nel 1832; Cenni estetici sulle origini e le vicende della poesia ebraica (3), nonchè due memorie lette al l'Accademia di Napoli: Cenni cstetici sulle origini e le doti del teatro indiano; In quale dei cinque sensi a noi conosciuti è da scorgere il proprio ed efficace organo della bellezza. Il solo titolo di questa memoria basta, mi pare,a farci intendere che razza di estetica fosse quella del Bozzelli. Nel 1838 annunziava un trat tato di estetica, pubblicandone l'introduzione in una rivista(1); (1) La 1.a ediz, fu fatta a Lugano nel 1838 in 2 voll. L'edizione corrente è quella delLeMonnier. Mafral'anael'altracen' èunasecondacorretta e daccresciuta di un capitolo sul teatro, Napoli, Vaglio, in quella Biblioteca italiana pubblicata per cura di B. Fabbrica tore,che accolso anche la Storia generale della poesia del Rosenkranz, tradotta dal De Sanctis (1853-54). E l'editore annunziava che all'Imitazione avrebbe fatto seguire altri 2 voll.contenenti scritti del tutto inediti del Bozzelli. Sull'Imitazione, v.ULLOA,op.cit., II,330. (2)VedilesuoPoesievarie,Napoli,DeBonis,1815;e intornoadesse ULLOA,I,244, e l'articolo di V. IMBRIANI nel Giorn,napol.della domenica,1882,an.I,n.20.  (3) Milano, 1842. (1) Vodi il suo art. Filosofia dell'estetica nel Progresso ma disgraziatamente il manoscritto gli fu involato, come ci dice un biografo, nella prigione di S. Eramo. Anonimo uscì nel 1826 un suo Esquisse politique sur l'action des forces sociales dans les différentes espèces de gouvernement, che egli aveva mandato m a noscritto da Londra a un suo amico di Brusselle, e fu da questo pubblicato a sua insaputa. Fu lodato dal Tracy e il n o m e dell'autore scoperto in una recensione che ne fece con lode il Daunou nel Journal des Savans; onde valse a prolungare l'esilio del Boz zelli, non potendo le idee liberali sostenute in quel libro essere approvate dal governo di Napoli. E molti brevi scritti inseri in riviste straniere, durante l'esilio,e negli Atti dell'Accademia a Napoli, che non giova qui ricordare (1); essendoci qui proposti soltanto di dare una notizia d'una sua più notevole opera: Essais sur les rapports primitifs qui lient ensemble la philosophie et la morale,stampata a Parigi nel 1825,eristampata nel 1830 col ti tolo più breve De l'union de la philosophie avec la morale (2); la quale rappresenta davvero un tentativo storicamente considerevole. 3. Il Bozzelli si prefigge in essa lo scopo di dare alla scienza della morale quell'ordine rigoroso, quell'unità sistematica, che erano stati raggiunti, secondo lui,dalla filosofia speculativa dopo Bacone, ossia da quando essa cominciò a fondarsi sull'esperienza: di fare perciò della morale, che si trattava ancora sotto la forma vaga d'una raccolta di osservazioni staccate, una vera scienza filosofica. Perchè, egli dice,« la philosophie n'est pas seulement (1) Una sessantina di saggi dice il Casazza, che ne dovette avere innanzi l'elenco. Ma noi non no conosciamo cho pochi: e menzioneremo solo il Disegno di una storia delle scienze fllosofiche in Italia dal risorgimento delle lettere sin oggi (ostr. dagli Atti dell'Ac cademia di sc.mor.e pol.di Napoli); dove sono alcune considerazioni superfi ciali intorno alle tendenze spiccatamente filosofiche delle menti del mezzogiorno d'Italia e a quel giusto mezzo che,quasi per il loro vivo senso artistico, gli Italiani in generale avrebbero, secondo l'A., mantenuto tra le dottrine estreme del materialismo e dello spi ritualismo astratto. Noi non conosciamo che questa 2." odiz. di Paris, Grimbert et Dorez. Anche in questa ediz.,del resto,il titolo ripetuto dopo un Discours prélimi naire è Essais sur les rapports ecc.E a quest'edizione si riferiscono le nostre citazioni.Il PICAVET (Lesidéologues,Paris,Alcan), dandouna brevissimanotiziadellibro, che citaEssaisecc.,dà la data del 1828. Ma dev'essere una svista.La data del 1825 è data dal Casazza e dal cenno che sul Bozzelli si trova nella Grande encyclopédie. Sul libro, si cita una recensione del Lanjuinais nella Revue encyclopédique, vol.26.o Il Casazza infine nel 1864 diceva che il nipoto omonimo già ricordato « con rispettosa ossequenza al nomo dello zio,or ora porrà allo stampe la traduzione dell'opera Saggio sui rapporti,ecc.>, la clef de la morale,elle en est l'essence même ».Non disconosco che importanti concezioni rigorose della morale c'erano già state in Germania après les ramifications de la doctrine de Kant (1). M a non erano che concezioni di unitari, com'egli chiama gl'idealisti; di unitari o teisti, o assoluti. E ormai è chiaro di quale filosofia l'autore intendesse parlare, volendo filosofica la morale. Egli insomma voleva per questa qualche cosa che potesse paragonarsi agli scritti concernenti la teorica della conoscenza (philosophie egli dice) di Locke, di Condillac, di Destutt de Tra cy: « ces trois écrivains qui semblent se succéder exprès pour ajouter l'un à l'autre, pour serrer de plus en plus l'analyse et l'enchaînement des faits, pour que l'erreur echappée à la pour suite de l'un soit atteinte par l'autre jusque dans ses derniers retranchemens; ces penseurs enfin qui brillent comme trois points lumineux dans l'histoire de l'esprit humain, et qui éclairent la route de la vérité,pour empêcher que personne ne puisse plus s'égarer dans le vague des hypothèses »(2). 4. Le azioni umane, la cui direzione costituisce l'oggetto della morale, non sono apprezzabili se non a patto che si riferiscano alle affezioni che le determinano. La scienza della morale, per tanto, si fonda sulla conoscenza delle cause per cui tali affezioni si generano, si succedono, si coordinano: si fonda, oggi si direbbe, sulla psicologia. E come il principio d'ogni fatto spirituale è nella sensazione, bisogna cominciare da questa. La sensazione è un fenomeno del nostro essere,che avviene internamente,dentro di noi(3);questa è una verità intuitiva,at testataci dalla coscienza. Il numero delle sensazioni è infinito; ma esse entrano fra di loro in certi rapporti; il che non sarebbe possibile senza un sostegno, un centro, un principio generale e permanente di tutte queste affezioni.È un'induzione questa asso lutamente necessaria, perchè unica. Noi non conosciamo diret tamente questo qualche cosa che è la base delle sensazioni; m a lo scopriamo per i suoi effetti, come la prima condizione di essi, come una potenza particolare,che sipotrà indifferentemente chia mare essere senziente, anima, spirito, intelligenza, sensibilità. (1)Ma non pare conoscesse le opero oticho di Kant o de'suoi epigoni.Di Kant cita solo le Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime;e,salvo errore,nella tradu zionefrancesedolKoratry.L'accennochesifaap.464eseg.allamorale disinteressata di Kant non prova una cognizione diretta delle opere kantiane.  Ma la sensazione rappresenta 'sempre qualche cosa di estra neo all'essere che sente: non si potrebbe concepire in noi la pre senza d'una sensazione, spogliata da ogni rapporto con oggetti dif ferenti da noi.Sicchè bisogna convenire,che vi sono realmente causc esteriori che noi conosciamo soltanto dai loro effetti su noi, e che sono la seconda condizione, non meno indispensabile della prima, per lo sviluppo della sensazione: e il loro insieme si dirà natura, mondo, universo, o, più semplicemente, esistenze che ci sono estranee. Per ammettere queste esistenze l'argomento più luminoso, se condo il Bozzelli, è che quando mancano certe date sensazioni, non accade mai d'imbattersi negli oggetti che possono produr le(1).Ognun vede che l'argomento è molto debole, per non dir nullo: ma infine « tous ceux qui se tiennent dans les bornes d'une espèce de doctrine pratique et de simple sens c o m m u n, en sont pleinement d'accord ». E questo è verissimo. Contentiamoci, ad ogni modo, per la scienza dell'anima e dell'universo,diqueste semplici verità d'induzione:erinunziamo alle ricerche metafisiche sull'essenza dell'anima e sul principio generatore dell'universo. L'impossibilità d'una soluzione scienti fica dei problemi metafisici è dimostrata dal fatto che non ci sono due pensatori che abbiano dato una stessa soluzione: quot capita totsententiae.Se oggi,diceilBozzelli,sisaqualchecosadichiaro in questa materia, si deve piuttosto ai lumi della religione po sitiva che ha tagliato i nodi con la sua autorità. La sensazione non importa semplicemente la rappresentazione di cause esterne,l'appercezione delle qualità dell'oggetto, ma an che una immancabile alternativa di dolore o di piacere. Una sen sazione che non s'accompagni con un'emozione gradevole o in cresciosa,è un'astrazione senza realtà. La sensazione è tutta la sensazione: ossia fatto rappresentativo oggettivo e fatto emotive. Del resto, Bozzolli ammette la oggettività della cosa, ma non ammette quella dello qualità: « Dans la réalité, une sensation ne représonte rien en elle-même, parce qu'ellen'estriendesemblableàl'objetquilaproduit -- chia come fisica; e i positivisti d'oggi e gli altri agnostici non hanno nessuna la nuova conclusione È la vec de 'critici negativi di ogni m e t a della sottomissione rità religiosa. È la conseguenza ragione di scandalizzarsi forze della ragione. del Bozzelli logica e fatale all'auto della sfiducia nellesoggettivo. Donde la vera classificazione delle facoltà dell'anima inintuitiveeattive;leunestrumento dellaconoscenza,lealtre dell'azione.Le forme rappresentative sono icaratterifilosoficidella sensazione; i fenomeni di piacere e di dolore, i caratteri morali. Il piacere e il dolore ci sono noti immediatamente, perchè li proviamo: m a la ragione del loro accadere è impenetrabile. In compenso,la loro conoscenza è nettae distintaper modo che a nessuno è possibile confondere l'uno con l'altro; anzi ognuno sente il piacere come un'affezione di natura diametralmente op posta al dolore. Ora, l'idea di sensazione è inseparabile da quella di m o vimento. Già essa, consistendo in fondo in un cangiamento di stato, ossia in un passaggio da uno stato ad un altro, non può avvenire senza movimento ! Ma essa stessa poi genera un m o vimento; e come essa ha un doppio carattere morale, secondo che è piacevole o dolorosa,è chiaro che determinerà una doppia specie di movimenti. Quei fenomeni esteriori e visibili che si osservano nell'uomo investito dalla gioia o dalla tristezza, non sono che una conseguenza organica d'un primo movimento che si determina per tali sentimenti nell'anima. E per analogia con i movimenti che si vedono nel corpo, noi possiamo dire,che ilm o vimento correlativo dell'anima ora è espansivo,ora è coercitivo: espansivo quando si tratta di piacere, coercitivo quando sitratta di dolore. Bozzelli combatte la vecchia dottrina edonistica epicu rea, rinnovata nel sec. XVIII da Pietro Verri nel suo Discorso sull'indole del piacere e del dolore, che il piacere con sista nella cessazione del dolore.Che significa che ildolore cessa? Il dolore,come il piacere,è un carattere della sensazione: sicchè può cessare se cessa la sensazione dolorosa. E se cessa la sen sazione, non può esserci nè anche il piacere; perchè anche il piacere è carattere della sensazione, e non può esser prodotto da niente. E poi: contro la dottrina del Verri sta l'esperienza comune degli oggetti, parte noti come causa diretta di sensa (1) Ecco perchè e in che senso il Bozzelli distingue la scienza della morale dalla filosofia. (2)Vedi LOSACCO, Le dottrine edonistiche italiane del sec.XVIII, Napoli, Atti della R. Acc. di Sc. mor. e pol. di Napoli, dove appunto sarebbe stato opportuno ricordare le osservazioni fatte al Verri dal Bozzelli (Essai premier,chap.VI).    zioni gradevoli, e parte, di sensazioni dolorose: gli uni e gli altri come forniti di caratteri dipendenti dalle loro qualità par ticolari ed intrinseche. Se il piacere fosse generato dalla cessa zione del dolore, delle due l'una: si dovrebbe ammettere cioè, o che in natura non esistono oggetti piacevoli di nessuna specie, e che tutto l'universo non è che una causa unica e continua di dolore; o che, se alcun oggetto piacevole esiste, esso dev'essere considerato come una creazione inutile o come un'aberrazione e una mostruosità fuori dell'ordine normale delle cose. E in verità non si può concepire niente di più strano e di più assurdo.Certo, bisogna riconoscere che il piacere attinge un maggior o minor grado d'intensità secondo che succeda a un dolore più o meno vivo,o più o meno rapidamente cessato. Ma il piacere è uno stato positivo, come il dolore. Nè vale ricorrere come fa il Verri a quei dolori oscuri, equi voci, quasi inconsci, che egli dice dolori innominati, per ren der ragione di quei piaceri che l'esperienza non ci mostra come successivi a un dolore. L'affermazione di siffatti dolori è asserzione vaga,diceilBozzelli,epocodegna dellaseverità dell'analisi: contraddetta dal fatto delle serie di sensazioni associate, tutte piacevoli. Ma torniamo ai gradi dello sviluppo dell'anima. Il primo è dunque quello attestatoci dal sentire:ossia l'attitudine dell’a nima a sentire, o sensibilità propriamente detta. Questa facoltà, come ogni altra, è attiva, checchè ne dica il Laromiguière. In fatti, dire facoltà passiva è una contradictio in adiecto: perchè fa coltà viene da facere, sinonimo di agere; ed è perciò lo stesso che attività. La sensibilità si dice passiva, perchè le sensazioni sono necessarie e come imposte: non essendo in poter nostro di evi tare l'eccitamento degli stimoli esterni, nè, una volta eccitati, di non provarne le impressioni sensibili. M a il senso non è semplice recettività; ei non ha niente di simile a un corpo fisico in riposo che riceva un urto meccanico da un altro corpo che è in m o v i mento. L'anima nell'atto che riceve quel dato stimolo, risponde all'impressione esterna, facendo nascere la sensazione, cioè « (1) Il Bozzolli ha ragione di notare al Verri che oltre e meglio di Platone, Montai gne, Cardano e Magalotti, avrebbe potuto citare tra coloro che avevano sostenuto la sua dottrina, Epicuro: pel quale il vero piacere era appunto oneExipeous Tavtos toj a d yoovtos (DIOG.L.,X,139).Vediunmio articolonellarivistaLa Criticadir.daB.CROCE,In questa facoltà del senso tutte le altre trovano il prin cipiodellorosvolgimento.Datoilcarattereespansivo delpiacere, bisogna ammettere nell'anima una specie di attività differente da quella del senso. L'essere senziente pel piacere « ne sent pas simplement; il s'élance dans sa propre modification, et s'efforce à tout prix de s'y attacher ». C'è qui uno sdoppiamento d'atti vità:un'attivitàsente,eun'altrasisforzadiconservareuno stato.. L’una e l'altra sono facoltà elementari;e la seconda dicesi volontà. Di qui si vede che lo sviluppo della volontà comincia dalla prima sensazione piacevole; poichè il dolore è coercitivo. M a il dolore ha un'altra funzione (2). Il piacere sviluppa la doppia attività dell'anima sensitivo -v o litiva; il dolore la sola attività sensitiva. Sicchè ilsuccedere del dolore al piacere non può riuscire indifferente all'anima; la quale non può non raffrontare i due stati, e sentire la loro diversità. Ora, sentire questa disparità tra isuoi modi di essere,non è sen tire gli stessi modi di essere separatamente, e ciascuno per sè. Questo nuovo sentire è quindi l'effetto d'una terza facoltà, ele mentare anch'essa, dell'anima;è ciò che dicesi propriamente un giudizio. 14. Queste del senso, del volere e del giudizio sono le tre fa coltàprimitivedellospirito;leleggi,perdirlaconDugald Ste art, della nostra costituzione mentale. Esse non sono distinte per modo che ciascuna di esse sorga a misura che condizioni particolari del suo sviluppo vengano sucessivamente a verificarsi; perchè l'essere sensitivo è uno; e fin dalla sua prima risposta aglistimoliesterni,eglisielevaintuttalapienezzadellesue potenze, come me che sente, me che vuole, e me che giudica. Pure, come l'esperienza umana non si occupa affatto delle esistenze in quanto indipendenti da ogni rapporto con noi (non le afferma, nè nega), cosi per la nostra esperienza non importa che le fa coltà primitive dell'anima siano tutte e tre originarie: essa non  fenomeno sui generis, che si riferisce all'oggetto esterno, senza però rassomigliargli e senz'aver nulla di comune con esso » (1).Il cheèattivitàenonpassività.– Sicchéquest'argomentodelLa romiguière per togliere la sensazione dal seggio in cui il sensi smo, fino a quella che il Picavet chiama la seconda generazione di ideologi, l'aveva collocata, come fonte e base di ogni prodotto dello spirito, non ha alcun valore.) tien conto nel me che sente,del me che vuole,nè del me che giu dica:questi me non ancora sirivelano; sono,ma per noi come non fossero. Per tenerne conto,sì da non ammettere nessuna gra duazione,nessuno sviluppo nella formazione dell'anima, la filoso fia dovrebbe spingere l'analisi al di là di ciò che si è manifestato allanostraanimainun modopositivoereale. Insomma, Bozzelli afferma, come sa e come può,la necessità razionale di conci-. liare il concetto dell’a-priori dell'anima col concetto dello sviluppo di essa. In questo sviluppo la volontà ha una parte importantis sima,come s’è visto. Senza la volontà l'anima non potrebbe che sentire, e non si eleverebbe mai all'altezza del giudizio. E poichè volontà senza piacere è impossibile, il piacere è il cardine e il centro della vita dello spirito. Esso è l'unico motivo del volere: e il Bozzelli non accetta nulla della dottrina del Locke che il volere sia determinato da un'inquietudine attuale. Il dolore non cimuove,macimortifica. Il dolore ci muove quandofuoridi noi ci sia qualche cosa di piacevole il cui acquisto ci prometta un sollievo. Ma allora non è propriamente il dolore il vero motivo, anzi quella sensazione piacevole che l'oggetto esterno ci fa pregustare. Il dolore come tale è assolutamente quietivo: nessuno può volervisi sottrarre senza l'esperienza d'uno stato diverso, che sarà quindi il reale motivo del voler suo. Non ci sono desiderii vaghi di liberarsi da dolori attuali senza saper nulla dello stato in cui si cangerebbero. Si ha sempre un'idea dello stato diverso che si desidera. Condillac disse bene (3): « Les besoin ne trouble notre repos, ou ne produit l'inquiétude, que parce qu'il déter mine les facultés du corps et de l'âme sur les objets, dont la privation nous fait souffrir. Nous nous retraçons le plaisir qu'ils nous ont fait: la réflexion nous fait juger de celui qu'ils peuvent nous faire encore; l'imagination l'esagere; et, pour jouir, nous nous donnons tous les mouvemens dont nous sommes capables. Toutes nos facultés se dirigent donc sur les objets dont nous sentons le besoin ». Or questo,osserva il Bozzelli, non è che un commento di Locke; il quale, indicando il dolore come causa delle nostre determinazioni,esige che v’abbia nello stesso teinpo fuori di noi quel tale oggetto piacevole che ci promette un sol lievo. Ma in questo modo è un aperto tradirsi, è ammettere di fatto ciò che con tanta fatica si combatte in teoria. Si, è « pour jouir, come dice Condillac, que nous nous donnons tous les m o u vemens dont nous sommes capables ». Il vero motivo dunque delle determinazioni volitive è quel l'oggetto volibile posto fuori di noi,di cui parla lo stesso Locke. Ma come s'ha da intendere questo fuori di noi? Non certo nel senso spaziale: perchè in questo senso l'oggetto resta sempre fuori del soggetto che lo sente. Qui si tratta invece di posizione nel tempo; vale a dire, l'oggetto è fuori di noi in quanto non è ancora, può in avvenire esser posseduto da noi: in quanto rispetto a noi è un oggetto futuro, laddove l'oggetto goduto può dirsi presente e attuale. Di qui il principio, su cui il Bozzelli insiste a lungo e difende da ogni possibile obbiezione, che il motivo di tutte le azioni umane sia la sensazione piacevole dell'avvenire. Or donde, dato un unico motivo possibile, tanta varietà nelle azioni umane? Egli è che l'anima, a cominciare dalla sensa zione,non è,come fu già osservato,uno strumento passivo.Un'af fezione poi, com'è data dalla sensazione, non resta immobile e inerte nell'anima,che la elabora e la spiritualizza, decomponen done gli elementi costitutivi (un oggetto nelle sue varie qualità di cui non è che l'insieme) per distinguere questi l'uno dall'altro, e d'ognuno farne un centro d'associazione d'altre affezioni o m o genee che concorrono a fissarvisi. Quindi un intreccio di vincoli per cui le rappresentazioni sono fra di loro legate; e quindi una maggiore o minor forza in ognuna a seconda del più o meno stretto collegamentocon altre;ecorrelativamente,una maggioreominor facilità in ciascuna di esser ricordata e come d'esser proiettata pel futuro.Ora questa forza intrinseca dell'anima,elaboratrice dei materiali dell'esperienza sensibile,non pervenendo a uno stesso grado in tutti gl'individui e in tutte le età, è chiaro che confe rirà un contenuto diverso al motivo del volere,e produrrà quindi la varietà delle azioni. Insomma, essendo identica in tutti la natura dell'anima e identici gli organi esterni che le porgono alimento, si genera ne'diversi individui un diverso contenuto psi cologico, da cui dipendono le determinazioni del motivo in so unico dell'umano volere. « Certo,dice con enfasi ilBozzelli,quell'inflessibile Bruto che condanna a morte i suoi figli, e che con occhio fermo assiste all'ese cuzione della sua terribile sentenza,sarà un essere inconcepibile  ma (1) Essai troisième, chap. I e II.   fuori del primitivo concetto della grandezza romana. Egli si slan cia attraverso la notte dell'avvenire, e vede per quell'esempio di giustizia spiegarsi sotto isuoi occhi,in una successione magnifica, cinque secoli di gloria e di prosperità; vede la nazione più colos sale uscirne tutta intera e coprire della sua potenza la faccia della terra; e concezioni che spaventano le anime comuni, rien trano per le anime straordinarie nei rapporti immutabili del l'esistenza dell'universo ». Il principio delle azioni umane, dunque, è la sensazione piacevole di un oggetto futuro: o con termine più semplice, il piacere. E la storia ce ne fornisce una conferma evidente. L'ori gine della società non è che l'effetto di tale principio. Esso conduce il selvaggio dalla caccia alla pastorizia, quando l'esperienza gl'insegni che le intemperie o le malattie potranno impedirgli un giorno di procacciarsi la preda necessaria al vitto: ed egli provvede all'avvenire impadronendosi, quando può, di gran numero di animali pacifici, per esempio di cervi, e li conserva vivi, per potersene nutrire al bisogno. Esso fa sorgere accanto alla pastorizia l'agricoltura, quando l'uomo conducendo gli a r menti alla pastura, acquistata la conoscenza degli alberi e delle piante, comincia a sperimentarne l'uso, e a poco a poco a calco larne ivantaggi che ne può ricavare con la coltivazione.Esso mena il pastore e l'agricoltore a scambiarsi i prodotti superflui della loro diversa operosità,segnando quindi la data della più potente rivo luzione nell'insieme dei loro bisogni e delle loro facoltà. Quindi, dividendosi sempre più il lavoro e moltiplicandosi gli scambii, sempre quell'identico motivo aduna insieme ad abitare in un sol luogo consumatori e produttori, e crea le città. Poscia perfe ziona le arti, regola le industrie, e fa nascere perfino le scienze. È questa la molla segreta di tutto l'umano progresso. 18. E che è la proprietà se non un sostegno dell'avvenire? E a che si ricerca e si stabilisce, se non per assicurarsi il piacere futuro? La proprietà è necessaria appunto perchè è necessario cotesto sostegno dell'avvenire. E coloro che declamano contro la proprietà, esaltando la comunanza dei beni, non sanno che si di cono, e si stenta a credere che parlino in buona fede (2). E che? La comunanza dei beni esclude forse la proprietà?Una massa di mezzi di sussistenza appartenente a una colonia intera senza appartenere agl'individui che la compongono,è inconcepibile.La  proprietà individuale ci sarà sempre, sebbene ridotta al libero uso che ciascuno può fare dei beni comuni; perchè in quest'uso è assicurato appunto a ciascuno il sostegno dell'avvenire; che è la vera sostanza del concetto di proprietà. Ma cogliendo il frutto, non s'è padroni di tagliare l'albero che lo produce. Ma l'albero non è per ciò sempre una proprietà,alla quale ognuno ha diritto di ricorrere, quando vuol soddisfare la fame? M a questo diritto appartiene egualmente a tutti gl'individui della colonia. Ma da quando in qua la solidarietà del possesso ha distrutto il diritto di proprietà, che ciascun solidale ha sullo stesso fondo? E tanto è vero questo modo di vedere che,quando questa massa di beni comuni cessi, per dissensi o usurpazioni, di soddisfare ai bisogni di tutti gli individui della comunanza, cessa anche di essere una proprietà, pel solo fatto che nessuno più vi riconosce l'appoggio del suo avvenire;e allora ognuno per sussistere fa assegnamento sul suo lavoro personale, e si crea una proprietà a sè, di cui gli altri non partecipano punto il godi mento. Declamare, dunque, conchiude il nostro scrittore, contro la proprietà è pigliarsela colle affezioni costitutive del n o stro essere. Pretendere la proprietà con la comunanza dei beni, è giuocar di parole, é appigliarsi a una differenza, che rispetto alla nostra natura sensitiva è nulla. E che è la legge se non una garenzia dell'avvenire? Tutte le definizioni diverse date da Cicerone, da Montesquieu, da G r o zio,da Rousseau contengono forse ciascuna una verità,ma par ziale e incompleta. La legge non è una semplice volontà, nè un pensiero generale, nè un'astrazione filosofica: ma « una potenza sempre attuale, sempre formidabile,che nasce dal bisogno di con servare inviolabili le affezioni più generose dell'anima. La pro prietà basterebbe come sostegno dell'avvenire;ma questo soste gno è ad ora ad ora scosso dalla violenza e della mala fede, con tro le quali urge appunto la garanzia delle leggi. Certo la legge provvede a un vizio della convivenza civile; e Tacito ha ragione: corruptissima republica,plurimae leges! 20. E se si riflette, la stessa religione rispecchia quel fonda mentale motivo di tutte le umane produzioni. Non è religione quella del selvaggio, che, atterrito dal rimbombo del tuono nel mezzo della tempesta,si prosterna innanzi al corruccio d'un Dio che ei si rappresenta posto sulla cima delle nubi; o del selvaggio  che all'apparire del sole vedendo sorridere la natura, adora in ginocchio l'astro luminoso, ond'egli fa la dimora sacra d'un Dio benefattore: perchè il vero sentimento religioso è ben altrimenti profondo. Religioso è l'uomo la cui anima si espande a tutto ciò che v'è di più tenero e di più simpatico nei rapporti della natura vivente, e sdegnando fieramente i limiti d'una tomba fredda e silenziosa, innalza le sue più nobili aspirazioni oltre il confine del tempo e dello spazio: l'uomo virtuoso che l'ingiustizia dei suoi simili ha gettato nelle tribolazioni dellavita,eche,non vedendo se non nella morte il termine delle proprie miserie,apre l'anima alle illusioni lusinghiere d’un'altra vita imperitura,e sospira la calma che si ripromette di trovarvi.Negli uomini diquesta tem pra conchiude il Bozzelli s'eleva il santuario della reli gione, dond'essa apparisce raggiante delle speranze più consola trici. La religione nasce pertanto come l'infinito dell'avvenire(1). Disse lo Shaftesbury, che il primo ateo dovette essere certamente un uomo triste e malinconico. Il contrario anzi è vero, secondo il nostro romantico scrittore. Le reveries seducenti della tristezza malinconica fecero nascere la religione; e l'ateo è un 21. Tutta l'umanità dell'uomo,dunque,cidice,che ogni deter minazione dello spirito procede dal bisogno d'un piacevole avve nire. E in questo bisogno perciò occorre cercare il reale fonda mento di quel fatto umano,che è a sua volta la morale. L'etica del Bozzelli è,come ognun vede,schiettamente edo nistica. E come ogni edonista, il Bozzelli concepisce la morale come un fatto naturale,ed è risoluto avversario del concetto normativo di essa. « L'homme, egli dice, ne doit être que ce qu'il est: la règle de sa conduite ne répose que sur les lois de sa constitution fondamentale... Dire que l'homme doit être par choix une cose tout-à-fait différente,de ce qu'il est par essence, c'estprétendrequ'unarbrefaitpour produiredespommes,pro duise des poulets ou des poissons » (3). E direbbe invero benissimo se questa concezione realistica della morale egli non riattaccasse alla veduta metafisica dell'antico edo nista,che honeste vivere est secundum naturam vivere; e se ricer  cui cuore freddo e gretto è incapace di allargarsi deliziose d'un'anima alle espansioni tenera e gentile. La réligion et l'irréligion ne constituent en dernière analyse qu'une simple sibilité (2) question de sen essere il cando nell'uomo stessoilfondamento effettivo dellamoralità,egli non si mettesse innanzi l'uomo nella sua nudità primitiva (1). L'uomo ancor nudo, il bestione di cui parla G. B. Vico, non ha ancora moralità, è ancora natura: e bisogna aspettare, per dir così, che si vesta, perchè diventi quell'essere nella cui costituzione una concezione realistica della morale possa trovare il fondamento di fatto di questa.Ad ogni modo,vediamo come quest'uomo ancor nudo acquisti col solo motivo del piacere la moralità, secondo il Bozzelli. 22. La morale non è che una continuazione, o, se si vuole, un'applicazione dell'analisi fin qui fatta delle forze operanti nello spirito(2),Si rifletta. Se tutti gli oggetti circostanti fossero uni formemente piacevoli,per obbedire alla propria natura, ed essere quindi completamente felice, l'uomo non dovrebbe che abbando narsi agl'impulsi della sua volontà spontanea. Ma, pur troppo, questa età dell'oro non è che nell'immaginazione di Esiodo e de gli altri poeti antichi che la descrissero. Purtroppo, le cose e gli stati sono ora piacevoli e ora dolorosi; e l'uomo, che non ab bia accumulato una sufficiente esperienza, spesse volte s'inganna: crede di seguire il piacere, e si trova innanzi il dolore: e p r o cede sempre nella vita come naviglio in mezzo all'Oceano,ora favorito dal bel tempo, ora sbattuto dalla tempesta. Ma i disinganni e i dolori lo rendono riflessivo, distruggono in lui quel naturale abbandono agl’impulsi ciechi del volere; lo rendono sempre più prudente, e più difficile nelle determinazioni future. Gli farebbero contrarre l'abito della perplessità e della irresoluzione, se non soccorresse il giudizio,che solo ha il po tere di leggere nell'avvenire fondandosi sul passato,ed è in grado perciò di fornire una garanzia all'anima che vuole, mostrandole il bene verace, incoraggiandola, rassicurandola. Il giudizio, ricercando sempre i rapporti del mondo esterno con l'uomo a fine di garentire il volere per il futuro, accumula via via un gran tesoro di fatti positivi; che non restano patri monio esclusivo dell'individuo che ne fa esperienza,ma si comu nicano nelle famiglie, e si ereditano di generazione in genera zione; moltiplicandosi col tempo per l'esperienza degli altri in dividui;permodo cheinfinel'uomositrovariccodituttiimezzi che occorrono ai suoi vasti bisogni (3). (1) « L'analyse de la pensée a dissipé les romans,a désenchanté les osprits,a montré l'homme dans sa nudité primitive >Se non che questo fardello di esperienza che cresce sempre, non può crescere indefinitamente: perchè finisce con essere in sopportabile alla memoria. E che avviene? Una parte di esso va lentamente perdendosi nell'oblio.È vero che intanto nuove espe rienze aggiunge di proprio l'individuo; m a è tutto un versar acqua nella botte delle Danaidi.almeno sarebbe,se In queste massime, in questi apoftegmi, in tutte queste gene ralizzazioni è la morale, una morale pratica, che diventa scienti fica quando tutti i precetti, tutte le massime sono coordinate e messe d'accordo tra loro,ridotte a sistema e subordinate a un'idea unica e centrale. La morale, insomma, si riduce a una precet tisticadiprudenza;ogni imperativo,potremmo direcon Kant,è ipotetico. 23. Come accade che la morale apparisca qualche cosa di di verso? 11 Bozzelli spiega anche la psicogenia del concetto corrente della morale, come di un insieme di obblighi superiori, imposti alla nostra natura sensibile e non derivati affatto da questa. Una volta formate le massime generali, è naturale che, invece di fare ai figli delle lezioni pratiche richiamando o narrando tutte le singole esperienze, si preferisca d'imprimere nella loro m e m o ria quelle regole determinate che essi potranno poi applicare nel loro interesse secondo i casi della vita; giacchè in tal modo siri sparmierà tempo e fatica,e sarà tanto di guadagnato per l'inse gnamento che si vuol dare. M a come fare accettare tali regole ai figli? La loro vera giustificazione sta nell'insieme dei casi par ticolari, da cui sono estratte. E rifare la storia di quei casi è impossibile; tanto varrebbe continuare nel vecchio sistema, e la sciar da banda le regole. Si pensa ad imporle incutendo per esse un rispetto stabile e profondo, col dare ai fanciulli un'idea m i steriosa della loro natura ed origine. Non si presenta la verità tutta nuda: si crede anzi di ren  186 CAPITOLO V tervenisse di genio, che, fatta una cernita non in l'opera degli uomini dotati d'una gran mobilità sieme tutti i catenano e fondono masse di quelle esperienze simili e quindi generalizzando con finezza e profondità carico di fatti individuali, in caratteri coloriti e sfumati casi particolari intere di tali esperienze, e le rendono al pubblico cui originariamente mero di parole partenevano,secondo lafineosservazione in piccol n u ap del La Bruyère, coniate, chiare e precise, in apoftegmi per dir cosi, in massime ed eleganti, in pensieri ingegnosi semplici: con cui si sostituisce e minuziosi. da tutti il pesante e forza, messi in, in   derla più bella vestendola e abbigliandola in costume da teatro.Si dice che quelle regole hanno un'origine soprannaturale, che sono innate in noi; che ognuno le porta impresse nel cuore. E vera mente come figure rettoriche queste espressioni, dice il Bozzelli, potrebbero correre. Si può dire, infatti, che Dio ci abbia dato queste regole nel senso che egli ci ha fornito i mezzi di scoprirle e constatarle; si può dire che siano innate in noi, nel senso che noi siamo dotati delle facoltà adatte a farcele scoprire (1). M a così potrebbe dirsi egualmente,che Dio ci ha comunicate le leggi del moto,e che esse sono impresse nelnostrocuore,per ciò solo che ci ha così fatti da apprenderle mercè l'esperienza e la rifles sione. 24. Non già che le leggi morali sieno convenzionali e arbi trarie. Esse sono fisse e invariabili nell'ordine eterno delle cose; dipendono dalla nostra natura sensibile; come le leggi fisiche ap partengono intrinsecamente ai corpi.Noi non possiamo cangiarle, nè sottrarci ad esse. Ma l'origine loro nel nostro spirito non è differente in nulla dall'origine dei concetti che pure abbiamo delle leggi fisiche. Certo, nel mondo fisico, sarebbe meglio limitarsi a insegnare a un contadino come, coltivando e curando erbe ed alberi sel vatici,i nostri padri pervennero col lavoro a sostituire alla fine, per la nutrizione, frutti più dolci e più succulenti alle ghiande e alle radici. Ma in pratica,è indifferente che gli si dica al con trario,che tutto si deve al solo dono degli Dei; e che a Minerva dobbiamo l'ulivo, a Cerere le biade e a Bacco la vite.Il sistema è diventato falso,perchè si è esagerato; e a forza di voler cavare tutto dai cieli,s'è finito col farne scendere perfino il delitto e la corruzione. M a oggimai, pare al Bozzelli che meglio si farebbe dicendo il vero ai giovani; mostrando loro come quelle regole di morale che, si additano ad essi, non sono altro che la quintessenza del l'umana esperienza accumulata a prezzo di infiniti dolori; e che seguirle è fare il proprio interesse, perchè esse insegnano i mezzi di sfuggire al dolore. La morale del Bozzelli è per questo essenzialmente intellet tualistica come quella di Socrate. Esser virtuoso è sapere: sa (2) Ma la fonte diretta è HELVELTIUS; il quale già aveva detto che bisogna « décou vrir aux nations les vrais principes de la morale; leur apprendre qu'insensiblement en  (1) Pag. 320.   per veramente. E come Hobbes scrisse un libro De computatione seu logica, bisognerebbe scriverne un altro: De computatione seu ethica: perchè non si tratta anche in morale che di un calcolo. Ma a questo punto il Bozzelli prevede un'obbiezione: la vostra morale è impossibile, perchè, incatenando la volontà al piacere, voi avete distrutta la libertà che è la condizione sine qua non della morale. Intendiamoci: bisogna distinguere libertà da libertà. Io ammetto, egli dice accordandosi pienamente col Bor relli,lalibertà,ma comepotenzad'agiresecondoledeterminazioni (lella volontà, senza che alcuna forza estranea Questa libertà d'agire esiste, ed è assoluta; perchè non vi sono ostacoli estranei di nessuna natura che le si possano opporre.Non ve ne sono fisici; perchè, p.es.,l'impossibilità di saltare un fiume dipende dalla limitazione naturale delle nostre facoltà muscolari, ossia da condizioni del nostro essere. Non ve ne sono morali, a maggior ragione: perchè il non poter derubare, il non poter as sassinare la gente, è un ostacolo alla determinazione del volere, più che all'azione; del volere, che trova il proprio interess e n e l n o n determinarsi mai per ciò che può distruggere la sua felicità.Non ve ne sono,infine,sociali;perchè lostato sociale,checchè ne dica Rousseau, non importa la menoma limitazione della libertà natu rale; perchè chi consideri le leggi civili secondo il fine per cui sono istituite, esse non possono che essere d'accordo coi motivi della volontà di tutti gl'individui per le quali sono dettate. E se in pratica, scrive il liberale del '20, si osserva il contrario, la colpa non è del principio:ora si parla della società, non delle società (2) 26. Qui il Nostro ha un'osservazione preziosa, che avrebbe vivificata tutta la sua etica, se egli se ne fosse ricordato a tempo, e che ci fa desiderare il suo Esquisse politique, che non ci è riu scito di vedere.Il concetto dello stato di natura in cui ogni uomo èlupoall'altrouomo,parealBozzelliun romanaffreur;esime raviglia che sia mai potuto entrare nella testa di un essere ragio traînées vers le bonheur apparent ou réel la douleur et le plaisir sont les seuls moteurs do l'univers moral; et quo lo sentiment de l'amour de soi est la seule base sur laquelle on puissojeterlesfondementsd'une moraleutile»(Del'esprit).An che per Helveltius la virtù era un calcolo, e il vizio un effetto dell'ignoranza. Senza opponga ostacoli. questa libertà la felicitàsarebbe impossibile; e sarebbe quindi anche impossibile la morale) nevole. Il vero stato di natura, egli dice, non è che lo stato so ciale: e ciò è così semplice, cosi chiaro, così intuitivo che non è mestieri dimostrarlo(1).Ma l'osservazione è quasi guastata dal commento:che sarebbe stata un'inconseguenza quella della natura di aver fatto l'uomo per la felicità e per la società che ne è la condizione fondamentale, e avergli conferito insieme tali diritti (ipretesi dirittidinatura,abbandonati,secondo Rousseau,perla sicurezza di altri diritti acquistata con lo stato sociale) da esser egli obbligato a disfarsene tosto per compiere il suo vero destino. Tutte le limitazioni, insomma, sono limitazioni del volere, o del corpo stesso dell'agente: non sono mai estranee ad esso; e. non si può dire mai, quindi, che importino una restrizione della libertà di agire. Quanto questo agente, considerato non solo come volere,ma anche come organismo corporeo,sappia di crudo m a terialismo, non occorre spiegare. Era la tendenza intrinseca di tutto il pensiero bozzelliano, che dalla sola sensibilità si proponeva di cavare anche ciò che ha natura essenzialmente superiore. Dunque, libertà di agire, si: ma se si pretende anche li bertà di volere, il Nostro non dubita di affermare che un tal concetto è parto d'immaginazione indelirio. La libertà presup poneilvolere;enonpuòquindi esserpresuppostadaessa,perchè, per esser libero, bisogna prima volere; laddove la libertà del volere importerebbe che si fosse liberi prima di volere. L'argo mentazione qui è evidentemente viziosa, avvolgendosi in un cir colo: giacchè si vuol dimostrare che l'unica libertà è quella di agire, e contro quella di volere si toglie una ragione dalla li bertà di agire. Giacchè solo rispetto all'agire la volontà precede la libertà. 28. Ma il Bozzelli domanda che significhi la frase libertà di vo lere. Se si crede, egli dice, che si possa volere senza motivi, ciò è assurdo. Si vuole perchè si sente;mancando la sensazione pia cevole, la facoltà di volere resta inattiva, demeure en silence.Non si può volere, senza voler qualche cosa, senza un fine: voler nulla è non volere. E non è possibile nessuna distinzione tra fine e motivo. Se poi s'intendesse per volere libero un volere non impedito da ostacoli, non si direbbe nulla di positivo; perchè gli ostacoli possono opporsi ai movimenti comandati dal volere, non al volere. Il volere è come il pensiero: nessuno e nulla può comprimere la libertà del pensiero in se stesso, che non è suscettibile di nessuna opposizione diretta.Impedire si può la mani festazione del pensiero, con la parola o con gli atti. Il concetto d'una possibile determinazione contraria a quella effettivamente datasi, è assolutamente arbitrario: perchè la v o lontà indipendente dalle sue reali ed effettive determinazioni, qual'è quella cui tale possibilità si riferisce,è un'astrazione senza nessun fondamento di realtà. La volontà è volta per volta determinata in maniera neces saria. « L'uomo non può volere che il piacere: non è padrone di volere il dolore, perchè dolore e volontà s'escludono a vicenda. Questa risposta è perentoria »(1). 29. Questa necessità del volere però, lungi dal contrastare la morale, è la sola che possa salvarla. Data la libertà del volere, ogniideadimoralesarebbeannientata(2).E laragioneèovvia. Questa libertà importa che la volontà sia indifferente al piacere e al dolore; epperò, che quelli che si dicono oggetti piacevoli, e quelli che si dicono oggetti dolorosi producano di fatto impres sioni analoghe. In verità, non si potrebbe volere il dolore senza ammettere insieme che questo possa produrre sull'anima un'im pressione simile a quella prodotta dal piacere. M a questo sarebbe distruggere ogni differenza, e quindi ogni distinzione di male e di bene, e ogni ragione di merito o di demerito delle nostre azioni, ogni fondamento insomma della morale.Importerebbe inoltre, con la possibilità di scegliere il male, una certa relazione invariabile tra i bisogni umani ed il male, come ve n'ha di certo tra i bi sogni e il bene: onde non sarebbe una colpa l'abbandonarsi al male. Ne inganni il fatto che, malgrado la ripugnanza naturale,il vo lere si determini talvolta pel male; ciò accade perchè il male si presenta allora sotto l'apparenza di bene, e il dolore riveste non di rado a'nostri occhi le forme seducenti del piacere. La stessa morte al suicida stanco di soffrire apparisce come una liberazione o un sollievo,e perciò appunto un piacere.Rousseau,ostinato libe rista, in un momento di felice ispirazione esce in un'affermazione importantissima e tanto più preziosa, in quanto è fatta da lui: « Non, egli dice,je ne suis pas libre de ne pas vouloir mon propre bien,je ne suis pas libre de vouloir mon mal: mais la liberté con siste en cela même que je ne puis vouloir que ce qui m'est con venable,ou que j'estime tel.S'ensuit-ilque je ne suis pas mon maître,parce que je ne suis pas le maître d'être un autre que moi?» Ora,sipuòmodificareilpuntodivista:maquestoè verissimo: che libertà vuol dire e deve voler dire esser se stesso, non già poter esser altro che sè. Bozzelli insiste molto nel combattere tutte le astrazioni, tutte le creazioni,come direbbe Hegel, dell'intelletto astratto nel campo dell'etica. Perciò egli richiama l'attenzione sul parallelo sviluppo dei bisogni e delle conoscenze umane corrispettive, per cui è possibile che i bisogni sieno soddisfatti, attraverso i secoli. I bisogni crescono sempre e si complicano; crescono e s'affinano insieme le conoscenze relative; anzi il desiderio di nuovi piaceri stimola a nuove conoscenze, e le nuove conoscenze suscitano e creano nuovi desiderii e nuovi bisogni. I bisogni sono oggi infi nitamente di più e maggiori che una volta; e la loro soddisfazione è certamente più difficile; e quindi più difficile la felicità. La vita d'una volta era un navigare su un lago tranquillo,donde si discopra con uno sguardo la ridente e pittoresca riviera; la vita d'oggi è un traversare un oceano tempestoso e pieno di scogli,i cui confini si confondano con l'immensità dello spazio. Ma non pertanto quei moralisti che, per assicurare agli uomini la felicità, vorrebbero farli risalire, a ritroso degli anni, verso lo stato di semplicità primitiva in cui li pose la natura, rassomigliano al medico che chiamato a curare un'indisposizione, visto che è s e m plice effetto di vecchiaia, imputasse al malato la decadenza da quella prima età in cui questi mali sono ignoti,e gli consigliasse per tutto rimedio di tornare agli anni fiorenti della giovinezza. V’ha una successione di età come per l'uomo fisico così pel morale;come per l'individuo, così per l'umanità.L'uomo col suc cedersi dei secoli passa di condizione in condizione, si trasforma naturalmente; e tornare indietro è impossibile; concepire il ritorno è sogno seducente dell'uomo dabbene, che crede possibile tutto ciò che l'immaginazione gli presenta come desiderabile. Nello stesso errore cadono stoici ed epicurei,dimezzando l'uomo e creando un essere fittizio non corrispondente punto alla realtà. Gli uni credono di poter assicurare la felicità all'uomo, spogliandolo di tutti i bisogni, e facendolo impassibile a tutti i piaceri, intento unicamente a non so quale virtù selvaggia, posta non come d'ordinario in un luogo alto e difficile,ma addirittura in una regione eterea al di là della na ra umana, e appena accessibile agli slanci d'una immaginazione ardita e malinconica. Gli altri vorrebbero sottrarre anch'essi l'uomo alla inquietudine dei bisogni suggerendogli il carpe diem, il partito di appigliarsi ai piaceri più prossimi per procurarsi la voluttà del corpo e l'in dolenza dell'anima.I Cinici e i Cirenaici,precorrendo queste dot trine, le avevano di già screditate esagerandole. L'uomo di Z e none è un'astrazione; perchè l'uomo come essere sensibile non esiste che pel mondo esterno, al quale deve lo sviluppo della sua sensibilità; e non può chiudersi in se stesso e rinunciare a tutte lesensazioni,come dovrebbe,persottrarsiatuttiibisogni.L'uomo segregato dall'universo e divenuto come una statua, è l'uomo sna turato, l'uomo distrutto. Così l'uomo di Epicuro, che rinunzia alle più alte soddisfazioni per pascersi dei piaceri più facili, con trasta con ogni idea di progresso, di attività umana: è mezzo uomo ancheesso;èsimileall'aquila,che,dotatadialiper slan ciarsi verso la luce fiammeggiante del sole, preferisse di sbaraz zarsene per somigliare ad un rettile. M a già queste opposte dottrine ci dicono che oggetto unico della morale è per tutti il piacere; principio unico da cui partono e a cui tendono tutte le azioni umane. La virtù selvaggia degli stoici non è che il pegno simulato d'un piacere infinito; « e il torto di Epicuro non è.di aver fondato la morale sulla voluttà, per chè la voluttà è certo il sinonimo del piacere; ma di averne pro stituito l'idea,e tagliato lepiù splendide ramificazioni »(3).Lo si combatte grossolanamente, laddove si tratta di rifiutare il senso stretto che egli vi lega: perchè infine la pratica della virtù è essa stessa una voluttà (4); e come dice con molto acume M o n taigne: pour être plus gaillarde, nerveuse,virile, robuste,elle n'en est que plus sérieusement voluptueuse. L'uomo,insomma, è tutto l'uomo,e il piacere, motivo delle sue azioni, non esclude nessuna forma di piacere. 33. Di qui è chiaro che tante saranno le forme di piaceri, quante sono le attività o gli stati dell'uomo; perchè altrettanti saranno i suoi bisogni. Il Bozzelli distingue nell'uomo la sua esi stenza animale e la sua esistenza sociale: le due condizioni, egli (2) Non occorre qui notare la inesattezza storica di questa interpretazione del pensiero di Epicuro.E già nell'inesattezza il Bozzelli è in buona compagnia;perchè anche Kant pensava lo stesso) dice, che lo comprendono e costituiscono tutto intero (1). Quindi i piaceri sono classificabili in piaceri animali e piaceri sociali.La de duzione degli uni risulta dal già detto. Donde gli altri? Anche il Bozzelli accetta la teoria della simpatia morale:il piacere degli al tri è nostro piacere,per l'identità di natura tra noi e i nostri si mili (2). M a questi piaceri animali e sociali sono in relazione fra loro. Quali naturalmente prevalgono? E qui il Bozzelli rifà la solita critica dei piaceri egoistici,animali. Questi piaceri si riferi scono ai bisogni fisici, che non hanno nessuna latitudine, nè spa ziale nè temporale. Le condizioni della materia ne fissano i limiti. Portano sempre con sè sazietà e disgusto.Il godimento ne dissipa tutta l'attrattiva.Non hanno successione,nè continuità:si gene rano e svaniscono come fenomeni effimeri e staccati. Nascono col bisogno, e finiscono col bisogno:saziata la fame, la vista sola dei resti del pasto è importuna e sgradevole.Il letto, sollievo all'uomo stanco,diviene tormentoso a chi vi debba restare a lungo senza interruzione. Il fasto viene a noia, e dopo averne lungamente goduto,si cerca la campagna e idisagi.Questi piaceri insomma sono, per dirla con Plutarco (3),come aurette di venti graziosi che spirano le une su una estremità, le altre sull'altra estremità del corpo, e passano e svaniscono incontanente: così breve ne è la durata; simili alle stelle che si vedono la notte cadere dal cielo, o traversarlo da un punto all'altro, essi si accendono e si spengono sulla nostra carne in un istante. Dipingete un quadro con le tinte contrarie; e avrete la rap presentazione dei piaceri sociali.Di qui ilmaggior pregio (edoni stico, s'intende) e la naturale prevalenza dei piaceri sociali sugli (2) Nell'espressione di piaceri sociali, questa designazione ha però un senso molto largo: altri direbbe sentimenti spirituali. L'autore infatti li contrappone ai piaceri animali, dicendo questi jouissances directes du corps, e quelli jouissances directes de l'ame. Gli o g getti dei primi « consistent dans tout ce qui & rapport à l'entretien matériel de la vie et auxagrémensimmédiatsdessons»; glioggettideglialtriconsistonoinvecein«toutce qui a rapport à cette correspondanco, harmonique des sensibilités, en vertu de laquelle noussympathisonsavec les jouissances aussi bien qu'avec les sauffrances de nos semblables; etnousnous tentons poussésàaugmenter lesunes, àsoulagerlesautres,ànousréjouir du bonheur,à nous afsiger du malheur de notre prochain ».  Il quale, come il Nostro, non s'accorge combattendo L’ORTO, che ancheL’ORTO cosi critica i piaceri sensuali. Vedi l'opuscolo di Plutarco, (he non si potrebbe ri vere felicemente secondo la dotlrina di Epicuro.)animali. Di qui la superiorità della morale sopra le fisiche incli nazioni ad essa contrarie. 34. Tutti i piaceri sociali si risolvono in quelli della giustizia e della beneficenza. La giustizia è il riconoscimento della invio labilità della proprietà, di cui s'è già parlato. La beneficenza è la sodddisfazione degli altrui bisogni, sentiti come nostri per effetto della simpatia. I due fatti si suppongono e quindi s'in tegrano a vicenda. La beneficenza è una conseguenza della giu stizia; che ha luogo quando uno o più individui dell'aggregato sociale a cui apparteniamo, non abbiano quel sostegno dell'avve nire, che è la proprietà. E del pari la giustizia è una conseguenza della beneficenza, poichè se siamo benèfici per non soffrire con altri, non possiamo violare quella giustizia che è la condizione della proprietà. Questi due fatti sono la base della società,di ogni ocietà, vuoi domestica,vuoi civile,vuoi politica: sono la pratica della virtù. 35. Ma che è propriamente virtù, e che è vizio? Il Bozzelli richiama un principio notissismo di psicologia: che l'abitudine at tenua la coscienza e quindi il grado di piacere e di dolore pro dottoci dalle impressioni; e osserva che non si può perciò fuggire il dolore abbandonandosi al piacere, se non si vuol fare come il medico che per guarire la malattia uccide l'ammalato. Bisogna lottare contro il dolore, per disarmarne la violenza, acquistando l'abito di soffrirlo, e quindi affrontando il dolore, anzi che vol gergli le spalle o accasciarsi sotto il suo peso: m a occorre i n sieme lottare contro i piaceri per impedire che l'abitudine di g o derne non ne distrugga ilbeneficio,usandone quindi con prudente moderazione. Epperò occorre dare all'anima tal forza di carattere che le permetta di padroneggiare la tempesta delle passioni. E quella tempra acquisita, che rende l'anima capace di soggiogare con successo tutti i dolori, e restare ferma contro le seduzioni dei piaceri che tentano di snervarla, è quel che il Bozzelli dice propriamente virtù; e il contrario,vizio(1).Insomma, la virtù è l'arte di godere. Fermezza nei dolori,moderazione nei piaceri, sono i suoi caratteri; come debolezza nei dolori, intemperanza nei piaceri,sono i caratteri del vizio (2). Quindi il grande uffizio della pedagogia: che imprima alla fibra animale, quand'è ancor tenera e flessibile, e all'anima, quand'è ancor nuova e accessibile a tutte) le affezioni, una serie di abitudini che le rendano atte a quella fermezza e moderazione,che crea insomma la virtù(1). 36. La quale, secondo il Bozzelli, è unica e indivisibile, se si distingue dagli atti virtuosi,in cui può manifestarsi.Per la povertà naturale del linguaggio o pel desiderio di nobilitare cose ordinarie e comuni,si decora sovente del nome di virtù ogni qualità ac quisita a forza di fatica e di studi e perfezionata dall'abitudine di un lavoro continuo e ostinato. E in questo senso,per esempio, in Italia si dice che un pittore,un musico,un ricamatore, un fa legname e perfino un muratore ha della virtù; e qualche volta si aggiunge, ed è un'espressione più felice, che ha questa virtù nelle mani. M a tale virtù non si può confondere con la virtù morale: la quale non è indirizzata*a vincere ostacoli che si oppongano alle mani: ma è solamente quell'energia abituale dell'anima che signoreggia dolori e piaceri, schermendosi dai primi per non re starne vittima, e tenendosi lontana dai secondi per serbarne la freschezza. Ogni altra accezione del termine virtù è falsa, o equi voca,od esagerata(2). 37. Queste le linee principali della concezione etica bozzel liana: alla quale non si possono per certo negare ipregi della coe renza, del rigore e dell'acume filosofico. È vero che l'originalità si riduce a ben poco, quando si pensi alla dottrina di Adamo Smith (Teoria di sentimenti morali, 1759) e a quella di Helvetius (Trattato dello spirito, 1758): delle quali è come una contaminazione. Dal l'una è tolta di peso la teorica della simpatia; dall'altra il pretto edonismo e lo spiccato intellettualismo: e questi tre sono i tre ele menti principali e costitutivi dell'etica che abbiamo esposta.Ma è innegabile tuttavia,che il Bozzelli ha saputo fondere insieme que sti elementi e imprimervi uno stampo proprio, formandone un si stema ben organato e compiuto: tale che la letteratura contempo ranea francese e italiana non ha nulla da mettervi accanto.Con ciò, s'intende, non si dice che è tutto vero quello che il Bozzelli crede tale.Ma farne la critica sarebbe inutile ormai che quella po sizione è di lungo tratto oltrepassata. Era stata,anzi,oltrepassata prima che il Bozzelli pensasse a scrivere: ma in una parte della storia delle idee, che non entrò nella sua cultura di ideologo. (1) È noto quale importante parte all'educazione attribuisce l'Helvetius.Cfr.A Piazzi, Helvetius nel Dizionario illustr, di pedagogia dei proff. Martinazzoli e Credaro; e l'arti colo dello stesso, Le idee filosofiche e pedagogiche di U. Adr. Helvetius, nella Rivista di filosofia scientifica del 1889. The grand exception to this generally bleak depiction of characters is Cato, who stands as a Stoic ideal in the face of a world gone mad (he alone, for example, refuses to consult oracles to know the future). Pompey also seems transformed after Pharsalus, becoming a kind of stoic martyr; calm in the face of certain death upon arrival in Egypt, he receives virtual canonization from Lucan at the start of book IX. This elevation of Stoic and Republican principles is in sharp contrast to the ambitious and imperial Caesar, who becomes an even greater monster after the decisive battle. Even though Caesar wins in the end, Lucan makes his sentiments known in the famous line Victrix causa deis placuit sed Victa Catoni – "The victorious cause pleased the gods, but the vanquished [cause] pleased Cato."CATO A TRAGEDY  BY MR. ADDISON. IL  CATONE TRAGEDIA  DEL SIGNORE ADDISON.Addison. Salvini  CATONE: TRAGEDIA  ADDISON. CATONE   TRAGEDIA. ADDISON. SALVINI. FIRENZE, Neftenus . Con \UM Stftr.  A iattanza di Battiano Scaletti. Catoni autem quum ìncredibilem trihuijjet Na*  tura gravitatevi , eamque ipfe perpetua con*  [tanna roboravìjjet , femperquc in propth  Jtto fufceptoqut confili* permanfijfet ,  tnoriutidum potim , quam tyranni  vultus afpiciendui fuit. Cic.de Officlib. x.cap.jn ALL' ILLUSTRISSIMO SIGNORE &c.  Enrico Mylord Colerane.     iBajtrifàm Signore E molte bbbligazioni , che  io protetto alla gentilez-  za di VS. Illuftriflìma , e la fperienza  avuta da' primi Letterati di emetta  Città del fuo profondo fapere , già predicato dalla Fama , ed ammirato da   i etti elfi per mezzo della fua dotta con-  venzione, mi fpirano un umile ar-  dire di dedicarle la celebre Tradu-  zione della infìgne Inglefe Tragedia  del Catone , che addio efee di nuo-  vo col fuo fteflò Originale alla luce ;  ficuro che Ella 1' accetterà di buon  animo, come fuole , eftimatore giu-  ftiifimo , doverofamente incontrare  tutte le buone e belle opere degl' in-  gegni più follevati , e come prove-  niente da chi fi pregia d* effere   Di VS. Illuftrifsima  Ewotiffino e Obbligai iffmo Servitù?*   Baftiano Scaletti . La presente Tragedia del Catone , parto felici/fimo del nobile fpirito delSig. Ad-     m V di fon, efendo per comune eftimazione  de* dotti de IT Inglefe Idioma , sì per la fublimita  àe % concetti , che per la finiffima leggiadrìa del-  lo ftile, uno de' più rari poetici componimenti,  che in fimil genere abbia mai riportato il gra-  dimento e l’applauso universale ; non e maraviglia , che f ralle Nazioni più eulte ella abbia  incontrato il genio di alcuni ingegni più folle-  vati y i quali di buona voglia abbiano impiega-  to tutte le forze del loro talento per trafportarla  ciafeuno nel proprio nativo linguaggio. llSig.Hul-  Un , per foddisfare al dejiderio impaziente del  Pubblico, che bramava di vederla renduta più  univerfale per mezzo di una traduzione Fran-  zefe , s' impegno a intraprenderla in ver fi ; ma  non ebbe terminata la prima Scena dell' ÌAtto  primo , che modeflamente fe ne ritiro , allegan-  do per fua difefa , che egli non fi ftntiva di forze cosi gagliarde per profeguire una fatica così nfpra e [pino fa. Ed in fatti, come offerva  giudiziofamente il Sig. Boyer , il quale , tutta in- !  fera in profa la traduffe „ può il Traduttore 1  „ f* ^ro/à girel* , r he ha detto il  „ Sig. Addi fon ; ma non può dirlo in verji , e  spezialmente in lingua Franzefe, ove necef-  „ fastamente fa di meflieri il mutare, iltroncare, e t aggiugnere. La lingua Inglese, come egli dice , Nativo effondo di Francia , emula  della Greca e della Latina , non foffre qualunque  benché minima fuggezione, nata per se medesima fertile, calzarne, ed efprimentifftma nel colorire i caratteri di quei foggetti , de' quali ella  prende ad efprimere i fentimenti ; laddove per  lo contrario la lingua Franzefe , raffinata continuamente da nuove regole , e da nuovi coflumignon ammettendo alcuna di quelle temerità,  giuflamente chiamate felici, reputa come difet*  ti le vive immagini delle efpreffioni , e fe figure  un poco gagliarde e fublimi fono appreffo di queU  la Nazione in iftima di ftravaganze e d’errori.  Oltre di che il numero e P armonia , per cui leggiadramente rifuonano gP Inglefi poetici componimenti , non poffono così di leggieri efere trasportati nel ver/o Franzefe , a cagione della fchiavitù della rima , da cui non mai fi fan potuti  liberar qué* Poeti : e di quel gran verfo di dodici e di più /illabe % che chiamano Alefandrino:  il qual verfo conviene, particolarmente alla Tragedia sì poco % quanto poco fe le conviene P Efa-  metro , cui Ariftotile in qucfto genere di Poefia  fortemente condanna* Ufano gP Inglefi una spezie di verfi, appellati verfi bianchi , cioè puri e  netti di rima , i quali coflando di cinque piedi ,  corrijpondono appunto al verfo Jambico degli  Antichi y che fecondo Ariffotile fembra e fere fia-  to dettato dalla natura medefima per frammi-  fchiarfi più facilmente nella conv erf azione y e nel  ragionamento famigliare , che ì il proprio ca-  rattere del Dialogo, in cui fi rapprefentano le  Tragedie . Così privo del forte foffegno e della  tfprejftone e del verso > difperando il SigMuUin  di poter venire felicemente a capo nella intra-  prefa verfione , lafcio Ubero il campo ad altro  fpirito 9 o più ardito o più attivo del fm > cui più  agevolmente potejfe fot tire quefta nobile impre-  fa . Frattanto pero > perche il Tubblico non re-  ftajfe a fatto privo della lettura di qucfto inge-  gnofiffimo componimento , il fiprannominato Sig.  Boyer fi contento di pubblicare la fua verfione   in     Digit     in profa , impreffa /> anno 1 7 1 3 . 10 Londra per  Air. Giacomo Toh fon : della quale , quantunque  fedele , perocché priva della fua naturale armo-  nio/a bellezza , poffiamo dir giallamente , cta e/-  /# è mancante del fuo più chiaro fpleudore .   Quefle d'ufi citila pero di non esprimere felice-  mente i [entimemi più vivaci e gagliardi degli  fr ameri liuguàggi , in qualunque maniera fi fie-  no rapprefentati , non le pruova certamente il  no (irò Tofcano Idioma , // quale > giù a la f rafie  del noftro celebraùjftmo Carlo Dati di dolcezza e di eleganza non cede al ftcuro ad alcuna delle lingue vive , e colle morte più cele-  „ tri contende di parità , e forfè afpira alla  5 > maggioranza : fe pure non vogliamo dire af-  filatamente col Cavaliere Lionardo Salvi ati$  che ficcome la lingua Latina ha dolcezza minore , che la Greca non ha ; così nella nojlra , non  ritrovando fi quella pronunzia difficultofa efpiacevole, che nella Greca fi trova, accagionatagli  dagli accoppiamenti multiplici delle confonanti ,  j quali comunemente rendono a/prezza ; n£ no*  Siri vocaboli , come in quella addiviene , quefta  durezza non e che rade volte 0 non mai . Ala  non efendo, queffo. luogo qppropofito per difcorrere  difufamente delle lodi del noftro volgare  Idioma , e particolarmente per effere (lata que-  fi a materia trattata con tanta aggiuflatezza ,  con tanto gufto e di fornimento non folo dà* fo-  pr -accennati chiarirmi autori , ma inoltre  cora dal Varchi , dal Bu orti watt ci , e da altri,  che niente più ; mi riftrignerò a dir brevemente  quanto appartiene a quefla prefente Tragedia:  cui fe non ha goduto la bella forte di e fere (la-  ta trapiantata felicemente nel? Idioma Franze-  fe> renduto per altro oramai qua fi che neceffa-  rio air wtiverfale letteratura ; la ha ben ritro-  vata nel no Uro linguaggio per la fu a maravi-  glia efpreffione y fecondità , e dolcezza. Vin*  figne w flro e non mai abbaflanza lodato Salvini , quegli   „ che d' alto fapere il petto pregno   „ Scorre a fua voglia il dotto e bel paefe  „ Dell' alma Grecia , e cui fon lievi imprefe  ^Spogliarla d' ogni fuo più caro pegno;  ( come di lui con aurea Tofana eloquenza can-  to P inclito Segretario della Reale %A ce ad ernia  di Frància , P cibate Regnier Des-31arais , )  tratto dalla fama di queflo nobiHfimo componi-  vi eutO) e dejiderofo di contemplarne neff Origi+  1 t naie     naie le fue rare bel Uzze , (limo lene rivoltare  tutto il fuo (ìndio a riajjumere P Inglefe Idioma,  da e/lo può a quel tempo traforato : lo che nel  breve giro di foli due mefi , non tanto per la  fua pertinace fatica , quanto per lo metodo eti-  mologico , fuo famigli ariffimo e quaft che natura*  le , in tal maniera gli venne fatto , che franca*  mente P attività penetrandone , poti con mae*  jlofa franchezza tutte le difficuìta fuperare ,  che nel tradurre queir Opera altrui fi erano at*  tr aver fate . Vedeva egli , come pratichi/fimo del  tradurre [ avendo arricchito delle fue {limati^  lifjime traduzioni la noSlra favella di tutte le  foavi , leggiadre , fièli mi, ed eleganti maniere,  che negli immenfi tefori de' Greci Toeti fi /la-  vano chiufe , e per così dire nafcofe] quanto a  tal fatto ella fia capaci fflma ; maneggevole per  fe medefima e fendo , e atta qual molle cera a  rapprefentar fedelmente i concetti , le parole, e  le ftefe efprefioni ; anzi , ciò che ì più malagevole , Paria ftejfa , il colore , e 7 carattere di  tutte quelle fembianze , che dagli Autori, che fi  prendono a tradurre , furono impreffe nette loro  compofizioni . Contribuigli a queflo inoltre non  poco la finora dolcezza del noftro maggior verfi Tofcanó, il quale , oltre al non ejfere in fimi-  li componimenti inceppato , per così dire , e riftretto dalP orpellato vincolo delle rime , rifpon-  de il più delle volte in certo modo per la fua  mi fura a una fpezie degli Jambici degli Anti-  chi , i quali , come fi e detto di [opra , /limati  furono tanto proprj della Dramatica , che di  niuno altro mai non fi fervirono più facilmente  tutti gli antichi Greci t Latini Poeti . Impe-  gnatoli adunque il no/Ir o Salvini nella verfione  di quefta eccellente Tragedia : e sì per la pafto-  ftta della lingua y da effo tante volte in fimili  congiunture fperimentata : e sì pel maeflofo con-  certo de % ver fi , in cui la traduceva , a lei pro-  priijfimi , quanto altri mai , felicemente venuto-  ne a capo , vemie nelle mani degli Accademici  Compatiti della Citta di Livorno, da' quali nel  Carnovale recitata con bella  maniera , e con maeflofo apparato ; per la viva-  ce efprejfione , e per la fedeltà fmcerijftma fu  tanto ammirata da i Sig. Inglefi dimoranti in  quel Torto , che (limolarono il medeftmo a per-  metterne la pubblicazione , fuc ceduta /' anno ap-  preso in Firenze per mezzo delle Stampe de 9  Guidacci e Franchi , con applaufo univerfale de*   t * gli     3( sii )fr   £/' Intendenti deW uno e dell' altro linguaggio ,  mot* //* atteflano i Sig. Giornalifti di Venezia  nel loro Tomo XXll.pag.^/^. Ma per non de*  rogare alP ingenua modeflia del no/Iro chiarij/t-  ino Traduttore non ini pare fuor di propofito il  ripetere in queflo luogo , e colle fue flejje parole ,  /' obbligazioni che egli profeta ad alcuni nobili  /piriti Inglefi , che non poco gli conferirono a  perfezionare quefta verfione ; primizia , come  egli la chiama , del fuo fiudio in queW Idioma :  „ E perche ( dice egli nella Prefazione al Lettore  » appo Sia alla prima edizione ) fecondo il famo-  „ fo detto di Plinio eft plenum ingenui pudo-  „ ris , fateri per quos profeceris ; non debbo  „ non confeflare, molto dovere al già Inviato  J9 noftro d Inghilterra , genero fo ed ornato Ca-  yy valsere y Sig. Giovanni Moles-Worth , fitto i  „ cui aufpicj quefta mia traduzione nacque , e  „ al dotto Sigi Lochart , ambedue delle finezze  „ della noftra Lingua intendentifsimi .  Da quefta Verfione ne efcì toffo in Venezia  un altra , ftampata peH Coletti , della quale  non fa di meftieri il parlarne , per effere in efta  in più parti travi fata la prima , troncando mol-  to del r e cit amento , sì per fervire, come dice il fuo Imprefario , al gufto moderno del Teatro Ita-  li ano , ricucendola a foli tre Atti ; dovecch},come  fono tutte le antiche , ella è compofla di cinque :  sì ancora per lo continuo fnervamcnto della for-  za e della energia , cagionatole dalla mutazione  delle parole e de' ver fi , folo per piacere all'  orecchio del comun Topolo , che pago e contento  di quel femplice titillamento e prurito , non pe-  netra addentro nel midollo e nella foftanza del-  la materia . Ma per ritornare alla nojlra , appena ella  fu e f cita felicemente alla luce, che divenuta ra-  rifjìma non fu poffibile ritrovarne ne pure m  filo efemplare per foddisfare alle continue in-  ftanze , che giornalmente da tutte le parti ne  erano fatte ; onde conofcendo io da gran tempo  quanto gli amatori delle lettere fojjero defide-  rofi di vederne una nuova impresone , final-  mente mi fon rifoluto di farla comparire di nuo-  vo alla luce , arricchita dello (lejfo fuo Originale  lnglefe. Ne perocché fieno molti filmi quegli, che  alla cognizione di quel nobil linguaggio non fi  fono per anco affacciati , giudico io , che fia per  efjere alt univerfale difaggradevole quei/o mio  penfamento , potendolo almeno ciafcuno riputar-     *3( xiv )fr   /<? utili fsimo a chi di ejjo procura adornar fene,  mentre , m/ /» giw occhi può  contemplare come le maeflofe maniere dell' uno  e delP altro linguaggio maraviglio/amente fi  corrifpondano : lo che certamente fenza il con-  fronto o fenza l } oftinata fatica di uno Studio  indefejlo non fi può confeguire giammai . Per lo  che fe quefta intr apre fa riftampa farà accolta  benignamente dagli amatori delle lettere y ficco-  me io lo fpero , mi darà animo a dar fuori al*  tre cofe di ftmil genere , dallo (lefjo celebre Tra-  duttore [ cui altro non e a cuore che il giovare  e il far cortefia a que* nobili ingegni , che fi ftu-  diano di apprender le lingue , e trame da ejfe  il meglio ed il fiore per arricchirne la propria ]  lavorate dico da ejfo con non minor fedeltà e fe*  licita di quefta pr e finte , e le quali per anco non   fono alla luce . ATTORI   Del Dramma. CATONE.  LUCIO Senatore .  SEMPRONIO Senatore.  GIUBA Principe di Numidia .  SIFACE Generale de' Numidi.  PORZIO ) r . ,. ~ .  MARCO ) Fl g lluoh dl Catone •   DECIO Ambafciator di Cefare.  MARZIA Figliuola di Catone.  LUCIA Figliuola di Lucio.  Ammutinati, e Guardie. La Scena fi rapprefenta in una gran Sala nel  Palazzo del Governatore di Urica .   <3( * )8»    p5 0 u>/7^ the So»l by tender Strokes of Arp y  fig| f;i r*//S? /Zrr G*///**, W /<? mendthe Heart >  7o Mankindtn cotifctous Virtue bold ,  Liwe oer eacb Scene , and Be isohat tbey he bold:  Tot thts the Tragic>Mnfe firfi trod the Stage ,  Commanding Tears to Jlream thro euery Age ;  Tyrants no more the ir Savage Nature kept ,  And Foes to V trtue monderà how tbey ivcft .  Our Atttbor shunt by *vulgjtr Springs to mwc  The Heros Glory, or the Virgin s Love;  In ptytng Love ive but our JVeaknefs show ,  And -wild Ambttton isoell deferves tts ÌVoe .  Here Tears shall flo-w from a more genrons Caufe y  Sucb Tears as Tatrtots shed f or dying Lawsi  He bidsyour Breafts witb Ancient Ardor rife >     And    Del Sig. POPE  Alma fvegliar con madri tocchi d'arte,  Erger Jo fpirto, ed emendare il cuore,  Far l'uomo in fua virtù franco ed ardito ,  Ch'ogni feena fi a norma di Aia vita ,  E s' ingegni effer ciò eh' ivi fi mira ì  Qucfto, quando da prima entrò in Teatro,  Fu di Tragica Mufa il fin fublime ;  Per quefto comandò, che in ciafeun tempo  Le lagrime a diluvj ne correderò .  I Tiranni, non più fieri e felvaggi :  E ; nimici a virtù ftupiano, come  Contra lor voglia disfaceanfi in pianto.  Sdegna V Autor per volgar modi muovere  Nelle femmine amor, gloria negli uomini.  In donare all'amor la pietà nottra ,  Non facciam che moftrar noftra fiacchezza :  E fiera ambizion metta fuoi guai .  Da più nobil cagion qui feorreranno  Le lagrime: tai lagrime, quai fpargono  Di Patria amanti fu fpiranti leggi.  Rcfpirin voftri petti antico ardore «   Ai E flit  And calli forth Roman Drops from Brtthb Eyet .  Vtrtue conferà in human Sbape be drawt ,  What Plato Tbougbt, and GodMe Caio Wat :  No common Objetl to your Sigbt dtfplayt ,  Bnt wbat wttb Pleafure Heavn tt felf furueys >  A brame Man ftrttggling tn the Stormi of Fate y  And greatly falltng wttb a falli ng State !  li bile Caio giva bit little Settate Laws ,  IVbat Bojom beati not in bis Country i Caufe ?  li bo feet btm aft , bnt crrviet enjry Deed t  Wbobeart bim groan y and doei not witb to bleedt  E*vn when proud Cafar 'midft triumpbal Cari ,  The Spaili of Nat ioni , and the Pomp of Wars , .  Ignobly Vain , and impotently Great ,  Òbowd Rome ber Cato t Figure drawn in State 5  Ai ber dead Fatbert revrend Image paft y  The Pomp wat darkend, and tbe Day oercaft ,   The Trinmpb ceatd Teart gmb % d from enfry Eye ;   Tbe M r orl£t great Viclor paft unbeeded by ;  Her Latt good Man de] e eie d Rome adord ,  And bonottrd C&fart Ufi tban Catat Sword,   Britaìnt attend : Be Wortb Itke tbif approdi d ,  And ibow yon bave tbe Virine to be mcwd.  Wttb bonejl Scorn the firft favi d Cato miewi     Rome  £ ftillln Roman pianto occhi Britanni.  In forma umana è qui Virtù ritratta :  Quel che Platon pensò, fu il divin Cato.  Non oggetto comun fi fpiega in vifta ;  Ma ciò che il Gel con fuo piacer rimira .  Un uom prode, che lotta del dettino  Traile temperie, c grandemente cade  Mifto a ruine di cadente Stato.  Mentre dà leggi al fuo picciol Senato  Catone , e qual mai fcn non batte allora  Nella gran caufa della Patria fua ?  Chi oprar lo mira, e non invidia l'opra?  Chi miralo fpirar, nè morir brama ?  Pure allora , che Cefarc fuperbo  Tra i carri trionfali, e tra le fpoglie  Delle nazioni, e pompa della guerra ,  Ignobil vano , e fattamente grande  Moftrò a Roma del fuo Caton V imago j  Del Padre fuo la reverenda imago,  Mentre ch'ella pattava, era feurata  La pompa , e'1 dì rannuvolato, e bruno:  Il Trionfo ceflava :da ciafeuno  Occhio fcn gian le lagrime fgorgando;  Ed il sì grande Vincitor del Mondo  Pattava fenza pur etter guardato :  L* ultimo fuo prod' uom Roma adorava  Abbattuta , dolente , e più la fpada  Di Caton , che di Cefare onorava .   Britanni, a un merto tal donate plaufo,  E moftratevi d'efferne commoffi,  Se tanto di valore ancor ci retta .  Con bello sdegno il primo Cato vide     ìearning Arti from G ree ce , wbom $he fubdnd  Our Scene frecarionfly fubjtfts too lovg  On Frencb Transattoti y and Italtan Song .  Dare to bave Senfe your fehes', AJfert tbe Stage \  Be jnttly ivartrìd isottb your ow» Native Kage .  Sue b Plays alone sbonld pleafe a Brtttsb Ear ,  As Catos felf bad not dtjdaind to bear .  CATO  Roma da Grecia vinca apparar l'Arti.  Troppo lunga ftagion la noftra Scena  Di Francia da i teatri, e dell 1 Italia  Ha mendicato V umil fuo foftegno .  Voftre forze provate, ed al Teatro  Voftro la fua ragion ne richiamate.  Accefi fiate del nativo foco.  A Britannico orecchio , folo quelle  Opre deggion piacere, che Io (ledo  Catone d'afcolcar non sdegnerebbe.      AT.    «3C 8 )S»  Portius, Marcus.     He Dawn isover-cafl 5 tbe Mornìng ìovSrs\  And bcavily in Clouds brings on tbe Day  Tbe grcatjb* import ant Day\big r witb tbe Fate  Of tato and of Rome. — Our Fatbefs Deatb  Wouldfill tip ali tbe Gtuìt ofCivil ÌVar ,  And clofe tbe Scene of Flood . Already C&far  Has ravaged more tban balf ebe Globe 9 and fees  Mankind grown tbin by bit definiti tue Sbordi  Sbottld he go furtber > Humbcrs isoould be wanting  To form new Battelt , and fupport bis Crimet .  Te Gods , wbat Hawock does Ambition make  Among your Works !  Marc. Tby fteddyTemper, Portiate   Can look on Guilt , Rebellion, Fraud, and Gufar ,  In tbe cairn Ligbts of mild Fbìlofopby ;  Tm tortured^ e<vn to Madnefs , we* I tb/nk  On tbe prottd Vtchr :      evry  i Porzio, e Marco.     Scura è V Alba , ed il mattino è fofco ,  E lento in nubi fuor fen* efce il giorno ,  Il grande e forte dì , pregno del Fato  Di Cato e Roma ; la morte del noftro  Padre, la reità della civile  Guerra ornai tutta porteria al colmo ,  E chiuderla la fanguinofa fcena .  Già Cefar più della metà del Mondo  Ha faccheggiato : e fcorge Y uman genere  Scemato dalla Tua micidial fpada .  S'egli oltre andafsc , mancheria alle nuove  Battaglie gente a (ottener Tue colpe.  Dei ! qual ruina Ambizion cagiona  Tra le voftre opre !  Marc. Porzio , la tua fredda   Immobi! tempra a rimirar pur vale  Retà , Ribellione, Frode, e Cefare  Di mite fapienza a queto lume?  Crucciato io fon , e mi fmarrifeo , quando  Io penfo a quel fuperbo vincitore.   B To-    «K io )*   ti) ry ttme bis named  Thci*falìa rifcs to my Vttw — / fee  Tb Infnlting Tyrant frane tng oer the Fìelà  Stro isSJ-wttb Romcs Cttt^ens , anddrencb'dinSlangbter,  Hts Horfe's Hoofs wet wtth Vatrtctan Blood.  Oh Fortms , // (bere not fome cbofen Curfe y  Some btdden Tbunder in the Stores of Heaifit)  lied isotib uncommon Wratb , to blaft tbe Man  Wbo o-wcs bis Greatncfs to bis Country s Rum ?   Por. Beli eie me , Marcus , '/// an tmplous Greatnefs ,  And mtxt vjttb too mucb Horrour to be enmyd :  How does tbe Lufire of our Fatbers Atltons ,  Jbwgb tbe dark Cloud of Ills tbat coDer htm ,  Break out , and bum witb more triumfbant Brigbtnefs I  His Suff nngs fbtne y and fpread a Glory round htm >  Greatìy unfortunate , he figbts the Caufe  Of Honour , Virine , Liberty , and Rome .  Hts S-word nc"er fili but oh tbeGutlty Head}  Oppreffton , Tyranny , and Fowr tifar fi ,  Draw ali tbe Vengeanee of bis Àrm mponem .   Marc. Wbo kn<rws not tbis ? Bue wbat can Cato do  Agatnfl a World, a bafe degenerate World ,  Tbat coarti tbe Toke , and bows tbe Neek to Cafar t  Peni up in Ut tea be mainly forms  A foor Epitome of Roman Greatnefs , .  And , eowerd wttb Numidìan Guardi , diretti  A fiable Army, and an emfty Senatc ,  Remnants  <(».»> *   Tofto che *J nome luo gìugne al mio orecchio 3   Farfalla al'a mia villa fi prcfenta :   Veggio calcar V infultator tiranno   II laitricato campo di Romani   Cadaveri , e inzuppato in civil ftrage,   E di fangue patrizio bagnate   Degli orgogliofi fuoi cavalli V unghie.   Scelta maledizion non avvi, o Porzio,   Nelle armerie del CicI fulmin riporto   Di non comune ira di Dio vermiglio ,   Ad abbattere, a ilruggere queir uomo,   Che della Patria fua lui le ruine,   Erge ( oh beati Iddii ! ) la fua grandezza?   Por£ Certo , Marco , eh' è quefta empia grandezza,  E ha troppo ortor per effere invidiata.  Quanto del noftro Padre i fatti illuftri ,  De i mali , che *J circondan , tra le nubi,  Spuntan brillanti di più chiara luce/  Di gloria 1* incorona il Tuo (offrire .  Sfortunato, maggior di fua feiagura,  Ei combatte collante per la caufa  D 1 Onor, Virtute , Libertate , e Roma.  Sovra rea teda foi cadde fua fpada:  L* oppreffion , la tirannia fol traforo  Sopra lor , del fuo braccio la vendetta .   Marc. E chi noi *i fa ? ma che può far Catone  Contr' ad un Mondo, un vile e guado Mondo ,  Che a Cefar piega il collo , e corre al giogo?  Di Romana grandezza ei forma indarno  Pover compendio in Urica rifpinto:  E da guardie Numidiche attorniato  Una ficvol Armata , ed un Senato   B 2 Voto     Remnants of mìgbty Battei: fongbt tn matti .  By Heavns , /ivi Virtues ,jo/nd witb fucb Sttccefs }  Diflratl wy very Soul : Our Fatber s Fontine  Wond almoft tempt ut to renounce bis Frecepts.   Por. Remember -wbat our Fatber oft bas told us :  Tbe Ways of Heavn are dark and intricate ^  Fu^led in Ma^es , and perplext ivttb Errors Our Under si andtv.g traces 'em in wain y  Lofi and brwtlderd in tbe fruttlefs Searcb 5  Nor fees ikutb bow mucb Art tbe Wtnitngs run ,  Nor wbere tbe reguìar Confufion ends .   Marc. Tbefe are Suggeftions of a Mind at Eafe:  Ob r erti us , dtdft tbott tafle b«t balf tbe Griefs  Tbat wrtng wy Soul , tbou coudfl not talk tbus coldly .  Fajjìon unpttyd , and fuccefslefs Love ,  Flant Dagpers tn my Heart , and aggravate  My otber Grtefs . Were but wy Lucia hnd! —   Por. Tbou feeft not tbat tby Brotber is tby Rivai:   Bnt I wufl bidè ìt .for I know tby Tewper . [ afide  Novj , Marcus y »0u>, tby Vtrtues on tbe Froof:  Fut fortb tby tttwofl Strengtb , >work evry Nerve ,  And cali up ali thy Fatber tn tby Soul:  To quell tbe Tyrant Love , and guard tby Heart  On tbts iveak Side , nvbere moft our Nature fails ,  Would he a Conqucft isoortby Catos Son .   Marc. Fort ìris , tbe Council wbicb I cannot taie y  Ioftead of beali ng , but npbraids wy Weaknefs .  Btd me for Honour pi unge into a iVar  Of tbtchft Foety     and *3( '3 )S»   Voto dirige , riraafuglio e avanzo   D'afpre battaglie combattute invano.   Oh Ciel ! tali virtù con tai fucceflì   Confondon V Alma : la maligna forte   Del noftro Padre , a' begli fuoi precetti   Quafi di rinunziarci tenterebbe.  For%. Del noftro Padre ti rammenta quello   Ch' ei ci dicea fovente: che del Cielo   Sono feure le vie, ed intrigate:   Noftro intelletto le rintraccia indarno,   Perfo e fmarrito nella vana inchiefta .   Nè vede con quant'arte i giri vanno,   Nè dell* ordin confufo il termin feorge .  Marc. Pender fon quefti d' oziofa mente .   Porzio, fe la metà guftato avefli   Di quei dolor, che V alma mi trafiggono,   Freddamente così non parlerefti .   Paftìon non compatita, amor fgradito   PafTanmi il cuore, e gli altri duoli aggravano .   Oh fe a me fuffe Lucia pietofa !  Tor%. Non vede che '1 fratello è fuo rivale :   Uopo è eh' io il celi : il genio tuo conofeo . a parte   Or, Marco, ora al cimento è tua virtude.   Prova tutta tua forza , opra ogn' ingegno ,   Spira nell* alma tua tutto il tuo Padre .   Vincer Y amor tiranno, e *1 cuor guardare   Da quella debol parte , ov* uom più manca ,   Conquida fia da figlio di Catone .  Marc. Porzio , il configlio , eh' io prender non poffò ,   Non fana , nò , rinfaccia mia fiacchezza .   Fa che Y onor comandi di cacciarmi   In guerra tra foltiflìmi nemici,   E cor-  W r*/& ou certa/ n Dcatb }  Then fbalt tbou fee that Marcus is not JIo jj  To follali) Glory f and confefs bts Fathcr .  Love is not to he reafond down y or lofi  In htpb Amhttton , and a Tbtrfl of Greatnefs >  'Tss ficond Ltfc , tt grows into the Soni ,  Warms evry Vein y and beati in evry Fulfe y  I feel it bere : My Refolutton meltt —   Por. Beboldyoung ]uba , the Numidi an Vrinceì  Wtth bow mucb Care be forni s bimfelf to Glory ,  And breaks the Fiercenefs of bts Native Temper  To copy out our Fatber s brigbt Examplt .  He loves our Stfter Marcia , greatly lovet ber ,  Hts Eyes , bis Looks , bis Acltons ali betray it :  But fidi the fmotherd Fondnefs burns wttbtn bìm y  When moti tt fwells and lahours for a Veni ,  The Senfe of Honour and Dejire of Fame  Drive the big FaJJìcn back into htt Heart ,  Wbat ì fball an Afrtcan , fiali Jubas Ueir  Eeproacbgreat CatosSon, and fbo-jj the World  A Virttte voantivg in a Roman Sotti f   Ma re. Fortius , no more ìyonr Words leave Stings befana* em.  lVben-e % rc did Juba , or dtd Fort in s , fhow  A V ir tue that bat caji me at a Dtftance ,  And tbrown me out in the Furfnitt of Honoar ì   Por. Marcus , I know tby generous Temper weli ;  Fling but tV Appe arance of Dtfbonour on it ,  Itftrait takes Fire , and mounts iato a Bla^e.   Marc. A Brothers Suff rtngs clatm a Brothers Fity .     Por.     jitized     E correr frettolofo a certa morte y  Vedrefti alior , che Marco non è pigro  A feguir gloria, ed a ritrar dal Padre.  Amor non cede , nè a ragion , nè ad aita  Ambizion , nè a fete di grandezza .  Alma novella egli è della ftefs* Alma :  Scalda ogni vena , e batte in ciafcun pollo.  II Tento io qui : disfatto è il mio coraggio .   for^. Mira il Giovine Giuba, di Numiviia  Il Principe, con quanta cura ci forma  Se medefmoalla gloria, e la natia  Fierezza frena, a far vedere in lui  Del noftro Padre il vivo illuftre efempio.  La noftra fuora Marzia egli ama , e molto  L* ama : il dicon fuoi fguardi, atti, e fembianti j  Ma chiufo il fuoco pur gli arde nel petto.  Quand* ei più crefce , ed a sfogarfi a (pira ,  Sentimento d' onor, defio di fama  Spingon la fiamma a ritornare al cuore.  Che! un Affricano, ed un di Giuba erede  Rinfaccerà del gran Catone al figlio,  E potrà al Mondo tutto ancor moftrare  Una Virtù, che in cuor Romano manca ?   Marc. Porzio , non più : voflre parole lafciano  Puntura dietro a lor : quando mai Giuba ,  O Porzio ancor , mi trapaflaro tanto  Nella virtudc , e dell' onor nel corfo ?   Tor^ Marco, la gencrofa indole tua  Io ben ravvifo> che fe pur sù quella ,  Di difonor la minima favilla  Cada, ella prende fuoco , e forge in fiamma .   Marc. Vuol fraterno foffrir pietà fraterna.   Por^. Il     Digitized by Google     <8( ><* )&   Por. Hfdi; n faows I psty tbee : Beboìd my Eyes   ESn wbilfl I (peak Do t bey not faim in Te ars ?   Il ere bttt my Heart as naked to thy Vieiv y  Marcus isùonld fee it bleed in bis Babai f .   Marc. Why tbendcft treat me uriti Rcbukes, inftead  Of k/ud condoliti^ Cares and friendly Sorrow ?   Por. 0 Marcus , did I know tbe ÌVay so e afe  Tby troubled Heart , and mitigate thy Tatns ,  Marcus y belic<ve me 7 / couìd die to do it .   Marc. Tbou beft of Brothers, and tbou befl of Fiìends !  Pardon a weak diftemperd Soul , tbat fwells  JVitb fudden Gufls , and finis as foon in Cahns ,   Tbe Sport of Paffions But Sempronitts comes :   He muli not find tbts Softnefs bangi ug on me .  Sempronius folus.   COnfpiracies no fooner fboud b: forni d  Tban executed . JVbat means Portius bere ì  I IHe not tbat cold Toutb. I muft dtjìemble ,  And [peak a Language foreign to my Heart .   Sempronins, Portius.   Semp. Good Morroiu Porttus ! Ut us once embrace ,  Once more embrace ; "ubtlfl yet we botb are free.  To Morrou) fboud noe tbus exprefs our Fr/endfbip ,  Eacb mtght recede a Slave into bis Arms :  Tbis Sun perbaps , tbts Morntng Suns tbe lafl  Tbat ere f ball rife on Roman Liberty .   Por. My Fasber bas tbts Morntng calN togetber   To     Digitized by Google     Por^. II Gel lo si', s' io n 1 ho pietade. Mira  Or gli occhi miei: non nuotan' effi in pianto?  Ah fe il mio cuor nudo a tua vifta fufle,  Marco il vedria in fua metà piagato.   Marc. Or perchè sì trattarmi con rimprocci,  Di blande cure , e duol compagno in vece ?   Tor%. O Marco , s' io poteffi V affannato  Tuo cuor calmare, et addolcir le pene,  Marco, credilo a me , per ciò morrei.   Marc. Ottimo tu fratello, ottimo amico!  A un turbato perdona e fiacco cuore ,  Tofto gonfio in tempefta, e tofto in calma ,  Delle paflìoni fcherzo ... Ah ! vien Sempronio :  Che in quefto mal decoro ei non mi nuove . parte. Sempronio folo*   Scmpr. Z*^ Ongiure non più tofto handa formarO, 1   Che efeguirfi. Che vuol mai qui Porzio ?  Di quello giovan la flemma m' è noja .  Diflìmular m' è d' uopo , e ragionare  In (tran linguaggio , e dal mio cuor diverfo .   Sempronio y e Forato .  Sempr. Buon giorno , caro Porzio : ora abbracciamoci :  Un' altra volta ancor, mentre fiam liberi:  Forfè avrfa , fe doman noi ci abbracciaffimo,  Uno fchiavo ciafeun tra le fue braccia .  Qyeft' Alba forfè, e quefto Sol fia il fezzo ,  Che forgerà fu libertà Romana .  Tor^ In q 11 ^* hi* povera mio Padre   C Que-     To poor Hall bit little Roman Settate ,   ( T£f Lcanings of Pharfalta ) to confale   Ifyet he can oppofa the migbty Torrent   Tbat bear s down Rome, and ali ber Gods, ècfore />,   Or muti at lengthgvvc up the World to Cafar.   Sempr. Noi ali the Pomp and Majefly of Rome  Can rat fa ber Senate more tban Catos f re fame %  Hit Vtrtues render our Affcmbly awful ,  Tbey ftrike ntsth fometbmg Itke religioni Fear  And make enfn Cafar trcmble at the Head  OfArmies fin fa d witb Conqaeft : 0 my Portiti,  Could I but cali tbat ivondrous Man my Fatber y  Woùd but t'by Sifter Marcia he propitiont  To tby Friend / Vowt : I migbt he blefad indeedi   Por. Alas ! Sempronio , woud/i tbou talk of home  To Marcia , wbitti ber Fatbert Lifes in Danger ?  Tbou migbift at ivell court the pale trembling Veftal ,  Wben fbe beboldt the boly Fiume expiring .   Sempr. The more Ifae the Wonders ofthy Race   The more Tm charm d . Tbou maft takcòeed y my Portimi  Tbe World bai ali its Eyet on Catos Som.  Tby Fatbert Merit fan tbe* up to View ,  And fbowt tbee in tbe f aere ft poi ut of Ltgbt ,  To make tby Virenti ir tby Fomiti confatemi .   Por. Welldoft tbou feem to check my Lìngring bere   On tbit importuni Hour FU Jlruit avuay ,   And -nobile tbe Fatbert of the Semate meet     In Quefta mattina il picciol fuo Senato  [ Avanzi di Farfalia ] adunar vuole ,  A confuicar fe ancora ei puote opporfi  Al torrente , che in giù precipitofo  Roma porta e i fuoi Dei : o pure al fine  Cedere il Mondo a Cefare . Sempr. Di Cato  La prefenza fol può Roman Senato  Erger non men , che maeftà di Roma .  Noltra affemblea fan reverenda Tue  Virtudi, e infpiran un devoto orrore.  E fanno ancora Cefare tremare  Alla tefta d' altiere vincitrici  Armate: Porzio mio, oh s' io potetti  Padre appellar qucnV uom maravigliofo ,  E propizia la tua Sorella Marzia  A i voti fu (Te dell* amico tuo ;  Veracemente io mi faria beato .   ?or£. Ah Sempronio , vuoi tu parlar d' amore  A Marzia , or che la vita di fuo Padre  Sta in periglio ? tu puoi carezzar anco  Una Veftale pallida tremante,  Che già miri fpirar la fanta fiamma .   Semfr. Quanto le meraviglie di tua ftirpe   10 feorgo , tanto più ne fon rapito .  Prenditi guardia , Porzio : il Mondo tutto  Tien gli occhi fuoi fui figlio di Catone.   11 merito paterno ponti in vifta ,   E ti moftra di luce al più bel punto,  A far più chiari tuoi vizj o virtudi .  Por%. Incolpi con ragion la mia lentezza  Su queft* ora importante ... Or ora io parto :  E mentre i Padri del Senato fono   Ci In clofe Belate , to iveigb tV Eventi ofJFar,  TU ammcte the Soldtcrs drooptng Courage,  Wttb Lowe of Freedom, and Contempt of Life.  TU tbunder tn thetr Ears their Country s Caufe ?  And try to rouje up ali tbais "Roman tn *cm .   not tu Mori ah to command Succefs ,  But veli do more y Scmprontus noe II deferve it . [ Exit •   Sempronius folus .   Cnrfe on the Stripling ! bow be Ape's bis Sire ?  Rmbitioufly fententious ! — But I wonder  Old Sypbax comes not j bis Numidtan Genius  Is weli dtfpofed to Mtftbtef, were be prompt  And eager on it > but be muft be fpurrd ,  And ciìry Moment qutckr.ed to the Courfe .  Cato bas ufed me 111 : He bas refufed  Hts Daugbter Marcia to my ardent Vorws.  Befides , bis baffled Arms and rutned Caufe  Are Barrs to my Ambition. Cafars Favour,  Tbat fboisSrs down Greatneff on bis Friends , wsll raife me  To Kome's firft Honours . If 1 give up Cato,  I clatm in my Reward bis Captine Daugbter .  Bnt Sypbax comes ! Syphax, Sempronius.    Syph. — Q Empronius , ali it ready ,   O l v w founded my Numidi ans , Man ly Man ,   Ami     Digitized by Google     In ferrato contratto a bilanciare  Gli eventi della guerra j V abbattuto  E fcorrente coraggio de* foldati  Ergerò coir amor di lìbertade ,  Col difprezzo di vita : al loro orecchio  Intonerò lacaufa della Patria ,  Ciò eh 1 è Romano in lor , dettar tentando .  Non è dell* uomo i) comandar fortuna 3  Ma quel eh* è più, Sempronio, è il meritarlo, parte   Sempronio filo .  Maledetto Garzon ! come fuo Padre  Contraf fa egli , c 'I fentenziofo affetta !  Stupifco , che Siface ancor non viene .  Il fuo genio Numidico è ben atto  Alla cattività; fufs* egli pronto;  Ma d' uopo a ogni momento egli ha dì fprone .  Meco non ben Caton s* è diportato.  Rifiutato ha la fua figliuola Marzia  A gli ardenti miei voti : in oltre V armi  Sue abbattute e rumata caufa  Oftacol ranno all' ambizione mia .  Il favore di Cefare , ed il fuo  Piover grandezza fu gli amici fuoi  Alzerà me di Roma a i primi onori.  S* io tradifeo Caton , la figlia fua  Sarà mio premio. Ma Siface viene.   SCENA Ut   Siface , e Sempronio*   Sif. Q Empronio , tutto è prefto : ho io tentati  O Tutti i Numidi miei ad uno ad uno :   In     And fini Vw ripe for a Remoli : Tbcy ali   Complatn aloud of Catos Dtfcipltne ,   And watt but the Communi to clange their Majler .   Sempr. Believe me , Sypbax , tberes no Time to wafie $  £<v'« wbilfi uh* [peak , wr Conqneror comes on y  And gatbers Ground upon us evry Moment .  Alasi tbou knowft not Csfars attive Soni y  Wttb r what 0 dreadful Courfe he rufbes on  From IVar to War : In vatn has Nasute forni à  Mounsains and Oceans to oppofe bis Pajfage ;  He Bornia^ s oer ali , vittortous in bis March ,  Tbe Alpes and Pyreneans feuk before bim ;  Tbrottgb JVindSyand IVaves , and Ssorms y be works bis way,  Impattentfor tbe Battei: One Day more  Wtllfet tbe Vtttor tbnndring at our Gates.  But teli me y ba/ì tbou yet draivn oer young Juba ?  Tbat jltll ivoui recommend tbee more to C&far y  And challenge bette? Terms — •   Siph. Alas ! bes loft ,   He"s loft , Sempronius ; ali bis Tbougbts are full   Of Catos Vtrtues But TU try once more   ( For e<vry Inflant l expeil bim bere )  Ifyet I can fubdste tbofe ftubborn Principici  Of Faitb , of Honour , and I know not isobat ,  Tbat bave corrupted bis Numtdiau Temper ,  And ftruck tb* Infetti on into ali bis Sotti.   Sempr. Be fure to prefs upon bim evry Motive.  Juhas Surrender , finse bis Fatbcrs Deatb ,  IVould give up Afrtck into Csfars Hands ,     Ani     In punto ci fono già d ammutinarti .  Dell* auftera di Caco difciplina  Fan tutti alti lamenti : ed a cambiare  Padron , non altro attendono , che il cenno.   Scmpr. Siface, tempo quì non è da perdere.  Mentre eh* uom parla > il vincitor s* accoda ,  £ campo fopra noi prende a momenti .  L* attività di Celar non conofe? ,  Che con tremendo corfo Io precipita  Di guerra in guerra : invan formò natura  Montagne e mari a opporli a fuo paffaggio :  Ei formonca in Tua marcia, e varca tutto;  SpiananG avanti a lui Pirene ed Alpi :  Per entro a i venti , e V onde , e le tempefte  La via fi fa bramofo di battaglia .  Un giorno più , porrallo a noftre porte.  Ma dimmi; hai guadagnato il giovin Giuba?  A Cefar ciò si ti farà più grato ,  E ti farà più vantaggiofo. Stf. Ohimè !  E* perduto, Sempronio, egli è perduto.  Son tutti i fuoi pender delle virtuti  Pieni di Caro ... Ma io vo provare  Anco una volta [ perciocch' io V attendo  Qui a momenti ] s' ancor vincer poffo  Quelle m aflìme dure ed infleflibili  Di fe , d* onore , e di non so qu ai cofe ,  Che r indole Numidica hangli guada ,  E tutta 1* alma fua tinta ed infetta.   Scmpr. Imprimigli ben ben ciafeun motivo .  Se Giuba fi rcndeffe, poicrf è morto  Il Padre fuo ; darebbe nelle mani  A Cefar Y Affrica, c farebbel Sire   Della     Digitized by Google     And mah btm Lord of balf tbe buruing Zone .   Syph. Bup is it trae, Sempronius , tbat your Settate  Is calfd togetber ? Gods ! Tbou musi b'e cauttous !  Cato bas piercing Eyes, andivill dtfcern  Oitr Brands , unles (bey re cover d tbtck isoitb Art .   Scmpr. Let me alone , good Sypbax , TU conceal  My Tbougbts in Fajjton ( *$$$ tbefureft *way > )  TU bello w cut for Rome and f or my Country ,  And moutb at Cafar ttll I fbake tbe Settate .  Tour cold Hypocrtjjc's a ti ale Dewice y  A wotm out Trick: Wonldsl tbou betbougbt in Farne ftì  Cloatb tbyfetgnd Zeal in Rage, in Ftre , in Fury !   Syph. In trotb y tbotirt ablc to inftrutl Grey bairs ,  And teacb tbe wily African Deceit !   Scmpr Once more , Le fare to try tby Skill on Jnba.  Mean *wbi!e FU baslcn to my Roman Soldiers ,  Infame tbe Muttny , and under band  BlocJ »p tbeir Dijcontentt , tilt tbey break out  Unlocìid for , and dtf ebarge tbemfehes on Cato .  Remembcr, Sypbax , we muft work in Hafle :  O thrà wbat anxious Moment s pafs betwen  Tbe Btrtb of Flots 3 and tbeir laft fatai Periods .  Obi *tts a dreadful Internai of Time,  Ftltd up isottb Horror ali , and big witb Deatb !  Deftrutlton bangs on c*vry Word we fpeak ,  On evry Tbougbt , *till tbe concludi ng Stroke  Determtncs ali , and clofes our Dcfign . ( Exit •   Syphaxfolus   TU try ifyst I can reduce to Reafon   Thit     Digitized by Google     «3(   Della metà dell'infocata Zona.  Stf. E' egli ver, Sempronio, che 'J Senato   Vollro s* adunerà ? Sii ben guardingo :   Cato ha occhi sì acuti e penetranti,   Ch' egli fi accorgerà di noli re frodi ,   Se ben non fi ricuoprono con arte.  Sempr. Lafciami far , Siface : afeonder voglio   Dentro la paffione i miei penfieri .   Quefla è la via la più ficura : io voglio   Aito gridar per Roma e per mia Patria   Contra Cefar , Anch' io fcuota il Senato .   Le fredde ipocrifie fon moda antica ,   E ufato giuoco . Eflfer tu vuoi creduto   Sincero ? vedi il fimulato zelo   E di rabbia, e di fuoco, e di furore.  Stf Inver tu puoi infimi r vecchi anco fcaltri,   E infegnar frode all'Affocano ifteffo .  Sempr, A Giuba guadagnar tue arti impiega ,   Mentre al Romano efercito m' affretto   A incoraggiar gli ammutinati , e loro   Odii infiammar , foffiando fottomano ,   Finché impenfati rompan fopra Cato ,   Vuolfi , Siface, qui celeritade.   Quanto angofeiofi padano i momenti   Fra '1 nafeer di Congiure , e '1 fin fatale !   Oh qua 1 dubbio intervallo, afpro, e tremendo,   Colmo tutto d' orror , pregno di morte !   Da ogni voce pende la ruina ,   Da ogni penfier , finché P ultimo colpo   Termine ponga a perigliofa imprefa . farte .   Siface foìo .   Tentar vo* , s' anco pofso alla ragione   D Rad-     Digitized by Google     TWj beadìlrong Youtb, andmake bìm fpurn at Cato.  Tbe Ttme a Jbort , Csfar comes rufbtng on ut — —  Bnt boldl young Julafeet me y and approdi bes .   SCENE IV.   » >   Juba, Syphax .   Jub. O Tpbax , / joy to meet tbee thus alone .   O ì ha*V* objemed of late tby Looks are falYn y  Cfcrcaft "ysottb gloomy Cares 5 and Dtfcontent >  77>f » /f // wrf , Sypbax , / coniare tbee , w ,  Wbat are tbe T bonghi tbat hit tby Brow in Frownt y  And turn tbtne Eye tbus coldly on tby Prènce ?   Syph. Tèi not my Talent to conceal my Tbougbtt ,   • Nor carry Smtlet and Sun-fbtne in my Face ,  Wben Dtfcontent fits beany at my He art .  I baue not yet fo mucb the Roman in me .   Jub. Wby doji tbou caft ont facb ungenrout Termi  Againft tbe Lordi and Swreigm of tbe World ?  Doft tbou not fee Mankind fall down he f or e W,  And <rwn tbe Force of tbetr Superior Vtrtue t  li tbere a Nation in tbe Wtldi of Africk ,  Amtdft our barren Rocki and burning Sandi ,  Tbat doet not tremile at tbe Roman Name ì   Syph. Codi l uberei tbe Wortb tbat feti tbit People tip  Aboi)e your own Numtdidt tawny Som !  Do tbey noitb tottgber Sinewi bend tbe Bow ?  Orfltei tbe Jarveltn fwtfter to iti Mark ,  Larvici) d from tbe Vsgour of a Roman Arm ?  W ho Itke our atl/ve African infiruiìt   Tbe     Digitized by Google     Raddurrc quello giovane ottinato,  E fargli in fine difpregiar Catone.  11 tempo è breve : Celare ne viene .  Ma ferma! Ecco Giuba. Egli s'accoda.  Giuba, e Siface.   Giti. Q Iface , io godo d' incontrarti folo .  O Toflervai poco fa turbato in vifta ,  Di nuvolofe cure ofcuro il volto .  Dimmi, Siface, io ti fcongiuro, dimmi,  Quai penfier ti contristano la fronte,  E gir fan freddo fui tuo Prence il guardo ?   Sif. Non fon atto a celare i miei pontieri .  Non può fplendere il rifo in mio fembiante ,  Quando affifo è nel cuor grave fconforto :  Non ho ancor tanto del Romano apprefo.   Gtub. Perchè cai voci ingiuriofe vibri  Contra i Sovrani Signori del Mondo?  L'uman gener non vedi avanti a loro  Proftrato confettar l'alto valore ?  Evvi Nazione infra i deferri d'Affrica,  Fra no fi re rupi ignude e a r ficee arene,  Che non paventi e tremi a) Roman nome?   Sif. O Dei ! qual meno è quel , che quello popolo  Solleva fopra i figli di Numidia?  Con maggior forza tendon eflì Parco,  O vola più velocemente al fegno  Dardo lanciato da Romano braccio?  Chi come l'agile Affricano , forma     «8( )fr B   T£<? fiery Stecdy and tratnt bim to bit Hand ?  Or guide s in Troops $V embattled Elepbant ,  Loaden ujitb IVar ? Tbefe, tbefe are Arts , my Pance,  In nsAich your Zama does not ftoop to Rome .   Jub. Tbeje ali are Vtrtues of a meaner Rank ,  Ftrfstttons tbat are flaced tn Bones and Nerva .  A Roman Soni ts bent on bigbet Vtews :  To avi li ^e tbe rude unpoltfb % d World ,  Ani lay it under tbe Reftratnt of Laws j  To make Man mtld andfoctable to Mani  To cultivate tbe wild licenttous Savage  Witb Wtfdom , Dtjapltne , and ItVral Artt ;  TV Embelltfiments of Ltfe : Virtuet Uìe tbefe  Make Human Nature fbtne , reform tbe So*l y  And break our fierce Barbarìans tnto Men .   Syph.Patieuce ktndHeavml—Excufe an old Mans wamtb  JVbat are tbefe -wond* rous civili ^ing Artt ,  Tbts Roman Poltfb , and tbis fmootb Behaviour ,  Tbat render Man tbus tratlable and tame t  Are tbey not only to dtfgmfe our Pafftons ,  To fet our Looks at vartance vottb ottr Thougbtt ,  To deck tbe Starts and Salita of tbe Sotti ,  And break off ali itt Commerce wttb tbe Tongue ;  In fhort , to ebange ut into otber Creatura  Tbau isohat our Nature and tbe Gods dejignd ut ì   Jub. To Vtrtke tbee Dumb: Turn up tby Eya to£atoì  Tbere mayft thott fee to ivbat a Godltke Heigbt  Tbe Roman Vtrtues lift up mortai Man .  Wbile good , and jufi , and anxious for bis Frìends y  He % s fttll feverely bent agatnft bimfelf ;   Renouncing Sleepb, and Refi , and Food, and Eafe ,   He     Digitized by Google     *3( >9 )»  Il feroce deftriero, e Jo maneggia ?   Chi meglio in truppe guida gli Elefanti   A ramaelt rati, carichi di guerra?   Quefte fon, Prence mio, quelle fon Farti,   Per cui non cede Zama vofìra a Roma .   Gtnb. Arti d'inferior ordine fon quefte ,  Forza e perfezion d' o da e di nervi .  Più alto mira un'anima Romana ;  A formar rozzo e mal polito Mondo ,  E fottoporlo al freno delle leggi,  E render l'uomo all'uom mite ed amico;  Con fenno e difciplina e nobili arti  Domefticar felvaggi, e ornar la vita.  Tali arti fplender fan natura umana ,  Riforman l'alma, e i barbari fann' uomini.   S/f. O Cieli , fofferenza / d' un uom vecchio  Sia feufato il calor: quali fon quefte  Mirabili arti, e Romana vernice,  E pulito contegno, che cotanto  Fan domeftico l'uomo, e civilizzalo?  Buone non fon , che a mafeherar gli affetti,  E dal volto feordar fare i penfieri,  E frenar la natia voga dell'alma ,  E romper Aio commercio colla lingua,  E in altre creature trasformarci  Contra il difegno di Natura e Dio.   Ciuk Perchè tu taccia , volgi gli occhi a Cato.  In lui rimira , quanto predo a Dio  Virtù Romana innalza un uom mortale.  Per gli amici follecito , indulgente,  A fe fteftb fevero , il fonno niega ,  Il ripofo, ed il comodo , ed il     Col-     He ftriues witb TbnJI and Hungcr , Toil and Heat ;  And wb:n bts Fortune fets before btm ali •  Tbe Bomps and Bleafures tbat bis Sortì can wifb y  Hts rtgtd Vtrtne wtll accept of none.   Syph. Bcltcvc ine , Prtnce , theres not an Afri can  Tbat tra'verfes our wafi Numtdtan Dejarts  In qtteft of Prey , and Iwes upon bis Bow ,  Brtt better praclifes tbefe boafted Virtues.  Coarje are bts Meals , tbe Fortune of tbe Cbafe ,  Amtdft tbe rttnmng Stream be Jlakes bts Tbtrfl ,  ToiFs ali tbe Day , and at tb' approacb of Ntgbt  On tbe firft friendly Bank be tbrows btm down ,  Or rejìs bts Head upon a Boti "ttll Morn :  Tben rifes frefb , pttrfues bis wonted Game ,  And tf tbe followtng Day be chance to fini  A fiew Repafl y or an untafled Sprtng y  Bleffes bts Start y and tbtnks tt Luxury .   Jub. Tby Prejudices , Sypbax, wont dtf certi  Wbat Vtrtues growfrom Ignorance and Cboice y  Nor bow tbe Hero dtffers from tbe Brute .  But gtant tbat Otbers coti d witb equal Glcry  Look do cjn on Pleafuret and tbe Batts of Senfe 5  IV bere fiali we find tbe Man tbat bears Affiitlion ,  Great and Majefttck in bts Griefs , ìtke Cato ?  Heaiins y wttbwbat Strengtb , wbat Steadtnefs ofMind,  He Triumpbs in tbe mtdft of ali bts Sujferings ì  How does be rife againll a Load of Woes ,  And tbank tbe Gods tbat tbrow tbe IVetgbt upon btm \   Syph. T## Bnde y tank Bride y and Havgbttnefs of Soul ;     / tbink     Colla fete combatte, e colla famcj  Collo ftento, col caldo : e quando ancora  Tutte le pompe ed i piacer del Mondo  A contentargli l'alma s' offerì fsero ,  Sua rigida virtù rigctterebbegli.   S/f. Credimi, Prence: non ci è Affricano,  Che varchi noftre vafte erme contrade  Di preda a inchieda, e di fuo arco viva,  Che tai virtù meglio non metta in opra .  Rozzo mangiar ciò che gii da la caccia :  Nel corrente rufcel traflì la fete;  Tutto il dì (tenta , e quando vien la notte  Gettali filila prima amica ripa,  O fopra rupe la fua tetta pofa  Infino a giorno. Pofcia frefeo ci forge  A profeguir fuo giuoco: e fe'l vegnente  Giorno accade eh' ci trovi un nuovo pafto ,  O fcaturire un non guftaro fonte,  Dio benedice , e crede effer ciò ludo .   Ginb. La tua prevenzion quelle virtudi  Da non faper prodotte, da queir altre,  Che figlie fon d' elezione umana ,  Nè dal bruto diftinguer fa l'eroe.  Ma porto che con egual gloria fprezzi  Altri i piaceri e il lufinghevol fenfo ,  Dove fi troverà mai un Catone  Nel fuo dolore maeftofo e grande ?  Dei ! con qual fermo e valorofo cuore  Nel mezzo a i fuoi fofFriri egli trionfa,  Sotto T incarco de* fuoi guai s' innalza ,  £ di quel pefo ne ringrazia i Numi /   Sif. Orgoglio è quefto, e Romana alterigia ,     / ri/ffl the Romani cali tt Storci/m .   Had aot your Royal Fatber tbougbt fi b/ghty   Of Roman Virtù* y and of Catos Caufe y   He had not fui In by a Slave'; Hand inglorious :   Nor would bis slangbterd Army now baue lain   On Africk's Sands , dtsfigurd iutth their Wounds ,   To gorge the IFohes and Vttltures of Numtdta .   Jub. IV by doft tboa cali my Sorrows np afrejb ?  My Fatber s Name brtngs Tears into my Eyes .   Syph. Oh , tbat youd profit by your Fatber s tilt !   Jub. JVbat ivortd(i tbou baie me do ?   Syph. Abandon tato .   Jub. Sypbax , / fiori d be more tban twice art Orpban  Byfucb a Lofi .   Syph. Ay , tbere's the Tie tbat binds you !   Toh long to cali bim Fatber . Marctas Cbarms  Work in your He art unfeen y and pie ad f or Cato .  No 'wonderyou are deafto ali I Jay .   Jub. Sypbax ,your Zeal becomes importunate ;  httherto permitted it to rame ,  And talk at large 5 but learn to keep it in ,  Leaft tt fio» Id take more Freedom tban VII gfae it.   Syph. Sir , your great Fatber newer ujed me tbus .  Alas , he s Dead ì But canyou eer forget  The tender Sorrows , and the Pangs of Nature 3  The foud Embraces , and repeated Blvjjìngs ,  Wbtch you dreisofrom bim in your laìt Fareivel ?  Sttll muft I chertfb the dear fad Remembrance ,  At once to torture and to plcafe my Seul .     Tic  Chiamata da lor, credo,- Stoicifmo.   Non avtfle il reale padre voftro   Tanto avuto concetto del Romano   Valore, e della caufa di Catone;   Non faria fenz'onor così caduto   Per man fervile: nè Tarmata Tua   Sconfitta giacerla fu gli arenofì   Campi d'Affrica, caica di ferite   A ingraffar gli avoltoi della Numidia .  Giub. Perchè vuoi rinnovar mio cruccio atroce?   Chiamami al pianto di mio padre il nome.  Sif. Oh profittale delle fue fciagure /  Gtub. Che vuoi eh' io faccia? S$f. Abbandonar Catone.  Giub. Orfano mi farei più di due volte.  Sif. Oh, il vincolo è quefto che vi lega !   D l'aerare di chiamarlo padre.   Di Marzia i vezzi opran fui voftro cuore *   Quelli fon gli avvocati di Catone,   E a tutto quel ch'io dico vi fan fordo.  Giub. Siface , voftro zelo efee importuno.   Fin qui di vaneggiare io t' ho permeffo ,   E parlar largo; ora a frenarlo impara,   Nè voler franco effer più eh* io non voglio.  Sif. Sir; non sì meco usò voftro gran padre.   Laflb/ egli è morto: ed obbliar potete   I teneri dolori, e le trafitte   Di natura , ed i cari abbracciamenti   Le replicate benedizioni ,   Ch'egli vi diede nelf cftremo addio ?   E' d' uopo eh* f accarezzi la foave   Trifta rammemoranza , onde ne fente   Tormento in uno, e compiacenza l'alma.   E II  . «J(34)ì»>  Tbe good old King , at parting , wrung my Hand 9   ( Hts Eyes brim-full of Tears ) tbeu figbtng cryd ,   Prttbce be careful of my Som ! hts Grtcf   Swelfd uf fo htgb be coudnot utter more.   Jub. Alas , tby Story mclss away my Soni .  Tbat beft of Fatbers ! Ixrw /ball I dtfebarge  Tbe G rat nude and Duty , nsJbteb 1 o*we bim !   Syph. By ìaytng up bts Counctìs tn your He art .   Jub. Hts Counctìs bade me yteld to tby Dtretltons ;  Tben , Sypbax , cbtde me tu jevercjl Terms ,  Vcnt ali tby Pajfton , and III fland tts fbock ,  Cairn and unruffled as a Summer-Sea ,  IV ben not a Breatb of IVtnd fltes oer its Sur face .   Syph. Alas , my Prtnce , ld guide you to your Safety .   Jub. I do beitele tbou ivoud/i i but teli me bovu ?   Syph, Flyfrom tbe Fate tbat follorws Cdjars Foes .   Jub. My Fatber feornd to dot .   Syph. And tberefore dyd.   Jub. Better to die ten tboufand tboufattd Deatbs y  Tban isoound my Honour .   Syph. Ratber fay your Lame.   Jub. Sypbax y l ite promtsd to preferve my Temper .  Wby wilt tbon urge me to confefs a Fiume y  1 long bave fitfled , and woud fatn conce al ?   Syph. Beitele me , Prtnce > 'tts bard to conquer Love y  But eafie to drvert and break tts Force :  Abjence mtgbt cure tt , or a fecond Mtflrefs  Ltpbt up anotber Flame , and fut out tbts .  Tbe glowsng Dames of Zamds Royal Court  Have Faces flu[bt -witb more exalted Cbarms .  Tbe Sun , tbat rolls bis Cbariot oer tbeir Headt ,  Works up more Ftre ani Colour tn tbetr Cbcckt :   Were     Digitized by Google     Il buon vecchio al partir la man mi ftrinfe  [ Gli occhi pieni di pianto ] c fofpirando  Di ile ; Deh cura abbi del mio figliuolo .  E '1 gonfiato dolor così fe crollo,  Ch* egli più non poteo formar parola.   Gtub. Latto ! il racconto tuo mi ft r ugge 1* Alma .  Ottimo Padre / come potre* io  Adempir verfo lui i miei doveri ?   Sif. Gli avvifi fuoi nel voftro cuor ferbaee.   Gtub. Quefti tur di feguir gì* indrizzi tuoi.  Co' termin più feveri adunque bravami,  Siface : sfoga pur tutto il tuo sdegno ;  AH' impeto di lui ftarommi quieto  £ tranquillo , qual mar di (late , in calma \  Quando nè pure un venticcl 1* increfpa.   Sif. Prence, mia mira è fol voftra falvezza .   Gtub. C redolo j ma qual via ad effer falvo ?   Stf. De i nemici di Cefar fuggi il fato .   Gtub. Mio Padre ciò sdegnò . Stf. Perciò morio .   Gtub. Mille volte morrei , che fare oltraggio   Al mi* onor . Stf. Dite pure , al voftro amore .   Gtub. Data ho parola già di (tarmi quieto.  Perchè forzarmi a palefar la fiamma  Chiufa tenuta, e eh* io pur vo* celare?   Stf. Prence, amor fuperare è forte cofa;  Ma romperlo è leggiera, e divertirlo.  Lontananza lo farà , od altro amore  Accende un* altra fiamma , e eftingue quella.  Le Dame alla Real Corte di Zama  Splendono accefe d* un più bel vermiglio .  Il Sol , che fu (or tette il cocchio gira ,  Le guance tinge in più vivace fuoco.   E 2 Quc-     Were yon ivìtb tbefe , my Prtnce ,youd foonforget  The pale unripend Beauttes of the Nortb .   Jub. Tts not a Sett of Fatture: , or Compie xio» y  The Ttnfiure of a Sktn , tbat I admire .  Beauty [oon grows famtltar to the Louer ,  Fades in h/s Eye y and palls upon the Senfe .  The nìtrtuous Marcia towrs abo*ve ber Sex :  True y [he is fair , [ Ob 3 bow dtutnely fair ì ]  But ftìll the ìcvely Matd improbe s ber Charmi  Wilb inward Greatnefs , «naffctled Wtfdom ,  And Santltty of Manners . Catos Soul  Shtnes out tn enery tbtng (he atls or fpeakf ,  Wbtle isoinning Mtldnefs and attrattive Smilcs  Dwell in ber Lookf , and -with becoming Grace  Soften the Rigour of ber Fatbers Vtrtues .   Syph. How does yottr Tongtte gro-w u)anton in ber Praife §  Bnt on my Knees I begyoa isooud confider — —   Enter Marcia , and Lucia .   Jub. Bah ! Sypbax 5 f/V not fbe ! — - Sbe mowes tbis Way ;  And njttb ber Lucia , Lucius s fair Daughter ,  My Heart beats tbick • I prttbee Sypbax lea<ve me .   Syph. Ten tboufand Cttrfes f alien on % em botb !  Mow wtll tbts W 'iman VMtb a fingle dance  UadOy wbat fw been laVrtng ali tbis wbile . [ Exit <      Jub»,     Digitized by Google     Quefte, fe con lor fofte , o Prence mio ,   Farebbonvi obbJiar quelle del Norte   Beltà pallide, acerbe, ed immature.  Gtfib. Fattezze o colorito io non ammiro .   Saziati tofto di beltà 1* amante :   Appaffita ed intipida gli viene.   La cada Marzia il fedo Aio far monta:   E' bella pur , divinamente bella ;   Ma V interna grandezza , e fchietto fenno ,   Santi coftumi crefcono i fuoi vezzi.   Spicca Catone in fue parole ed atti ,   Mentre dolci attrattive , e dolce rifo   Albergan n»l Tuo volto , ed avvenenti   Grazie ammollifcono il rigor paterno.  S/f. Come facil ti (doglie voftra lingua   Nelle fue lodi ! Ma protrato a i voftri   Piedi vi priego , che contideriate . . .   Entra Marcia , e Lucia.   «   Cinb. Siface, oh ! non è lei ? ella quà viene   Colla bella di Lucio figliuola .   Palpita forte il cor : Siface , lafciami .  Stf Mille maJedizion vengano loro ! Disfarà tutto quel che ho fabbricato   Con una fola occhiata or quefta femmina, fatte      SCE-     Digitized by Google     *8( 3 8 »     Juba, Marcia, Lucia. Jub. T T AH cbarming Maid y bow does tby Beantby Jmootb  X~\ The Face of IV ar , and make ev'n Horror fmtle !  At Sigbt of tbee my He art jbakes off iu Sorro-wt 3  Ifeel a Daw» of Joy break tn npon me y  And f or a nobile forget tb % Approacb ofCtfar .   Ma r. Ifioud be grteiid ,young Prime y to tbtnk my Prefence  Unbent your Tbougbtt y and (lackend Vw to Armt y  Wbtle y warm wttb Slaugbter , onr uttloriont Fot ,  Tbreatens aloud , and calls you to tbe Fteld .   Jub. 0 Marcia , let me bope tby kind Concerni  Andgentle fVifbes follow me to Battei!  The Tbougbt *wtll gìwe new Vigonr to my Arm y  Add Strengtb and Weigbt to my defcendtng S-word y  And drive it in a Tempeft on tbe Foe.   Marc. My Prayers and IVtflet alwayt fiali attend  Tbe Friends of Rome , tbe glorious Caufe of Vtrtue ,  And Men appronjd of by tbe Gods and Cato .   Jub. Tbat Juba may deferte tby piont Caret,  Mgare for c<vcr on tby Godltke Fatber ,  Tranfplanttng y one by one , into my Life  Hit brigbt Perfecliont , Vi// / flint like bim .   Marc. My Fatber ne<ver at a Ttme like tbit   Woud lai o*t bts grcat Sotti in Wordt , and wafie     Sncb   Giuba , Marcia , * Iw/*.   G/'^Z-. T 7 Ergin leggiadra , oh come tua beltade  V La faccia della guerra ammorbidifee ,  E lieto rende ancor 1' ifteflo orrore !  Dal mio cuore il dolor fugge a tua villa;  Spuntar fento novella alba di gioja ,  E Ccfare vicino intanto obblio .   Mar%. M' increfeeria il penfar, giovane Prence,  Che de i voftri penfier Rendette 1* arco  La mia prefenza, c gli impigrire air armi;  Mente caldo di ftrage il Vincitore  Alto minaccia , e sì t* afpetta al campo.   Gtub. O Marzia lafcia , eh* io fperi , che tue  Cure cortefi , e generofe brame  M* accompagnino franco alla battaglia.  Quefto pcnfier , nuovo daranne al braccio  Vigore e forza , e pefo al mio fendente ,  Che cadrà fui nimico in gran tempefta.   Mar%. Miei prieghi e voti gli amici di Roma  Seguiran tempre, di virtù la caufa ,  E i pregiati da i Dei e da Catone .   Gtub. Per meritar le tue pietofe cure,  Sempre fido darà Giuba in tuo Padre ,  Le iltuftri doti fue ad una ad una  Trapiantando in fe fteffo, finché giunga  A fimile fplcndor. Mar^, Mio Padre mai  Non avrebbe in un tempo come quello ,  Logorato il fuo fpirito in parole,     Sucb precious Moment* .  Jub. Tby Rtprocfs are imfi s   T/tf* wrtuous Matd > *o «yi Troops ,   «^«(/ /ir* ffo/r langutd Souls witb Catos Vtrtue ;  If e' re I Uad tbem io the Fteld y wben ali  The lì ar Jball ftanà ranged m tts juft Array ,  And dreadful Fomp : 1 ben wtll I tbtnk on ti: se l   0 lowely Matd , Tben wtll I tbtnk on Tbee !  And , in tbe Jbock of cbarging Hcfts , remember  U'bat glonous Deeds fboud grate tbe man, wbo bopes  Ter Marcia s Leve .   Lue. Marcia , you re too federe :   Hgvd ccud you cbide te young goodnatured Prince,  And drt*vc htm f rem you witb fo ftern an Air ,  A Prtnce tbat Icves and dotet on you to Deatb ?   Mar. T/x tberefore , Lucia , tbat 1 cbtde htm front me  Hit Air , bts Voice , bis Locks y and bonetl Sotti  Speak ali fo mwingly in bis Bebalf,   1 dare not truft my felfto bear btm talk .  Lue. IV ly ivi II you fighi agatnft fo fweet a Paffton y   And fi rei yeur Heart to fucb a World of Cbarms ?   Mar. Hciv , Lucìa , ivoudft tbou baie me fink away  In fleajing Drcams , and lofe my felf in Leve y  Wen enìry moment Catos Ltfes at Stake ?  Cafar comes arnid witb Terror and E^venge,  And atms bts Tbunder at my Fatbers Head :  Sboud not tbe fad Occafion fwallow up  My otber Cares , and draw tbem ali tnto it ?   Lue. Wby baie not I tbts Conftancy ofMtnd y     Wbo     Nè tanti cari momenti perduto.  Giub. Sono giudi i rimproveri, Donzella   Valorofa : nV invio alle mie truppe   Col valor di Catone a infiammar V alme.   Se mai ai campo condurrolle , quando   La battaglia fchierata fi preferiti   In fiera pompa ; in te terrò il penfiero,   Vaga Donzella , in te terrò il penfiero:   £ nel più forte della dura zuffa   Sovverrommi, quai fatti gloriofi   Un amante fregiar deggian , che afpira   AH* amore di Marzia. fané  Lue. Sete,o Marzia ,   Troppo fevera. Come il cuor fofTrio   Di fgridar così buon giovine Prence,   E fcacciarlo con aria così torva,   Prence, che v' ama più della fua vita ?  Marifr Per quello, Lucia, da me lo difeaccio.   L' aria, la voce, il guardo , il gentil core   Parlan per lui con tal podente incanto ,   Che d' udirlo parlare io pur non ofo.  Lue. Perchè combattere un fi dolce affetto?   Perchè indurare a tanti vezzi il core ?  Mar^ Come mai , Lucia , vuoi eh* io mi disfaccia   In piacevoli fogni e in folli amori,   Orche in cimento èognor vita di Cato?   Vien di vendetta e di terrore armato   Cefare , e di Caton mira alla teda   II fulmin fuo : la trifta congiuntura   Impiega tutti quanti i miei penfieri,   E sì gli unifee e rinconcentra in ella.  tue. Se tanti ho io così gravofi affanni ,   F P<r-     <3( 4» )&   Wio * fu mavy Grufi to try its Torce ?   Sure y Nature fot md me of ber fof tifi Mould y  Enfeebled ali my Sotti uoitb tender Paffions y  And funi me evn below my own vjeak Sex :  Pity and Love , by turns , opprefs my Heart .  Mar. Lucia , d sburtben ali tby Cares on me.  And let me [bare tby ma Vi re tir ed Diftrefs ;  Teli me ix'bo raifes up tbis Confiicl in tbee ?  Lue. / need not blufb to nawe tbem , isjben I teli tbee   T bey re Marcia s Brotbers , and tbe Sons of Cato .  Mar. Tbty betb bebold tbee ^ub tbeir Sifters Eyes :  And often bave reveal d tbeir Vajfion to me.  But teli me , u bofe Addreft thott f amour ft mofl ?  Hong to btow , and jet I àrtad to bear it .  Lue. ì'/bicb is it Alarci a ^ijòesfor ?  Mar. For nei t ber —   And y et f or botb — Tbe Tcutbs bave equal Sbare  In Marcias Vifbes , and divide tbeir Sifleri  But teli meikb'ub of tbtm is Lucia s Cboicet  Lue. Marcia, tbey lotb are bipb in my Efleem,   But in my Love — li'by wilt tbou make menante hìm ?  Tbou intrisi ft it it a blid andfoolfb Paffion y  Pleasd at.d difgpfted v'itb it knemos not vubat .  Mar. O Lucia , I m ferplex % d 9 O teli me vobtcb   I mufl bereafter cali my bafpy Brotber ?  Lue. Suppofe 'twere Portins 3 coudyou blame my Cboicet  O Tortimi , tbou bafì fioln a^ay my Soul !  IV'ith vi bat a gractfid Tender ne fs be loves !  And breatUs tbe foftefi , tbe fincerefl Voisos ì  Complacency , and Trutb , and manly Sweetneft  Dj.)fll ever on bis Tofane , and fmootb bis TbotfghtS.  Marctts is ovtr-warm > Ih fond Compiami   Have     Digitized by Google     Perchè una tal fermezza non m' è data ?   Fcmmi natura di più molle parta ,   Co' più teneri affetti infievoiimmi ,   £ caricò Copra il mio debol fedo:   Pietà e Amor dittringommi a vicenda.  Mar%. Lucia, le cure tue fopra me pofa;   Mettimi a parte de* tuoi cupi affanni .   Dimmi, chi detta in te quello conflitto?  Lue. Non ho da aver rollar di nominare   I tuoi fratelli, e figli di Catone.  Mar%- Coli' occhio di lor fuora ambi ti mirano,   E il loro amor fovente hanmi fvelato .   Ma dimmi, qual de i due più favorifei?   Bramo faperlo, c pur temo d* udirlo.  Lue. Qual 1 è quegli , che Marzia brameria ?  Mar^. Niun de due, - e forfè anco amenduni -   Di Marzia nelle brame hanno egual parte   I giovani , e dividon la forella.   Ma dimmi: Lucia qua* di loro elegge?  Lue. Marzia, ambo fon nella mia (lima grandi,  Ma nel mi* amor . . . perchè vuoi tu eh' io '1 nomini  Ben tu fai , come è cieco amore e folle ,   II qual , ne fa perchè, vuole e difvuole .  Mar%. Lucia , io fon perplcffa . O dimmi , quale   Appellar deggia il mio fratel felice.  Lue. Se foffe Porzio , me 'n da re (le biafmo ?  O Porzio , m* hai involata Y alma mia .  Con qual leggiadra tenerezza egli ama !  Spira i difii più fchictti , e più gentili .  Verità , cortetla , mafehia dolcezza  Pulifcon le parole ed i penfieri .  Fervido è Marco , e impetuofi troppo   F 2 Sono     *3( 44 )fr  /firw mncb Farr.ejìnefs and PcJJton in tbem\   1 bcur bim ivitb a /cerei kind of Dread y   And tremile at bis Vebemence of Temper   Mar. Alas poor Tontb ! low cari fi tbou tbrow bim front the ?   Li: :ìa , tbou knormB not balf tbe Love be bears tbee\   H benecr be jpeaks of ti ce , bis Hearfs in Flames,   lls fendi ottt ali bis Soul in ewry Word ,   , 'mi tbixks , and talks , and looks like one tranfportcd.   Vnbappy Tontb! boiu v/ill thy CoUnefs raife   . i Francesco Paolo Bozzelli. Keywords: il tragico, il tragico latino, l’implicatura di Lucano, l’edonismo di Bozzelli, capitol su Bozzelli nella storia della filosofia italiana di Gentile – edonismo, morale, etica – costituzione napoletana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bozzelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bozzetti – bruno contro I matematici -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Borgoratto Alessandrino). Filosofo italiano. Grice: “If Strawson is a Griceian, Bozzetti is a Rosminian – he philosophised on substance (‘il concetto di sostanza’ from the point of view of ‘gnoseologia,’ and also on ‘dialogue,’ and ‘piety,’ – he also speaks, like I do, of construction, and reconstruction, and indeed, ‘metaphysical reconstruction,’ one of my routines!” – “My favourite has to be his philosophy of dialogue.” -- Figlio di Romeo (uno dei Mille di Garibaldi, divenne colonnello e poi generale dell’Esercito Italiano) e da Edvige Griziotti De Gianani. I genitori erano originari dalla provincia di Cremona. Tutta la famiglia Bozzetti si sposta a Trapani, poi a Napoli, a Reggio Calabria, ad Ancona, a Genova e infine a Torino, seguendo le destinazioni del capofamiglia. Scrive delicate poesie, indirizzate ai suoi familiari. Si laurea a Torino. Entra nell’ordine dei Rosminiani. Novizio al Convento rosminiano del Sacro Monte Calvario di Domodossola (dove una sala è oggi a lui dedicata) e ordinato sacerdote. Si laurea a Roma. Insegna a Domodossola. Nominato Superiore Provinciale dei Collegi rosminiani e a Roma. Eletto Preposito Generale, cioè VII successore di Antonio Rosmini. Insegna a Roma. Sostenne e spiegò le tesi di Rosmini, in particolare quelle esposte nella Filosofia del diritto.   Sacro Monte Calvario di Domodossola, Via Crucis. La persona è soggetto di diritto, cioè cerca liberamente la verità e aderisce liberamente alla legge morale, su cui forma la propria coscienza e la consapevolezza di avere una destinazione o metier. Gl’Agiati pubblicano questo sintetico profilo di lui. Attratto dalla filosofia rosminiana che fa della “persona” il diritto sussistente ed il fondamento dello stato italiano, ripropose la metafisica del filosofo roveretano quale unica speculazione che sapesse inquadrare il problema dell'essere personale in un'organicità ontologica più comprensiva (il vivente). Filosofo costruttivo, capace di far convergere molteplicità ed unità, frammentarismo e organicità. Lettera di Rosmini, Risposta al prof. Sciacca, Domodossola, C. Antonioli. Centro di studi filosofici di Gallarate. Dizionario biografico degli italiani. Nacque a Borgoratto (Alessandria) il 19 sett. 1878 da Romeo, prima garibaldino poi ufficiale dell'esercito regolare, e da Edvige Gianani. Il B. compì gli studi seguendo il padre nelle diverse residenze di Trapani, Napoli, Reggio Calabria, Ancona, Genova, Torino. In quest'ultima città conseguì la laurea in giurisprudenza, rivolgendo però maggiore interesse alla filosofia, in particolare al pensiero di Rosmini ("Fu una liberazione quando trovai nella Filosofia del diritto di Rosmini che la persona umana è il diritto sussistente. Notiamo bene: la persona non solo ha dei diritti ma essa è il diritto": Il valore della persona, in Opere, III, p. 2924). Apparve dunque fondamentale al B. il concetto di persona come diritto sussistente, che gli rivelò il proprio esistere "come soggetto di tre esigenze fondamentali, inviolabili e inalienabili: la ricerca e il possesso della Verità, la libera adesione alla Legge morale con la conseguente formazione della coscienza, la consapevolezza di una destinazione eterna, oltre questa vita mortale" (ibid., pp. 2924 s.).  Dopo la laurea, entrò all'Istituto della Carità; fu novizio al Calvario di Domodossola nel 1900 e nel 1906 fu ordinato sacerdote. Nel 1908 si laureò in filosofia; nel 1909in lettere all'università di Roma. Incominciò quindi la sua esperienza educativa come insegnante di filosofia, di letteratura italiana, di teologia nelle scuole dell'Istituto della Carità. Fu superiore dei collegi rosminiani; nel 1929 fu superiore provinciale, e infine superiore generale dell'istituto intero dal 1935 fino alla morte.  Nel 1908 il B. pubblicò a Roma Il concetto di sostanza e la sua attuazione nel reale. Saggio di ontologia e metafisica. Del 1909 è il volume su Antonio Rosmini nell'aspetto estetico e letterario, Roma, che tratta della formazione e delle qualità dello stile di Rosmini e del suo merito come scrittore, e illustra la sua teoria estetica. Al 1917 appartiene il saggio Rosmini nell'"Ultima Critica" di Ausonio Franchi, Firenze. Negli anni 1923-26 il B. pubblicò La vita di Antonio Rosmini (Opere, I, pp. 305-373). Dopo una serie di scritti minori (Tra noi e Dio, Domodossola 1935; Nella Chiesa di Cristo, ibid. 1939; Lineamenti di pietà rosminiana, ibid. 1940), pubblicò nel 1940 a Milano gli Sviluppi del pensiero rosminiano nella "Teosofia"(Opere, III, pp. 2795-2843).  In questo saggio il B. affrontava il problema dell'"ente nella sua totalità". Per Rosmini tutto il sistema del sapere umano ha tre principî: l'idea, l'anima, l'ente. La filosofia deve cominciare dal principio ideale, quindi procedere allo studio del principio subiettivo intelligente. Ma per raggiungere il suo compimento la filosofia deve studiare "ciò che è primo nell'ordine assoluto degli oggetti conoscibili, per sé, ossia l'ente … Così si arriva all'Ontologia". Il primo ontologico è chiamato da Rosmini "essenza dell'essere". Questa, una in se stessa, si trova determinata in una pluralità di forme: ideale, reale, morale. La conciliazione razionale dell'unità dell'essere e della molteplicità degli enti si ha "nella natura dell'essenza dell'essere, cioè nella sua virtualità"(ibid., p. 2828). Il reale, secondo il B., come già per Rosmini, è sentimento e ha origine per creazione. Il B. si richiama a questo punto alla dottrina rosminiana del sentimento fondamentale, che non è soltanto il sentimento fondamentale corporeo, ma è "la realtà dell'atto con cui noi ci sentiamo come esseri viventi, di una vita che è al tempo stesso spirituale e sensitivo-corporea" (ibid., p. 2837).  Nel 1943 fu pubblicato a Roma Il problema ontologico nella filosofia rosminiana, che comprende il corso di filosofia teoretica tenuto dal B. nell'università di Roma, dove egli era stato nominato nel 1942 libero docente di filosofia per alti meriti culturali.  Al 1945-46 appartiene La persona umana, corso di lezioni di filosofia morale tenuto all'università di Roma in quell'anno accademico (Opere, I, pp. 1109-1189).  Il problema della persona era stato, come si è visto, il problema che aveva costituito il punto di partenza intellettuale del Bozzetti. Da questo problema iniziale, da cui era partito, il B. percorse la "traiettoria ontologica". Dalla persona all'essere ideale, dall'essere ideale a Dio da una parte e alle tre forme dell'essere dall'altra con tutte le principali implicanze. La "traiettoria sociale", che è l'altra traiettoria secondo cui si sviluppò il pensiero del B. sulle tracce della dottrina rosminiana, tornava a implicare il problema della persona, riconosciuta quale realtà che, per la presenza del divino, deve essere sempre tenuta presente non come ragione di mezzo, ma come avente ragione di fine. Tutti i possibili rapporti tra gli uomini - politico, giuridico, economico, affettivo - debbono fondarsi su questa concezione della persona.  Il B. morì a Roma il 27 maggio 1956.  Gli scritti del B. sono stati raccolti in G. B., Opere complete, a cura di M. F. Sciacca, 3 voll., Milano 1966.  Fonti eBibl.: G. Esposito, Il "gran rifiuto" di Rosmini, I, Rosmini e il 1848, in Riv. rosminiana, replica di G. B. ibid., pp. 219-223); Id., Il "gran rifiuto" di Rosmini, III, Replica al B.,ibid., XXVIII (1934), 2, pp. 127-132 (replica di G. B., ibid., pp. 132-135); M. F. Sciacca, Rosmini e noi. Lettera al p. G. B.,ibid., XXXVIII (1944), 1-2, pp. 2-13; Id., Il sec. XX, Milano Morando, Ricordando un educatore-filosofo: il p. G. B., in Rivista rosminiana, L (1956), 3, pp. 161-174; C. Riva, P. G. B. Il pensatore e il sacerdote, in Atti della Accademia roveretana degli Agiati, P. G. B., in Giornale di metafisica, XII (1957), 3, pp. 183-199; Id., La "persona" nel pensiero di padre B., in Iustitia, Ricordando p. G. B., Domodossola 1957; Enciclopedia filos., I, pp. 788 s. G. Bozzetti. Un giudizio di Siro Contri sulla filosofia neoscolastica”. Ilia ed Alberto” di Angelo Gatti.. Matematismo” in Rosmini? Rosmini-Serbati A.”, voce dell’Enciclopedia Cattolica, vol. X, Città del Vaticano, Ente per l’E.C. e per il libro cattolico. A distanza di un secolo, Una recente critica del “Nuovo Saggio” da parte di G. Zamboni. A proposito di idealismo, La “realtà assoluta”. A. Rosmini e Roma, Roma, Istituto di Studi Romani. Ai margini di un Congresso. Affermazioni e tendenze. Amore e matrimonio. Angelina Lanz. Antonio Rosmini e l’ora presente. Camillo Viglino. Cenni biografici di A. Rosmini nel I volume dell’Edizione Nazionale. Che cos’è l’arte? Che cos’è l’Istituto della Carità. Che cos’è la materia? L’indagine filosofica. Che cos’è la natura? Parla il filosofo. Cino. Croce, Gentile e la filosofia dell’arte. D. Luigi Gentili (rec. R. Bessero Belti). Del rosminianismo di Manzoni. Fantasma e idea nella percezione ci sono. Fantasma e idea sono scoperti dalla riflessione nella percezione. Foscolo. Gesuitismo. Giuseppe Morando. Gregorio XVI e Rosmini, in Gregorio XVI, vol. I, a cura dei Camaldolesi di S. Gregorio al Celio, Roma. Il “caso dell’Oregon” e il Tribunale politico di Rosmini. Il “gran rifiuto” di Rosmini, La vera ragione del rifiuto, Il capitano Giuseppe Pagani. Il fallimento della vita. Il IX Congresso nazionale di Filosofia. Il Papa e d’Annunzio. Il principio unitario della filosofia rosminiana, in “Giornale di Metafisica” Il valore della persona. Il valore delle cose terrene. Intorno a Manzoni, La seconda moglie - Ancora sul rosminianismo di Manzoni - Manzoni e il Giansenismo. L’atteggiamento religioso dell’ottocento. L’economia nel sintetismo e nell’equilibrio di tutte le forze politiche e sociali. L’eredità del liberalismo nella mentalità contemporanea. L’Ermengarda di Manzoni. L’etica del Rosmini e il Prof. Zamboni. L’opera d’arte e le tre forme dell’essere. L’ossessione del sesso. La “costante” nelle variazioni della filosofia. La “ragione”, atto costitutivo dell’uomo. La “religione della libertà”. La “vitalità” della logica di Rosmini. La concezione rosminiana dell’essere. La marchesa di Canossa e A. Rosmini. La moda e il pudore. La nostra realtà e l’altra vita. La pedagogia di A. Rosmini. La persona umana, Domodossola-Milano, Sodalitas. La Vita di Antonio Rosmini, 1. La giovinezza. Nel silenzio. La vocazione. In montibus sanctis. Laicismo. Le “difficoltà” dell’essere ideale, Una tentata difesa. Le tre ascensioni spirituali di Rosmini.  Leggende che si perpetuano. Lo Stato e la religione. Lorenzo Michelangelo Billia. Natura e soprannatura in rapporto alla realtà storica. Opinioni sul sistema di gnoseologia e di morale di G. Zamboni, Astrazione, analisi, trasparenza, 1931, I, 29-34. Papini nel suo “S. Agostino”. Per finire. Perché Rosmini non è filosofo cattolico? Perorazione. Quando si parla di essere, Realtà e trascendenza nel progresso del diritto. Replica a B. C. Replica al Bonafede, Riassumendo le nostre discussioni gnoseologiche. Ricordando Giuseppe Capograssi. Risposta al prof. Sciacca. Risposta alla lettera al Direttore. Rosmini e Hegel. Rosmini e i Gesuiti in un recente articolo della Civiltà Cattolica, La ricerca storica. Rosmini e i Gesuiti in una biografia di P. Roothaan. Rosmini e i Rosminiani nell’Enciclopedia Treccani. Rosmini e Kant, Il “superamento” di Rosmini. Rosmini e l’Università, Rosmini e Michaelstaedter, A proposito di un libro di G. Chiavacci. Rosmini e S. Tommaso non possono andare d’accordo? – Interesse scientifico e interesse pratico - Ortodossia e metodo. Rosmini in un dizionario del Risorgimento italiano. Rosmini monofisita?  Rosmini nel diario di Margherita di Collegno, Rosmini nell’“Ultima critica” di Ausonio Franchi.S. Francesco d’Assisi, Bozzetti G., San Tommaso e il Rosmini, in “Coscienza”. Sempre sulla confusione fra idea dell’essere e idea dell’ente, Per fatto personale. Sopra una cortese discussione Zamboni-Chiarelli. Stato e Chiesa secondo C. A. Jemolo. Sul Filottete di Sofocle. Sul problema del male, la volontà e il male. Sul rosminianismo del Manzoni, L’innatismo nel dialogo “Dell’invenzione”,Sull’astrazione dell’Idea dal Reale. Sull’infinità dello spazio, il punto di vista è uno solo. Sull’ontologismo. Sulla moralità di Machiavelli. Sulla natura della conoscenza, Risposta a G. Rossi. Tolstoi. Umiltà del critico. Un libro significativo: Il Rosmini di B. Brunello. Un recente giudizio sulle “Cinque Piaghe” in Germania. Rosmini: l’asceta, il filosofo, l’uomo, l’amico, Roma, Studium. GIORDANO BRUNO, PARIS: PATER "Jetzo, da ich ausgewachsen,  Viel gelesen, viel gereist,      Schwillt mein Herz, und ganz von Herzen,  Glaub' ich an den Heilgen Geist." -- Heine+  . It was on the afternoon of the Feast of Pentecost that news of the death of Charles the Ninth went abroad promptly.  To his successor the day became a sweet one, to be noted unmistakably by various pious and other observances; and it was on a Whit-Sunday afternoon that curious Parisians had the opportunity of listening to one who, as if with some intentional new version of the sacred event then commemorated, had a great deal to say concerning the Spirit; above all, of the freedom, the independence of its operation.  The speaker, though understood to be a brother of the Order of St. Dominic, had not been present at the mass--the usual university mass, De Spiritu Sancto, said to-day according to the natural course of the season in the chapel of the Sorbonne, by the Italian Bishop of Paris. It was the reign of the Italians just then, a doubly refined, somewhat morbid, somewhat ash-coloured, Italy in France, more Italian still.  Men of Italian birth, "to the great suspicion of simple people," swarmed in Paris, already "flightier, less constant, than the girouettes on its steeples," and it was love for Italian fashions that had brought king and courtiers here to-day, with great eclat, as they said, frizzed and starched, in the beautiful, minutely considered dress of the moment, pressing the university into a perhaps not unmerited background; for the promised speaker, about whom tongues had been busy, not only in the Latin quarter, had come from Italy.  In an age in which all things about which Parisians much cared must be Italian there might be a hearing for Italian philosophy.  Courtiers at least would understand Italian, and this speaker was rumoured to possess in perfection all the curious arts of his native language.  And of all the kingly qualities of Henry's youth, the single one that had held by him was that gift of eloquence, which he was able also to value in others--inherited perhaps; for in all the contemporary and subsequent historic gossip about his mother, the two things certain are, that the hands credited with so much mysterious ill-doing were fine ones, and that she was an admirable speaker.  Bruno himself tells us, long after he had withdrawn himself from it, that the monastic life promotes the freedom of the intellect by its silence and self-concentration.  The prospect of such freedom sufficiently explains why a young man who, however well found in worldly and personal advantages, was conscious above all of great intellectual possessions, and of fastidious spirit also, with a remarkable distaste for the vulgar, should have espoused poverty, chastity, obedience, in a Dominican cloister.  What liberty of mind may really come to in such places, what daring new departures it may suggest to the strictly monastic temper, is exemplified by the dubious and dangerous mysticism of men like John of Parma and Joachim of Flora, reputed author of the new "Everlasting Gospel," strange dreamers, in a world of sanctified rhetoric, of that later dispensation of the spirit, in which all law must have passed away; or again by a recognised tendency in the great rival Order of St. Francis, in the so-called "spiritual" Franciscans, to understand the dogmatic words of faith with a difference.  The three convents in which Bruno lived successively, at Naples, at Citta di Campagna, and finally the Minerva at Rome, developed freely, we may suppose, all the mystic qualities of a genius in which, from the first, a heady southern imagination took the lead.  But it was from beyond conventional bounds he would look for the sustenance, the fuel, of an ardour born or bred within them.  Amid such artificial religious stillness the air itself becomes generous in undertones. The vain young monk (vain of course!) would feed his vanity by puzzling the good, sleepy heads of the average sons of Dominic with his neology, putting new wine into old bottles, teaching them their own business--the new, higher, truer sense of the most familiar terms, the chapters they read, the hymns they sang, above all, as it happened, every word that referred to the Spirit, the reign of the Spirit, its excellent freedom.  He would soon pass beyond the utmost limits of his brethren's sympathy, beyond the largest and freest interpretation those words would bear, to thoughts and words on an altogether different plane, of which the full scope was only to be felt in certain old pagan writers, though approached, perhaps, at first, as having a kind of natural, preparatory kinship with Scripture itself.  The Dominicans would seem to have had well- stocked, liberally-selected, libraries; and this curious youth, in that age of restored letters, read eagerly, easily, and very soon came to the kernel of a difficult old author--Plotinus or Plato; to the purpose of thinkers older still, surviving by glimpses only in the books of others--Empedocles, Pythagoras, who had enjoyed the original divine sense of things, above all, Parmenides, that most ancient assertor of God's identity with the world.  The affinities, the unity, of the visible and the invisible, of earth and heaven, of all things whatever, with each other, through the consciousness, the person, of God the Spirit, who was at every moment of infinite time, in every atom of matter, at every [236] point of infinite space, ay! was everything in turn: that doctrine--l'antica filosofia Italiana-- was in all its vigour there, a hardy growth out of the very heart of nature, interpreting itself to congenial minds with all the fulness of primitive utterance.  A big thought! yet suggesting, perhaps, from the first, in still, small, immediately practical, voice, some possible modification of, a freer way of taking, certain moral precepts: say! a primitive morality, congruous with those larger primitive ideas, the larger survey, the earlier, more liberal air.  Returning to this ancient "pantheism," after so long a reign of a seemingly opposite faith, Bruno unfalteringly asserts "the vision of all things in God" to be the aim of all metaphysical speculation, as of all inquiry into nature: the Spirit of God, in countless variety of forms, neither above, nor, in any way, without, but intimately within, all things--really present, with equal integrity, in the sunbeam ninety millions of miles long, and the wandering drop of water as it evaporates therein.  The divine consciousness would have the same relation to the production of things, as the human intelligence to the production of true thoughts concerning them. Nay! those thoughts are themselves God in man: a loan, there, too, of his assisting Spirit, who, in truth, creates all things in and by his own contemplation of them.  For Him, as for man in proportion as man thinks truly, thought and, being are identical, and things existent only in so far as they are known.  Delighting in itself, in the sense of its own energy, this sleepless, capacious, fiery intelligence, evokes all the orders of nature, all the revolutions of history, cycle upon cycle, in ever new types.  And God the Spirit, the soul of the world, being really identical with his own soul, Bruno, as the universe shapes itself to his reason, his imagination, ever more and more articulately, shares also the divine joy in that process of the formation of true ideas, which is really parallel to the process of creation, to the evolution of things.  In a certain mystic sense, which some in every age of the world have understood, he, too, is creator, himself actually a participator in the creative function. And by such a philosophy, he assures us, it was his experience that the soul is greatly expanded: con questa filosofia l'anima, mi s'aggrandisce: mi se magnifica l'intelletto!  For, with characteristic largeness of mind, Bruno accepted this theory in the whole range of its consequences.  Its more immediate corollary was the famous axiom of "indifference," of "the coincidence of contraries."  To the eye of God, to the philosophic vision through which God sees in man, nothing is really alien from Him.  The differences of things, and above all, those distinctions which schoolmen and priests, old or new, Roman or Reformed, had invented for themselves, would be lost in the length and breadth of the philosophic survey; nothing, in itself, either great or small; and matter, certainly, in all its various forms, not evil but divine.  Could one choose or reject this or that? If God the Spirit had made, nay! was, all things indifferently, then, matter and spirit, the spirit and the flesh, heaven and earth, freedom and necessity, the first and the last, good and evil, would be superficial rather than substantial differences.  Only, were joy and sorrow also to be added to the list of phenomena really coincident or indifferent, as some intellectual kinsmen of Bruno have claimed they should?  The Dominican brother was at no distant day to break far enough away from the election, the seeming "vocation" of his youth, yet would remain always, and under all circumstances, unmistakably a monk in some predominant qualities of temper.  At first it only by way of thought that he asserted his liberty--delightful, late-found privilege!--traversing, in mental journeys, that spacious circuit, as it broke away before him at every moment into ever-new horizons. Kindling thought and imagination at once, the prospect draws from him cries of joy, a kind of religious joy, as in some new "canticle of the creatures," a new monkish hymnal or antiphonary.  "Nature" becomes for him a sacred term.  "Conform thyself to Nature"--with what sincerity, what enthusiasm, what religious fervour, he enounces the precept to others, to himself!  Recovering.  as he fancies, a certain primeval sense of Deity broadcast on things, in which Pythagoras and other inspired theorists of early Greece had abounded, in his hands philosophy becomes a poem, a sacred poem, as it had been with them.  That Bruno himself, in "the enthusiasm of the idea," drew from his axiom of the "indifference of contraries" the practical consequence which is in very deed latent there, that he was ready to sacrifice to the antinomianism, which is certainly a part of its rigid logic, the purities of his youth for instance, there is no proof.  The service, the sacrifice, he is ready to bring to the great light that has dawned for him, which occupies his entire conscience with the sense of his responsibilities to it, is that of days and nights spent in eager study, of a plenary, disinterested utterance of the thoughts that arise in him, at any hazard, at the price, say! of martyrdom.  The work of the divine Spirit, as he conceives it, exalts, inebriates him, till the scientific apprehension seems to take the place of prayer, sacrifice, communion.  It would be a mistake, he holds, to attribute to the human soul capacities merely passive or receptive.  She, too, possesses, not less than the soul of the world, initiatory power, responding with the free gift of a light and heat that seem her own.  Yet a nature so opulently endowed can hardly have been lacking in purely physical ardours.  His pantheistic belief that the Spirit of God was in all things, was not inconsistent with, might encourage, a keen and restless eye for the dramatic details of life and character for humanity in all its visible attractiveness, since there, too, in [238] truth, divinity lurks.  From those first fair days of early Greek speculation, love had occupied a large place in the conception of philosophy; and in after days Bruno was fond of developing, like Plato, like the Christian platonist, combining something of the peculiar temper of each, the analogy between intellectual enthusiasm and the flights of physical love, with an animation which shows clearly enough the reality of his experience in the latter.  The Eroici Furori, his book of books, dedicated to Philip Sidney, who would be no stranger to such thoughts, presents a singular blending of verse and prose, after the manner of Dante's Vita Nuova.  The supervening philosophic comment re-considers those earlier physical impulses which had prompted the sonnet in voluble Italian, entirely to the advantage of their abstract, incorporeal equivalents.  Yet if it is after all but a prose comment, it betrays no lack of the natural stuff out of which such mystic transferences must be made. That there is no single name of preference, no Beatrice or Laura, by no means proves the young man's earlier desires merely "Platonic;" and if the colours of love inevitably lose a little of their force and propriety by such deflection, the intellectual purpose as certainly finds its opportunity thereby, in the matter of borrowed fire and wings.  A kind of old, scholastic pedantry creeping back over the ardent youth who had thrown it off so defiantly (as if Love himself went in for a degree at the University) Bruno developes, under the mask of amorous verse, all the various stages of abstraction, by which, as the last step of a long ladder, the mind attains actual "union."  For, as with the purely religious mystics, union, the mystic union of souls with each other and their Lord, nothing less than union between the contemplator and the contemplated--the reality, or the sense, or at least the name of it-- was always at hand.  Whence that instinctive tendency, if not from the Creator of things himself, who has doubtless prompted it in the physical universe, as in man?  How familiar the thought that the whole creation longs for God, the soul as the hart for the water- brooks!  To unite oneself to the infinite by breadth and lucidity of intellect, to enter, by that admirable faculty, into eternal life-- this was the true vocation of the spouse, of the rightly amorous soul--"a filosofia e necessario amore."  There would be degrees of progress therein, as of course also of relapse: joys and sorrows, therefore.  And, in interpreting these, the philosopher, whose intellectual ardours have superseded religion and love, is still a lover and a monk.  All the influences of the convent, the heady, sweet incense, the pleading sounds, the sophisticated light and air, the exaggerated humour of gothic carvers, the thick stratum of pagan sentiment beneath ("Santa Maria sopra Minerva!") are indelible in him.  Tears, sympathies, tender inspirations, attraction, repulsion, dryness, zeal, desire, recollection: he finds a place for them all: knows them all [239] well in their unaffected simplicity, while he seeks the secret and secondary, or, as he fancies, the primary, form and purport of each.  A light on actual life, or mere barren scholastic subtlety, never before had the pantheistic doctrine been developed with such completeness, never before connected with so large a sense of nature, so large a promise of the knowledge of it as it really is.  The eyes that had not been wanting to visible humanity turned with equal liveliness on the natural world in that region of his birth, where all its force and colour is twofold.  Nature is not only a thought in the divine mind; it is also the perpetual energy of that mind, which, ever identical with itself, puts forth and absorbs in turn all the successive forms of life, of thought, of language even.  But what seemed like striking transformations of matter were in truth only a chapter, a clause, in the great volume of the transformations of the Spirit.  To that mystic recognition that all is divine had succeeded a realisation of the largeness of the field of concrete knowledge, the infinite extent of all there was actually to know.  Winged, fortified, by this central philosophic faith, the student proceeds to the reading of nature, led on from point to point by manifold lights, which will surely strike on him, by the way, from the intelligence in it, speaking directly, sympathetically, to the intelligence in him. The earth's wonderful animation, as divined by one who anticipates by a whole generation the "philosophy of experience:" in that, the bold, flighty, pantheistic speculation became tangible matter of fact. Here was the needful book for man to read, the full revelation, the detailed story of that one universal mind, struggling, emerging, through shadow, substance, manifest spirit, in various orders of being--the veritable history of God.  And nature, together with the true pedigree and evolution of man also, his gradual issue from it, was still all to learn.  The delightful tangle of things! it would be the delightful task of man's thoughts to disentangle that.  Already Bruno had measured the space which Bacon would fill, with room perhaps for Darwin also.  That Deity is everywhere, like all such abstract propositions, is a two-edged force, depending for its practical effect on the mind which admits it, on the peculiar perspective of that mind.  To Dutch Spinosa, in the next century, faint, consumptive, with a hold on external things naturally faint, the theorem that God was in all things whatever, annihilating, their differences suggested a somewhat chilly withdrawal from the contact of all alike.  In Bruno, eager and impassioned, an Italian of the Italians, it awoke a constant, inextinguishable appetite for every form of experience--a fear, as of the one sin possible, of limiting, for oneself or another, that great stream flowing for thirsty souls, that wide pasture set ready for the hungry heart.  Considered from the point of view of a minute observation of nature, the Infinite might figure as "the infinitely little;" no blade [240] of grass being like another, as there was no limit to the complexities of an atom of earth, cell, sphere, within sphere.  But the earth itself, hitherto seemingly the privileged centre of a very limited universe, was, after all, itself but an atom in an infinite world of starry space, then lately displayed to the ingenuous intelligence, which the telescope was one day to verify to bodily eyes.  For if Bruno must needs look forward to the future, to Bacon, for adequate knowledge of the earth--the infinitely little; he looked back, gratefully, to another daring mind, which had already put the earth into its modest place, and opened the full view of the heavens. If God is eternal, then, the universe is infinite and worlds innumerable.  Yes! one might well have supposed what reason now demonstrated, indicating those endless spaces which sidereal science would gradually occupy, an echo of the creative word of God himself,  "Qui innumero numero innumerorum nomina dicit."  That the stars are suns: that the earth is in motion: that the earth is of like stuff with the stars: now the familiar knowledge of children, dawning on Bruno as calm assurance of reason on appeal from the prejudice of the eye, brought to him an inexpressibly exhilarating sense of enlargement of the intellectual, nay! the physical atmosphere.  And his consciousness of unfailing unity and order did not desert him in that larger survey, making the utmost one could ever know of the earth seem but a very little chapter in that endless history of God the Spirit, rejoicing so greatly in the admirable spectacle that it never ceases to evolve from matter new conditions.  The immovable earth beneath one's feet! one almost felt the movement, the respiration of God in it.  And yet how greatly even the physical eye, the sensible imagination (so to term it) was flattered by the theorem.  What joy in that motion, the prospect, the music, the music of the spheres !--he could listen to it in a perfection such as had never been conceded to Plato, to Pythagoras even.       "Veni, Creator Spiritus, Mentes tuorum visita, Imple superna gratia, Quae tu creasti pectora!"  Yes! the grand old Christian hymns, perhaps the grandest of them, seemed to blend themselves in the chorus, to deepen immeasurably under this new intention.  It is not always, or often, that men's abstract ideas penetrate the temperament, touch the animal spirits, affect conduct.  It was what they did with Bruno.  The ghastly spectacle of the endless material universe, infinite dust, in truth, starry as it may look to our terrestrial eyes--that prospect from which Pascal's faithful soul recoiled so painfully--induced in Bruno only the delightful consciousness of an ever-widening kinship [241] and sympathy, since every one of those infinite worlds must have its sympathetic inhabitants.  Scruples of conscience, if he felt such, might well be pushed aside for the "excellency" of such knowledge as this.  To shut the eyes, whether of the body or the mind, would be a kind of dark ingratitude; the one sin, to believe directly or indirectly in any absolutely dead matter anywhere, because involving denial of the indwelling spirit.  A free spirit, certainly, as of old!  Through all his pantheistic flights, from horizon to horizon, it was still the thought of liberty that presented itself to the infinite relish of this "prodigal son" of Dominic.  God the Spirit had made all things indifferently, with a largeness, a beneficence, impiously belied by any theory of restrictions, distinctions, absolute limitations.  Touch, see, listen, eat freely of all the trees of the garden of Paradise with the voice of the Lord God literally everywhere: here was the final counsel of perfection.  The world was even larger than youthful appetite, youthful capacity.  Let theologian and every other theorist beware how he narrowed either. The plurality of worlds! how petty in comparison seemed the sins, to purge which was the chief motive for coming to places like this convent, whence Bruno, with vows broken, or obsolete for him, presently departed.  A sonnet, expressive of the joy with which he returned to so much more than the liberty of ordinary men, does not suggest that he was driven from it.  Though he must have seemed to those who surely had loved so lovable a creature there to be departing, like the prodigal of the Gospel, into the furthest of possible far countries, there is no proof of harsh treatment, or even of an effort to detain him.  It happens, of course most naturally, that those who undergo the shock of spiritual or intellectual change sometimes fail to recognise their debt to the deserted cause: how much of the heroism, or other high quality, of their rejection has really been the growth of what they reject?  Bruno, the escaped monk, is still a monk: his philosophy, impious as it might seem to some, a new religion.  He came forth well fitted by conventual influences to play upon men as he was played upon.  A challenge, a war-cry, an alarum; everywhere he seemed to be the creature of some subtly materialized spiritual force, like that of the old Greek prophets, like the primitive "enthusiasm" he was inclined to set so high, or impulsive Pentecostal fire.  His hunger to know, fed at first dreamily enough within the convent walls as he wandered over space and time an indefatigable reader of books, would be fed physically now by ear and eye, by large matter-of-fact experience, as he journeys from university to university; yet still, less as a teacher than a courtier, a citizen of the world, a knight-errant of intellectual light.  The philosophic need to try all things had given reasonable justification to the stirring desire for travel common to youth, in which, if in nothing else, that whole age of the [242] later Renaissance was invincibly young.  The theoretic recognition of that mobile spirit of the world, ever renewing its youth, became, sympathetically, the motive of a life as mobile, as ardent, as itself; of a continual journey, the venture and stimulus of which would be the occasion of ever new discoveries, of renewed conviction.  The unity, the spiritual unity, of the world :--that must involve the alliance, the congruity, of all things with each other, great reinforcement of sympathy, of the teacher's personality with the doctrine he had to deliver, the spirit of that doctrine with the fashion of his utterance.  In his own case, certainly, as Bruno confronted his audience at Paris, himself, his theme, his language, were the fuel of one clear spiritual flame, which soon had hold of his audience also; alien, strangely alien, as it might seem from the speaker.  It was intimate discourse, in magnetic touch with every one present, with his special point of impressibility; the sort of speech which, consolidated into literary form as a book, would be a dialogue according to the true Attic genius, full of those diversions, passing irritations, unlooked-for appeals, in which a solicitous missionary finds his largest range of opportunity, and takes even dull wits unaware.  In Bruno, that abstract theory of the perpetual motion of the world was a visible person talking with you.  And as the runaway Dominican was still in temper a monk, so he presented himself in the comely Dominican habit.  The eyes which in their last sad protest against stupidity would mistake, or miss altogether, the image of the Crucified, were to-day, for the most part, kindly observant eyes, registering every detail of that singular company, all the physiognomic lights which come by the way on people, and, through them, on things, the "shadows of ideas" in men's faces (De Umbris Idearum was the title of his discourse), himself pleasantly animated by them, in turn.  There was "heroic gaiety" there; only, as usual with gaiety, the passage of a peevish cloud seemed all the chillier.  Lit up, in the agitation of speaking, by many a harsh or scornful beam, yet always sinking, in moments of repose, to an expression of high-bred melancholy, it was a face that looked, after all, made for suffering--already half pleading, half defiant--as of a creature you could hurt, but to the last never shake a hair's breadth from its estimate of yourself.  Like nature, like nature in that country of his birth, the Nolan, as he delighted to proclaim himself, loved so well that, born wanderer as he was, he must perforce return thither sooner or later, at the risk of life, he gave plenis manibus, but without selection, and, with all his contempt for the "asinine" vulgar, was not fastidious. His rank, unweeded eloquence, abounding in a play of words, rabbinic allegories, verses defiant of prosody, in the kind of erudition he professed to despise, with a shameless image here or there, product not of formal method, but of Neapolitan improvisation, was akin to [243] the heady wine, the sweet, coarse odours, of that fiery, volcanic soil, fertile in the irregularities which manifest power. Helping himself indifferently to all religions for rhetoric illustration, his preference was still for that of the soil, the old pagan one, the primitive Italian gods, whose names and legends haunt his speech, as they do the carved and pictorial work of the age, according to the fashion of that ornamental paganism which the Renaissance indulged.  To excite, to surprise, to move men's minds, as the volcanic earth is moved, as if in travail, and, according to the Socratic fancy, bring them to the birth, was the true function of the teacher, however unusual it might seem in an ancient university. Fantastic, from first to last that was the descriptive epithet; and the very word, carrying us to Shakespeare, reminds one how characteristic of the age such habit was, and that it was pre- eminently due to Italy.  A bookman, yet with so vivid a hold on people and things, the traits and tricks of the audience seemed to revive in him, to strike from his memory all the graphic resources of his old readings.  He seemed to promise some greater matter than was then actually exposed; himself to enjoy the fulness of a great outlook, the vague suggestion of which did but sustain the curiosity of the listeners.  And still, in hearing him speak you seemed to see that subtle spiritual fire to which he testified kindling from word to word.  What Parisians then heard was, in truth, the first fervid expression of all those contending apprehensions, out of which his written works would afterwards be compacted, with much loss of heat in the process.  Satiric or hybrid growths, things due to hybris,+ insolence, insult, all that those fabled satyrs embodied--the volcanic South is kindly prolific of this, and Bruno abounded in mockeries: it was by way of protest.  So much of a Platonist, for Plato's genial humour he had nevertheless substituted the harsh laughter of Aristophanes.  Paris, teeming, beneath a very courtly exterior, with mordent words, in unabashed criticism of all real or suspected evil, provoked his utmost powers of scorn for the "triumphant beast," the "constellation of the Ass," shining even there, amid the university folk, those intellectual bankrupts of the Latin Quarter, who had so long passed between them gravely a worthless "parchment and paper" currency.  In truth, Aristotle, as the supplanter of Plato, was still in possession, pretending to determine heaven and earth by precedent, hiding the proper nature of things from the eyes of men.  Habit--the last word of his practical philosophy--indolent habit! what would this mean in the intellectual life, but just that sort of dead judgments which are most opposed to the essential freedom and quickness of the Spirit, because the mind, the eye, were no longer really at work in them?  To Bruno, a true son of the Renaissance, in the light of those large, antique, pagan ideas, the difference between Rome and the Reform would figure, of course, as but an insignificant variation upon [244] some deeper, more radical antagonism between two tendencies of men's minds.  But what about an antagonism deeper still? between Christ and the world, say!  Christ and the flesh?--that so very ancient antagonism between good and evil?  Was there any place for imperfection in a world wherein the minutest atom, the lightest thought, could not escape from God's presence?  Who should note the crime, the sin, the mistake, in the operation of that eternal spirit, which could have made no misshapen births?  In proportion as man raised himself to the ampler survey of the divine work around him, just in that proportion did the very notion of evil disappear.  There were no weeds, no "tares," in the endless field.  The truly illuminated mind, discerning spiritually, might do what it would. Even under the shadow of monastic walls, that had ever been the precept, which the larger theory of "inspiration" had bequeathed to practice.  "Of all the trees of the garden thou mayst freely eat!  If you take up any deadly thing, it shall not hurt you!  And I think that I, too, have the spirit of God."  Bruno, the citizen of the world, Bruno at Paris, was careful to warn off the vulgar from applying the decisions of philosophy beyond its proper speculative limits.  But a kind of secresy, an ambiguous atmosphere, encompassed, from the first, alike the speaker and the doctrine; and in that world of fluctuating and ambiguous characters, the alerter mind certainly, pondering on this novel reign of the spirit--what it might actually be--would hardly fail to find in Bruno's theories a method of turning poison into food, to live and thrive thereon; an art, surely, no less opportune in the Paris of that hour, intellectually or morally, than had it related to physical poisons.  If Bruno himself was cautious not to suggest the ethic or practical equivalent to his theoretic positions, there was that in his very manner of speech, in his rank, unweeded eloquence, which seemed naturally to discourage any effort at selection, any sense of fine difference, of nuances or proportion, in things.  The loose sympathies of his genius were allied to nature, nursing, with equable maternity of soul, good, bad, and indifferent, rather than to art, distinguishing, rejecting, refining.  Commission and omission; sins of the former surely had the preference.  And how would Paolo and Francesca have read the lesson?  How would this Henry the Third, and Margaret of the "Memoirs," and other susceptible persona then present, read it, especially if the opposition between practical good and evil traversed another distinction, to the "opposed points," the "fenced opposites" of which many, certainly, then present, in that Paris of the last of the Valois, could never by any possibility become "indifferent," between the precious and the base, aesthetically--between what was right and wrong, as matter of art?  The Fortnightly Review. Gaston de Latour.  rom Heine's Aus der Harzreise, "Bergidylle 2": "Tannenbaum, mit grunen Fingern," Stanza 10.  243. +E-text editor's transliteration: hybris.  Liddell and Scott definition: "wanton violence, arising from the pride of strength, passion, etc."Giuseppe Bozzetti. Keywords: matematismo, monofisismo, interpersonale, implicatura interpersonale, il dialogo, fine razionale, la ragione come atto costitutivo dell’uomo, persona, uomo. Uomini, bruno contro I matematici. Morale, il problema del male, ill-will, liberta, legge morale, kant, Rosmini non e cattolico. Refs.: Luigi Speranza, “Bozzetti e Grice” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Branciforte – i giochi olimpici – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Vito dei Normanni). Filosofo italiano. Grice: “You’ve got to love Branciforte: my favourite is his philosophy of what he calls ‘il messaggio,’ – I do use the term when I speak of a transmitter, and an addressee, etc. – the fact that he was born where Ikkos was born help, since one would need to recover Ikkos’s message! Branciforte sees philosophy as a pilgrimage of love – ‘il peregrine dell’amore’ with his ‘canzionere’ and surely the song needs an addressee!”. trabia: Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (n. San Vito dei Normanni), filosofo. Esponente della nobile famiglia siciliana dei Lanza di Trabia. Il suo vero nome è infatti Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte. La sua personalità eccezionale riunisce caratteristiche disparate: filosofo con una forte vena mistica, ma anche patriarca fondatore di comunità rurali e attivista nonviolento contro la guerra d'Algeria o gli armamenti nucleari.   Trabia nacque in un piccolo paese salentino, San Vito dei Normanni, nella masseria "Specchia di Mare", da famiglia antica ed illustre: il padre, Luigi Giuseppe, nato a Ginevra il 18 novembre 1857, dottore in giurisprudenza e titolare di un'azienda agricola-vitivinicola era figlio illegittimo del principe siciliano Giuseppe III Lanza di Trabia (1833-1868) e la madre, belga, era la marchesa Anna Maria Enrichetta Nauts, nata ad Anversa il I luglio 1874. Giuseppe Giovanni aveva due fratelli: Lorenzo Ercole, e Angelo Carlo, cittadino americano nel 1939 (nel 1943 partecipò allo sbarco in Sicilia). Lanza studiò al liceo Condorcet a Parigi, poi filosofia a Firenze e Pisa, dove fu allievo di Armando Carlini.  «La guerra di Abissinia già iniziava ed il mio rifiuto a parteciparvi era la cosa più evidente. E poi questa guerra non era che l’inizio: in seguito forse sarei stato ad uccidere inglesi, tedeschi e un giorno avrei avuto dinanzi alla mia baionetta Rainer Maria Rilke. No, la mia risposta era no. “Ma che cosa è che rende la guerra inevitabile?”, mi domandavo. Benché giovane avevo capito la puerilità delle risposte ordinarie, quelle che si rifanno alla nostra cattiveria, al nostro odio e al pregiudizio. Sapevo che la guerra non aveva a che fare con tutto ciò. “Certo, una dottrina esiste per opporsi alla guerra e la vedo nel Vangelo”, dicevo, “ma com’è che i cristiani non la vedono? Manca quindi un metodo, un metodo per difendersi senza offendere. Un modo nuovo, diverso, umano di risolvere i conflitti umani”. Solo in Gandhi vedevo colui che avrebbe potuto darmi una risposta ed il metodo.»  (Pagni R., Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, p.50-51) Così Lanza del Vasto ricorda la sua decisione di partire per l'India, autofinanziandosi con la vendita a un'amica facoltosa del manoscritto della sua prima opera, Giuda. Lanza non partiva alla ricerca di spiritualità, tanto più che la conversione al cristianesimo gli impegnava pienamente l'animo:  «Ma mi ero, non senza pena, convertito alla mia propria religione, e avevo il mio da fare per meditare le Scritture ed applicarne i comandamenti. E se mi si chiedeva “siete cristiano?”, rispondevo: “Sarebbe ben prezioso dire di sì. Tento di esserlo".»  (L’Arca aveva una vigna per vela, p.11). In India, Lanza conobbe il Mahatma Gandhi, con il quale stette qualche mese, per poi recarsi in Himalaya. Durante il viaggio «conobbi le inquietudini sociali dell'India ed il suo metodo di liberazione, la non violenza, che era molto contraria al mio carattere (come del resto credo sia contraria al carattere di tutti). Nessuno è non violento per natura: siamo violenti e non proviamo vergogna a dirlo, anzi lo diciamo con un certo orgoglio. Ma ciò che non diciamo è che la vigliaccheria e la violenza fanno la forza delle nazioni e degli eserciti e la non violenza consiste nel superare questi due grandi motivi della storia umana». In India trova «un'umanità simile alla nostra quanto opposta: qualche cosa come un altro sesso.l ritorno in Europa  Lo scrittore e studioso in una delle sue comunità rurali (l'ultimo a destra) Tornato dall'India dopo ulteriori peregrinazioni in Terra Santa, Lanza comprende che la sua vocazione è di fondare una comunità rurale nonviolenta, sul modello del gandhiano ashram, la comunità autarchica ed egualitaria che per il Mahatma doveva essere la cellula della società. Gli ci volle del tempo prima di riuscire a concretizzarla attraverso la fondazione della comunità dell'Arca, che avvenne il 26 gennaio 1944. Tra le poche persone a cui gli riesce di esporre il suo progetto c'è Simone Weil, che incontra a Marsiglia. Nonostante il suo pacifismo, la Weil non nutriva molta fiducia nella nonviolenza gandhiana. Lanza gliene parlò e lei sembrò comprendere meglio. Poi parlarono della visione dell'Arca, che allora non si chiamava ancora così, ed era la prima volta che Lanza ne parlava con qualcuno: «Lei capì subito! “È un diamante bellissimo”, disse. “Sì,” risposi “è vero. Ha solo un minuscolo difetto: che non esiste”. E lei: “Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo vuole"."Simone aveva ragione. L'ultima sede della comunità fu la Borie Noble, con circa centocinquanta persone che vivono nel modo più frugale e gioiosamente comunitario. Il nome venne quando si cominciò a parlare di “lanzismo”: «Si cominciava a parlare di Lanzisti e Lanzismo, cosa che mi fece rizzare il pelo. “Amici miei”, annunciai, “noi ci chiameremo l'Arca, quella di Noè beninteso. E noi gli animali dell'Arca.».  Negli anni successivi numerosissime iniziative nonviolente videro protagonista Lanza e i suoi compagni, che seppero attirare l'attenzione dell'opinione pubblica francese e non solo. La prima azione pubblica nonviolenta è del 1957, contro le torture e i massacri compiuti dai francesi in Algeria, e si svolge a Clichy in una casa dove aveva vissuto San Vincenzo de Paoli. L'azione fu guardata con relativo favore dalla stampa, e giunse la solidarietà di personalità come Mauriac o l'Abbé Pierre. Poi vennero le lotte contro il nucleare, la prima delle quali nel 1958: Lanza con i suoi compagni penetrano nel cancello di una centrale elettronucleare e vengono poi trascinati via dai poliziotti. Poi ancora la campagna contro i “campi di assegnazione per residenza”, sorta di campi di concentramento per gli algerini “sospetti”, e quella in favore degli obiettori di coscienza. Durante la Quaresima del 1963, tra due sessioni del Concilio Vaticano II Lanza fece un digiuno di quaranta giorni compiuto nell'attesa di una parola forte sulla pace da parte della Chiesa. Poco dopo il trentesimo giorno, il Segretario di Stato consegnò a Chanterelle, la moglie di Lanza, il testo dell'enciclica Pacem in Terris: «Dentro ci sono cose che non sono mai state dette, pagine che potrebbero essere firmate da suo marito!».  Opere: Le pèlerinage aux sources, Denoël, Parigi, traduzione italiana: Pellegrinaggio alle sorgenti, Jaca Book, Milano; Approches de la vie intérieure, Denoël, Parigi; traduzione italiana: Introduzione alla vita interiore, Jaca Book, Milano 1989; Technique de la non-violence, Denoël, Parigi 1965; traduzione italiana: Che cos'è la non violenza, Jaca Book, Milano 1979; Il canzoniere del peregrin d'amore, Jaca Book, Milano 1980; Vinôbâ, ou le nouveau pèlerinage, Denoël, Parigi 1954; traduzione italiana: Vinoba, o il nuovo pellegrinaggio, Jaca Book, Milano 1980; L'Arche avait pour voilure une vigne, Denoël, Parigi 1978; traduzione italiana: L'Arca aveva una vigna per vela, Jaca Book, Milano 1980; Pour éviter la fin du monde, Rocher, Parigi; traduzione italiana: Per evitare la fine del mondo, Jaca Book, Milano 1991; Principes et préceptes du retour à l'évidence, Denoël, Parigi 1945; traduzione italiana: Principi e precetti del ritorno all'evidenza, Gribaudi, Torino 1988; Préface au Message Retrouvé de Louis Cattiaux, Denoël, Parigi 1956; traduzione italiana: Il Messaggio Ritrovato, Mediterranee, Roma 2002. Note  Pagni, cit.51  Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle sorgenti82  Gabriella Fiori, Lanza del Vasto e Simone Weil, Prospettiva Persona n° 86/,//prospettivapersona/editoriale/86/lanza_weil.pdf  Pagni, cit., p.58-59  L'Arca aveva una vigna per vela48  ivi99  Jacques Madaule, Chi è Lanza del Vasto Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto (Seghers, 1965) René Doumerc, Dialoghi con Lanza del Vasto (Albin Michel) Claude-Henri Roquet, Les Facettes du cristal (Conversazioni con Lanza del Vasto, Parigi 1981) Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto, sa vie, son oeuvre, son message (Saint-Jean-de-Braye 1998) Anne Fougère, Claude-Henri Rocquet: Lanza del Vasto. Pellegrino della nonviolenza, patriarca, poeta, (Paoline, Milano 2006) Antonino Drago, Paolo Trianni, La filosofia di Lanza del Vasto (Jaka Book, Milano 2008)  Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua francese dedicata a Lanza del Vasto Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Lanza del Vasto  L'Arche de Lanza del Vasto (sito principale), su arche-nonviolence.eu. Comunità di St Antoine, su arche-de-st-antoine.com. Comunità dell'Arca in Italia, su xoomer.virgilio. Provincia di Brindisi su Lanza del Vasto. Lanza del Vasto & Ramon Llull.  Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Filosofo del XX secoloPoeti italiani del XX secoloScrittori italiani Professore1901 1981 29 settembre 5 gennaio San Vito dei NormanniNonviolenzaLanza. vasto: essential Italian philosopherBranciforte: Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte -- Vasto: Essential Italian philosopher. Grice: “Note that he is Lanza del Vasto, but if he wants to keep the Vasto, under Vasto he goes! Even though Lanza is the aristocratic bit to it!” Lanza del Vasto   Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (San Vito dei Normanni, 29 settembre 1901Elche de la Sierra, 5 gennaio 1981) filosofo, poeta e scrittore italiano. Esponente della nobile famiglia siciliana dei Lanza di Trabia. Il suo vero nome è infatti Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte. La sua personalità eccezionale riunisce caratteristiche disparate: poeta, scrittore, filosofo, pensatore religioso con una forte vena mistica, ma anche patriarca fondatore di comunità rurali sul modello di quelle gandhiane e attivista nonviolento contro la guerra d'Algeria o gli armamenti nucleari.  Nacque in un piccolo paese salentino, San Vito dei Normanni, nella masseria "Specchia di Mare", da famiglia antica ed illustre: il padre, Luigi Giuseppe, nato a Ginevra il 18 novembre 1857, dottore in giurisprudenza e titolare di un'azienda agricola-vitivinicola era figlio illegittimo del principe siciliano Giuseppe III Lanza di Trabia (1833-1868) e la madre, belga, era la marchesa Anna Maria Enrichetta Nauts, nata ad Anversa il I luglio 1874. Giuseppe Giovanni aveva due fratelli: Lorenzo Ercole, nato nel 1903, morto a Rapallo nel 1958 e Angelo Carlo, nato nel 1904, cittadino americano nel 1939 (nel 1943 partecipò allo sbarco in Sicilia). Lanza studiò al liceo Condorcet a Parigi, poi filosofia a Firenze e Pisa, dove fu allievo di Armando Carlini.  «La guerra di Abissinia già iniziava ed il mio rifiuto a parteciparvi era la cosa più evidente. E poi questa guerra non era che l’inizio: in seguito forse sarei stato ad uccidere inglesi, tedeschi e un giorno avrei avuto dinanzi alla mia baionetta Rainer Maria Rilke. No, la mia risposta era no. “Ma che cosa è che rende la guerra inevitabile?”, mi domandavo. Benché giovane avevo capito la puerilità delle risposte ordinarie, quelle che si rifanno alla nostra cattiveria, al nostro odio e al pregiudizio. Sapevo che la guerra non aveva a che fare con tutto ciò. “Certo, una dottrina esiste per opporsi alla guerra e la vedo nel Vangelo”, dicevo, “ma com’è che i cristiani non la vedono? Manca quindi un metodo, un metodo per difendersi senza offendere. Un modo nuovo, diverso, umano di risolvere i conflitti umani”. Solo in Gandhi vedevo colui che avrebbe potuto darmi una risposta ed il metodo.»  (Pagni R., Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, p.50-51) Così Lanza del Vasto ricorda la sua decisione di partire per l'India nell'autunno del 1936, autofinanziandosi con la vendita a un'amica facoltosa del manoscritto della sua prima opera, Giuda. Lanza non partiva alla ricerca di spiritualità, tanto più che la conversione al cristianesimo gli impegnava pienamente l'animo:  «Ma mi ero, non senza pena, convertito alla mia propria religione, e avevo il mio da fare per meditare le Scritture ed applicarne i comandamenti. E se mi si chiedeva “siete cristiano?”, rispondevo: “Sarebbe ben prezioso dire di sì. Tento di esserlo".»  (L’Arca aveva una vigna per vela, p.11) L'incontro con Gandhi In India, Lanza conobbe il Mahatma Gandhi, con il quale stette qualche mese, per poi recarsi in Himalaya. Durante il viaggio «conobbi le inquietudini sociali dell'India ed il suo metodo di liberazione, la non violenza, che era molto contraria al mio carattere (come del resto credo sia contraria al carattere di tutti). Nessuno è non violento per natura: siamo violenti e non proviamo vergogna a dirlo, anzi lo diciamo con un certo orgoglio. Ma ciò che non diciamo è che la vigliaccheria e la violenza fanno la forza delle nazioni e degli eserciti e la non violenza consiste nel superare questi due grandi motivi della storia umana». In India trova «un'umanità simile alla nostra quanto opposta: qualche cosa come un altro sesso».  Il ritorno in Europa  Lo scrittore e studioso in una delle sue comunità rurali (l'ultimo a destra) Tornato dall'India dopo ulteriori peregrinazioni in Terra Santa, Lanza comprende che la sua vocazione è di fondare una comunità rurale nonviolenta, sul modello del gandhiano ashram, la comunità autarchica ed egualitaria che per il Mahatma doveva essere la cellula della società. Gli ci volle del tempo prima di riuscire a concretizzarla attraverso la fondazione della comunità dell'Arca, che avvenne il 26 gennaio 1944. Tra le poche persone a cui gli riesce di esporre il suo progetto c'è Simone Weil, che incontra a Marsiglia, nel 1941. Nonostante il suo pacifismo, la Weil non nutriva molta fiducia nella nonviolenza gandhiana. Lanza gliene parlò e lei sembrò comprendere meglio. Poi parlarono della visione dell'Arca, che allora non si chiamava ancora così, ed era la prima volta che Lanza ne parlava con qualcuno: «Lei capì subito! “È un diamante bellissimo”, disse. “Sì,” risposi “è vero. Ha solo un minuscolo difetto: che non esiste”. E lei: “Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo vuole”». Simone aveva ragione. L'ultima sede della comunità fu la Borie Noble, con circa centocinquanta persone che vivono nel modo più frugale e gioiosamente comunitario. Il nome venne quando si cominciò a parlare di “lanzismo”: «Si cominciava a parlare di Lanzisti e Lanzismo, cosa che mi fece rizzare il pelo. “Amici miei”, annunciai, “noi ci chiameremo l'Arca, quella di Noè beninteso. E noi gli animali dell'Arca.».  Negli anni successivi numerosissime iniziative nonviolente videro protagonista Lanza e i suoi compagni, che seppero attirare l'attenzione dell'opinione pubblica francese e non solo. La prima azione pubblica nonviolenta è del 1957, contro le torture e i massacri compiuti dai francesi in Algeria, e si svolge a Clichy in una casa dove aveva vissuto San Vincenzo de Paoli. L'azione fu guardata con relativo favore dalla stampa, e giunse la solidarietà di personalità come Mauriac o l'Abbé Pierre. Poi vennero le lotte contro il nucleare, la prima delle quali nel 1958: Lanza con i suoi compagni penetrano nel cancello di una centrale elettronucleare e vengono poi trascinati via dai poliziotti. Poi ancora la campagna contro i “campi di assegnazione per residenza”, sorta di campi di concentramento per gli algerini “sospetti”, e quella in favore degli obiettori di coscienza. Durante la Quaresima del 1963, tra due sessioni del Concilio Vaticano II Lanza fece un digiuno di quaranta giorni compiuto nell'attesa di una parola forte sulla pace da parte della Chiesa. Poco dopo il trentesimo giorno, il Segretario di Stato consegnò a Chanterelle, la moglie di Lanza, il testo dell'enciclica Pacem in Terris: «Dentro ci sono cose che non sono mai state dette, pagine che potrebbero essere firmate da suo marito!».  Opere Le pèlerinage aux sources, Denoël, Parigi 1943, traduzione italiana: Pellegrinaggio alle sorgenti, Jaca Book, Milano 1991; Approches de la vie intérieure, Denoël, Parigi 1962; traduzione italiana: Introduzione alla vita interiore, Jaca Book, Milano 1989; Technique de la non-violence, Denoël, Parigi 1965; traduzione italiana: Che cos'è la non violenza, Jaca Book, Milano 1979; Il canzoniere del peregrin d'amore, Jaca Book, Milano 1980; Vinôbâ, ou le nouveau pèlerinage, Denoël, Parigi 1954; traduzione italiana: Vinoba, o il nuovo pellegrinaggio, Jaca Book, Milano 1980; L'Arche avait pour voilure une vigne, Denoël, Parigi 1978; traduzione italiana: L'Arca aveva una vigna per vela, Jaca Book, Milano 1980; Pour éviter la fin du monde, Rocher, Parigi 1971; traduzione italiana: Per evitare la fine del mondo, Jaca Book, Milano 1991; Principes et préceptes du retour à l'évidence, Denoël, Parigi 1945; traduzione italiana: Principi e precetti del ritorno all'evidenza, Gribaudi, Torino 1988; Préface au Message Retrouvé de Louis Cattiaux, Denoël, Parigi 1956; traduzione italiana: Il Messaggio Ritrovato, Mediterranee, Roma 2002. Note  Pagni, cit.51  Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle sorgenti82  Gabriella Fiori, Lanza del Vasto e Simone Weil, Prospettiva Persona n° 86/,//prospettivapersona/editoriale/86/lanza_weil.pdf  Pagni, cit., p.58-59  L'Arca aveva una vigna per vela48  ivi99  Jacques Madaule, Chi è Lanza del Vasto Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto (Seghers, 1965) René Doumerc, Dialoghi con Lanza del Vasto (Albin Michel) Claude-Henri Roquet, Les Facettes du cristal (Conversazioni con Lanza del Vasto, Parigi 1981) Arnaud de Mareuil, Lanza del Vasto, sa vie, son oeuvre, son message (Saint-Jean-de-Braye 1998) Anne Fougère, Claude-Henri Rocquet: Lanza del Vasto. Pellegrino della nonviolenza, patriarca, poeta, (Paoline, Milano 2006) Antonino Drago, Paolo Trianni, La filosofia di Lanza del Vasto (Jaka Book, Milano 2008)  Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua francese dedicata a Lanza del Vasto Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Lanza del Vasto  L'Arche de Lanza del Vasto (sito principale), su arche-nonviolence.eu. Comunità di St Antoine, su arche-de-st-antoine.com. Comunità dell'Arca in Italia, su xoomer.virgilio. Provincia di Brindisi su Lanza del Vasto. Lanza del Vasto & Ramon Llull (es), su denip.webcindario.com. Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Filosofo del XX secoloPoeti italiani del XX secoloScrittori italiani Professore1901 1981 29 settembre 5 gennaio San Vito dei NormanniNonviolenzaLanza. --  Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte.  A • imm.    Prf/^ro .-fcàfZle ^ f.tt. di F -Bei'fy/'J-i'   Airy'rvKAT^.wj jyj^ix.ù *^h:e7J'Atv attLiAI^d    DEI    ©iierosiHìi ©iLHMiPKsir    DELLA GRECIA  E DEI CIRCEINSI UN ROMA  DELLE CORSE DI BIGHE E DE’ FANTINI  A CAVALLO ED A PIEDI IN PADOVA  e  nell’ Anfiteatro dell’Arena in Milano   dal 1807 ® 1834   coi Nomi e Cognomi del Proprietarj  dei Cavalli e di quelli dei Yincitori  stati premiati nei diversi Spettacoli    M'J. G-   A SPESE DELL’AUTORE  Edizione posta sotto la Salvaguardia  delle Leggi.    Miiako. Dalla Tipografìa Visa]^  DEI   (gailXgSìl     I GiuocHl più famosi della Grecia furono gli Olim-  pici. Essi instituiti furono non solamente per avvezzare  la gioventù agli esercizj del corpo, e per celebrare in  un determinato tempo la memoria de’più grandi avve-  nimenti; ma eziandio per onorare gli Dei. Distinte ve-  nivano cinque maniere differenti di esercitarsi oltre quella  del canto, e della musica; vale a dire il Corso che si  fece in prima a piedi, e poscia sopra de’coccbi; il Salto;  il Disco; la Lotta; finalmente il Cesto o sia la Scherma  a colpi di pugni.   I giuochi Olimpici, così chiamati dalla città di Olim-  pia, celebravansi ogni cinque anni; il che nascer poi  fece il costume di contare per via di Olimpiadi. Essi  cominciavano con un solenne sacrificio, e solevasi quivi  accorrere da tutte le parti della Grecia: i vincitori erano  pubblicati ad alta voce da un Araldo, e lodati con dei  cantici di vittoria; e si soleva ancora cinger la tevta del  medesimi con una corona trionfale. Ogni città, a cui  appartenevano, faceva a’ medesimi de’ricchi doni, e man-  tenuti erano per tutto il rimanente della vita a pubbli-  che spese.    Il jiriraoj che riportò il premio uel corso a piedi  chiamavasi Corebo, nativo di Elide.. Cinisca figliuola del  re Archidamo fu la prima del suo sesso, che guadagnò  il premio nel corso de’cocchi, ciocché avvenne nella sesia  Olimpiade; così pure altre femmine ebbero parte in questi  giuochi.   Cleostene Epidanio riportò il premio del corso a ca-  vallo.   Polidamante, figlio di Nicia, aveva una statura gigan-  tesca, ed una forza, un coraggio ed una destrezza stra-  ordinaria. Essendo ancor giovane assaltò sul monte Olimpo  un gran leone, il quale desolava il paese, e l’uccise.   Esso ancora fermava con una sola mano un cocchio  tirato da quattro cavalli; quindi Dario figlio di Arta-  serse curioso di esser testimonio della sua forza, gli pose  sul capo tre de’ più forti delle sue guardie, ed egli li  uccise tutti con un colpo di pugno.   Milone Crotoniala il più robusto, e nerboruto di tutti  gli atleti si mise un giorno ne’ giuochi Olimpici un  toro di due anni sopra le spalle, e portollo correndo  sino all’estremità dello steccato senza prender fiato, di poi  l’uccise con un colpo di pugno.   Teagene Tasiese è commendabile per la sua destrezza,  per la sua agilità, e pel gran numero di corone dal  rnedesimo riportale in diversi torneamenti, che si fanno  ascendere a quattrocento.   1 vincitori di questi giuochi onorare solevansi con  delle corone; la più antica che data venne ai medesimi  era di Ulivo; e poscia date ne furono di Gramigna, di  Salcio, di Lauro, di Mirto, di Quercia, di Palma e di  Appio. Gli atleti vincitori incominciarono a far innal-  zare le loro statue, che furono dai medesimi dedicate  agli Dei; quindi ancora scolpiti venivano i loro nomi  sopra alcune colonne, poste nella pubblica piazza. Il  concorso a questi giuochi era si grande, che solamente  i principali personaggi delle città Greche vi potevano  aver luogo, e si celebravano con molta pompa e ma-  gnificenza.    DEI    m ^^oma   E DEL CIRCO MASSIMO    Cm legge la storia de’principj <31 Roma, avrà osser-  vato, che questa singolare città prese ne’suoi primordj  il governo, le leggi, la magistratura, la religione, i riti  e le arti dagli Etruschi popoli circonvicini.   Di tre specie erano i giuochi: i primi erano sce-  nici, o teatrali e consistevano, come oggi, a rappre-  sentare sul teatro commedie, canti, suoni, balli, e tutti  questi alla foggia toscana. Anfiteatrali erano i secondi;  e si riducevano a combattimenti gladiatori tra uomini  ed uomini, o tra uomini e fiei’e. I giuochi Circensi  formavano la terza specie; ed erano, come dice Tertul-  liano, nel loro apparato i più ricchi, ed i più pomposi.   Consistevano essi in corse di uomini a piedi ed a  cavallo precedute da varj sagrifizi: concorreva a questo  brillante spettacolo tutto il popolo romano, e special-  niente la più elegante gioventù e le più belle fanciulle,  le quali in lunghi stuoli andavano parte per vedere, e  parte per esser vedute.   11 primo Circo chiuso che si ediGcasse in Roma, fu opera  di Tarquinio Prisco principe appassionato per le grandi  costruzioni. Esso edificio fu chiamato Circo Massimo,  il quale poscia più non bastò alla cresciuta popolazione  di Roma.   Giulio Cesare credette dover dedicare al popolo ro-  mano ed alla religione, di cui era divenuto capo, un altro  ijii’co proporzionalo al bisogno; ma in vece di farlo nuovo,  pensò meglio di accrescere quello eretto da Tarquinio.   Augusto suo successore rifabbricò questo Circo, ornan-  dolo di marmi in occasione, che andava abbellendo la  sua capitale.   Dionigi d’Alicarnasso narra che ai suoi tempi il Circo  Massimo era circondato da gran porticato, avente molte  scale artificiosamente distribuite a libero passo di quelli  che entravano ed uscivano: esso conteneva duecento ses-  santa mila spettatori.   Tanta magnificenza non bastò ai successori d’Augusto;  perchè Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone vi fecero an-  ch’essi varj accrescimenti.   Quegli però, che più d’ogni altro lo accrebbe, fu Tra-  jano, perchè a’suoi tempi la popolazione di Roma era  giunta forse al massimo suo aumento.   1 Romani erano cosi amanti di queste solennità, che  non domandavano al Principe, altro che abbondanza di  pane, e frequenza di giuochi Circensi.   Questi gran giuochi Circensi consistevano poi in una  solenne processione terminata da varj pubblici sacrifizi,  che si facevano sulla spina del Circo; e in una corsa di  cento Righe tirate a quattro cavalli di fronte, e di una  numerosa corsa di fantini a cavallo ed a piedi.   Queste cento Bighe erano divise in quattro fazioni,  distinte dai colori, coi quali erano dipinte. V’ erano le  bianche, le rosse, le prasiue, o sia verde chiaro e le ve-  nete, o sia ceruleo marino; in modo, che ve n^erano ven-  ticinque per ciascun colore.   Ogni Biga portava un nome, e quello probabilmente  del suo agitatore.   Finite le corse de’carri, gli agitatori scendevano nel-  l’arena, e correvano a piedi a gara.   Dopo la corsa venivano gli atleti e i lottatori, i quali  facevano anch’ essi i loro esercizj, e con ciò finivasi la  giornata.   Questi differenti esercizj erano interrotti da pubblici  elogi che recitavansi in lode dei vincitori, e dalle di-  stribuzioni, che ad essi faceansi delle corone e de’premi.   Ecco dato un cenno o un’ idea dei Giuochi Circensi.  VENEZIA   COME LA GRECIA E ROMA   aveva aneli’ essa i suoi Spettacoli    Consistevano questi in Regate o corse lungo il Ca-  nalazzo che divide in due parti \^enezla, e in caccle di  tori con cani, nelle forze erculee divise in due fazioni di  così detti Nicolottl e Castellani, e in voli dal campanile  di san Marco alla riva della Piazzetta.   Furono sempre soggetto di universale ammirazione la  Venezia questi spettacoli, massimamente quello della così  detta regata.   Si dava principio allo spettacolo con un fresco, vale a  dire con una corsa di tutte le barche fornite riccamente in  diversi costumi, oltre le Bissone a otto remi, 3Ialgarolte  a sei remi e Peote, barche tutte di una diversa costru-  zione: v’ erano quelle, che rappresentavano le quattro  parti del mondo, le quattro stagioni dell’anno, i quat-  tro elementi, non che quelle rappresentanti la Forza, la  Temperanza e la Giustizia.   Terminato il corso delle barche simboleggiate, avevano  luogo le così dette regate, la prima delle quali era di  dodici battelletti a un remo, e dodici a due remi, e  quella delle gondole a un remo, e a due remi nel me-  desimo numero. Prendevano il corso dalla Motta di sant’ Antonio;  schierate partita per partita avanti un cordino, davano  la mossa con uno sbaro di raortaletto; percorrevano tutto  il Canalazzo sino alla volta del palo collocato al Corpus  Domini, girato questo giungevano alla meta, in volta  del canale a casa del Nob. sig. Foscari, ove era costruita  una macchina a guisa di pulvinare, e dal giudici ri-  cevevano i premi destinati ai vincitori.   La lunghezza del Canalazzo rappresentava un ma-  gnifico Anfiteatro: tutti i maestosi palazzi basati anche ih  parte sul legno d’india erano addobbati di ricchissime  tappezzerie orientali, e chiudeva lo spettacolo una mar-  cia trionfale di tutte le suddette barche.    BELLE CORSE    AL PRATO DELLA VALLE    m    ^ac/o    ova    Sua Eccellenza proveditore Andrea Metnó ei’esse il gran Prato della Valle in ampio  Circo Olimpico, adorno di statue rappresentanti uomini  illusti'i, di obelischi, e di vasi etruschi, per far le corse  particolari delle bighe, dei fantini a cavallo, dei barberi  e dei fantini a piedi.   Era costume in tutte le città dello Stato Veneto di dare  corse di cavalli e di uomini a piedi.   Ambivano i nobili veneti d’avere al loro Servizio i cosi  detti Lacchè o Volanti, che correvano a piedi in tutte  quelle corse che si facevano nello Stato, e queste erano  frequentij difatto questi Volanti a piedi correvano da  Mestre a Padova in due ore (spazio di venti miglia  italiane.)   Le solenni corse erano di miglia dieci, tra andata e  ritorno, e chi non correva questo spazio meno di un’ora  non prendeva premio. Detti premi erano cinque con le  loro bandiere, la prima rossa, la seconda celeste, la terza  verde, la quarta gialla, e la quinta bianca.   Tutti quelli che si distinsero in queste gare sono i  seguenti:    IO    Nelle Corse parziali dei Lacchè:    Picino Angelo.   Fineo Antonio.   Sellila Giuseppe.   Badia Antonio.   Palermo Mariano.   Peverin Donienieo.  Bernardinelli Antonio.  Martello Carlo.   Costa Paolo.   Baggio Pietro.   Seresa Paolo.   Morte Antonio.   Nardini Giuseppe.  Schincaglia Gio. Battista.  Nardini Nicola.   Giustiniani Paolo.   Nelle corse parz   Il N. Alessandro Pepoli.   Il N. Giacomo Savorgnani. Il N. Siraone Contarini.   11 N. Lodovico Priuli.    Bologna Gio. Battista,  Meneghini Antonio.  Bettini Gio. Battista.  Rabaldi Giovanni.  Contenti Angelo.  Menegazzi Gio. Battista  Poiana Gio. Battista.  Petito Pietro.   Coradi Girolamo.  Bologna Santo.   Picino Francesco.   Faina Paolo.   Bianchini Giuseppe.  Strajoto Domenico.  Coppa Girolamo.    li delle Bighe:   Il N. Agostino Nani.   Il N. Antonio Riva,   Il N. Zaneto Morosini:  ed altri.    J    DELLA    COSTRUZIONE DEL CIRCO   O ARENA IN MILANO   af/fa 3^ùa/z/ta c/    Nell^anno 1806, a spese della comune di Milano fu  eretto il gran Circo sulle tracce degli antichi Circhi di  Roma, dietro disegno dell’egregio signor cavaliere Luigi  Canonica regio architetto^ il suo giro esterno è di braccia  milanesi i4oo circa^ la sua lunghezza interna dalle car-  ceri alla porta trionfale braccia 4oo; la sua larghezza  dal pulvinare alla porta mortoria braccia aSo. (0   Nell’interno del pulvinare il cornicione è fregiato di  un basso rilievo a chiaroscuro rappresentante la gran  pompa Circense degli antichi Romani, dipinta dall’esimio  signor Monticelli Angelo.   Dice Dionigi, ed anche Ovidio, che avanti di comin-  ciare i giuochi Circensi, la pompa, o sia processione,  scendeva dal Campidoglio, e pel foro romano s’incammi-  nava in bell’ordine verso il circo Massimo; la galleria  interna di ordine Corinto, ornata di otto colonne di gra-  nito lombardo, come pure tutti i gradi, e scalari, che  discende al podio; e ciò è quanto viene rappresentato  nel suddetto fregio.   La porta trionfale è di ordine dorico di granito; il  timpano sopra il cornicione rappresenta la Fama in basso  rilievo, che distribuisce le corone al vincitori. Le car-    [Il braccio di Milano corrisponde a metri lineari Oj5g  centimetri.      12 —   deri, della lunghezza di braccia loo in Uno colla terrazza  sopra le medesime, e le torri deU’oppldo costituiscono  un imponente fabbricato tutto di pietra viva.   Nel giorno 17 dicembre 1807, nell’AnGteatro dell’ A-  rena in Milano, ebbe luogo il famoso spettacolo, non  più vedutosi in questa Capitale, della Naumachia, o re-  gata di barche.   Per l’esecuzione di detto spettacolo, si fecero traspor-  tare una quantità di barche di varie dimensioni, pren-  dendole nei laghi vicini, e facendo venire molti barca-  iuoli abitanti i paesi lungo il lago di Como — Dato il  segnale, si distaccarono dal luogo delle carceri sei barche,  ciascuna portando seco quattro barcaiuoli, i quali fecero  la loro corsa col compire tre giri intorno alla Arena.  Successivamente compirono i loro girl altre dodici bar-  che a sei a sei, come si disse delle prime. Le prime due  di ciascuna coppia, che prime poterono arrivare alla  meta, dovettero di nuovo cimentarsi nella quarta corsa  per la decisione del premi, e rimasero vincitori gl’ in-  frascritti:    e)Loiue 6 ©o^w/oiufi   Set   Sverni a   111   cilowtiita ulaX'C'   IH   Andrea Gregol . ,   I.   4oo   Antonio Bianchi. . .   II.   3oo   1 Fortunato Prada . . .   III.   200   i La Lira Laliana equivale ad Aiistr. r.   l4-    — i3 — ’   Nel giorno i Marzo 1808 si tenne neirAnfi teatro deU  TArena in Milano lo spettacolo di bighe, e fantini a  piedi ed a cavallo. In detto giorno si diede lo spetta-  colo suddetto, essendosi prima esperlmentati gl’individui  ed i cavalli, e riconosciuti aventi ciascuno le condizioni  necessarie prescritte dai politici regolamenti.   In detta giornata i vincitori furono i seguenti.    Slfooute e Co^H-owt'e'   ìit,   Sei. ©O/caffi   cKjoiM'e' 6' ©«^M'ome   e> ilei, ( 3 ^ aiitim/   IH/   cHoin-m'OiitoMt'e  t)eC ^teiuio  la §c.   CO   RSO DELLE BIGHE.    Vignoni Gio. .   Cardinali Gio. B.“   I.   3 oo   Della Tela Gaet.   Barzaghi Luigi   li.   200   Roelli Ambrogio   Radaelli Pietro   IH.   100   CORS.A DEI FANTINI A   CAVALLO.   Bottini Baldassare   Porlesi Angelo   I.   200   Ghezzi Antonio   Daniri Paolo .   II.   100   CORSA   DEI FANTINI   A PIED   I.    Coppa Girolamo   I.   i 5 o   «5   Feroldi Gio. Fr.   II.   75    Scorpioni Gaet.   III.   5 o 1   Lo Scudo di ItJilano equivale ad Auslr. L.   5 . 29. 1    Nel giorno i6 Agosto 1 8 io si diede nell’Arena di Mi-  lano un eguale spettacolo tenutosi nel i Marzo 1808,  cioè, corse di bighe e fantini a piedi ed a cavallo. Quelli  che fortunati ottennero in quel giorno il premio furono  i seguenti descritti nell’infrascitta tabella:    Dii/ 5*t(5pueba^   Dei/ GnvaKl   cTCjouve 6 Go^itoiue  De^fi/ cHau-w^o.,  e/ Dei/ ^ aw.kwi; j   ^MlM/td   111 / Qiaiòi   JWuw/Ou/tocw/e  De6 $reiui/0   IH/ cltaE.   CORSO DELLE Bl   GHE.    Fontana Gio. Batt.   Cardinali Gio, B.“   I.   aooo   Caprara S. E. Carlo   Vimercati Carlo   II.   0   0   Sevolini Antonio   Trabattoni Paolo   III.   1000   CORSA D   EI FANTINI A   CAVALLO.   Saul Conte Àlorio   Porlesi Luigi . .   I.   i5oo   Besozzi Filippo .   Bucchetti Luigi.   IL   1000   CORSA   DEI FANTINI   A PIED   r.    Testoni Antonio   I.   1000    Coppa Girolamo   II.   5oo    Feroldi Gio. Fr.   III.   3oo    — i5 —   NeU’Anfiteatro dell’Arena in Milano si tenne pubblico  divertimento della regata eseguita con barche fatte tra-  sportare dai vicini laghi, e con barcaiuoli abitanti i paesi  lungo i detti laghi.   Detto spettacolo ebbe luogo nel giorno i Giugno i8ri  colla distribuzione dei seguenti premi consegnati ai sin-  goli vincitori della medesima regata.    Storne e Go^uoitt/e   Jet    c/lomiuoM/tooiC'e   Se-K ^teutio   11*   Garavaglia Paolo . .   I.   4oo   Baroni Antonio . . .   II.   000   Bianchi Agostino . Nel giorno i agosto i8ii sì tenne nell’Arena di Mi-  lano uno spettacolo di corse di bighe, e fantini a piedi  ed a cavallo, colla distribuzione dei sottonotati premi dati  ai singoli vincitori come appare dall’unita tabella.    dei/ Oa.vafCv   Slboni/e 6 Go^it/oiwe  cibu&'.^ix,   e dei.   lU/ Qtxóói/   lHoUMM/OW/toWe   deC   11* 5taK.   CORSO DELLE BIGHE,    Vignoni Carlo .   Cardinali Gio. B.   I.   2000   Galli Giuseppe.   Barzaghi Luigi .   II.   i5oo   Della Tela Gio.B.   Vimercali Carlo   III.   1000   CORSA DEI FANTINI A   CANAI   LO,   Labedojers Charles   Pier Giuseppe .   I.   i5oo   Alari conle Saule   Rossi Ferdinando   II.   1000   CORSA   DEI FANTINI   A PIEDI.    Mandelli Giuseppe   I.   1000    Tesloni Antonio   II.   5oo    Coppa Girolamo   III.   3oo    17 —   In Milano fuori di porta Orieulale nel giorno 17 ago-  sto 1812, si tennero le corse di fantini a piedi ed a  cavallo.   Detto spettacolo ebbe il suo principio al ponte di  Porta Orientale, ed aglrandosi 1 fantini intorno all’ al-  bergo, detto di Loreto nuovo, ritornarono essi sullo stesso  ponte a ricevere gli stabiliti premi ai singoli vincitori  come dall’unita tabella:    afLoiiKe e Q/o^woiwe  Jet $^capi/i,eta»j   Jo) Oo/vix^G,   Dii/ ^OÀAhwV   ^ veruno   IU>   oRoiinM'outow/e   ut ^taP,   CORSA DEI FANTINI A   CAVALLO.   Saul Conte Alario   Botta Angelo .Caprini Giovanni   Comolli Luigi .   IL   1000   Cordini Agostino   Domiri Paol9 .   ICORSA   DEI FANTINI   A PIEDI.    Coppa Girolamo   I.   1000    Testoni Antonio   II.   600    Poutigia Frane.”   III.   3oo    2    — i8 —   Avendo il Consiglio Comunale della regia città di Mi-  lano deliberato di festeggiare con pubbliche dimostra-^  zlonl di esultanza il fausto arrivo in Milano di S. A.  l’Arciduca Giovanni.   La Commissione delegata del predetto Consiglio de-  duce a notizia, che tra gli spettacoli 'pubblici divisati  nel giorno i8 maggio i8i5, si faranno le Corse dello  bighe e de’fautini a cavallo, e dei fantini a piedi.    3«/   De»   (3Li5iti6 e ©o^Moitve  De^^ii cAsirt'iga  e Da ^ antiiu/   ^teu*wj   ciloii*iuoitbotx«   2ycc&. DÌI.   CO   RSO DELLE BIGHE.    Giovanni Galli .   Gio. Cardinali .   I.   100   Giovanni Galli .   Giacomo Gallarati   Carlo 'Vimercali   /   Pietro Redaelli   II.   8o ,    detto Cadetto   in.   6o   CORSA BEI FANTINI A   CAVALLO.   Giuseppe Bordoni   GiovanniBelloni   I.   8o   Gaetano Turcotii  l   Giuseppe Bordoni   Ferdin. Bergomi   II.   6o   Giuseppe Picozzi   III.   So   CORSA   DEI FANTINI   A PIE!   H.    Giuseppe Maodelli   I.   5o    Frane. Pontigia   Antonio Testoni   III.   3o   Uno Zecchino corrisponde ad Auslr. L. i3. 6o. i    >9    Spettacoli Circenai diretti da Girolamo Coppa  da eseguirsi  La Russia ha le sue slitte, la Scozia le sue caccie,  l’Inghilterra le sue corse, la Spagna le sue giostre dei  tori. La musica, il ballo, la corsa, le militari evoluzio-  ni, le sceniche rappresentazioni sono spettacoli de’quali  anche a’giorni nostra ogni popolo si diletta, e che pa-  gano varii ed importanti tributi all’utilità pubblica.   il sistema degli antichi spettacoli ci dimostra i sommi  vantaggi che se ne possono ritrarre. Il vigore de’ corpi,  che ha tanta influenza in quello dell’anima, la destrezza,  l’agilità, la forza ed il coraggio, non erano i soli beni  che col piacere combinavano negli esercizii della greca  e della romana palestra, e negli spettacoli a’qnali que-  sti servivano. Veniva co’ medesimi mirabilmente alimen-  tata, estesa, invigorita la passione della gloria. In essi  comparivano i più distinti personaggi^ Socrate si faceva  un dovere d’intervenire, Alcibiade riportò tre premi, e  Catone si disponeva nella sua gioventù a divenire quel  che fu nella sua vecchiezza.   Le corone d’ulivo, di lauro , di appio verde o secco  che si davano ai vincitori de’diversi giuochi in Grecia,  i premj presso a poco simili che si davano per Io stesso  merito in Roma, preparavano quelli che si ottenevano  quindi dalla virtù e dai talenti del magistrato e del  guerriero nel foro e nel campo; nella palestra e nel circo  gli esercizii erano diversi, ma lo scopo era sempre un  solo, quello di alimentare cioè la passione della gloria.  Ma i costumi nostri son diversi da quelli de’Greci e de-  gli antichi Romani, e le nostre leggi non hanno uopo  di un tal mezzo per estendere questa utilissima passione.  Si può dire per altro che noi pure potremmo ritrarre  dei rilevanti vantaggi da questi spettacoli se venissero  nella patria nostra adottati, purché si avesse cura di pre-  venire gl’incovenieuti che s’introdussero in quelli de’Ro-  ^ni, si modificasse l’antica pakstra, e se ne proscrivesse  ^ ferocia e l’indecenza.  Somministrando con essi de’piaceri utili agli uomini,  s’impedirebbe che da loro medesimi se ne formassero  de'perniciosi.   Quell’ istinto che conduce i giovani all’ azione ed al  placei’e potrebbe in questi spettacoli servir di mezzo per  abituarli all’ordine, alla tolleranza della fatica, al vigore  del corpo, all’energia dello spirito e per garantirli dal-  Tozio sempre seguito’ dalla noia, dalla frivolezza e dal  vizio.   Con ({ueste idee Coppa Girolamo e compagni pensa-  rono d’introdurre in questa Capitale alcuni spettacoli,  ch’essi denominano Circensi dal circo od anfiteatro si-  tuato sulla piazza d’armi di questa Città, luogo dove in-  tendono di darli, e a questo oggetto implorarono ed  ottennero la necessaria permissione dall’Imperiale Regio  Governo di Milano.   Una corsa di dieciotto fantini a piedi, vestili alla  Romana che sortiranno dalle Carceri, e gireranno in-  torno alla spina, faranno otto corse complete sino alla  meta, i primi tre vincitori otterranno   Il primo . . italiane lir. 3 oo   11 secondo « 200   li terzo . . . . . . » 100    Questa verrà seguita da altra corsa di dodici fautini  a cavallo che sortendo dalle carceri, faranno quattro  corse complete sino alla meta   Al primo . . . italiane lir, 5 oo   Al secondo « 3 oo   Al terzo 30 0    Immediatamente alle accennate corse succederà quella  di sei bighe, le quali sortiranno parimenti dalle carceri  e faranno quattro corse complete sino alla meta    La prima . . . italiane lir. 700   La seconda * >» 4 ®®   L.i ter/.a » Lo spettacolo sarà chiuso con una marcia trionfale e  pompa Circense composta di quattrocento individui ve-  stiti tutti alla Romana. I. Il Prefetto dei giuochi in  cocchio a quattro cavalli di fronte. II. Banda militai^.  III. Insegne e trofei, varj genj, carro per le vestali ti-  rato da otto buoi di fronte. IV. Centuria o compagnia  di 100 militari alla Romana. V. Tutti i fantini a piedi  ed a cavallo e gli auriga vincitori e pi’emiati in carro  trionfale tirato da quattro buoi di fronte. VI. Banda  militare. VII. Altra compagnia di loo militari alla Ro-  mana non che tutti i perdenti delle corse che chiudono  la pompa Circense.   Colti e generosi Milanesi! la suddetta società assumo  questa utile e dispendiosa impresa sotto i vostri beni-  gni auspicj. Voi che con tanto ardore proteggete tutte  le vantaggiose insti tuzioni, onorerete de’ vostri suffragi  pur questa, che al vantaggio unisce il vostro diletto.  La scelta degli spettacoli sarà regolata dalla condizione  de’tempi e del luogo, e dal gran principio di dare al  pubblico un utile trattenimento.   Ma a voi s’ appartiene 1 ’ animarla ed il proteggerla.  Incoraggiti da vostri applausi i valorosi atleti che si  presenteranno in questi spettacoli, nascerà nobil gara  tra loro, e siffatti esercizj che da principio potranno  essere oggetto di semplice curiosità, diverranno poscia  mercè il vostro generoso eccitamento un oggetto di pub-  blico interesse.    32 —    1 c}'(3oiwe E   3«.   dei/ 0a(>a£&   cT^lWe • 00^U«HM  ellotACi^A  » ^ autùw   $e>eiulo   iM   aAouuM'OHtlSM.  d.f ^veuM/o   IH» ólloE.   CO   RSA DELLE BIGHE.    Gio. Vignoni . .   Gio. Cardinali .   I.   700   Girolamo Galli.   Girol. Barzaghi   II.   4oo   Pietro Rossi . .   Pietro Radaelli   CORSA UEl FAlVTmi A   CAVALLO.   Gius. Caprini .   Fran. Arrigoni   I.   5oo   Antonio Villano   Gaet. Bazzeri   II.   3oo   Stefano Bianchi   Luigi Lonati . .   III.   aoo   CORSA   DEI FANXmi   A PIEDI.    Gius. Mandelli .   I.   3(50    Girolamo Coppa   II.   aoo    Antonio Testoni   IH.   100   spettacoli Circensi diretti da Girolamo Coppa. Mentre si sta preparando un grandioso spettadolo che  deve principalinante corrispondere a quelli che dagli  antichi Romani chiamavansi Gircensijsl è divisato intanto  di dare nel giorno suindicato un trattenimento a questo  rispettabile Pubblico, che* pel suo genere e per il buon  ordine ond’esso verrà eseguito riuscirà di sommo dilello.   Consisterà il medesimo in una corsa di dodici fantini a  cavallo nella quale compariranno de’cavalli forestieri, che  sortiranno dalle carceri, faranno sei giri completi per  arrivare alla metà.   Indi avrà luogo una porsa di ventiquattro fantini a  piedi che saranno divisi in tre partite, ciascuna delle  quali sarà composta di otto, estratti a sorte. Ognuna di  esse deve fare quattro giri, ed I primi delle singole par-  tite che giungeranno alla mela, dovranno cimentarsi ad  un’altra corsa di quattro giri per la decisione de’prenij.   Sortiranno poscia gli altri ventuno fantini, i quali  dovranno fare unitamente quattro giri, ed il primo di  loro che giungerà alla meta avrà il premio.   Succederà a queste un’altra corsa dilettevole eseguila  da ventiquattro nani, che a guisa di satiri degli antichi  greci rallegrerà gli spettatori. Questi sortiranno dalle car-  ceri, e faranno un giro completo sino alla meta, i primi  tre riporteranno il premio.   Due bande militari delle più melodiose rallegrerà  lo spirito degli spettatori nel tempo che dureranno  queste corse.   Lo spettacolo avrà fine con Una marcia trionfale In  cui vedrassi un superbo cocchio, nel quale vi sarà il  Prefetto dei giuochi. Terranno dietro al medesimo i fan-  tini a piedi, ed a cavallo, che non ottennero il premio,  e si chiuderà lo spettacolo con un maestoso carro trion-  fale, su cui vi saranno i vincitori accompagnati da  numerose comparse, che colla splendidezza degli abiti loro  e colla regolarità de’loro movimenti renderanno ollre-  modo piacevole e dignitosa questa marcia.    Accorrete dunqile, generosi milanesi, che hen degno  farà di voi lo spettacolo che vi si annunzia.   Vogliate procurare a voi stessi un nuovo e grande di-  letto, ed all'impresa di questi giuochi l'onore di aver  saputo deliziosamente occupare alcune delle ore da voi  destinate al sollievo dell’animo.    cTtoiM'S 8 Go^HOtM'e  3ei/ ^cepueboyc/j   SeK Oavo-tCì.   e Oo^M'oiue   Dà/ <5 ^ ccMhm   Svenino  iM. 0fa^Si/   cUsuuu'Ou.tM' e   n*   CORSA r   tEI FANTINI A   CAVAI   .LO.   Angelo Curii .   Antonio Giulini   I.   4oo   Carlo Galimberti   Luigi Borsoni .   ir.   3oo   Ambrogio Oliva   Matteo Sarti .CORSA   DEI FANTINI   A PIEI   )I.    Gius. Borghetli   I.   3oo    Carlo Pedrelli .   II.   300    Giuseppe Tadei.   III.   100   CORSA D   EI 21 FANTII   VI A PI   EDI.    Girolamo Coppa   Unico   3òo   C   :ORSA DEI NA   NI.     Pietro Botta detto      Girolamo . Carlo Limonzino      detto Amabile   ir.   8o    Baldass. Ducbetti      detto Formica   in.   6, 1    20    Avendo il Consiglio Comunale deliberato di festeggiare  il fausto avvenimento di S. A. R. il serenissimo arci-  duca Ranieri, vice-re del Regno Lombardo- Veneto; la  Commissione delegata del suddetto Consiglio deduce à  pubblica notizia, che tra gli spettacoli divisati nel i6  giugno 1818, si faranno le corse delle bighe e de’ fan-  tini a cavallo ed a piedi, neU’anfìteatro dell’Arena alla  Piazza d’Armi.    f Oo^tt'ouve  ìei; ^C'OpMclaty   Sei/ Gixvixffi-   10^01116 e Go^M'OIìVI’  oADut-i^a.   e Dei»   ^veiMio  tiK QlaSiii   Ili   CORSA DELLE BIGHE.    Giuseppe Ant,  conte Eallhyany   1   Cardinale Gio.   I.   too   Gio. Fontana . .   Carlo Vimercati   II.   80   F ra nccScoF rigerio   Paolo Trabattoni   III.   60   CORSA I]   • EI FANTINI A   CAVAI   .LO.   Giosuè Pizzini .   Ant. Marchesi .   1.   8a   Gaetano Bordoni   Filip. Ognibenè   II.   6a   Gaetano Bordoni   Dionigio FiOrentini   ICORSA   DEI FANTINI   A PIEDI.    Gius. Borghetti   I.   5 o    Carlo Pedrelli .   IL   4 o    Giuseppe Tadei   III.   3o    • a6 —   Ndi 1 8 ottobre 1818 ! fa il seguente avviso. Ridotti  a compimento i difficili apparecchi dello spettacolo annua*  ràato col precedente manifesto del giorno i 5 e vedendo  che r attuale stagione favorisce pure il buon esito del  medesirai, ci affrettiamo di prevenire il rispettabile Pub-  blico di questa illustre Metropoli, che oggi giorno die-  ciotto avrà luogo un sorprendente fuoco artificiale com-  posto e diretto da Morengbi Giuseppe.   Colte e gentili signore milanesi, l’invito è a voi prin-  cipalmente diretto, perchè se voi onorerete in copioso  numero lo spettacolo che vi si annunzia, esso sarà pure  onorato di gran numero di nomini, solendo questi ac-  correre ove vi siano garbate e virtuose dopne.    Gran Carosello o Giostra diretta dal si-  (jnor Capitano I\ antica IJng arese il 22  agosto 1819 .   Questo grandioso spettacolo del Cai’osello fu eseguito alla  presenza dì S. A. I. R, il serenissimo arciduca Ranieri  vice-re del Regno Lombardo-Veneto; il medesimo era  composto da quattrocento cavalieri ungheresi sotto la  direzione de’ loro comandanti. L’area dell’anfiteatro rap-  presentava un antico torneo arricchito nel suo quadro-  lungo di colonne, di statue in armatura dei secoli di  mezzo, nel centro torreggiava un magnifico obelisco  acforno di ricchissimi trofei militari, al suono armonioso  di quattro bande riunite succederono le gare fra i ca-  valieri giostratori, e queste si combinarono in dilettevoli  contraddanze, evoluzioni militari, in quadri pittoreschi,  e chiudeva lo spettacolo una marcia trionfale.    “ —   Grandioso spettacolo di corse di fantini a  piedi dirette da Girolamo Coppa, e mac-  china di fuochi artificiali, che avrà luogo. Una banda delle più melodiose rallegrerà gli spetla-  loi’i ^ indi si presenteranno ventiquattro fantini a piedi  i quali eseguiranno una ben ordinala corsa^ che sarà di*  visa in tre parli, ciascuna delle quali sarà composta di  otto; ognuna di esse deve fare quattro giri, ed i primi  delle singole parti che giungeranno alla meta^ dovranno  rimettersi ad altra corsa di quattro giri per la decisione  de’premi.   Sortiranno poscia gli altri ventuno fantini, i quali do-  vranno fare unitamente quattro giri, ed il primo di loro,  che giungerà alla meta, verrà unito ai primi tre; i quali  dovranno di nuovo cimentarsi ad una corsa di altri quat-  tro giri, per la decisione degrinfrascritti premi.    Oo^it;>(ue   3el   ^cetili»  iit OfoAòt.   ilef ^teuMO  ii« tTTClf.   Bardelli Carlo . . .   I.   3oo   Branca Giuseppe . Tadei Giuseppe . Pedroni Domenico . .   IV.   100    Dopo ciò si cominceranno le forze ginnastiche dei già  rinomali Atleti e mentre che il Pubblico anderà ap-  plaudendo r attività, la destrezza, e la forza degl’ indi-  viduati atleti, una granata annuncierà, che nell* Anfi-  teatro evvi un magnifico fuoco artificiale composto «    k^lrelto dal professore di pirotecnica, Giambattista Pio-  tiiarla, milanese.   Una maccViina rappresentante la reggia di Minerva,  Dea delle scienze, si troverà innalzata nell’anfiteatro. Gli  spettatori potranno conoscere che il disegno di questa  è tolto da uno de’più magnificbi e grandiosi nell’ordine  architettònico, avendo campo di osservarlo partitamente,  trientre si eseguiranno le suddette corse.   Diverse qualità di razzi, granate e bombe in N.° di  4 t) 0 ; saranno i forieri dell’incendio della macchina.   Una galante girandola, che mostrerà senza interru-  zione variate figure e moltipllcl colori, sarà il primo  pezzo de’gluochi fermi.   Due grandi tornei faranno al naturale distinguere il  solò e la luna.   Due sorprendènti stelloni contornati da piccole stel-  lette tutte illuminate, giuocheranno unitamente, e for-  meranno uii fuoco brlllaote.   Due girandole con specchio d’ illuminazione, forme-  ranno un mulino a vento.   Due rosoni in continuo giro, cori specchio a vari co-  lori, si apriranno e si chiuderanno replicatamente.   Una scappata di mille saraSetti, formeranno in aria  un bouquet con batteria.   Due casse di 4^0 razzi a batterla regolata, faranno  una continua moschettata.   Una sortita di 4^0 palle avvampate; faranno apparire  il chiaror del giorno.   La macchina verrà illiiminata a giorrto, riel ciii mezzo'  risplenderà la statua di Minerva.   Ventiquattro fontanonl di un getto tnaraviglloso, forme-  r.nnno un intrecciato giùoco.   Un fuoco alla foggia di un grande Vesuvio, si alzerà  nell’aria, con istrepitosa batteria, che annuncierà il ter-  mine dello spettacolo,   Colti e generosi Milanesi, voi che con tanto^ 'ardore  proteggete le belle arti, l’artefice Piomarta, ardisce as-  Sicurai vi, che non rimarrete delusi. Nel giorno i 4 maggio 1820, Giambattista Piomarta  professore macchinista di fuochi artificiali^ che nel giorno  vent’otto novembre del decorso anno, incendiò la mac-  china da esso costrutta con pieno aggradimento, ha di-  visato anche 3 richiesta di molte persone che nbn sono  allora Intervenute, di ripetere il disegno della stessa macchina.   Due bande militari annuncieranno il divertimento,  che comincerà con una dilettevole corsa di dodici nani  elegantemente vestiti alla spagnupla, i quali sqrtiranno  dalle carceri, e gireranna due volte intorno alTarea del-  Tanfiteatro, ed i primi tre che arriveranno alla meta  otterranno i seguenti prepil,    S^ovu/e e/   Dei.   tenui»   OflX^^lr   II* 3 TCif.   Angelo Roncignolo . Giuseppe Poiani . .   IL   80   Ambrogio Pisina   III.   60   La Lira Milanese equivale ad Auslr. Cent, 87.    Spettacolo del professore Giacomo Garnerin,  nel 23 luglio 1820 .   Esperienze aereo-fisiche che non ebbero effetto, per  cui fu condannalo il Garnerin a dare un altro spetta-  colo nel mezzo della piazza d'armi gfatis, che venne  applaudito dal pubblico.  Grandioso spettacolo diretto da Gerolamo  Coppa per il giorno 6 Agosto 1820 .   Uno dei grandi avvenimenti che ci ha lasciato la  storia antica, è certamente la guerra micidiale tra i  Greci ed i Trojani che terminò coll’incendio e distruzione  della famosa città di Priamo, causata dal rapimento  della greca Elena fatto da Paride. Questo punto d’istoria  tanto interessante, sebbene involto nelle tenebre dei se-  coli e nel bivio della favola, di cui Omero, e Virgilio  ce ne dipingono maestrevolmente la miseranda catastrofe,  è l’interessante trattenimento che Girolamo Coppa, e  Socj si propongono di dare nel suddetto giorno.   Troja cinta dalle sue inespugnabili mura, che Sarà  collocata al sito delle carceri, si vedrà rapidamente ardere  dalle Gamme; le grida, il pianto, la disperazione degli  infelici abitanti confusi collo strepito dell’armi; le mine  delle più alte moli, la desolazione dei vinti e il tripu-  dio dei vincitori; la partenza del pio Enea portando  sugli omeri il vecchio suo padre Anchise; una sor-  prendente illuminazione del tèmpio di Minerva col  simulacro trasparente della Dea; un fuoco che a guisa di  Vesuvio s’innalzerà nell’aria sarà lo spettacolo tragico-pan-  loraimico-pirotecnico che si presenterà a questo Pubblico  rispettabile. Armata greca, guidata dal duci collegati ti-  rati nelle bighe da quattro cavalli di fronte, trombettieri  a cavallo, sacerdoti, auguri, sacriGcatori, vittime e il gran  cavallo nel cui cavo seno vi si nascondono armi, guer-  rieri, attrezzi, macchine di guerra; armata trojana, coro  di donzelle e fanciulle, bande militari, analogo vestia-  rio, popolo, e tutto ciò che forma il maestoso ed im-  ponente corredo di questo grande avvenimento, che verrà  «seguilo da mille, e più individui, non che con quella  indispensabile illusione che ne costituisce il pregio del-  l’azione.   fiel giorno 3 setUrobro 1820^ a ricbh^ta . generale &l  replica il grandioso spettacolo del famoso incendio e di>  sti’Uzione della celebre città di Troja^ causato dal Ratto  d’Elena fatto da Paride.   Quindi è die lo spettacolo verrà eseguito con ujaggior  nuineró d’attori^ di truppe, di bighe, e di tutti quegli  importanti accessori che esige la nobiltà e grandezza  deirargomento.    Esperienze aereo fisiche d^eseguirsi soltanto  aWaltezza delle piante del professore Già'  corno Gnrnerin di Parigi^ nel giorno 10  settembre 1820 alle ore 6 pomei'idiane.   Appoggiato il detto Garnerin ai tratti d’aggradimento  dimostrati al suo spettacolo, che ebbe l’onore di dare  nello scorso agosto sulla grande piazza d’armi, egli si  accinge a darne un altro nuovo, di sommo interesse, e  di particolare sua invenzione.   Detto spettacolo consisterà nel combattimento delle Co-  mete preceduto dalla prova del paracadute, eseguita con  un animale vivo, che ritornando a terra, discenderà  tranquillamente nella stessa arena, e da un pallone, col  quale il professore, dimostrando la necessità dell’inven-  zione del suo paracadute, farà conoscere appieno le tern  ribili catastrofi succedute a Pilatre-des-Roziers, e mada-  ma Blanchard ed al rinomatissimo italiano Zambeccari  p*r mancanza del paracadute, c darà altre espegenze  areo-pirojecniche.La conquista di Belgrado. Grandioso spet-  tacolo per il 17 settembre 1820 . Di-  retto da Girolamo Coppa. ,   Quel Belgrado, che nella storia della guerra aveva res i  illustri i nomi di Corvino, Huniade, Massimiliano di  Baviera, ed Eugenio di Savoja era finalmente destinato  a coronare la gloria di Loudon.   SuU’eseiTipio deir anno scorso penetrarono anche in  quest’anno sul piàncipio di agosto i Turchi nel Banato  dalla parte di Schuponeck, si sparsero per tutta la valle,  e volevano avanzare verso Mahadiaj ma li 28 agosto cac-  piolli il generai Cleirfart intieramente dal territorio Au-  striaco. Loudon restituissi 3 Seraelicco, si accorsero or  ora chiaramente i Turchi, che si trattava dall’assedio di  Belgrado. Il Bascià fece chiedere istantemente una tre-  gua; Loudon vi condiscese, nello stesso tempo facendo  intendere al Bascià di decidersi se voleva rendere la  piazza, ed accettare la libera sortita. La quale proposta  venne ricusata dal Bascià, e s’ incomincia col bombar-  damento della fortezza. Al sito delle Carceri s’innalzerà la fortezza di Belgrado  cinta dalle sue inespugnabili mui*a in istato d’assedio.  L’arena del circo rappresenterà un campo di battaglia,  sparso qua e là di tende militari, padiglioni, attrezzi da  guerra, cannoni, mortaj, e di truppe Tedesche ed Un-  gheresi. Il colonnello conte d’ Argentau, parla ai suoi  subalterni. Miei signori, noi siamo stati prescelti dal  Maresciallo Loudon, per l’ iutrapresa dell’attacco della  fortezza. Ma tutto dal nostro zelo dipende, spero quindi  che ognuno impiegherà tutte le sue forze per sostenere  anche in quest’occasione l’onore del nome che portiamo,  e la gloria che il nostro Maresciallo si è acquistata. Non  vi è bisogno d’ulteriori esortazioni lusingandomi di po-  tere giustamente riporre in loro tutta la mia fiducia.  S’ Incomincia l’ assalto della fórtezza. La soldatesca,  ripartita in quattro colonne, attaccano ad un tempo di-  verse parti. — I volontari precedono ciascuna colon-  na, e i granatieri, che fra questi si trovano, marciano  alla testa. Le truppe sono seguite da trecento lavoratori  con fascine, corbelli, sacchi d’arena, ed altri necessari  strumenti per costruire sul momento batterie, ridotti,  ed altre fortificazioni. Si attaccano con coraggio e riso-  lutezza} le paL'zzate vengono superate. Il cannonamento  sostiene l’attacco. 1 Turchi si difendono disperatamente,  vengono con impareggiabile valore respinti, si gettano  nella piazza migliaja di palle, granate e bombe,  Il Bascià fa chiedere un abboccamento al Maresciallo  per la capitolazione della fortezza, sortono da Belgrado  tre dei più ragguardevoli fra i Turchi con il loro se-  guito, si presentano al padiglione del generale Loudon.  11 Bascià affetta di essere un Mussulmano estremamente  zelante, riferisce essere dal supremo destino determinata  fino dall’eternità la resa della fortezza; e spiegò quindi il  desiderio di essere condotto colla sua guarnigione a Nissa,  ma Loudon sceglie in vece la fortezza d’Orsova.  L’esercito Austriaco prende possesso della fortezza en-  trando trionfalmente con acclamazione di gio|a; al mo-  mento venne basato sulle mura della fortezza un ma-  gnifico arco trionfale guernito di fuochi artificiali; opera  del pirotecnico Giovanni Battista Piomarta.   I. Le cannonate secche u mazzo di stelle.   II. Dodici piramidi intrecciate di serpenti.   HI. Esplosione di bombe.   IV. Otto circoli di fuoco a colori diversi. Gran decorazione all^arco trionfale.   VI. Esplosione di granate.   VII. Una sfuggita di due mila razzi formeranno in aria  un bouquet al naturale.   Vili. Un fuoco alla foggia d*un acceso Vesuvio si alzerà  con strepitosa batteria che annuncierà il termine dello  spettacolo.    Prima discesa col Paracadute di madami-  gella Garnerin areoporista, che avrà luogo  il 5 maggio 1824, e corse di fantini a  cavallo ed a piedi, eon marcia trionfale,  dirette da Girolamo Coppa.   L’apertura delle porte sarà annunciata da alcuni spari  d’artiglieria. Due gran bande di musica militare esegui-  ranno dei pezzi scelti d’armonia durante tutto lo spet-  tacolo. Madamigella Garnerin monterà nell’aerostato per  eseguire la sua ascensione, che sarà immediatamente se-  guita dalla sua discesa col paracadute, e sarà preceduta  altresì dall’ascensione di un pesce rombo indicatore della  direzione.   Ventiquattro fantini a piedi eseguiranno una b^n  r-  dinata corsa, che sarà divisa in tre parti, ciascuna com-  posta di otto fantini, che faranno tre giri, ed i primi  delle singole parti, che giungeranno alla meta, dovranno  rimettersi ad altra corsa di tre giri per la decisione dei  premi. Sortiranno poscia altri ventuno fantini pure a  piedi, i quali dovranno fare tre giri, ed il primo di loro  che toccherà la meta, verrà unito a primi tre. 1 quat-  tro fantini che primi furono nell’aringa, dovranno di  nuovo cimentarsi ad una corsa di altri tre giri per la  decisione dei controscritti premi.   La corsa dei fantini a cavallo, venne distribuita come  segue. Uodici fantini a cavallo eseguiranno due corse,  divisi a sei per sei, compiendo i tre prefissi giri circo-    — 35 —   •   lari. I sei fantini a cavallo che nelle suindicate due corse  saranno i primi arrivati alla meta, si disputeranno la  palma con altra corsa, Gssata ugualmente di tre giri, e  i tre che rimarranno vincitori avranno il relativo premio.    (0^oiMe & 0o^ao(Me  Sfi/   dei/   Sedine e Oo^itoiue  deu ^ (XitUitt/   ^teuMo   ('RsuMuoii/tcOc'e  de6 ^texMMO  uv .^. cRou/i.   CORSA DEI FANTINI A   CAVALLO.   Preda Giuseppe   Raja Domenico   I.   3oo   Gioja ‘Pietro . .   Ferri Luigi   II.   200   Picozzi Giovanni   Slopani Giuseppe   III.   100   CORSA   DEI FANTINI   A PIEDI.    Pozzi Francesco   I.   100    Tadei Giuseppe   II.   80    Bardelli Carlo .   III.   60    Toja Ambrogio .   IV.   4o    Seconda discesa col paracadute di madami-  gella Garnerin nel Delta discesa sarà preceduta da due corse, una di fan-  tini a cavallo, la seconda de’barberi, con due premj in-  sieme di lìr. 6oo aust. e bandiere, con estrazione pub-  blica di dodici premi o lotti da lire 5 o a lire 8oo: for-  manti insieme una somma di lire 2600 austriache che  andranno a vantaggio degli spettatori i quali avranno  preso dei biglietti d’entrata a questa seconda esperienza    -* 36 —   e spettacolo, e detti numeri corrisponderanno a quelli  che saranno estratti a sorte.   Madamigella Garnerin ha fatto stampare 26000 bi-  glietti di entrata alla sua esperienza, i quali biglietti  porteranno ciascuno un numerocorrispondente a quello  dei. 26000 biglietti che saranno posti nelle urne, dalle  quali ne verranno estratti dodici, pei dodici prenij pro-  messi.   Detto spettacolo sarà diviso cqme segue:   I . Corsa dei fantini a cavallo, i quali dovranno ese-  guire tre corse complete, ed i primi tre che arriveranno  alla meta dovranno cimentarsi in un’altra corsa di tre  giri, per disputarsi nuovamente i premj.   II. Corsa dei barberi i quali dovranno eseguire tre  giri dell’arena e i primi due, che ariveranuo alla meta  avranno il premio.   III . Seconda corsa dei fantini a cavallo, che serviranno  a determinare Tassegnamento de’premj.    iei/   da OavoEfi.     ^VOUllO   da ^ autiM/   ut/    ilowiuw utoW'e   teuMO   JIduS    CORSA DEI BARBERI.    Preda Giuseppe  Gardiaali Nicola    I.   II.    i5o    CORSA DEI FANTINI A CAVALLO.    Angiolini Gius.  Laudoni Giosuè    Ferrario Frane.  Burella Antonio    I.   II.    200   i5o    Ascensione di madamigella Garnerin, die farà un  giro intorno aU’arena. Poi s’innalzerà ad una considere-  vole altezza^ indi farà la sua discesa col paracadute.   y. Si darà fine allo spettacolo con l’ estrazione pub-  blica di dodici premi o lotti dalle lire 5 o fino alle 800.    Avendo il Consiglio Comunale della regia città di Mi-  lano deliberato di festeggiare con pubbliche dimostra-  zioni di esultanza il fausto avvenimento della presenza  in Milano di S. M. 1 . R. Paugustissimo Monarca Fran-  cesco I, la Congregazione Municipale e la Commissione  delegala del predetto Consiglio deducono a notizia, che  tra gli spettacoli pubblici divisati si faranno le corse  delle bighe e de’fantini a cavallo, e dell’esperienza arco-  statica col paracadute della signora Elisa Garnerin, nel-  l’anfiteatro dell’Arena il giorno 24 maggio 1825.    1 6   t'cu   Dei/ GrtoafCi/   (S^X^oiu/e e Gogii/oiMe   Dcgfi/   e Dei. ^ «uh 111/   ^celiti 0   111/   cHoilMIl/ 0 nt< 3 t */6   DeC ^telino III  XeceS. 3 TL.   CORSO DELLE BIGHE.    Anglolini Carlo   Trabattoni Paolo   I.   100   Fontana Gio. B.   Radaelli Santino   II.   80   Suddetto ....   Cardinali Gio.  d. il Pastirolo   CORSA DEI FANTINI A   CAVALLO.   Formigini Gius.   Giuliani Gius.   I.   80   Castellani conte  Gaetano . . .   Vaisem Carlo . .   II.   60   PezzinI Giosuè   Gioja Domenico   III.   5 o    Spettacolo eseguito da Francesco Orlandi  nel 5 aprile 1827 .    L’areonauta Francesco Orlandi eseguirà il suo volo  areostatico, sempre che l’ atmosfera si trovi abbastanza  tranquilla onde pòssa lo stesso condurre senza ostacolo  il suo naviglio per le difficili ed azzardose vie dei venti  e dimostrare col fatto la verità delle sue teorie.   Aggiungerà la tanto apprezzata corsa de’fantini a ca-  vallo vestiti all’inglese, distribuita come segue; dodici  fantini a cavallo eseguiranno due corse, divisi a sei per  sei, facendo i tre prefissi girl intorno all’arena.   I sei fantini a cavallo chd nelle suindicate due corse  saranno arrivali primi alla meta, si disputeranno la palma  con altra corsa, fissata egualmente di tre girl, ed i tre  che rimaranno vincitori avranno il relativo premio.   Lo spettacolo sarà reso più brillante dalla musica  eseguita da due bande militari.    Dm QfxvcMi,   eJLoiii'e 6 Oo^nom'e-  Dei, ^ imtiwi/   ^i>edwo  ut, Qixiòi   Jlowtitwittew'e  Def 5*ceiitio  111/ cibitA.'   Giuseppe Preda.   Brunello Pietro.   I.   4oo   Angelo Briani .   Raja Domenico .   II.   000   Paolo Pozzetti ,   Ferri Luigi . .   III.   i5o     — Sg —    Terza discesa col paracadute delV aereoporista  francese EHisa Garnerin.   Questa discesa preceduta dalla prima ascensione col  pallone ritenuto da funi, della sua giovine allieva Eu-  frasia Bernardi che farà il giro dell’anfiteatro.   Detto spettacolo verrà preceduto dalle corse de’fantiiii  a piedi ed a cavallo, e dei barberi, dirette da Girolamo  Coppa, secondo il costume degli antichi Greci e Ro-  mani, ed avrà luogo nel i 5 aprile 1827.   Due complete bande militari suoneranno alternativa-  mente durante lo spettacolo.   Prima e seconda corsa de’fantini a piedi.   Corsa de’fantini a cavallo.   Terza e quarta corsa de’fantiui a piedi.   Corsa de’barberi.   Quinta ed ultima corsa de’fantini a piedi.   Marcia trionfale.   I . Gran corso di ^musica militare.   II. Un cocchio con quattro cavalli di fronte, che por-  terà il Prefetto dei giuochi col suo seguito.   IH. La prima coorte.   IV. Otto porta-stendardi e trofei.   V. Seconda coorte armata di brandi e di scudi pe-  santi.   VI» Un gran Carro trionfale tirato da otto buoi a  quattro a quattro di fronte, pei vincitori dei giuochi  circondato da ventiquattro genj simboleggiati.   VII. Terza coorte armata di giavellotti con scudi.   VHI. Squadrone di tutti i fantini a piedi.   IX. Squadrone di tutti i fantini a cavallo, che chiu-  derà la marcia.   •   Terminato [l’esperimento, Tareonauta rientrò nel circo  in carrozza scoperta per risalutare il pubblico esultante,  che l’acclamava. Le corse dei fantini a piedi, a cavallo  e dei cavalli sciolti riuscirono animatissime, per cura di    — 4 » “   Girolamo Coppa, il quale in tali circostanze è stato sem-  pre chiamato, come quello che per le molte corone rac-  colte in simili solenni disfida, combinava colla pratica  e col consiglio la fiducia di chi si lasciava da esso di-  rigere.     c)lboiM6 e Gogmsui/e   ut   cllotwiM'Outowe   CORSA DEI BARBERI.    Gardinali Nicola    I.   3oo^   Ralli Giuseppe .    II.   200   Ghiggini Gio. .    IH.   100   CORSA DEI FANTINI A.   CAVAL   LO.   Conte S. Antonio   Passi Gennaro .   > I.   5oo   Preda Giuseppe   Brunello Pietro.   II.   3oo   Gardinali Nicola   Merli Giuseppe.   III.   200   CORSA   DEI FANTINI   A PIEI   )I.    Rossi Giuseppe.   I.   100    Feltrini Eugenio.   . IT.   8o    Pozzi Francesco   III.   6o    Gozzini Davide.   IV.   4o    • f  O . » .    ’     Straordinario spettacolo che sarà eseguito  dalla eotnpagnia del eavallerizzo Alessan-  dro Guerra Romano^ nelV^ luglio 1S27.   La solennità di nn magnifico torneo alla foggia di  quelli ’che ese^uivansi ne^passati tempi, formerà la. spet-  tacolosa festa ^le dal cavallerizzo Alessandro Guerra verrà  esposta al Pubblico* con l’aggiunta di varii eseroizii d’e-  quitazione, corse a cavallo ed a piedi, e colle bighe di-  rette da Girolamo Coppa.   Distrihiizipne drllo spellacolò:   Al suono della musica di due corpi di bande mili-  tari che alterneranno le loix) sipfonie si faranno:   I. La corsa di veutiqq^ttro fantini a piedi, divisi in  tre schiere di otto per ciascuna, che eseguiranno tre  giri, e i vincitori di ciascuna dovranno cimentarsi in  altra simile corsa per il conseguimento de’rispettivi premi.   li. La corsa dì tre della compagnia Guerra die ese-  guiranno ciascuno sopra due cavalli* gli esercizii, cosi  detti giuochi di Troja, effettuando a gran corsa tre giri  dell’Arena, e il primo che giungerà alla meta, otterrà  una bandiem d’onore •guernita in oro.   Il premiato fu Luigi Guillaume.   III. La corsa di sei bighe, che gareggieranno a due  a due, facendo parimenti tre giri, ed i vincitori di que-  sta corsa dovranno essi* pure citoentarsi altra volta in  egual numero di gh^i per riportarne il premio.   IV. Comincierà il torneo col maestoso ingresso dei  cavalieri giostranti muniti di armatura di ferro e lan-  cia, distinti ciascuno dai colori de’rispettivi abiti e sciar-  pe, ed accompagnati dql loro particolare corteo^ saranno  essi* preceduti dall’araldo e dal corpo dei trombettieri  pure a cavallo, ed eseguiranno il gran torneo* nel cen-  tro dell’Arena in apposito steccato; ornato di trofei ana-  loghi allo spettacolo, colle ins’egne dei giostratori. Dato  il segno colle trombe, si cimenteranno i sei cavalieri a  due, e i tre vincitori dovranno rinnovare tra di loro  il combattimento, sinché uno rimanga superiore a tutti    — 4 ^ — ^   ptu- aver toccato colla punta della lancia l’insegila degli  avversar].   .V. Combattimento dei delti tre vincitori tra di loro  pei* ottenere il premio d’unar sciarpa d’onore ricamata e  "uernita in oro.   O l   Il vincitore della sciarpa fu Alessandro Guerra.   VI. Grande marcia trionfale; si vedranno i trombet-  tieri, l’araldo, i cavalieri giostratorr col rispettivp loro  corteggio, le bande militari, la prima coorte 'armata di  scudi e lance, il gran carro trionfale tirató da buoi,* che  porterei donzelle abbigliate alla foggia delle Vestali, so-  stenenti corone di alloro, mirto e quercia pei vincitori;  seguiranno littori e genjianaloghi allo spettacolo, i porta-  insegne con vari trofei, i fantini che avranno eseguita  la corsa a piedi e gli auriga premiati, e finalmente al-  tra coorte d’armati che chiuderà la marcia.    iDXjoiM/e » Qo^omie   Deu Gapaffi.   » io, ^ CU/IÌÒmì/ •   •   II* O^aóAi'   cibiMUi'OiitaM   111/ ellou/it.   CORSA DELLE BIGHE.    Aless. Guerra .   Pifetro Brunello   I.   5oo   Leop. Servolini   Paolo Trabaltoni   II.   3oo   Merliui e Preda   Gaetano Rovelli   III.   200   CORSA   DEI FANTim   A PIEDI.    Giuseppe Rossi   I.   100    ' Eugenio Feltrini   IL   8o    Ariibr. Turconi .IStraordinario spettacolo che si darà dalla  compagnia del cavallerizzo jdllessandro   Guerra nel giorno 22 luglio 1827 .   •   Cousistente nelle corse di dodici giovinetti in un sacco,  di dodici nani, esercizj d’equitazione sopra due destrieri,  es’ercizj «seguiti da Faustina Guerra d’anni tre, giuochi  de’Coribanti sopra tre cavalli a dorso iludo, gran torneo  antico, pompa circense, e trionfo del cavallo arabo am-  maestrato in me^zo ad un’ fuoco artificiale; rappresen-  tante un maestoso arco trionfale nel mezzo dell’Alena.    Primo straordinario sorprendente spettacolo  aereo di volatili diretto da Gio, ‘Battista  Ferrano modonese^ Le universali acclamazioni che otteiine Gio. Battista  Ferrarlo per questo genere di spettacolo prodotto a  Modena, Parma e Torino, si lusinga anche di meritare  l’aggradimento del generoso pubblico Milanese.   I. \d un colpo di pistola uscirà da una cesta uno  stormo di colombi andando in traccia del loro padrone,  e dopo voli vaghi, e non limitati, caleranno ad un suo  cenno al suoi piedi.   II. Sortirà un colombo che al preset’tare di una ban-  diera calerà presso la medesima, e vi si fermerà immo-  bile girando sopra la bandiera stessa.   Un colombo chiamato il cannoniere, munito di  miccia, dopo varj voli, sparerà un cannone di bella  grandezza.  in campo un colombo dello il sallatore,  che farà il sallo dei cerchio a volonlà del suo padrone  con varie configurazioni e movimenti.   V. Usciranno un’altra volta tutti insieme i due stormi  muniti di arma arlifiziale, e combatteranno in aria tra  di loro a fuoco vivo; e al comando dei rispettivi coman-  danti andranno alle loro posizioni.   VI. Un colombo chiamato Timpetuoso, passerà un cer-   chio. coperto di carta, e lo tornerà a passare dopo di  aver rotto la carta stessa. ^   VII. Una colomba detta la guerriera, volando a campo  aperto in traccia del suo padrone lo rinverrà ad un  colpo di pistola; e nell’atto che bramerà calare presso  il medesimo le sarà presentata altra pistola sulla quale  essa «si fermerà immobile mentre sorte il colpo.   Vili. Altra colomba chiamata la cacclalrice, darà com-  pimento alla serie dei giuochi in mezzo di uno stormo;  ad un colpo di fucile si distaccherà dallo stormo e calerà  .sopra il fucile medesimo, dove resterà immobile ad una  seconda scarica. Una banda militare collocata al podio  del pulvinare suonerà varj pezzi di musica.    Secondo straordinario spettacolo arco di vo-  latili diretto dal suddetto Ferrarlo^ Le universali generose acclamazioni, che ottenne Gio.  Battista Ferrarlo da questo illuminatissimo pubblico  JMilanesp, presentando nell’ultima scorsa domenica II suo  .spettacolo dei colombi e la generale cortese richiesta,  perchè nuovamente lo esponga, sosi de.sse stale le ben  accette ragioni per replicare il suddetto spettacolo, con  l’aggiunta d’una corsa di- fantini a cavallo, distribuita  come sefrne:   Dodici fantini a cavallo eseguiranno due corse, tlivisi  a sei per sei, corupieiltìo i tre prefissi giri dell’arena.   I sei fantini a cavallo che nelle suindicate due  corse saranno arrivati primi alla meta, si disputeranno  il premio con altra corsa, fissata egualmente di tre giri,  e i tre che rimarranno vincitori avranno il relativo pre-  mio, con bandiera d’onore analoga;' si chiuderà lo spet-  tacolo con un giro de’fantini a cavallo vincitori delle  corse, al suono della banda militare.    cSl^oiwe 6 Oogw/oiite  Dei ^vo^'uetixtj   Dei'   SKooiue e Gu^uoiii'e   Dir éf aii'tiu'i   •   ^vatui}   iit   a^iiuMa iitoci'f'/   DeE ^cenilo  Jlou/Si   CouteS. Aotonio   Fassi Gennaro .   r.   3oo   Bernareggi Paolo   Gioja Angelo . .   II.   200   1 Donato Foglia .   Borri Giuseppe   III.   TOO    Spettacolo maraviglloso eseguito da Giacomo  Gastellier di Parigi, macchinista e com-  positore di fuochi artificiali, nel 26 ago-  sto 1827 .   Esso consisterà nella Regala o gara delle gondole,  ossia battelli nell’arena allagata.   O   Dato il segnale, tre battelli si slanceranno alla corsa  montati ciascuno da quattro gondolieri, e compieranno  due giri deU’arena. Altri sei battelli in due riprese si  contrasteranno la vittoria. I primi tre battelli vincitori  in ciascuna delle tre corse, dovranno cimentarsi ad un’ul-  tima cor^a, perchè vengano contraddistinti dalle diverse  qualità de’premj. ofiooitie e/ Oognoiiie   •   cibiMmoivb^e   iw cHau-òt.   Paolo Podoni, Giovanni Ricci,  Pasquale Mari, Giuseppe Luca   I.   800   Nicola Frizato, Gaspero Plotli,  Gio. Drago, Luigi Porlesi . .   IL   600   Angelo Garavaglia, Paolo Domiri,  Gio. Gerosa, Baldassare Ghezzi   III.   0   0    Nulla si è omesso, per quanto si è potuto, affinchè  questa parte del divertimento dilettevole riesca ed in-  teressante. I battelli furono sqelti d’ agile forma, vaga-  mente ornati e con eleganza d’addobbi. Esperti, robusti  erano i gondolieri, alcuni scelti dai paesi lungo i nostri  laghi, altri ancora fra gli esteri. *   Poscia sorgeranno dall’onde ai lati dell’edifizio due  amene isolette, ed in -mezzo ad entrambe dominerà  l’albero così detto della cuccagna.   Otto per ogni albero saranno quelli che si sforzeranno  di toccarne la cima, genei’oso sarà il bottino, e due  bande militari li accompagneranno sui battelli alla ri-  spettiva isoletta nell’audata, e nel ritorno.   Nel mezzo dell’arena sarà basato un grandioso, ed  ottangolare edifizio, che porta per titolo;   Il gran tempio della Pace illuminato a gloi’no con  lance di variati colori.   I. Si darà principio al fuoco con colpi di cannone,  razzi, e tourbillons.   II. Due grandi congegni rappresentanti il sole, la luna  e le stelle del firmamento, che spariranno poscia con  strepitose esplosioni.   III. Razzi a doppio volo, e varj altri bellissimi fuochi.   IV. Avventura di don Chisciotte colle ali, un mulino  a vento, e brillanti vedute.   Due risplendentissime bombe a pioggia d’argemo.   VI. Sei girandole prenderanno diverse conformazioni  jjer ben venti volte.   VII. Nuovissimo comb£^ltimento di soli, che cesserà  coit grandi scoppj.   Vili. Mirabile batteria di candele egiziane.   IX. La gran cascata di Saint-Cloud, presso Parigi, la  quale con quattro straordinarie cadute genererà un pia-  cevolissimo mormorio di una cascata d’acqua.   X. Moltiplici fuoclii della più ricercata invenzione.   XI. Si getteranno nell’acqua diversi pezzi di fuoco  d’un genere affatto singolare, i quali sorgeranno di nuovo  dall’acqua, ascenderanno nell’aria e scoppieranno.   Lo spettacolo avrà fine con un strepito di colpi di  grandi racchette. Partiranno esse dalle torri sopra le cosi  dette carceri, e‘ in lato opposto della porta trionfale, per  cni incrocicchiandosi, e cadendo nell’onde produrranno  un vivissimo effetto.    Spettacolo da eseguirsi da Francesco Orlandi   il lÒ agosto 1828 .   f   L’areonaula Francesco Orlandi, Bolognese, spinto da  brama soltanto di lasciare anche in questa insigne Me-  tropoli quel nome, che co’suoi esperimenti egli si è pro-  cacciato nelle città, ed in particolare con quello recente-  mente eseguito in Genova alla .presenza di quella sovrana  corte, di molti illustri personaggi, e di una immensa  popolazione, ardisce coraggioso di cimentarsi di nuovo  in Milano, colla lusinga di meritarsi anche qui la sod-  disfazione di un Pubblico colto ed illuminato, quindi  con superiore autorizzazione ha 1’ onore di prevenirlo,  che nei suddetto giorno darà nell’anfiteatro dell’Arena,  tre spettacoli degni della pubblica ammirazione.   In prima l’Orlandi eseguirà il suo volo areostatico,  facendo conoscere che l’uomo può dominare non solo  sulla terra e sull’acqua, ma ancora nefjli aerei spazj.    - 48 -   Secondariameule si rappresenterà uno de’più sorpren-  denti fenomeni della natura, quale è il Vesuvio di Na-  poli nell’atto di una delle più forti sue eruzioni. Nulla  sarà certo trascurato onde imitare (per quanto permette  Tarte e Tingegno) col fuoco artificiale, questo orribile  fenomeno, imponente spettacolo che richiamerà l’antica  memoria degl’infelici Pompejani.   Per terzo cessata l’eruzione, apparirà improvvisamente  un teatro, rappresentante la reggia d’Apollo tutta traspa-  rente, cpn l’anfiteatro ^legantemente illuminato; spetta-  colo per Milano affatto nuovo, eseguito soltanto l’anno  scorso in Firenze nell’occasione della festa Ji san Gio-  vanni, e replicato colà in quest’anno con eguale felice  esito.    La regata Feneziana nel 17 agosto 1828 .   Fu sempre soggetto di universale ammirazione in Ve-  nezia lo spettacolo della cosi detta regata, e venne co-  stantemente ritenuto che il medesimo effettuare non si  potesse se non in quella sola città.   Dipendentemente dalle verificazioni di fatto già ese-  guite, si è ormai conosciuto, che la Veneta regata può  aver luogo eziandio nell’Arena di Milano non solo, ma  più ancora che l’effetto al Pubblico sarà per riuscire di  maggiore interesse attesa la posizione della località.   Per render più interessante il divertimento, la gara  avrà luogo fra i più esperti gondolieri di Venezia, qui  appositamente condotti. Vi sarà molta varietà di gon-  dole e battelli secondo il metodo e costume Veneto.   Si vedranno riccamente fornite in seta le così dette  Bissone ad otto remi. Malgarotte a sei remi e Peote,  barche tutte di una diversa costruzione.   Due saranno le orchestre, acciò la musica renda più  animato lo spettacolo.   Si darà principio con una marcia maestosa di tulle  le barche appositamente trasportate da Venezia, alla qual|J    “ 49 “   seguirà un cosi detto fresco, o corsa di tutte le ridette  barche.   Dopo questo, al segnale di una tromba, avrà luogo  la gara de’battelletti ad un remo con premi, cioè pri-  mo e secondo premio; e per ultimo il premio del por-  chetto secondo il costume di Venezia.   Seguirà poscia un nuovo fresco, o corsa di barche,  fino a tanto che verrà allestita una seconda gara di  gondolette a due remi, sostenuta da differenti barcaiuoli.  In fine verrà chiuso il divertimento con nuova marcia,  dopo della quale il suono delle trombe, annunzierà il  termine dello spettacolo.    c)ei/   llt>   Jbiuiii/ijwtat*   ^veiwo   IH -^t/e cUsttòt.   GONDOLE A DUE RESI!.   Musico Giuseppe, e Celega Giu-  seppe   I.   8co   Buranello Natale, e Forti Gio-     vanni   IL   4oo   BATTELLETTI AD UN REMO.   Calderan Andrea . > . . .   I.   o   o   Papassissa Giuseppe . ; . .   II.   200    Spettacolo della regala Veneziana eseguitosi  nel 24 agosto 1828 .   Si darà principio allo spettacolo con una corsa di tutte  le barche di ogni qualità e grandezza, appositamente  trasportate da Venezia riccamente addobbate alla Turca,  Spagnuola, Veneta ec. non che delle gondole, battelli e  barche d’ogni forma. 4    — - 5o —   Al primo squillo di tromba avrà luogo la gara dei  piccoli battelletti a due remi eseguita da esperti rema-  tori di Venezia.   Finita tale corsa ad uu secondo segnale si slanceranno  nell’acqua dodici esperti nuotatori, i due primi vinci-  tori andranno a prendere i loro premi stabiliti.   Dopo tal gara vi sarà quella delle Bissone ad otto  remi dei remiganti Comascbi e del Po, contro i barca-  juoli Veneziani. Avendo avuto luogo una scommessa di  trenta pezzi da venti franchi, verranno questi depositati  al momento presso i giudici che ne disporranno a fa-  vore del vincitore. Sarà vincitrice quella delle Bissone  che compirà prima il quarto giro dell’Arena. Le due  Parti interessale in questa scommessa, saranno nelle ri-  spettive Bissone, onde animare vieppiù i remiganti da  loro scelti.    dboiue o Oo^u'oiMe'   ^teirn^o   cRo/mM'oatat»'»   BATTELLETTI A   DUE RI   EMI.   Calderau Andrea e Tasso Va-     lentino   I.   800   Friselle Bartolomeo e Bagarolto     Giuseppe   II.   4oo   Tedesclii Antonio e Papassissa   III.   ORI.    Giuseppe   N U 0 T A T   aoo   Clavanzani Giuseppe ....   I.   i 5 o   Sambo Domenico ..NELLA PRIMA   BISSONA   L.   Vendetta Girolamo, Celego Giuseppe, Gauasselle Girolamo,   Alberante Santo, Musico Giuseppe, Buranello Natale,  Marella Lorenzo, Forti Govanui.   Spettacolo del giorno 19 luglio 1829 .   Fra tutti gli spettacoli, ch’ebbero finora luogo in  questo magnifico anfiteatro, i più aggraditi certamente,  ed i più acclamati furono le corse delle bighe, dei  cavalli, e de’fantini a piedi. I   Il concorso straordinario di spettatori, di che in ogni  occasione di tali corse videsi affollato l’anfiteatro, ne fa  testimonianza. >   L’anfiteatro, già interamente ristaurato ed abbellito,  anche per cura dell’ iutraprenditore, fu elegantemente  disposto per lo spettacolo succennato.   Dall’istante in cui verrà aperto al pubblico l’anfiteatro  sino aH’incominciamento delle corse, e negli intervalli  di queste, due bande militari alterneranno degli scelti  pezzi di musica. Alle ore sei cominceranno le corse col-  l’ordine seguente:   I. Corsa di sei fantini a cavallo, che slanciandosi  dalle carceri al primo squillo di tromba prendendo la  via di mezzo alle due spine, indi la destra, percorreranno  tre volte l’anfiteatro compiendo l’ultimo giro d’avanti  al pulvinare, ove è stabilito il palio, e si troveranno  i signori delegati; fra i primi tre vincitori avrà poi  luogo una seconda corsa.   II. Altra corsa di sei fantini a cavallo.   III. Corsa a piedi, che verrà eseguita da otto giovani  dilettanti, che compiranno tre giri intorno alle spine, ed  ognuno dei tre vincitori riceverà una bandiera d’onore.   Ottennero questo premio:   I. Davide Dolnago. II. Giacinto Cipolla.   III. Domenico Comasco.   IV. Corsa di sei fantini a cavallo, vincitori nelle pre-  cedenti corse, onde disputarsi i primi premi.   Y. Corsa di sei bighe, che percorreranno esse pure  tre volte l’anfiteatro, compiendo parimenti l’ultimo giro  davanti al pulvinare.  vr. Altra corsa (li quattro bighcj 11 vincitore avra  una baudiera d’onore e il premio di Lir. loo.   Proprietario Bonella Gennaro.   Aurica Santino Redaelli.   VII. Corsa di quindici barberi, che non ebbe li suo  pieno effetto per impreveduto accidente.   Vili. Lo spettacolo verrà chiuso colla marcia trion-  fale del vincitori di cadauna corsa all’intorno dell’anfi-  teatro, partendo dalle carceri precedute delle bande  militari.    SLoiM/e e   Dei' Gix/va-lh   iSffjoute e Gogw/oiite  t'enfi/   6 Da/ ouAÌm/   ^ceuM'O   lli<   cRoilMUiOM-to»   iw/   CORSA DELLE BIGHE.    Giuseppe Preda   Paolo Traballoui   I.   800   Angelo Radaelli   Gaetano Rovelli   II.   600   Carlo Angioliai   Luigi Vimercati   III.   4oo   CORSA DEI EANTINI A   GAYAL   LO.   Salvatore Passi .   Salvatore Passi .   I.   600   Giuseppe Merlini   Pietro Brunello.   II.   0   0   Nicola Sangiorglo   Prances. Perrario   III.   3 oo   /    Spettacolo che si darà il ZO agosto 1829 . •   A tenore del manifesti già pubblicati avrà luogo il  già annunciato spettacolo di corse, aggiuntivi gli altri  divertimenti sotto indicati, il quinto dell’introito netto     — 53 —   è destinalo a sollievo dì alcune famiglie indigenti. A.n-  che per questo titolo non furono risparmiate spese, onde  lo spettacolo riesca più variato e più accetto.   I. Corsa di fantini a cavallo, i primi quattro, die giun-  geranno al palio, dovranno eseguire una seconda corsa  fra di essi per disputarsi i premi.   II. Coi'sa di dodici somarelli montati da gobbi-nani,  ciascuno di questi in diverso abito di carattere carne-  valesco, uscendo dalle carceri, eseguiranno due girl com-  piendo Tultlmo davanti al pulvinare.   Il primo del suddetti avrà un premio d’una bandiera  ed un borsellino con denari.   III. Seconda corsa dei quattro fantini a cavallo vin-  citori nella prima, per disputarsi i premi.   IV. Corsa di sei bighe che percorreranno tre volte  l’anfiteati’O, compiendo 1* ultimo giro davanti al pulvi-  nare. — Le prime quattro, che giungeranno al palio,  eseguiranno una seconda corsa per disputarsi 1 premi.   V. Seconda corsa delle quattro bighe vincitrici nella  prima corsa, per disputarsi i premi.   VI. Corsa de’ barberi, 1 quali restando chiusa la via  di mezzo alle spine, percorreranno tre volte l’anfiteatro,  compiendo l’ultimo giro davanti al pulvinare.   VII- Marcia trionfale dei vincitori, con corredo di  due bande militari che terminerà il giro davanti al pul-  vinare.   Vili. Nell’atto, in cui la marcia trionfale compirà il  giro, verranno incendiate sei grandi piramidi, collocate  alle estremità e nel mezzo delle spine, e sormontate da  altrettanti gran vasi. Altri quattro gran vasi collocati  pure sulle spine a diversa distanza, e diverse batterle  prenderanno fuoco nel tempo medesimo. L’anfiteatro ri-  marrà illuminato da un sorprendente fuoco del Bengal.   L’artista pirotecnico Antonio Zucchi si lusinga di pre-  sentare in questo breve passatempo un lavoro dell’arte  degno dell’ammirazione dei suoi concittadini.    Sei/   Dai OiWafK/   ’òecSv JìoLVU/acc      iJiMUMOiAtave   3 , 3   e iex, ^ (xvtùt*/v ecc.    "òli ^veuMo   COUSA DELLE BIGHE.    Preda Giuseppe   Trabattoni Paolo   I.   Quadr.   7 di G.   Ganavesi Giacomo   Rovelli Gaetano   II.   5   Gatti Gaetano .   Comisoli Carlo .   III.   4 »   Garillio Giuseppe   Pomè Giuseppe   IV.   6o lir. A.   CORSA DEI FANTINI A   CAVALLO.   Passi Salvatore .   Passi Salvatore .   I.   , Quadr.   ^ di G.   Merlin) Gius. .   Brunello Pietro   II.   3 »,   Castellani liorenz.   Brelino Andrea   III.    Pagani Giovanni   Smid Giacomo .   IV.   3o lir. A.   CORSA DEI BARBERI.    Castellani Lorenzo   Cavalla Inglese   I.   2 1/2 Q.   Sperati Luigi . .   Cavalla Transil-      vana   II.   1 1/2 »   1 »,   Nicola Gardinali   Cavallo Polacco   III.   La Quadrupla   di Genova equivale   ad Austr.   L. g5.    Grandioso spettacolo d’ equitazione eseguito  dalla compagnia del cavallerizzo Luigi  Guillaume il 5 ottobre 1829 .    I. Coi piacevoli e puerili travagli il piccolo Davidde  Guillaume in aspetto di amorino darà principio al trat-  tenimento. Farà detto fanciullo due volte il giro della  vasta Arena sul cavallo in piedi, ed arditamente mano-  vrerà secondo il solito, producendo quella meraviglia  che può destare un adulto coraggio in sì tenera età.     — 55 —   II. Nuovo spettacolo presenteranno sedici individui  alti ed in foggia di giganti patagoni dell’America, i quali  correranno due volte d’intorno al grande anfiteatro di-  sputandosi il palio.   IH. Tre cavallerizzi (ciascuno in piedi su due cavalli)  rappresentanti gli esercizii, e giuochi detti di Troja.   IV. Il più e più volte applaudito volteggiatore Luigi  Guillaume il figlio, si produrrà ora con sempre maggiore  impegno a dar saggi di sua intrepida perizia, del :nol-  tiforme travaglio su tre cavalli a dorso nudo ed a ra-  pidissimo corso.   V. Gara a celere corsa di varii giovanetti artisti, che  vestiti in costume inglese percorreranno per ben tre  volte l’arena a cavallo ad uso de’ fantini, ed il primo  percepirà la bandiera d^onore.   VI. Ricomparirà il predetto Luigi Guillaume guidando  in piedi quattro cavalli a dorso nudo.   VII. Marcia trionfale dei vincitori, corredata d’armo-  niose bande militari.   Vili. Alle spine centrali dell’Arena s’innalzeranno quat-  tro archi trionfali sfavillanti con fuoco d’ artifìcio —  Un giovine in abito d’antico guerriero, montato sopra  veloce corridore oserà lanciarsi con furiosa corsa in mezzo,  e fendere replicate volte l’ una dietro l’ altra le ignee  macchine, offrendo all’occhio stupefatto misto il diletto  collo spavento. In questo punto il grande anfiteatro si  troverà all’istante illuminato dal più brillante splendore  d’un fuoco del Bengal.    Spettacolo diesi darà il ÌG maggio 1830  dalla famiglia Uetz.   Una parte dei presenti divertimenti, è affatto nuova  per l’anfiteatro. La famiglia Uetz, a cui ne è appoggiato  l’esecuzione, è nella ferma fiducia, che se le particolari  sue fatiche nelle grandi forze d’Alcide, negli equilibri,  e nelle piramidi Greche non riesciranno di sorpresa.   come nei molti teatri in cui furono eseguite; lo saranno  a motivo della grandezza del circo. Essi sono divisi come  segue:   Da una corsa di fantini a piedi, e cuccagne, e da  un magnifico fuoco d’artificio.   I. Due ricche ed eleganti cuccagne erette nel mezzo  dell’arena, ed a conveniente distanza l’una dall’altra. I  contendenti all’acquisto saranno contraddistinti con segui  particolari.   IL Equilibri e Piramidi Greche della numerosa fa-  miglia Uetz, eseguite sovra il gran palco appositamente  innalzato nel mezzo del circo.   III. Corsa di dodici fantini a piedi, percorreranno  l’arena tre volte, ed i primi che arriveranno al palio  percepiranno la bandiera d’onore.   Il primo. Davide Colnago.   Il secondo. Giacinto Colnago.   Il terzo. Eugenio Feltrini.  Attitudini e posizioni dell’alcide Francesco Uetz  e di quattro fanciulli sovra un gran carro tirato all’in-  giro dell’arena da quattro cavalli riccamente bardati.   V. Grandi forze d’Alcide sul palco posto come sopra.   VI. Marcia dei fantini e di tutti quelli che compone-  vano lo spettacolo accompagnati da due bande militari.   \1I. Gran fuoco artificiale diviso come segue;   Tre grandi girasoli, rappresentanti l’iride al naturale.   Gran fuoco di battaglia con duecento colpi di bomba,  ed otto esplosioni di palle lucenti.   Tre sorprendenti cascate di fuoco.   Esplosione di ventiquattro grandi miniere.   L’aurora.   Magnifica decorazione rappresentante il tempio della  Gioja, con diversi ornamenti di fuoco, e due iscrizioni  trasparenti.   Illuminazione generale di tutto l’anfiteatro con fuochi  del Bengal, imitanti lo splendore del sole. Durante la  decorazione succennata verrà innalzata una grande quan-  tità di razzi, e verranno tirati moltissimi colpi di can-  none e di bomba. Spettacolo equestre eseqiiito dalla coinpafjìiìa    dì Alessandro   1850.    Guerra., nel 5 1    maggio    Alessandro Guerra non dimenticò nel giro di tre anni  i pegni gentilissimi di cortese favore accordali agli spet-  tacoli da lui dati nell’estate 1827 in questo stesso anfi-  teatro ed è appunto questo ricordo che lo incoraggia  a rinnovare in questa per lui propizia circostanza altro  trattenimento.   I . Corsa di cinque cavalli a dorso nudo, ed a gran  carriera del giovinetto Giorgio Cocchi, il quale montato  in piedi sopra due, guiderà gli altri tre in avanti.   II . Corsa dei jokejs inglesi a cavallo con tre premj.   III. Corsa di tre damigelle, percorrendo sul cavallo     che giungerà al palio, otterrà in premio un’elegante  sciai pa. prima Elisa Sciiier.  Gara a gran carriera, eseguita fra quattro gio-   vinetti allievi, che dovranno percorrere tre volte l’arena  ad uso de’fanllni. Il primo fra d’essi che arriverà al  palio, avrà in premio trenta fiorini moneta di conven-  zione. primo Giorgio Cocchi.   V. Eserclzj delti giuochi di Troja eseguiti da tre  cavallerizzi, in piedi sopra due cavalli contemporanea-  mente, ed a gran carriera percorreranno per tre volte  l’ampio circo; assegnandosi a quello, che arriverà il primo  al punto di fermata in premio una ripetizione d'oro.   Il primo Pietro Ghelia.   VI. Il Guerra col mezzo di artisti più scelti di Mi-  lano, e di pirotecnici di Roma si è prefisso di presen-  tare uno de più grandi apparati di fuochi artificiali.   Nel mezzo deU’amhuIacro superiore alle carceri sarà bnsato un grandioso edifizio, che rappresenterà l*e-  slenio di un magnifico tempio di stile greco decorato  da otto colonne con figure e gruppi allusivi a Plutone  e Proserpina. Le sottoposte arcate, pure presenteranno  una caverna, dalla quale escirà un carro ornato da ana-  loghi emblemi tirato da quattro cavalli fiancheggiato da  furie che offrirà allo sguardo degli spettatori il Ratto  di Proserpina in mezzo ad una voragine di fuoco.   Si darà principio ai fuochi con un assortimento di  razzi con lumi e pioggia d’oro, ed altri con batteria.   Nel centro del circo succederà una moltiplicità di fuo-  chi variati fra loro.   Le decorazioni del tempio, in cima del quale vi sa-  ranno Plutone e Proserpina, saranno illuminati a giorno  con lance a diversi colori, candele romane, e pioggia di  fuoco.   La caverna sarà pure intrecciata da tourbillons, can-  dele e fuochi in diversi modi, che termineranno con  colpi ed esplosioni.   Una moltiplicità di colpi di grandi racchette, che  parteranno delle due torri sopra le carceri, e che incro-  cicchiandosi in aria produrranno un vivissimo effetto.   Al termine dello spettacolo l’anfiteatro presenterà quasi  un nuovo emisfero, restando in un momento illuminato  da un sorprendente fuoco di Bengal.    (Sfioom'e e   ?ei.   Sei/ Owaffi.   Sffjome e Go^weiive   M Gfoóòi/   l/W. ..^£,6 elio.   Sperati Luigi .   Brunelli Pietro   I.   3oo   Gallarati Giacomo   Gaggia Bortolo   ir.   300   Vignati Giovanni   Cozzio Giuseppe   irr.   100    Spettacolo dato dalla compagnia del caval-  lerizzo Guerra li 6 giugno 1830 .   Sensibile il rispettoso cavallerizzo Alessandro Guerra  ai generosi pegni di favore continuamente accordati ai  suoi esperimenti, nell’ atto di sortire da questo suolo  felice, studiò di dare ad ultimo pegno di riconoscenza  un nuovo straordinario soggetto di trattenimento al rispettabile Pubblico.   I. Corsa di dodici fantini a piedi, i quali dovranno  eseguire tre intieri giri, per l’ effetto che i tre primi,  che perverranno alia meta abbiano poi a cimentarsi in  altra corsa.   il. Corsa di fantini a cavallo, i quali dovranno com-  pire per tre volte l’intero giro dell’Arena, ed i primi  tre, che arriveranno alla fermata, dovranno cimentarsi  in altra corsa per decidere de’pi'emj.   III. Corsa di cinque cavalli a dorso nudo, ed a gran  carriera del giovinetto Giorgio Cocchi.   IV. Corsa di una seconda schiera di altri dodici fan-  tini a piedi.   V. Corsa di tre damigelle. La prima, che giungerà  al luogo fissato, otterrà in premio una collana d’oro   che fu Annetta Dcpcy.   VI. Gara a gran carriera sopra piccoli cavalli eseguita  tra i quattro giovinetti allievi, il primo fra d’essi che  arriverà al palio, avrà in premio trenta fiorini in C. M.   che fu Gaetano Ciniselli.   VII. Corsa di sei fantini a piedi, che primi giunsero  alla meta nelle due corse precedenti, per determinare l’as-  segnamento loro fissato.   Vili. Esercizj detti giuochi di Troia, eseguiti da tre  cavallerizzi assegnandosi a quello, che arriverà alla meta  il premio d’una spilla di brillanti   che fu Giorgio Coccia.   IX. Giuochi atletici e ginnastici eseguiti da quaranta  lottatori anfiteatrali.  Corsa di Ire fantini a cavallo risultanti i primi  nella corsa precedente per determinare fra loro i premi.   XI. Ad oggetto di render più dilettevole il tratteni-  mento il Guerra procurò due artisti funambuli per opera  de’quali averà luogo il Ratto di Proserpina, e con la  replica del fuoco artificiale, che ebbe luogo il 3i mag-  gio i83o.    SlLoiive 6 Go^woiive  Se)/   Sei/   allÓoi4i« 6 Go^twiu/e  dei ^ cmIÙmui   ^veimo   IM.   clbiuiivoiitei&e   IM/ =^. clbu'iit.   CORSA DEI FANTIINI A   CAVALLO.   De Micheli Gius.   Galimberti Luigi   I.   3oo   Manini Francesco   Mazzoli Cipriano   li.   200   Vignati Giovanni   Palmoto Palma .   III.   100   CORSA   DEI FANTINI   A PIEDI.    Colnago Davide   I.   100    Tralanzi Giuseppe   IL   8o    Madera Giovanni   III.   Spettacolo pel 29 giugno 1830 .   Lo spettacolo sarà de’più variati e interessanti. Alle  corse delle bighe e dei cavalli, che fu sempre il diver-  timento nell’anfiteatro il più aggradito ed acclamato,  come quello che alletta non solo, ma che desta entu-  siasmo ed ammirazione, chiamando lo spettatore a par-  tici pare dei generosi sforzi della bravura e del coraggio,  saranno frammischiati dei divertimenti puramente car-    — 6i —   nevalesclii, trasporlall dal palco e dalla scena per de-  stare le risa.   I. Passeggiata mimica in maschera. Il tanto applau-   dito balletto eseguitosi nel p. p. carnevale neU’I. R. Tea-  tro della Scala.'   La comitiva si compone di un araldo a cavallo, e di  dodici caricature villereccie a cavallo in diversi brillanti  caratteri, cioè:   Paesano Giardiniere Savojardo — Montanaro Savojardo  — Maltese — Rezio — Chinese — Spagnolo — Catala-  no — Samuese — Celtico — Greco — Frascatano —  Stentarello.   Quadriglia a piedi.   Giove — Giunone — Minerva — Mercurio — Apollo —  Diana — Ercole — Marte — Nettuno — Plutone —  Dio Termine — Diavolo — Bacco — Satiro — Don  Chisciotte — Sancio Pancia — Uffiziale Svizzero — Spa-  glinolo — Turco — Gran Gigante — Spaccamondo —  Due Chinesi — Donna in caricatura — sei caricature  diverse — sei Arlecchini — sei Lapouf — Pulcinella  Italiano — Pulcinella Francese — Girolamo — Vecchio  Bamboccio — Piccola Vecchia — Balia.   II. Schiera di sei fantini a cavallo.   HI. Altra di sei fantini a cavallo, i tre primi di ca-  dauna corsa, che giungeranno al palio dovranno cimen-  tarsi in una terza corsa per disputarsi i premi.   IV. Schiera di dodici piccoli cavalli montati dalle  succennate caricature.   V. Schiera de’sei fantini a cavallo vincitori nelle pri-  me corse, per disputarsi i premi.   VI. Gran carro elegantemente ornato, tirato da quat-  tro cavalli in ricca bardatura, e preceduto dall’Araldo,  nel detto carro Francesco Uetz eseguirà ai quattro an-  goli dell’anfiteatro le forze d’Alcide, ed i sorprendenti  equilibri, nei quali fu altre volte tanto applaudito.   VII. Corsa di sei bighe, le prime quattro a giungere  al palio dovranno eseguire un^altra corsa per disputarsi  i premi.   Vili. Gran carro come sopra, su cui dalla famiglia  Uetz saranno eseguite piramidi ed attitudini Greche.    iX. Seconda corsa delle quattro bighe vincitrici nella  prima, per disputarsi i premi.   X. Schiera de’sei piccoli cavalli vincitori nella prima  corsa, che ne eseguiranno una seconda per disputarsi i  premi.   XI. Marcia trionfale dei vincitori nelle corse sopra i  l’ispettivi cavalli e bighe, aperta dall’ Araldo come sopra.   XII. Gran bouquet di fiori a fuoco d’artificio e bat-  teria, lavoro dell’artista pirotecnico Giuseppe Uetz, al-  l’usciU tutte le porte saranno illuminate.    Dei» ^tepwetir^  ì)ct/   iDfooitve e   i^owc/i<yt   6 Jet/ <5^ aw.tii*i/   liv 0^41   (J^omnuoM/ltvoe  Se? ^teuuo  iiv oiWi.   CORSA DELLE BIGHE.    Preda Giuseppe   Trabattoni Paolo   I.   700   Galli Gaetano .   Vimercati Luigi   II.   5 oo   Gattoni Giacinto   Comisoli Carlo .   III.   4oo   Garillio Giuseppe   Pomè Giuseppe   IV.   3 ao   CORSA DEI FANTINI A   CAVAL   LO.   Fassi Salvatore .   Smith Giacomo.   I.   400   William Mreglit   William Giansi.   II.   3 oo   Creizer Antonio   Varesi Gaetano.   III.   EOO   CORSA   DEI PICCOLI   CAVALE   I.    Piaggio Giuseppe   I.   100    Ronchi Felice .   IAgostino Galli .   III.   5 o     Grandioso c tutto nuovo spettacolo^ che per  opera di Luigi Henry si eseguirà il 1  agosto 1850 .   I. Gran coro pescareccio alla siciliana composto dal  maestro di musica sig. Panizza, diretto dal sig. Granatelli  td eseguito da cinquantadue dei migliori e più esperti,  coristi di questa capitale coll’accompagnamento d’una  numerosa banda militare, composta di novantadue pro-  fessori, durante il quale gli aspiranti ai premj dei dif-  ferenti giuochi si presenteranno al concorso.   II. Corsa dei nuotatori, che sarà di tragitto assai breve,  il premio del vincitoi’e sarà di austriache lir. loo.   Premiato Gixisei’pe N., fabbro-ferrajo in S. Celso.   III. Giuochi d’equilibrio, due dei concorrenti, che  avi’anuo la destrezza di stabilirsi i primi in piedi sul  palo uno alla destra e l’altro alla sinistra delle carceri,  acquisteranno ciascuno una posata d’argento.   Premiali. Annibale Isman. Antonio Fava.   IV. Corsa dei selvaggi del mare del sud, nelle piroghe  delle isole di Sandwich, scoperte dal capitano Cook, che  faranno l’intero giro dell’arena. Il premio del vincitore  sarà di austriache lire lOQ.   Premiato. Giuseppe Arnaboldi.   V. Giuoco dei bilancieri, ossia , giostra di mare sospesa  innanzi alla porta libitinaria. Il primo campione, che  avrà rovescialo due de’ suoi avversai] avrà in premio  della sua destrezza, una tazza d’argento.   Premiato. Filippo Megname.   \ I. Corsa di due campioni in piedi a fior d’acqua,  che partiranno dalle carceri ed attraverseranno l’arena  in tutta la sua lunghezza. Il vincitore avrà in premio  di austriache lire loo.   Premiato. Gaetano Ricco.   \ll. Giuoco dei due alberi di Cipresso, dirimpetto  alla porla trionfale, un bicchiere d’argento collocato alla     cima (11 ciascuno del due alberi, sarà 11 premio del vin-  citore.   Premiati. Pietro Mur\tori. Domenico An(;isola.   Vili. Giuoco delle corde, come si pratica sui vascelli  d’alto bordo, in facciata al pulvinare. Ciascuno del due  vincitori avrà il premio d’un orinolo d’oro.   Premiali. .Antonio Rossi. Davide Colnago.   La Balena escirà da una specie di chiavica praticata  alla porta trionfale, ed attraverserà più volte il recinto  dell’arena coll’andamento suo naturale, e con tutti gli  spontanei suol movimenti, aprendo l’immensa bocca col  maneggio della lingua, girando gli occhi e la testa,  versando grandi getti d’acqua dei vasti spiragli alla  sommità del suo capo, e movendo in lutti i versi la  voluminosa sua coda, a segno di dare una precisa idea  della forma e natura di questo gran mostro marino.   X. Sarà ripetuto il gran coro sul cader della notte.   XI. Corsa (11 due barche illuminate l’una di lanterne  gialle, l’altra di lanterne rosse. Queste faranno il giro di  tutta l’arena partendo dal pulvinare, e la barca vinci-  trice nella corsa avrà il premio di austriache lire loo.   Premiato. Antonio Gregol.   XII. Una generale illuminazione in parte stabile, in  parte galeggiante   Quattro fontane di fuoco, lavoro del signor Uetz,  annunzieranno al pubblico il termine dello spettacolo.    Spettacolo che darà Francesco Uetz il 26  settembre 1850 .   Il suddetto si produrrà con corse di fantini a cavallo  unitamente alla compagnia di Syberlus Vansuest, che  eseguirà quanto di più difficile e variato in equestri eser-  cizii presenta la scuola del celebre Franconi di Parigi.   I. La picciola milanese, d’anni sette, in abito d’amore  percorrerà due volte l’anfiteatro in piedi sul suo cavallo.  ed eseguendo passi ed attitudini superiori alla sua età  sarà regalata d’una bandiera.   II. Corsa di sei fantini a cavallo, che in abito da  mammalucchi, eseguiranno tre giri intorno all’anfiteatro.   III. Corsa di tre cavallerizzi in piedi sopra due ca-  valli. La corsa sarà di due giri. Al vincitore saranno  date aust. lir. loo ed una bandiera   il vincitore fu Colombet.   lY. Corsa di altri sei mammalucchi a cavallo, che come  i precedenti, eseguiranno tre giri intorno al circo.   V. Corsa a cavallo di due donne, vestite da Amaz-  zoni, ed accompagnate da due cavallerizzi. Eseguiranno  esse tre giri. La vincitrice otterrà una bandiera d’onore  con appesa una ricca sciarpa   che fu madama Bertotto.   VI. Corsa dei primi tre mammalucchi vincitori in  cadauna delle precedenti due corse, per disputarsi i premi  di N.” 4 doppie di Genova il primo. N.° 3 il secondo.  N. 2 il terzo, e zecchini tre il quartoj i vincitori fu-  rono:   Proprietarj de’ cavalli.   I. Passi Salvatori. IL Ratti Giuseppe. III. Maninj Francesco  IV. Vignati Giovanni.   Fantini.   I. Smith Giacomo. II. Cattaneo Luigi. III. Mazzoli Cipriano.  IV. Cozzio Giuseppe.   VII. Corsa sopra tre cavalli, eseguita in piedi dal gio-  vinetto Tardini, d’anni dieci, vestito alla Romana, farà  due giri. Avrà egli pure una bandiera d’onore.   Vili. La vincitrice madama percorrerà il circo, se-  guita da tutta la comitiva dei vincitori, portanti cia-  scuno la propria bandiera.   E per ultimo gran fuoco variato d’artificio, col quale  s’illuminerà il «gran tempio situato innanzi alla porta  principale dell’anfiteatro. Oltre i fuochi del Bengal vi  sarà una continua esplosione di colpi di cannone e di  bombe.    5    Straordinario, equestre, pirotecnico, areosta^  tico spettacolo che darà la compagnia di  Alessandro Guerra il 5 giugno 1851 .   Il suddetto darà equestri esercizi unitameute a corse  di jockeys a cavallo, esperimenti areostatici e fuochi  artiOciali; detto spettacolo sarà diviso come segue:   Grand’entrata di tutti gli artisti della compagnia, che  col corredo di due bande militari eseguiranno il giro di  tutto Tanfiteatro.   I. Gara a gran carriera sopra piccoli cavalli eseguita  da quattro giovinetti allievi, che dovranno percorrere  per tre volte l’intera Arena ad uso de’fantini. II primo,  che ira d’essi arriverà al palio avrà in premio una ban-  diera   e fu Rodolfo Guerra.   II. Corsa dei jockeys inglesi a cavallo, dovranno essi  compiere tre giri intorno alla spina ovale, ed i primi  tre, che arriveranno alla meta, dovranno cimentarsi in  un’ altra corsa pure di tre giri per disputarsi i premi.   III. Corsa di quattro madamigelle, che percorreranno  tre volte l’Arena: le prime due, che giungeranno alla  meta, dovranno eseguire altri tre giri per ottenere la  bandiera d’onore.   Premiata Elisa Schier.   I   IV. Verranno innalzati in aria alcuni palloncini col  mezzo del gas idrogene, che non saranno discari agli  spettatori. Corsa di cinque cavalli a dorso nudo, ed a gran  carriera del giovine Giorgio Cocchi, eseguendo tre giri  intorno la spina ovale.   VI. Corsa dei tre jockeys a cavallo risultanti i primi  nella corsa precedente per determinare fra loro i premi, pel primo di ausi. lir. 3oo — pel secondo 2oo — pel  terzo lOo, i vincitori furono;   Proprietarj de* cavalli.   Sperati Luigi. Mreght William. Merlo Giuseppe.  Jockey s.   Brunelli Pietro. Giansì William. Gambarino Giovanni.   Giuochi di Troja di tre cavallerizzi eseguili in  piedi sopra due cavalli, ed a gran carriera percorreranno  tre volte Tampio circo assegnando al primo uUa ban-  diera d’onore.   Premiato Bartolomeo Volani.   Vili. Altro esperimento areostatico coll’ascensione d’un  pescatore col pesce rombo. Tenzone dei due artisti sopra tre cavalli a gran  corso, eseguiranno essi tre giri, ed il primo che arriverà  al palio otterrà una bandiera d’onore.   Premiato Bartolomeo Volani.   Al termine dello spettacolo l’anfiteatro presenterà quasi  un nuovo orizzonte pel magnifico fuoco d’artificio opera  d’un artista romano, restando in un istante illuminalo  da fuochi di Bengal.    Equestre spettaeolo variato cogli Elefanti,   La compagnia del cavallerizzo Benedetto Tourniaire  nel 3i luglio i83i, ottenuta la superiore permissione  di fare nel soprannominato giorno un interessantissimo  trattenimento in questo grande anfiteatro, si propone  essa di segnare cosi fatta avventurosa circostanza col-  l’offei-ta d’uno spettacolo d’Equitazione varialo con di-  vertimenti, che nulla avranno di comune con quanti al-  tri, se ne sono dati finora.   I. Grande entrata di tntti gli artisti, che col corredo  di banda militare, e di trombettieri militari a cavallo,  eseguiranno il giro di tutto l’anfiteatro.  Gara a celere corsa di quattro giovinetti vestiti di  jockeys inglesi, percorreranno tre volte il circo, ed il  primo de’quali arrivato al palio riceverà la bandiera.   Il vincitore Nicolò Moro.   III. Corsa di otto contadini i quali correranno tre  giri, ed i primi quattro, che giungeranno alla meta,  dovranno nuovamente in un’ altra corsa disputarsi tre  premj.   IV. Tenzone di due Greci che sopra due cavalli a  schiena nuda per due giri, eseguiranno nel secondo giro  il salto di due barriere, ed il vincitore avrà una bandiera  d’onore.   Il vincitore fu Luigi Tourniaire.   V. Esercizi all’Inglese eseguiti da sei cavallerizzi asse-  gnandosi ai primi due, che arriveranno alla meta due  premi; al primo un pajo speroni d’argento, ed al se-  condo un anello d’oro. I vincitori sono:   Primo Luigi Naicase.. Secondo Carlo Reichard.   VI. Corsa di quattro damigelle sul cavallo, col pre-  mio d’un braccialetto e un pajo d’orecchini d’oro. Vin-  citrici:   Prima Adelaide TourniAire. Seconda Maria Collet.   \II. Corsa di quattro artisti ciascuno in piedi sopra  due cavalli col premio d’un pajo speroni d’argento e  d’un anello d’oro. Vincitori:   Primo Francesco Lavelliè. Secondo Luigi Tourniaire,   Vili. Corsa dei primi quattro contadini vincitori, che  nuovamente percorreranno con tre giri l’anfiteatro per  disputarsi 1 premj, pel primo aust. lire 200, secondo  i 5 o, terzo 100. Vincitori:   I. Pietro Bianchi, lì. Luigi Cattaneo. 111 . Felice Ronchi.   IX. Ricomparirà Luigi Tourniaire, stando in piedi  sopra due cavalli a dorso nudo manovrando altri quattro  cavalli.    X. Esercizi di quattro Cosacchi col premio d’itn oro-  logio d'oro, ed uno d’argento. Vincitori:   Primo Francesco Tourniaire. Secondo Carlo Delneccui.   XI. Grande pompa trionfale con due Elefanti magni-  ficamente ornati e montati da madamigella Adelaide  Tourniaire, e da Mattias Steffani.   XII. Chiuderà lo spettacolo quattro archi trionlali  illuminati d’un fuoco d’artifizio.    Grandioso spettacolo intitolato Vincendio di  Rokeby, pel 22 agosto 1851 .   Sarà costruito in mezzo dell’arena un magnifico ca-  stello d’ordine gotico-inglese, lungo cinquanta braccia,  proporzionatamente largo ed alto, della forma d’un ot-  tangono oblungo con quattro torri agli angoli.   La parte principale dello spettacolo consisterà in una  manovra in grande, eseguita nel suddetto castello dive-  nuto preda delle fiamme, da pompieri veterani di questa  città, cioè quelli che hanno servito in questo corpo, sotto  ottima direzione, la qual manovra sola durerà per lo  meno un’ora ed un quarto, offrendo ad ogni istante i  più superbi e variati colpi d’occhio, finché le quattro  torri ed altre parti del castello cadranno col fragor del  tuono, diffondendo una luce vivissima, il che unita-  mente ad un combattimento al di fuori del castello,  offrirà un colpo d’occhio de’più imponenti che si pos-  sono immaginare.   Gl’incidenti dello spettacolo consisteranno in un bom-  bardamento ed espugnazione del castello, in diversi  combattimenti interni ed esterni, marcie ed altre azioni  mimiche con musica scelta espressamente a tal uopo.   Agiranno in questo straordinario spettacolo oltre il  corpo suddetto di pompieri un corpo di castellani, un  corpo di banditi, un corpo di truppe regolari con arti-     gìieri condotti da diversi capi, un seguito di damigelle  di Matilde, signora del castello di Rokeby, tutti vestiti  ed armati analogamente.   Valentissimi artisti gareggieranno, affinchè lo spetta-  colo sia degno del magnifico anfiteatro, nel quale viene  rappresentato, e possa divertire, e fors’anco sorprendere,  questo coltissimo pubblico e quest’inclita guarnigione  sempre giusti nel pronunciare i loro giudizj.   11 grande spettacolo, che si doveva dare jeri 22 ago-  sto nell’Arena di questa città vi attirò molto concorso  di spettatori.   La riuscita non avendo corrisposto all’aspettazione, il  Pubblico manifestò la sua disapprovazione con grida, e  la parte meno educata ridusse in pezzi le sedie e le ta-  vole di cui erano muniti i sedili. La maggior parte però  degli spettatori si disponeva già tranquillamente alla  partenza, quando apertesi tutte le porte per la sortita,  una moltitudine del basso popolo si presentò al di fuori  per entrare nell’anfiteatro, dove voleva distruggere per  vendetta il fiuto castello di Rokeby, argomento dello    spettacolo.   Le guardie militari essendo accorse per Impedire que-  sto pericoloso accesso della moltitudine tumultuante, ven-  nero investite a colpi di pietre^ per cui alcuni soldati  ed impiegati rimasero feriti.   Un distaccamento militare dopo aver resistito per lungo  tempo alla sfrenatezza della plelie, tornati vani i tentativi  per allontanarla, nè potendo più oltre difendersi, inco-  minciò daU’cseguire esplosioni di fucile in aria, per in-  cutere timore, ed infine non avendo ottenuto effètto al-  cuno, ed incalzando sempre più la moltitudine, fece sca-  riche a palla.   Un individuo venne così sgraziatamente colpito amorfe,  ed altre dieci più o meno gravemente feriti.   La moltitudine allora si disperse, ogni tumulto, che  d’altronde limitossi alla sola località dell’anfiteatro cessò,  e questo disordine non ebbe altre conseguenze sulla tran-  quillità pubblica, la quale era in tutte le altre parti  della città nella medesima sera^ come all’ordinario per-  fetta.   Spettacolo equestre eseguito da Alessandro  Guerra il 15 giugno 1834 .    Consistente nella corsa delle bìglie — nella corsa dei  Jockeys a cavallo — Corsa di Giorgio Cocchi sopra cin-  que cavalli a dorso nudo — Corsa di quattro dami-  gelle vestite alll’Amazzone col premio d’uu’elegante sciarpa  che l’ottenne   Leonilda. Carrara.   Forze da^Gladlatori sopra cavalli, eseguiti da Antonio  Brand e Gaetano Ciniselli — Esercizi di Troja, eseguiti  da quattro cavallerizzi col premio d’una ripetizione d’oro  ottenuta da   Giorgio Cocchi. >   Avrà fine lo spettacolo con un dilettevole fuoco d’ar-^  tificio terminante collo scoppio d’una batteria.    afonie e GogwoiM'6  ?ei. 5'x'Opwe^oW'j   Dei Oai’idli'   elGoiite 6 Gogirowve'  De^Pi clbiKti^*  e 5ocke^A   IH/   ailomiMOute^e  De-E ^teiwto  iw/ cHauA.   CO   RSA BELLE BIGHE.   1    Sperati Giuseppe   Rovelli Gaetano   I.   5oo   Consoni Francesco   Yimercati Luigi   \   II.   200   CORSA DEI JOCR   EYS.    Guerra Alessandro   Ciniselli Gaetano   I.   3oo   Suddetto . . .   Volani Bartolomeo   II.   200   Spettacolo equestre del detto Guerra il 22  giugno 1 854 ,   Consistente nelle corsa delle bighe — Corsa dei fan-  tini a cavallo — Corsa di tre damigelle sopra due ca-  valli pel premio d’tma spilla di diamanti e corona d’al-  loro, la vincitrice fu   Leonilda Cariura.   Altra corsa di Giorgio Cocchi dirigendo sette cavalli  Esercizi dei Gladiatori — Corsa di quattro dami-  gelle a cavallo col premio d’un anello vinto da   Luigia Letard,   Avrà fine lo spettacolo con un fuoco artificiale, re-  stando illuminato l’Anfiteatro da fuochi di Bengal.    eTCtfiue e Oo^u/diue  Sei/   dei Oa(;ixl^   eHaoitie e Oo^uoiu'e   e del ^ oaitiiu   ^vatMO   Uh   ’^om/movXaK/e  deE ^velino   IH cllou/A.   CORSA DELLE BIGHE,    Sperati Giuseppe   Rovelli Gaetano   I.   5oo   Consoni Francesco   Vimercati Luigi   II.   CORSA DEI FANTINI A   CAVAI   LO,   De Micheli Frane.   Ciniselli Gaetano   I.   aSo   Guerra Alessandro   Volani Bartolomeo   II.   i5o   Grisetti Carlo ,   Cozzi Giuseppe.   III.   100    I   t-      re spettacolo    Consistentt  tini a cavalle  valli pel prei  loro, la vinci   Altra corsa  »— Esercizi d  gelle a cavali   Avrà fine ’  stando illumi    (Set ^topwela.  deir Qrava^    Sperati Giusef  Consoni Frane   CORSi   De Micheli Fri  Guerra Alessat  Grisetti Carlo. Getty. Keywords: i giochi olimpici, Ikko, Crotone, Taranto. Branciforte. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e del Vasto," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Brandalise – il municipio di Firenze –albero fiorito -- immune, comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “I would say that Brandalise is a Griceian – his tutees know it! He has philosophised on keywords: communicazione, l’altro, indeed what he calls the Kantian transcendental necessity of ‘l’altro,’ and the idea of a ‘collective’ desiderio – or comunita – What is that if not my philosophy of communication?” Adone Brandalise (Pistoia) è un critico letterario, letterato e accademico italiano. Si è laureato nel 1972 con Vittore Branca con una tesi dal titolo L'opera e la critica. Esperimenti critici su testi narrativi italiani, in cui vengono sperimentati nuovi metodi critici su testi di Alessandro Manzoni e Carlo Emilio Gadda.  Professore di teoria della letteratura presso l'Padova, la sua attività di ricerca si caratterizza per il costante intreccio tra riflessione filosofica e psicoanalitica con l'interpretazione del testo letterario. I luoghi seminali della sua ricerca vanno individuati nello studio di Spinoza e Plotino, cui si dedica sin dalla giovinezza, di Hegel e dell'idealismo tedesco, oltre che nell'approfondimento risalente agli anni Settanta dell'opera di Jacques Lacan.  Promotore di numerose iniziative scientifiche, tra cui alcuni progetti di didattica e ricerca legati agli studi interculturali, ha collaborato a riviste quali "Lettere italiane", "Studi novecenteschi", "Immagine riflessa", "Il centauro", "Filosofia politica" o "Trickster".  Tra i temi che segnano la sua ricerca vanno senz'altro segnalati alcuni molto ricorrenti: il problema della singolarità, il rapporto tra mistica ed evento soggettivo, quello tra pensiero filosofico e azione politica, quello tra poesia e pensiero. Attentissimo cultore della musica operistica e del cinema, tra gli autori che maggiormente animano la scena della sua riflessione, affidata soprattutto all'oralità, sono Platone, Leopardi, Melville, Nietzsche, Shakespeare, Luis de León, Max Ophüls e Orson Welles.  Operaismo Brandalise opera sin dal 1973 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Padova, dove anima e partecipa a partire dagli anni settanta alla costituzione di numerosi seminari e momenti di studio, anche in relazione con i dibattiti dell'operaismo. Oltre all'attività sindacale, in comunicazione con Guido Bianchini (Padova, 19261998), segna questa fase di sua riflessione politica il lavoro svolto "off air" nella direzione romana di "Il Centauro. Rivista di Filosofia e teoria politica" (1981-86), nel cui comitato direttivo operavano anche Nicola Auciello, Adriana Cavarero, Remo Bodei, Massimo Cacciari, Umberto Curi, Giuseppe Duso, Roberto Esposito, Giacomo Marramao, Giangiorgio Pasqualotto, Biagio De Giovanni (direttore) e Roberto Racinaro.  Il Centauro, rivista pubblicata dall'editore Guida, nasce in una fase storica segnata dal caso Moro, dal compromesso storico, dal teorema Calogero. L'idea dei redattori era di avviare un laboratorio politico in cui potessero intervenire intellettuali legati al PCI, anche se in modi spesso prossimi al dissenso. Tuttavia non compare nelle rievocazioni più recenti degli anni dell'operaismo il nome di Brandalise, certo per la relativa assenza di suoi interventi scritti, ma anche per il coagularsi del suo percorso politico negli anni Novanta intorno alla "nozione sintomatica" di politica invisibile e poi, nel decennio successivo, di decostituzionalizzazione.  Opere Oltranze. Simboli e concetti in letteratura, Padova, Categorie e figure. Metafore e scrittura nel pensiero politico, Padova, 2003. con E. Macola, Psicoanálisis y arte de ingenio: de Cervantes a María Zambrano, Malaga, Miguel Gomez, 2004 con E. Macola eSanchez Otin, Bestiario lacaniano, Milano, Bruno Mondadori, 2007. L'immagine del territorio e i processi migratori, in M. BERTONCIN, A. PASE, Territorialità, Milano, Franco Angeli, 2007. In weiter Ferne so nah. In margine al sermone Beati Pauperes, in (G. Panno) Il silenzio degli angeli. Il ritrarsi di Dio nella mistica medievale e nelle riscritture moderne, Padova, Unipress, 2008,  157–163. Oltre la comparazione. Modi e posizioni del pensiero dopo l'intercultura, in (G. Pasqualotto), Per una filosofia interculturale,  59–69, Milano, Mimesis, 2008. Introduzione (con A. Barbieri), in (A. BarbieriMura, G. Panno), Le vie del racconto. Temi antropologici, nuclei mitici e rielaborazione letteraria nella narrazione medievale germanica e romanza, Padova, Unipress, 2008,  I-XXVIII. Il multilinguismo nella mediazione (con A. Celli, K. Rhazzali, E. Sartori), in (G. Mantovani) Intercultura e mediazione, Roma, Carocci, 2008. Postfazione, in C. Tenuta, Dal mio esilio non sarei mai tornato, io. Profili ebraici tra cultura e letteratura nell'Italia del Novecento, Roma, Aracne, con N. Fazioni, Cosa cambia con Lacan? Saperi, pratiche, poteri, in International Journal of Žižek Studies, Dentro il confine, Milano, Mimesis,.  Metodi della singolarità, Milano, Mimesis,.  La necessità dell'Altro: scritti in onore di Adone Brandalise, Milano, Mimesis,.  978-88-575-6349-7  Dario Gentili, La crisi del politico. Antologia di "Il Centauro", Guida (2007) Adone Brandalise  adonebrandalise: Sito dedicato all'opera e al pensiero di Adone Brandalise  Podcast degli interventi del Rpf Adone Brandalise    Biografie Letteratura  Letteratura Università  Università Categorie: Critici letterari italiani del XX secoloCritici letterari italiani del XXI secoloLetterati italianiAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1949 16 giugno Pistoia. Adone Brandalise. camlet bound round the waist with a girdle, after the ancient  fashion, and a mantle lined with minever, with a hood which  they wore over their heads. And the women of the people  were clothed in coarse green cloth of Cambrai, made after  the same fashion. A hundred lire* was an ordinary dower  for a wife. A dower of two or three hundred was in those  days considered enormous. Girls, for the most part had  completed their twentieth year before they were married.  Thus rude in dress and customs were the Florentines of  those days ; but they were loyal, and kept good faith, both  among each other and towards the Commonwealth. And  with their poverty and coarse mode of life, they did greater  things, and acted more virtuously, than we do with our  greater effeminacy and greater riches. "   Those were the manners of the good old times before the  building of the second walls around the increased city. The  position of these walls, and the amount of space thus added  to the city, are very accurately known. The line taken by  the new circuit has been minutely recorded by Malispini,f  Villani, J and Coppo Stefani.§ But it will be sufficient for  our purpose to indicate in a more general manner the  extent of the increase.   The old city, wholly confined to the northern bank of the  river, stretched along it from a point near the present Ponte  Santa Trinita, to another a little beyond the building of the  Uffizi. A line drawn northward from the foot of the Ponte  Santa Trinita, to the corner formed by the Via de' Rondi-  nelli and the Via de' Cerretani, and thence turning at a sharp  angle westward, proceeding then in a direct line to the Piazza  del Duomo, encircling the Cathedral, and then turning  southwards to rejoin the river by a line nearly correspond-   * The Tuscan lira is now equal to eightpence sterling-. To find its  equivalent value at the time in question it must be multiplied by from ten  to fifteen.   \ Chap. lxi. % Book iv. chap. viii. § Book i. rubr. xxxiv.   d 2     ing with the present Via del Proconsolo, the Piazza di San  Firenze, and the Via de Leoni, would very nearly mark  the position of the old wall. The new one, built in 1078,  enclosed an area much more than twice as large as the old  city. This new wall extended along the northern bank of  the river from the present Ponte alle Grazie to the Ponte  alia Carraia. A direct line drawn in north-western direction  from the foot of the latter, to the sharp corner made by the  Via delle Cantonelle, behind the Church of St. Lorenzo,  turning at that corner to follow in a south-easterly direction,  and nearly in a straight line, the course of the streets De  Gori, C alder ai, De Pucci, De' Cresci, and St. Egidio, to  the corner of the Via del Fosso, and there again turning to  the south-west, and striking towards the river in a direct  line by the streets Del Diluvio and De Benci, to the foot  of the Ponte alle Grazie, would form the new boundary of  the city on the northern bank of the river. But the  suburbs which had been gradually formed on the southern  bank, were also now for the first time brought within the  walled city. This new " Oltrarno" quarter, "beyond the  Arno," comprising less than a quarter of the space now  occupied by the city on the southern bank, was bounded  by the river from the Ponte Santa Trinitd, nearly to the  Ponte alle Grazie, and by a line of wall which, starting  from the bank at the spot where the former of these  bridges now stands, followed the entire length of the  present Via Maggio, and then turning at an acute angle  back again towards the river, crossed the Piazza de Pitti in  an oblique direction, so as to exclude the ground on which  the Pitti Palace now stands, pursued an irregular course  along the foot of the steep hill, which here leaves but a  narrow space between it and the Arno, till it rejoined that  river in the immediate neighbourhood of the Ponte alle  Grazie.   It will be seen that this notable enlargement of the city, while more then doubling its former area, comprised a  space less than a fourth of that contained within the  present wall, which third circuit was, in most respects as  it still remains, traced in the year 1285. Keywords: immune, comune, rodano, paradosso del reciproco, amare, ligarsi, bestiario griceiano, bestiarium griceianum, il municipio di Firenze. "To change the image somewhat, what bothers me about what I am being offered is not that it is bare, but that it has been systematically and relentlessly undressed. I am also adversely influenced by a different kind of unattractive feature which some, or perhaps even all of these bêtes noires seem to possess."  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Brandlise” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Breccia – la metafisica del dialogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trento). Filosofo italiano. Grice: “I like Breccia; he is, like Vitruvio, obsessed with the male human body – but also about the ‘metafisica del dialogo,’ so we can call him a Griceian!” --  Breccia nel suo studio a Roma.  Pier Augusto Breccia (Trento ), filosofo. La pittura di Breccia esplora l’essere umano con un approccio ermeneutico (nel senso della filosofia ermeneutica moderna di Jaspers, Heidegger, Gadamer) e si apre su un vasto orizzonte di temi filosofici. L’opera di Breccia include oli su tela, matite e pasteli su carta, 7 libri e numerosi saggi critici. Breccia ha esposto in personali in Europa e USA.  La famiglia paterna è originaria di Porano, un piccolo paese dell’Umbria, dove sua madre, Elsa Faini (di Trento), si era trasferita nel dopoguerra. I genitori di Pier Augusto lavoravano entrambi nel settore ospedaliero: infermiera la madre e chirurgo il padre Angelo. Quando Pier Augusto ha cinque anni, la famiglia si trasferisce a Roma, dove Breccia trascorrerà la maggior parte della sua vita. Il giovane Pier Augusto si iscrive al “Liceo classico statale Giulio Cesare” di Roma, dove matura un profondo interesse per gli studi umanistici che lo accompagnerà per il resto della vita. A 14 anni, scopre la Divina Commedia che studia di sua iniziativa affascinato dalle allegorie dantesche. Subito dopo, attratto dalla filosofia e dalla mitologia greca, traduce per l’editore Signorelli l’“Antigone” di Sofocle e il “Prometeo legato” di Eschilo. Ancora nella fase adolescenziale traduce i “Dialoghi” di Platone.  Completati gli studi liceali, nel 1961 si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e nel luglio del 1967 riceve, con il massimo dei voti, la laurea in medicina.  Professione medica Dopo la laurea consegue una specializzandosi in urologia, in chirurgia generale e successivamente in chirurgia cardiovascolare mentre comincia a far pratica al Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Nel 1969, sposa Maria Antonietta Vinciguerra, nel ’70 nasce il primo figlio, Claudio e nel '71 la figlia Adriana. Nei primi anni 1970, si trasferisce a Stoccolma, dove lavora al centro di chirurgia toracica e cardiovascolarere dell'Istituto Karolinska sotto la supervisione di Viking Björk (inventore della valvola cardiaca Bjork–Shiley). Tornato all’università Cattolica di Roma e al connesso ospedale Gemelli, nel 1979 diviene professore associato. Nel corso degli anni 1970, pratica più di mille interventi a cuore aperto e pubblica circa cinquanta articoli in riviste mediche.  Il punto di svolta: dal bisturi alla matita È l’estate del 1977 quando Breccia scopre un inaspettato talento per il disegno, che nei due anni successivi diverrà il suo hobby. Soltanto nel 1979, dopo la morte di suo padre e a seguito di una profonda crisi esistenziale, il talento disegnativo trova la sua espressione creativa. La produzione artistica dei primi due anni e il pensiero filosofico da questa ispirato confluiscno nel libro "Oltreomega".  Nell’agosto del 1983, durante un periodo di produzione artistica e di mostre in Italia e all’estero (‘'Monologo corale’', ‘'Le forme concrete dell in-esistente’', ‘'La semantica del silenzio’') prende un'aspettativa dalla professione medica. Nel biennio seguente, lo stile artistico, da lui definito "ideomorfico", si delinea con maggior chiarezza, così come il pensiero filosofico, che nell’84 presenta nel libro “L’Eterno Mortale”. Nel 1985 dà le dimissioni dalla professione di chirurgo e nello stesso anno porta le sue opere a New York, presentandole in due mostre consecutive, alla Gucci Gallery e all’Arras Gallery. La strada dell’arte, si delinea rapidamente e, appena date le dimissioni, si trasferisce a New York dove trascorre la maggior parte del tempo tra il 1985 e il 1996. Durante questo periodo, espone in diverse città degli Stati Uniti (New York, Columbus, Santa Fe, Miami e Houston).  Sin dall’inizio è estremamente prolifico e l'opera dei primi dieci anni viene raccolta nel libro “Animus-Anima”, che comprende 500 immagini di sue opere. Nel 1996, torna stabilmente a Roma ed espone in diverse città italiane ed europee. Nel ‘96, pubblica "L’altro Libro", contenente opera del periodo 1991-1999 e nel 1999, scrive “Il linguaggio sospeso dell’auto-coscienza”. Nel 2002 Breccia presenta novanta opera in un’imponente personale al museo Vittoriano e nel 2004 pubblica “Introduzione alla pittura ermeneutica”, il suo manifesto artistico, al quale collabora il filosofo Elio Matassi. Negli anni seguenti, malgrado le condizioni di salute, è impegnato in numerose mostre in musei italiani ed europei.  Il 17 Novembre, due settimane dopo la chiusura della sua mostra di Trento, ha un infarto nel suo studio di Roma, viene portato al Policlinico Gemelli, e lunedì 20 novembre  muore all’età di settantaquattro anni.  Ragione e immaginazione: “lo spazio pensante” Lo spazio è l’elemento più distintivo delle opere di Breccia, che egli stesso definisce “denominatore comune della pittura ermeneutica[...] principio stesso delle nostre facoltà intellettive”.  Tuttavia, se nello spazio paradossale di Breccia la ragione si sospende e precipita di continuo, il senso di armonia ed equilibrio, che caratterizza tutta la sua opera permette all’immaginazione di entrare nello spazio senza alcun tormento.  Forme, colori e luce: dis-oggettivazione Un'altra caratteristica delle tele di Breccia è la presenza di “oggetti”, in un equilibrio generato tuttavia da forme e colori piuttosto che da una oggettiva metrica di spazio. Allo stesso tempo, tali “oggetti”, ridotti a forme/colori essenziali o addirittura trasformati in spazio stesso o “altro da sé”, sono privi di una vera oggettività e di conseguenza sono aperti ad essere letti come linguaggi, segni o, più propriamente nel senso della filosofia ermeneutica di Karl Jaspers, come “cifre”, cioè “segni” non ancora interpretati.  L’uso della luce e del chiaroscuro è parallelo a quello dello spazio e della prospettiva nella molteplicità di paradossi.  L’assenza di una fonte di luce all’interno dello spazio pittorico contribuisce a rimuovere contenuti emozionali.  In ultimo, il rapporto luce-spazio-forma crea l'ennesimo paradosso di Breccia. Se la luce è spesso associata a ciò che è comprensibile razionalmente (e.g. “luce della ragione”), nelle opere di Breccia tutto appare al contempo luminoso e misterioso.  Pittura ermeneutica Breccia ha usato il termine “pittura ermeneutica” per descrivere la sua posizione come artista nel suo Manifesto “Introduzione alla pittura ermeneutica” (2004).  Il presupposto di significabilità della cifra pittorica ermeneutica è la libertà da canoni, convenzioni, dogmi di spazio e tempo, del qui e dell’ora, che permette una verifica della significabilità dal di dentro. In tal senso, l’arte può essere un’esperienza di conoscenza, in quanto “apertura” da “un lato sull’infinita alterità dell’essere o di Dio, e dall’altro sulla personale coscienza dell’ ‘Io’.”(Introduzione alla pittura ermeneutica, 2004).  Note  Moschini e Zitko, p.37.  Zitko, p.11.  Zitko, p.15.  Comunicare, n. 82, Università Cattolica del Sacro Cuore,.  Unomattina, RAI, Gennaio 2000.  Unomattina, Gennaio 2004.  Zitko 12.  Moschini e Zitko, p.38.  Steiner 1997.  Steiner 1991.  Moschini e Zitko, p.39.  Moschini e Zitko, p.40.  P.A. BRECCIA, Introduzione alla Pittura Ermeneutica, 2004, p.45-46  Vivaldi 1988.  Moschini Zitko, 40.  Steiner 1988.  Moschini e Zitko, 38-43.  Moschini e Zitko, 40-42.  Moschini, M. e Zitko(), "The educational path of Ideomorphism. From theory of knowledge to philosophy", Journal of Philosophy and Culture supplement, XVI-1, laNOTTOLAdiMINERVA Zitko(), "Il linguaggio della pittura ermeneutica e la Chiffer di Karl Jaspers", Dipartimento di Letteratura e Filosofia, Universita' di Pisa Steiner, R. (1988) "Profile: Pier Augusto Breccia", ART TIMES Steiner, R. (1991) "Critique: Pier Augusto Breccia at Arras Gallery, NYC", ART TIMES Steiner, R. (1997) "Pier Augusto Breccia: Another Look, NYC", ART TIMES Matassi, E. (2008) "Sur la peinture Hernéutique: Pier Augusto Breccia, “le messager d’alterité”.In: Du Nihilism à l’hermenéutique Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pier Augusto Breccia  Sito ufficiale, su pieraugustobreccia.com.  libri gratis su itunes The educational path of Ideomorphism La pittura ermeneutica, su didattic aermeneutica. 1º maggio  26 dicembre ). Pier Augusto Breccia: biografia, su direnzo. Biografie  Biografie:  di   biografie Categorie: Pittori italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX secoloSaggisti italiani Professore1943  12 aprile 20 novembre Trento Roma. THE DIALOGUE   The universe of speech is egocentric. At the centre is the speaker  (ego) and the listener is slightly off-centre ( tu ). The listener becomes  a speaker in his turn and the axis of the universe shifts slightly, but  these are the two persons of speech, and all others are objects to be  pointed out. Ego spreads symbols in front of tu , but tu is the arbiter  of intelligibility. If ego makes unintelligible noises or speaks Greek  to the Eskimo tu , there is no communication and therefore no lan-  guage. If ego's symbols are unsatisfactory or unsatisfactorily  arranged, tu demands a new set or a better arrangement. Since  speech is a function of action, tu ' s acts determine the sense of  ego's symbols to the extent that ego must either acquiesce or come  to a new understanding.   Soliloquy, meditation, and ‘arranging one’s thoughts’ are  imitations of dialogue. They have involved in past time even  movements of lips ; hence the theatrical convention that the soli-  loquy and the read letter can be overheard. But ego does not speak  to ego ; he has far quicker ways of understanding himself. He  soliloquizes before an imaginary tu and he arranges his thoughts  with a view to addressing later some real tu .   The dialogue occurs within a frame of reference provided by  circumstances and concerns some event. Sir A. H. Gardiner 1 de-  scribes speech as four-sided, with the four factors of speaker,  1 A. H. Gardiner, Speech and Language , Oxford, 1932, p. 62.     io  listener, words, and things. The things, however, should be those  of a given moment, forming an external and concrete association  which we call circumstance. It is better to think of them as external  and concrete, because so they are in all languages, including savage  ones. Two persons may discuss the square root of minus one in an  oubliette at midnight and so reach an extreme of abstract speech,  but the topic is no more than the last of a long series of abstractions  which began with the sum of two flints or cave-bears or the    Circumstances or Context    Event or  Phenomenon    Impression Expression impression  I H    like. A square was once a pattern on the ground. If one says to  another ‘the unexamined life is not worth living’ there has to be a  context of ethical discussion to determine what is ‘life’, ‘worth* or  ‘examination*. An insurance agent might be puzzled by the phrase  and emend it to ‘the medically unexamined life is not worth  insuring*. Even so, though more concrete, his language represents  the end of a complex process of civilized abstraction. That speech  should be possible without visible circumstances is a relatively late  development, and is achieved by the creation of contexts. The con-  text of a discourse consists of spoken conventions which enable us  to dispense with visible objects, by siting the discourse well enough  to give the supplementary information that would otherwise have  been derived from circumstance.   The language even of savages contains some abstraction, since  they speak of some parts of circumstance and neglect others. Yet  the Australian Arunta cannot count or distinguish times or identify  themselves. Basque host ‘five* probably means ‘closed fist’, and  counting in multiples of twenty (Basque ogei) was achieved by counting fingers and toes. Getting lost in the higher figures, it  might prove simpler to proceed by subtraction (Lat. 19 undeviginti ,  18 duodeviginti , Finnish 9 yhdeksan, 8 kahdeksan , cf. 1 yksi, 2 kaksi 9  and the Indo-European for 10). Chinese characters are singularly  illuminating concerning the relations between concrete and abs-  tract. ‘Benevolence* is ‘man plus two* (a man who thinks of another  beside himself), ‘happiness* is ‘one mouth supported by a field*,  ‘peace* is ‘a woman under a roof* (indoors), ‘home* is ‘a pig under  a roof* (food and shelter), ‘spirit* is the skeleton of a great man, a  ‘great* man is one who has not only legs to obey but arms to en-  force, ‘father* is a ‘hand holding a whip*. These written analyses are,  no doubt, scholarly and sometimes whimsical. It is not exactly  in that way that abstractions have been derived from objects and  contexts substituted for circumstance, but the language of savages  is astoundingly concrete and only fully intelligible when spoken in  the presence of the objects of discourse.   Communication lies partly in what we say, partly in the circum-  stances. The latter fill in so much that actual speaking is elliptical,  erratic, incomplete, and imprecise. Even the elliptical words may  be further curtailed by substituting gestures, 1 which refer one back  vaguely to the circumstances. Thus one may overhear:   A. Hullo! How*s tricks?   B. So so ; and the boy ?   A . Bursting with energy, thanks.   The first is not a question but a breach of silence, 2 and establishes  the conversation on the basis of casual familiarity. It does not seek  or receive an answer, but an opening is made for A’s principal  interest (which is known from the circumstances), and A , when  replying with information, acknowledges the kindly intention of B.  It is possible to say quite intelligibly ‘Old what*s-his-name is just  bringing in the thingummy*, if, at a Burns dinner, Mr. McLeod is  seen piping in the haggis. It is even better to be imprecise, and to say  ‘my heart went pit-a-pat’, ‘the tray came bang, thump, crash down  the stairs’, or ‘whiff, it *s gone*, because, while the circumstances   1 Gesture-languages seem, however, to be translations of the spoken word or  of set phrases as a whole. The Arunta are said to have a gesture-language of 250  signs. This seems to be different from the gestures which refer directly to circum-  stance.   2 *To a natural man, another man’s silence is not a reassuring factor, but, on  the contrary, something alarming and dangerous.* B. Malinowski, Magic , Science  and Religion , Boston, 1948, p. 248.  would explain either these sentences or explicit statements, these  expressions give an impression of the immediate event, not  generalized as one which might occur elsewhere. This is the basis  of the astonishing development of ideophones in Zulu and other  Bantu languages which will be discussed later. When we ‘speak  like a book’ we provide explicit contexts as if circumstances did not  exist visibly to complete our meaning, and this procedure, neces-  sary in writing, is recognized as a defect in conversation.   Grammatical and verbal completeness is thus not required of the  sentence, and there is nothing to be, as older grammarians said,  ‘understood’. It was difficult under the old regime to say precisely  what word or words were to be ‘understood* since the phrase could  be completed in various ways, but older grammarians, obsessed by  literary contexts, did not sufficiently allow for the completion by  environment. R. Lenz 1 gives the following conversation: .   A. Where are you off to, Peter?   B. Valparaiso.   A . At once ?   B. No. Tomorrow, by the slow train.   A What for?   B . A matter of business.   A. Something important ?   J5. Yes; the sale of my land.   A . Have you a buyer in sight?   B . It seems so.   A . Well, congratulations.   B. Thanks.   This is what the linguist must accept. He is not at liberty to rewrite  the sentences so that each should have subject, verb, object, and  other principal parts. They are already complete and fully intelli-  gible in the circumstances. They are even intelligible as parts of a  context. Circumstance, and context eliminate uncertainties which  theoretically exist. Thus of eighty-four words in the fourth tone of  i in Chinese, 2 only ‘thought, will, intention* can exist in the vicinity  of ‘understand*. The same sound may mean ‘a mountain in Shan-  tung*, ‘dress*, ‘I* (in speaking to rulers); ‘licentious*, and ‘hiccup’,   1 R. Lenz, La Oracion y sus partes , Chinese words are quoted according to the transliteration adopted in D.  MacGillivray’s Mandarin-Romanized Dictionary of Chinese , Shanghai, 1925. It  is according to Wade’s system, which has no special advantage beyond that of a  wide diffusion. See also the pocket dictionaries by Goodrich and Soothill.   but none of these are things one ‘understands*. Actually, by com-  bining synonyms (i+-szu l ‘thought, will, intention’) modern Chinese  gives the hearer more time to identify the meaning, but these  compounds are readily dissolved when no ambiguity is possible.  The written language provides ninety-two different signs for i A so  that the precise meaning identifies itself, without dependence on  visible circumstances or even on context. By way of compensation,  the old literary style was sparing of doublets or other helps to  understanding.   Within the frame of circumstance each sentence refers to an  event or phenomenon as it appears to, and interests, us at the  moment of speaking. We distinguish activities and states, but the  distinction is partly an illusion. ‘Rome is the Eternal City’ now and  as things appear to us, though founded traditionally in 753 b.c.,  and still not so long-lived as Babylon. Damascus and Jerusalem are  older and still exist, but do not appear to us to have the enduring  quality conferred by the succession of the Papacy to the Caesars.  I am content now, but the phrase does not prevent my being dis-  contented in half an hour ; you are a Grand Duke or a soldier, but  a revolution may cancel all titles or you may be demobilized to-  morrow. The event is not known to us in all its cosmic significance ;  we can only speak of what appears to us (represented by the wavi-  ness of the line in the diagram). Of what appears, we put into words  only what momentarily interests us, as in the celebrated observa-  tion: ‘What a lovely day! Let’s go and kill something.’ We make  a mock of the objective statement ‘Queen Anne ’s dead’ because we  are not accustomed to make affirmations without immediate inter-  est ; though historians have devised for such statements a measure  of interest by the postulate that all historical dicta are, in some way,  worth while. Each event is, of course, unique. ‘Bear kills man’ and  ‘Man kills bear’ are totally dissimilar events. It is thus not sur-  prising that many languages should have word-sentences which  express each event by a unique construction, and all show a  phenomenal residue (the verb) after analysis has gone so far as to  provide names for the parties, their qualities, and their modes of  action and being. The verb continues to show formidable com-  plexities in such a language as French, though the noun has become  almost an invariable unit. The Latin verb offered a complex para-  digm which was simplified by analysis in primitive Romance, but  the Romance languages have used these analytical simplifications  to build new synthetic paradigms. It is clear that the result is not  due to analytical failure, but to an appreciation of the need to dis-  criminate between phenomena.   For the s^ke of simplicity we are considering the first com-  munication of a series. Ego's primary impression of the event may  be derived from any of the senses, though it is most likely to be  visual. It will be more agglomerative than any expression, and  probably either total or of selected parts modified by all their  minor characteristics. Infants, like Humpty-Dumpty, endeavour  to speak in a total way, packing their whole meaning into some  such phrase as din-din. One can take din-din as equal to ‘I am  thirsty’ or ‘Why don’t you give me a drink?’ or (in the case I have  in mind) ‘I want more fizzy lemonade’. The situation is unanalysed  and the whole of it is expressed, so far as the infant can, in two  syllables and their accompanying intonations. On the other hand,  the agglomerative type of structure is common in primitive tongues.  The primary impression is thus intrinsically unlike tu's secondary  impression, which depends on the co-ordination of a linear series  of symbols. The older linguists spoke of ‘inner speech-form’ and  ‘outer speech-form’ as if these had a one-to-one correspondence,  and it is still deemed legitimate to speak of the mental image of a  speech-sound and its actual enunciation. Whether the mind works  in that way a linguist is hardly qualified to know, since his task  begins with the audible sentence . 1 The disconformity between  global impressions and a linear series of symbols seems to be what  convinces so many that their thoughts are too rich for words. There  is an act of translation involved. Impressions are collected at some  point of the brain, co-ordinated, transformed into orders to the  speech organs, transmitted as a series of vibrations, collected by  the ear-drum, and retranslated into meaning. The various mental  movements have been identified to some extent by physiologists.   Ego displays his impression to tu in the form of a linear symbolic  expression. Any symbol that tu accepts is valid for communication  with tu y and any that he rejects is invalid. Ego may offer any one of  many gizon y homoy anthropos , czlowieky mard y ember , mies, jen y hito t  insdn, adamy orang , muntu, oquichtli, runa or tree y zugatz , arbor y  Baum , dendron , derevo y car and so on. The relation between sound  and thing is entirely artificial, and according to the language so is   x See, however, A. H. Gardiner, Speech and Language , 1932, ch. ii, ‘An Act of  Speech*.  the convention. Even onomatopoeia is conventional. The imitations  serve, not because they are good, but because they are conventional. 1  To a Frenchman one offers subject-verb-object, and to a Turk  subject-object-verb ; to a Chinese attribute-substantive is the same  as substantive-attribute to a Siamese or Malay. Increased stress  has the effect in one language that play on tones has in another.  The symbols are just symbols, valid in any agreed convention, but  without conventional agreement, unintelligible.   Expression is a linear succession of sounds, and the sentence is  a complete expression. It is understood, as we have seen, within  the frame of circumstance or context, and we cannot presume that  it has any necessary grammatical form. A sentence need not have  a verb ‘expressed or understood’, though it must have the quality  of phenomenality. It need not be a judgement. Most sentences  consist of parts, and this is true even of polysynthetic word-  sentences. The parts are not necessarily words, for in primitive  languages we find embryonic stems which are not precisely deter-  mined for form or meaning, and in synthetic and agglutinative  languages we find affixes which are significant parts of a sentence.   Tu hears the expression and is the arbiter of its intelligibility.  He collects and retranslates the individual syllables as soon as they  begin to be heard, and combines them for meaning. If he cannot  achieve a meaning he asks for further symbols, whether in the  same language or in another. He reacts either by himself becoming  a speaker or by performing some action. But in either reaction it  becomes plain that tu’s impression is not identical with ego’s. Their  minds are somehow differently constituted (symbolized in the  diagram by the size of the circles). Despite all conventional agree-  ment, there is no perfect understanding between ego and tu . What  tu understands, more or less in agreement with ego , are (1) the  reference of symbols to things, which is the ‘logical’ or grammatical  sense of the sentence, (2) an emotional supercharge represented by  agreed stylistic symbols (which may be zero), and (3), since tu is  also an artist in words, something of the event itself. He under-  stands this in his own fashion. He may, for instance, be specially  susceptible to the word torpedoed as having gone through the experi-  ence or as being endowed with a vivid imagination. In this third  aspect of meaning, however, though it is not expressed in symbols,   1 e.g. the sound of a shot is in English bang or crack , in Spanish pum or pa$  (the latter perhaps more appropriate to the slither of the bullet as it lands). there is something on which the artist in words can reckon; a play  of mind on mind, through language but above convention, which  is presumably the secret of great poetry and oratory. There is here  an aspect of language which is beyond exact measurement but can  be intuitively felt. The speaker not merely conveys a logical mean-  ing and an emotion to the hearer, but stirs the hearer to a secondary  act of creation. The reactions to great literature are diverse and  some of them stimulate further reactions, so that works as funda-  mental as the Authorized Bible, Hamlet , and the Aeneid become  encrusted with added meanings, and are hard to reduce to their  original intention. Nor is the original intention, say of the Aeneid ,  necessarily the highest value of a poem on which the imagination  of a Dante has operated so profoundly. Pier Augusto Breccia. Keywords: ego tu --  Erstwiile, Gardiner, ego et tu, la metafisica del dialogo, noi, ovvero, la metafisica della conversazione, implicatura ermeneutica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Breccia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Brescia – rarità vichiane –rarita griceiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trani). Filosofo italiano. Si laurea con lode presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Perugia. Inizia la sua docenza come professore di Storia dell'Arte presso il Liceo Classico Carlo Troya di Andria. Consegue la cattedra di Latino presso il Liceo Classico Oriani di Corato. Consegue la cattedra di Lettere e Storia presso l'Istituto Magistrale di Terlizzi. Insegna  Latino nel Liceo Nuzzi di Andria. Oottiene il suo primo incarico da preside a seguito del concorso superato. La prima presidenza è dunque a Trani presso il Liceo Scientifico Valdemaro Vecchi, intitolato al Vecchi dietro sua proposta. Presiede il Liceo Monticelli di Brindisi. Presiede il Liceo Nuzzi di Andria. Presiede il Liceo Classico Carlo Troya di Andria, esteso anche a Liceo Linguistico e Liceo delle Scienze Sociali durante la sua direzione in seguito alla partecipazione alla Commissione Brocca. Membro della Società di Storia Patria per la Puglia. Consegue il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Viene insignito della Medaglia d'Oro del Ministero della Pubblica Istruzione per i benemeriti della cultura, dell'arte e della ricerca scientifica. Ottiene l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana. Ottiene il Premio Pannunzio per la saggistica conferito dal Centro Pannunzio di Torino.  Dopo una lunga e serena vita di studi muore improvvisamente ad Andria. Appresa la notizia anche il sindaco di Andria Bruno ha espresso il cordoglio personale e della città alla famiglia. Citando Loris Maria Marchetti su Pannunzio Magazine:  Ispirandosi alla lezione, originalmente aggiornata, di Croce e di Popper (ai quali ha dedicato importanti studi), elabora un sistema filosofico in quattro parti (Antropologia, Epistemologia, Cosmologia, Teoria della Tetrade) dove trovano un punto di incontro storicismo, epistemologia ed ermeneutica.  La sua filosofia investe anche il pensiero politico e l’àmbito dell’estetica, donde il suo fittissimo esercizio di saggista di letteratura e arti figurative, interpretate sostanzialmente nel loro risvolto filosofico-cognitivo. Altre opere: “Il tempo e la libertà”; “Pascal e l’ermeneutica”; “Croce e il mondo”; “L’oro di Croce, Joyce dopo Joyce, Ipotesi su Pico, Massa non massa, Radici di libertà, Il vivente originario, Tempo e idea, I conti con il male, Radici dell’Occidente, Forme della vita e modi della complessità; saggi su Bassani,  Calvino, ecc.  Fedele collaboratore delle iniziative del Centro “Pannunzio”, negli Annali comparvero suoi saggi su C. L. Ragghianti e su Cervantes in rapporto all’Ariosto e alla tradizione italiana. Nel pannunziano Magazine pubblica, tra gli altri, saggi su Torquato Accetto, Max Ascoli, Croce, L. de Bosis, F. De Sanctis, Freud, Aldous Huxley, Jung, Leonardo da Vinci, Vittorio Mathieu, Moravia, Pasolini, Solgenitsyn,Vico. Alfredo Parente - L'“opera bella” come impegno morale, “Rivista di studi crociani”, Giovanni Spadolini - Mazziniani asceti, “La Stampa”, Francesco Compagna - Editoriale, “Nord e Sud”, Raffaello Franchini - L'idea di progresso. Teoria e storia, Giannini, Raffaello Franchini, Trittico crociano, “Il Tempo”, A. Rosario Assunto, Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell'estetica, Bulzoni, Roma, Rosario Assunto - recensione di Brescia, “Non fu sì forte il padre”. Letture e interpreti di Croce, Salentina, Galatina, in “Rassegna di cultura e vita scolastica”, Vittorio Stella - recensione di Brescia, “Non fu sì forte il padre”. Letture e interpreti di Croce, Salentina, Galatina, in “Rivista di studi crociani”, Vittorio Stella - Il giudizio dell'arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani, Quodlibet Studio, Macerata, Charles Boulay - Benedetto Croce jusqu' en 1911. Trente ans de vie intellectuelle, Librairie Droz, Ginevra, Nicola Fiorelli - “La Follia di New York”, Sviluppi filosofici nella più recente “scuola” crociana, Schena, Fasano. Vincenzo Terenzio, Natura e spirito nel pensiero di Giuseppe Brescia, Mario Adda, Bari, Pietro Addante - La “fucina del mondo”. Storicismo Epistemologia Ermeneutica, Schena, Fasano, Franco Bosio -recensioni di I conti con il male, Laterza, Bari, ICalvino e Andria, Andria; Tempo e Idee, Libertates, Milano, Il vivente originario, Libertates, Milano, in “Rivista Rosminiana”, Franco Bosio - recensione di Le “Guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi (Laterza, Bari), “Rivista Rosminiana”, Dario Antiseri; Croce e l'Anticristo, “Avvenire”, Dario Antiseri, Popper protagonista del secolo XX, “Biblioteca Austriaca”, Rubbettino, Dario Antiseri - Popper, Rubbettino,  Dario Antiseri, Le ragioni della libertà, Rubbettino, Antonio Jannazzo - Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, “Fondazione Luigi Einaudi”, Rubbettino, Beniamino Vizzini - Per una discussione intorno al problema della libertà. Cenni per un colloquio di ermeneutica morale con Giuseppe Brescia, Postfazione a Tempo e Idee.'Sapienza dei secoli' e reinterpretazioni, Libertates, Milano, Beniamino Vizzini - Vita e dialettica nel pensiero di Giuseppe Brescia e Pavel Florenskj, “Rivista Rosminiana”, Fulvio Janovitz - Gli studi su Croce, “Nuova Antologia”, Fulvio Janovitz - Quando Croce dialogava con Dio. Religiosità e cristianesimo di Croce prima e dopo la lettura dell'epistolario con Maria Curtopassi, “Nuova Antologia”, Fulvio Janovitz, Il mio Croce. Scritti,  Quaderni della “Nuova Antologia”, Firenze, Paolo Bonetti - Introduzione a Croce, Laterza, Bari 1984. Paolo Bonetti - recensione di I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male, Giuseppe Laterza, Bari, in “Nuova Antologia”, Samuele Govoni - Brescia celebra il Bassani amante dell'arte, “La Nuova Ferrara” - Cultura, Cosimo Ceccuti - La Religione della Libertà, “Il Resto del Carlino”, Cultura e Società, Il caffè. Nico Aurora - De Sanctis e l'attualità del 'Discorso di Trani'. La lezione di Brescia a 134 anni di distanza, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Stefano Vaccara - Presentazione di Max Ascoli, il filosofo mondiale della libertà, “La Voce di New York”, Giuseppe Poli - recensione di Le “Guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, Laterza, Bari, in “Risorgimento e Mezzogiorno”, Domenico Cofano - recensione di Brescia, Giovanni Bovio. La vita e l'opera, Società di Storia Patria per la Puglia, Andria, etetedizioni, in “Nuova Antologia”, Giovanni Bovio, maestro del pensiero, “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È scomparso improvvisamente il preside Brescia "andriaviva.it", Quirinale.it  Quirinale.it – Onorificenze, Loris Maria Marchetti, Brescia, di Loris Maria Marchetti, su Pannunzio Magazine.  Nuovo lavoro editoriale del prof. Giuseppe Brescia – Società di Storia Patria per la Puglia, chiamato “Le ‘guise della prudenza’ Vita e morte delle nazioni da Vico a noi”. Per le edizioni Giuseppe Laterza del libro riportato, la premessa intitolata “Come fermar il declino delle Nazioni”, Nella “Pratica di questa Scienza Nuova” del 1725 il Vico, nostro europeo Altvater (come riconobbe Wolfgang Goethe), assegna alla propria opera un valore “diagnostìco”, dal momento che permette di riconoscere a quale stadio del suo corso si trovi una nazione, sia in rapporto alla sua “acmè” sia nella prospettiva dello stadio successivo di dissoluzione del proprio stato. È a questo punto che “bisogna lottare per restaurare il senso comune perduto” e riavviare – così- il “ricorso”.Su questa linea si muove la presente raccolta unitaria, ricomponendo i saggi “Le ‘guise della prudenza’ Vita e morte delle nazioni da Vico a noi”, che dà anche ìl titolo all’intiero volume, apparso in “Filosofia e nuovi sentieri” (ottobre-novembre 2016); “Pico e Vico” (dalla “Rivista Rosminiana”, CIX/I-II, gennaio-giugno 2015, pp. 135-140); con i percorsi “Teoria dei colori Alchimia Apocalisse in Newton”, “Le origini dell’Islam la vita di Antonio Carafa”, e l’11 Settembre 1683”, “Famiglia vita e imprese di Antonio Carafa”, “La razzia dell’universo”, “Revisioni e conferme delle ‘tesi’ di Henri Pirenne” e “L’orrore delle razzie s’irradia nel mito”, incentrati sul problema del male nella storia e il rapporto con il fondamentalismo (preannunciati nelle rubriche “Ternpo e Libertà” di “traninews-infonews”, e “Noi Credevamo” di Videoandria.  Tale complessa ricerca si inserisce nell’ultima fase del mio pensiero, caratterizzata dai lavori ermeneutici Il vivente originario e Tempo e Idee. ‘Sapienza dei secoli e reinterpretazioni’ (Libertates Libri, Milano 2013 e 2015 entrambi con prefazione di Franco Bosio); I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male (Ed. Giuseppe Laterza, Bari 2015) e Italo Calvino e Andria. Variazioni sul senso del celeste (Matarrese, Andria 2016), arricchiti spesso di Iconografia e mappe concettuali. L’ultimo attuale saggio “Rarità vichiane a Trani” riprende i lineamenti della duplice “Lectio Magistralis”, tenuta nella Biblioteca “Giovanni Bovio” di Trani (19 gennaio e 3 febbraio 2017), per onorare i duecento anni dalla nascita di Francesco De Sanctis, nella ricorrenza dell’elevato “Discorso di Trani” del 29 gennaio 1883, non ché il capitolo La Nuova Scienza, dedicato soprattutto a Vico dal critico e maestro d’Italia civile nella sua Storia della letteratura del 1870, per conto della Sezione andriese della Società di Storia Patria per la Puglia. Siamo (come ognun vede), “alle origini della modemità e a “tenuta della civiltà” umanistica, di cui l’idealismo storicistico rappresenta la nobile (quanto sofferta) fioritura”.  Il lavoro del prof. Brescia è incentrato sul tragico nella storia (incidente ferroviario di Andria;fondamentalismo; 11 settembre 1683 e biografia di Antonio Carafa, dettata dal Vico; Vico e De Sanctis a Trani.Giuseppe Brescia. Keywords: rarità vichiane, Croce, implicatura, Croce inedito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Brescia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bressani – vo significando – Vendler: have you stopped meaning it yet? -- intorno alla lingua toscana – filosofia toscana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo. Grice: “Strawson, being boring, likes Bressani’s arguments – alla Plato and Aristotle, but mainly Aristotle – againsts what Galileo has the cheek to call ‘filosofare’! – But I prefer Bressani’s poems, the buccoliche, and especially his lovely treaise ‘discorso in torno alla lingua,’ his little ethical treatise is charming especially if you are into what some (not I, certainly) call ‘developmental conversational pragmatics’!” -- regorio Bressani (Treviso), filosofo. Discorsi sopra le obbiezioni fatte dal Galileo alla dottrina di Aristotile, Gregorio Bressani (Treviso) filosofo italiano.  Biografia Si laureò all'Padova nel 1726 interessandosi a letteratura e filosofia. Fu aiutato da Francesco Algarotti, cui aveva inviato delle proprie opere.  Sostenne uno scolasticismo classico in opposizione alla scienza moderna di Galileo e Newton.  Opere Gregorio Bressani, Modo del filosofare introdotto dal Galilei, ragguagliato al saggio di Platone e di Aristotile, In Padova, nella Stamperia del Seminario, a Gregorio Bressani, Discorsi sopra le obbiezioni fatte dal Galileo alla dottrina di Aristotile, In Padova, Angelo Comino, 1760. 2 luglio.  Gregorio Bressani, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Filosofia Filosofo Professore Treviso. DISCORSO INTORNO ALLA LINGUA ITALIANA. BRESSANI TRI VIGI AN Oec. R E CI TATO NELLA SAL A VERDE DI PADO V A IN UN ACCADEMICO ESERCIZIO Ompariſce per la prima volta a luſtrare la noſtra Miſcellanea il Signar Dottore Gregorio Brefsani, fogo getto di chiaro nome, e di ornamento e fplendere alla fra Patria, col preſente Ragionamento ſopra la Lingua Italiana; recitato da lui ultimamentepiù a cagion di eſercizio, che per altro fine in una Radunanza di Letterati nella Città di Padova: da i quali avendoſi per noi ſa puto l'approvazione che ebbe, ſperiamo far coſa grata all'Autore, e inſieme d'al. cun noftro merito, col pubblicarlo; tan to più, che potrà egli ſervir d'ajuto e di lume a quelli (che molti fono ) 'i quali banno biſogno di faggia ſcorta nello ſteam dio, che affettano dell Italiana favella. -- DISCORSO INTORNO ALLA LINGUA ITALIANA. BRESSANI O Dottor, e Accademico Ricovrato; Da efo recitato in un'Accademia di eſer. cizio nella Sala Verde di Padova, nel meſe di Maggio, 1740. A Chiemque fa,Eruditi edotti Ac cademici, quanto malagevol ſia il rintracciare le cauſe effettrici delle umane cognizioni, non parrà coſa ſtrana il ſentimento di Platone, ch' el le fieno provenienti tutte dalla Remi nifcenza. Nè io credo, che attribuis re ſi poſsa ad altro, fuorchè alla re. miniſcenza il fentire, e l' accorgerſi del Del Sig. Gregorio Breſſani. 489 9 e 3 dello fpirito, e del vero pregio delle belle Arti. Imperocchè tale vi ha che nè per tutta l'attenzion ſua, ne per opera degli altri non arriva giam mai ad intenderlo. E laſciando di far parola di quegli, che niun dilet ro pigliano, o nella Archittetura, o nella Muſica, che ſono moltiſſimi rivolgo la conſiderazion mia a colo ro, che pur amano d'eſser tenuti di ottimo guſto nella noſtra Lingua nulla fi accorgono, nè ſono per ven tura atti ad accorgerſi, in che ne con fiſta principalmente la venuſtà e la grazia. Avvegnacchè adunque ciaſcu na Lingua ſenta molto più dell'ideas le, che non ſente l'Architettura la Muſica, e fia a lato di quelle in termini incomparabilmente più ange fti riſtretta; non è per tanto che ella non abbia le ſue verità in riſpetto a que' pochi, a cui è dato d'intendere non ſolamente il ſignificato delle vo ci; ma la relazione tra loro meglio convenevole. Ora come io, ſenza più, approvo iVocabolarj, gli avver timenti di Gramatica e le Oſsers vazioni, che intorno a queſta Lingua XS o § fo 490 Diſcorſo della Lingua Italiana fonofi facte dalla diligenza d'Uomini valenci; poco avrò che accennare de' fuoi materiali, ed il mio ragionamen. to ſarà fpezialmente della forma quanto a me, la migliore, che rice ver ella debba dalla fantaſía, e dal giudizio degli Scrittori. Ogni Archi tetto adopra i materiale medeſimi, ed oſserva gli ordini medeſimi della Architettura; e le loro opere ſono tra di sè varie nella proporzione, e nella leggiadria. Ogni Compofitore di Muſica adopra le medefime note: 0. gni Scrittore di qualſifia Lingua ado pra le medeſime parole, e ſegue le regole, che riſpettivamente ſonogli preſcritte dalla ſua arte. Tuttavia i bei riſultati, che di eſse procedono, fono, ed eſser debbono tra di sè di. verſi. Ma quanto agevol penſo che mi farebbe il ridire le regole máte riali, che vi ha, per favellar bene; tanto io temo di non faper altro che ofcuramente ragionare della varietà, e perfezione di detti riſultati; ficco me quelli, che appartengono anzi al giudicio de' noftri fenfi, che della no ftra ragione. Pur nondimeno per le í PO Del Sig. Gregorio Breſami. 491 poche coſe in genere, che io ſono per accennare, ſpero che il mio ra gionamento fia di qualche utilità a coloro che non fono eſtremamente otcufi nel capire la vaghezza della noftra favella; ed a Voi, Signori Accademici forſe non diſcaro ad udire. ! A noſtra Lingua, ſecondo l'opi nion mia, da altri chiamaſi Ita liana perchè di tutta Italia' fi fon preſi i vocaboli, donde è compoſta: da alcuni chiamaGi Volgare, forſe per chè uſata, ed inteſa volgarmente:E da cercuni chiamaſi Toſcana, o perchè il più de' vocaboli fi fon preſi appun to di Toſcana, o perchè agli Toſca ni, come a Padri di detta lingua, e come a Tutori d'orecchio, e di giu, dicio finiffimo, meritamente è conce. duto il diritto di giudicar della puri tà, e della barbarie di ciaſcun voca bolo. E nel vero ad evitare la con fufione, che ne addiverrebbe, ſe cia. ſcuno a ſuo talento uſaſse di nuove voci; egli è del pari laudevole che neceſsario, che v'abbia il ſuo Tribunale inappellabile, che altri vocaboli diſapprova come anticaglie, altri non ammette come barbari, ed altri ritie. ne, o adotta come neceſsarj, o leg giadri. Il che dà a divedere, che la noſtra Lingua è un corpo vivo ſog. getto ad alterazione, in quella guila che ſono gli altri tutti, o naturali o politici. E perchè qualſivoglia cor ро dalla ſteſsa ſua naturale alterazio ne è minacciato di rovina; faggiamen te fanno i Signori Accademici della Cruſca, che non adottano per Mae ftro di Lingua ogni triſtanzuol di Gra matico, che non tiene veruno ſtile e che in luogo di vocaboli ufitati, e di proprj, ne adopra ſpeſso di affet tati, e di rancidi, di groſsolani, o di ſtranieri. Benst a gran ragione a dottarono, e quando che ſia, ſon cere to che adotteranno i vocaboli di que? grand’ Uomini, che per la loro viva, ed ordinata fantafia, o inventarono, o crebbero alcune belle arti, o alcu« ne- ſcienze; e fu di neceſſità il trovar nuove voci ad eſprimere i loro nuovi concetti. Per altro qual biſogno, o qual capriccio egli è mai di ufar vo cmano un diſcorſo (Nè io giày caboli zotici, e duri d'altre provin cie d'Italia, o di accattarne degli ſtra nieri; quando ne abbiamo in tanta copia di cosi proprj, e di così gentili? Ma come egli ſta nel volere di Chiun que l'apparare i materiali della noſtra Lingua; non così puote ciaſcuno, o ſa farne quell'accozzamento, onde ri fulti un diſcorſo naturale, ed inſie me leggiadro: Nelle ricerche più aftrufe di qualche verità di Filica non v'ha paragone tra 'l faper indo vinare quale non fia la cauſa d'un Fea nomeno e l'indovinare quale ella fia. All'iſteſso modo confiderando io ciò, che ſi voglia per iſcriver bene ed elegantemente, ben potrei io an noverare millantà difetti, che disfora lafcero indietro di moſtrare alimeno le fonti principali, donde derivano ): ma non così di leggieri potrei additare qual fia la grazia, e l'armonia, che lo ren de vago, e lodevole. Pare io conſi dero, che benehe:la noſtra Lingua; come io difli innanzi, quaſi altro non fia, che un Mondo ideale; non oſtan te i caratteri del fuo bello, poſsono ef 494 Diſcorſo della Lingua Italian eſsere in qualche parte paragonabili con quegli, che riſpettivamente fi rav. vifano nel noſtro Mondo materiale. E certamente in quella guiſa, che a ciaſcuna parte del noſtro Cielo riſpon. de la produzione di coſe differentiffie me; forſe per ragioni ſomiglianti-, à ciaſcun paeſe riſponde un linguaggio tutto proprio, e differente dagli altri. E non fa forza, che nella noſtra me. defima Italia chiamaſseſi un tempo panis ciò, che noi al preſente chia miamo pane; poichè non è ſolamente la varia deſinenza di ſuono, che die ftingua l'una Lingua dall'altra; ben il modo, con che ſeguendo non ſo quale neceſſità, fi.concepiſcono le coſe, e fi eſprimono. Onde non è maravi glia, che non ogni Clima produca in gegni atti ad ogni genere di compo, nimenti. In fatti ſiccome non è il metro, che diſtingua la poeſia dalla prola; ma il modo diconcepire diver. ſo; cosi io porto opinione, che alme no in gran parte l'indole, e'l genio della lingua Latina tuttavia fuffifta nel la noſtra Volgaré. La qual coſa ſem. bra, che abbiale voluto confermare il divino Dante, laddove, fingendo egli di parlare con Virgilio, diſse: Tu fe il mio Maeſtro, e il mio Au tore, Tuſe folo Colui, da cui io tol. Lo bello Stile che mi ha fatto De nore. Vero è che l' Armonia dello Stile, la qual naſce ſpezialmente dallo traſpo nimento delle voci, e chiamaſi coſtru zione, a chi paragona lo ſcriver ret torico di Cicerone, o 'l robufto di Li vio col noſtro parlar familiare non può a meno di non parere di gran tratto diverfa: ma ella non parrà già tanto, paragonando un componimen. to de' Latini con un noftro ſopra un fimile ſoggetto, e d'una ſpezie mede fima. In fine molto meno ne parreb be diverſa, ove à noi foffe dato di faa per pronunziare le parole de Latini come facevan elli, cioè con quegli ac. centi, è con quelle delipenze, che per comune opinione noi abbiamo -fiera mente alterati, o perduti. Ma nos cost 496 Diſcorſo della Lingua Italiana così interviene, ove noi la predetta armonia paragoniamo con quella di qualche Lingua ſtraniera; o ci diamo a credere di poter rimeſcolarne i vo caboli, e forme di dire; che effendo d'un genio differentiffimo; ficcome non ſi appiccano giammai gli inneſti di quelle piante, che ſono tra di sè diverſe; così ciaſcuna Lingua mal com pofta tutto ciò, che fenie d'un Clima diverſo. Io dico adunque, che la no ftra Lingua in ciaſcuna ſua parte dee ſentire, per dir così, della ſua ſpezie, e della ſua Nazione. Il che riſponde a quel carattere di bellezza, che nel le coſe create e corporee chiamaſi u. nità; unità però tale, che da eſſa pro viene, ő piuttoſto in eſſa ſtà racchiu. ſo un altro carattere, che è la varie ttà; la quale come rendeſi manifeſta negli animali, e nelle piante d'un'in fteila ſpezie, e d'un iſteffo Clima; così ella dee apparire nello ſtile di cia Icuno Scrittore d' un'iſteſſa Lingua. Il qual mio ſentimento moſtra in ſem. bianti d'effer il medeſimo, che quello del celebre Baccone di Verulamio lade dove tocca della bellezza dello ftile $ 1 dis Del Sig. Gregorio Breſſani. 497 dicendo dover' egli eſſere, rivis didu um fuis, imitans neminem, nemini imi tabile". Talchè dovendofi pur togliere d'altrui i vocaboli, ed i modi di di re; conviene anche in ciò imitar la Natura, che non genera coſa, fe non colla corruzione d'un'altra: Voglio ſignificare, che quanto noi togliamo d'altrui per formare un diſcorſo, dee talmente tritarfi nel noſtro cervello innanzi ché noi lo veſtiamo di nuova forma, che al fuo apparire niuno ha da accorgerſi donde noi l'abbiamo tol to. Ed intorno a ciò comunemente non ſi dà nel ſegno; perchè altri per travolco giudicio indi ſcoſtaſi, quanto più ſi affatica di raggiugnerlo. Altri per infingardaggine li ripoſa nel limi tare del buon ſentiero, ſenza voler cercare più avanti: E finalmente altri è di ſentimento ottuſo e d'intellis genza aſſai corta a capire la bellezza, e la fecondità, per dir costi, di quel vero, che egli imprende ad imitare, Se ne fcoſtano i primi, a' quali per ciocchè troppo ftà a cuore di render fi ſingolari dagli altri e col penſare e coll' eſprimerſi; mentre ſtudiano di celu ceffare il vizio della trivialità, offen. dono nel vizio della affettazione, in comparabilmente più rincreſcevole. La qual'affettazione conſiſte in certe parole ſquarciate, e lmanioſe, ed in certi accozzamenti di quelle, che vol garmente ſi chiamano belle fraſi Iono forme di dire, che fanno notabi. le diſugguaglianza col reſtante del di ſcorſo e pe' quali (che che fi creda no gli ſciocchi) riſulta un Tutto of tremodo ftentato, e deforme. Elem pio di ciò noi abbiamo in coloro, che avendo appreſo di molti vocaboli ale la rinfufa e varj modi di favellare da parecchi Dicitori, e tutti pulitif fimi; per la vanità di moſtrarlene do viziofi, in qualunque racconto ne in trudono quanti mai poſsono il più, e mallimamente gli da loro ſtimati me no comuni; tra quali ne intrudono anche di quegli, che non ſolo male fi convengono colla ſemplicità della Na. tura; ma talora non ſi convengono colla Verità del loro ſteſso ſentimen to: e meritamente ripiglia coſtoro il noftro Sovrano Poeta, dicendo: E Del Sig. Gregorio Breffani. 499 7 1 E quale che a gradin' oltre fo metu te? LC Non vede pide dall uno all'altre filo. e 3 Per tanto niun' altra venufta, niun' altra grazia ricever puote un diſcorſo dagli vocaboli o forme di dire, fe non quella, che deriva dal collocare ciaſcuno al luogo fuo; talmente che appaja eſser i vocaboli piuttoſto, che abbiano cercato d'elser uſati dove fo. no; che d'eſser eglino ſtati cercari ftu. diofamente dagli Scrittori. E perchè tanto altri allontanafi dal vero coll' aggiungervi ciò, che non gli ſi con viene; quanto altri coll'ommettere di collocarvi ciò, che gli fi conviene; ne ſeguita che un diſcorſo rieſce diffetiofo sì ad uſare in eſso vocaboli di fover. chio, e fuori di propofito, che a ri petere alcuni vocaboli, in vece d'ale tri varj, che fi vorrebbono, ad eſpri mere propriamente i propri concerti dell'animo, ed a fervare in un ragio namento quella varietà, che richiede fi a formarlo giuſta l'eſemplare ſoprac. cennato de' corpi Fiſici. Ma che? Se gli Uomini per una parte fon moſli da certo naturale deſiderio, o da qual ſivoglia altro ſtimolo di giugnere nel la loro arte alla perfezione poſſibile i ſono all'incontro (laſciando ſtare gli altri impedimenti, che ſpeſso ſi attra verſano al lor diſegno ) comunemente refpinti dalla fatica, che loro convien durare, prima che ad eſli venga fatto di apprendere ad eſercitare qualſifia arte con lode. Ne vi ha alcuna arte per limitata, o facile che ſia ſopra le altre, che pigliandoſi a gabbo non rieſca imperfetta. Per la qual coſa, l'arte dello ſcriver bene si nella no ftra, che in ciafcuna altra Lingua, richiede anch'eſsa di molta fatica, ed induſtria. E vanno fortemente errati la maggior parte de' noftri Scrittori che da che ſentonſi forniti di alquan ei vocaboli, e modi, onde groſsamer te eſprimerſi; ed effi eſtimano di la per iſcrivere quanto baſta laudevol mente. E come fi ſcontrano in uno ſtile un poco colto, che in un certo modo dovrebbe eſser di rimprovero al loro difetto; dicono coſto che gli è uno 4 DelSig.Gregorio Breſani. 501 uno ſtile che ſente dell'affettato ', © dell'antico, „ dandogli a torto biaſmo, e mala voce. E così, diſprezzando efli animoſamente ciò che per loro poltroneria non hanno appreſo. Ferman fua opinione Prima che arte, o ragion per lor ſi ſcopra. Che ſe pur vero foſse, che uſar non non ſi poteſsero altri vocaboli, o mo di di dire, ſe non gli uſati da coſto. ro; il groſso Vocabolario della noſtra Lingua ridurrebbefi ad un libriccivolo di quattro carce;. e laddove la noſtra Lingua ora vanta di eſsere la ricchilli ma di voci, e di maniere leggiadre diverrebbe la più povera e ſmozzicata di tutte. Oltrechè in proceſso di tem po gli ottimi Scrittori, c Padri di no Itra Lingua ne diverrebbono molto oſcuri, e direi per poco in intelligi gibili ". Vuolli per tanto aver pieria conoſcenza sì de' vocaboli, che delle forme di dire; acciocchè il noſtro iti le abbia la predetta varietà, e con ef ſo la ſua unità, per cui egli mantien. fi 302 Diſcorſo della Lingua Italiana fi ſempre fomigliante a ſe ſteſſo, e per cui ſembra quaſi uſcito di una fo la trafila. E le parole groſsolane ri meſcolate colle gentili, e le parole adoperate fuor di luogo, o con fazie vole repetizione, o le parole che non ſono più in uſo; lono come altrettan te ſcabroſità, che gli impediſcono l' uſcirne. Per notabile che ſia la varie. tà, o differenza tra gli Uomini nelle parti, che fuori appajono del corpo, non è mai li grande, quanto ella è nel la capacità, ed aggiuftatezza del loro ſpirito. Per la qual cola io avviſo di non poter paragonare gli umani inge gni, che a coſe dello ſteſso genere bensi, ma di ſpezie diverſa. E fiami lecito il paragonargli a varie piante, alcune delle quali reſtano picciole, perocchè la ſtruttura primordiale de' loro ftami non comporta che fieno più oltre ſviluppate, ed eſteſe (e Gae lileo Galilci dimoſtra, che così gli Animali, come le piante, ſe foſsero d'altra grandezza, che non ſono vorrebbefi che la ſimmetria delle lor parti foſse del cutto diverſa ) ed al cune altre non ſi eſtendono, come eften Del Sig.Gregorio Breſſani. 503 eſtender ſi potrebbono per difetto dell' opportuno alimento. Varia è la eſten, fione, e'l comprendimento de' noſtri ingegni, e varia è la forte, che gli forniice di ajuti, e di occaſioni fa. vorevoli, onde poſsano coltivarli. Egli è certo perciò, che quale s'im barazza nel voler' ordire un ragiona mento, dirò così, di più fila ſopra la comprenſione, o coltura del fuo in gegno, ovvero contro all'inclinazion lua particolare; il detto ragionamen to fiaccherà da se medefimo, diffol. vendoli quaſi in brani; ed anche i vocaboli ftelli, con che vorrà eſpri merlo non avranno nè unità, nè grazia. Nè fi de'credere che l'Archi tetto, il quale fia buono da fabbrica. re una camera, fia fempre buono da faper fabbricare un palagio: Nè che un Compoſitore d'una breve, e fem. plice ſuonata fia fempre buono da con porre una Sinfonia aſſai lunga con tutte le parti, che in eſſa ſi vou gliono a formare un'armonia perfec ta: Ne in fine che un Uomo di leto dere, al quale venga fatto di ſaper unire inſieme una decina di verli > fia  per sé, ſia per queſto buono da fare un Inne go poema; come ſe il palagio, la Sinfonia, ed il poema altro non foſ. ſero, che un aggregato di più unità minori: Che nè la Camera, nè la breve Suonata, nè la decina di verfi conſiderate riſpettivamente nel pala gio, nella Sinfonia, nel poema, non lono già unità, ma parti. E però non folo deono effer belle ma deono eſſerlo, anche per riſpetto a tutte le altre parti, che ſono con efle integrali di tutta la fabbrica. Io non niego di molte opericciuole ef ſere altrettante unità nel loro gene re, come ſono le grandi; ma molto maggior forza, ed eſtenſione dinge. gno richiedeſi nel comprendere un Poema (purchè le colę.; che in eſſo fon contenute; nonoſtante che d'un racconto ſi trayalichi in altro; fien tutte come parti integrali d'una azion ſola ) nel comprender, difli, un poe ma, che un Sonetto, una lunga Ora zione, che una picciola riſtoria, ed al fro breve ragionamento: Ed il Boca caccio medesimo fempre' doviziofiffi. mo che egli è di bei modi di dire, pure Del Sig.Gregorio Breſani. sos che egli pure ſecondo la varia facilità, e feli cità, con cui egli concepiva le coſe; vario è il diletto, che egli ne reca ad eſprimerle. Nel breve racconto di qualche Novella non ha pari a dipi gnerla con vivi colori, e con genti li, con mirabile naturalezza ė lega giadria; mentre e pare a me, lia anzi increlcevole che nò nel lun. go racconto del ſuo Filocopo, e della lua Fiammetta, ed altrove. In ſom. ma colui, che imprende a far coſa ſopra la forza, e diſpoſizion nacura le del ſuo ſpirito, non potrà giam mai ben riuſcirne. Certa coſa è che un'attenzione indefeffa a leggere, e conſiderare parte per parte i gran Maeſtri della noſtra Lingua; ed un ben lungo uſo di ſcrivere, raffinano aſſai il noſtro giudicio, e perfeziona no il noſtro ſenſo, ma egli è certo ancora, che il viburno con tutto l' artificio, e la ſollecitudine degli Agri coltori, non giugnerà mai all' altezza de i Cipreſli, nè il pioppo farà mai fructo: cioè quale non avrà chiara ap prenſiva, ed eſteſa a veder per sè ſteſ lo ciò, che ſia d'uopo a formarequel Miſcell.Tom.III, Y la 506 Diſcorſo della Lingue Italiana la maniera di componimento, ch'ei fi prefigge nell'animo, dalle coſe più materiali in fuori; nè dalla copia ottimi libri, nè dalla viva voce de'pe ritiMaeſtri, non potrà mai che poco, ed oſcuramente appararlo. E per que fto appunto che gli Autori cladici del. la noſtra lingua non tenean biſogno di badare neli eſprimerſi ad altro, che a' proprj fentimenti dell'animo, a chi guarda ſottilmente, ſono impareggia bili con coloro che eſſendo ordina. riamente poveriſfimi d'ingegno, ſpen. dono tutto il loro tempo nell'imitar, gli. Ma comechè gli Uomini ſpeſſo fi Jamentino quando della lor povertà, quando della poca robuſtezza, o d'al. tro difetto del corpo, quando della loro mala volontà, o educazione; af ſai di rado, o non mai fi dolgono di non effer forniti d'ingegno, e di giu. dizio atto a qualſifia impreſa, non che a faper iſcrivere, e favellare, come ſi conviene. Anzi non v'ha coſa più na. turale, e comune, ficcome è il vede. re gli inertiſſimi del Mondo a preſu mer molto di sè, e creder di far gran cole DelSig.Gregorio Breſani. 507 coſe; quando col loro poco ſenno non fanno altro, che infucidare, e guaſta re i penſieri, e le maniere di dire che trovano ſparſe qua e là nell'altrui opere. Ecco per tutto ciò che appreſ ſo alla cognizione, che Uom dee ave re de'vocaboli, e d'altro; è da vede. re qual grandezza, e qualità di com ponimento ſia da eſſo, e qual fia la forza del ſuo ſpirito a concepire chia ramente più coſe, e'l modo, onde più facilmente, e felicemente le concepi. fce; perchè altri farà eccellente nella poeſia, che non ſarà appena di mez zano valore nella prota: ſenzachè al tri ſarà grazioſo in un genere di poe fia, che in un altro genere non ſarà gran coſa piacevole: Altri farà com. mendabile in un genere di profe; non così in un altro. Ma qualunque ſia il genere de componimenti, qualunque ne fia la fpezie, qualunque in fine ſia la abilità del noſtro fpirito a formare più queſto componimento, che quel.; ſi ha ad ogni ora in ciaſcuna coſa, grande, o picciola che ella fiafi, da aſcoltar la Natura; che forſe ſotto no. Y 2 me 508 Diſcorſo della Lingua Italiana me di Amoreaccennar volle in quei verfi il noſtro non mai baftevolmente lodato Poeta:. Io mi ſon un, che, quan do Amore ſpira, noto; e a quel mo do Ch'ei detta dentro., vo fignifican do. Ma queſto ſi vuol fare con tal artifi cio; che meglio pud eſſer inteſo da molti, che eſpreſſo da pochiſſimi. Ed io per certo non ſaprei comemeglio a parole eſprimerlo. Ben ſo eſſere i più minuti, ed eſatti raffinamenti, che fanno quel bello, quel raro in ogni coſa, per cui ella ſale in gran pregio, ed in eſſo dura coſtantemente appo ogni Etade futura. Ma la maggior par te degli Uomini, che pur ſi chiamano di profondo ſapere, non badano a dete ti raffinamenti, perchè amano meglio, come dicon efi, di raccozzare eſprimere rozzamente molte coſe, che poche con leggiadria. Di quegli poi, che ſi conoſcono, e ſi dilettano de'leg gra. 7 e di Del Sig. Gregorio Bretani. 509 giadri componimenti, altri'l fanno per averlo ſolamente udito, ed appreſo da' Maeſtri; ed altri 'l fanno maſſimamen te per propria meditazione, e quaſi per intimo ſenſo. De'primi molti po. trai udire a giudicare rettamente dell' altrui Opere, ed a ragionare a mara viglia de' precetti dell'arte; non così però ad eſeguirgli nelle loro. Oltrechè effendo ne'più perfetti Eſemplari di Lingua quella ſteſſa gradazione di ferie, che ravviſaſi in ciaſcuna ſpezie de' corpi Filici; coſicchè l'ultimo Icric tore tra gli ottimi venga ad eſsere il primo tra gli altri inferiori; rare volte avviene, che altri fuorchè i ſecondi, cioè, gli aventi il ſenſo ac comodato a conoſcere il vero ſpirito d'uno ſtile, che naſce di una bella fantaſia, correcta bensì, ma non pun to alterata dall'umano artificio; che ſappiano diſtinguere tra i buoni gli ottimi, e co'migliori gareggiar di lo de ne' loro componimenti. Benche il Mondo tutto de' Letterati non ab. bonda, che di ingegni mediocri, o di coltivati mediocremente; come ſi abbattono a qualche manie. i quali Ý 3. ra 510 Diſcorſo della Lingua Italiana 1 1 1 ra di file, o ſtrabocchevolmente fan taſtico, od in qualunque altro modo corrotto, e fallo; fannol conoſcere ed isfuggire; per altro facendo un fae fcio, come ſi dice, di tutti gli altri; hanno la ſtima medeſima di Autori di merito differentiſlimi. E non ef fendo forſe uſi di meditare ſopra ver runa coſa, per rinvenire da sè la ve rità; la credenza dell'uno di coſto ro è ſoſtegno, e ragione baſtante al la credenza dell'altro. In quanto poi a coloro che con qualche nuovo mo do di ſcrivere, tuttochè privo della venuftà, e della finezza da me ac cennata, deſtano in altrui ammira zione, e dilecto ye da i più fonte nuti per valentiffimi Scrittori; non è gran fatto da ſtupirſene, che il giu dizio della gente groffa, cioè de i più, in ſomiglianti cole è fallaciffimo. E inveſtigando io la ragione, onde in tervenga, che una ſtampita rechi al la moltitudine forſe diletto maggio re, che non reca un'armonia aggiu. ſtata; che un vafto, e bianco pala gio, che piuttoſto dovrebbe dirſi un gran mucchio di pietre, fia ftimato, ed Del Sig.Gregorio Breſſani. Sil ed ammirato più, che una picciola caſa fabbricata cơn ottima architet tura; e che finalmente uno ſtile, ed altra coſa fregolarà piaccia per av ventura più, che non piacciono le coſe fatte riſpettivamente ſecondo le buone regole dell'arte; avviſai, che ella non poſſa eſſer alcra, ſe non ſe queſt'una: che concioſiecchè ricevono gli idioti dentro di sè un'idea di cofa, che non ha nè ordine, nè proporzione, può ſembrar loro aggiuftara, e gen tile; perciocchè la confiderano in se ſteſſa ſenza paragonarla colle idee che efli hanno delle coſe veramente efiftenti; e ſenza paragonarla con que' caratteri di bellezza, che badanie do ſottilmente, fi ravviſano nelle co ſe tutte, quali elle ſono create e diſpoſte dall' Artefice fapientiſſimo: i quali caratteri vie più rendonſima nifeſti, e mirabili, quanto maggiore fi è l'attenzione, e l'intelligenza di chi gli conſidera. Quindi noi vedrem mo più maniere di ſtile ampolloſo, o d'altra guiſa falſo aver tenuto per infino a tanto che fonofi dati gli - Uomini a fare il ſopraccennato pa ra 512 Diſcorſo della Lingua Italiana > ragone; che è quanto dire a diſtin. guere l'ideale, che ha infiniti fimili fuori di se, dal chimerico, che fol tanto dimora nel noſtro ſregolato giudizio: ed all'incontro lo ſtile che è il vero (vero io intendo di quella verità, che riſulta dalla con venienza tra l'eſpreſſion noſtra, e la eſpreſſione la più acconcia, che ima giniamo effer poflibile in chi favel la, ſecondochè gli detta la Natura ) può eſſere per alcun tempo in poco pregio, appreſſo coloro, che non fanno altro, che correr dietro a ciò, she ha faccia di novità, ſenza cere care più oltre. Ma certifſima coſa è, che opinionum commenta (come di ce Cicerone ) delet dies; nature jue dicia confirmat. Ed io da capo fran camente attribuiſcoverità anche al modo di ſcrivere che pazzo è per opinion mia, qual fi crede, che non abbiavi altrove verità nelle belle are ti; ſalvo che ne' teoremi della Geo mecria, ovvero ne' calcoli dell'Arit metica: quaſichè innumerabili non foſſero i fenomeni in Natura (e tuca ti ſenza dubbio ſono nel loro gene i re Del Sig.Gregorio Breſſani. 513 VO. re aggiuſtatiſſimi ) a' quali non ſi ponno addattare ne' calcoli, nè figu re geometriche. Ma effendone noi certi altronde dell'armonia e della verità delle coſe farce dall'arte, gliam noi dire perciò, che fien men belle, o men vere di quelle, di cui noi conoſciamo in parte, e geome. tricamente dimoſtriamo l' artificio? Il perchè io dico eſſerci verità in una Cantica di Dante, eſpreſſa co me ha fatto egli; che ella non ci farebbe altrimenti, ſe l'argomento ſteſso foſse eſpreſso dall' Uomo più ſcienziato del Mondo, ma ignudo di vocaboli gentili, e di maniere di dire leggiadre: Che altra verità contiene in sè una ſteſsa immagine delineata con perfecta ſimmetria, con atteggia mento naturale, con ombreggiamenti, e colori convenienti; ed altra, ſe det ta immagine tanto quanto ſi diſcoſta dall'eſemplare di Natura; benchè noi per quella eſsa la ravvilaflimo egual mente. Ora che altro è il noſtro Icria vere, e'l noſtro favellare, ſe non che un dipignere le noſtre idee ſopra la immaginativa di chi ci ſtanno ad udi • re; 514 Diſcorſo della Lingua Italiana re; onde non dobbiam noi eſser con tenti ſol tanto, che una idea da noi groſsamente, non ſo ſe io mi debba die re piuttoſto abbozzata, che eſpreſsa, non venga tolta in iſcambio con un'al tra; ma dobbiamo innoltre porre ogni ftudio per eccitare in altrui quel vivo ſentimento di quallfia coſa, che ab biam noi medeſimi, allorchè vivamen te, e chiaramente l'abbiamo apprela. Che avvegnachè l'arte dello ſcrivere confifta tutta in un aggregato di ſegni, o di modi, ſcelti, ſe vuoi, ad arbi trio degli Uomini, io tengo non per tanto eſser detti ſegni quaſi una coſa ſteſsa con ciò, che per eſſi ne viene rape preſentato; o almeno dover eſser tali, Sì che dalfatto il dir non ſia diverſo Lungo ſarebbe il diſcender ora á ra. gionar de' particolari, che recano, o tolgono la leggiadria, e la verità a va rie maniere di componimenti. Ma ancorachè io nol faccia, il poco, che io ne accennai in comune, ſpero che per avventura defterà in chi che fia la reminiſcenza di quanto fa di meſtieri ula. Del Sig.Gregorio Breſſani. 515. uſare a voler iſcrivere con lode; per chè in fine, ſiccome non da altri, che dal proprio ſentimento ſi può appren dere a modificar variamente l'armonia della Muſica, nè della Architectura; così non da altri, che da sè veruno non può apprendere il vero modo di addattare la propria fantaſia a cutte le occaſioni particolari di aver da eſpri merſi, che ſono ſenza numero. Poco io diffi eſſere ciò, che mi cadde in animo di accennare verſo il molto che un eſperto dicitore, quello, che io non ſono, avrebbe faputo e medi tare, ed eſprimere di attinente a così raſto argomento. Con tutto ciò ten gol per lufficientiffimo; purchè ſia da tanto di deſtare in eſso voi, umanil ſimi e ſaggi Accademici, la voſtra cu rioſità ad iſcoprire le mie fallacie; onde a mio utile proprio, io appren da quanto forſe mi trovi lunge dal fe gno ' prefiſso; mentre io delidero di guidare altrui pel retro cammino del la Verità. Keywords: intorno alla lingua toscana.  Refs.: l’implicatura di Galilei, discorso intorno a nostra lingua – discorso intorno al volgare – Aligheri – vo significando – “meaning” – I am meaning – Gallileo, forma logica aristotelica – vo significando -- forma logica galileana – forma logica platonica – grammatica e geometria – grammatica profonda di Galilei -- Luigi Speranza, “Grice e Bressani” – The Swimming-Pool Library.

 

Bria – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Bria – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Grice e Brotino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Brotino or Brontino of Crotona or Metaponto. The name crops up more than once in stories about Pythagoras Some say he was his father in law, others his son in law. He is aldo said to have been a pupil of Acmaeon o Crotone. Clement of Alexandria says he wrote a book on the nature of the world. It is possible that a father and son sharing the same name have been confused with each other.

 

Grice e Bruni – interpretare – l’interpretazione di Romolo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Arezzo). Filosofo italiano. Grice: “Bruni is a philosopher – and a Griceian one at that; he reminds me when Strawson and I used to give joint seminars on ‘De interpretation;’ our tutees found it boring but we would say, ‘lay the blame on the Stagirite.” Grice: “Boezio was possibly wrong in missing the metaphorical impicature of ‘hermeneutic,’ and give us a rather boring ‘inter-pretatio’ – which is the thing Bruni uses when dealing with Cicero – Bruni is unaware if what he is doing is ‘interpreting’ or ‘volgarizare,’ i. e. render the thing into the volgare that the volgo may appreciate! His impicature seems to be: let the classics stay classic!” –Grice: “But there is a little word that Bruni uses that is crucial, ‘recta’ – interpretation has to be ‘recta,’ as opposed to incorrect – which leads us to impilcature – is over-interpretation mis-interpretation? We think it is!” – “But since an implicaturum is cancellable, we have to be VERY careful here, as Bruni is – especially when he visited I Tatti!” –  Politico, scrittore e umanista italiano di Toscana, attivo soprattutto a Firenze, della cui Repubblica ricopre la più alta carica di governo di Cancelliere. Uomo di grande personalità, arguto e forbito parlatore dotato di grande eloquenza, si insere nella disputa sulla questione della lingua, discussione apertasi con l'avvento della lingua volgare all'interno della lingua in uso specie in chiave letteraria a quell'epoca. Conobbe Filelfo ed ha come maestro Malpaghini. Nei suoi studi riscontra fenomeni di ‘corruzione’ della lingua latina dall'interno, rilevando ad esempio in Plauto le forme di assimilazione fonetica“isse” per “ipse”; oppure “colonna” per “columna”. Teorizza quindi che il latino si fosse evoluto dal proprio interno, sostenendo l'esistenza di una di-glossia. Oltre al latino antico classico, aulico, sarebbe esistito un livello inferiore, meno corretto, usato informalmente nei contesti quotidiani, da cui provengono la lingua romanza o italiana – toscano, fiorentino. Oppositore di questa teoria e Biondo, il quale sostiene invece che la causa della “decadenza” o corruzione del latino fosse stata l'aggressione esterna dei due popoli germanici: gl’ostrogoti e i longobardi. Gli studi storici hanno mostrato che le due teorie di Biondo e Bruni non sono effettivamente incompatibili. Il latino si è evoluto per ragioni, sia “interne” (e. g. le corruzioni di Plauto), sia “esterne” (le invasion dei barbari ostrogoti e longobardi). Nella prima metà Professoresi avevano pareri opposti in merito alla dignità del volgare. Filosofi come Salutati e Valla disprezzano il volgare perché non dotato di norme grammaticali; Alberti, al contrario, si adopera molto per far riconoscere il volgare come lingua ricca di dignità nel panorama filosofico. Bruni conceve il dialogo “Ad Petrum Paulum Histrum”, nel quale dava la parola a due esponenti dell'umanesimo del periodo: Salutati, appunto, e Niccoli. Il primo assere che il volgare sarebbe stato degno solo se regolamentato da assiomi precisi, e si dispiaceva del fatto che Alighieri non avesse scritto la sua Commedia nel ben più nobile latino. Niccoli propone una visione ancora più radicale, arrivando a giudicare tre fra i principali filosofi italiani Alighieri, Petrarca e Boccaccio poco più che degli ignoranti. Niccoli difende questi ultimi, riconoscendo la grandezza delle loro opere, invece di giudicarli in base alla lingua che usarono. È celebre una sua epistola in cui delinea princìpi fondamentali dell'umanesimo. È sepolto nella basilica fiorentina di Santa Croce in un monumento opera di Rossellino. Altre opere: “De primo bello punico” (della prima guerra punica);“Vita Ciceronis o Cicero novus” (vita di Cicerone, ovvero, Cicerone nuovo); “Aristotele, Ethica nicomachaea”; “Oratio in hypocritas”; Pseudo-Aristotele, “Libri oeconomici”; “Commentarius de bello punico, adattamento di Polibio”; “De militia”; “Commentarius rerum graecarum”; “De interpretatione recta” “Aristotele, Politica”; “Commentarius rerum suo tempore gestarum”; “De bello italico adversus Gothos”; “Historiae Florentini populi”, Storie del popolo fiorentino (Storia fiorentina) da Acciaiuoli ed uscì a stampa a Venezia. Vedi alla voce "letteratura umanistica" in umanesimo, riferimenti in Carlo Dionisotti, «Bruni, Leonardo», in Enciclopedia Dantesca. Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cesare Vasoli, BRUNI, Leonardo, detto Leonardo Aretin,  in Dizionario Biografico degli Italiani, Repertorium Brunianum. Lingua volgare. Questione della lingua Monumento funebre di Bruni di Rossellino, basilica di Santa Croce, Firenze. Dizionario biografico degli italiani. Epistole (in latino).  Dialogi ad Petrum Paulum Histrum di Leonardo Bruni - di Carlo Zacco   Cancelliere fiorentino. Leonardo Bruni è originario di Arezzo, ma Arezzo pochi anni dopo la sua  nascita passa sotto il controllo di Firenze, e lo stesso Bruni si può definito a pieno titolo acquisito da Firenze ed ottenne nel 1415 la cittadinanza di Firenze. E’ personaggio molto importante dal punto di vista letterario ma ebbe una funzione importante sotto il profilo amministrativo-civile perché fu uno dei più importanti cancellieri della repubblica fiorentina, successore, non immediatamente, a quello che il più noto dei cancellieri del 300: Coluccio Salutati, una grande figura di intellettuale, che si pose come diretto erede, insieme con il Boccaccio, del Petrarca. Coluccio Salutati. Coluccio è un personaggio di questo dialogo. Svolse in Firenze un ruolo molto importante sia dal punto di vista politico (più politico del Bruni), e dal punto di vista amministrativo-civile è uno dei più noti e importanti cancellieri di firenze: le sue missive sia d’ufficio che private sono moltissime, e lasciò una forte impronta. Un impronta volta a delineare l’ideologia della città di Firenze: la difesa stessa della libertà fiorentina, per fare solo un esempio fra tutti, contro la tirannide viscontea. • Gli studi di Greco. Il salutati ebbe anche un altro importante merito che fu quello di portare a Firenze gli studi di Greco. Fu per impulso del salutati, anche se non solo suo, che venne a Firenze il Crisolora: uno dei più importanti dotti bizantini e proprio tramite lui si instaurò lo studio del greco a Firenze. Intorno al Crisolora si stabilisce un gruppo di figure, non soltanto fiorentine, poiché dato che il greco si poteva studiare a Firenze, vennero anche da altri luoghi giovani per imparare il greco; e tra questi giovani che vennero a Firenze ad imparare il greco ci sta il dedicatario di questa opera: Pietro Paolo Istriano, che è Pier Paolo Vergerio, che operava nel contesto carrarese, a Firenze per studiare il greco, e poi era tornato a Carrara. A sua volta aveva scritto un trattato pedagogico intitolato “sui nobili costumi”. Trattati pedagogici: altro aspetto dell’umanesimo, molti scritti sono di carattere pedagogico perché uno degli aspetti importanti nell’umanesimo è proprio legato alla formazione dei giovani basata sulle Humanae Litterae. • L’umanesimo fiorentino. Questo è il contesto culturale entro cui nasce questa operetta, interessante perché mette in evidenza gli elementi di contrasto tra l’umanesimo inteso come un recupero classicistico di stretta osservanza e la volontà di coniugare ad un rinnovamento degli studi, quello che era la tradizione: in modo particolare quella dei tre fiorentini Dante, Petrarca e Boccaccio.  Ripresa del dialogo classico. Questa operetta non è un trattato: è impostata come una discussione, una disputatio ma è a sua volta, sviluppando alti elementi, è un altro dei caposaldi di rifondazione del dialogo in latino: sulla scorta dei classici, più sistematicamente di quanto non avesse fatto il pur importante esempio petrarchesco. Disputatio in utramque partem. Questo è un dialogo diegetico, non mimetico, dunque un dialogo dove la cornice è costantemente presente. E’ un dialogo costruito in due libri, e la discussione è svoltain utramque partem, da una parte e dall’altra. C’è un personaggio, un letterato e al tempo stesso un personaggio di un certo peso a Firenze che si chiamava Niccolò Niccoli, che sostiene due parti tra loro contrapposte: nel primo libro attacca violentemente le figure di Dante, Petrarca e Boccaccio, inserendo questo suo discorso in un attacco relativo alla condizione della cultura contemporanea: quindi denunciando lo stato di decadenza della cultura contemporanea; nel successivo libro fa unapalinodia e svolge un discorso opposto: gli elogia di questi tre personaggi. Problemi di Datazione  Problemi. Oltre al fatto del far vedere che cosa è diventata a questa altezza cronologica la disputatio, ci sono diversi aspetti in questo che  sono interessanti. a) C’è un primo problema di carattere cronologico, qui ridotta ai minimi termini, in una discussione che è ancora in corso: è un opera su cui si è discusso e scritto molto, e la cui datazione è uno degli elementi di discussione. b) Altro elemento di discussione che è collegato a questo è se questi due libri siano stati concepitiunitariamente o se il secondo sia stato scritto dopo: cioè se l’autore avesse cambiato idea rispetto a quello che aveva fatto sostenere al Niccoli e avesse svolto poi nel secondo libro successivamente una palinodia egli stesso nel celebrare l’elogio dei tre fiorentini.  a) la datazione Termini ante/post quem. L’opinione più persuasiva a tal proposito è questa. Innanzitutto c’è un problema di tempo interno: c’è un indicazione precisa dal punto di vista cronologico, come emerge all’inizio del dialogo; questo dialogo è collocato in due giorni diversi, uno successivo all’altro, nei giorni di Pasqua dell’anno 1401. Il fatto che come tempo interno sia dato il 1401 non significa che quello sia il tempo reale di scrittura naturalmente. Comunque, posto che qui venga messo come data il 1401 è evidente che il Bruni non potè scrivere l’opera prima del 1401. L’altro termine di riferimento non dopo il quale fu scritta l’opera, è il 1408 perché in quella data, in una lettera, Bruni stesso direttamente ci parla di questa sua operetta come già pubblicata (pubblicata ovviamente equivale a «circolante», almeno tra alcuni dotti). • morte di Salutati. Altro aspetto da considerare riguarda le figure dei personaggi presenti. Tra queste figure c’è quella importante, una sorta di Nume tutelare, il personaggio anziano, l’intellettuale in età avanzata rispetto al gruppo dei giovani (c’è questa differenza importante che va considerata) che èColuccio Salutati. Coluccio muore nel 1406. Se noi stiamo a guardare ai dati dell’operetta possiamo pensare che sia stata scritta quando il Salutati era ancora vivo, se consideriamo il Salutati personaggio, che ci viene presentato in vita. In  realtà però c’è tutta una serie di elementi che fanno propendere a ritenere che sia stata scritta, almeno per quello che riguarda il secondo libro, dopo la morte del Salutati. Perché si attribuiscono al salutati posizioni che difficilmente il Salutati avrebbe sottoscritto (lo sappiamo da altri dati, lettere ecc).  b) l’unitarietà Unitarietà dell’opera. Altra questione: è unitaria o no questa operetta? Su questo punto è più difficile rispondere: il primo libro presuppone indubbiamente un secondo libro che certamente modificasse l’assetto del primo con il capovolgimento di posizione. Nei termini della disputatio in utramque partemla tesi più persuasiva è che indubbiamente sotto questo profilo, quello che è svolto come materia nel secondo libro sia già dato nel primo come presupposto. Cioè che come testo dal punto di vistaunitario il bruni avesse pensato all’opera in due libri; certo però è che ci sono alcune piccole diffrazionidall’uno all’altro. Cambia la casa dove si svolgono i dialoghi; viene introdotta un’altra figura, cosa possibile anche per alcuni spunti ciceroniani a dire il vero, ma questo muta alcuni aspetti e alcune parti dell’impostazione: in altre parole non è da escludere che il progetto originario, pur prevedendo un secondo libro come è nella logica con cui è stata scritta l’opera, si sia poi svolto effettivamente in untempo successivo nel secondo libro. Ciò non toglie che, così come è svolta, l’opera abbia un assetto contenutistico unitario, anche nell’impianto della disputa in entrambe le direzioni. Modello ciceroniano  Il modello del De Oratore. Uno degli aspetti più interessanti dal punto di vista letterario riguarda la consapevolezza da parte del bruni di voler imitare anch’egli Cicerone, non però il Laelius come aveva fatto il Petrarca, ma una delle opere più imitate da questo momento in poi in tutto il dialogo umanistico, e cioè il De Oratore. Il De Oratore è importante in quanto modello per eccellenza del Cortegiano.  Le analogie • impianto realistico. Ci sono delle modificazioni nell’impianto da parte del bruni rispetto al modello del de oratore: l’aspetto che lega maggiormente questo testo al De Oratore è l’impianto con una cornice di carattere realistico: qui abbiamo la Firenze reale di quel tempo, abbiamo personaggi storicamente individuati, abbiamo una autorità come il Salutati. • la palinodia. Altro aspetto interessante sul piano dell’impianto: la palinodia, l’affermare una cosa e il fare il discorso in opposto rispetto a quello che si è detto nel primo libro è una modalità attuata nel de oratore mediante il personaggio di Antonio: Antonio sostiene una tesi nel primo libro (nel De Oratore sono tre) e capovolge la tesi nel secondo: viene  mostrato da Cicerone il modo retorico e le ragioni di questo. E’ stato anche osservato che si tratta di una palinodia che non nega gli asserti precedenti, però sicuramente modifica quello che era stato detto nel libro precedente. • l’ambientazione. Anche la casa come luogo di raccolta, di discussione dei dialoghi è un elemento ciceroniano; e lo è anche  il tempo di festa: qui siamo a Pasqua.  Le differenze • Autore presente / assente. La differenza che balza più all’occhio è che mentre per Cicerone non c’è la presenza diretta dell’autore, perché cicerone dice di aver riportato dialoghi e discussioni che si erano svolti diversi anni prima, e c’è quindi una diffrazione di carattere temporale, per cui Cicerone afferma di aver riportato la testimonianza di chi gli aveva raccontato quei dialoghi, qui invece c’è la presenza diretta dell’auctor e c’è una attualizzazione totale, nel senso che a prescindere dalla data specifica, siamo all’inizio del 400, e i temi trattati sono altrettanto attuali e attualizzati.  Vediamo solo la prima parte, ma senza leggere la seconda non si capisce l’effettivo svolgimento del discorso. Alcuni moduli che vediamo riguardano solo questo dialogo, altri riguardano una modalità che nel tempo viene ad essere ripresa e si evolve, come vedremo nel Cortegiano, dove siamo però in un ambiente diverso: questo cittadino, quello di Castiglione, della corte. Questo è  ambiente privato: un gruppo di amici che discutono tra di loro.    Il testo Il dibattito sulle tre glorie fiorentine Queste discussioni non sono invenzione del Bruni: abbiamo altre tracce e testimonianze in ambito fiorentino in relazione alle critiche che gruppi di giovani classicisti di stretta osservanza avevano avanzato criticando aspramente le cosiddette glorie fiorentine: Dante Petrarca e Boccaccio. Quello che sta al fondo di questo dialogo è un problema e un tema di discussione quanto mai attuale nella Firenze del tempo. Se a noi può sembrare strano, visto che pensando a Dante pensiamo ad un grandissimo poeta e autore, trovare Dante trattato come un autore di popolo, di farsettai, di pescivendoli eccetera, può dare adito a qualche stupore. Le stesse accuse sono riferite da altri, non li introduce solo il bruni: i problemi di cui si discute sono problemi su cui le discussioni c’erano nella Firenze del tempo. Abbiamo dunque da un lato si afferma prima questo aspetto destruens  e dall’altro lo stesso che dice di aver parlato di quelle cose per ragioni di carattere retorico e per fare in modo che fosse proprio Coluccio salutati a fare l’elogio. Quindi li giustifica come una sorta di esercizio di simulazione retorica.  La dedicatoria  L’antico detto. Vediamo i caposaldi di questo discorso. Anche qui abbiamo un proemio che è una lettera dedicatoria molto breve rivolta al Vergerio. La lettera si apre con un antico detto di un saggio, e sia apre così a mo’ di omaggio verso il Vergerio, che con questo detto, attribuito a Francesco il vecchio da carrara, suo signore, aveva aperto il suo trattato. Questo detto è relativo alla patria: antico detto di un saggio che l’uomo per essere felice deve innanzitutto avere una patria illustre e nobile.  Elogio di Firenze. La patria di origine del Bruni non è più Arezzo nelle condizioni in cui era precedentemente, rovinata e distrutta ormai dai colpi della fortuna. Ha però il bruni a sua volta l’opportunità di vivere in una città eccellente, quest’opera è anche una celebrazione della grandezza di Firenze. Il fatto che Firenze sia una città eccellente è dimostrato facilmente perché lo stesso dedicatario era stato con lui a Firenze compagno di studi presso il Crisolora: c’è stata dunque una comunanza di studi, di vita e di affetti.  Il dono all’amico lontano. Una comune abitudine alla conversazione e alla discussione, a dato che l’amico è lontano, desiderato e rimpianto, così come l’amico lontano desidera e rimpiange gli amici fiorentini gli manda proprio come memoria ed omaggio (il Bruni al Vergerio) la testimonianza di una delle discussioni da poco avvenute tra loro giovani amici e il Salutati, come testimonianza che  può trasmettere le discussioni di una volta allo stesso Vergerio. Anticipa, sui contenuti, ciò che riguarda la dignità degli argomenti e la dignità degli uomini. Cita i due protagonisti-antagonisti: Coluccio Salutati e il Niccoli. L’altra dichiarazione che costantemente viene fatta in trattati di questo genere è la testimonianza –dedica: dice alla fine di questo proemio: «così io rimando la disputa trascritta in questo libro in modo che tu, benchè assente, in qualche modo possa godere di quanto godiamo noi, e nel far questo ho cercato soprattutto di rendere con la massima fedeltà le due posizioni contrastanti (originale: morem utriusuqe, il costume di entrambi)» e affida allo stesso Vergerio il compito di giudicare se ci sia riuscito oppure no.  La psicologia del personaggio. Questo è un altro tratto importante: quello della delineazione del personaggio: non sono solo voci, con personaggi con una loro individualità. Essendo un dialogo diegetico questa loro personalità può essere messa in evidenza per alcuni tratti dalla cornice diegetica, ma soprattutto dal modo in cui ciascuno si esprime, e quindi da quella sorta di delineazione psicologica che deriva dal discorso. L’abilità è anche quella di rendere da parte del bruni l’atteggiamento nel dire dei due, e ne è giudice lo stesso Vergerio che li conosceva entrambi. La rappresentazione dei personaggi rappresentano anche dunque una prova distile e di bravura da  parte dell’autore. Noi non abbiamo modo di vederlo nel testo latino, ma quest’opera è letterariamente significativa anche nel movimento stesso delle voci.  Il primo libro  Cornice introduttiva Come viene fatta l’introduzione nel dialogo diegetico? Innanzitutto c’è la cornice introduttiva, che ci dà delle indicazioni relative alle circostanze del dialogo, al luogo e ai personaggi.  Bruni e Niccoli vanno a casa di Coluccio. In questa nostra cornice noi abbiamo che nel tempo delle feste, questi giovani personaggi stanno andando a casa di Coluccio Salutati, che viene definito «senza dubbio l’uomo più eminente del tempo nostro per sapere, eloquenza e dirittura morale»: triplice occorrenza che definisce il carattere del nume tutelare. Viene poi introdotto un novo personaggio: mentre stanno per andare da Coluccio Salutati incontrano Roberto De Rossi, il quale a sua volta è definito per ciò che è proprio del personaggio stesso in relazione agli studi: «uomo dedito agli studi liberali». Tutti insieme vanno da Coluccio, e De Rossi si unisce a loro.  La critica di Coluccio. Arrivati a Casa di Coluccio c’è un momento di Silenzio: Coluccio pensa che quei ragazzi gli vogliono dire qualcosa, loro non iniziano per far cominciare il maestro e quindi viene rappresentata questa pausa: un elemento di carattere anche realistico. Alla fine Coluccio, dato che nessuno parla si decide ed interviene nel discorso. Quindi la persona più autorevole inizia il suo discorso: che inizia nei termini di una conversazione, quello che può avvenire quando un gruppo di persone si trova in casa di uno che è più autorevole di loro, e questo comincia a parlare, e di fatto esprime il piacere di vederli e poi comincia, li loda per la loro passione per gli studi, ma esprime poi una critica. • importanza della disputatio. Critica relativa al fatto che hanno trascurato quello che per Coluccio invece è importante: la disputatio, l’abitudine alla discussione che secondo il Salutati è fondamentale proprio per affrontare in pieno sottili verità, per poterle sceverare compiutamente, per mantenere la mente in occupazione, e scambiando discorsi in comune per fare una gara esercitando il proprio intelletto, al fine di ottenere la gloria quando si sia superiori nella disputa rispetto agli altri, oppure la vergogna quando si è battuti; da qui verrebbe uno stimolo allo studio per imparare di più. Pag. 75, in fondo: «Che cosa può … lo sguardo di tutti». Attenzione: qui la traduzione dice questione,che potrebbe far pensare alla quaestio, nel testo latino si dice invece rem, l’oggetto della discussione, è diverso il senso da dare alla cosa. E’ importante l’esercizio perché se non si compie, chi è studioso rimane a parlare con sé stesso e con i propri libri, ma non si mette a gara e non interviene nel colloquio con gli altri uomini, e non viene ad essere di giovamento, non ottiene i frutti che possono essere dati dallo scambio argomentato delle discussioni.  Rievocazione degli studi a Bologna. Evoca gli esordi della sua stessa educazione quando era aBologna: dove aveva avuto un insigne maestro ed aveva appreso l’arte del discutere; poi aveva avuto modo di cimentarsi ulteriormente in relazione ad un dotto teologo e sapiente a Firenze, e al tempo stesso dotto in teologia, agostiniano, e insieme amante dei classici: è Luigi Marsili, che animava un cenacolo presso la chiesa di Santo Spirito, ed è una figura eminente della Firenze trecentesca, che viene anche nominato dal Petrarca. • l’elemento cronologico. Ci viene dato attraverso il Marsili l’elemento cronologico che si diceva all’inizio poiché il Marsili è indicato come morto sette anni prima: dato che era morto nel 1394, allora 7 anni prima ci porta al 1401. • L’insegnamento del Marsili. Il Marsili aveva dimostrato a Coluccio, nei tempi posteriori alla giovinezza, quando valesse la discussione: era un sapiente conoscitore degli studi di teologia, ma anche un conoscitore degli antichi; tanto profondamente legato alla scrittura degli antichi da averle assimilate, anche stilisticamente tanto da riprodurne le movenze. L’esempio che porta il Salutati di Sé e di quanto aveva guadagnato da queste discussioni è dato per mostrare attraverso la propria persona, quanto efficacemente egli ritenga sia proprio della discussione, cioè: il frutto delle sue opere era stato dato secondo il salutati proprio attraverso questa via. Dunque l’esercizio è fondamentale. Su questo punto si intavola tutta la discussione che segue.  Sintesi • Coluccio Salutati, pur sostenendo di ammirare gli amici per la loro apssione per gli studi, criticava il fatto che non si dedicassero, come esercizio non solo opportuno e utile, ma necessario, la disputazione. • Coluccio aveva portato il proprio esempio sia dalle indicazioni che aveva ricevuto dalla scuola di grammatica quando era un giovane studente a bologna, e sia per quello che aveva  ricavato dal rapporto continuo assiduo e importante con il dotto teologo studioso dei classici Luigi Marsili. • Una indicazione del Marsili ci dà l’indicazione del tempo interno del dialogo nel 1401. • Il discorso del Salutati si concludeva con una esortazione ai giovani perché si dedicassero alla disputa e cercassero di dare maggior frutto ai loro studi.  La risposta di Niccolò. Come personaggio antagonista risponde Niccolò Niccoli: fin dalla presentazione che nella dedicatoria aveva fatto al Vergerio il Bruni aveva presentato le due figure di Coluccio e Niccoli proprio in questo senso. In più di un momento pare che Niccoli dia ragione al Salutati riconoscendo l’importanza della disputa che potrebbe giovare molto agli studi, e lodando il Salutati per l’efficacia sul piano dell’eloquenza con cui aveva dimostrato questa tesi; e ricorda a sua volta la figura del Crisolora, chiamato dallo stesso Salutati nel 1396 e da cui questi giovani avevano imparato il greco. Il salutati invece aveva preso i primi rudimenti ma non tanto da essere in grado di fare una traduzione dal greco al latino.  Le colpe della generazione precedente. Pare che Niccoli dia ragione al salutati, ma  non è così: egli giustifica se stesso e i suoi amici dicendo che se non svolgono quella esercitazione non possono essere accusati i ragazzi stessi ma devono essere accusati i tempi: c’è qui una rappresentazione estremamente negativa, che riprende alcuni tratti del Bruni scrittore già ben presenti nelle opere polemiche di Petrarca, e che per alcuni elementi emergono anche nel De Vita Solitaria, un attacco da parte del Niccoli molto duro nei confronti della condizione in cui è ridotta la cultura per colpa delle generazioni precedenti e che dispersero il grande patrimonio della cultura antica. Di fatto come sappiamo la concezione stessa del medioevo nasce polemicamente proprio in contrapposizione con quello che riguarda la volontà da parte degli uomini umanisti in primo luogo di ritornare alle fonti della vera sapienza degli antichi superando la decadenza; è una notazione polemica questa che noi non facciamo nostra, ma che riguarda la cultura del tempo. • Penuria di libri. Il Niccoli spiega che per poter svolgere una disputatio è indispensabile padroneggiare bene  un argomento, e per fare questo bisogna avere una grande mole di conoscenze; Niccoli si domanda come si possa acquisire una tale mole di conoscenze in questi tempi oscuri, con tanta penuria di libri; invita a considerare poi come erano le discipline umanistiche in passato e come sono oggi: parte qui una sorta di rassegna che mostra le radici greche della filosofia, mostra che cosa comportò il passaggio a Roma della filosofia dei greci e mostra come ai tempi moderni è ridotta la filosofia.  Polemica contro gli aristotelici. Qui il Niccoli si lancia, sulla scorta di considerazioni già petrarchesche (non qui enunciate come tali, perché non si fa qui il  nome di Petrarca) contro i filosofi e soprattutto contro gli aristotelici: non contro Aristotele, ma contro gli aristotelici che tutto basano sull’autorità di un solo filosofo, e tutto basano sul cosiddetto ipse dixit, essi d’altra parte fanno questo sulla base di un'unica autorità, e non soltanto mostrano con ciò di non conoscere bene ciò di cui parlano, ma mostrano una grande arroganza: la dimostrazione della loro arroganza e della difficoltà nel padroneggiare gli scritti di Aristotele, trova una base polemicamente anche con riferimento a una polemica che a sua volta contro i retori del suo tempo aveva fatto cicerone. • la corruzione del latino e dei testi. Poi ritorna all’oggi e accusa i filosofi aristotelici di parlare di cose che in realtà non sanno, e come possono saperle? Se questi non solo ignorano il greco, ma ignorano in gran parte anche il latino? E qui è sotto accusa anche il latino «pervertito» del medioevo, che non era quello degli umanisti. Addirittura il Niccoli dice che se tornasse lo stesso Aristotele, non riconoscerebbe neppure più i suoi testi; sottolinea un aspetto importante da un punto di vista filologico, cioè il problema della restituzione critica dei testi aristotelici, il problema cioè di andare a cercare il maggior numero di esemplari dei testi di Aristotele e il tentativo di restituirli alla loro rispettiva lezione, e questo poteva essere fatto a partire dal testo greco. La conoscenza del greco che questo circolo di umanisti possedeva, era in quei tempi appannaggio di quei pochi che avevano beneficiato, sulla scorta del Crisolora.  Altro affondo: gli occamisti. Dopo questo attacco agli aristotelici passa ad attaccare i dialettici: anche questa è una polemica già petrarchesca, con i cosiddetti barbari Britanni, soprattutto dialettici e logici occamisti, seguaci di Occam: secondo le accuse che venivano fatte essi si occupavano di cose da poco, di frivolezze, invece che di occuparsi di cose importanti ed eccellenti. Ciò non vale solo per le due discipline evocate ma dice che potrebbe dirsi lo stesso di tutte le altre arti: Grammatica, retorica e tutte le altre arti. Non mancano gli ingegni, ma mancano i mezzi per imparare in questa condizione del sapere. Non abbiamo né mezzi ne maestri.  L’eccezione del Salutati. A questo punto è chiaro che occorre fare un eccezione, perché sennò nel contesto del discorso ciò avrebbe significato attaccare lo stesso Salutati; allora il Salutati è salvato dal Niccoli ed elogiato e rappresenta l’eccezione che conferma la regola. Perché il Salutati ha  potuto far frutto con i suoi studi? In virtù del suo grande ingegno, quasi divino, che gli ha consentito di fare quel salto di qualità e quindi di essere l’eccezione alla regola.  Ubi sunt. L’ultima parte del Discorso di Niccoli si imposta su quel modello di elegiaco tema dell’Ubi Sunt, dove sono mai?, tanto presente in ambito medievale, ma qui piegato a lamentare la mancanza dei grandi libri dei classici; e fa un elenco di libri di grandi autori che mancano. Il precetto di Pitagora. Aggiunge poi un aspetto legato alla necessità del silenzio cui sono costretti, e fa un riferimento ad un precetto dell’antico filosofi Pitagora: Pitagora aveva invitato i discepoli, prima di parlare, a meditare e restare in silenzio per cinque anni, e se i discepoli di Pitagora, che pure avevano tale maestro e tale possibilità stante la cultura del tempo antico, come potranno questi giovani parlare e mettersi a disputare? Dice il Niccoli:  «noi che non abbiamo  né maestri ne insegnamenti né libri: come possiamo fare questo? Dunque non ti devi arrabbiare con noi se stiamo zitti e non discutiamo, non è colpa nostra ma dei tempi».  Torna la cornice. A questo punto (pag 91) ritorna la cornice. Al discorso diretto viene reintrodotta la cornice con una sorta di segno teatrale: una pausa di silenzio che fa si che ci sia anche uno stacco in relazione alla voce che ora segue; uno degli aspetti efficaci del dialogo è la messa in scienza dei personaggi e quindi la rappresentazione delle loro voci. La cornice interviene diegeticamente introdotta dal narratore-autore, che interrompe il flusso del discorso, segnando appunto una pausa di silenzio. Disputa intorno a disputare. Interviene Coluccio rilevando la contraddizione, perché il Niccoli che aveva sostenuto di non poter parlare e discutere a causa dei tempi, aveva a sua volta dato unabrillante dimostrazione di essere capace di discutere con le sue stesse parole. Allora Coluccio cerca dichiudere questo discorso dicendo: «lasciamo dunque se credete questa disputa che è intorno al disputare».  Gli altri chiedono il confronto. Ma il discorso non può finire qui e c’è l’intervento di un dialogo a più voci, quindi c’è una variazione nel modo in cui sono introdotte le voci di dialogo ed efficacemente dal punto di vista letterario il dialogo viene ad essere animato. • Rossi. Interviene Roberto De Rossi, che non vuole che la discussione rimanga a metà; • Coluccio. interviene di nuovo Coluccio che dice per teme di aver destato il leone dormiente e chiede il parere degli altri: chiede innanzitutto a Roberto De Rossi se sia d’accordo con lui o con il Niccoli dichiarando che in relazione a Leonardo, cioè colui che è al tempo stesso personaggio e autore del dialogo, non ha dubbi perché ritiene che Leonardo sia d’accordo con Niccolò. • Bruni. Interviene allora con la voce che dice io  lo stesso Bruni che chiede di essere considerato ungiudice: non vuole prendere posizione; fermo restando che c’è una aggiunta, non priva di una certa ambiguità, perché riconosce che la causa è in gioco non meno di quella di Niccolò. • Rossi. Interviene infine Roberto De Rossi che a sua volta dichiara di sospendere il giudizio, e di sospendere il suo parere finché entrambi non espongono la loro opinione. Dunque Coluccio adesso deve fare una confutazione di quello che Niccoli ha detto.  La confutazione di Coluccio. Si apre una ulteriore fase del dialogo nell’ottica di una confutazione fatta da Coluccio in relazione a quello che Niccoli ha detto. In primo luogo fa notare che è facile confutare che dice che a causa dei tempi non si può disputare quando egli stesso lo ha dimostrato egli stesso disputando. C’è anche una schermaglia un poco scherzosa in relazione al Niccoli. Un altro degli aspetti del dialogo è anche l’introdurre battute per alleggerire il senso delle discussioni, così come si introduce all’interno del discorso riferendosi  ad un personaggio che inizia a parlare «sorridendo» ecc, così anche da battute. Viene ad essere interrotto a sua volta il Salutati da Roberto De Rossi con un'altra obiezione: allora se tu elogi il Niccoli che ha mostrato di poter disputare, perché dici che ci si debba esercitare? Se senza esercitarsi il Niccoli c’è riuscito così efficacemente, vuol dire che l’esercizio non è necessario. Risponde con una contro obiezione il Salutati dicendo che l’esercizio è fondamentale per poter ottenere un ulteriore eccellenza: se già ci sono delle buone disposizioni soltanto esercitandosi si può migliorare.  Elogio dell’esercizio. Coluccio si lancia in un elogio dell’esercizio. Questo esercizio e la disputa sono di nuovo ri-definiti, e questa definizione è importante: pag. 95, riga 5:«perciò … io chiamo disputa»:  - insisto su questo poiché il modo in cui è definita la disputa e la discussione delimita i caratteri della discussione stessa, e la distingue rispetto alla quaestio degli scolastici.  Non poi così bui. Il Salutati ammette che la situazione in cui versano le arti liberali non è la migliore possibile. Però in relazione all’atteggiamento assolutamente negativo nel Niccoli tende a minimizzare: sì, un po’ sono decadute, ma non al punto tale che siano nella condizione che diceva il Niccoli. E se è vero che molti libri mancano, è ben vero che altri ce ne sono, e comunque le cose che abbiamo le dobbiamo usare e non le dobbiamo disprezzare. E dunque ribadisce che il Niccoli sbaglia ad attribuire la colpa ai tempi, perché così non riconosce quello che deve imputare a sé stesso; cioè si sottrae di fatto quello che sono le sue responsabilità. Chiarisce anche che il suo intento è quello di porsi in opposizione a lui, e non di attaccarlo violentemente, cioè non è il suo un atteggiamento volutamente polemico in termini distruttivi. La illustre tradizione fiorentina. D’altra parte introduce, ritenendo che questa parte del discorso possa essere compiuta, un ulteriore passo, che poi scatenerà il resto della discussione e la reazione del Niccoli: E dice: pag. 97: «come è possibile che  tu venga a dire che in tempi moderni non ci siano possibilità da parte degli ingegni di fiorire se tu tralasci tre uomini fioriti da questa nostra città e nei nostri tempi. Dante, Petrarca e Boccaccio, che sono levati al cielo da così grande universale consenso.  C’è un motivo anche di carattere patriottico. -c’è una specificazione data in relazione a Dante che è significativa per come volgerà poi il seguito del dialogo, poiché sembra essere posta una riserva sul fatto che Dante prescelse il volgare, infatti dice «se Dante avesse usato altro stile (alio genere scribendi) io non mi contenterei di porlo insieme a quei nostri padri, ma a loro e ai greci stessi io lo anteporrei»: cioè da un lato c’è una lode del ruolo di Dante, dall’altro una riserva del modo di scrivere. E dice che quei tre non vanno dimenticati ma ricordati perché sono il vanto e la gloria della città.  Dante. E qui la voce di Niccoli esplode. In realtà il verbo non è messo, c’è un ellissi, ma il traduttore lo sottolinea permettere in evidenza l’esplosione polemica del Niccoli. C’è un vero e proprio grido del Niccoli. (pag. 97) «allora Niccoli insorse … ignorante d’ogni cosa?» - e qui comincia un atto d’accusa. Che parte da Dante, che viene accusato di non capire il latini di Virgilio, citando un passo del XXII del Purgatorio; viene accusato di non aver capito l’età di catone e di averlo invecchiato rispetto a quello che dice Lucano; viene accusato di aver preso Cesare che era un tiranno, averlo lodato, ed aver messo l’uccisore di cesare nella bocca di Lucifero; è accusato anche per la sua cultura basata sulla scolastica, e per il latino di Dante stesso. E dunque che cosa deve essere Dante? A chi deve essere lasciato Dante? A quale pubblico? Pagina 99, in fondo: «per cio … familiare solo a gente simile».  Fiorentini contro Dante. Che a gruppi di classicisti di stretta osservanza fosse rimproverato un atteggiamento simile lo sappiamo da altre fonti: che possono anche essere collegate a questo, ma ci sono anche altre fonti fiorentine che ci trasmettono questo atto d’accusa, mossa a giovani che invece di guardare alle glorie della patria. Le attaccano. L’accusa è ancora più dura perché non riguardava solo un giudizio di carattere letterario che attaccava i numi tutelari della cultura fiorentina e il vanto della cultura fiorentina, ma perché questi stessi giovani erano accusati di disinteresse nei confronti delle sorti della patria. Un po’ di tempo prima della scrittura di questi dialoghi, c’era stato uno scontro violento tra Firenze contro Gian Galeazzo Visconti, e c’era stato un momento in cui pareva che Firenze dovesse soccombere, solo la morte di Gian Galeazzo nel 1402 salva Firenze definitivamente, perché gli ultimi atti di guerra versavano molto negativamente. E si diceva che c’erano questi gruppi di giovani classicisti che si disinteressavano totalmente, che non si occupavano delle sorti della patria; e qui viene fatto un collegamento tra lo spirito civile e le glorie cittadine. Qui il discorso è riportato in termini letterari, ma c’è sotteso dell’altro. Un riverbero di questo si vede alla fine del secondo dialogo.  Petrarca e Boccaccio. Da dante si passa Petrarca, e si attacca ciò che Petrarca aveva propagandato a quattro venti in relazione alla grandezza del suo poema L’Africa in latino, poema non compiuto, e quindi da questa grande aspettativa, dice Niccoli, (noi diremmo “dalla montagna”) è saltato fuori «un topolino». Di fronte alle accuse fatte a Dante e Petrarca, è inutile continuare con Boccaccio, che viene liquidato, poiché se è inferiore ai primi due, è inutile continuare. D’altra parte non soltanto questi sono da giudicare nei termini dati, ma ancor più è da giudicare negativamente la loro singolare arroganza per come si sono dichiarati: letterati, dotti e poeti. La conclusione liquidatoria del Niccoli, a pag 103, è la seguente: «perciò Coluccio mio … non hanno sapere alcuno»: una dichiarazione radicale. A questo punto vediamo come finisce questo primo libro, perché siamo quasi alla fine. Riprende a parlare Coluccio: c’è un distacco nella cornice nell’atteggiamento «sorridendo come sua abitudine»: ora teniamo presente che i personaggi ciceroniani, dei dialoghi ciceroniani, in particolare il De Oratore, quando prendono la parola, nella cornice diegetica sono mostrati mentre a prendono «sorridendo». Allora realismo nei confronti del Niccoli: «quanto vorrei.. non abbia trovato un avversario», e qui cita gliavversari di Virgilio e Terenzio. Però gli avversari di questi grandi latini del passato erano comunque più sopportabili. Teniamo presente che questa sembra una nota caratteriale del Niccoli, questa figura del Niccoli la troviamo al centro di diversi dialoghi di polemiche e lettere. Ma perché gli avversari erano più sopportabili, perché loro si opponevano ad una sola persona, e invece il Niccoli si oppone a tutti i suoi concittadini. Ma il giorno ormai muore, ed occorre differire la risposta, che necessita molto tempo, data la grandezza dei tre personaggi di cui occorre fare la lode, per compensare il vituperio di Niccolo. Coluccio rimanderà questa difesa. E qui Coluccio chiude circolarmente tornando al tema della discussione. Fine.  La conclusione del primo libro  Necessità di una lode. Il primo libro ci dice che l’attacco del Niccoli viene rifiutato in Toto dal nume tutelare, con le parole del quale si era aperto il dialogo del primo libro, e a causa del quale si erano svolti questi colloqui. [30:57] Viene rimandato, senza un’indicazione che dica a quando, viene detto che sarebbe necessario un discorso non breve e che il tempo lo impedisce. Allora a questo punto, così come è impostato questo libro, ci fa presupporre che ce ne debba esse un altro che comporti l’elogio di questi tre, perché rimane in un tempo di attesa.  Qui però c’è un problema relativo al modo di trasmissione dei manoscritti dei nostri dialoghi in relazione alla fortuna del testo: devo dire che i Dialogi ebbero una notevolissima fortuna, abbiamo un numero rilevante di manoscritti però c’è anche un dato che non possiamo eludere: una parte di manoscritti ci trasmette il primo libro soltanto, quindi sembra di capire che una circolazione di questo primo libro sia stata precedente o autonoma rispetto alla diffusione dell’opera completa, cioè dei due libri. Questo non vuol dire che tra il primo e il secondo  ci sia uno iato di composizione, anche se è una delle testi che sono state avanzate; e non significa soprattutto che il secondo libro sia una aggiunta esterna, successiva o pensata dopo, perché in realtà la conclusione stessa del libro anche se non è determinata, è la conclusione che compare spesso nei dialoghi, anche ciceroniani, quando viene rimandato ad un successivo giorno. Ma qui non è specificato il quando, questo è vero, quindi c’è qualche interrogativo che pone la conclusione di questo primo libro.    Il secondo libro  Il secondo libro si imposta certamente in un rapporto che possiamo definire, considerando l’opera nel suo insieme un rapporto unitario, un rapporto non senza qualche diffrazione: cioè noi ci aspetteremmo qualcosa d’altro, e cioè che fosse Coluccio a riprendere la lode dei tre grandi fiorentini, e soprattutto che si riagganciasse a quello che è stato detto nel primo libro. Invece il modo in cui si riaggancia ha qualche diffrazione.  La cornice  Verso casa De Rossi. Il secondo libro del dialogo dunque si apre il giorno dopo; si ritrovano quelli che si erano uniti il giorno precedente, ma si aggiunge un altro personaggio. Altro interrogativo: questo personaggio è Piero di Ser Mini, definito «giovane sveglio e sommamente facondo». Come ricorda la nota che questo Piero di Ser Mini fu successore del Salutati nella cancelleria di Firenze. Era rappresentato come personaggio familiare e vicino a Coluccio, e insieme alla sua comparsa cambia anche la sede dei personaggi: si ritrovano i personaggi del primo dialogo, tranne Roberto de Rossi, che vanno appunto a casa di Roberto de Rossi; nel primo il De Rossi si era aggiunto, ora i tre si aggiungono a lui. • Oltr’Arno. C’è un passaggio nella dislocazione che non è privo di significato: vanno oltr’Arno, perché Roberto De Rossi abitava al di là dell’Arno, oltre Palazzo Pitti; interessante nella dislocazione perché quando finisce il dialogo ritorneranno dall’altra parte: è come se uscissero dalla città e tornassero in città una volta concluso l’elogio e restituita per certi versi la pienezza della compartecipazione di quella che è l’opinione dominante. Ci sono anche connotazioni che rimandano a luoghi per eccellenza propri di quelli che sono dibattiti di natura filosofica, anche se questo non è propriamente filosofico: si parla del giardino, del portico.  Lode di Firenze. A questo punto non comincia una discussione come avevamo visto essere terminata nel secondo libro, ma il nostro discorso comincia in un altro modo: comincia con una laudatio di Firenze. Bisogna ricordare brevemente due cose che devono essere tenute presenti per capire meglio:  a) L’encomio di Bruni.  il Bruni aveva scritto presumibilmente tra il 1403 e il 1404, una laudatio, unencomio, uno scritto il lode di Firenze; particolarmente interessante in relazione alla tradizione delle lodi alla città perché cambia l’impostazione: si basa sul Panatenaico di Elio Aristide, cioè viene magnificata Firenze sul modello dell’elogio di Atene, e l’elogio viene fatto per tutti gli elementi di Firenze, dall’aspetto fisico e monumentale della città, alle sue istituzioni, alla città come rappresentativa al massimo grado come figlia e erede di Roma, perché i Romani erano stati fondatori di Firenze ai tempi della repubblica romana (secondo l’ipotesi avanzata in quegli ultimi anni), ed era la depositaria e l’erede della libertà repubblicana; quest’operetta era stata importante, e qui l’elogio in alto stile viene fatto proprio da Salutati, che fa l’elogio della città dicendo per esempio quali magnifici palazzi ci sono (e mostra i palazzi appena oltrepassati per andare da Roberto de Rossi) e dice quanto bene ha fatto Leonardo Bruni a lodare Firenze e loda a sua volta, lodando Firenze, quella che il Bruni la fatto della città (esalta la laudatio di Bruni). • l’encomio dell’«encomio». Quindi che cosa ottiene il bruni come autore in questo modo?  Mette lapropria opera come lodata dallo stesso Salutati. Ci sono anche dei nessi con alcune altre opere del Salutati stesso. Questo elogio viene completato dall’intervento di Pietro di Ser Mini e poi di altri e viene a toccare in questo modo, come se fosse un discorso che si svolge naturalmente, viene a toccare proprio il tema in oggetto, e cioè l’elogio delle glorie della città, le glorie letterarie. b) Per capire altri punti facciamo presente che a pagina 107 viene citata un operetta del Salutati, dal Salutati stesso: è un trattato scritto nel 1400 si intitolava De Tyranno; qui il Salutati aveva difeso la legittimità del potere di Cesare, e soprattutto aveva difeso Dante per la posizione assunta nella sua opera. Non è che qui adesso il Salutati faccia una palinodia di quello che aveva scritto, però qui ne dà una interpretazione un tantino diversa; e questa è una ragione che ci fa pensare che il Salutati fosse morto a quell’epoca, perché non avrebbe ma accettato, conoscendo quanto fosse molto fortemente difensore delle proprie idee e posizioni.  Una diffrazione: il parere di De Rossi. Lasciando stare questo aspetto del problema, passiamo a parlare dei vanti di Firenze, e Roberto (al quale erano state ricordate le glorie politiche della propria famiglia in difesa del partito guelfo) diceva che bisognerebbe svolgere le lodi di questi personaggi, perché questi tre poeti non sono davvero «la minor parte della nostra gloria». Noi però ci dobbiamo domandare quale fosse la posizione di Roberto nel libro precedente: aveva detto di non voler dare giudizi, di aspettare a dare un parere, mentre qui si dichiara finalmente d’accordo. Allora Coluccio risponde, ed anche questo ci stupisce in quanto non dice che tale elogio effettivamente vada fatto, infatti Coluccio dice: «sei nel giusto Roberto, essi sono non solo la minima parte, ma anzi di gran lunga la fonte maggiore della nostra gloria; ma che debbo fare ancora, non aprii ieri a sufficienza il mio sentire su quei tre sommi?» ma in realtà non aveva risposto: aveva solo detto che era contrario al parere del Niccoli, e che per svolgere l’elogio ci voleva molto tempo: quindi c’è una vera e propria diffrazione, seppure lieve in questo. Integrazione della laudatio del Bruni. Teniamo presente che nella laudatio di Firenze il bruni aveva glissato sulle glorie fiorentine sotto questo aspetto: cioè nella laudatio non sono citati Dante, Petrarca e Boccaccio; la laudatio si conclude con il vanto degli egregi fiorentini, ma non ci sono i nomi, è un vanto generale. Questa parte ora, in un certo senso si riaggancia alla laudatio del bruni e la completa: in un certo senso questo secondo libro ha indubbiamente anche questo scopo. Tanto più che il Bruni, quando nelle sue lettere parla di questo testo, lo definisce «i libri dei nuovi poeti», quindi l’aggancio con la laudatio indubbiamente amplifica e porta in una direzione questo discorso.  Niccoli Smascherato. Come si può risolvere il problema a questo punto? Niccoli rimane sulla posizione di prima? No. Vien operata una definizione in chiave retorica della posizione del Niccoli: di fatto Coluccio afferma di aver ben capito il giorno prima che il Niccoli aveva fatto questo in modo artificioso: l’aveva fatto non dicendo quello che pensava lui, ma lo aveva fatto per provocarlo,perché quello che Niccoli voleva era che lui facesse l’elogio, ma Salutati non ci era caduto, ed aveva capito bene quali erano idee di Niccoli, il quale, insieme a Bruni, continua ad insistere che sia lui a fare l’elogio dei tre Grandi: Salutati dice che farà ben questo, ma solo quando lo vorrà lui!  A questo punto c’è una schermaglia, uno scambio di battute con effetto teatrale, fino a quando c’è una sorta di rilancio tra le parti: il Salutati vuole che sia il Bruni a fare l’elogio, mentre Bruni vuole che sia Coluccio, o quanto meno vuole decidere lui chi debba farlo (e questo è un passo di tipo meta letterario, in quanto Bruni è anche scrittore!); alla fine Bruni viene fatto arbitro e decide che sia Niccoli a fare l’elogio: il Niccoli li ha attaccati, il Niccoli ora li difenda. Allora il Niccoli prende la parola e ribalta l’accusa che aveva fatto il giorno prima. Il modello di questo è stato rilevato dagli studiosi nel personaggio di Antonio tra il 1° e il 2° libro del De Oratore. Come Antonio, anche il Niccoli, pur facendo una confutazione di quelle accuse, non si adegua totalmente a quello che pensa il Salutati, così come Antonio, nel 2° libro del De Oratore non diviene totalmente dell’idea dell’altro nume tutelare: c’è una dialettica interna che rimane.  Excusatio. Innanzitutto il Niccoli si lancia in una ampia excusatio, fin troppo ampia: e questo potrebbe fare pensare che il Niccoli storico, una qualche responsabilità in queste accuse ai tre grandi potesse pure averla. Insiste dicendo che gli altri non poteva assolutamente credere che egli attaccasse veramente i tre grandi: è noto a tutti l’amore che ha avuto per l’opera di Dante, per la memoria di Petrarca, per il quale è andato fino a Padova per leggere l’Africa, l’amore per Boccaccio ecc. afferma di essere consapevole di aver fatto quello che diceva Coluccio: ha fatto un vituperio dei tre fiorentini solo per sollecitare Coluccio a fare l’elogio. Dato che a questo punto tocca a lui, è costretto a farlo, con grande soddisfazione di Coluccio che lo obbliga.  Palinodia, ma  non totale. Da pag 113 inizia la palinodia: ciò che rende grandi Dante, Petrarca e Boccaccio, e risponde alle accuse che egli stesso aveva fatto prima. Ma c’è una differenza: il Salutati si pone su questa posizione: il salutati è un innovatore che non rompe con la tradizione, è l’erede del Petrarca a Firenze, e di Boccaccio. Però il Salutati non vuole rompere e contrapporsi nello stesso modo in cui altri avevano fatto con la tradizione precedente; il Niccoli recupera le lodi dei tre, ma alla fine del suo discorso ritorna a quello che aveva detto prima: come il Salutati è un eccezione al tempo contemporaneo, così questi tre grandi fiorentini sono delle eccezioni, perché il loro grandissimo ingegno permise loro di eccellere nonostante la decadenza degli studi e nonostante la situazione del mondo loro contemporaneo. Non è quindi propriamente la posizione del salutati, ne una ritrattazione vera e propria, o una confutazione delle accuse espresse prima.  Petrarca precursore degli umanisti. Ci sono nelle cose dette diverse cose interessanti, una in particolare riguarda il Petrarca e il riconoscimento della sua funzione per l’avvio del rinnovamento negli studi umanistici: riconosce l’importanza di Petrarca come fondatore del movimento umanistico.  Il discorso improvvisato. L’altro aspetto importante per la struttura del dialogo riguarda la dichiarazione del parlare all’improvviso e senza preparazione: questo dopo aver fatto la lode di Dante; la caratteristica peculiare del dialogo è che venga fatto come una conversazione reale: gli argomenti posti in campo, come in una conversazione e senza un ordine sistematico, senza una preparazione preordinata: ciò mette in evidenza il carattere di naturalezza e libertà del discorso, rispetto a quello che sarebbe in termini sistematici e stringenti di una trattazione filosofica. Questo è un discorso, non un dialogo informa di trattato.  Petrarca e Boccaccio latini. Altro aspetto interessante, per la posizione dal punto di vista culturale è che, mentre di  Dante viene esaltata la Commedia, per vari motivi, di Petrarca e Boccaccio viene rilevata soprattutto l’opera latina: di Petrarca in larghissima misura poi, solo poco si dice della produzione in volgare; di Boccaccio il Decàmeron in quanto tale non è citato! Sono citate le opere latine: un solo accenno può far pensare al Decàmeron, ma la centralità è data alla Genealogie. A questo punto, Dopo che Niccoli ha finito il suo discorso, allora viene pronunciata l’assoluzione del Niccoli che viene scagionato da quello che aveva fatto il giorno prima:  gli viene data l’assoluzioneperché nella perorazione della causa aveva difeso le sue ragioni e quindi non è responsabile di nulla. D’altra parte però anche nel modo in cui viene data questa sorta di assoluzione, la formulazione non è priva di tratti di ambiguità: perché quello che si dice riguarda non tanto il discorso del Niccoli, quanto ciò che Niccoli aveva riportato a sé per l’amore che aveva avuto per questi autori; un margine diambiguità dunque rimane.  In definitiva. Delle Eccezioni. La parte finale del dialogo risolve e conclude dicendo che da parte del Niccoli si ritiene abbastanza largamente premiato per tutte le lodi ricevute, e ritorna però ai principi precedenti affermando che è lontano dal credere di sapere qualcosa, e proprio ritorna circolarmente la sua tesi fondamentale: «tanto più ciò mi par difficile, tanto più ammiro i fiorentini in quanto nonostante l’avversità dei tempi, per una loro sovrabbondanza di ingegno riuscirono ad essere pari o superiori agli antichi»: delle eccezioni duqnue, illuminanti ma niente altro che delle eccezioni. Il dialogo si conclude con l’intervento di Roberto e il ritorno al di là di ponte vecchio.  Modelli e fonti  La cornice. La cornice di carattere conviviale è la cornice classicamente ben autorizzata, il Simposioed altro, è un’altra delle cornici riusate, non frequentemente, nel dialogo umanistico-rinascimentale. Il fatto che qui sia stato accennato in questa forma è indizio di una attenzione da parte del Bruni verso questa nuova forma di dialogo. Abbiamo visto quali fossero i modelli, e in particolare come modello di dialogo diegetico, cioè narrativo in quanto  introdotto da cornice che continua a ritornare, il De Oratore. D’altra parte anche quando di fatto ci siano anche altri modi e altre forme come quelle miste date da cornice introduttiva e poi l’elemento di carattere mimetico, sulla scorta del Laelius de amicitia o come aveva fatto Petrarca nel Secretum, in relazione al dialogo umanistico, non per il Bruni, rimane un punto nodale di riferimento; specie in alcuni tratti che si riprendono e ricompaiono nei dialoghi quattro-cinquecenteschi: in particolare per il fatto che ci sia una cornice di carattere realistico (cosa che non c’è nel Secretum); una cornice di carattere realistico; coordinate spazio temporali che corrispondono ad aspetti di carattere realistico; e personaggi che appartengono a figure storiche ben individuate. Altro dato che rimane costante e comune è la rappresentazione scenica: c’è una dimensione teatrale largamente riconosciuta, rappresentazione scenica sia in relazione ai personaggi, sia ai personaggi che si alternano nel dialogo: personaggi che vengono a recitare un ruolo, come vedremo ancora di più nel Cortegiano. Abbiamo poi visto la dichiarazione di veridicità: l’autore dice di aver riportato un reale dialogo, e abbiamo visto come si vuole cercare di rendere evidente al lettore, di mimare l’andamento di una libera conversazione: una conversazione non preordinata.  Il dialogo  Diversi usi del dialogo. Il nostro non è un trattato, ma la forma del dialogo è una di quelle privilegiate per il trattato quattro-cinquecentesco. Naturalmente le possibilità insite possono essere diverse: in quanto noi ci possiamo trovare di fronte ad un trattato in forma di dialogo in cui si voglia veicolare unatesi, e si individua una strategia comunicativa dialogica che fa capire quale sia la sua tesi. Ma ci possono essere altre possibilità: ci può essere quella propria del confronto di opinioni, con un dialogo che si compone via via in una ricerca che si completa a vicenda, e d’altra parte ci sono anche dialoghi che rimangono aperti: sono confronti di opinioni che  non sono riconducibili in unità, e quindi la discordia rimane. Il dialogo per sua stessa natura presenta problemi di carattere interpretativo in quanto ha un margine interno di ambiguità, nel senso che ci troviamo di fronte ad enunciazioni di posizioni diverse da parte dei personaggi: dipende molto dalla strategia compositiva, che può indirizzare il lettore, ma ci possono essere delle voci, delle posizioni dei tratti che possono sembrare ambivalenti o volutamente lasciate con prospettive diverse da parte dell’autore, e questo comporta evidentemente dei problemi e difficoltà di interpretazione. Naturalmente ci sono anche dialoghi dove da questo punto di vista viene fatto intendere in maniera chiara ed evidente e viene orientata in maniera che non ci siano dubbi quella che è la prospettiva dell’autore. In questo è un notissimo l’esempio di Galileo, dove le posizioni sono definite in modo chiaro, e la posizione di Simplicio è quella di chi enuncia testi che devono essere confutate. Leonardo Bruno. Leonardo Bruni. Bruni. Keywords: interpretare, implicatura geometrica, Ethica nicomachaea, Grice, Hardie.  “Ad Petrum Paulum Histrum”, l’interpretazione di Romolo – l’interpretazione di Remolo – I sei aquile I duodici aquile– primi I sei corvi – il segnato? Refs. Luigi Speranza, “Grice e Bruni: implicatura geometrica” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bruno – L’opera – libretto di -- Atteone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nola). Filosofo italiano. Grice: “Italians should concentrate on the few Italian philosophical dialogues by Bruno in the vernacular, and leave those in ‘the learned’ for those who cannot deal with the ‘volgare’!” “My favourite has to be the one on Atteone – which Bruno describes as the ‘furor’ of a ‘heroe’ – Atteone il cacciatore – but the one on the Fiume at the Campidoglio is also very good!” --  Giordano Bruno – Grice: “A genius”. La sua filosofia, inquadrabile nel naturalismo rinascimentale d’amare infinitiamente, fonde le più diverse tradizioni filosofiche — materialismo antico, galileismo, neoplatonismo, ermetismo, mnemotecnica -- ma ruota intorno a un'unica idea: l'infinito – “l’immenso” -- inteso come l'universo infinito, effetto di un Dio infinito, in-figurabile, fatto di infiniti mondi, da amare infinitamente. Non esistono molti documenti sulla sua gioventù. È lo stesso filosofo, negli interrogatori cui fu sottoposto durante il processo che segna  gli ultimi anni della sua vita, a dare le informazioni sui suoi primi anni. Io ho nome Giordano Filippo della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia, nato ed allevato in quella città, e più precisamente nella contrada di san Giovanni del Cesco, ai piedi del monte Cicala. Figlio dell'alfiere Giovanni e di Fraulissa Savolina per quanto ho inteso dalli miei. Il Mezzogiorno era allora parte del Regno di Napoli. Fu battezzato col nome di Filippo in onore dell'erede al trono. La sua casa - che non esiste più - era modesta, ma nel suo “De immense” ricorda con commossa simpatia l'ambiente che la circondava, l'amenissimo monte Cicala, le rovine del castello del XII secolo, gli ulivi, in parte gli stessi di oggi, e di fronte, il Vesuvio, che, pensando che oltre quella montagna non vi fosse più nulla nel mondo, esplora ragazzetto. Ne trae l'insegnamento di non basarsi esclusivamente sul giudizio dei sensi, come fa, a suo dire, il grande Aristotele, imparando soprattutto che, al di là di ogni apparente limite, vi è sempre qualche cosa d'altro. Impara a leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello e compì gli studi di grammatica nella scuola di Aloia. Prosegue gli studi superiori a Napoli, che era allora nel cortile del convento di san Domenico, per apprendere lettere, logica e dialettica da Colle e lezioni private di logica da un agostiniano, Vairano.  Il Sarnese, ossia Colle e un aristotelico. Per Colle, solo il concetto conta, nessuna importanza avendo la forma nella quale il concetto e espresso. Scarse le notizie su Vairano, del quale Bruno ebbe sempre ammirazione, tanto da farlo protagonista dei suoi dialoghi cosmologici e da confidare al bibliotecario Cotin che eglio fu «il principale tutore che abbia avuto in filosofia. Per delineare la sua prima formazione, basta aggiungere che, introducendo la spiegazione del nono sigillo nella sua “Explicatio triginta sigillorum”, scrive di essersi dedicato fin da giovanissimo allo studio dell'arte della memoria, influenzato probabilmente dalla lettura del trattato Phoenix seu artificiosa memoria di Tommai. In convento  Interno della chiesa di san Domenico Maggiore a Napoli, dove Bruno seguì il suo noviziato e fu promosso agli ordini sacri A 14 anni, o 15 incirca rinuncia al nome di Filippo, come imposto dalla regola domenicana, assume il nome di Giordano, in onore a Giordano di Sassonia, successore di Domenico, o forse di Giordano Crispo, suo tutore di metafisica, e prende quindi l'abito di frate domenicano dal priore del convento di san Domenico Maggiore a Napoli, Pasca. Fnito l'anno della probatione, e admesso da lui medesimo alla professione», in realtà fu novizio il 15 giugno 1565 e professo il 16 giugno 1566, a diciotto anni. Valutando retrospettivamente, la scelta d'indossare l'abito domenicano può spiegarsi non già per un interesse alla vita religiosa o agli studi teologici – che mai ebbe, come affermò anche al processo - ma per potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il vantaggio di godere della condizione di privilegiata sicurezza che l'appartenenza a quell'ordine potente certamente gli garanta.  Che egli non fosse entrato fra i domenicani per tutelare l'ortodossia della fede cattolica lo rivelò subito l'episodio – narrato da lui stesso al processo – nel quale nel convento di san Domenico, butta via le immagini dei santi in suo possesso, conservando solo il crocefisso e invitando un novizio che legga la Historia delle sette allegrezze della Madonna a gettar via quel libro, una modesta operetta devozionale, pubblicata a Firenze, perifrasi di versi in latino di Chiaravalle, sostituendolo magari con lo studio della Vita de' santi Padri di Cavalca. Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provoca sanzioni nei suoi confronti, ma che dimostra come fosse del tutto estraneo alle tematiche devozionali contro-riformistiche. Chiesa di San Bartolomeo a Campagna, dove celebra la sua prima messa. E andato a Roma e sia stato presentato a Pio V e al cardinale Rebiba, al quale avrebbe insegnato qualche elemento di quell'arte mnemonica che tanta parte avrà nella sua speculazione filosofica. Fu ordinato suddiacono, diacono, e presbitero, celebrando la sua prima messa nel convento di san Bartolomeo a Campagna, presso Salerno, a quell'epoca appartenente ai Grimaldi, principi di Monaco, e si laurea con una tesi su Aquino e Lombardo. Non bisogna pensare che un convento fosse esclusivamente un'oasi di pace e di meditazione di spiriti eletti. Nei confronti dei frati di san Domenico Maggiore furono emesse diciotto sentenze di condanna per scandali sessuali, furti e perfino omicidi. Non deve pertanto stupire il disprezzo che ostenta sempre nei confronti dei frati, ai quali rimprovera in particolare la mancanza di cultura; e non solo, ma, secondo un'ipotesi di Spampanato comunemente accettata in sede critica, nel protagonista del suo “Candelaio”, Bonifacio, egli assai probabilmente alluse proprio a un suo con-fratello, Bonifacio da Napoli, definito nella lettera dedicatoria alla Signora Morgana B. “candelaio” “in carne ed ossa”, ossia “sodomita”. Tuttavia, la possibilità di formarsi un'ampia cultura non manca certo nel convento di san Domenico Maggiore, famoso per la ricchezza della sua biblioteca, anche se, come negli altri conventi, sono vietati i saggi di Erasmo da Rotterdam che però  si procura in parte, leggendoli di nascosto. La sua esperienza conventuale e in ogni caso decisiva. Vi puo compiere i suoi studi e formare la sua cultura leggendo di tutto, da Aristotele ad Aquino, da Gerolamo a Crisostomo, oltre alle opere di Ficino. La sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifestarono inequivocabilmente. Discutendo di arianesimo con Montalcino, ospite nel convento napoletano, sostenne che le opinioni di Ario e meno perniciose di quel che si riteneva, dichiarando che Ario dice che il verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore e la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente (DICENS, DICTOR, utterer, mittente) ed il detto (il detto, DICTUM, utteratum, missum) e però essere detto primogenito avanti ogni creatura, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si refferisce e ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto e processato, tra le altre cose, forsi de questo ancora. E all'inquisitore veneziano espresse il proprio scetticismo sulla trinità, ammettendo di aver dubitato circa il nome di “persona” del Figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre, ma considerando il Figlio, neo-platonicamente, l'intelletto e lo spirito, pitagoricamente, l'amore del padre o l'anima del mondo, non dunque “persone” o sostanze distinte, ma manifestazioni divine. Denunciato da Agostino al padre provincial Vita, costui istituì contro di lui un processo per eresia e, come racconta lui stesso agli inquisitori veneti, dubitando di non esser messo in preggione, me partto da Napoli ed ando a Roma. Raggiunse Roma, ospite del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui procuratore, Lucca, divenne pochi anni dopo generale dell'Ordine e  censura i saggi di Montaigne.  Sono anni di gravi disordini: a Roma sembra non farsi altro, scrive il cronista Gualtieri, che rubare e ammazzare: molti gittati in Tevere, né di popolo solamente, ma i monsignori, i figli di magnati, messi al tormento del fuoco, e nipoti di cardinali sono levati dal mondo e ne incolpa il debole Gregorio XIII. è accusato di aver ammazzato e gettato nel fiume un frate: scrive Cotin, fugge da Roma per un omicidio commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia. Oltre all'accusa di omicidio, ha infatti notizia che nel convento napoletano erano stati trovati, tra i suoi saggi, saggi di Crisostomo e di Gerolamo annotate da Erasmo e che si sta istruendo contro di lui un processo per eresia.  Così abbandona l'abito domenicano, riassume il nome di Filippo, lascia Roma e fugge in Liguria. Portico del Palazzo comunale di Noli, dove soggiorna per un breve periodo. Sotto il portico una lapide ricorda il soggiorno del filosofo: "Giordano Bruno Prima d'insegnare all'Europa Le leggi dell'ordine universale fu maestro in Noli di grammatica e cosmografia. è a Genova e scrive che allora, nella chiesa di Santa Maria di Castello, si adora come reliquia e si fac baciare ai fedeli la coda dell'asina che portò Gesù a Gerusalemme. Da qui, va poi a Noli, dove insegna grammatica ai bambini e cosmografia agli adulti.  è a Savona, poi a Torino, che giudica deliciosa città ma, non trovandovi impiego, per via fluviale s'indirizza a Venezia, dove alloggia in una locanda nella contrada di Frezzeria, facendovi stampare il suo primo saggio, “De' segni de' tempi”, per metter insieme un pocco de danari per potermi sustentar; la qual opera feci veder prima al reverendo padre maestro Fiorenza, domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo.  Ma a Venezia e in corso un'epidemia di peste che ha fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come Tiziano, così va a Padova dove, dietro consiglio di alcuni domenicani, riprende il saio, quindi se ne va a Brescia, dove si ferma nel convento domenicano. Qui un monaco, profeta, gran teologo e poliglotta, sospettato di stregoneria per essersi messo a profetizzare, viene da lui guarito, ritornando a essere - scrive ironicamente - il solito asino. IDa Bergamo decide di andare in Francia: passa per Milano e Torino, ed entra in Savoia passando l'inverno nel convento domenicano di Chambéry. Successivamente,  è a Ginevra, città dov'è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio e si veste di cappa, cappello e spada, aderisce al calvinismo e trova lavoro come correttore di bozze, grazie all'interessamento del marchese Caracciolo il quale, transfuga dall'Italia  vi aveva fondato la comunità evangelica italiana. S'iscrive allo studio di Ginevra come Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra. Accusa il professore di filosofia Faye di essere un cattivo insegnante e definisce pedagoghi i pastori calvinisti. È probabile che volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al calvinismo e mirata a questo scopo. E in realtà indifferente a tutte le confessioni religiose. Nella misura in cui l'adesione a una religione storica non pregiudicasse le sue convinzioni filosofiche e la libertà di professarle, sarebbe stato cattolico in Italia, calvinista in Svizzera, anglicano in Inghilterra e luterano in Germania. Arrestato per diffamazione, viene processato e scomunicato. Costretto a ritrattare. Lscia allora Ginevra e si trasferisce brevemente a Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante studio, dove occupa il posto di lettore, insegnandovi, come Grice, il “De anima”, di Aristotele e componendo un trattato di arte della memoria: la Clavis magna, che si rifarebbe all'Ars magna. A Tolosa conosce il filosofo scettico Sanches, che volle dedicargli il suo libro “Quod nihil scitur”, chiamandolo filosofo acutissimo. Ma  non ricambia la stima, se scrisse di lui di considerare stupefacente che questo asino si dia il titolo di dottore. A causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per Parigi, dove tiene un corso di lezioni sugli attributi di Dio secondo Aquino. E in seguito al successo di queste lezioni, come egli stesso racconta agli inquisitori, acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che ho e che professo, e naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesmo, conosce che non era per arte magica ma per scienzia. E doppo questo fa stampar un libro de memoria, sotto titolo “De umbris idearum”, il qual dedica a Sua Maestà; e con questa occasione si fa lettor straordinario e provvisionato. Appoggiando fattivamente l'operato politico di Enrico III di Valois, a Parigi sarebbe rimasto poco meno di due anni, occupato nella prestigiosa posizione di lecteur royal. È a Parigi che dà alle stampe le sue prime opere pervenuteci. Oltre al “De compendiosa architectura et complemento artis Lullii” vedono la luce il “De umbris idearum” (“Le ombre delle idee”) e l'Ars memoriae ("L'arte della memoria"), seguiti dal “Cantus Circaeus”, “Il canto di Circe”,  e dalla commedia in volgare intitolata “Candelaio” (Il sodomita).  Nella suai intenzioni, il saggio di argomento mnemotecnico, è distinto così in una parte di carattere teorico e in una di carattere pratico. Per lui  l'universo è un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest'ordine sono le idee, principi eterni e immutabili presenti totalmente e simultaneamente nella mente divina, ma queste idee vengono "ombrate" e si separano nell'atto di volerle intendere. Nel cosmo ogni singolo ente è dunque imitazione, immagine -- "ombra" -- della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in sé stessa la struttura dell'universo, la mente umana, che ha in sé non le idee ma le ombre delle idee (Shakespeare, l’ombra dell’ombra), può raggiungere la vera conoscenza, ossia la idea e il nesso che connetta ogni cosa con ogni altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto.  Tale mezzo si fonda sull'arte della memoria, il cui compito è di evitare la confusione generata dalla molteplicità delle immagini e di connettere la immagine della cosa con il concetto, rappresentando simbolicamente tutto il reale. Nel pensiero del filosofo, l'arte della memoria opera nel medesimo mondo dell’ombre delle idea, presentandosi come emulatrice della natura. Se dall’idea prende forma la cosa del mondo in quanto la idea contiene l’immagine di ogni cosa, e ai nostri sensi la cosa si manifestano come ombra di quella, allora tramite l'immaginazione stessa e possibile ripercorrere il cammino inverso, risalire cioè dall’ombra alle idea, dall'uomo a Dio: l'arte della memoria non è più un ausilio della retorica, ma un mezzo per ri-creare il mondo (cf. Grice metaphysical routine: creation of concept, recreation of concept, creation of thing). È dunque un processo visionario e non un metodo razionale quello che propone. A similitudine di ogni altra arte, quella della memoria ha bisogno di un sostrato (i subiecta), cioè "spazi" dell'immaginazione atti ad accogliere il simbolo adatti (gl’ “adiecta”) tramite uno strumento opportuno. Con questi presupposti, lcostruisce un “sistema” (cf. Grice, Gentzen), che associa a ogni segno una immagine proprie della mitologia, in modo da rendere possibile la codifica di segno e concetto secondo una particolare successione di immagini. Il segno puo essere visualizzato su un diagramma circolare, o "ruote mnemoniche", che girando e innestandosi l'una dentro l'altra, fornisce un strumento via via più potenti. “Il canto di Circe” è composta da due dialoghi. Protagonista del primo è la maga Circe che risentita dal constatare che l’uomo si comporta come un animale inferiore, opera un incantesimo trasformando l’uomo in bestia, mettendo così in luce la loro autentica natura. Nel secondo dialogo, dando voce a uno dei due protagonisti, Borista, riprende l'arte della memoria mostrando come memorizzare il dialogo precedente. Al testo si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior numero di spazi e i vari oggetti lì contenuti sono ogni immagine relativa a ogni concetto espresso nello scritto. Il Cantus resta dunque un trattato di mnemotecnica nel quale però il filosofo già lascia intravedere una tematica morale che e ampiamente riprese in opere successive, soprattutto nello “Spaccio de la bestia trionfante” e ne “De gli eroici furori”. Ancora pubblica infine il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un italiano popolaresco che inserisce termini in latino, toscano e napoletano, corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele.  Esterno della chiesa di Santa Maria Assunta dei Pignatelli, in Largo Corpo di Napoli, presso il Seggio del Nilo, dove Bruno ambienta il suo Candelaio. Il nome “Candelaio” deriva dalla statua del dio Nilo. La commedia è ambientata nella Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, in posti che il filosofo ben conosce per avervi soggiornato durante il suo noviziato. Il candelaio (sodomita) Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la signora Vittoria ricorrendo a pratiche magiche. L’avido alchimista Bartolomeo si ostina a voler trasformare i metalli in oro. Il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile (deutero-Esperanto). In queste tre storie si inserisce quella del pittore Gioan Bernardo, voce di lui stesso che con una corte di servi e malfattori si fa beffe di tutti e conquista Carubina.  In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua e vivace. La commedia è una feroce condanna della stupidità, dell'avarizia e della pedanteria.  Interessante nell'opera la descrizione che lui fa di sé stesso. L'autore, si voi lo conoscete, direste ch'ave una fisionomia smarrita: par che sii in contemplazione delle pene dell'inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far come fan gli altri: per il più lo vedrete fastidito e bizzarro, non si contenta di nulla, ritroso come un uomo d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Intende venire in Inghilterra il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, la cui religione non posso approvare. Dalla lettera dell'ambasciatore inglese a Parigi Cobham a Walsingham. Lascia Parigi e parte per l'Inghilterra dove, a Londra, è ospitato dall'ambasciatore di Francia Castelnau, che gli affianca il letterato Florio in quanto lui non conosce l'inglese, accompagnandolo fino al termine del suo soggiorno inglese. Nelle deposizioni lasciate agli inquisitori veneti egli sorvola sulle motivazioni di questa partenza, riferendosi genericamente ai disordini là in corso per questioni religiose. Sulla partenza da Parigi restano però aperte altre ipotesi: che Bruno fosse partito in missione segreta per conto di Enrico III; che il clima a Parigi si fosse fatto pericoloso a causa dei suoi insegnamenti. Bisogna aggiungere anche il fatto che davanti agli inquisitori veneziani, qualche anno più avanti, esprimer parole di apprezzamento per la regina d'Inghilterra Elisabetta che egli aveva conosciuto andando spesso a corte con l'ambasciatore. -- è a Oxford, e alla St. Mary sostenne con uno di quei professori una disputa pubblica. Tornato a Londra, vi pubblica l'”Ars reminiscendi”, l' “Explicatio triginta sigillorum” e il “Sigillus sigillorum” nel quale insere una lettera indirizzata al vice cancelliere di Oxford, scrivendo che là trovea dispostissimo e prontissimo un uomo col quale saggiare la misura della propria forza. È una richiesta di poter insegnare nella prestigiosa università. La proposta viene accolta. Parte per Oxford. Il “Sigillus sigillorum” e considerato di argomento mnemotecnico. Il sigillus e è una concisa trattazione teorica nella quale il filosofo introduce tematiche decisive nel suo pensiero, quali l'unità dei processi cognitivi; l'amore come legame universale; l'unicità e infinità di una forma universale che si esplica nelle infinite figure della materia, e il furore nel senso di slancio verso il divino, argomenti che saranno di lì a poco sviluppati a fondo nei successivi dialoghi italiani. È presentato inoltre in quest'opera fondamentale un altro dei temi nucleari di sua filosofia: la magia come guida e strumento di conoscenza e azione, argomento che egli amplierà nelle cosiddette opere magiche.  A Oxford tiene alcune lezioni sulle teorie copernicane, ma il suo soggiorno presso quella città dura ben poco. A Oxford non gradirono quelle novità, come testimonia Abbot, che fu presente alle lezioni di Bruno. Quell'omiciattolo italiano intraprese il tentativo, tra moltissime altre cose, di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre in realtà era la sua testa che girava e il suo cervello che non stava fermo. Le lezioni furono quindi interrotte, ufficialmente per un'accusa di plagio al “De vita coelitus comparanda” di Ficino. Sono anni questi difficili e amari per il filosofo, come traspare dal tono delle introduzioni alle opere immediatamente successive, i dialoghi londinesi: le polemiche accese e i rifiuti sono vissuti lui come una persecuzione, ingiusti oltraggi, e certo la fama che già lo aveva preceduto da Parigi non lo aiuta. Ritornato a Londra, nonostante il clima avverso, pubblica presso John Charlewood sei saggi fra le più importanti della sua produzione: sei opere filosofiche in forma dialogica, i cosiddetti "dialoghi londinesi", o anche "dialoghi italiani", perché tutti in lingua italiana: “La cena de le ceneri”; “De la causa, principio et uno”; “De l'infinito, universo e mondi”; “Spaccio de la bestia trionfante”; “Cabala del cavallo pegaseo con l'aggiunta dell'Asino cillenico”; “De gli eroici furori”. “La cena de le ceneri” dedicata a Castelnau, presso il quale era ospite, è divisa in cinque dialoghi, i protagonisti sono quattro e fra questi Teofilo può considerarsi il portavoce dell'autore. Immagina che il nobile sir Fulke Greville, il giorno delle ceneri, inviti a cena Teofilo, lui stesso, Florio, precettore della figlia dell'ambasciatore, un cavaliere e due accademici luterani di Oxford: i dottori Torquato e Nundinio. Rispondendo alle domande degli altri protagonisti, Teofilo racconta gli eventi che hanno portato all'incontro e lo svolgersi della conversazione avvenuta durante la cena, esponendo così le teorie del nolano. Bruno elogia e difende la teoria di Copernico contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come Osiander, che aveva scritto una prefazione denigratoria al De revolutionibus orbium coelestium, considera solo un'ipotesi ingegnosa quella dell'astronomo. Il mondo di Copernico, però, era ancora finito e delimitato dalla sfera delle stelle fisse. Nella Cena, non si limita a sostenere il moto della Terra di seguito alla confutazione della cosmologia tolemaica; egli presenta altresì un universo infinito: senza centro né confini. Afferma Teofilo (portavoce dell'autore) riguardo all'universo che sappiamo certo che essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve secondo la capacità sua corporale e modo suo essere infinitamente infinito. Non è possibile giamai di trovar raggione semiprobabile per la quale sia margine di questo universo corporale; e per conseguenza ancora li astri che nel suo spacio si contengono, siino di numero finito; et oltre essere naturalmente determinato cento e mezzo di quello». L'universo, che procede da Dio quale Causa infinita, è infinito a sua volta e contiene mondi innumerabili.  Per Bruno sono principi vani sostenere l'esistenza del firmamento con le sue stelle fisse, la finitezza dell'universo e che in questo esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il Sole come prima vi si immaginava ferma la Terra. Formula esempi che appaiono ad alcuni autori come antesignani del principio di relatività galileiana. Seguendo la Docta ignorantia del cardinale e umanista Cusano, sostiene l'infinità dell'universo in quanto effetto di una causa infinita. -- e ovviamente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della Terra – ma, risponde:  «Se gli dei si fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti. Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: ai primi spettano le questioni morali, ai secondi la ricerca della verità. Dunque Bruno traccia qui un confine abbastanza netto fra opere di filosofia naturale e Sacre scritture. I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà naturale. Lascia da parte l'aspetto teologico della conoscenza di Dio, del quale, come causa della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto aspirare a conoscere Dio solo per fede. Ciò che interessa a Bruno è invece la filosofia e la contemplazione della natura, la conoscenza della realtà naturale nella quale, come già aveva scritto nel De umbris, possiamo soltanto cogliere le «ombre», il divino «per modo di vestigio. La costellazione di Orione Riallacciandosi ad antiche tradizioni di pensiero, Bruno elabora una concezione animistica della materia, nella quale l'anima del mondo viene a identificarsi con la sua forma universale, e la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale. L'intelletto è il «principio formale costitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale, l'anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione.  La materia, d'altro canto, non è in sé stessa indifferenziata, un "nulla", come hanno sostenuto molti filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele.  La materia è allora il secondo principio della natura, della quale ogni cosa è formata. Essa è «potenza d'esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un principio senza l'altro. Ponendosi quindi in contrasto col dualismo aristotelico, Bruno conclude che principio formale e principio materiale benché distinti non possono essere ritenuti separati, perché «il tutto secondo la sostanza è uno».  Discendono da queste considerazioni due elementi fondamentali della filosofia bruniana: uno, tutta la materia è vita e la vita è nella materia, materia infinita; due, Dio non può essere al di fuori della materia semplicemente perché non esiste un "esterno" della materia: Dio è dentro la materia, dentro di noi. Nel “De l'infinito, universo e mondi” riprende e arricchisce temi già affrontati nei dialoghi precedenti: la necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati»; l'infinità dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti; la mancanza di un centro in un universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza: la scomparsa dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori (i pedanti) che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a dipendere da quello che dicono gli altri e pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste anticaglie e con passo più sicuro procedono verso la verità.  Chiaramente un universo eterno, infinitamente esteso, composto di un numero infinito di sistemi solari simili al nostro e sprovvisto di centro sottrae alla Terra, e di conseguenza all'uomo, quel ruolo privilegiato che Terra e uomo hanno nelle religioni giudaico-cristiane all'interno del modello della creazione, creazione che agli occhi del filosofo non ha più senso, perché come già aveva concluso nei due dialoghi precedenti, l'universo è assimilabile a un organismo vivente, dove la vita è insita in una materia infinita che perennemente muta.  Il copernicanesimo, per Bruno, rappresenta la "vera" concezione dell'universo, meglio, l'effettiva descrizione dei moti celesti. Nel Dialogo primo del De l'infinito, universo e mondi, il nolano spiega che l'universo è infinito perché tale è la sua Causa che coincide con Dio. Filoteo, portavoce dell'autore, afferma: «Qual raggione vuole che vogliamo credere che l'agente che può fare un buono infinito lo fa finito? e se lo fa finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il possere et il fare tutto uno? Perché è inmutabile, non ha contingenzia nell'operazione, né nella efficacia, ma da determinata e certa efficacia depende determinato e certo effetto inmutabilmente: onde non può essere altro che quello che è; non può essere tale quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa: atteso che l'aver potenza distinta da l'atto conviene solamente a cose mutabili». Essendo Dio infinitamente potente, dunque, il suo atto esplicativo deve esserlo altrettanto. In Dio coincidono libertà e necessità, volontà e potenza (o capacità); di conseguenza, non è credibile che all'atto della creazione Egli abbia posto un limite a sé stesso.  Bisogna tener presente che Bruno opera una netta distinzione tra l'universo e i mondi. Parlare di un sistema del mondo non vuol dire, nella sua visione del cosmo, parlare di un sistema dell'universo. L'astronomia è legittima e possibile come scienza del mondo che cade nell'ambito della nostra percezione sensibile. Ma, al di là di esso, si estende un universo infinito che contiene quei "grandi animali" che chiamiamo astri, che racchiude una pluralità infinita di mondi. Quell'universo non ha dimensioni né misura, non ha forma né figura. Di esso, che è insieme uniforme e senza forma, che non è né armonico né ordinato, non può in alcun modo darsi un sistema». «Quando aviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria, a fine che un tale non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che sia fatto prencipe un forfante.»  (Spaccio de la bestia trionfante, Fortuna (Sofia): dialogo II, parte II) Opera allegorica, lo Spaccio, costituito da tre dialoghi di argomento morale, si presta a essere interpretato su diversi livelli, tra i quali resta fondamentale quello dell'intento polemico di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del nolano rappresenta il punto più basso di un ciclo di decadenza iniziato col cristianesimo. Decadenza non soltanto religiosa, ma anche civile e filosofica: se Bruno aveva concluso nei precedenti dialoghi che la fede è necessaria per il governo dei «rozzi popoli» cercando di delimitare così i rispettivi campi d'azione di filosofia e religione, qui egli riapre quel confine.  Nella visione di Bruno, il legame fra l'uomo e il mondo, mondo naturale e mondo civile, è quello fra l'uomo e un Dio che non sta "nell'alto dei cieli", ma nel mondo, perché la «natura non è altro che dio nelle cose». Il filosofo, colui che cerca la Verità, deve pertanto necessariamente operare là dove sono situate le «ombre» del divino. L'uomo non può fare a meno di interagire con Dio, secondo il linguaggio di una comunicazione che nel mondo naturale vede l'uomo perseguire la Conoscenza, e nel mondo civile l'uomo seguire la Legge. Questo legame è proprio quello che nella storia è stato interrotto, e il mondo tutto è decaduto perché è decaduta la religione trascinando con sé e la legge e la filosofia, «di sorte che non siamo più dèi, non siamo più noi. Nello Spaccio, dunque, etica, ontologia e religione sono strettamente interconnessi. Religione, e questo va evidenziato, che Bruno intende come religione civile e naturale, e il modello cui egli si ispira è quello degli antichi Egizi e Romani, che «non adoravano Giove, come lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità come fusse in Giove. Per ristabilire il legame col divino occorre però che «prima togliamo dalle nostre spalli la grieve somma d'errori che ne trattiene.» È lo "spaccio", cioè l'espulsione di ciò che ha deteriorato quel legame: le "bestie trionfanti".  Le bestie trionfanti sono immaginate nelle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre "spacciarle", cioè cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vizi che è tempo di sostituire con altre virtù: via dunque la Falsità, l'Ipocrisia, la Malizia, la «stolta fede», la Stupidità, la Fierezza, la Fiacchezza, la Viltà, l'Ozio, l'Avarizia, l'Invidia, l'Impostura, l'Adulazione e via elencando. Occorre tornare alla semplicità, alla verità e all'operosità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza, la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.  Responsabile di questa crisi è il cristianesimo: già Paolo aveva operato il rovesciamento dei valori naturali e ora Lutero, «macchia del mondo», ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.  Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla Verità, necessaria guida per non errare. A questa segue la Prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la Sofia, la ricerca della verità; quindi segue la Legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo; infine il Giudizio, inteso come aspetto attuatorio della legge. Bruno fa quindi discendere la Legge dalla Sapienza, in una visione razionalista nel cui centro c'è l'uomo che opera cercando la Verità, in netto contrasto col cristianesimo di Paolo, che vede la legge subordinata alla liberazione dal peccato, e con la Riforma di Lutero, che vede nella "sola fede" il faro dell'uomo. Per Bruno la "gloria di Dio" si rovescia così in «vana gloria» e il patto fra Dio e gli uomini stabilito nel Nuovo Testamento si rivela «madre di tutte le forfanterie». La religione deve tornare a essere "religione civile": legame che favorisca la «communione de gli uomini», la civile conversazione. Altri valori seguono i primi cinque: la Fortezza (la forza dell'animo), la Diligenza, la Filantropia, la Magnanimità, la Semplicità, l'Entusiasmo, lo Studio, l'Operosità, eccetera. E allora vedremo, conclude beffardo Bruno, «quanto siano atti a guadagnarsi un palmo di terra questi che sono cossí effuse e prodighi a donar regni de' cieli».  È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, De gli eroici furori.  Cabala del cavallo pegaseo con l'aggiunta dell'Asino cillenico. «Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi. (Cabala del Cavallo Pegaseo, Saulino: dialogo I) La Cabala del cavallo pegaseo viene pubblicata insieme a l'Asino cillenico in unico testo. Il titolo allude a Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca nato dal sangue di Medusa decapitata da Perseo. Al termine delle sue imprese, Pegaso volò nel cielo trasformandosi in costellazione, una delle 48 elencate da Tolomeo nel suo Almagesto: la costellazione di Pegaso. "Cabala" si riferisce a una tradizione mistica originatasi in seno all'ebraismo.   Calcografia raffigurante le stelle della costellazione di Pegaso che delineano la figura del cavallo mitologico Pegaso L'opera, percorsa da una chiara vena comica, può essere letta come un divertissement, opera d'intrattenimento senza pretese; oppure interpretata in chiave allegorica, opera satirica, atto di accusa. Il cavallo nel cielo sarebbe allora un asino idealizzato, figura celeste che rimanda all'asinità umana: all'ignoranza, quella dei cabalisti, ma anche quella dei religiosi in generale. I continui riferimenti ai testi sacri si rivelano ambigui, perché da un lato suggeriscono interpretazioni, dall'altro confondono il lettore. Uno dei filoni interpretativi, legato al lavoro critico svolto da Vincenzo Spampanato, ha individuato nel cristianesimo delle origini e in Paolo di Tarso il bersaglio polemico di Bruno. De gli eroici furori. De gli eroici furori. Nei dieci dialoghi che compongono “De gli eroici furori” a Londra, individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza; quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze rivelano una passione di poco valore, un furore bass. Il desiderio di una vita volta alla contemplazione, cioè alla ricerca della verità, è invece espressione di un furore eroico, con il quale l'anima, rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto. Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, ma, al contrario, con il venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene egli stesso preda, come Atteone che nel mito ripreso da lui, avendo visto la bellezza di Diana, si trasforma in cervo ed è fatto preda dei cani, i pensieri de cose divine, che lo divorano facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, di sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri. La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e quello più alto della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un furore eroico assimiliandoci alla perenne e tormentata vicissitudine in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo. Il filosofo ci dice che per conoscere veramente l'oggetto della nostra ricerca, Diana ignuda, non dobbiamo essere virtuosi (virtù come medietà tra gli estremi) ma dobbiamo essere pazzi, furiosi, solo così potremmo arrivare a capire l'oggetto del nostro studio (Atteone trasformato in cervo). La ricerca e l'essere fuoriosi, non sono una virtù ma un vizio. Il dialogo è inoltre un prosimetro, come La vita nuova di Dante, un insieme di prosa e di poesia (distici, sonetti e una canzone finale).  Il precedente periodo oxoniense inglese è da considerarsi il più creativo di Bruno, periodo nel quale ha prodotto il maggior numero di opere fino a quando l'ambasciatore Castelnau essendo richiamato in Francia lo induce a imbarcarsi con lui; ma la nave verrà assalita dai pirati, che derubano i passeggeri d'ogni avere.  A Parigi Bruno abita vicino al Collège de Cambrai, e ogni tanto va a prendere in prestito qualche libro nella biblioteca di Saint-Victor, nella collina di Sainte-Geneviève, il cui bibliotecario, il monaco Cotin, ha l'abitudine di annotare giornalmente quanto avveniva nella biblioteca. Entrato in qualche confidenza col filosofo, da lui sappiamo che Bruno stava per pubblicare un'opera, l'Arbor philosophorum, che non ci è pervenuta, e che aveva lasciato l'Italia per «evitare le calunnie degli inquisitori, che sono ignoranti e che, non concependo la sua filosofia, lo accuserebbero di eresia». Il monaco annota tra l'altro che era ammiratore d’Aquino, che disprezzava le sottigliezze degli scolastici, dei sacramenti e anche dell'eucaristia, ignote a Pietro e a  Paolo, i quali non seppero altro che hoc est corpus meum. Dice che i torbidi religiosi sarebbero facilmente tolti di mezzo, se fossero spazzate tali questioni e confida che questa sarà presto la fine della contesa. L'anno successive pubblica, dedicata a Piero Del Bene, abate di Belleville e membro della corte francese, la Figuratio Aristotelici physici auditus, un'esposizione della fisica aristotelica. Conosce il salernitano  Mordente, che due anni prima aveva pubblicato Il Compasso, illustrazione dell'invenzione di un compasso di nuova concezione e, poiché egli non sa il latino, che ha apprezzato la sua invenzione, pubblica i “Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione ad perfectam cosmimetriae praxim”, dove elogia l'inventore ma gli rimprovera di non aver compreso tutta la portata della sua invenzione, che dimostrava l'impossibilità di una divisione infinita delle lunghezze. Offeso da questi rilievi, il Mordente protestò violentemente, sicché Bruno finì col replicare con le feroci satire dell'“Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras Deo dialogus” e del “Dialogus qui de somnii interpretatione seu geometrica sylva inscribitur. Fa stampare col nome di Hennequin l'opuscolo antiaristotelico “Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos”, partecipando alla successiva pubblica disputa nel Collège de Cambrai, ribadendo le sue critiche alla filosofia aristotelica. Contro tali critiche si levò un giovane avvocato parigino, Raoul Callier, che replicò con violenza chiamando il filosofo Giordano "Bruto". Sembra che l'intervento del Callier abbia ricevuto l'appoggio di quasi tutti gli intervenuti e che si sia scatenato un putiferio di fronte al quale il filosofo preferì, una volta tanto, allontanarsi, ma le reazioni negative provocate dal suo intervento contro la filosofia aristotelica, allora ancora in grande auge alla Sorbona, unitamente alla crisi politica e religiosa in corso in Francia e alla mancanza di appoggi a corte, lo indussero a lasciare nuovamente il suolo francese.  In Germania  La Piazza del Mercato di Wittenberg Raggiunta in giugno la Germania, Bruno soggiorna brevemente a Magonza e a Wiesbaden, passando poi a Marburg, nella cui Università risulta immatricolato come Theologiae doctor romanensis. Ma non trovando possibilità di insegnamento, probabilmente per le sue posizioni antiaristoteliche, s'immatricola a Wittenberg come Doctor italicus, insegnandovi per due anni, due anni che il filosofo trascorre in tranquilla operosità. “uomo di nessun nome e autorità fra voi, sfuggito ai tumulti di Francia, non appoggiato da alcuna raccomandazione principesca, mi avete ritenuto meritevole di cordialissima accoglienza, mi avete incluso nell'albo della vostra accademia, mi avete accolto in un consesso di uomini tanto nobili e dotti, da sembrare ai miei occhi non una scuola privata o una conventicola esoterica, bensì, come si conviene all'Atene tedesca, una vera università.»  (Dedica del De lampade combinatoria). Pubblica il De lampade combinatoria lulliana, un commento dell'Ars magna e il “De progressu et lampade venatoria logicorum”, commento ai Topica di Aristotele. Altri commenti a opere aristoteliche sono i suoi “Libri physicorum Aristotelis explanati”. Pubblica ancora, a Wittenberg, il “Camoeracensis Acrotismus”, una riedizione di “Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos”.  Un suo corso privato sulla Retorica sarà invece pubblicato col titolo di “Artificium perorandi” (l’arte della conversazione). Anche le “Animadversiones circa lampadem” e la “Lampas triginta statuarum” verranno pubblicate. Nel saggio della Yates si fa cenno al fatto che il Mocenigo aveva riferito all'Inquisizione veneziana l'intenzione di Bruno, durante il suo periodo tedesco, di creare una nuova setta. Mentre altri accusatori (il Mocenigo negherà questa affermazione) sostenevano che egli avrebbe voluto chiamare la nuova setta dei Giordaniti e che essa avrebbe attirato molto i luterani tedeschi. L'autrice inoltre si pone la domanda se in questa setta vi fossero stati dei rapporti con i Rosacroce dato che in Germania emersero all'inizio del XVII secolo presso i circoli luterani. Il nuovo duca Cristiano I, succeduto al padre morto l'11 febbraio 1586, decide di rovesciare l'indirizzo degli insegnamenti universitari che privilegiavano le dottrine del filosofo calvinista Pietro Ramo a svantaggio delle classiche teorie aristoteliche. Dovette essere questa svolta a spingere Bruno a lasciare Wittenberg, non senza la lettura di una “Oratio valedictoria”, un saluto che è un ringraziamento per l'ottima accoglienza della quale era stato gratificato:  «Sebbene fossi di nazione forestiero, esule, fuggiasco, zimbello della fortuna, piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore, premuto dall'odio della folla, quindi sprezzabile agli stolti e a quegli ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non dove splende l'oro, tinnisce l'argento, e il favore di persone loro simili tripudia e applaude, tuttavia voi, dottissimi, gravissimi e morigeratissimi senatori, non mi disprezzaste, e lo studio mio, non del tutto alieno dallo studio di tutti i dotti della vostra nazione, non lo riprovaste permettendo che fosse violata la libertà filosofica e macchiato il concetto della vostra insigne umanità.»  (citato in Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella). Ne fu ricambiato dall'affetto degli allievi, come Hieronymus Besler e Valtin Havenkenthal, il quale, nel suo saluto, lo chiama «Essere sublime, oggetto di meraviglia per tutti, dinanzi a cui stupisce la natura stessa, superata dall'opera sua, fiore d'Ausonia, Titano della splendida Nola, decoro e delizia dell'uno e l'altro cielo».  A Praga e a Helmstedt I sigilli di Giordano Bruno  Amoris   I sigilli di Giordano Bruno sono delle incisioni realizzate dallo stesso e pubblicate all'interno delle sue opere a partire dal periodo praghese. Esse rappresentano figure geometriche sovrapposte ma anche veri e propri disegni con presunte decorazioni e lettere. A parte il titolo dei sigilli non abbiamo alcuna spiegazione in merito al loro significato o al loro reale utilizzo. Fino a oggi sono state fatte molto congetture dai vari studiosi senza giungere a nessuna conclusione definitiva. Giunge a Praga, in quegli anni sede del Sacro Romano Impero, città dove rimane sei mesi. Qui pubblica, in unico testo, il De lulliano specierum scrutinio e il De lampade combinatoria Raymundi Lullii, dedicato all'ambasciatore spagnolo presso la corte imperiale, don Guillem de Santcliment (il quale vantava Raimondo Lullo fra i suoi antenati), mentre all'imperatore Rodolfo II, mecenate e appassionato di alchimia e astrologia, dedica gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, che trattano di geometria, e nella dedica rileva come per guarire i mali del mondo sia necessaria la tolleranza, sia in campo strettamente religioso – «È questa la religione che io osservo, sia per una convinzione intima sia per la consuetudine vigente nella mia patria e tra la mia gente: una religione che esclude ogni disputa e non fomenta alcuna controversia» – sia in quello filosofico, campo che deve rimanere libero da autorità precostituite e da tradizioni elevate a prescrizioni normative. Quanto a lui, «alle libere are della filosofia cercai riparo dai flutti fortunosi, desiderando la sola compagnia di coloro che comandano non di chiudere gli occhi, ma di aprirli. A me non piace dissimulare la verità che vedo, né ho timore di professarla apertamente»  Ricompensato con trecento talleri dall'imperatore, in autunno Bruno, che sperava di essere accolto a corte, decide di lasciare Praga e, dopo una breve tappa a Tubinga, giunge a Helmstedt, nella cui Università, chiamata Academia Julia, si registra.  Una targa presso il Planetario di Praga ricorda il passaggio del filosofo in quella città. per la morte del fondatore dell'Accademia, il duca Julius von Braunschweig, vi legge l'Oratio consolatoria, ove presenta sé stesso come forestiero ed esule: «spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile». In Italia «esposto alla gola e alla voracità del lupo romano, qui libero. Lì costretto a culto superstizioso e insanissimo, qui esortato a riti riformati. Lì morto per violenza di tiranni, qui vivo per l'amabilità e la giustizia di un ottimo principe». Le Muse dovrebbero essere libere per diritto naturale eppure «sono invece, in Italia e in Spagna, conculcate dai piedi di vili preti, in Francia patiscono per la guerra civile rischi gravissimi, in Belgio sono sballottate da frequenti marosi, e in alcune regioni tedesche languono infelicemente».  Poche settimane dopo viene scomunicato dal sovrintendente della Chiesa luterana della città, il teologo luterano Heinrich Boethius per motivi non noti: Bruno riesce così a collezionare le scomuniche delle maggiori confessioni europee, cattolica, calvinista e luterana. Presenta ricorso al prorettore dell'Accademia, Daniel Hoffmann, contro quello che egli definisce un abuso – perché «chi ha deciso qualcosa senza ascoltare l'altra parte, anche se lo ha fatto giustamente, non è stato giusto» – e una vendetta privata. Non ricevette però risposta, perché sembra che fosse stato lo stesso Hoffmann a istigare Boethius. Benché scomunicato, poté tuttavia rimanere ancora a Helmstedt, dove aveva ritrovato Valtin Acidalius Havenkenthal e Hieronymus Besler, già suo allievo a Wittenberg, che gli fa da copista e vedrà ancora brevemente in Italia, a Padova. Bruno compone diverse opere sulla magia, tutte pubblicate postume: il “De magia”; le “Theses de magia”, un compendio del trattato precedente, il “De magia mathematica”, che presenta come fonti la Steganographia di Tritemio, il De occulta philosophia di Agrippa e lo pseudo-Alberto Magno; il “De rerum principiis et elementis et causis” e la “Medicina”, nella quale presume di aver trovato forme di applicazione della magia nella natura. "Mago" è un termine che si presta a equivoche interpretazioni, ma che per l'autore, come egli stesso chiarisce sin dall'ìncipit dell'opera, significa innanzitutto sapiente: sapienti come per esempio erano i magi dello zoroastrismo o simili depositari della conoscenza presso altre culture del passato. La magia di cui Bruno si occupa non è pertanto quella associata alla superstizione o alla stregoneria, bensì quella che vuole incrementare il sapere e agire conseguentemente.  L'assunto fondamentale da cui il filosofo parte è l'onnipresenza di un'entità unica, che egli chiama indifferentemente "spirito divino, cosmico" o "anima del mondo" o anche "senso interiore", identificabile come quel principio universale che dà vita, movimento e vicissitudine a ogni cosa o aggregato nell'universo. Il mago deve tenere presente che come da Dio, attraverso gradi intermedi, tale spirito si comunica a ogni cosa "animandola", così è altrettanto possibile tendere a Dio dall'essere animato: questa ascensione dal particolare a Dio, dal multiforme all'Uno è una possibile definizione della "magia". Lo spirito divino, che per la sua unicità e infinità connette ogni cosa a ogni altra, consente parimenti l'azione di un corpo su un altro. Bruno chiama «vincula» i singoli nessi fra le cose: "vincolo", "legatura". La magia altro non è che lo studio di questi legami, di questa infinita trama "multidimensionale" che esiste nell'universo. Nel corso dell'opera Bruno distingue e spiega differenti tipi di legami – legami che possono essere utilizzati positivamente o negativamente, distinguendo così il mago dallo stregone. Esempi di legami sono la fede; i riti; i caratteri; i sigilli; le legature che vengono dai sensi, come la vista o l'udito; quelle che vengono dalla fantasia, eccetera.Alla fine di aprile del 1590 Giordano Bruno lascia Helmstedt e in giugno raggiunge Francoforte in compagnia di Besler, che prosegue verso l'Italia per studiare a Padova. Avrebbe voluto alloggiare dallo stampatore Wechel, come richiese al Senato di Francoforte ma la richiesta è respinta e allora Bruno andò ad abitare nel locale convento dei Carmelitani i quali, per privilegio concesso da Carlo V, non erano soggetti alla giurisdizione secolare.  Vedono la luce tre opere, i cosiddetti poemi francofortesi, culmine della ricerca filosofica di Bruno:  il “De triplici minimo et mensura ad trium speculativarum scientiarum et multarum activarum artium principia libri V”, in cui vi sono delle immagini simili alla tabula recta di Tritemio; “De monade, numero et figura liber consequens quinque”; il “De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo”. De minimo. Chi potrà ritenere che gli strumenti diano misurazioni esatte dal momento che il fluire delle cose non mantiene un identico ritmo ed un termine non si mantiene mai alla stessa distanza dall'altro? Da De minimo, in Opere latine, a cura di Carlo Monti, POMBA). Nei cinque libri del “De minimo” si distinguono tre tipi di minimo: il minimo fisico, l'atomo, che è alla base della scienza della fisica; il minimo geometrico, il punto, che è alla base della geometria, e il minimo metafisico, o monade, che è alla base della metafisica. Essere minimo significa essere in-divisibile – e dunque Aristotele erra sostenendo la divisibilità all'infinito della materia – perché, se così fosse, non raggiungendo mai la minima quantità di una sostanza, il principio e fondamento di ogni sostanza, non spiegheremmo più la costituzione, mediante aggregazioni di infiniti atomi, di mondi infiniti, in un processo di formazione altrettanto infinito. I composti, infatti, «non rimangono identici neppure per un attimo; ciascuno di essi, per lo scambio vicendevole degli innumerevoli atomi, si muta continuamente e ovunque in tutte le parti».  La materia, come il filosofo aveva già espresso nei dialoghi italiani, è in perenne mutazione, e ciò che dà vita a questo divenire è uno «spirito ordinatore», l'anima del mondo, una nell'universo infinito. Dunque nel divenire eracliteo dell'universo è situato l'essere parmenideo, uno ed eterno: materia e anima sono inscindibili, l'anima non agisce dall'esterno, poiché non c'è un esterno della materia. Ne viene che nell'atomo, la parte più piccola della materia, anch'esso animato dal medesimo spirito, il minimo e il massimo coincidono: è la coesistenza dei contrari: minimo-massimo; atomo-Dio; finito-infinito. Contrariamente agli atomisti, quali ad esempio Democrito e Leucippo, non ammette l'esistenza del vuoto. Il cosiddetto vuoto non è che un vocabolo col quale si designa il mezzo che circonda i corpi naturali. Gli atomi hanno un termine in questo mezzo, nel senso che essi né si toccano né sono separati. Inoltre distingue fra minimi assoluti e minimi relativi, e così il minimo di un cerchio è un cerchio; il minimo di un quadrato è un quadrato, eccetera. I matematici dunque errano nella loro astrazione, considerando la divisibilità all'infinito degli enti geometrici. Quella che Bruno espone è, usando con terminologia moderna, una discretizzazione non solo della materia, ma anche della geometria, una geometria discreta. Ciò è necessario onde rispettare l'aderenza alla realtà fisica della descrizione geometrica, indagine in ultima analsi non separabile da quella metafisica. Nel De monade Bruno si richiama alle tradizioni pitagoriche attaccando la teoria aristotelica del motore immobile, principio di ogni movimento: le cose si trasformano per la presenza di principi interni, numerici e geometrici.  De immenso Negli otto libri del De immenso il filosofo riprende la propria teoria cosmologica, appoggiando la teoria eliocentrica copernicana ma rifiutando l'esistenza delle sfere cristalline e degli epicicli, ribadendo la concezione dell'infinità e molteplicità dei mondi. Critica l'aristotelismo, negando qualunque differenza tra la materia terrestre e celeste, la circolarità del moto planetario e l'esistenza dell'etere.  Il castello, situato presso Elgg e allora di proprietà di Heinzel von Tägernstein, l’ospita nel suo breve soggiorno nel cantone di Zurigo. Parte per la Svizzera, accogliendo l'invito del nobile Heinzel von Tägernstein e del teologo Egli, entrambi appassionati di alchimia. Così Bruno, per quattro o cinque mesi, ospite di Heinzel, insegna filosofia presso Zurigo: le sue lezioni, raccolte da Raphael Egli con il titolo di Summa terminorum metaphysicorum, saranno pubblicate da costui a Zurigo, e poi, postume, a Marburgo, insieme con la “Praxis descensus seu applicatio entis”, rimasta incompiuta.  La “Summa terminorum metaphysicorum,” Somma dei termini metafisici, rappresenta un'importante testimonianza dell'attività di Bruno insegnante. Si tratta di un compendio di 52 termini fra i più frequenti nell'opera di Aristotele che Bruno spiega riassumendo. Nella “Praxis descensus”, “Prassi del descenso”, il nolano riprende gli stessi termini (con qualche differenza) questa volta esposti secondo la propria visione. Il testo consente così di confrontare puntualmente le differenze fra Aristotele e Bruno. La Praxis è divisa in tre parti, con gli stessi termini esposti secondo la divisione triadica Dio, intelletto, anima del mondo. Purtroppo l'ultima parte manca del tutto e anche la rimanente non è completamente curata. Infatti ritorna a Francoforte per pubblicarvi ancora il De imaginum, signorum et idearum compositione, dedicato a Hans Heinzel. Ed è questa l'ultima opera la cui pubblicazione fu curata da Bruno stesso. È probabile che il filosofo avesse intenzione di tornare a Zurigo, e ciò spiegherebbe anche perché Egli abbia atteso prima di pubblicare quella parte della Praxis che aveva trascritto, ma in ogni caso nella città tedesca gli eventi evolveranno ben diversamente. Francoforte e sede di un'importante fiera del libro, alla quale partecipavano i librai di tutta Europa. Era stato così che due editori, il senese Ciotti e il fiammingo Giacomo Brittano, entrambi attivi a Venezia, avevano conosciuto Bruno almeno stando alla successive dichiarazioni di Ciotti stesso al Tribunale dell'Inquisizione di Venezia. Il patrizio veneto Mocenigo, che conosce Ciotti e ha comprato nella sua libreria il “De minimo” del filosofo nolano, affida al libraio una sua lettera nella quale invitava Bruno a Venezia affinché gli insegnasse li secreti della memoria e li altri che egli professa, come si vede in questo suo libro. Appare quantomeno strano il fatto che, dopo anni di peregrinazioni in Europa decidesse di tornare in Italia sapendo quanto il rischio di finire sotto le mani dell'inquisizione fosse concreto. Probabilmente non si considera “anti-cattolico” ma semmai una sorta di riformatore che spera di avere concrete possibilità di incidere sulla Chiesa. Oppure il senso di pienezza di sé o della sua "missione" da compiere altera la reale percezione del pericolo a cui poteva andare incontro. Inoltre, il clima politico, ossia l'ascesa vittoriosa di Enrico di Navarra sulla Lega cattolica sembra costituire una valida speranza per l'attuazione delle sue idee in ambito cattolico. Bruno e a Venezia. Che egli sia tornato in Italia spinto dall'offerta di Mocenigo non è affatto sicuro, tant'è che passeranno diversi mesi prima che accetta l'ospitalità del patrizio. Non era certo un uomo a cui mancavano i mezzi, anzi, egli era considerato omo universale, pieno di ingegno e ancora nel pieno del suo momento creativo. A Venezia si trattenne solo pochi giorni per poi recarsi a Padova e incontrare Besler, il suo copista di Helmstedt. Qui tenne per qualche mese lezioni agli studenti che frequentano quello studio e spera invano di ottenervi la cattedra di matematica, uno dei possibili motivi per cui Bruno torna in Italia. Compone le “Praelectiones geometricae”, l'”Ars deformationum”, il “De vinculis in genere”, e il “De sigillis Hermetis et Ptolomaei et aliorum”. Con il ritorno di Besler in Germania per motivi familiari, torna a Venezia e si stabilì in casa del patrizio veneziano, che era interessato alle arti della memoria e alle discipline magiche. Informa il Mocenigo di voler tornare a Francoforte per stampare delle sue opere. Questi pensa che cercas un pretesto per abbandonare le lezioni. Il giorno dopo lo fece sequestrare in casa dai suoi servitori. Il giorno successivo Mocenigo presenta all'Inquisizione una denuncia scritta, accusandolo di blasfemia, di disprezzare le religioni, di non credere nella Trinità divina e nella transustanziazione, di credere nell'eternità del mondo e nell'esistenza di mondi infiniti, di praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di negare la verginità di Maria e le punizioni divine. Quel giorno stesso, e arrestato e tratto nelle carceri dell'Inquisizione di Venezia, in san Domenico a Castello. Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla. Giordano Bruno rivolto ai giudici dell'Inquisizione. Il processo di Giordano Bruno, basso-rilievo del basamento della statua in Campo de' Fiori da Ferrari. Naturalmente sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse dell'inquisizione veneziana. Nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando secondo il lume naturale, può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli errori commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa.  L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. E rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio. Nuovi testi, per quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa Inquisizione, confermano le accuse e ne aggiungono di nuove. E forse torturato, secondo la decisione della Congregazione, stando all'ipotesi avanzata da Luigi Firpo e Michele Ciliberto, una circostanza negata invece dallo storico Andrea Del Col. Non rinnega i fondamenti della sua filosofia. Ribada l'infinità dell'universo, la molteplicità dei mondi, il moto della terra e la non generazione delle sostanze. Queste non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell'altro. A questo proposito spiega che il modo e la causa del moto della terra e della immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura. All'obiezione dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto -- terra stat in aeternum -- e il sole nasce e tramonta, risponde che vediamo il sole nascere e tramontare perché la terra se gira circa il proprio centro. Alla contestazione che la sua posizione contrasta con l'autorità dei Santi Padri, risponde che quelli sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura. Il filosofo sostiene che la terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno natura angelica, che l'anima non è forma del corpo, e come unica concessione, è disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana.  Roma, Piazza di Campo de' Fiori. E invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell'immortalità dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e del movimento della terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali Bellarmino. Una successiva applicazione della tortura, proposta dai consultori della congregazione fu invece respinta da Clemente VIII. Nell'interrogatorio si dice ancora pronto all'abiura, ma icambia idea e infine, dopo che il tribunale ha ricevuto una denuncia che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo “Spaccio della bestia trionfante” direttamente contro il papa, rifiuta recisamente ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire. Al cospetto dei cardinali inquisitori e dei consultori Mandina, Pietrasanta e Millini, è costretto ad ascoltare in ginocchio la sentenza che lo scaccia dal foro ecclesiastico e lo consegna al braccio secolare. Terminata la lettura della sentenza, secondo la testimonianza di choppe, si alza e ai giudici indirizza la storica frase. Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam. Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla. Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, con la lingua in giova – serrata da una mordacchia perché non possa parlare, viene condotto in campo de’ fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri sono gettate nel Tevere. Volse il viso pieno di disprezzo quando ormai morente, venne posta innanzi l'immagine di Cristo crocefisso. Così muore bruciato miseramente, credo per annunciare negli altri mondi che si è immaginato in che modo i romani sono soliti trattare gli empi e i blasfemi. Ecco qui, caro Rittershausen, il modo in cui procediamo contro gli uomini, o meglio contro i mostri di tal specie. Il suo dio è da un lato trascendente, in quanto supera ineffabilmente la natura, ma nello stesso tempo è immanente, in quanto anima del mondo: in questo senso, Dio e Natura sono un'unica realtà da amare alla follia, in un'inscindibile unità panenteistica di pensiero e materia, in cui dall'infinità di Dio si evince l'infinità del cosmo, e quindi la pluralità dei mondi, l'unità della sostanza, l'etica degli "eroici furori". Questi ipostatizza un Dio-Natura sotto le spoglie dell'Infinito, essendo l'infinitezza la caratteristica fondamentale del divino. Egli fa dire nel dialogo De l'infinito, universo e mondi a Filoteo. Io dico Dio tutto Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno e infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità de l'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esse chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello»  (Giordano Bruno, De infinito, universo e mondi) Per queste argomentazioni e per le sue convinzioni sulla Sacra Scrittura, sulla Trinità e sul Cristianesimo, già scomunicato, fu incarcerato, giudicato eretico e quindi condannato al rogo dall'Inquisizione della Chiesa cattolica. Fu arso vivo a piazza Campo de' Fiori il 17 febbraio 1600, durante il pontificato di Clemente VIII.  Ma la sua filosofia sopravvisse alla sua morte, portò all'abbattimento delle barriere tolemaiche, rivelò un universo molteplice e non centralizzato e aprì la strada alla Rivoluzione scientifica: per il suo pensiero Bruno è quindi ritenuto un precursore di alcune idee della cosmologia moderna, come il multiverse. Per la sua morte, è considerato un martire del libero pensiero. A distanza di 400 anni,Giovanni Paolo II, tramite una lettera del segretario di Stato Vaticano Angelo Sodano inviata a un convegno che si svolse a Napoli, espresse profondo rammarico per la morte atroce di Giordano Bruno, pur non riabilitandone la dottrina: anche se la morte di Giordano Bruno "costituisce oggi per la Chiesa un motivo di profondo rammarico", tuttavia "questo triste episodio della storia cristiana moderna" non consente la riabilitazione dell'opera del filosofo nolano arso vivo come eretico, perché "il cammino del suo pensiero lo condusse a scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana". D'altronde anche nel saggio della Yates viene ribadito più volte la completa adesione di Bruno alla "religione degli egizi" scaturita dal suo sapere ermetico nonché afferma che "la religione egiziana ermetica è l'unica religione vera". La ricezione della filosofia di Bruno  Il Dizionario di Pierre Bayle  Ritratto di Caspar Schoppe, opera di Peter Paul Rubens Malgrado la messa all'Indice dei libri di Bruno decretata, questi continuarono a essere presenti nelle biblioteche europee, anche se rimasero equivoci e incomprensioni sulle posizioni del filosofo nolano, così come volute mistificazioni sulla sua figura. Già il cattolico Kaspar Schoppe, ex luterano che assistette alla pronuncia della sentenza e al rogo di Bruno, pur non condividendo «l'opinione volgare secondo la quale codesto Bruno fu bruciato perché luterano» finisce con l'affermare che «Lutero ha insegnato non solo le stesse cose di Bruno, ma altre ancora più assurde e terribili», mentre il frate minimo Marin Mersenne individuò nella cosmologia bruniana la negazione della libertà di Dio, oltre che del libero arbitrio umano.  Mentre gli astronomi Brahe e Keplero criticarono l'ipotesi dell'infinità dell'universo, non presa in considerazione nemmeno da Galileo, il libertino Gabriel Naudé, nella sua Apologie pour tous les grands personnages qui ont testé faussement soupçonnez de magie esalta in Bruno il libero ricercatore delle leggi della natura. Bayle, nel suo Dizionario, arrivò a dubitare della morte per rogo di Bruno e vide in lui il precursore di Spinoza e di tutti i moderni panteisti, un monista ateo per il quale unica realtà è la natura. Gli rispose il teologo deista John Toland, che conosceva lo Spaccio della bestia trionfante e lodava in Bruno la serietà scientifica e il coraggio dimostrato nell'aver eliminato dalla speculazione filosofica ogni riferimento alle religioni positive; segnala lo Spaccio a Leibniz - che tuttavia considera Bruno un mediocre filosofo - e al de La Croze, convinto dell'ateismo di Bruno. Con quest'ultimo concorda il Budde, mentre Christoph August Heumann ritorna erroneamente a ipotizzare un protestantesimo di Bruno.  Con l'Illuminismo, l'interesse e la notorietà di Bruno aumenta. Weidler conosce il De immenso e lo Spaccio, mentre Jean Sylvain Bailly lo definisce «ardito e inquieto, amante delle novità e schernitore delle tradizioni», ma gli rimprovera la sua irreligiosità. In Italiaè molto apprezzato da Barbieri, autore di una Storia dei matematici e filosofi del Regno di Napoli, dove afferma che scrisse molte cose sublimi nella Metafisica, e molte vere nella Fisica e nell'Astronomia e ne fa un precursore della teoria dell'armonia prestabilita di Leibniz e di tanta parte delle teorie di Cartesio. Il sistema dei vortici di Cartesio, o quei globuli giranti intorno i loro centri nell'aere, e tutto il sistema fisico è suo. Il principio di dubitazione saviamente da Cartesio introdotto nella filosofia a Bruno si deve, e molte altre cose nella filosofia di Cartesio sono di lui.  Questa tesi è negata da Niceron, per il quale il razionalista Cartesio nulla può aver preso da lui, irreligioso e ateo come Spinoza, che ha identificato Dio con la natura, è rimasto legato alla filosofia del Rinascimento credendo ancora nella magia e, per quanto ingegnoso, è spesso contorto e oscuro. Brucker concorda con l'incompatibilità di Cartesio con lui, che considera un filosofo molto complesso, posto tra il monismo spinoziano e il neo-pitagorismo, la cui concezione dell'universo consisterebbe nella sua creazione per emanazione da un'unica fonte infinita, dalla quale la natura creata non cesserebbe di dipendere.  Fu Diderot a scrivere per l'Enciclopedia la voce su Bruno, da lui considerato precursore di Leibniz - nell'armonia prestabilita, nella teoria della monade, nella ragione sufficiente - e di Spinoza, il quale, come lui, concepisce Dio come essenza infinita nella quale libertà e necessità coincidono: rispetto a lui pochi sarebbero i filosofi paragonabili, se l'impeto della sua immaginazione gli avesse permesso di ordinare le proprie idee, unendole in un ordine sistematico, ma era nato poeta. Per Diderot, Bruno, che si è sbarazzato della vecchia filosofia aristotelica, è con Leibniz e Spinoza il fondatore della filosofia moderna. Jacobi pubblica per la prima volta ampi estratti del “De la causa, principio et uno” di «questo oscuro filosofo», che sa però dare un disegno netto e bello del panteismo. Lo spiritualista non condivide certo il panteismo ateo di lui e Spinoza, di cui ritiene inevitabili le contraddizioni, ma non manca di riconoscerne la grande importanza nella storia della filosofia. Da Jacobi Schelling trae spunto per il suo dialogo su lui, al quale riconosce di aver colto quello che per lui è il fondamento della filosofia: l'unità del Tutto, l'assoluto hegeliano, nel quale successivamente si conoscono le singole cose finite. Hegel lo conosce e nelle sue “Lezioni” presenta la sua filosofia come l'attività dello spirito che assume dis-ordinatamente» tutte le forme, realizzandosi nella natura infinita. È un gran punto, per cominciare, quello di pensare l'unità. L’altro punto fu cercare di comprendere l'universo nel suo svolgimento, nel sistema delle sue determinazioni, mostrando come l'esteriorità sia segno delle idee. In Italia, è l'hegeliano Spaventa a vedere in lui il precursore di Spinoza, anche se il filosofo nolano oscilla nello stabilire un chiaro rapporto fra la natura e Dio, che appare ora identificarsi con la natura e ora mantenersi come principio sovra-mondano, osservazioni riprese da Fiorentino, mentre Tocco mostra come egli, pur dissolvendo dio nella natura, non rinuncia a una valutazione positiva della religione, concepita come utile educatrice dei popoli. Nel primo decennio del Novecento si completa l'edizione di tutte le opere e si accelerano gli studi biografici su lui, con particolare riguardo al processo. Per Gentile, altre a essere un martire della libertà di pensiero, ha il grande merito di dare un'impronta strettamente razionale alla sua filosofia, trascurando misticismi medievaleggianti e suggestioni magiche. Opinione, quest'ultima, discutibile, come recentemente ha inteso mettere in luce la studiosa inglese Frances Yates, presentando Bruno nelle vesti di un autentico ermetico.  Mentre Badaloni ha rilevato come l'ostracismo decretato contro lui abbia contribuito a emarginare l'Italia dalle innovative correnti della grande filosofia del Seicento europeo, fra i maggiori e più assidui contributi nella definizione della filosofia bruniana si contano attualmente quelli portati da Aquilecchia e Ciliberto. Monumento a Giordano Bruno.  Medaglia con monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori a Roma, incisione di Broggi. La medaglia, di 60 mm, fu donata a personaggi illustri e comitati vari. Insieme a questa fu coniata un'altra medaglia di 64 mm in bronzo, abbastanza simile, a scopo commerciale Gli sono stati dedicati il cratere lunare Bruno e due asteroidi della fascia principale: Giordano e Cenaceneri. IRapisardi gli dedicò un'epigrafe. All'ipocrisia volpeggiante fra la scuola e la sagrestia, ai conciliatori della scienza col sillabo, all'imbestiato borghesume, che tutto falsando e trafficando, d'ogni sacrificio eroico beatamente sogghigna, le coscienze, cui sorride ancora la fede nel trionfo di tutte le umane libertà, lanciano oggi ad una voce dalle università italiane una sfida solenne a gloria della tua virtù, a vendetta del tuo martirio o Giordano Bruno. Numerose scuole sono state intitolate a Bruno in tutta Italia, in particolare licei classici: ad esempio ad Arzano, Albenga, Roma, Torino, Mestre, Budrio e Melzo, mentre a Maddaloni gli sono stati intitolati il Convitto nazionale e il liceo classico cittadino. In Italia sono numerosi i monumenti intitolati a Bruno, sono presenti: un monumento in una piazza a Nola, un busto a Montella, un bassorilievo a Monsampolo del Tronto e un'epigrafe a Teora. Nel Campo de' Fiori di Roma è presente il più importante monumento a Bruno, eretto esattamente nel luogo in cui il filosofo fu condannato al rogo. La figura e il ruolo del mago che Shakespeare presenta con Prospero, ne La tempesta, fosse influenzata dalla formulazione del ruolo del mago attuata da Bruno. Sempre in Shakespeare, è ormai dai più accettata l'identificazione del personaggio di “Berowne” (Browne, Bruno), in “Pene d'amor perdute” con il filosofo italiano, considerando il parzialmente documentato e più che plausibile incontro tra i due durante il suo soggiorno inglese.Un riferimento molto più esplicito si trova in The Tragical History of Doctor Faustus, Marlowe. Il personaggio “Bruno”, l'antipapa, riassume molte caratteristiche della vicenda del filosofo:  «I cardinali dormienti si affannano / a punire Bruno, che invece è lontano. Vola. / Il suo superbo corsiero, vivo come il pensiero, / Già passa le Alpi.»  (Christopher Marlowe, La triste storia del dottor Faust; citato in Jean Rocchi, Giordano Bruno davanti all'inquisizione, Stampa Alternativa) La stessa vicenda del Faust marlowiano richiama alla mente la figura del "furioso" bruniano in De gli eroici furori. Cinema  Interpretato da Volonté. Protagonista nel film di Montaldo Giordano Bruno nel quale è stato interpretato da Volonté. Compare anche nel film Galileo di Cavani. Negli anni novanta Rai Uno produce un film documentario curato da Porta su Giordano Bruno. Interpretato da Vita. Nel film Caravaggio con Alessio Boni c'è una scena in cui è mostrato il rogo di Bruno. Contrariamente alle fonti che parlano di Bruno con la lingua in giova, il filosofo appare legato al palo mentre poco prima delle fiamme incita la gente a non lasciarsi irretire dai falsi maestri. “Candelaio” è al centro della fiction Il tredicesimo apostolo - Il prescelto trasmessa su Canale 5. Il rapper Caparezza ha dedicato a lui una mini-storia nel brano "Sono il tuo sogno eretico", presente in Il sogno eretico: «Infine mi chiamo come il fiume che battezzò colui nel cui nome fui posto in posti bui,/ mica arredati col feng shui. Nella cella reietto perché tra fede e intelletto ho scelto il suddetto, Dio mi ha dato un cervello, se non lo usassi gli mancherei di rispetto. E tutto crolla come in borsa, la favella nella morsa, la mia pelle è bella arsa. Il processo? Bella farsa! Adesso mi tocca tappare la bocca nel disincanto lì fuori, lasciatemi in vita invece di farmi una statua in Campo de' Fiori/Mi bruci per ciò che predico è una fine che non mi merito, mandi in cenere la verità perché sono il tuo sogno eretico.»  (Caparezza, Sono il tuo sogno eretico). La metal band californiana Avenged Sevenfold lui ha dedicato il brano intitolato Roman Sky presente nel nuovo album The Stage. L'album tratta infatti temi quali l'intelligenza artificiale e l'universo. Sono dedicati al filosofo anche il brano Anima Mundi di Massimiliano Larocca e l'album Numen Lumen del gruppo neofolk Hautville, che ha nelle liriche brani diBruno. Altre opere: “De compendiosa architectura et complemento artis Lullii”; “De umbris idearum”; “Ars memoriae”; “Cantus Circaeus”; “Candelaio”; “Ars reminiscendi, Triginta sigilli, Triginta sigillorum explicatio, Sigillus sigillorum”; “Cena de le Ceneri”; “De la causa, principio et uno”; “De l'infinito, universo e mondi” “Spaccio della bestia trionfante”; “Il cavallo pegaseo”; “De gli eroici furori”; “Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos” – “contro i peripatetici” --  “Figuratio Aristotelici physici auditus”; “Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione”; “Idiota triumphans”; “De somnii interpretation”; “Mordentius”; “De Mordentii circino”; “Animadversiones circa lampadem” “animadversions in lampadem”; “Lampas triginta statuarum” – trenta statue --  (Napoli); “Artificium perorandi”; “De lampade combinatoria”; “De progressu”; “De lampade venatoria logicorum”; “Libri physicorum Aristotelis explanati, Napoli); “Camoeracensis Acrotismus seu rationes articulorum physicorum adversus peripateticos”; “Oratio valedictoria”; “De specierum scrutinio” De lampade combinatoria”; “Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis philosophos”; “Oratio consolatoria”; “De magia (Firenze); “De magia mathematica (Firenze); “De rerum principiis et elementis et causis” (Firenze); “Medicina” (Firenze); “Theses de magia” (Firenze); “De innumerabilibus, immenso et in-figurabili”; “De triplici minimo et mensura”; “De monade, numero et figura”; “De imaginum, signorum et idearum compositione” (sintassi); “De vinculis in genere” (Firenze); “Summa terminorum metaphysicorum”; “Accessit eiusdem Praxis descensus seu applicatio entis”. Bruno nota che quantunque Averroè fosse arabo e perciò «ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto; e arebbe più inteso, se non fusse stato così additto al suo nume Aristotele. Sia dai due volti. Io ho lodato molti eretici ed anco principi eretici; ma non li ho lodati come eretici, ma solamente per le virtù morali che loro avevano; né li ho mai lodati come religiosi e pii, né usato simil sorte di voce di religione. Ed in particulare nel mio libro Della causa, principio ed uno io lodo la Regina de Inghilterra e la nomino diva, non per attributo di religione, ma per un certo epiteto che li antichi ancora solevano dare a principi, ed in Inghilterra, dove allora io mi ritrovava e composi quel libro, se suole dar questo titolo de diva alla Regina; e tanto più me indussi a nominarla cusì, perché ella me conosceva, andando io continuamente con l'Ambasciator in corte. E conosco di aver errato in lodare questa donna, essendo eretica, e massime attribuendoli la voce de diva. Degno di nota è che Bruno pubblica tutti e sei questi saggi indicando luoghi di stampa non corrispondenti: Venezia. Che Dio sia nella materia non implica che possa essere conosciuto. Dio è immanente da un punto di vista ontologico, mentre è trascendente sul piano gnoseologico. In questo universo metto una providenzia universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e si move e sta nella sua perfezione; e la intendo in due maniere, l'una nel modo con cui è presente l'anima nel corpo, tutta in tutto e tutta in qual si voglia parte, e questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l'altra nel modo ineffabile col quale Iddio per essenzia, presenzia e potenzia è in tutto e sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile. Spaventa fu convinto assertore del ruolo fondamentale della filosofia italiana nel panorama della filosofia moderna, e in particolare di Bruno e Campanella.  L'asinità. La fortuna di Bruno. Bruno in Shakespeare e nella cultura inglese. “Il Bruno di Gentile”. L'Asino Cillenico. Clavis Magna.  “Clavis Magna, ovvero, Il Sigillo dei Sigilli. De signorum compositione.  Explicatio. Sigillorum. Sigilli, Sigillus Sigillorum. Clavis Magna, ovvero, L'arte di inventare. De Compendiosa Architectura et Complemento Artis. “L'Arte di Comunicare” Artificium Perorandi”.  “Clavis Magna, ovvero, La logica per immagini”. Il Bruno degli italiani. ‘Bruno’ regia di di Montaldo. Dizionario biografico degli italiani. CESAR calendaire romaine. Centro di Studi Bruniani. (CA  ui  i) e iui Mia ba, VA  dai ‘agi LS  it Il  EGR Ln  i \ LA va Di =  | Pome Rm Te  ti n. i Li  I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi  n 9 ha So Rif [a E Ji a  ILLE di pe  LIS   ia  Giordano Bruno DRAMMA  MILANO  Tipografia Commercial  als  dtt    ,    TORIO EMANUELE , Carnevale  {Resta sapore PERSONAGGI. GIORDANO BRUNO Sig. G. SALASSA  LORENZO figlio naturale di  GIORDANO BRUNO, «dot-    tato:da).. .A.D'ANDRADE  ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA    LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI    LAURA figlia di ROMANO. >» A. Busi    IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI. ROCCO LILLE DAMIANI    ANDREA  . Ni agN°  UNGUARDIANO) che nonparlano —N. N.  UN OsTE .. Ni Ni    Giovani e Nobili Veneziani, Servi di Romano,  Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, Inquisitori, Si Servi del S. Uffizio,  Frati e Popolo.    L'azione del 1.° e 2.° Atto è in Veni  quella del:3.° e 4.° Atto in Re   ber a  pieni  Sofee  bi; pece  SUIT ZIA    Fitto Primo PIAZZA IN VENEZIA. Un’Osteria e alcune seggiole. In fondo un canale  praticabile, che traversa la scena. Sul canale un  ponte, che mette in un viottolo, sull'angolo del  quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumiminato a festa, prospiciente sul Canale. —.Un in-  gresso laterale, illuminato da faci fisse ai muri, con-  ducedal viottolo nel Palazzo. La porta principale verso .  il Canale è aperta; durante la scena seguente, visi ve-  dono approdare gondole, dalle quali scendono persone  ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel  Palazzo. — Sera. i  SCENA TI,    GIOVANI e NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta-  stici con mezza maschera al volto, e parte in abiti  comuni, vengono da sinistra, traversano il ponte,  e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO,  ROCCO ed altri Giovani vanno e vengono ferman-  dosi sulla Piazza, cantando e ridendo, Poi LQ-  RENZO e LAURA.    Leandro  (accompagnandosi colla ghitarra)    A te, Venezia bella, adorata,  A te, mia sposa, la serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazize vecio sinioneee  IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0e vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA    Hocco  (Volgendosi all’osteria)    Leandro, scuotiti!  Le mura adori?...  Vieni ove brillano  Divini amori,  Ove donzelle  Cotanto belle  Potrai mirar.    Coro dei nobili  Al convito n’andiam! alla festa!    Leandro    Prima di venir alla gran festa  Distruggere io vo’ un'idea funesta!  Oste, su via porgetemi  Vino di Cipro; a questo petto ardente  - -  Occorre del più vecchio e più potente.  Vivan le belle  Danzanti; volano....  Gli occhi fiammeggiano  Più che le stelle;  Ne’ Joro vortici  Mi ruban Vanima....  sui Crudo gioir! Più non mi muovo  — Suolo dolcissimo, ir       belt      rrrrrr n  -___  a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie    Nido mio nuovo!   Muoio in tue braccia...  Santo delir! |   A te, Venezia bella, adorata,   A te, mia sposa, la serenata,    Coro  AI Convito! n’andiam alla festa.  (S'appressano in una gondola LAURA e LORENZO)    Eaurna    Sul mare immenso — più non impera   Nè sulla terra — che la circonda...  Venezia, è fango — la tua bandiera!  Lutto e non feste! — Pianga e s’ asconda.    Core (con alto di cu iosità)    E un amante e la sua Della  Che passeggiano alla luna;  Laura sembra la sua stella,  Ma egli fa poca fortuna.  Seguiam tutti i vaghi amanti,  E vediam, se pur n’ è dato,  In fra i suoni, i balli e i canti  Di trovar l’innamorato.   È Lorenzo di Giordano,   Che fuggì dal sacro tempio ;   lì Lorenzo... il vil, l’insano  Che ne porge un triste esempio.          Lorenzo (con ira) .    È rivolta a me l’offesa?  L’alma freme, batte il core!   - Già suonaron l’ultim’ ore; -  E voi tutti io sfiderò.    Laura    E rivolta a te I’effesa; rato  L’alma freme, batte il core!...  Già suonaron l'ultim’ ore  Io con te li sfiderò.  (LORENZO furente si scaglia contro ROCCO, e gli    toglie la spada. Gli altri NOBILI sguainano. le  proprie e si schierano în fondo)    SCENA II.    Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla  casa di destra, seguito da servi con torce accese,    Bomano    Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano?  Non son cîttadini, ma plebe briaca !   Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?....  Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa!...    Laura (atterrita alla vista del padre)    Che mai dirà  Al Genitor?... pa  Voce non ha,  Non ha più cor.    Lorenzo (con timore)    Che mai dirò  AI Genitor?...  Voce non ho,  Non ho più cor.    Leandro (con circospezione)    Il segno di croce facciamoci... e andiam via!  Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.  Partiamo, fuggiamo... La belva più ria,  E un angelo a petto di questo demòne.    Romane (ai Nobili)    Non chiedo ragioni di vostra contesa,  Fra tenebre nacque... in tenebre resti;  E calmi la notte col sonno gli. ardori  Di giovani folli, di stolti furori....  Partite! Or è cauto lontani restar.    Coro di Nobili (infimoriti da Romano).    Fuggiam dal feroce  Vegliardo Romano :  Col fiato ne ammorba  Il truce, l’insano; nea    Qui tutto è sospetto....  Amici, fuggìam.    1 NOBILI, it CORO, LEANDRO e LAURA sì riti-  rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE  ha chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO  fa un cenno ai Servi di allontanarsi.    SCENA III.    ROMANO e LORENZO  Romano    Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo  Re e Pontefice armava il braccio mio.  ‘Or sotto il ferreo terribil manto  Della suprema Città di Dio  L’ Inquisizione veneta sta;  E a Roma solo ubbidirà.  Dell’ eresia le vampe infeste  Soffocherò —. tutte le teste  D’ un colpo all’ idra io troncherò.    Lorenzo  Fu il Campanella scoperto e preso?  Romano    Libero ei 8° agita... Ma il gran sovrano  De’ rei, che Italia e il mondo ha acceso       Contro la Chiesa santa, è Giordano.  Presso i suoi complici quì ascoso stà!    Lorenzo  Odio quel uomo tanto... tel giuro.    Romano    Non basta odiarlo: questo io non curo;  Tu quì arrestarlo ora dovrai:    (Musica da ballo neil’interno del Palazzo)    In fra le maschere lo scoprirai,  Ed il porrat — nelle mie man.    Lorenzo  Si chiede un atto di traditor?...  Romano  Queste ai novizi prove si dan.  Lorenzo  Tradir ricuso; son uom d’onor.  Romano (con sdegno)    A me tu, folle, devi?...    RANA RARA pinete    Lorenzo  Obbedienza !  Homano  Ed alia Chiesa! Trema...  . Lorenzo (soffocando il furore)  Obbedienza!  Romano  Dunque ?...  Lorenzo (con sottomissione)  Giordano io scoprirò!  Eomano (ricomponendosi)  Tuci giovanili e schictti  Modi ti gioveran, se manca il senno  Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira,  K assai tua voce ad ascoltarti attira.  Per la grand’ opra non sarai solo,  D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai;    Pronto a miei cenni sempre sarai,  Uno per ‘tutti sia il mio voler.  Lorenzo (con dolore)    L’iniqua trama ahi mi colpisce!   La terra, il cielo pur n’ hanno orror!...  Vile è colui, ch’ altri tradisce,   Nè v' ha pietade pel traditor.    ERomano (imperioso)    Come voglio, sia fatto. Or d’ altro; è m'’ odi.  Dal dì che ardenti e improvidi  Sguardi su Laura hai posti,  Travolto dalla subita  Cicca passion tu fosti;   N | Una rea febbre 1° agita   Tutte le membra o siolto,   E vedo nel tuo volto   Il fuoco del delir.  Bada! io ti scruto, o giovine,  E leggo il tuo desire;  Guai se tal fiamma ignobile  Io non vedrò svanire.  Tu sogni; ma chi vigila  l'e per tuo ben consiglia;  Dimentica mia figlia,  O trema del tuo ardir.    (parte da sinistra mentre  sì volge ancora con fiero sguardo su LORENZO).    Lorenzo (con dolore):    SO Solo alfin... solo quì sono...  Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa Povero cor! Ma dannate in eterno  ei Son mie lacrime in lor foco d'inferno. Ci   i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A  ._ ©. Spargi de’ tuoi profumi? CRT   a O terra perchè il giubilo.   SA Delle tue stelle assumi? ©   nare: A me negata è l'estasi.   da D’ ogni dolcezza umana,   No: ae d'ogni gioia lè vana (ale  EZIO Larva, che fugge ognor;  TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli,   0; Di Nel povero mio cor.  i Strazio divien di dèmone,  WA Delirio agitator. pr  | Amar non posso... 0° AARON]  eta P, ‘L'odio mi restag» SS  CE ao ag Son stretto a questa to;  LR 1 sur aRatalità. EI  _: Vò di te vincere. |  Con santo zelo,  .. Servir vo’ il Cielo...  E questa l’ ultima .  «Mia volontà.  (parte con fretta per il ponte).       ‘ Cala la Vela.    arnie,    Affo Secondo    onere ge oi    SALA NEL PALAZZO LOREDANO    Una splendida sala da Ballo nel Palazzo di Lore-  dano a Venezia, con colonnato per modo che si possa  figurare l’accesso in altre sale. Illuminazione splen-  didissima.    SCENA L  Coro degl’Invitati    ($   acc incanto dell’ebbre sale!  Che ballo immenso! Sarà immortale.  Quest’ è la reggia della letizia;  Il, paradiso. d’ ogni. delizia.  Deh! non fuggire, tempo; t’ arresta;  Bearsi al lungo delir giocondo  Della fatata splendida festa  Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo.  {Gl’invitati s'allontanano in varie parti)    SCENA ILL    GIORDANO entra con cautela e colla maschera in  mano, poi gli amici.       drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dna enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasossignorcecanzaraanee    Giordano    Quì ognun danza e delira   Spensierato e demente. E niun ragiona,   E senno e cuore ha niuno.   x tutto quì è in periglio, ove il Leone   Alato di San Marco   Prostrato dalla Santa Inquisizione   Ai piè, scordò il ruggito   Di cui tremò per secoli ogni lito  (volgendosi in fondo)    Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi.  Alcuni dei Primi  Luce!  Giordano  Giustizia a tutti!  E Primi  E verità!    Alcuni dei Secondi    [venendo oltre)  Luce !  Giordano  Giustizia a tutti             E Secondi  E libertà!  Giordano    Grazie diletti !  Sian pochi i detti;  Molta l’opra. A ingannar V'astuta Corio  Dei biechi Inquisitori  Ho scelto queste sale  Di Loredano. È pronto ognuno ?    Coro  Ognuno!  Giordano    L’ ardir pari del vero alla grandezza?  Ed uniti?    Coro  Siam tuoi, Giordano Bruno!    Giordano e Coro    Nel popol vero s’ incominci 1’ opra:   S° illumini! Bugiarda è la parola   Di Roma e il suo Re, che Dio si noma,  Sull’ alma i Papi vogliono l’ impero   Per posseder la terra;   E coi libri e col braccio    tt       Viva facciasi ovunque eterna guerra  Allo spirito, al verbo, a ogni menzogna,  Con che farci suoi schiavi Roma agogna    SCENA III.    DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra  colla maschera in mano.    | Enura  Signor, fuggite!  Giordano  Io? no! non fuggo.  Coro (insospettito)  Fuggiamo.... È pazzo!  (fuggono da va»ie aio  Giordano (con ira)  Vili! Tu hai fede? (a Laura)    ERaunna (sempre ancelante)    Gran Dio! In queste sale  Circondavi un estremo  ‘ Periglio. Per voi tremo...  Fuggite per pietà.    IIIEEZZZERETETTEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES CECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI  Va besasnza rea dI gra rirvarai tion    Giordano (simulando)  Fuggir?... Da chi fuggire?    Laura    Da tutti! I delatori,   Cui fia virtù tradire,   Vi cercano là fuori...  Son mille a me ben noti,  Fierissimi e devoti   Al sacro Tribunal.    Giordano (sorpreso)  Mi conoscete?  Eguana    A Padova  Vi scorsi il«dì che ardito  Nel fiume vi gettaste,  E un fanciullin tornaste  Vivo al materno sen.  L’ Inquisizion seguiavi  Co’ mille sgherri suoi  Per arrestarvi; e voi  Tra il popolo festante  Poteste in un istante  Securo allor fuggir.    Giordano (simulando la calma)    Bruno era quegli, che allor miraste!  Io non lo sono!... Mal giudicaste, .i       Laura (sorpresa)    Credetti... ho divinato! © ;  Voi siete il gran filosofo.    Giordano    Oh certo s’ è ingannato  Il vostro giovin cor.    Laura  Perdonate se un lembo alzo del velo,  Che a me vasconde... (solleva: dl velo)  Io v' ho scoperto!... siete...  Celarvi non potete...  Giordano  E chi son io?    Laura    Giordano Bruno, cittadin di Nola!    SCENA IV.    (Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da  destra, LEANDRO da sinistra; si fermano in -  fondo, e, non veduti funno alto di attenzione).    “erimmiberarisisaorizeoeee    — Mi —    nisi bro    aravrariszazazezea ripa paio    : Lorenza ngi    Ho. in mani, alfin 1, dai i  ‘Ch’ ha Italia avvelenato;  ‘Salvo da Ini mille: anime! a  Il mondo mi sia. EH 9    Leandro (4. LormNZO | con simulata ironia)    % TAL il salverài, mia “tnamo, | 79)    È quegli'il gran? ; Filosofo) di  Il celebre Giordanb. VESTA  Dal Tribunal del Dèmoni    Ù  401  1 PR. E O ARNO E ‘J RARE.    | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala  PISAE) | dia 39 DS    IDE Lorenzo! dui GicoL..    (a o pi di te-che mai sarà?    F  a iI    Gietiala (con dolore)    Fui tradito !..-Oh cerudoltà    So IV I Santo phrto)  Tana ‘in Cactpnse deg   Di palpiti, di ladina   , Tempo,non è, mio cuore; .: .   ‘ Salvarlo, fat Miracoli. DERE eo   -0t devo ame l'amore. OL DI    Giordano    © La luce tua mi sfolgora,       Fanciulla, nel pensiero;  Se il mio profeta! Libero  Trionferà il mio vero.    (poi fissando LORENZO)    Quel volto! V° è 1’ immagine  Impressa di Teresa...   Misto è quel volto... e annunziami  La gioia ed il dolor!    (Prendendo per mano LORENZO)  Giovane, dimmi: sei tu di Roma?  La tua favella mel dice... Parla!   Dimmi: tua madre come sì noma?  Teresa forse?    Lorenzo  Teresa?... Sì!    SCENA V.    (In fondo appare ROMANO con SERVI e SOLDATI  poi vengono gl’Invitati).    Giordano    L’ inquisizione! Oh quale orror!  (a Lorenzo) E tu con essa? Ah traditor!  o Io a te la vita diedi... e la morte -  Tu, iniquo, appresti al Genitor!...  A te l’ inferno schiuda le porte...  Sii maledetto, vil delator.       fekresrey=neoan0enencastecpregsoneeaossog@zor—rorerovrseereeeericrone cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene    Lorenzo    Tu... padre mio?  Che mai feci io!...  Padre, perdonami  _Se pur ancora   ‘ Merto pietà.   GU INVITATI che riappariscono da destra e sinistra  e detti.    GI Envitati e Leandro    La festa è orrenda!  Fuggiamo tutti;  Qual tradimenti! > >  Keco distrutti ---  Degl’ innocenti   Gli almi piacer. -    HEomano    Grazie, o Ciel! Nelle mie mani  Or Giordane io vedo tratto!  Roma esulti...! Il suo desìo  Finalmente è soddisfatto.    Lerenzo    Orrenda infamia! Tu il. padre mio?...  Ah me infelice! Che mai fec? io!  Padre, perdonami... O Ciel, pietà!    2       ERA EeIOrtitiezast:nuvo cene cen vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI    Laura (a GIORDANO)    Delle amarezze il calice   Berrò con te, Giordano;   Già in seno il duolo squarciami  Il core a brano a brano;   Peno per te, pel figlio   Mio primo e solo amor.    Leandro    Oh come ovunque penetra  La santa Inquisizione !  Come sarà terribile   La sua imputazione !   In lui perdiamo un figlio,  Che della patria è onor.    Giordano (4 LAURA)    Ah no! Laura, non piangere...  Giordano ha l’alma forte !   Pel Vero è pronto a vincere  Il duolo pur di morte!   Dio deh! ritorna il figlio   A Laura e al Genitor,    Lorenzo    Sento nel seno piovermi  D'un aspro duol le stille!...  Il padre... oh! il padre scorgere    ab 0);    Temon le mie pupille!  Com'è infelice un figlio  Ribelle al genitor !    Romano    Entro mi serpe un fremito,  Che mi sconvolge il core,  Veggendo quest’ eretico   Di scismi banditore,   Che, della Chiesa*figlio,  Divenne traditor!    Leandro   Tu piangi?... Incauto, a Lui {affida   Pel suo perdono; ma l’alma infida   Nel suo rimorso gran pena avrà.   Coro (a LORENZO)   Che piangi?... Ognuno vile ti grida;  Se’ un traditor; se’ un parricida!  Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà.    (I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la tela/. IITTTTAAEIAIII    RA CORTI  IN ROMA    Sala nel palazzo dell’Inquisizione. — In fondo, nel mezzo  della parete una cortina nera che chiudela scena, —  A sinistra una finestra aperta con ferriata. In fondo  un tavolo coperto con un tappeto nero, a cui siedono  il grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati  siedono gl’INQUISITORI, e, di fronte, GIORDANO, R0-  MANO e LORENZO, — Porte a destra e a sinistra. Romano    {> iordano! Voi siete’    D’innanzi ai vostri giudici, al supremo  Tribunal della terra! E qui dovete,  Smésso l’antico stile,   Risponder vero, obbediente, umile.    “cà ra    G. Inquisitore  Vostro nome è Giordan Bruno?    Giordano  Di Nola.       mrantsiorizea nano (199 AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI ri prenpanianananananarenaenzana    G. Inquisitore    Vi conosciamo! Voi correste in terre  D’eretici; lè in Praga, in Francoforte. ‘  E predicaste spesso agl’ infedeli   La santissima Chiesa dileggiando   Di Roma, tutti i novator germani  Esaltando. D’ Iddio 1’ essenza in false  Forme sponeste; come v’ inspirava   Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici  E in segreti convegni commentaste;   Le coscienze fùr guaste.    Giordano    Mentite!  Solo io dissi agli uomini  Il mondo ha una visiera  Di antiche, immense tenebre ;  Cerchi la luce vera.  Dio vuol che l’uomo spinga  L’acuta sua pupilla  Fin dove in cielo brilla  L’eterno suo splendor.    Coro d’Inquisitori    D’ anime felle  Empia utopia!  Il tuo, ribelle,  Un Dio non è.  Non ha che larve -    Tua fantasia; .0 &  gi ver disparve ;  “Se in eresia ft fo i  AI fuoco, ‘al fuoco: ©  Sia condannato! 1  “REP carcer. poco, s  ra ! tal OmpIO, egli de    (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono pina DTA  io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi  gli SCRIVANI, ‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf  DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala la  cortina e solo LORENZO rimane în ‘scend),    SCENA DÒ  dt e Laura 01,3    (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di LORENZO |  in atto supplichevole). SÉ Roe    dia eor ATI    v Rat    Laura! moi  (HI dÉ tia Koi i  È &    Loréiizo i «105 si vo    MREPSRI RATA    GIL    Lorenzo  Di ea DO Ur  PA Ale 2 i sd Met: la "I    Che vuoi tut    ot Raid) fai  I nSetdi o SERRA  2 Senti la ToRe.e. un uomo Rico tu soi. “ rE:       Lorenzo    Tinura! Da me che brami?  Sento straziarmi il cuore...    Laura    Ah! tu il padre salvar déi,  Se una belva ancor non sei.    Lorenzo    Tact Laura! Il ver dicesti   È mio padre! Io lo sentìa  Quando'.il labbro suo: terribile.  Me colpevole maledia.   È mio padre! Ancor lo sento  AI perenne! e fier tormento.‘ ©’  Che m’ opprime e strazia il cor.    Laura |    Pietà del misero.  Tuo genitor.    Lorenzo  L’accento tuo terribile  E un dardo al traditor.    ebic Laura    Lorenzo. it i #1) Ma    shananorazi scenza sanacenencacaee cena sane oeanconeesccnionaacea—ea—e@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp ipmpasrssssso—    Lorenzo  Nol posso!    Laura    Va da me lungi, o perfido,   Se nieghi al genitor   Salvar la vita.   E sorga il dì terribile   Che ognuno, o traditor,   Ti nieghi aita.   Lorenzo   Taci!.... e che far poss’ io?   Laura    Aiutarmi a salvarlo; tu lo puoi!  ‘Ei fugga da quell’ orrida  Fossa in serena terra,   Ove su lui degli uomini  Taccia sì cruda guerra.  Ove un demén carnefice  Non trovi nell’ amico,  Nel figlio, un traditor;  Ove il sovran suo spirito  Onnipotente e pio   Possa inalzarsi libero   Di tutti al Padre, a Dio;  E riabbracciar qui un figlio,  Che traviò pentito,  Stringendolo al suo cor. .    pra,    im masasenananasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®          Lorenzo    Quell’ardire, che in volto a te brilla,  La speranza, la fede m' ispira:   E una sacra, divina favilla   Della fiamma, che tarde nel cor.    Raura e Lorenzo (assieme)    Con te nutro la credula speme,  Che a giustizia il trionfo sorrida;  Siamo uniti per vincere insieme  Od insieme da forti morir. (partono).  Muta la scena. — Carcere di GIORDANO con porte in  fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una seg-  giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. — A    sinistra una scala da cui si accede agli Uftizii del-  l’ Inquisizione. Giordane (seduto sul giaciglio)    «Ecco, o Roma, l’eretico   In questo tetro carcere rinchiuso !....   Del sangue suo dissetinsi   I tuoi Inquisitori   Ebbri di gioia in lor ciechi furori! (Gleaso   Sul rabido rogo dall’empio innalzato   La fiamma divampa sanguigna e stridente,   Ma in mezzo all'incendio securà possente   Del martire invitto la voce s’ udrà.  Il rogo non strugge — la libera idea;  Ma, eterna fenice — risorge o sfavilla;       Del vasto creato — nel verbo s'inslilla   Te dense tenebre — del mondo a fugar.  In mano ai carnefici — chi, miser, mi trasse,  Tu fosti, mio figlio; — tu sli maledetto ' 9  Ma no maledirti, + ma no, nol poss’io:  La morte è un trionfo — per me, figlio mio! LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette  nel carcere; indi entra anche LAURA. Entrambi  «$0NO Raealii in domino nero come i servi del-    V’ Inquisizione.   Lorenzo (di piedi di GIORDANO)  Padre mio! Tuo figlio...  Giordano   Non sogno!  Lorenzo  Si, son io, ch’ hai maledetto ;  Ma figlio tuo! Ripeti un altra volta  La tua maledizione i  Coll’ accento d’ un padre, ed al mio cuore  Più cara suonerà di quel che fora    Del sacerdote la benedizione ;  Ah! lasciami morir a pieid tuoi.    TIrCItIVISIÀ poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra rara zar sara ra bist enaneronesane    ‘Giordano    Felice è un tal momento!  A me t’ adusse Iddio;  Ora tu sei redento!   M’ abbraccia, o figlio mio.    Lorenzo    Padro' i] mio cuore un balsamo  Nella tua voce trova!   Col tuo perdon risorgere   Mi sembra a vita nuova.    Laura    Redento il figlio, accoglierlo  Ben può il paterno core;  Quale inattesa grazia !..,  Disparve ogni terrore.    Mutti (inginocchiandosi)    Gran Dio, che fra le angoscie  Apri a quest’ alma il riso,   E mesci ai loro spasimi   In terra un paradiso.   A te, che i santi vincoli  Riannodi di natura,   Salga da queste mura   L’ inno de’ nostri cor. Giordano    (STO ER Dal fondo del cor mio 2/0  SARA Grazie a te sien, gran Dio! a    Pi    E |    re k » à,  s ER  wr: DETTI, e ROMANO, che presentasi in cima della    >°    dente. Fissa collo sguardo LORENZO, indi scende  rapidamente. Lo seguono il GUARDIANO Retles    va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da  si ‘Romano <  È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea  Oh mio furore ' eco 3 F : x  Laura e Lorenzo 00 o  O qual terror! > ua |  » Romano È  ‘ Giiordano..    - Questa ou fatale a me una figlia  nn dio Spa ma a te la vita.  (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri ei SERVI.    del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- d  pressano). Lg i VEL       7    Pi AE Li    unisoseorevrespropeosovo ”    Romano (a GIORDANO)  Trencar ti voglio, qual vile stelo ;  Delle tue carni la terra e il Cielo  Io colle fiamme consolerò.   Lorenzo  Ed io fidato m’ ero a tal jena ?  Tutto l’inferno qui si scatena,  E cielo e terra han di te orror.   Laura e Leandro   Sublime martire! La tua gran vita  Tronca in un lampo tra l’infinita  Gioia... Qual strazio sento nel cor!  Giordano  Del mio carnefice sul volto scritto  Sta col livore il suo delitto;   Solo dal Cielo giustizia avrò.  Romano (a° Soldati)  Innanzi al Tribunal condotto sia.  Coro (Servi e Soldati)    S'innalza un turbine          Di guai novelli.  Su de’ fratelli —  Tratti in error.  E l’empio eretico <   «N° è lavcagionez 9:13 <L  Maledizione  Sul corruttor!  Al rogo ignifico  ‘ Condotto Sia. ©  Chi l’eresia  Tra noi portò. .  Legge inviolabile  Il turbolento  A tal tormento  Già condannò.       RIC    FROCIO RA ATONTAITA Gran sala nel Palazzo dell’Inquisizione in Roma... —. Nel  fondo una Galleria apertà sostenuta da colonne, fra  ile quali: si, aprono grandi fin:stre che lasciano tra-  vedere le cupole e i colli di Roma. — Porta: a de-  stra e a sinistra. — Nelmazzo un tavolo con quattro  candelabri. — Siedono al tavolo il grande INQUI-  SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI. — DUE SERVI  «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i    SCENA I.  Coro d'Inquisitori || |)   eo nembo dall’aere piove Lupa  ' Di Giordano su:l’empia cervice!  "Non v'ha niun che l’appelli infelice,   Non v'ha cor che si muova a pietà.  Pronto è il rogo, la fiamma divampa...   E pur essa la vittima è pronta !    AI gran Nome Cristiano quest’onta.  Or. dal fuoco purgata sarà. }    Giordano (appressandosi).  O sommo Inquisitor! Giunta è l'estrema       Ora, che me a gran prova... al rogo.... appella!  G. Inquisitore (alle guardie)    Fuor della porta vigilate !    (le guardie e i servi partono)    O Bruno  Di Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama  Alla prova del fuoco.... a morte.... 0 a vita  Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi concesso  Ciò e’ ha nessuno fu giammai; la scelta  Fra la vita e la morte!  Scegliete. E in, vostre man la vostra sorte!    Giordano  (Mi tentan!) Che si vuol da ms? Parlate.  G. Inquisitore    Qui in faccia a tutti, dichiararvi figlio  Della Romana Chiesa ora e in eterno  E vi doniam la vita; rimarrete  Prigion; ma al figlio libertà darete!    Giordano  (Dèmone tentator!) Nol vò.... nol posso!  G. Inquisitore (qa RomaANO)]    Perduto! Udiste ?... La sentenza è data!    (Parte coi servi, Le guardie circondano GIORDANO  e partono). i    SCENA II.  Romano (in preda a soffocato sdegno).    Cieco sirumento io sono all’empie voglie  Di costoro! Ubbidir sempre... e frattanto  Spezzare di mia figlia il vergin core,  Serbando la mia vita al lutto e al pianto!  O Laura, tu l’adori  D’averno il rio Filosofo,  Che con l'accento magico  Tuo cuor conquise già.  Or ei morrà sul rogo!...  Ma temo per mia figlia...  Dal duol trafitta, all’empio  Vicina ella cadrà!...  Senza la figlia, il padre  Più viver non potrà.  To l’adoro! In lei Tiposi  Ogni speme ed ogni alta;  La mia luce, la mia vita  Con la sua si spegnerà.  Volgi, o Dio su me, su lei  Un tuo sguardo protettor,  E la figlia, che perdei  Deh! ridona al genitor.    (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra  con LAURA).Laura (apprdssandosi ‘a ROMANO)    Ah! padre caro, mi benedici!  Quel divin spirto, che t’empie il core,  Io pur lo sento! Odio i nemici  Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore...  Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo salva;;  Se Do, «con Lui io morirò.:    (Romano La rea fiamma, che in cor ti VE  Per chi scuote de’ Papi l’impero,  Sulla fronte il delitto’ ti Stampa  Che tu svolgi nel cupo pensiero...   “Salvo tu vuoi Giordano ?  Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi > invano.    i (parte)  Laura (con disperazione)    Più di salvarlo non v' ha speranza!   L’ ala nel tempo batte spietata! . -   Ah! la fatale ora 8° avanza. i   Con te Giordano io morirò. ( prende il veleno)  A morte infame traggono. ;  L’ apostolo del vero;  Ma dal suo rogo. pallida; |  La fiamma sorgerà.  Che sovra. il cieco popolo...  La luce porterà; COLERE       Nè più potrassi spegnere  Quel fuoco che foriero  Sarà di libertà.    | Coro  frecta judicate filù hominum  Laura    Quai voci ascolto! Lugubre  E questo il canto estremo,  Ch’ ora al supplizio adduce-  L’ apostolo del Ver.    Coro  Recta judicate fili hominum  Laura    Con te Giordano! Morir voglio!  Al gaudio tuo volar desio. {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol-  trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie si  fa avanti nel mezzo).    Giordano    Gran Dio! la vittima.  Tu vedi pronta  Il rogo a scendere   \a 1 1 Per la tua, fe;  CERRI TERA ee    L'ira de’ perfidi,  Ovunque. conta,  Oggi terribile  Piombò su di me.    Coro    Etenim in corde iniquilates operamini;  Injustitias manus vestrae concinnant.    Lorenzo    Si squarcino le tenebre  Or dell’uman pensiero,  E torni vivo a splendere  Il sol di verità,  Che strugga alla tirannide  L’ atroce maestà,  E’ incenerisca i fulmini  Del mistico nocchiero  Nella futura età..  Giordano e Leandro  Da’ rei carnefici  Il rogo ardente  Pel nuovo martire  E posto là;  Ma la giustizia  Di Dio clemente  Le braccia schiudere  A Lui vorrà. |    (GIORDANO circondato ddlle guardie parte col corteo.)       Leandro, Cero (partendo)    In terra injustitias manus. vestrae concinnant.   LORENZO s’appressa a LAURA, che si troverd, vicina.  a ROMANO), i    Lorenzo (con disperazione)    O Padre, addio. Per me l’estrema  Ora fatale suonata è già?   Guarda tuo figlio, che più non trema  Nel vendicare la verità.   A me di Laura l’amor fu tolto :  Perchè un mistero buio sognai...  Ah! padre, credilo, tutto: ignorai;  Solo or la luce scorgo del Ver.    ER omamno  Lorenzo!   Lorenzo  [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce)   Laura!  Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO)  Al gaudio Ei vola.   Romane (sorreggendo LORENZO)    Serbate a quanti spasimi  E il povero mio cor?    o    aaravai  -ercerecote e merie—i ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor e.    Lorenzo    È tardi, o padre, il piangere. Anche Lorenzo... muor! (gli cadde ai piedi). Romano. Odesi “una campana a lenti rintocchi; avvicinandosi  a LAURA e sorreggendola/    Orribil pena mi strazia il core...  Un disumano fui genitore...!  Non v’ha infelice al par di me!    Laura (presso LORENZO)    Lieta è quest’ ora... della mia vita...  Bel paradiso la via... m’ addita  Giordano.... Io volo... In ciel. con tel    (Da una finestra vedonsi le fiamme del rogo, ed un    urlo di popolo annunzia la fine dello spettacolo.  Cala la tela. Refs.: Luigi Speranza, Bruniana. Filippo Bruno. Giordano Bruno. Keywords: paganesimo ario, anti-catolecismo, anti-papismo, filosofia come anti-religione, ragione, non fede, contra la fede, fede irrazionale – irrazionalismo della religione, irrazionalismo, ario, ariano, tradizione aria, religione pagana, filosofia e religione nella Roma antica – irrazionalismo della religione antica romana – carattere metaforico della religione pagana della Roma antica, ermetismo, composizione dei signi, de signorum compositione, compositio signorum, asino,asinita, Spaventa, Giudice, Cacciatore, Gentile, implicatura e ligatura, relativita, infigurabile, indeterminabile, Grice, indeterminacy, open, implicature, il Bruno di Marlowe; il Bruni di Shakespeare (Pene d’amore perdute), Grice e Bruno a Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bruno” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bruzi – I geti --  filosofia italiana – Luigi Speranza (Squillace). Filosofo italiano. Grice: “Cassiodoro was possibly a genius; I mean, I wrote a logic, and so did he – but he was ‘consul’ on top! My favourite – and indeed, the ONLY tract by him I recommend my tutees is his “Dialettica” – Strawson prefers his “De anima,” but ‘anima’ is a confused notion, for Wittgenstein and neo-Wittgensteinians alike – no souly ascription without behaviour that manifests it! – whereas with ‘dialettica’ you are safe enough!” –Grice: “I should be pointed out that of the three of the trivial arts – ‘dialettica’ is the only one that deals with my topic, conversation or dia-logue – grammatical is almost autistic, and rhetoric is for lawyers, i. e. sharks! Only ‘dialettica’ represents why those in the Lit. Hum. programme chose ‘philosophy’!” Grice: “Dialettica INCORPORATES all that grammatical and rettorica can teach!” --  Cassiodoro  Flavio Cassiodoro Gesta TheodoriciFlaviusMagnus Aurelius Cassiodorus. Cassiodoro, da un manoscritto su vellum del XII secolo. Magister officiorum del Regno Ostrogoto Durata mandato523533 MonarcaTeodorico il Grande (fino al 30 agosto 526) Atalarico (fino al 533) PredecessoreSeverino Boezio Prefetto del pretorio d'Italia Durata mandato533533 MonarcaAtalarico SuccessoreVenanzio Opilione Durata mandato535537 MonarcaTeodato (fino all'autunno 536) Vitige (fino al maggio 540) PredecessoreVenanzio Opilione Successore Fidelio Dati generali Professionefilosofo Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (latino: Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator.  Visse sotto il regno degli ostrogoti. Percorse un'importante carriera politica sotto il governo di Teodorico ricoprendo ruoli tanto vicini al sovrano, da far pensare in passato ad un effettivo contributo diretto al progetto del re ostrogoto. Successore di Boezio, oltre che consigliere, fu cancelliere de Teodorico e il compilatore delle sue lettere ufficiali e dei provvedimenti di legge. Collabora anche con i successori di Teodorico.  Al termine della guerra si stabilì in via definitiva presso Squillace, dove fondò la biblioteca di Vivario. La fonte principale che ci permette di conoscere la famiglia di Cassiodoro è data dalla sua più vasta e importante opera, le “Variae”. Nacque in una delle più stimate famiglie dei Bruzi, facente parte del patriziato. L'origine del nome è da ricercarsi in un luogo di culto dedicato a Giove. Da una lettera scritta da Cassiodoro per Teodorico abbiamo notizie sui suoi genitori, così come su un parente di nome Eliodoro. Dall'antica origine della famiglia si può comprendere la scelta dei Bruzi come nuova patria, essendo questa una zona della Magna Grecia. Si hanno notizie inoltre del suo bonno, definito “vir illustris” e del nonno Senatore. Quest'ultimo fu tribuno sotto Valentiniano III, e in qualità di ambasciatore conobbe il re degli Unni Attila.  Odoacre e Teodorico ritratti nelle Cronache di Norimberga. Al padre furono indirizzate alcune lettere delle “Variae”, il che ci offre più dati su di lui. Ricoprì il ruolo di comes rerum privatarum e successivamente di comes sacrarum largitionum nel governo di Odoacre. Mantenne la propria posizione di funzionario d'amministrazione anche sotto Teodorico, tanto da diventare governatore provinciale. Lo si ritrova governatore della Sicilia, e dopo essere entrato nelle grazie di Teodorico, governatore della Calabria, quando si ritirerà alla sua villa.  Così come per i suoi familiari, ricaviamo notizie sulla vita di Cassiodoro solo dalle sue opere. La nascita e quella indicata dal Tritemio nel suo “De scriptoribus” (Basilea 1494). Il menologio lo ricorda il 25 settembre. Per quelli che, come Theodor Mommsen, non ritengono attendibili i dati del Tritemio, le date di nascita e morte di Cassiodoro rimangono ipotizzate, principalmente grazie a quelle note dei suoi incarichi amministrativi; nonostante ciò molte cronache tendono a confondere alcuni dati della vita di Cassiodoro con eventi vissuti dal padre, attribuendo una grande longevità al letterato di Squillace. Proprio per quanto riguarda Squillace, non è certo che vi nacque. Molto più probabilmente vi passò l'infanzia, ricevendo dalla propria famiglia una prima educazione e seguendo degli studi. Ancora giovane fu avviato dal padre alla carriera pubblica, per la quale ricopre anzitutto il ruolo di “consiliarius”, per poi diventare quaestor sacri palatii, forse perché Teodorico apprezza particolarmente un panegirico che egli aveva composto.  Poco tempo dopo ricevette il governatorato di Lucania e Bruttii, notizia che si può apprendere da una lettera inviata al cancellarius Vitaliano. Seguendo differenti interpretazioni storiche, questa congettura è stata però di recente messa in dubbio. Risale la designazione a console. Nonostante si trattasse ormai di una carica onorifica manteneva una certa importanza, permettendolo di ricoprire il ruolo di eponimo. Dei anni successivi non si conosce salvo la pubblicazione della Chronica. Successivamente, fu nominato magister officiorum del re, succedendo nella carica a Boezio. Il ruolo e di grande prestigio, e rappresenta con esso il capo dell'amministrazione pubblica, degli official  e delle scholae palatinae. Alla morte di Teodorico,  si apre una complessa fase di successione. Divenne ministro della la figlia di Teodorico, succedutagli sul trono come reggente per il figlio Atalarico. Presumibilmente perdette parte della sua influenza nei primi anni di tali mutamenti politici, ma seppe poi riproporsi e, con un lettera di Atalarico, guadagna il titolo di Prefetto del pretorio per l'Italia. Non ricopre questo ruolo politico per molto tempo. Atalarico morì e ai consueti problemi di successione si aggiunse la malvolenza di Giustiniano verso gli ostrogoti, insofferenza che culminò poi con la guerra gotica. Resse nuovamente la prefettura, sotto i re Teodato e Vitige, per poi abbandonare definitivamente la carriera pubblica. Nelle Variae si possono trovare le ultime lettere scritte per conto di Vitige, anche se non viene detto nulla sul concludersi della sua funzione politica né si sa alcunché dei suoi successori. Di fronte all'avanzata bizantina rimase dapprima in ritiro a Ravenna, luogo che offriva ancora una certa sicurezza. Ravenna e conquistata dalle truppe imperiali, e da quel momento si perdono le sue tracce. Le alternative vagliate sono una permanenza a Squillace, dove però avrebbe avuto scarse possibilità di movimento, o una permanenza più lunga a Ravenna. Lo si ritrova nel seguito di papa Vigilio a Costantinopoli, città nella quale potrebbe anche aver soggiornato, secondo una terza ipotesi, in un periodo precedente alla data conosciuta. Rientrò nei Bruttii solo dopo la fine della guerra, ritiratosi definitivamente dalla scena politica, fondò il monastero di Vivario presso Squillace. Si hanno anche per questa parte della sua vita pochissime informazioni, non si conoscono quindi le motivazioni che lo portarono alla creazione di questa comunità monastica né particolari sulla contemporanea situazione politica della penisola italica; per quanto riguarda la sua situazione personale, si può ipotizzare che non ebbe eredi diretti. Al Vivarium trascorse il resto dei suoi anni, dedicandosi allo studio e alla scrittura di opere filosofiche. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e la copiatura di manoscritti, che fu il modello a cui successivamente si ispirarono i studii. Opera, il De ortographia. IL'obiettivo principale del progetto politico-culturale di Cassiodoro fu quello di accreditare il regno teodericiano come una restaurazione del Principato, ossia quella forma di governo che aveva garantito la collaborazione, formalmente quasi paritaria, tra l'imperatore e la classe senatoria. Questa autorappresentazione del governo goto serviva in primo luogo come legittimazione del regno nei confronti dell'Impero costantinopolitano. Sostanzialmente, essendosi conformato il regime ostrogoto al modello imperiale, il primato dell'imperatore e fondato esclusivamente su un piano carismatico (pulcherrimum decus). Al tempo stesso, tale imitazione da parte di Teoderico poneva l'Amalo in una posizione di superiorità nei confronti degli altri regni barbarici attraverso un principio politico-carismatico, basato su una gerarchia di due livelli (l'impero e il regno di Teoderico, gli altri regni), con un vertice binario e leggermente asimmetrico. Tra tutti gli altri dominantes, Teoderico era il solo che, per volontà divina, aveva saputo dare al suo regno gli stessi fondamenti etici e legali dell’imperium: il suo regno era una replica perfetta del modello imitato e a sua volta un modello.»  (Andrea Giardina[43]) La prospettiva di Cassiodoro, infatti, non è più l'impero universale, bensì quella nazionale dell'Italia romano-ostrogota, autonoma ed egemone rispetto agli altri regni occidentali, sebbene siano state avanzate riserve circa la reale ambizione di Teoderico di assumere l'eredità del decaduto Impero romano d'Occidente. In particolare, il fondamento dell'ideologia cassiodoriana ruota intorno al concetto di “civilitas”, che indica tanto il rispetto delle leggi e dei princìpi della romanità, quanto la convivenza sociale, giuridica ed economica di romani e stranieri fondata sulle leggi. Secondo Cassiodoro, il regno goto si sarebbe fatto custode della civilitas, garantendo così la giustizia e la pace sociale (l’otiosa tranquillitas, cioè l'obiettivo di ogni buon governo), in accordo con la legge divina e la migliore tradizione imperiale romana. Il richiamo all'ideologia del Principato da parte di Teoderico e Atalarico si basa, nella fattispecie, sull'emulazione della figura di Traiano, così come tratteggiata nel Panegirico di Plinio il Giovane. Con il regno di Teodato, invece, il principale modello di riferimento fu quello dell'”imperatore-filosofo” -- un ideale etico-politico ampiamente imbevuto di caratteri neoplatonici. In seguito, nell'impellenza della guerra greco-gotica, Vitige si distinse per il recupero di un'ideologia più specificamente germanica, in cui e messi in risalto le virtù bellica e l'ardore guerriero.  San Benedetto da Norcia.  Inoltre esiste la possibilità che un primo abbozzo di ciò che sarebbe diventato il monastero esistesse già da tempo, presente nei territori di Squillace da una data sconosciuta e utilizzato come residenza da Cassiodoro solo al ritorno in patria dopo la guerra gotica. Ad ogni modo non aiuta nelle varie ipotesi il silenzio delle fonti, poiché le Variae erano state già pubblicate e nessuna delle opere dell'ormai ex politico trattò di questa fondazione; nulla si conosce sul parto di questo progetto, né quando quest'idea fosse stata concepita.[59] Nonostante si intuisca dalle ultime opere di Cassiodoro un avvicinamento potente alla fede cristiana (si pensi al De anima e all'Expositio Psalmorum[60]), il monastero di Vivario nacque con uno scopo differente dal celebre Ora et labora: l'obiettivo principale del nucleo monastico fu infatti la copiatura, la conservazione, scrittura e studio dei volumi contenenti testi dei classici e della patristica occidentale. La caratteristica di Vivarium era quindi la sua forma di scriptorium, con le annesse problematiche di rifornimento materiali, studio delle tecniche di scrittura e fatiche economiche. I codici e manoscritti prodotti nel monastero raggiunsero una certa popolarità e furono molto richiesti. Le forme entro cui si espresse invece l'organizzazione monastica dal punto di vista religioso sono ben poco chiare, né aiuta l'assenza di riferimenti alla vicina esperienza di Benedetto da Norcia; forse Cassiodoro non ne conobbe neppure l'esistenza, o potrebbe averne parlato in opere non giunteci. Alcuni storici avanzano l'ipotesi che la Regula magistri, su cui si basa la Regola benedettina, sia addirittura opera dello stesso Cassiodoro. Questo presunto rapporto tra i due è però generalmente rigettato dagli studiosi, anche alla luce di alcune citazioni provenienti dalle Institutiones che chiariscono le norme monastiche adottate da Vivarium:[64]  «Voi tutti che vivete rinchiusi entro le mura del monastero osservate, pertanto, sia le regole dei Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento volentieri i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza... Prima di tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi, spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola i miseri.»  (Cassiodoro, Institutiones.[65])  Ritratto del profeta Esdra nel quale per molto tempo si riconobbe la figura di Cassiodoro, contenuto nel Codex Amiatinus. Questa citazione mostra come Vivarium seguisse quindi le più comuni regole monastiche contemporanee, mentre altri passaggi delle Institutiones ci suggeriscono un ruolo laico per Cassiodoro, forse esterno alla vita monastica e puramente patronale Il vero centro vitale di Vivarium era, particolare che segna la differenza con ogni altro centro monastico, la biblioteca. Cassiodoro distingue inoltre i libri del monastero da quelli personali, differenza poi scomparsa in un periodo successivo. E la biblioteca, infatti, come centro di cultura di tutto il monastero, la novità del suo programma, una biblioteca nata ed accresciuta secondo le intenzioni del fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione, perché l'aveva curata personalmente, ma anche i testi, perché li aveva studiati, annotati, arricchiti di segni critici, riuniti insieme secondo la materia in essi trattata e persino abbelliti esteriormente. Il monastero prende nome da una serie di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso Cassiodoro. La loro presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al concetto di Cristo come Ichthys. Non lontano dal centro si trovava una zona per anacoreti, riservata a monaci con pregresse esperienze di vita cenobitica. Vivarium sorgeva, secondo gli studi ad oggi compiuti, nella contrada San Martino di Copanello, nei pressi del fiume Alessi. In quella zona fu ritrovato un sarcofago datato VI secolo, associato a graffiti devozionali e subito considerato la sepoltura originale di Cassiodoro. Per ciò che riguarda la ripartizione del lavoro, i monaci inadatti a seguire la biblioteca con annessi oneri intellettuali sono destilla coltivazioni di orti e campi, mentre i letterati si occupavano dello studio delle sette arti liberali (dialettica, retorica, grammatica, musica, geometria, aritmetica, astrologia) questi ultimi erano divisi in notarii, rilegatori e traduttori. Le opere di carità erano espressamente raccomandate dal fondatore, e legati a queste fiorivano gli studi di medicina. Cassiodoro fece preparare tre edizioni differenti della Bibbia e si occupò di copiature e riscritture di molti altri testi della cristianità, considerando tutto ciò una vera e propria opera di predicazione. Non mancano però nella biblioteca di Vivarium i testi profani: tra gli altri furono salvati grazie all'opera di Cassiodoro le Antiquitates di Flavio Giuseppe e l'Historia tripartita. Le opere di Cassiodoro del periodo di Teodorico, quelle da noi conosciute, sono tre: le Laudes, la Chronica e l'Historia Gothorum. Della prima si sono conservati solo due frammenti, mentre della Gothorum Historia rimane solo un'epitome a opera dello storico Giordane. La Chronica racconta la saga dei poteri temporali di tutta la storia, dai sovrani assiri sino ai consoli del tardo Impero, passando ovviamente per tutta la storia romana. Possediamo un frammento di un'ulteriore opera, l'Ordo generis Cassiodororum, che ci offre notizie sulla famiglia dell'autore. Tra la produzione di Cassiodoro occupano un posto speciale le Variae, raccolta di documenti ufficiali scritti i quali ci offrono quindi informazioni su differenti periodi della vita dell'autore e sulla storia dei Goti. A queste si può aggiungere il “De Anima”, opera per la prima volta lontana da interessi politici e invece basata su temi della filosofia psicologica. Il terreno religioso è battuto anche dalla successiva Expositio Psalmorum, commento ai salmi di particolare importanza poiché unico esempio pervenutoci dal mondo tardo antico. Al periodo di Vivarium appartengono tra le opere a noi giunte, le Institutiones, le Complexiones in epistolas Beati Pauli e le Complexiones in epistolas catholicas, le Complexiones actuum apostolorum et in Apocalypsi e il De ortographia. La prima, senza dubbio l'opera più importante di Cassiodoro, è datata in un periodo in cui il centro monastico era sicuramente avviato; rappresenta sostanzialmente una "guida" per gli studi nel monastero, è ricca di informazioni sulla vita dei monaci e sulle opere intellettuali da loro compiute. Il De ortographia sarà la sua ultima opera, scritta attorno ai novant'anni. Uno scritto di chiari intenti politici è la Chronica, una sorta di storia universale scritta nel 519 su richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata unione tra i romani ed i goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera, che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio Aquitano e Prospero d'Aquitania. Per la trattazione successiva al 496 invece l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo carattere spiccatamente filo-gotico. Cassiodoro arriva a manipolare alcuni eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far apparire i Goti sotto un'oscura luce. Historia Gothorum  Re Davide vincitore in una miniatura dall'Expositio Psalmorum, presente nell'edizione del Cassiodoro di Durham. Una delle sue opere più importanti fu il De origine actibusque Getarum (più noto come Historia Gothorum) in 12 libri, nel quale la sua ideologia filogotica era tracciata e sviluppata in maniera più organica.[83] Si considera l'opera contemporanea o poco successiva alla Chronica, anche se più studiosi tendono a ritenerla più recente, forse composta tra il 526 e il 533. Certamente la stesura fu caldeggiata da Teoderico, per essere infine pubblicata sotto Atalarico. Nonostante ciò essa ci è pervenuta solo nella versione ridotta dello storico Giordane, i Getica. Prima storia nazionale di un popolo barbarico, la Historia Gothorum era tesa a glorificare la dinastia degli Amali, la stirpe regnante, attraverso una ricostruzione della storia dei Goti dalle origini ai tempi presenti. Il tentativo più ardito dell'opera fucome emerge dal titolo stessol'identificazione dei Goti con i “geti” -- popolazione già nota a Erodoto e maggiormente conosciuta dal mondo romano. Il racconto narra eventi storici e come scopo ha inoltre quello di celebrare l'unione tra goti e romani, qui comprovata dal matrimonio tra il romano Germano Giustino e l'amala Matasunta. Il fine ultimo dell'opera lo svelaper bocca di Atalarico Cassiodoro stesso. Questi Cassiodoro ha sottratto i re dei Goti al lungo oblio in cui li aveva nascosti l'antichità. Questi ha ridato agli Amali la gloria della loro stirpe, dimostrando chiaramente che noi siamo stirpe regale da diciassette generazioni. L'origine dei goti egli ha reso storia romana, quasi raccogliendo in una corona fiori prima sparsi qua e là nel campo dei libri. Dell’Ordo generis Cassiodororum rimane un solo frammento in più copie. Il l testo, dalla difficile interpretazione, fu composto negli anni della carriera pubblica di Cassiodoro ed è dedicato a Rufio Petronio Nicomaco Cetego. L'opera offre rare notizie sulla famiglia di Cassiodoro, in particolare sul padre; nelle poche righe centrali vengono nominche Boezio e Simmaco, il che farebbe pensare ad un qualche grado di parentela tra l'autore e queste due figure, impossibile attualmente da stabilire. La sua attività di funzionario al servizio del regno goto è testimoniata dalle Variae, una raccolta di lettere e documenti, redatti in nome dei sovrani o trasmessi a firma dell'autore stesso in un arco di tempo che va dall’assunzione della questura al termine della carica di prefetto al pretorio. Il titolo come l'autore spiega nella prefazione all'opera è dovuto alla “varietà” degli stili letterari impiegati nei documenti del corpus, il quale divenne successivamente un riferimento per lo stile cancelleresco e curiale. Espone nella praefatio dell'opera il fine di questa raccolta di testi, ovvero la necessità di fornire nozioni utili a chiunque si dovesse in futuro accostare alla carriera pubblica. Ulteriore obiettivo dichiarato è quello di far conoscere i propri trascorsi come membro del ceto dirigente.Le Variae sono assai utili per conoscere le istituzioni, le condizioni politiche, morali e sociali sia dei Goti sia dei Romani dell'Italia del tempo.[85]  De anima Cominciato poco prima della conclusione delle Variae, il “De anima” è considerato da Cassiodoro come una sorta di tredicesimo volume per quest'opera, quasi ne rappresentasse l'appendice. Affronta temi esterni al mondo della politica, avvicinandosi agli stessi interessi spirituali che poi toccherà con la Expositio Psalmorum. Il “De anima” si dipana su dodici questioni, tra le quali l'incorporeità e il destino dell'anima, legata alla tradizione di Tertulliano, Agostino e Claudiano Mamerto. Anche per l’Expositio Psalmorum non è possibile dare una datazione certa, anche perché la sua composizione sembra essere stata portata avanti per un periodo abbastanza prolungato. Si tratta di un commento completo ai salmi, unico esemplare rimastoci da tutta la tarda antichità. Per mole è certamente l'opera maggiore di Cassiodoro, anche se non viene considerata la più matura tra le sue produzioni. Una più ampia influenza nel Medioevo ebbero le sue Istituzioni, “Institutiones divinarum et saecularium litterarum”, erudita introduzione alle sette arti liberali – dialettica, retorica, grammatical – musica, geomtrica, aritmetica. Progettata dopo che la richiesta di Cassiodoro per la fondazione di un'studi ricevette una risposta negativa da papa Agapito I, l'opera visse un lungo periodo di incubazione: basti pensare che al suo interno cita il De orthographia, ultima opera attestata di Cassiodoro. Il lavoro su questa enciclopedia si suddivide in varie sezioni: la prima presenta i vari libri della Bibbia, la storia della Chiesa e degli studi teologici; la seconda si occupa di quelle arti incluse successivamente nel trivio e quadrivio, con un occhio rivolto alla cultura pagana e alle norme atte per trascrivere correttamente gli antichi. Altre opere sono citate direttamente da Cassiodoro nel De orthographia. Complexiones in Epistolas et Acta apostolorum et Apocalypsin; si tratta di un commento ad alcuni passi degli Atti degli Apostoli e dell'Apocalisse di Giovanni Expositio epistolae ad Romanos (Commento alla lettera dei Romani). Liber memorialis; breve riassunto del contenuto della Sacra Scrittura. Historia ecclesiastica tripartita, di cui fu autore della sola prefazione. De orthographia; trattato destinato a fissare norme e regole per la trascrizione di scritti antichi e moderni. Senator è parte integrante del nome e non già designazione della carica pubblica (Momigliano, 1978,  494-504; Momigliano, 1980487).  Le ipotesi che vogliono Cassiodoro organizzatore e stratega nascosto dietro Teodorico sono ad oggi considerate generalmente infondate, superate dalla tradizione che vede Cassiodoro estraneo alla politica del regno; Cardini, 2009109.  Cardini, 200911; Abbate, Cardini, Momigliano, 1980487.  In Siria si trovano attestati i nomi Κασιόδωρος e Κασσιόδωρος.  Cassiodoro, Variae, I, 3.  Noto come Mons Cassius, da questo deriva Kassiodoros, ovvero "Dono del Monte Cassio".  Cardini, 200972.  Cassiodoro, Variae, I, 4.  Cassiodoro, Variae18.  Onore guadagnato forse per la difesa della Calabria dai Vandali di Genserico nel 404.  Michel Rouche, IV- Il grande scontro (375-435), in Attila, I protagonisti della storia, traduzione di Marianna Matullo,  14, Pioltello (MI), Salerno Editrice,,  87,  2531-5609 (WC ACNP).  Cardini, 200974.  Tuttavia non si conosce né la data in cui ricoprì la carica né il nome della provincia.  Cardini, 200975.  Il nome stesso di Cassiodoro viene riportato solo nelle lettere dei papi Gelasio, Giovanni II e Vigilio.  In Cardini, 2009,  75-76 ci si sofferma su dizionari e prontuari la cui affidabilità è considerata generalmente affidabile; in particolare si cita l'opera Lessico classico di Federico Lübker.  Cardini, 2009,  75-76; a novant'anni scriverà ad esempio nel Vivarium un trattato di ortografia. Franceschini, 200830.  Cardini, 200976.  Cassiodoro, Ordo generis,  27-32; si tratta di una carica pubblica con funzioni di consigliere.  Cassiodoro, Variae, IX, 24.  Cassiodoro, Variae, IX, 39.  Cardini. La congettura si basa su un passo delle Variae, in cui però Cassiodoro non afferma esplicitamente di essere stato governatore dei Bruzi. Questa ipotesi è stata rimessa in discussione da Andrea Giardina e Franco Cardini (Giardina, 2006,  23-24;Cardini, Aveva cioè la possibilità di dare il proprio nome all'anno, unitamente a quello del collega.  Cardini, 200978.  Cassiodoro, Variae, IX, 24-25.  Ghisalberti, 200238.  Ovvero le segreterie imperiali (officia memoriae, epistularum, libellorum e admissionum).  Si tratta del corpo militare speciale incaricato di sorvegliare la corte imperiale.  Non si è certi se fosse stato nominato prefetto del pretorio per la prima o seconda volta.  Cardini, Cassiodoro, Variae, X, 33-34.  Cassiodoro, Variae, XII, 16-24.  Momigliano, 1978495; Cardini, 2009,  79-80.  Cardini, 2009,  81.  Cardini, 2009,  Cardini, 2009,  84.  Reydellet, Giardina, 2006,  116-141.  Cassiodoro, Variae, I 1,2-3, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 1º luglio )..  Giardina, 2006122.  Teillet,,  281-303.  Dietrich Claude, Universale und partikulare Züge in der Politik Theoderichs, in «Francia»,Reydellet, 1995292.  Wolfram, 1990295.  Cassiodoro, Variae, IX 14,8: Gothorum laus est civilitas custodita., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url originale l'8 luglio )..  Cassiodoro, Variae, II 29,1: regnantis est gloria subiectorum otiosa tranquillitas., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 13 luglio )..  Cassiodoro, Variae, IV 33, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url originale l'11 luglio )..  Reydellet, Anonimo Valesiano, II 60: a Romanis Traianus vel Valentinianus, quorum tempora sectatus est, appellaretur..  Cassiodoro, Variae, VIII 3,5: Ecce Traiani vestri clarum saeculis reparamus exemplum., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 7 luglio )..  Cassiodoro, Variae, VIII 13,3-5: Non sunt imparia tempora nostra transactis: habemus sequaces aemulosque priscorum. (...) Redde nunc Plinium et sume Traianum. (...) Bonus princeps ille est, cui licet pro iustitia loqui, et contra tyrannicae feritatis indicium audire nolle constituta veterum sanctionum. Renovamus certe dictum illud celeberrimum Traiani: sume dictationem, si bonus fuero, pro re publica et me, si malus, pro re publica in me.., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url originale l'8 luglio )..  Reydellet, 1981,  248-250.  Vitiello, 2006,  111-222.  Reydellet, 1981,  250-253.  Vitiello, Cardini, Cassiodoro, Expositio Psalmorum, praef 1-5.  Cardini, Cardini, Pellegrini, 200523.  Cardini, 2009,  141-142.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII, 1.  Cardini, 20092.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXIX.  Cardini, 2009142.  Cassiodoro, Istituzioni, I, IV, 4.  Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 14.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII, 2.  Cassiodoro, Istituzioni, II, II, 10.  Questo porta gli studiosi a ipotizzare una maggior partecipazione di Cassiodoro al progetto.  Cassiodoro, Istituzioni34.  Cardini, 2009143.  Cardini, Cardini, 2009145.  Coloro che preparavano i testi per la trascrizione.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXX, 3. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 3.  Cardini, 2009146.  Cardini, 2009148.  Cardini, 200986.  Cardini, Cardini, Cardini, 200992.  Cardini, 200993.  Altaner, 1944341.  Ceserani, 197976.  Cardini, Cardini, 200985.  Eutarico morirà infatti nel 522.  La cronaca è un genere letterario caratterizzato dall'esposizione di fatti storici in ordine cronologico.  Simonetti, 2006101.  Moorhead, Cassiodoro, Variae, IX, 25.  De origine actibusque Getarum, in sessanta capitoli.  «La Historia Gothorum occupa un posto di rilievo nella storia della cultura occidentale perché fu la prima storia nazionale di un popolo barbarico: in tal senso essa introduce veramente il medioevo». Simonetti, 2006102.  Simonetti, 2006,  101-102.  Germano Giustino faceva parte della Gens Anicia, mentre Matasunta era nipote di Teodorico.  Cardini, 200987. ...originem Gothicam historiam fecit esse Romanam...  Cassiodoro, Variae, IX, 25, 5.  Cardini, 200988.  Il frammento è noto anche come Anecdoton Holderi; edizione critica e traduzione francese in Alain Galonnier, "Anecdoton Holderi ou Ordo generis Cassiodororum: introduction, édition, traduction et commentaire", Antiquité tardive, Cardini,  Cassiodoro, Variae27.  Cassiodoro, Variae, XI, 7.  Cardini, Momigliano, Istituzioni delle lettere sacre e profane.  Cardini, 200994.  Cardini, 200995.  Muse, Cassiodoro, Istituzioni15.  Opere di Cassiodoro Expositio Psalmorum, M.A. Adriaen, 1958. Le Cronache, Mirko Rizzotto, Gerenzano, Runde Taarn, 2007. Le Istituzioni, Antonio Caruso, Roma, Vivere in, 2003. Le Istituzioni, Mauro Donnini, Città Nuova, Ordo generis Cassiodororum, Lorenzo Viscido, M. 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Storici romani Antica Roma  Antica Roma Biografie  Biografie Cristianesimo  Cristianesimo Letteratura  Letteratura Lingua latina  Lingua latina Medioevo  Medioevo Categorie: Politici romani del VI secoloLetterati romaniStorici romaniComites rerum privatarumComites sacrarum largitionumConsoli medievali romaniCorrectores Lucaniae et BruttiorumMagistri officiorumPrefetti del pretorio d'ItaliaScrittori. Grice: “The English had taught Italians that it’s not fair to call Cicero an Italian, or Pythagoras, for that matter, since this all happened before Garibalid! I’m glad the Italians never learned the lesson!” --   MAGNI AURELII CASSIODORI SENATORIS De Artibus ac Diſciplinis Liberalium Litterarum, PR Æ FATI O. vism lectioni 33. titulis Prov. 8.28. Erionum 7. tartiem titke nec men wa/ > nec 716m2To Liberdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam cubitum unum? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:., S | licet divinarum continet lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus. hic triginta tribu's titulis noſcitur pondere;ſicut ait in Proverbiis Salomon: Ei li. coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum; & paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar fundamenta terra, cum eo eram. mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia cre- Quapropter opere Dei fingularizato, magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut; fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere debeamus; qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men calculus per ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera diaboli nec Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus, uſque ad totius orbis pondere, nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas, juſtitie ſein Defeptenario Sciendum eft plane, quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut & tertius deciinus Pſalmus continentur. numero, quid continuam atqueperpetuum Scriptura fan- meminit, dicens: Contritio, ú infelicitas in viis Pfal. 13.30 quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum, á viam pacis non cognoverunt: non eſt ia Super cum ficut dicit David: Septies in dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum. Ifaias quoque dicit: intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur: Benedicam Domi- Dereliquerunt Deuin Sabaoth, & ambulaverunt 164. numin omni tempore: femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis, & fummè Et Salomon: Sapientia edificavit fibi domum, ſapiens Deus, qui omnes creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem. In Exodo quoque dixit moderatione diſtinxit: ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen: Facies lucernas ſeptem, & confuſio pollideret. Unde Pater Auguſtinus in deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum, ut luceant ex adver- libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4. fo. Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat; qui tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus; * Intentus no- *Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte Grammatica, tive Rhetorica, vel MSS. codd. memoratur, ubi perpetuum tempus oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere; Arithmetita Sic Arithmetica diſciplina dotata eſt, quando quarum rerum principia neceffe eft nos inchoa dotata,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re; dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis, & menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon; Omnia in numero, menfura, lium litterarum. re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber autein dictus eſt à libro, id eſt, arboris Liber unde ra ft24. micro facta cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait:Veftri autem & cepilli capitis omnes nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit, utilitatis ali ſura; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà omnium artium extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft, quòd nos fuis regulisarctet Unie ars Plal. 33. 2. Prov. 9. 1, Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n. do creat1471 dieta. Liberalium Litterarum. 559 rints compoſuit. malis voce. our atque conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel ſcripturæ, in ctum eſſe vocabuluin, amo tús agerős, id eſt, à culpabili placere peritia. virtute doctrinæ, quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis Auctores ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de arte Rhetorica, quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ, maxiniè in civi- mon, Phocas, Probus; & Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono- men placet in medium Donatum deducere, qui rabilis æſtiinatur. & pueris ſpecialiter aprus, & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc, quantùm Magiſtri ſæ. ulares dicunt, mus, ut ſupra quòd ipfe * planus eſt, fiat clarior menta in ar diſputatdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam cubitum unum? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:., S | licet divinarum continet lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus. hic triginta tribu's titulis noſcitur pondere;ſicut ait in Proverbiis Salomon: Ei li. coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum; & paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar fundamenta terra, cum eo eram. mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia cre- Quapropter opere Dei fingularizato, magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut; fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere debeamus; qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men calculus per ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera diaboli nec Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus, uſque ad totius orbis pondere, nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas, juſtitie ſein Defeptenario Sciendum eft plane, quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut & tertius deciinus Pſalmus continentur. numero, quid continuam atqueperpetuum Scriptura fan- meminit, dicens: Contritio, ú infelicitas in viis Pfal. 13.30 quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum, á viam pacis non cognoverunt: non eſt ia Super cum ficut dicit David: Septies in dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum. Ifaias quoque dicit: intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur: Benedicam Domi- Dereliquerunt Deuin Sabaoth, & ambulaverunt 164. numin omni tempore: femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis, & fummè Et Salomon: Sapientia edificavit fibi domum, ſapiens Deus, qui omnes creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem. In Exodo quoque dixit moderatione diſtinxit: ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen: Facies lucernas ſeptem, & confuſio pollideret. Unde Pater Auguſtinus in deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum, ut luceant ex adver- libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4. fo. Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat; qui tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus; * Intentus no- *Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte Grammatica, tive Rhetorica, vel MSS. codd. memoratur, ubi perpetuum tempus oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere; Arithmetita Sic Arithmetica diſciplina dotata eſt, quando quarum rerum principia neceffe eft nos inchoa dotata,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re; dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis, & menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon; Omnia in numero, menfura, lium litterarum. re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber autein dictus eſt à libro, id eſt, arboris Liber unde ra ft24. micro facta cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait:Veftri autem & cepilli capitis omnes nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit, utilitatis ali ſura; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà omnium artium extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft, quòd nos fuis regulisarctet Unie ars Plal. 33. 2. Prov. 9. 1, Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n. do creat1471 dieta. Liberalium Litterarum.rints compoſuit. malis voce. our atque conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel ſcripturæ, in ctum eſſe vocabuluin, amo tús agerős, id eſt, à culpabili placere peritia. virtute doctrinæ, quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis Auctores ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de arte Rhetorica, quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ, maxiniè in civi- mon, Phocas, Probus; & Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono- men placet in medium Donatum deducere, qui rabilis æſtiinatur. & pueris ſpecialiter aprus, & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc, quantùm Magiſtri ſæ. ulares dicunt, mus, u t ſupra quòd ipfe * planus eſt, fiat clarior menta in ar diſputationibus ſubtiliffimis ac brevibus vera ſe- dupliciter explanatus. Sed & ſanctum Augufti- tes Donati queſtrat à fallis. num propterfimplicitatem fratrum breviter in- Caffiodorus Quarto de Mathematica, quæ quatuor com- ftruendain, aliqua de codem titulo ſcripſiſſe re- *MS.Sanger. plectitur diſciplinas, id eſt, Arithmeticam,Geo- perimus, qux vobis le titanda reliquimus: ne Lasinus. metricam, Muſicain, & Aſtronomnicain. Quain quid rudibus deeſſe videatur, qui ad tantæ ſcien Che Mathe. Mathematicam Latino ferinone doctrinalem diæ culmina præparantur. maticado tri poffumus appellare; quo nomine licet omnia doctrinalia dicere valeamus,quæcumque docent: Donatus igitur in fecundit purte ita diſceptat. hæc libi tamen commune vocabulum propter ſuam excellentiam propriè vindicavit; ut Poeta De Voce Articulata. dictus, intclligitur Virgilius: Orator enuntia De Littera. tus, advertiturCicero; quamvis multi & Poëtæ, De Syllaba. &Oratores in Latina lingua eſſe doceantur;quod De Pedibus. etiam de Homero, atque Demoſthene Græcia fa De Accentibus. cunda concelebratı Dc Pofituris, ſeu Diſtinctionibus. Quid fit Ma Mathematica verò eſt ſcientia, quæ abſtra Et iterum de Partibus Orationis octo thematica? ctam conſiderat quantitatem. Abſtracta eniin De Scheinatibus. quantitas dicitur, quam intellectu â materia fe De Etymologiis. parantes, vel ab aliis accidentibus, folâ ratio De Orthographia. cinatione tractamus. Sic totius voluminis ordo * Ed. * ado. quaſi quodam * vade promiffus eſt. Vox articulata, eft aër percuſſus, fenfibilis au- Quid fit vox Nunc quemadmodum pollicitafunt, per divi- ditu, quantum in ipſo eſt. articulati. Duplex dif- fiones definitioneſque ſuas, Domino juvante, Littera, eſt pars ininima vocis articulatæ. Quid Littera. cendi genius. reddamus: quia duplex quodammodo diſcendi Syllaba, eft comprehenſio litterarum, vel unius Qwid Syd genus eſt, quando & lincalis deſcriptio imbuit vocalis enuntiatio, temporum capax. * Ed. pol. diligenter aſpectum, & * per aurium præparatum Pes; eſt ſyllabarúm & temporum certa dinu- Quid pes. intrat auditum. Nec illud quoque tacebimus, meratio. quibus auctoribus tain Græcis, quam Latinis, Accentus, eſt vicio carens vocis artificioſa pro- Quid Accen quæ dicimus, expoſita claruerunt ut; qui ſtudio- nuntiatio. MSS.Reg. le legere voluerit, quibuſdam * compendiis in Pofitura, ſive diſtinctio, eſt moderatæ pronun- Quid pofitu Sang. competentiis. tiationis apta repauſatio. troductus, lacidiùs Majorum di& ta percipiat, Partes autem orationis ſunt acto, Nomen, Pronomen, Verbuin, Adverbium, Participium, tionis funs Conjunctio, Præpofitio, Interjectio. Capitula Libris Nomen, eſt pars orationis cum caſu, corpus Quid fis non aut rem propriècommuniterve fignificans; pro- men. Caput. I. De Grammatica: priè, ut Roma, Tiberis: cominuniter, ut urbs, 2. De Rhetorica. Huvius, 3. De Dialectica; Pronomen, eſt pars orationis, quæ pro nomi- Quid Pronta 4. De Arithmetica: ne pofita, tantuindem pene ſignificat, perſo S. De Muſica, namque interdum recipit. 6. De Geometria. Verbum, eſt pars orationis cum tempore & Quid verbi. 7. De Aſtronomia: perſona fine caſu. Adverbium, eft pars orationis, quæ adjecta Quid Adverbo, ſignificationem ejus explanat atque iin- bium. pler; ut, jam faciam, vel non fáciam. Inſtitutio de Arte Grammatica. Participium, eſt pars orationis, dicta qudd par- Quid Parti tem capiat nominis, partemque verbi; recipit cipium. Unde Grama maticanomen GKRammatica à litteris nomen accepit, ficuè enim ànomine genera & cafus, à verbo tempo vocabuli ipfius derivatus fonus oſtendit; ra & fignificationes, ab utroque numeros & fi acceperit? quas primus omnium Cadınus ſexdecim tantum guras. legitur inveniſſe, eaſque Græcis ſtudioſiſſimis Conjunctio, eſt pars orationis annectens, ordi. Qyid com tradens, reliquas ipſi vivacitate animi ſuppleve- nanfque ſententiam. junctio. De quarum formulis atque virtutibus, Præpoſitio, eſt pars orationis, quæ præpofira Quid Præpo Helenus, atque Priſcianus ſubtiliter Attico ſer- aliis partibus orationis, fignificationem earum Juio. Quidfit Gra mone locuti ſunt. Grammatica verò, eſt peritia aut inutat, aut complet, autminuit. * MSS. Au- pulchrè loquendi ex Poëtis illuſtribus, * Orato Interjectio, eſt pars orationis ſignificans mentis Quid inter Etoribus, ribuſque collecta. Officium ejus eſt fine vitio affectuin voce incondità. ječtio. dictionem proſalem metricamque componere: Scheinata, ſunt transformationes fermonum Quid Sche ba. ra. Partes ora octo. 5 $ 1 men. runt. marica? mata.Caffiodorus de Inſtitutione Quid Ortha les, vel fententiaruin, ornatus cauſâ policæ; quæ à dis:interdami, ut folers,iners. quodam Artigrapho nomine Sacerdote collecta, In plurali quoque, excepto genitivo & accuſa fiunt numero nonaginta octo: ita tamen, ut qux rivo, omnibuscalibus ſimiliter declinantur.Nam à Donado inter vitia polita ſunt, in ipfo numero quædam in uin genitivo, accuſativo in es exeunt, collecta claudantur. Quod & mihi quoque du- ut Mars, ars: quædam in ium, ut fapiens, patiens, ruin videtur vitia dicere,quæ auctorum exemplis, & ob hoc accuſativi eorum in eis excunt. Plera & maxiinè legis divinæ auctoritate firmantur. que aurein ex his nomina tribus generibus com Hæc Grammaticis Oratoribufque cominunia munia funt, & in licreram quam habent, neutra funt: quæ tamen in utraque parte probabiliter in nominativo plurali dant etiam genitivis reli reperiuntur aptata. quoruin generuin,cum quibus coinmunia funt. Addenduin eſt etiam de Eryinologiis, & Ortho In T littera, neutra tantùm nomina quædam, graphia, de quibus alius fcripfiffe certiflimum eſt. pauca finiuntur; ut git, quod non declinatur; Quid 'Etymo. Etymologia eſt aut vera aut veriſimilis deinon- ut caput, ſinciput. Quidam cùm lac dicunt, loysa. ftratio, declarans ex qua origine verba defcen- adjiciunti, propter quod facit lactis: ſed Vir dant. gilius. Orthographia eſt rectitudo fcribendi nullo er Lac mihi non æſtate novum, non frigore defit. graphics. rore vitiata, quæ manum componit & linguam. quippe cùm nulla apud nos nomina in duas mu Hæc breviter dicta fufficiant. tas exeant, & ideo veteres lacte in nominativo Cæterùm qui ea voluerit lariùs pleniùſque co dixerant, gnoſceye, cum præfarione ſua codicem legat, X littera terminat quædam, in quibus omnia quem noſtra curiolitate formavimus, id eſt, Ar- communia in iuin cxeunt in genitivo plurali; ob tem Donati, cui de Orthographia librum, & hoc. accuſativo in i & s. Plurima verò genitivo alium de Etymologiis inferuimus, quartum quo- in u & in, non præcurrente i, & ob hoc in e & s que de Schematibus Sacerdotis adjunximus;qua- accuſativo exeunt; nam in reliquis conſentiunt. tenus diligens lector in uno codice reperire pof- Ut pote cùın ſingulariter omnia nominativa & ſit, quodarti Gramınaticæ deputatum effe co vocativa habeant genitivum ini & s, agant da gnoſcit. tivum in i littera: ablativum in e vel i definiant, Nomen da Sed quia continentia magis artis Grammaticæ adjectáque m accuſativum definiant impleánt verbum tant dicta eft, curaviinus aliqua denominis verbique que: pluraliter verò dativum ablativúmque in partes adje regulis pro parte ſubjicere, quas rectè tantùm bus fyllaba finiunt. muis Ariſtote. Ariſtoteles orationis partes adferuit. Nam de cæteris, quibus diſident Veteres, qui dam atrocum & ferocum, qua ratione omnium x DE NOMINIBUS. littera finitorun una ſpecies videbitur. Huic x litreræ omnes vocales præferuntur; ut capax, fru Nominis partes ſunt. tex, pernix, atrox, redux. Ex iis nominibus quædam in nominativo producuntur, quædain Qualitas, mocomm. corripiuntur: quædam conſentiunt in noininati Comparatio, ouynpisisa vo, in obliquis diſſentiunr. Pax enim, & rapax, Genus, 2005. item rex & pumex, item nux & lux, etiam pri Numerus, água uo'so mam poſitionem variant ad nix & nutrix. Item Figura, oxaudio nox & atrox ſic in prima politioneconſentiunt, Caſus, T @ SIS. urdiſcrepentper obliquos. Et illud animadvertendum eſt, quædam ex iis x Pronominis partes: litteram in g, quædam in c per declinationes compellere. Lex enimlegis, grex gregis facit, Qualitas ut pix picis, nux nucis. Nain in his quæ non ſunt Genus. monoſyllaba, nunquam non x littera genitivo i Numerus. c convertitur; ut frutex fruticis, ferox ferocis. Figura. Supellex autem, & ſenex, & nix, privilegio quo Perſona. dam contra rationem declinantur: quoniam ſu Caſus. pellex duabus ſyllabis creſcit, quod vetat ratio; & fenex ut in nominativo itein genitivo diffyllabus G Ræca nomina, quæ apud nos in us; ut, manet, cùm omnia x litterâ terminata creſcant. vulgus, pelagus, virus,Lucretiusviri dicit; Et nix nec in cconvertitur, ut pix: nec in gut quamquam rectiùs inflexum maneat. Secundæ rex: ſed in u conſonans, in vocalem tranſire non ſpecies funt, quæ per obliquos caſus creſcunt, & poſſit. genitivo ſingulari in is litteras exeunt; ut, genus, In plurali autem genitivo, ablativus ſingularis nemus: ex quibus quædam uine mutant; ut olus formas vertit. Nam in a auto terminatus, in rum oleris, ulcus ulceris: quædam in o, ut nemus exit; e correpta in um:producta, in rum: iter neinoris, pecus pecoris. In dubitationem ve- minatus in uin. Dativus & ablativus pluralis a. niunt fænus & ftercus in e, an in o inutent: in is exeunt & in bus. Quæ præcepra in ſcholis quoniam quæ in nusſyllabam finiunt, u in e mu- ſunt tritiora: ſed quotiens in is exeunt, longa tant; ut, vulnus, ſcelus, funus, & funeratos fyllaba terminantur: quotiesin bus, brevi. De dicimus. Fænusenim exemplo non debet noce- curlis nominum regulis, æquuin eſt confequenter re, cùin inter dubia genera ponatur. Item vete- adjicere canones verborum primæ conjugatio res ſtercoratos agros dicebant, non ſterceratos. nis. In S littera finita nomina, præcurrentibus n vel r, omnia ſunt uniusgeneris: nili quæ ante ſe t habent, interdun d recipiunt, ut ſocors ſocor DE De Grammatica. 561: Tempus zeovc. DE V ER BIS. ſyllaba, manente productione terminantur; ut Commeo, commea, commeavi: Lanio, lania, Partes verbi funt. laniavi: Satio, fatia, fatiavi. Eodem modo, codem tempore, fpecie inchoativa,adjectâ ad im Qualitas, perativum modum in bam fyllaba terininantur; Conjugatio. ut cominea commeabain, lania laniabam, æſtua Genus. æſtuabain. Prima conjugatione, codem modo, Numerus. eodem tempore, ſpecie recordativa, adjectis ad Figura. imperativum modum veram ſyllabis, terminan Tempus. tur partes: ut Commea commeaveram, lania, la Perfona. 'niaveram, æſtua æſtuaveram. Priina conjuga tione, codem modo, tempore futuro, adjecta Qualitas Verbi. ad imperatiuum modun bo fyllaba, terminan rur; ut Cominea commeabo, lania laniabo, æſtua Modi, # ſtuabo. Indicativi, ogesich. Quæveròindicativo modò, tempore præſen Imperativi, προσακτική. tì, ad primam perfonam in o littera, nulla alia Opeativi, ευκτική. præcedente vocali terminantur, ea indicativo Conjunctivi, útotaxix. modo, tempore præterito, ſpecie abſoluta 80 Infinitivi, atrapéu pet exacta, quatuor modis proferuntur. Et eſt primus, qui lunilem regulam his babet. Genus Verbre Qui indicativo modo, tempore præſenti, prima perſona penultiinam vocalem habet: ut Amo, Adiva, švępyutix.. ama, amavi, amabam, amaveram, amabo, Pafliva, mee.Jotus amare, Communia, rond. Secundus eft, qui o ini convertit ultimam in præterito perfecto,penultimam in pluſquàm per fecto e corripit; ut Adjuvo, adjuvi, adjuveram. Tertius, qui fimilem quidem regulaın habet Præſens, évesa's. primi modi, ſed detracta a littera deliungit; ut Præteritum; ta zenauges Seco, ſecavi, ſecaveram, ſecabo, ſecare. Facit Futurun, uitwr. enim ſpecie abſoluta ſecui, & exacta ſecueram. Imperfcerum, megatinad's. Quartus eſt, qui per geininationein fyllabae Perfectum, Tee XÉCU. profertur; ut Sto, ſtá, kteci, fteterain, itabo Pluſquain perfectam, impon TEARO'S. ftare. Huic ſimile Do, da, dedi, dabáin, dede Infinitum; mogises. ram, dabo, dare, correpta littera a contra re-, gulain, in eo quod eſt, dabam, dabo, dare. Proferuntur fecunda conjugationis verba, dente vocali terminantur, vel præcante quæ indicativo modo, teinpore præſenti, perſo vocali qualibet, formas habet quatuor. na prima, in eo litteris terminantur; ut Video, Secundæ conjugationis correpræ verba verba,, for- vides vides; monco monc mones. Secundæ conjugatio mas habent viginti. Sic quæcumque verba indi- nis verba, indicativomodo, teinpore præſenti, cativo modo, tempore præfenti, perſona primà, ad ſecundanı perſonam iu e littera producta,ter in o littera terminantur, forinas habentſex,quæ ininantur; ut Video, vide; moneo, mone. Se voces forınas habent duas. Quæ nulla præceden- cundæ conjugationis verba, infinito inodo, ad te vocali in o littera terminantur, formas habent je & ta ad imperativum modum re fyllaba, manen duodecim. te productione terminantur; ut Vide, videre; Tertiæ conjugationis productæ verba, qua mone, monere. Secundæ conjugationis verba, indicativo modo, tempore præſenti, perſona indicativo modo, tempore præterito, {pecie ab prima in o littera terminantur, formas habent ſoluta & exacta, ſeptem modis declinantur; & quinque. Quæcumque autem verba cujuſcum- eft primus, qui forinain regulæ oſtendit.Nam for que conjugationis indicativo modo, temporė mahæc eſt;cùm fecundæ conjugationis verbum, præſenti, perfona prima, vel nulla præc dente indicativomodo,temporepræterito quidem per vocali, vel qualibet alia præcedente, in o littera fecto, adjecta ad iinpecalivun modum vi fyllaba, *terminantur, corum declinatio hoc numero for- manente produđione. marum continetur. De quibus fingulis dicam. Primæ conjugationis verba indicativo modo, tempore præſenti, perſona prima, aut in o litte: ra nulla alia præcedente vocali terminantur, ut De Arte Rhetorica., Canto io ut lanio,,. Rrium aliæ ſuntpofitæ in Artes in tres Primæ conjugationis verba iinperativo modo, temporepræſenti ad ſecundam perſonain in a lit- lis eſt Aſtrologia: nullum exigens actum, ſed ipſo duntur. tera producta terminantur;ut amo, ama: canto, rei, cujus ſtudium habet, intellectu contenta, canta: infinito modo ad imperatiuum modum, quæ Geargintzün vocatur. Alia in agendo, cujus in in re fyllaba,manente productione terminantur; hoc finis eſt, ut ipſo actu perficiatur, nihilque ut aina, amare: canta, cantare. Item prima con- poſt actum operisrelinquat, quæ peakmix dici jugatio, quæindicativo modo, tempore præte- tur, qualis ſaltatio eſt.Alia in effectu,quæ operis, rito, ſpecie abſoluta, adjectâ ad imperatiuun yi quod oculis fubiicitur confummatione, finein Bbbb V. ib, uclanio,fatio:autuo,uræſtuo,continuo A evognizione peltimatione rerum,quas partes divina 562 Caffiodorus ea 1 tor. Etanda, accipiunt, quam nontoxù appellamus, qualis eſt cauſam, locum, tempus, inftramentum, occa pictura. fionemnarratione delibabiinus. Multæ ſæpe in Orationis duo Duo funt Genera orationis: altera pespetua, una cauſa ſunt narrationes. Non femper co ordi fuigenera. quæ Rhetorica dicitur: alteraconciſa, quæ Dia- ne narrandum, quo res geſta eſt. Enthumous fit tectica; quas quidem Zeno adeo conjunxit, ut ad augmentum vel invidiæ, vel miſerationis, vel hanc compreſlæ in pugnum manus, illam expli- in adverfis. Initium narrationis à perſona fier, & catæ fimilean dixerit. ſi noſtra elt, ornetur: fi aliena, infametur. Et Initiam di Initia dicendidedit natura: initium artis ob- hæc cum ſuis accidentibus ponitur. Finis narra cendi dedit fervatio. Homines enim ficur in Medicina, cum tionis fit, cùın eò perducitur expofitio, unde natura,ini- viderent alia falubrià, alia inſalubria ex obſerva- quæſtio oriatur. sium artis ob. tione eoruin effccerunt arrein. feruatio. Facultas orandi confunmatur naturâ, arte, De Egreſionibus Pacultas orandi tribus exercitatione; cui partein quartam adjiciunt qui cofummatur. dam imitationem, quam nosarti ſubjicimus. Egreſſus eſt, vel egrelfio, hoc eſt, méx6a95, Tria debet Tria funt quæ præltare debet Orator; ut do- cum intermiffà parum re propofitâ, quiddain in præftare Ora- ceat, moveat, delecter. Hæc enim clarior divi- terſeritur delectationis utilitatiſve gratiâ. Sed fio eft, quàm eorum qui totum opus:in res, & ir hæ ſunt plures, quiæ pertotam cauſam varios ex affectus partiuntur, curſus habent; ut laus hoininum locorumque; Invadendo In fuadendo ac diſſuadendo rrja primùm fpe- ut defcriptio regionum, expoſitio quarundam fodiſficaden- ctanda ſunt; quid ſit de quo deliberetur: qui lint rerum geſtarum, vel etiam fabulofarum. do triape- qui deliberent: quis ſit quifuadeat rem, dequa Sed indignatio, miſeratio, invidia, convi elintpar. deliberatur.Omnisdeliberatio de dubiis fit. Par- tium, excuſario, conciliatio, maledictorum re "tes fuadendi. tes ſuadendi ſunt honeftum, utile, neceſſarium. futatio, & fimilia:omnis amplificatio, minutio, Quidam, ut Quintilianus, furetor; hoc eſt,pofli- omnis affectus, genusdeluxuria, de avaritia, re bile, approbat. ligione, officiis cuin ſuis argumentis ſubjecta ſi milium rerum, quia cohærent, egredi non viden Ware Procemiam à Græcis dicitur. tur. Areopagitæ damnaverunt puerum, corni cum oculos eruentem; qui putantur nihil aliud Clarè partem hanc ante ingreffum rei, de qua judicaffe, quàm id lignum effe pernicioſiflima diccndum fit,oftendunt.Nain livepropterea quod mentis, multiſque malo futuræ li adoleviſſet. brun cantus elt, & Citharædi pauca illa, quæ an tequam legitimum certamen inchoent, emerendi De Credibilibus favoris gratia canunt, Proæmium cognomina runt. Oratores quoque ea, quæ priuſquam cau Credibilium tria funt genera: ünum Grmiſti- Tria ſunt ore. fain exordiantur, ad conciliandos libi judicun muni, quia ferè ſemper accidit; ut, liberos à pa aninospræloquuntur, Procinii appellationc fi- rentibus amari. gnarunt. Sive quod 40 Græci viam appellant Alterum velut propenſius, eum qui rectè va id, quod ante ingrekun reiponitur, fic vocari leat, in craſtinum perventurum. Dikfit Proa- eft inſtituruin. Caufa Proæmii hæc eſt, ut audiro Tertium tantum non repugnans; ab eo in dong mii carla. rem, quò fit nobis in cæteris partibusaccommo- furtum factum, qui domui fuit. datior, præparemus. Id fit tribus modis, li be nevolum, atrencum, docilemque feceris; & in Argumenta unde ducantur. reliquis partibus haud minus, præcipuè tamen in initiis neceſſe eſt animos judicum præparare. Ducuntur argumenta à perſonis, cauſis, tem pore; cujus tres partes ſunt, præcedens, conjun Quid differt Proæmium ab Epilogo. ctum, inſequens. Si agimus, noſtra confirmana da ſunt priùs; tum ea, quæ noftris opponuntur, Quidam putarunt quòd inPræmio præterita, refutanda. Si reſpondemus; ſæpiùs incipiendum in Epilogo fucura dicantur. Quintilianus autem à refutatione. Locuples & fpeciofa &imperio co quod in ingreffu parciùs & modeſtiùs præten- ſa vult eſſe Eloquentia. tanda ſit judicis miſericordia: in Epilogo verò licear toros effundere affectus, & ficam oratio De Concluſione nem induere perſonis, & defunctos excitare, & pignora reorum perducere, quæ minus in Concluſio,quæ peroratio dicitur, duplicem has concluſodomen proæmiis ſunt uſitata. bet rationem; ponitur enim autin rebus, aut in plicem habet affectibus rerum, repetitio & congregatio, que rationem. De Narratione. Græcè ávax!IO HAURIS dicitur, à quibufdam La tinorum renumeratio dicitur, & memoriam au Narratio aut torà pro nobis eſt, aut cora pro ditoris reficit, & totam ſimul cauſam ponit an adverſariis, aut mixta ex utriſque. Si erit tota te oculos; ut etiam ſi per ſingulos minus vale pro nobis, contenti ſimus his tribus partibus, bant, turbâ moveantur: ita tamen ut breviret uc judex intelligat, meminerit, credat, nec quic eorum capita curlimque tangantur. Sed tunc fita quan reprehenſione dignum pPomba. ubi inultæ caufæ, vel quæſtionesinferuntur; nam Notandum, ut quoties exitus rei ſatis oſtendit fi brevis & fimplex eſt, noneft neceffaria. priora, debemus hoc eſſe contenti, quò reliqua intelliguntur; fatius eſt narrationi aliquot fuper De Affectibus: eſſe, quàm deeffe; nain ſupervacua cum rædio dicuntur: neceſſaria cum periculo ſubtrahuntur. Affectuum duæ funt ſpecies, quas Græci '90s affectuur Quæ probacione tractaturi ſumus, perſonain, aj mrásos vocant, hoc eit, quafimores & affe- dua ſung species, dibilium gito nera. 1 1 De Rhetoricà. 563 Te. ventio. tio. tio. 114. us concitatos } & Teses quidem affectus con- & quæſtionem.Cauſa eft res,quæ habet in ſe con citatos: " Jos veròmites atque compofiros; in il- troverſiam in dicendo politam, perſonarum cer lis vehementesmotus, in his lenes: & resos qui- tarum interpoſitione: quæſtio autem,eft res, quæ demimperat, its perſuadet; hi ad perturbatio- habet in ſe controverſiam in dicendo polítam, nem, illi ad benevolentiam prævalent. Et eſt line certarum perfonarum interpofitione. Frágos temporale, ndos verò perpetuum; utra que ex eadem natura: fed illud majus, hoc minus, ut amor esos, charitas » Sus; tados con citat, isos fedat. Partes Rhetoricæ funt quinque. In adverſos plus valet invidia,quàm convitium: quia invidia adverſarios, convitiuin nos inviſos Inventio. facit. Nam ſunt quædam, quæfi ab imprudenti Diſpoſitio. bus excidant, ſtulta ſant; cum ſimulamus, venuſta Elocurio Orator vitio creduntur. Bonus altercator vitio iracundiæ ca Meinoria, iracundiæ ca- reat; nullus enim rationi magis obftat affectus, & Pronuntiatio. reat; & qua- fertextra cauſamplerumque, & defornia convi tia facere ac mereri cogit, & nonnunquam in ipſos Inventio eft ex cogitatio rerum verarum aut ve. Quid fitta judices incitatur; quoniam ſententiæ, verba, fi- riſinilium,quæ cauſam probabilem reddunt. guræ, coloreſque funt occultiores quæſtiones in Difpofitio eft rerum inventarun in ordinem Quid Diſposa genio, cura, exercitatione. pulchra diftributio. Conjectura omnis, aut de re eſt, autde animo. Elocutio eft idoneoruin verborum ad inventio Onid Eloc14 Utriuſque tria teinpora ſunt, præteritum, pre- nein accommodata perceptio. ſens, &futuruin. De re & generales quæſtiones Memoria eſt firma aniini rerum ac verborum funt, & definitæ; id eft, & quæ non continentur, ad inventionem perceptio. Quid Memo perſonis, & quæ continentúr. De animo quæri Pronuntiatio eſt ex rerun & verborum dignita non poteſt, niſi ubi perſona eſt; & de facto, cùm te, vocis &corporis decora moderatio. Quid Proing nuntiatio. de re agitur, aut quid factum ſit in dubium venit, aut quid fiat, aut quid futurum ſit, & reliqua fi De Generibus caufarum. unilia, De Amphibologia. Genera cauſarum Rhetoricæ ſunt tria princi- General Cares palia. Demonſtrativum, Deliberativum, Judi- Jarum Rheto Innsetabia Amphibologiæ ſpecies ſunt innumerabiles, ciale: Ticefunttrica les lient Am. adeò ut Philofophi quidam putent nullum effé Demonſtrativum & In laude phibologia verbum, quod non plura ſignificet genera, aut oftentativum species admodum pauca; aut enim vocibus fingulis ac- Eyxaurasino's In vituperatione cidiper ópw rupaar aut conjunctis per ainbiguani Emdeuxtixò, conſtructionem, Quando fiat Vitiofa oratio fit, cùm inter duo nominamè- Deliberativum & ſua In ſuaſione. vitioſa oratio dium verbum ponitur. forium dicitur De oppofitio Oppoſitiones & fi contrariæ non ſint, ſed dif- EupBBAEUTIKON In diſſualione niben. fimiles: verumtamen li fuain figuram ſeryant, ſuntnihilomimus antitheta.. r In accuſatione, & de Naturalis quæitio eſt, quæ eſt temporalis;fic Judiciale fenſione cut cúm que ſunt per ordines temporum acta, acercón marrantur. Nunc ad artis Rhetoricæ diviſiones În præmii penſione, & definitionofque veniamus; quæ ficut extenſa at negatione que copiofa cft; ita à multis &claris ſcriptoribus tractata dilatatur, Demonſtrativum genus eſt, cùm aliquid de- Quid fit De monſtramus, in quo eſt laus & vituperatio,hoc monftrativi Onidfit Rhetorica eſt, quando per hujuſinodidefcriptionem oſten- genus. dituraliquis, atque cognoſcirur; ut pſalınús 28. Rhetorica Rhetorica dicitur à copia deductæ locutio-. & alia vel loca vel pſalmi plurimi,ut:Domine unde dicta. 'nis influere. Ars autein Rhetorica elt, fi- in calo miſericordia tua, &uſque adnubesveria cur magiſtri tradunt fæculariuin Litterarum, tas tua. Iuſtitia tua ficutmontesDei, & reliqua. bene dicendi ſcientia in civilibus quæſtionibus. Deliberativum genus elt, in quo eſt ſualio de. Quid Delią Quid fit Ora Orator igitur eſt vir bonus, dicendi peritus, ut diſſualio, hoc eft quid appetere, quid fugere, berativos. zor, ju offi- dictum eſt in civilibus quæſtionibus. Oratoris quiddocere, quid prohibere debeamus, citum,erfinis. autem officium eſt, appolitè dicere ad perſuaden Judiciale genus elt, in quo eſtaccuſatio & de Quid Fudia ciale. dum. Finis, perſuadere dictione, quatenus rex fenſio, vel præmii penſio & negatio. ruin & perſonarum conditio videtur admittere in civilibus quæſtionibus: unde nunc aliqua bre De Statibus. viter aſſumemus, ut nonnullis partibus indicatis, penè totiusartis ipſius ſumınam virtutemque in Status Græcè ça'os. Status cauſarum ſunt año Status caufae telligere debeamus. rationales, aut legales. Status verò dicitur ea bacionales, rum åut ſuns Civiles quæſtiones ſunt ſecundum Fortuna viles quaftio- tianum Artigraphum novelluin, quæ in com; a Hæ funt quæſtiones an huic, an cumhoc, an học Quid fit firas ant legales, nes, & quo modo divi munem animi conceptionem poffunt cadere; id seinpore, an hac lege,an apud ipſum. Quidquidpræter van duntur. iſtas quinque partes in oratione dicitur; egreſſio eſt. eſt, quâ unuſquiſque poteftintelligere, cùm de Hæc nagex aois, quoniam à reco dicendi itinere defc. æquo quæritur & bono. Dividuntur in cauſam,: &itur quælibet inſerendo. Bbbb ij Quid fine ci 564 Caffiodorus Quidfit con Um. res, in qua cauſa conſiſtit. Fit autem ex intentio ne & depulfione, vel conftitutione. ab alio objicitur, ab adverſario pernegatur, Statum alii vocant conftitutionem, alii qua 2. Finitivus ſtatus cſt, cùm id quod objicitur, jocuralis fia. {tionen, alii quod ex quæſtione appareat. non hoc efle contendimus: fed quid illud lit, ad hibitis definitionibus approbamus. Quid fam.si Status rationales ſecun Conje & ura. 3. Qualitas eft, cùm qualis res lit, quæritur; dum generales quæſtio Finis. & quia de vi & genere negotii controverſia elt, nes ſunt quatuor. Qualitas. conſtitutio generalis vocatur. Tranſlatio. 1. Conjecturalis ſtatus eft, cùın factum, quod Imprudentia (Purgatio Caſus. Concellio Juridicialis Abſoluta Aut caufæ, Nixologian Remotio Aur facti. 3 criminis Negotialis aitam Cui juftè in aliocom generalis Relatio mittitur, quia & ifle in GegyueTiku priva criminis te fæpius commifin Αντίγκλημα.. Deprecatio Neceflitas. Qualitas Comparatio Squando melius id Αντίστασης. factum peragitur. 1 ſunt quinque ! с 12. 1 1 in Pſal. paz. ratio, Juridicialis eft, in qua æqui &re &ti natura, Questas Ju. ſ Scriptum& voluntas. riuscialis præmii & pænæ ratio quæritur. Porov ij dienoido Quid Nego Negotialis eſt, in qua, quid juris ex civili mo Sätus Legales Leges contrariæ, tizivs. re & æquitate lit, confideratur. Ambiguitas. Αμφιβολία. Quid Abfo luta. Abſoluta eft, quæ ipfo in ſe continet juris & Collectio, live Raciocinatio. injuriæ quæſtionem. Συλλογισμός purua Raid Allium. 'Affumptiva eſt, quæ ipfa exſe nihil dat firmi, Definitio Legalisa. aut recuſationem foris, aut aliquid defenfionis aſſumit. Scriptum & voluntas eſt, quando verba ipſa quid.fcripti Quid con Conceſſio eſt, cum reus non id quod factum eſt, videntur cum ſententia ſcriptoris dillidere. & voluniss. defendit: fed, ut ignofcatur, poftulat; quod nos Legis contrariæ ſtatus eſt, quando inter fe duz Quid legis Comment. ad pænitentes* probavimus pertinere. leges, aut pluresdiſcrepare videntur. contrarieta Remotio criminis eft, cùm id crimen quod in Ambiguitas eſt, cùm id quod fcriptum eſt, tus, 169.1.09103. ferrur ab fe &ab ſua culpa, vi & poteftate in duas auc plures res ſignificare videtur. Quid Ambi aligin reus dimovere conatur. guitas. Collectio Quid Remo, quæ & Ratiocinatio nuncupatur, Quid Colle tio criminis. Relatio criminis eſt, cùm ideo jure factum di- eſt quando ex eo quod fcriptum eſt, invenitur, ft:0. Quid Relatio citur, quod aliquis ante injuriam laceſſierit., Definitio legalis eſt, cum vis verbi quaſi de criminis. erid Defini Comparatio eft, cùm aliud aliquod alterius finitivâ conſtitutione, in qua pofita fit, quz- tio legalis. Quil Compa. factum honeſtum aut utile contenditur, quod, ricur. ut fieret illud quod arguitur, dicitur eſſe com Status ergo tam rationales quam legales à Statusà qui iniffum. quibuſdam decein & octo connumerati ſunt. bullam 18. 2 Quid Purga Purgatio cft, cùm factum quidem conceditur, Cæterum ſecundum Rhetoricos Tullii decem & Tullio verò bes partenha- fedculparemovetur. Hæc partes habertres,Im- novem inveniuntur, propterea qudd Tranſlatio- 19.numeran prudentiam, caſum, neceſſitatem. Impruden- nem interRationales principaliter adfixit ftatus. tia eft, cùin fciſfe fe aliquid is qui arguitur,negat. Unde feipfum eciam Cicero (ſicut ſuperiùs di Caſus eſt, cum demonſtratur aliquam fortune &tum eſt ) reprehendens, Tranſlationem Legalia vim obſtitiffe voluntati. Neceſſitas eſt, cùm vi bus ftatibus applicavit. quadam reus id quod fecerit, feciſſe ſe dixerit. Quid ft De precatio. Deprecatio eſt, cùm & peccaffe, & conſultò De Controverfia. peccaſſe reus conficetur; & tamen, ut ignoſca Quid Trans- tur,poftulat.Quodgenus perraro poteft accidere. Omnis controverſia, ſicut ait Cicero, aut fim- Controverfis ex Cicerone lario. 4. Tranſlatio dicitur, cùm caufa ex eo pendet, plex eſt, aut juncta, aut ex comparatione. triplex eft. cùm non aut is agere videtur, quem oportet: aut Simplex eſt, quæabſolutam continet unam Quid fit com non cum eo, quioportet: aut non apud quos, quo quæſtionem, hoc modo: Corinthiis bellum indi- jeftura fim tempore, qua lege, quo crimine, qua pæna cenus, án non. plex. oporteat. Tranſlationi adjicitur Conſtitutio, Juncta, eſt ex pluribus quæſtionibus, in quòd actio tranſlationis &commutationis indi- plura quæruntur hocpacto:Carthagodiruatur: Quid juncts. an Carthaginienſibus reddatur, an eocolonia de Ubi adverſariis omnia conceduntur, & per colas ducatur. lacrymas lupplices defenditur reus. Ex comparatione, utrum potius, an quod po- Quid ex com paratione, a Et ſi juncta erit conſiderandum erit, utrum ex plu ribus quæftionibus juncta fit, an ex aliqua cóparatione. tur. H: gere videtur. 1 De Rhethorica. 565 > Exorarum. rario, t11.0. tiſſimum quæritur ad hunc modum: utrum exer Exordium, eft oratio animum auditoris ido Quit fis cituscontra Philippum in Macedoniam mittatur, neè comparans ad reliquam dictionem. qui ſociis fit auxilio: an teneatur in Italia; ut Narratio, eft reruin geftarum, aut at geſta- Quid Nar quàmmaximæ contra Annibalem copiæ fint. rum expoſitio. Partitio eft, quæ fi re &tè habita fuerit, illu- Quid Per, ftrem &perfpicaam roram efficit orationem. Confirmatio eft, per quam argumentando no- Qrid Confir Genera cauſarumfunt quinque. ftræ caufæ fidem, & authoritatem, & firinamen- mario. tum adjungit oratio. Honeſtum. Reprehenfio eft per quam argumentando ad- Quid Repre Admirabile. verſariorum confirmatio diluitur, aut elevarur. henfio. Humile. Concluſio eſt exitus & determinatio totius exid con Anceps. orationis, ubi interdum & Epilogorum allegatio cnfio. Obſcurum. flebilis adhibetur. Hæc licer Cicero Latinæ eloquentiæ Lumen Duos libros Quid honefti Honeſtum caufæ genus eft, cui ſtatim fine ora- eximium, per varia volumina copiosè ninis & de Rethorica cauſæ genus. tione noftra favet auditoris aniinus. Admirabile diligenter effuderit, & in arte Rhetorica duobus compoſuit ci Admirabile, à quo quod eft pre eft alienatus animus eorum, libris videatur amplexus; quorumCoinmenta à cero, quosM. Victorinus ter opinio- qui audituri ſunt. Mario Victorino compoſita, in Bibliotheca mea commentatus num hominü Humile eft, quod negligitur ab auditore ', & vobis reliquiffecognoſcor. eft. conftitutum. nonmagnopere attendendum videtur. Quintilianus etiain Doctor egregius, qui poſt Quintiliansis Quid Admi. rabile. Anceps in quo aut judicatio dubia eft, aut Auvios Tullianos fingulariter valuit implere quæ Doctor egre Quid Humile cauſa &honeſtatis & turpitudinis particeps, ut docuit, virum bonum dicendi peritum à priinâ gius in Rhe. Qivid Anceps benevolentiam pariật, &offenfionem. ætate fuſcipiens, per cunctas artes, ac diſcipli- sorica doceka Puid'obfcs Obſcurum, in quo aut tardi auditores funt,aut nas nobiliuin litterarum erudiendum eſſe mon difficilioribus ad cognoſcendum negotiis cauſam ftravit. Libros autein duos Ciceronis, de arte implicata eft. Rhetorica, & Quintiliani duodeciin inſtitutio num ! judicavimus eſſe jungendos; ut nec codi cis'excrefceret magnitudo, & utrique duin ne ceffarii fuerint, parati feinper occurrant. Partes orationis Rhetoricæ funt fex. Fortunatianum verò Doctorem novellum, Fortunatik. qui tribusvoluninibus de hac re ſubtiliter minu- nustria ro Exordium. tèque tractavit; in pugillari codice Rhetorica Narratio. congruenterquc redegimus; ut &faſtidiuin lecto confecis. Partitio. ri tollat, &quæ ſuntneceffaria competenter in Confirmatio. ' finuet. Hunc legat qui brevitatis amator eft, Reprehenfio. nam cum opus ſuum in multos libros non teten Concluſio, five derit: plurima tamen acutiffimâ ratiocinatione Peroratio. diſſeruit.Quos codices cum præfatione ſua in uno corpore reperietis eſſe collectos. da. tim lumina de aptè lorfitan, Rhetorica Argumentatio fit. Illatio quæ r Propoſitio | Aut per Inductio- ! nem cujusmembra &Affumptio funt hæc. dicitur. | Concluſio ina tayo Rhetorica Argu mentatio tracta tur. rEvdúcemus.Talo PEYSúumps, eſt commentum, Convincibili. vel commentio ', hoc eſt | Oſtentabili. mentis conceptio. 3 Sententiabili. Exemplabili. Txer Suunne, qui eft imper- iCollectitio. fectus fyllogylinus, atque Rethoricus, ficut Fortuna tianus dicit, in generibus i explicatur. azódseçu eſt cer ta quædam argu menti concluſio vel ex confe quentibus, vel repugnantibus. Aut perRatiocina tionem de Argu mentis, in quo no mine complectun Atodict. tur, quæ Græci di cunt. Emxelamud too s Emreignus, eft fententia cum fatione, Latinè dicitur Exe čutio, vel Approbatio, vel Argumentum 11.apemrbiem uc verò, qui eſt Aut Tripertitus. Rhetoricus & latior fyllogyf: 3 AutQuadripercitus. Aut quinquepertitus. | mus eft. 566 Caffiodorus Unde Argu titus. ductio. Mem2. cit. mêtatiodista. Argumentatio dicta eſt quaſi argutæ mentis rici ſyllogiſmi, latitudinediſtanz& productione oratio. fermonis à dialecticis fyllogiſmis, propter quod Quidfit Ar Argumentatio eſt enim oratio ipſa, qua inven- Rhetoribus datur. gumentatio. tum probabiliter exequimur argumentum. Tripertitus, epichirematicus fyllogiſmus eſt; Quid Triper Quid fit In Inductio eft oratio,qua rebusnon dubiis capra- qui conſtat inembris tribus: id eft, propoſitione, mus aſſenſionein ejus, cum quo inſtituta eſt,live aſſumptione, concluſione. inter Philofophos, ſive interRhetores, five inter Quadripertitus eſt, qui conſtatmembris qua- Quid Quz Seriocinantes. tuor: propoſitione, affumptione, & una propo- dripernicus. Quid Probo Propoſitio inductionis eſt,quæ fimilitudines fitionis live afſuinptionis conjuncta probatione, fitio. concedendæ rei unius inducit, aut plurimaruin. & conclufione. Quid illatio. Illatioinductioniseft, quæ & affumptio dicitur, Quinquepertitus eſt,qui conſtat membris quin- Que de Marine quæ rem dequa contenditur, & cujus cauſa ſimi- que:id eft,propoſitione,& probatione, aſſum- quepertiim, litudines adhibitæ ſunt introducit. ptione, & ejus probatione, & concluſione. Quid con Concluſio inductionis eſt, quæ aut conceſſio. Hunc Cicero ita facit in arte Rhetorica: Si de clulo. nem illationis confirmat, aut quid ex ea confi- liberatio & deinonſtratio genera ſunt cauſarum, ciatur, oftendit. non poffunt rectè partes alicujus generis cauſa Qwid Ratio Ratiocinatio eft oratio, quâid de quo eft quæ- putari. Eadem enim res, alii genus, alii pars effc cinatio. ítio comprobamus. poteft: idem genus, & pars effe non poteſt, vel Quid Enthy Enthymema igitur eſt, quod Latinè interpreta- cætera; quoufque fyllogiſini hujus meinbra clau cur mentis conceptio, quam imperfectum fyllo- dantur. Sed videro quantum in aliis partibus giſmum ſolent Artigraphi nuncupare. Nam in lecter ſuum exercere poſſit ingenium. duabus partibus hæc argumentiforma conſiſtit: Memoratus aurein Fortunatianus in tertio libro quando id quod ad fidein pertinet faciendam, meminit de oratoris memoria, de pronuntiatio utitur fyllogiſmorum lege præterita; ut eſt illud: ne, & voce, unde tainen Monachus cum aliqua Si tempeſtas vitanda eſt, non eft igitur navigan- utilitate diſcedit: quando ad ſuas partes non im dum. Exſola enim propoſitione & conclufione probè videtur attrahere, quod illi ad exercendas conítat effe perfectum: unde magis oratoribus, controverſias utiliter aptaverunt. Memoriam { i quàm dialecticis convenire judicatum eſt. De quidem lectionis divinæ re cognita cautela ſerva dialecticis autem ſyllogiſinisſuo loco dicemus. bit, cùm in ſupradicto libro ejus vim qualitatém Quid con Convincibile eft,quod evidenti ratione * con- que cognoverit: artem verò pronuntiationis in *AIS.convin.vincitur;ſicut fecit Cicero pro Milone. Ejusigi- divinæ legis effatione concipiet. Vocis autem di tur mortis ſedetis ultores, cujus vitain, li * pPombais ligentiam in pſalmodiæ decantatione cuſtodiet. * Ed. poſetis. per vosreſtitui poſſe, noletis. Sic inſtructus in opere ſancto redditur, quamvis Quid Ofien Oſtentabile eft, quod certa reidemonſtratione libris ſæcularibus occupetur. rabile. conſtringit; ſic Cicero in Catilinam: Hic ramen Nunc ad Logicam, quæ & Dialectica dicitur, vivit, imò etiam in Senatuin venit. ſequenti ordine veniamus, quam quidam diſci Quid Senten tiabile. Sententiale eft, quod ſententia generalis addi- plinain, quidam artem appellare maluerunt, di cit; ut apud Terentiun: Obſequium amicos,ve centes: quando apodicticis,id eſt, probabili ritas odium parit. bus diſputationibus aliquid diſſerit, diſciplina Quid Exem plabile. Exemplabile elt, quod alicujus exempli com- debeat nuncupari: quando verò aliquid verilimi M. G. ini. paratione eventum fimilem comminatur; ſicut le tractat, ut ſunt ſyllogiſini ſophiſtici, nomen Cicero in Philippicisdicit:Temiror,Antoni,quo- artis accipiat. Ita utrumque vocabulum pro ar *M.G. per- rum facta * imitere, eoruin exitus, non * per- gumentionis ſuæ qualitate promeretur. timefcere, horrefcere. Quid Colle Collectivum eſt, cùm in unum, quæ argumentata funt, colliguntur; ſicut ait Cicero pro Milo ne: Quem igitur cum gratia noluit, hunc voluit De Dialectica cuin aliquorum querela, quemjure, quem loco, quem temporemoneftaulus: hunc injuria,alie- DJalecticam primiPhiloſophi indi&ionum no cum periculo non dubitavit occidere. runt: non tamch ad artis redegereperitiam. Poſt Ed. deftris Præterea ſecundum Victorinum Enthymematis quos Ariſtoteles, ut fuit * diſciplinarum omniun altera eft definitio. Ex fola propoſitione,ſicutjam diligens inquiſitor, ad regulas quaſdam hujus Ariffoseler dictum eſt, ita conſtat Enthymema; ut eft illud: doctrinæ argumenta perduxit, quæ priùs ſub cer- Dialectice Si tempeſtas vitanda eſt, non eſt navigatio requi- tis præceptionibus non fuerunt. Hic libros fa- argumenta ad regulas renda. Ex fola aſſumptione s ut eſt illud: Sunt ciens exquiſitos, Græcorum ſcholam multiplici quafdamper autem qui munduin dicantfine divina adminiſtra- laude decoravit; quem noftri non perferentes duris. tione diſcurrere. Ex folaconcluſione; ut eft il- diutiùs alienum, tranſlatum expofitúmque Ro Dialecticam lud: Vera eſt igitur divina * fententia. Ex pro- manæ eloquentiæ contulerunt. Dialecticam verò, *MS. fcick poſitione& affumptione; ut eft illud: Si inimicus &Rhetoricam Varro in nove;n diſciplinarú libris canin move eſt, occidit. Inimicus autem eſt: & quia illi deelt tali funilitudine definivit. Dialectica & Rhetori- libris Vaira.conclufio, Enthymnema vocatur. Sequitur Epi- ca eſt, quod in manu hominis pugnus adſtrictus, definivit. chirema. & palma diſtenſa: illa brevi oratione argumenta Quid Epic Epichirema eft, quod fuperiùs diximus, dels concludens, iſta facundiæ campos copioſo fer chirema. cendens de ratiocinatione latior excurfio Rheto- mone diſcurrens: illa verba contrahens, ifta di Itendens. & Argumentum eſt argutæ mentis indicia quod per indagationes probabiles,rei dubiæ perficitfidem,per Rhetoricaad illa,quæ nititurdocenda, facun- pomaleticom Dialectica fiquidem ad differendas res acutior: Que fic diffe excmpla confirmans; ut eft: Noliæinulari in malignan tibus: quoniam tanquain fænum, &c. dior. Illa ad ſcholas nonnumquam venit, iſta ju. & Rhetori saris. Zivim. n.19167. & Rhetoria 64m. De Dialectica.. son quenter. girer procedit in forum: illa requirit rariſſimos & noftræ diſpoſitionis curràtintentio. Conſue * MSS.fre- ftudiofos, hæc * frequentes populos. Sed priul- tudo iraque eft doctoribus philoſophiæ, ante quam de fyllogiſmisdicamus, ubi totius Diale- quam ad Iſagogen veniant exponendam, divis dicæ utilitas & virtusoſtenditur, oporter de ejus lionem philoſophiše paucis attingere:quam nos initiis, quaſi quibuſdam elementis, pauca diffe- quoque ſervantes; præſenti tempore non immer cere; ut ficut eſt à Majoribus diſtinctus ordo, ita ritò credimus intiinandain, Philofophiæ divifio. In Inſpectivam, TIXMT, hæc dividitur in In Naturalem. | Doctrinalem, hæc (In Arithmeticam dividitur Muficam. Geometricain. Divinain. Aftronomicain Diviſt thing Lofophiæ. Philoſophia divi ditur fecundum Ariftotelem. Moralem. | Sirir. Er Actualeta Ciſpenſativa, Φρακτικών PorxorowyXXV. hæc dividitur in Civilem. ίπολιτική » ACETA! oixorouexin. weg.Xti xh. νομοθεπκό., thesxor. Sewertexn.. φυσική. Definitiò Philos fophiæ. megatoxin. resnio intoxin. 23 Quid 1 3. Dirogoera oroimene Occs Kated to duratór ávöçóórw. plina quæ curſus cæleftium, fiderumque figuras homophine en Philoſophia eft divinaruin, humanarùmque re contemplatur omnes, &habitudines ftellaruni quotuplex. rum, inquantum homini poſſibile eſt, probabilis circa ſe; & circa terram, indagabili ratione per Ycientia: Aliter,Philoſophia eſt ars artiuni, & dif- currit. Actualis dicitur, quæ res propoſitas ope ciplina diſciplinarum.Rucſus, Philoſophia eſtme, rationibus ſuis explicare contendit. Moralis di ditatio mortis,quod magis convenit Chriſtianis, citur, per quam mos vivendihoneſtus appetitur; 2.Corint. 16. qui ſæculi ambitione calcata, converſatione dif- & inſtitura ad virtutem tendentia præparantur. ciplinabili, fimilitudine futuræ patriæ vivunt; Diſpenſativa dicitur, domeſticaruin reruin fa Philip. 3. 20. Sícut dicitApoftolus: In carne enim ambulantes, pienter ordo diſpoſitus. Civilis dicitur, per quàm non ſecundum carnem militamus; & alibi: Con- totius civitatis adminiſtrarur utilitas. Philoſo verſatio noftra in calis eft. Philofophia eſt affimi- phiæ diviſionibus definitionibúſque tractatis, in lari Deo ſecundum quod poflibile eft homini. quibus generaliter omnia continentur, nunc ad Inſpectiva dicitur,qua ſupergreſſi vilbilia de di- Porphyrii librum, qui Iſagoge inſcribitur, acce vinis aliquid & cæleſtibus contemplamur, eáque damus. mente foluinmodo contuernur, quantum corpo De Iſagoge Porphyrii. reum ſupergrediuntur aſpectum. Naturalis dici tur,ubiuniuſenjufque rei natura diſcutitur: quia de Genere. Dávc. nihilcontra'naturain generaturin vita: ſed unun | de Specie. tidos. quodque hisufibus deputatur, in quibus à Crea- llagoģe Por de Differentia. Depoeg tore productú eit: nifi fortè cum voluntate divina phyrii tractat de Proprio. ibor aliquod miraculuin proveniremonſtrerur.Doctii i de Accidente, συμβεβηκός. *MSS. figni- nalis dicitur ſcientia, quæ abſtractam * conſiderat ficar. quantitatem. Abſtracta eniin quantitas dicitur, Genus eft ad fpecies pertinens, quod de diffe- Quid fit Ge quam intellectu àmateria ſeparantes,vel ab aliis rentibus fpecie, in co quod quid ſit, prædicatur; nun accidentibus; ut eſt, par, impar: vel alia hujuſce ut animal. Per ſingulas enim fpecies, id eft, modi in ſola ratiocinatione rractainus. Divinalis hominis, equi, bovis, & cæterorun,genus anis dicitur, quando aụt ineffabilem naturam divi- mal prædicarur atque ſignificatur, nam, aut ſpirituales creaturas ex aliqua parte, Species eſt, quod de pluribus & differentibii's Quid fit Spo profundifſimâ qualitate differimus. Arithinerican numero, in eo quod quid fit, prædicatur; nam cies, eſt diſciplina quantitatis numerabilis ſecundum de Socrate, Platóne, & Cicerone homo prædi ſe. Muſica, eſt diſciplina quæ de numeris loqui- catur. tur, quiad aliquid ſunt his, qui inveniuntur in Differentia eſt, quod de plaribus & differen » Quid fit Dif". ſonis. Geometrica, elt diſciplina magnitudinis tibus ſpecie,in eo quod quale ſit,prædicatur; ſicuc erensia, immobilis,&formarum. Aftronoinia,eſt diſci- rationale & inortale,in eoquodquale ſit, dc ho- f mine prædicatur, 568 Caffiodorus € lcens. men. atque bos. Tulum, Quid fit Pro Proprium eſt, quod unaquæque ſpecies, vel Hoc opus Ariſtotelis intentè legendum eſt, cur Carego prium. perſona certo additamento infignitur, &ab om- quando ficut dictum eſt; quicquid hoino loqui- rie Ariftotelis ni communione feparatur. tur, inter decem ifta Prædicamenta inevitabili, intentè les erid fut Ac. gende. Accidens eſt, quod accidit & recedit præter ter invenitur: proficit etiam ad libros intelligen ſubjecti corruptionem: vel ea quæ fic accidunt, dos, qui live Rhetoribus, fivc Dialecticis appli ut penitus non recedant. Hæc qui pleniùs noſſe cantur. deliderant, Introductionem legant Porphyrii; * £ d.alicujus quilicetad utilitatein * alieni operis ſedicatſcri Incipitperi hermenias, id eft, de inter bere, non tamen ſine propria laude viſus eſt talia pretatione. dicta futinafle. Sequitur liber peri hermenias ſubtiliſimus rii Categorie Ariſtotelis. mis, & per varias formas, iterationéfque cautif ſimus, de quo dictuin eſt: Ariſtoteles, quando Sequuntur Categorix Ariſtotelis, ſive Prædi- librum peri herinenias ſcriptitabat, calamum in camenta: quibus mirum in modum per varias fi- mente tingebat. gnificantiasomnis fermo concluſuseſt: quorum De nomine. organa ſive inftruinenta ſunt tria. De verbo. Inftrumenta Organa vel inſtrumenta Categoriaruin five In libro peri hermenias; De oratione, drogoriarum (rent tria, /ci Prædicamentorum funtæquivoca, univoca, de- id eft, de interpretatio De enunciatione. licet. nominativa. ne, prædictus philofo De affirmatione. Æquivoca. Æquivoca dicuntur, quorú noinen folùm com- phusdehis tractat. De negatiore. mune eft, fecundùm nomen verò ſubſtantiæ ratio Decontradictione, diverſa; ut animal, homo, & quod pingitur. Vniyoca, Univoca dicuntur, quorum & noinen com Nomen, elt vox fignificativa ſecundùm placi- quid fitmoi mune eſt, & ſecunduin nomen diſcrepare eadem tum, ſinė tempore: cujus nulla pars eſt ſignificati ſubſtantiæ ratio non probatur: ut animal, homo, va ſeparata: utSocrates. Verbum, eſt quod conſignificat tempus: cujus Quid forver Deuominati Dena ninativa, id eſt, derivativa, dicuntur pars nihil extra ſignificat, & eſt ſemper eorum bum, quæcuinque ab aliquo ſola differentia caſus ſe- quæ de altero dïcuntur nota; ut ille cogitat, dil cundum noinen habent appellationem: ut å putat. grammatica gramınaticus,& à fortitudine fortis. ' Oratio, eſt vox fignificativa, cujus partium Quid ſit örä aliquid * feparatim ſignificativum eſt; ut Socrates to Subſtantiaa sola, diſpucat. * MSS.lepa | Quantitas, mosotas. Enuntiativa otàtio, eſt vox ſignificativadeeo Quid fit Ad aliquid. ney's Fan quod eft aliquid, vel non eſt; ut Socrates eſt, So- Enuntiatid. Ariſtotelis Ariſtotelis Catego Qualitas. TÓTUS. crates non eſt. Categorie riæ, vel Prædicamen- į Facere. FOREV. Affirinatio, eft enuntiatio alicujas de aliquo: quid fit Af son decem. ra decem ſunt Pati. PeoMHT. ur Socrates eſt. formatio. Situs. ευρώς. Negatio, eft alicujus de aliquo negatio: ut So- luid fitNe. Quando. done. crates non eſt. gatio. Ubi. Contradictio, eſt afficmationis & negationis euid fitcom | Habere. (xar. oppoſitio: ut, Socrates diſputat, Socrates non diſputát. Subſtantia elt, quæ propriè, &t principaliter Hæc omnia per librum ſuprà memoratum mi. Liber Pero Hermenias & maxiinè dicitur; quæ neque de ſubjectopræ- nutiſſimè diviſa; & ſubdiviſa tractantur, quæ Boetio feprem dicatur, neque in ſubjecto eſt; ut aliquis homo, breviter intimnaſſe ſuffciat, quando in ipfo com- libris expoſé vel aliquis equus. Secundæ autem ſubftantiæ di- petens explanatio reperitur: maximè cùin eum tu. cuntur, in quibus ſpeciebus, illæ quæ principa- Tex libris àBoëtio viro magnifico conſtet expoſi liter ſubſtantia primò dicta ſunt, inſunt atque tum, qui vobis inter alios codiceseſtrelictus. clauduntur; ut in homine, Cicero. Nunc ad fyllogiſticas ſpecies formulaſque vea Quantitas Quantitas aur diſcreta eſt, & habet partes ab nianus, in quibus nobilium Philofophorum ju aplex, aiſ alterutrodiſcretas,nec eominunicantes, ſecun- giter exercetur ingenium, dum aliquem communem terminum, velut nu merus, & ſerino quiprofertur; aut continua eſt, De Formulis ſyllogifmorum. & habet partes quæ ſecundum aliquem coinmu* nein terininuin adinvicem convertuntur; velut (in priina forinula modi no linca, ſuperficies, corpus,locus, motus,tempus. Forinulæ Categori Ad aliquid verò funt, quæcumque hoc ipſo coruin, id eſt, Præ-, In ſecunda formula modi Formale ca quod ſunt, aliorum eſſe dicuntur; velur majus, dicativorum ſyllo quatuor. duplum,habitus, difpofitio,ſcientia, ſeriſus, gilmorú ſunttres. | In tertia formula modi politio. i ſex. Qualitas, eſt, fecundum quam aliqui quales dicimur; ut bonus, malus. Modiformule prime ſunt novem. Facere eſt, ut ſecare, vel urere, id eft, ali quid operari. Pati eſt, ut ſecari, vel uri. Primus modus eſt, quiconcludit, id eft, qui Situs, eft, ut ftat, ſeder, jacet. Quando colligit ex univerſalibus dedicativis, dedicati eft, ut hefterno, vel crás. vum univerſale directum; ut, omne juſtum ho Ubi eſt: ut in Aſia, in Europa, in Lybia. neſtum, omne honeftum bonum, omne igitur Habere eft: ut calccatum, velarmatum effe. juſtum bonum. Secundus ött. tradictio, nos creta, con sinna, vem. tegoricum Syllogiſmorum funt tres. DeDialectica. 569 * Ed, concler dit. per quæ ſubti Secundus moduscft, qui * conducit ex univer- rivis particulari & univerfali dedicatvium parti ſalibus dedicativâ & abdicativâ abdicativum uni- culare directum: ut quoddam juſtam honeſtum, verſale directum: ut oinnejuſtum honeſtum, nul- omne juſtum bonum, quoddam igitur honeſtuin lum honeſtum turpe, nullum igitur juſtum bonum. turpe. Tertius modus eſt, quiconducit ex dedicativis Tertius modus eſt, qui conducir ex dedicativis univerſali & particulari dedicativum particulare particulari & univerſali,dedicativum particulare directum: ut, omne juſtum honeftuin, quod directum: ut quoddam juftum eft honeſtum,om- dam juſtuin bonum, quoddam igitur honeſtum ne honeftuin utile, quoddam igirur juftumn utile. bonum. Quartusinodus eſt, qui conducitex particulari Quartus modus eſt, quiconducit ex univerſa dedicativa, &univerſali abdicativa, abdicativum libusdedicativa & abdicativa abdicativum parti particulare directum: ut quoddam juſtum hone- culare directum: utomne juſtuin honeſtuin, nul Itum, nullum honeftunı turpe, quoddam igitur lum juſtum malum, quoddam igitur honeſtum juſtum non eft turpe. non eſt malum. Quintus modus eſt, qui conducit ex univerſa Quintus modus eſt, qui conducit ex dedicativa libus dedicativisparticulare dedicativum per re- particulari & abdicativa univerſali abdicativum Mexionem: ut omne juftum honeſtum, omne ho- particulare directum: ut, quoddam juſtum, ho neftum bonum, quoddam igitur bonum juſtum. neſtum, omne honeſtum bonum,igitur quoddan Sextus modus eft, qui conducit ex univerſali honeftum non eft malum. dedicativa, & univerſali abdicativa, abdicativum Sextus modus eſt, qui conducit ex dedicativa univerſale per reflexionem: ut omne juſtum ho- univerſali & abdicativa particulari abdicativum neltuin, nulluin honeſtum turpe, nullum igitur particulare directum: ut,omnejuſtum honeſtum, turpe juftum. quoddam juſtum non eſt malum, quoddam igi Septimusmodus eſt,quiconducit ex particulari tur honeſtuin non eſt malum. & univerſali dedicativis dedicativum particulare Has formulas Categoricorum ſyllogiſmorum reflexionem: ut quoddamn juftum honeſtum, qui plenè nofſe deſiderat, librum legat, quiin Liber Apa!e omne honeſtum utile,quoddam igitur utile juſtú. fcribirur -Peri hermenias Apuleii, & qui inſcribi: Odavus modus eft, qui conducirex univerfa- lias ſunt tractata, cognoſcet. Nec faſtidium no- tur Peri her libus abdicativa & dedicativa particulare abdica- bis verba repetita congeminent; diftin &ta enin, menias, le tivum per reflexionein: ut nullum turpe hone- atque conſiderata, ad magnasintelligentiæ vias, gendus. ftum, omnehoneſtum juſtum, quoddamn igitur præftante Domino,nosutiliter introducent.Nunc juſtum non eft turpe. ad hypotheticos fyllogiſinos, ordine currente, Nonas modus eit, qui conducit ex univerſali veniainus abdicativa, &particulari dedicativa abdicativum particulareper reflexionem:velut nullumturpe Modi Gyllogiſmorim hypotheticorum,qui fiunt Modifyllogif morum hyposs honeſtun, quoddam honeſtum juſtum, quoda cum aliqua conjunctione, Jeptem funt. dam igitur juſtum non eſt turpe. funt feptem. Primus modus eſt, velut: Si dies elt, lucer; eſt Modi formuleſecunda funt quatuor. autein dies; lucet igitur. Secundusmodus eft ita: ſi dies eſt, lucet, non Primus modus eſt, qui conducit ex univerſali- lucet; non eft igitur dies. bus dedicativa & abdicativa abdicativum univer- Tertius modus eſt ita: non & dies eſt & nonlu fale directum: velutomne juſtum honeſtum,nul- cet, atqui dies eft, lucèt igitur. lum turpe honeftum,nullum igitur juſtum turpe. Quartus modus eft ita: aut nox, aut dies eft, at Secundus modus eſt, quiconducit ex univerſa- qui dieseſt, non igitur nox eſt. libus abdicativa & dedicativa abdicativum uni Quintus moduseſt ita: aut dies eſt, aut nox, at-. verſale directuin: velut nullum turpe honeftum, qui nox non eſt, dies igitur eſt. omne juſtum honeſtum, nullumigitur turpe Sextus inodus eſt ica: non & dies eſt, & nonlu juftum cet, dies autem eſt, nox igitur non eſt. Tertius modus eſt, quiconducit ex particulari. Septimus modus eſt ita:non & djes eft & nox, dedicativa & univerfali abdicativa ab licativum atqui nox non eſt, dies igitur eſt. particulare directum: veluc quoddam juftum ho Modos autem hypotheticorum ſyllogiſinorum neſtum, nulluin turpehoneftum, quoddam igi- fi quis pleniùs noſſe deſiderat, legat librum Marii Marius Vi tur juſtum non eſt turpe. Victorini, qui inſcribitur de fyllogiſmis hypo- &torinus librá Quartus r.odus eſt, quiconducit ex particu- thericis. Sciendum quoque, quoniam Tullius de hypotheti: lari abdicativa & univerfali dedicativa abdicati- Marcellus Carthaginenſisde categoricis & hy- edidit. vum particulare directum: velut quoddamn juftum potheticis fyllogiſmis, quodà diverfis philoſo: TulliusMar non eſt turpe, omne malum turpe, quoddam phislatiſſimè dictum eft, feptem libris breviter cellus igitur juſtuin non eft malum, ſubtilitérque tractavit; ita ut priino libro de re: thag. de Syl gula, ut ipſe dicit, colligentiarum artis Dialecticæ logiſmis Modi formula tertiæfunt fex. diſputaret; &quod ab Ariſtotele de categoricis compofuit. ſyllogiſmis multis libris editum eſt, ab ifto fecun Primus modus eſt, qui conducit 'ex dedicativis do & tertio libro breviter expleretur; quod aut univerfàlibus dedicativum particulare, tam dire- tem de hypotheticis ſyllogiſmis à Stoicis innume Etuin, quàm reflexum: ut omne juſtum hone- ris voluminibus tractatum eſt, ab iſto quarto & ftum, omne juſtum bonum, quoddam igitur ho- quinto libro colligeretur. In fexto verò de inix neftum bonum vel quoddamn bonum ho- tis fyllogiſinis, in ſeptimo autem de compoſitis neftuin. diſpucavit; quem codicem vobis legendum re-, Secundus modus eſt, qui conducit ex dedica- liqui. cccc theticorum Car Jeprem libros > $ 70 Caffiodorus Quid las Depnilio. 1.1 1 longum viaticum: modò ut laudet, ut adolers De Definitionibus. centia eſt Aos ætatis. Octava ſpecies definitionis eft, quain Græci Hinc ad pulcherrimas definitionum ſpecies ac- x7 a paistoin rõ Evertix vocant, Latini per pri Milanius, quæ tantà dignitate præcellunt, ut pof- vantiam contrarii ejus quod definitur, dicunt; up ſont dici orationun maxiinuin decus, & quædam bonum eſt, quod malum noneft: juftuin eſt, quod lumina dictionuin. injuſtum non eft. Et his fimilia: quod fe ita na Definitio verò, eſt oratio uniuſcujuſque rei turaliter ligat, ut neceſſariam cognitionem fibi naturam à communione diviſam, propria ſignifi- unius comprehenſione connectat. Hoc autem catione concludens: hæc multis modis, præce- genere definitionis uti debemus, cùm contrarium priſque conficitur. notun eſt; nam certa ex incertis nemo probat. Definitionum prima eſt óvoradcas, Latinè ſub- Sub qua ſpecie ſunt hæ definitiones. Subſtantia ftantialis, quæ propriè & verè dicitur definitio; eft, quod neque qualitas eſt, neque quantitas, ne or eſt, homoanimalrationale mortale, ſenſus dif- que aliqua accidentia: quo genere definitionis ciplinæque capax;llæc enim definitio per fpecies Deus definiri poteſt; etenim cùm quid fit Deus, & differentiasdeſcendens, venit ad proprium, & nullo modo comprehendere valeamus: ſublatio deſignat plenillimè quid ſit homo. omniuin exiſtentium, quæ Græci örta appellant, Sccunda eſt ſpecies definitionis, quæ Græcè cognitionem Dei nobis circumciſa & ablata no ŽVYOMMA TIx ) dicitur, Latinè notio nuncupatur: tarum rerum cognitione ſupponit; ut li dicamus, quam notionem communi,non proprio nomine Deus eſt, quod neque corpus eſt, neque ullum poffumus dicere. Hæc iſto modo ſemper effici- elementum, neque animal, neque mens, neque cur: Homo eſt, quod rationali conceptione & ſenſus, neque intellectus, neque aliquid, quod exercitio præeſt animalibus cunctis. Non eniin ex his capipoteſt; his enim ac talibus ſublatis, dixit, quid eſt homo, ſed quid agat, quaſi quodam quid fit Deus, non poterit definiri. figno in notitiam denotato. In iſta enim &in re Nona ſpecies definitionis eſt, quain Græci liquis notio rei profertur: non ſubſtantialis, ut Kåtalnooi, Latini per quamdam imaginatio in illa primariaexplanatione declaratur; & quia nem dicunt: ut, Æneas eſt Veneris & Ănchiſæ illa fubftantialis eſt, definitionum omnium obti- filius. Hæc ſemper in individuis verſatur, qux ner principatum. Græci aqua appellant. Idem accidie in eo gene Tertia fpecies definitionis eſt, quæ Græcè redictionis, ubialiquis pudor aut metus elt no Trolótus dicitur, Latinè qualitativa. Hæc dicendo minare: ut Cicero, cùm me videlicet ficarii illi quid quale lit, id quod fit, evidenter oſtendit. deſcribant. Cujus exemplum tale eſt: homo eft, qui ingenio Decima fpecies definitionis eft, quam Græci valet, artibus poller, & cognitione rerum: aut as Tót, Latini, veluti, appellant; ut fi quæ quæ agere debeat eligit:aut animadverſione quod ratur quid ſit aniinal, refpondearur, homo: inutile fit contemnit; his enim qualitatibus ex non enim manifeftè dicitur animal folum effe preſſus ac definitus homo eſt. hominem, cum fint alia innumerabilia: ſed cuin Quarta ſpecies definitionis eſt, quæ Græcè dicitur homo, veluti ipfum hominem animal de soggapixn, Latinè deſcriptionalis nuncupatur: fignat: cùm tamen huic nomini multa ſubja quæ adhibitâ circuitione dictorum factorúmque, ceant. Rem enim quæfitam prædictum declata rem, quid fit deſcriptione declarat;ut ſi lu- vit exemplum. Hoc eſt autem proprium defini xuriofum volumus definire, dicimus: Luxurio- tionis, quid fit illud, quod quæritur, declarare. fus, eſt victus non neceffarii & fumptuoli & one Undeciina ſpeciesdefinitionis eft, quam Græ rofi appetens,in deliciis affluens,in libidine pron- ci rece tead the matter, Latini per iudigentiain ptus; hæc & talia definiunt luxuriofum. Que pleni ex eodem genere vocant: ut ſi quæratur ſpecies definitionis, oratoribus magis apta eſt, quid fit triens, refpondeatur, cui dodrans deeft, quàm dialecticis, quia latitudines habet; hæc ut lit aſlis. fimili modo in bonis rebus ponitur, & in Duodecima ſpecies definitionis eſt, quam Græ malis. ci, Kata imesvov, Latini per laudem dicunt; ut Quinta ſpecies definitionis eft, quam Græcè Tullius pro Cluentio: Lex eſt mens, & animus, AT nikov: Latinè ad verbum dicimus: hæc vo- & confilium, & fententia civitatis. Et aliter pax cem illam, de qua requiritur, alio ſermonedeſi- eſt tranquilla libertas. Fit & pervituperationem, gnat uno ac ſingulari, & quodammodo quid il- quam Græci tózer vocant: ſervitus eſt poſtre lud ſit in uno verbo pofitum, uno verbo alio de- mum malorum omnium, non modò bello, ſed clarat; ut conticefcere eſt tacere: item cùm ter- morte quoque repellenda. minum dicimus finem, aut terras populatas inter Tertiadecima eſt ſpecies definitionis, quam pretemur effe vaſtatas. Greci κατ'αναλογίαν,Latini juxta rationem dicunt: Sexta ſpecies definitionis eſt, quam Græci x fed hoc contingit, cum majoris ire nomine, res Thu nepoege, per differentiam dicimus; id eft, definitur inferior: ur eſt illud, homo ininor mun cùm quæritur, quid interſit inter regem & ty- dus. Cicero hac definitione ſiculus eſt:Edictum, rannum, adjecta differentia quid uterque fit, de- legem annuam dicunt eſſe. finitur: id eſt, rex eſt modeftus & temperans, ty Quartadecima eſt ſpecies definitionis, quam rannus verò impius & immitis. Græci sess, Latini ad aliquid vocant: ur eſt Septima eft fpecies definitionis, quam Græci illud, pater eft, cui eſt filius:dominus eſt, cui eft el ustápoegr. Latini per tranſlationein dicunt: fervus: & Cicero in Rhetoricis, genus eſt, quod ut Cicero in Topicis, Lictus eſt, quà Auctus elu- plures partes amplectitur: item pars eſt, quod lu dit. Hoc variè tractari poreſt: modò enim ut beſt generi. moveat, ficut illud, caput eſt arx corporis: modò Quintadecima eſt ſpecies definitionis, quam ut vituperet, ut illud, divitiæ ſunt brevis vitæ Græci koste BiTiongear, Latini fecundum rei fa ! De Dialectica. 571 tionuom. 5 rationem vocant: ut dies eſtrol fuprà terras:nox, dicativus atque ſubjectus. Terminos autem voco elſolſubterris. Scire autem debemus prædictas verba &nonina,quibuspropoſitio nectitur;ut niquifuntper propoſe ſpecies definitionum, Topicis meritò eſſe ſocia- in ea propoſitione qua dicimus:Homojuſtus eſt: tas, quoniaminter quædam argumenta funtpoſi- hæc duo nomina, id eſt, homo & juftus, propo tæ, & nonnullis locis commemoranturin Topi- fitionis partes vocantur. Eoſdem etiam terminos cis. Nunc ad Topica veniamus, quæ ſunt argu- dicimus: quorum quidem alter ſubjectuseſt, al mentorum fedes, fontes ſenſuu, origines di- ter verò prædicativus, Subjectus eſt terminus, &tionum: de quibus breviter aliqua dicenda ſunt, qui minor eſt: prædicativus verò, qui major: ut ut &dialecticos locos, & rhetoricos, ſive corum in ea propolitione, qua dicitur, Homo juſtus, differentias agnofcere debeamus: ac prius dedia- homo quidem minus eſt, quàm juſtus. Non Iceticis dicendum eft. enim in folo homine juſtitia eſſe poteft, verùm etiam in corporeis diviníſque ſubſtantiis: atque De Dialecticis locis. ideo major eſt terminus, juſtus: homo verò, mi nor; quò fit, ut homo quidem ſubjectus fit ter Quid die Propoſitio, eft oratio verum - falfúmveſignifi- minus, juſtus verò prædicativus. Propofitio. cans, utſiquis dicat, cælum eſſe volubile: hæc Quoniam verò hujuſmodi (implices propolis enuntiatio & proloquiun nuncupatur: quæſtio tiones alterum habentprædicativum terminum, verò eft, in dubitationem ambiguitatémque ad- alterum verò ſubje& um, à majoris privilegio par ducta propofitio; utſiqui quærant, an fit cælum tis propoſitio prædicativa vocata eft.Sæpe autem Quid Concli- volubile. Concluſio, eft argumentis approbara evenit, ut hi termini ſibimet inveniantur æqua 330. propoſitio; ut fi quis exaliis rebus probetcælum les, hocinodo, homoriſibilis eſt; homo namque effe volubile.Enuntiatio quippe live ſui tantum & riſibilis uterque ſibi æquus eſt terminus. Nam caufa dicitur,five ad alios ad ferturad probandum, ncque riſibile ultra hominem, nec ultra riſibile propofitio eft: cùm de ipſa quæritur, quæſtio: homo porrigitur: ſed in luis hoc evenire neceſſe lipſa eſt approbáta, conclufio. Idem igitur pro- eſt, utſi quidam inæquales termini ſunt, major politio,quæſtio, & conclufio, fed differuntinodo, ſemper de ſubjectoprædicetur: fi verò æquales Quid fit Ar Argumentum eſt oratio rei dubiæ faciens fi= utrique, converſa de fe prædicatione dicantur. gumentum. dem. Non verò idem eſt argumentum, quod & Ut verò minor demajore prædicetur, in nulla arguinentatio. Nam vis ſententiæ ratióque ea, propoſitione contingit. Fieri autein poteft, ut quæ clauditur oratione, cùm aliquid probatur propoſitionum partes, quas terminos dicimus, ambiguum, argumentum vocatur: ipfa verò ar- non ſolum in nominibus, verum etiain in oratio gumenti elocutio, argulhentatio dicitur; quò fit, nibus inveniamus. Nam ſæpe oratio deoratione ut argumentum quidem mens argumentationis prædicatur hoc modo: Socrates cum Placone so Git atque ſententia: argumentatio verò argument diſcipulis de philoſophiæ ratione pertractat; hæc per orationem explicatio. quippe oratio, quæ eft, Socratesçum Platone & Quid fit Locus verò eſt argumenti fedes, vel unde ad diſcipulis, ſubjecta eſt: illa verò, quæ eft, de propoſitain quæſtionein conveniens trahitur ar- philofophiæ ratione petractat, prædicatur. Rur gumentum. Quæ cùm ita fint, ſingulorum dili- ſus aliquando nomenſubjectum eſt, oratio præ =' gentiùs nătura tractanda eſt, eorumque per fpe- dicaruin, hocmodo: Socrates de philoſophiæ ra-. cies ac membra figuraſque facienda diviſio. cione pertractat; hic eniin Socrates ſolus ſubje Acpriùsde propoſitione eſt diſſerendum: hanc ctus eſt:oratio verò, quàm dicimus, de philoſo eſſe diximus orationein, veritatem, vel menda- phiæratione pertractat,prædicatur.Evenir etiam, Duæſuntpro- cium continentem. Hujus duæ ſunt ſpecies: una ut fupponatur oratio, & fimplex vocabulum pofitionum affirmatio, altera verò negatio. Affirmatio eſt, prædicetur hoc inodo: Similicudo cum ſupernis fpecies ſub,, fi qui ſic efferat, Caluin volubile eſt:negatio, li diviníſque ſubſtantiis, juſtitia eſt; hic enim ora quis ita pronuntiet, cælum volubile non eſt. rio per quam profertur fimilitudo, cum ſupernis alie. Harumverò aliæ ſunt univerſales, aliæ ſunt par- diviníſque ſubſtantiis fubjicitur:juſtitia verò pre ticulares, aliæ indefinicæ, aliæ ſingulares. Uni- dicatur. Sed de hujuſmodipropoſitionibusin his verſales quidem, ut ſi quis ita proponat: Oin- commentariis, quos in Peri hermenias Ariſtotelis nis homo juftuseft, nullus homo juſtus eft. Par- libros ſcripſimus, diligentiùs differuimus. ticulares verò, fi quis hoc modo:Quidamn homo Arguinentum, eft oratio rei dubiæ faciens fi- Quid fit an juftus eft, quidam homo juſtus non eſt. Inde- dem:hanc femper notiorem quæſtione elſe nez gumentum, finitæ fic:Homojuſtus eſt, homo juſtusnon eſt. ceſſe eſt. Nain liignora nobis probantur, argu Singulares verò funt, quæ de individuo aliquid mentum verò rem dubiam probat: neceffe eft, ut fingularique proponunt:utCato juſtuseſt, Cato quod ad fidem quæſtionis affertur, fit ipfa notius juſtus non eft; etenim Cato individuus eſt, ac quæſtione. Argumentorum verò oinnium alia Multiplicito fingularis. ſuntprobabilia & neceſſaria:alia veròprobabilia Juris Argan Harum verò alias prædicativas, alias conditio. quidem, ſed non neceſſaria: alia neceffaria; ſed nales vocainus. Prædicativæ funt, quæ fimpli- non probabilia:alia nec probabilia, nec neceffaria. Quid forProm citer proponuntur, id eſt, quibus nulla vis con- Probabile verò eſt, quod videturvelomnibus, vel bavile Argu ditionis adjungitur: ut fi quis fimpliciter dicat, pluribus, velfapientibus, & his vel omnibus, vel mensun. Cælum eſſe volubile. At, li huic conditio copu- pluribus, vel maximè notis, atque præcipuis, letur, fit ex duabus propoſitionibus una condi- vel unicuique artifici fecundum propriam facul tionalis, hocmodo: Cælum (irotundum ſit, efle càtem; ut de medecinamedico, gubernatori de volubile; hîc enim conditio id efficit, ut ita de- navibus gubernandis: & præterea quod ei vides mum cælum volubile eſſe intelligatur, ſit ro- tur cuin quo fermo conſeritur, vel ipſi qui judi tundum. Quoniam igitur aliæ propofitiones præ- cat. In quo nihil artiner verum falfùmvelit árgưr dicativæ ſunt, aliæ conditionales: prædicativa- mentum, fi tantùm veriſimilitudinem tenet. rum partes, terminos appellamus. Hi ſunt præ Neceffariun vero eft, quod ut dicitar, ita eſt, Quidfor Ne cearium. Сccc ij Locis. quibus multe mentorum genera. 572 Caffiodorus rium. atque aliter eſſe non poteft: & probabile quidein, fpeciebusutiturargumentis, quæfunt probabi ac neceflarium eſt; ut hoc ſi quid cuilibet rei ſic le ac neceſſarium, neceſſariuin ac non probabile. additum, totum majus efficitur. Neque enim Patet igitur, in quo philoſophus ab oratore, ac quifquam ab hąc propoſitione diffentiet, & ita ſe dialectico in propria confideratione diſſideat; in Quid fit le habere neceſſe eſt. Probabilia verò acnon ne- co ſcilicet, quod illis probabilitatem, huic veri provabile ac ceffaria, quibus facilè quidem animus acquief- tatem conſtat elle propofitam. Quarta yerò fpe non neceffa- cit, fed veritatis non tenet firmitatem; ut cies argumenti, quain ne arguinentun quiden học, ſi mater eſt, diligit. Neceſſaria verò funt, rectè dici ſupràmonſtravimus, fophiftis Tola eſt Quid fit ne cilarium,ac ac non probabilia, quæ ita quidein eſſe, ut dicun- attributa. Topicorum verò intentio eft, verili non probabile tur ſe habere, necefle eft, ſed his facilè non con- milium argumentorum copiam demonſtrares de ſentit auditor:ut ob objectum Lunaris corporis, fignatis enim locis,è quibus probabilia arguinen bredamſunt Solis evenire defectunt. Neque neceſſaria verd ta ducuntur, abundans.& copiofa neceſſe fiat nec neceffa- peque probabilia funt, quæ neque in opinione materia differendi. ria,necpro- hominum, neque in veritate confiftunt, ut hoc, Sed quoniam, ut fuprà dictum eſt, proba babilia habere quæ non perdiderit cornua Diogenem, bilium argumentorum alia funt neceffaria, quoniam habcatid quiſque quod non perdiderit; alia non neceſſaria: cùm loci probabilium ar quæ quidem nec argumenta dici poſſunt: argu- guntentorum dicuntur, evenit, ut neceſſario mentaenim rei dubiæ faciunt fidem. Ex his au- ruin quoque doceantur, quo fit, ut oratoribus tem nulla fides eſt, quæ neque in opinione, ne- quidem ac dialecticis hæc principaliter facultas que in veritate ſunt conſtitutą. Dici tamen poo parecur, ſecundo verò loco philofophis. Nam teſt, ne illa quidem eſſe argumenta, quæ cùm fint in quo probabilia quidem omnia conquiruntur, neceffaria, minimè tamen audientibus appro- dialectici atque oratores javanțur: in quibus verò bantur. Nam ſi rei dubiæ fit fides, cogendus eft probabilia ac neceffaria docentur, philoſophic.e animus auditoris, per ea quibus ipſe adquieſcit, demonſtrationi miniſtratar ubertas. Non modò u concluſioni quoque, quam nondum probar, igitur dialecticus atqueorator, verùm etiam de poſlit accedere. Quod fi quæ tantùm neceffaria monſtrator, ac veræ argumentationis effector, (unt, ac non probabilia, non probat ille qui ju- babetquod ex propoſitislocis libi poſſit adſuine dicat,eltneceſſe, utneillud quidein probet,quod re. Cùm inter argumentorum probabilium focos, ex hujuſcemodi ratione conficitur. Itaque evenit neceſſariorum quoque principia traditio mixta ex hujufmodi ratiocinatione, ea, quæ tantùm contineat. Illa verò argumenta, quæ neceſſaria neceffaria ſunt, ac non probabilia, non efle ar- quidein ſunt, ſed non probabilia; atque illud gumenta. Sed non ita eſt, atque hæc interpreta- ultimum genus; fcilicet ilec probabile,nec ne tio non rectæ probabilitatis intelligentiam tenet. ceſſarium,à propofiti operisconſideratione fem Ea funt enimprobabilia, quibusſponte, atque jundum eſt. Nili quod interdum quidam ſophi ultrò conſenſus adjungitur; ſcilicet ut moxaudi- ſtici loci exercendi gratia lectoris abhibentura ta fint, approbentur. Quocirca Topicorum pariterutilitas intencióque de fint ar Quæ veròneceffariafunt,ac nonprobabilia,aliis patefacta eft; his enim & dicendi facultas, &in gamenta pro babilia. probabilibus ac neceſſariis argumentisantea de veſtigatio veritatis augetur. monſtrátur,cognitáque &credita, ad alterius rei, Nam quid dialecticos atque Oratores locorum locorum ** de qua dubitatur, fidem trahuntur;ut ſuntfpecu- juvát agnitio? Orationi per inventionem co micos arque lationes,id cft,cheoremata, quæ in Geometriacon- piampræftant. Quid verò neceffariorum doctri- Oratoresmus fiderantut. Nam quæ illic proponuntur, non funt nam locorum philoſophis tradit? viam quodam- sum juvas. talia, ut in his fponte animusdiſçentis accedar: modo veritatis illuftrat. Quò magis perveſtis ſed quoniam demonſtrantur aliis argumentis, illa ganda eft rimandâque ulterius diſciplina ea, quæ quoque ſçita & cognita ad aliarum fpeculatio- cùm cognitione percepra uſu atque exer pumargumenta ducuntur.Itaque probabilia non citatione firmanda. Magnum enim aliquid lo Cunt, ſed ſunt neceſſaria his quidem auditoribus, corum conſideratio pollicetur, fcilicetinvenien quibus nondum demonſtrata funt: ad aliud ali- di vias; quod quidem hi, qui ſunt hujus rationis quid probandum, argumenta effe non poffunt; expertes,ſoliprorſus ingenio deputantur: neque hi autem qui peioribus rationibus eorum, qui- intelligunt, quantun hac conſiderationequærat bus non adquieſcebant, fidem cceperunt, poffunt, cur, quæ in artem redigit vim poteſtatemque na cas quæ non ambigunt, ad argumentuin vocare. turæ. Sed de his hactenus: nunc de reliquis ex Sed quia quatuor facultatibus differendi omne plicemus. artificium continetur, dicendum eſt qux quibus uti noverit argumentis; ut, cui potiſſimum diſci De Syllogiſmise plinæ locorum atque argjinentorum paritur u Diale &tice, bertas, evidenterappareat. Quatuorigitur fa Syllogiſmorum verò aliiſuntprædicativi, qut" Syllogiſmialii Oratori, Phi- cultatibus,earúmque velutopificibus,differendi categorici vocantur,aliiconditionales,quos hy- predication Dolopho, so omnis ratio ſubjecta eft, id eſt, dialectico, ora, potheticos dicimus. Et prædicativiquidem funt, males, com phifte dife rendiomnis tori, philofopho, ſophiſtæ. Quorum quidem qui ex omnibus prædicativis propoſitionibus quid fins. ratio fobjekta dialecticus atque orator in communi argumen- connectuntur sur is, quem exempli gratiafupes, torummateria verſautur; uterque enim,five ne- riùs adnotavi, omnibus enim propoſitionibus cellaria, kve minimè, probabilia tamen ſequitur prædicativis texitur.Hypothetici verò funt,quo Quefit diffe ventia inter argumenta. His igitur illæ duæ fpecies argu- ium propofitiones conditione nituntur, ut hics Dialecticum, menti famulantur,quæ funt probabile ac non si dies eft, lux eſt zett autem dies, lux igitur eſte Oratorent & neceffarium: philoſophus vero ac demonftrator Propofitia enim prima conditionem tenet hanc, Philoſuphum. de ſela tantum veritate pertractant: Asque ideo quoniam ita demum lux eft, fi dies eft. Atque ſive liņt probabilia, five non fint, nihil referi,' idea fyllagiſmus hic, hypochericus, id eſt condi modo duin ſine peceſlaria: bic quoque his duabus tiopalis vocatur. Inductio verò eft oratio, per i i Onid fais duftio. De Dialectica: 573 Tuniwy. $ niio. 0 10 OS 2712 quam fitàparticularibus ad univerfale progreflio, plumvocamus:quoniam vero non pluresquibus hoc modo: Siin regendis navibusnan forte, ſed id efficiat colligit partes, ab inductione diſcedit. arte legitur gubernator: fi regendis equis auriga Ita igitur duæ quidem ſunt argumentandiſpecies non fortis eventu, ſed commendatione artis ad- principales: una, quæ dicitur fyllogiſmus, alte ſumitur: fi in adminiftranda republica non ſorsra que vocaturinductio; ſub his aurem, &veluc principem facit,ſed peritía moderandi; & fimi- ex his manantia, enthymema atque exemplum, * Ed. infe- lia, quæ in pluribus conquiruntur, quibus * im- Quæquidem omnia ex ſyllogiſmo ducuntur, & pertitur: & in omni quoque re, quam quiſque ex fyllogifino vires accipiunt: live enim ſit enthy regi atque adminiſtrari gnaviter volet, qui non 'mena, liveinductio, live etiam exemplum, ex forte accommodat, ſed arte, rectorem, fyllogiſmo quàm maximè fidem capit; quod in Vides igitur quemadmodum per fingulas res prioribus reſolutoriis, quæ ab Ariſtotele tranftu currat oratio,ur ad univerſale perveniat.Nam cùm linus, denonſtratumeft. Quocirca fatis eſt de non forte regi, ſed arte navim, currum, rempubli- fyllogilino differere, quaſi principali, & cæte cam collegiffet, quali in cæteris ſeſe quoque ita ras argumentandiſpecies continente. habeat, quod erat univerſale concluſit: in omni Reſtat nunc quid fit locus, aperiçe. Locus nam- Quid forlocais bus quoque rebus, non ſorte ductum, fed arte, que eſt, ut* Marco Tullio placet, argumentifea Dialectico. * MSS.Man præcipuum debere præponi. Sæpe autem multo, des; cujus definitionis quæ fitvis, paucis abſol rum collecta particularitas aliud quiddam parti- vam, Argunventi enim fedes partin maxinia culare demonſtrat; ut fi quis fic dicat: Si neque propoſitio intelligi poteft, partim propofitionis navibus, ncque curribus, neque agris ſorte præ- inaximè differentia. Nam cùm fint alize propoli ponuntur; nec rebus quidein publicis rectores tiones, quæ cùin per ſe notæ lint, cùm nihil ul eſſe ſorte ducendi funt. Quod argumentationis teriùs habeant, quo demonftrentur, atque hæ genus maxiinè folet eſſe probabile, etſi non maxinæ & principales vocentur, funtque aliæ æquam ſyllogyſmi habeat firinitatem. Syllogif- quarum fidem primæ ac maximæ, fuppleant mus namqueabuniverfalibus ad particularia de- propofitiones: neceffe eft, ut omnium quæ curret. Eftque in eo, fi veris propoſitionibus dubitantur, illæ antiquiſſimam teneant pro+ contexatur, firma atque immutabilis veritas. bationein; quæ ira aliis fidem facere poffunt, Ut inductio habet quidem maximam probabi- ut ipſis nihil queat notius inveniri. Nam li litatem, ſed interdum veritate deficitur; ut in argumentum eſt, quod rei dubiæ faciat fidem, hac: Qui fcir canere, cantor eſt: & qui luctari ídque notius ac probabilius eſſe oportet, quàm luctaror: quique ædificare, ædificator; quibus illud quodprobatur: neceſſe eſt, utargumentis multis fimili jatione collectis, inferri poteſt: omnibus illa maximam fidem tribuant, quæ ita Qui fcit igitur malum,malus eſt, quod non pro- per ſe nota ſunt, at alienâ probationenon egeant: cedit;mali quippe notitia deeſſe non poteſt bonoš Sed hujulinodi propoſitio aliquotiens quidem virtusenim ſeſe diligit, aſpernatúrque contraria, intra argumenti ambitum continetur: aliquotiens nec vitare vitium niſi cognitum queat. yerò extra polita, argumenti vires ſupplet ac per His igitur duobus velut principiis, &generibus fices, Duo funt alii argumentandi, duo quidem alii deprehenduntur Cinnes igitur loci, id eft; maximarum diffe, Omnes loci à argumentori argumentationis modi: unusquidem fyllogiſmo, rentiæ propoſitionum, aut ab his ducantur ne quibus ternii modi, Enthy alter verò inductioni ſuppoſitus. In quibus qui- ceſſe eſt terminis, qui in quæſtione ſunt propo memaſciet exemplum, ea dempromptumſit conſiderarequod, ille quidem fiti, prædicato ſcilicețarquefubjeéto: aut extrin qaid (ma à fyllogiſmo, ille verò ab indu & ione ducat exor- ſecus adfumantur:auc horum medii acque inter dium: non tamen,aut hicfyllogiſmum, aut ille utrofque verſentur. Eorun verò locoruin, qui impleat inductionem; hæc autem ſunt enthyine ab hisducuntur terininis, de quibus in quæſtione ma, atque exemplum, Euthymema quippe eft dubitatur, duplex modus eſt: unus quidem ab imperfectus fyllogiſmus, id eſt oratio, in qua non corum fubftantia, aker verò ab his, quæ eoruin omnibus antea propoſitionibus conftitutis,inter ſubſtantiam conſequuntur shi verò quià ſubftária tur feſtinata conclufiosut fi quis ſic dicat: homo funt, inſola definitione conliſtunt.Definitio enim animal eſt, ſubſtantiaigicur eſt; præterınjſic eniin ſubſtantiammónftrát; & fubſtaạtiæ integra det alteram propofitionem, quâ proponitur omne monſtratio, definitio eſt. Sed, id quod dicimus, aniinal elle fubftantiam. Ergo cùm enthymema patefaciamus exemplis;ut omnis vel quæftionum, ab univerſalibus ad particularia probanda con- vel arguinentationum, vel locoruin ratio con tendit, quali ſimile Jyllogiſmo eft. Quod vero quieſcat. Age enim quæratur; an arkores ani non omnibus, qu:e conveniunt fyllogiſmo,propor malialint, řátque hujuſmodifyllogiſmus: ani+ ſitionibus utitur, à fyllogiſmi ratione difcet mal eftfubftantia animata ſenſibilis:non eft arbor dit, atque ideò imperfectus vocatuseft fyllogif- fubftantia animata fenfibilis; igitur arbor animal mus, non eft. Hic quæſtio de genere eft; utrùm enim Exemplum quoque inductioni fimili ràtionę arboresfub aniinaliumgenere panendæ fint,qux & copulatur, & ab ea diſcedit. Eft enim exem- ritur: locus qui in univerſali propofitione con, plum, quod perparticulare propoſitum,particu- filtit, huic generis definitio non convenit, id lare quoddam contendit oſtendere, hoc modo; ejus, cujus ea definitio eft, fpecies non eſt loci Oportet à Tullio conſule necari Catilinan, cùm fuperioris differentia: qui locus nihilominus à Scipione Gracchus fueritinteremptus; appro, nuncupatur à definitione. batum eſt enim Catilinam à Cicerone debere pe Vides igitur ut çora dubitatio quæftionis fyllo rimi, quod â Scipione Gracehus fuerit occiſus: giſmi argumentatione* tracta (it per convenien: * Ed.sracht quæ utraque particularia effe, ac non univerſalià tes & congruas propoſitiones,quæ vim ſuam ex "4. lingularum deſignat interpoſitio perſonarum prima &maxima propofitionecuftodiunt; ex ea Quoniamigiturex parte pars approbatur, quafi {cilicet, quænegat effe fpeciem, cui ñnon conve: inductionis fimilitudinem tenet id, quodexem- niat generis definitio, Acque ipſa univerſalis pro nis ducantur: 374 Caſſiodorus ftantia du tem. poſitio à ſubſtantia tracta eſt unius eorum termi- eſt, hoc modo fæpe quæſtionibus argumenta ni, qui in quæſtione locati ſunt; ut animalis,id fuppeditat; ut fi fit quæſtio, an juſtitia utilis fit, eſt, ab ejusdefinitione,quæ eſt ſubſtantia anima- fit fyllogiſmus: Omnis virtus utilis elt, juſtitia ra ſenſibilis. Igitur in cæteris quæftionibus ſtri- autem virtus eſt, ergo juſtitia utilis eſt. Quæſtio ctim ac breviter locorum differentiis coinmemo- de accidenti, id eſt, an accidat juftitiæ utilitas. fatis, oportet uniuſcujuſque proprietatem vigi- Locus is, qui in maxima propoſitione conſiſtir. lantis animi alacritate percipere. Quæ generi adfunt, & fpeciei. Hujus ſuperior Locus ex ſub Hujus aureinloci, qui ex fuſtſtantia ducitur, locus à toto, id eſt, à genere, virtute ſcilicet, quæ ftus, duplex duplex modus eſt; partim namquc à definitione, juſtitiæ genus eſt. Rurſus fit quæſtio, an huma eft. partim à deſcriptione argumenta ducuntur. næ res providentiâ,regantur. Cùm dicimus, li Differt autem definitio à deſcriptione, quòd mundus, providentiâ regitur: homines autem Que fit dif- definitio genus ac differentias affumic: def- pars mundi funt: humanæ igitur res providen ferentia inter criptio verò ſubjectain intelligentiam - claudit, tia reguntur. Quæſtio de accidenti, Locus quod defcriptiq quibuſdam vel accidentibus unam efficientibus toti evenit, id congruit etiam parti. Supremus proprietatein, vel ſubſtantialibus præter genus locus à toro, id eſt, ab integro. Quod partibus conveniens aggregatis. Sed definitiones, quæ ab conftat, id verò eft mundus, qui hominum to accidentibus fiunt, tamen videntur nullo modo tum eſt. ſubſtantiam demonftrare: tamen quoniam fæpe A partibus etiain duobus modis argumenta naf- A partibus veræ definitionesita ponuntur, quæ ſubſtantiam cuntur: aut enim à generis partibus, quæ ſunt, duobus modis monſtrant: illæ etiam propofitiones,quæ à deſcri- fpecies:aut ab integri, id eſt, torius; quæ par- azamente ptione fumuntur,à fubftantiæ loco videntur affu- tes tantum proprio vocabulo nuncupantur. Et Mojcanine. mi. Hujus verò tale fit exemplum; quæratur de his quidem partibus, quæ ſpecies funt, hoc enim, an albedo ſubſtantia fit: hic quæritur, an modo fit quæſtio, an virtus mentis benè conſti albedo ſubftantiæ, velut generi ſupponatur. Di- tutæ fic habitus: quæſtio de definitione, id eft, cimus igitur: ſubſtantia elt, quod omnibusacci- an habitus benè conſtitutæmentis,virtutis lit de dentibus poſſit eſſe ſubjectum: albedo verò nul- finitio. Facieinus itaque ab ſpeciebus argumen dis accidentibus fubjacet, albedo igitur fubſtan- tationem lic: Si juftitia, fortitudo, inoderatio, tia non eſt. Locus, id eſt, maxima propoſitio, atque prudentia, habitus benè conftituræ mentis eadem quæ fuperiùs. Cujus enimdefinitio vel funt: hæc autem quatuorunivirtuti velut generi deſcriptio ei,quod dicitur,ſpecies effe non conve- ſubjiciuntur: virtus igitur benè conſtitutæ men nit, id ejus quod eſſe ſpecies perhibetur, genus tis eſt habitus. Maxima propoſitio; quod enin noneſt. Deſcriptio verò fubftantiæ albedini non ſingulis partibus ineſt, id toti inefTe neceffe eft. convenitalbedo: igitur ſubſtantia non eſt. Argumentum verò à partibus, id eſt, à generis Locus differentia ſuperior à deſcriptione; quam partibus, quæ ſpecies nuncupantur; juſtitia enim, duduin locavimus in ratione ſubſtantiæ. Sunt fortitudo, modeſtia & prudentia, virtutis fpe etiam definitiones, quæ non à rei ſubſtantia, ſed cies ſunt. à nominis ſignificatione ducuntur, atque itą rei, Item ab his partibus, quæ integri partes eſſe di de qua quæritur, applicantur; ut ſi ſît quæicio, cuncur, fit quæſtio, an fit utilismedicina. Hæc utrumnephiloſophiæ ſtudendum fit, erit argu: in accidentis dubitatione conftituta eſt. Dicimus mentatio talis: Philofophia ſapientiæ amor eſt, igitur, ſi depelli morbos, ſalurémque fervari, huic ſtudendum nemo dubitat: Itudendum igitut mederique vulneribus utile eft: igitur medicina eſt philofophiæ. Hic enim non definitio rei, ſed eſt utilis. Sæpe autem & una quælibet pars valer, nominis interpretatio argumentum dedit. Quod ut argumentationis firmitas conſtet, hoc inodo; etiam Tullius in oſtenſione ejuſdem philofophiæ ut fi de aliquo dubitetur, an fit liber: ficum vel uſus eſt defenfione, & vocatur Græcè quidem cenſu, velteſtamento, vel vindictâ manumiſ ovouzOtong, Latinè autem nominis definitio. fum eſſe monſtremus, liber oſtenſus eſt: atque Hæc de his quidem argumentis, quæ ex ſubſtan- aliæ partes erantdandæ libertatis. Vel rurſus, fi cia terminorum in quæſtione politorun fumun- dubitetur, an ſir domus quod eminus conſpici tur, claris,ut arbitror,patefecimus exemplis: nunc tur: dicimus quoniam non eſt; nam vel rečtun de his dicendum eſt, qui terminorum ſubſtana ei, vel parietes, vel fundamenta defunt, ab una tiam conſequuntur. rurſus parte factum eſt arguinentum. Divifio loco Horum verò multifaria diviſio eſt; plura enim Oportet autem non folùm in ſubſtantiis, ve Tum qui(ubu funt, quæ ſingulis ſubſtantiis adhæreſcunt: ab růın etiam in modo, temporibus, quantitatibus, franciam com his igitur, quæcujuſlibet ſubſtantiam comitan- torum, partéfque reſpicere. Id enim quod dici fequantur. tur, argumenta duci folent, aut ex toto, aut ex mus aliquando in teinpore, pars': rurſus li fim partibus, aut ex caufis, vel efficientibus,vel ma- pliciter aliquid proponamus,in modo totum eſt: teria, vel fine. Er eſt efficiens quidem cauſa, li cum adječtione aliqua, pars fit in modo. Item quæ inover atque operatur, ut aliquid explice- fi omnia dicamusin quantitate, tòrum dicimus: tur: materia verò, ex qua fit aliquid,vel in quafit: fialiquid quantitatisexcerpimus, quantitatis po, propter quod fit. Sunt etiam inter eos lo- nimus partem. Eodem modo &in loco: quod cos, qui ex his ſumuntur, quæ ſubſtantiain con- ubique eſt, totum eſt: quod alicubi, pars. How ſequuntur, aut ab effectibus, aut à corruptioni- ruin autem omnium communiter dentur exem bus', aut ab uſibus, aut præter hos omnes ex pla. A toto ad partem fecundum tempus: fi communiter accidentibus. Quæ cùm ita fint, Deus ſemper eſt, &nunc eſt. A parte ad totum cum priùs locum, qui à toto fumitur, inſpicia- ſecundum modum:ſi *anima aliquo modo niové» * MSS. amie tur, & fimpliciter movetur; movetur autem cum mal. Totum duobus modis dici folet: aut ut genus, irafcitur;univerſaliter igitur & fimpliciter mo bus modisdi- aut ut idquod ex pluribus integrum partibus vetur. Rurfus à toro ad partes in quantitate: fi conſtat. Er illud quidem quod ut genus, totum finis mus. Totum duo citur. 1 1 De Dialectica. 3 teria, fi jori. TA A. > verus in omnibus Apollo vatės eſt; verum erit oppoſitis, vel ex tranffuinptione. Et ille quidem Pyrrhum Romanos ſuperare. Rurſus in loco, fi locus, qui rei judiciuin tenet, hujuſmodi eft; ut Locus à rei Deus ubique eft, & hîc igitur eſt. id dicamus effe, vel quod omnes judicant, vel judicio. Locusà came "Sequitur locus, quinuncupaturà cauſis. Sunt plures, & hivel ſapientes, vel ſecundam unam fis multiplex. verò plures cauſa, id eft, quæ vel principium quanque artem penitus eruditi.Hujus exempluin præſtantmotusatque efficiunt: vel ſpecierum for- eft, cælum eſſe volubile: quòd ita fapientes, atque mas ſubjectæ ſuſcipiunt: vel propter eas aliquid, in Aſtronoinia do & illimi diſudicaverint. Quæ vel quæ cujuſlibet forma eſt. ſtio de accidente. Propofitio, quod omnibus,vel Zocus ab effi- Argumentum igitur ab eficiente cauſa; ut fi pluribus, veldoctis videtur hominibus,ei contra ciense cauſa. quis juſtitiam naturalemn velit oſtendere, dicat: dici non poſſe. Locus à rei judicio. congregatio hominum naturalis eſt: juſtitiam A fimilibus verò hoc modo, fi dubitetur, an verò congregatio hominum fecit: juſtitia igitur hominis proprium fit eſſe bipedem, dicimus fi naturalis eſt. Quæſtio de accidente. Maximapro- militer: ineſt equo quadrupes, & homini bipes; poſitio: quorum effacientescauſæ naturales ſunt, non eft autem equi quadrupes proprium; non eft apſa quoque ſunt naturalia. Locus ab efficienti igitur hominis propriuin bipes. Quæſtio de pro bus; quodenim uniuſcujuſque cauſa eſt,id efficit prio. Maxiina propoſitio. Si quod limiliterineſt, can rem, cujus caufa eft, non eſt proprium, ne id quidem de quo quæritur, Locus à ma Rurſus, ſi quis Mauros arima non habere con- eſſe propriuin poteſt. tendat, dicit idcirco eos minimè armis uti, quia Locus à fimilibus: hic verò in gemina dividitur. Locus àfomi libus duplex. his ferrum deſit. Maximapropoſitio, ubi materia Hæc enim fimilitudo, aut in qualitate, aut in deeſt, & quod ex materia efficitur, defit locus à quantitate conſiſtit: ſed in quantitate paritas mareria: utrumque verò, ideft, ex efficientibus nuncupatur, id eſtæqualitas. atque materia,uno nomine à cauſa dicitur. Æquè Rurfus ab eo quod eſt majus, fi an fit animalis Locais à Ma. enim id quod efficit, atque id quod operantis definitio, quod ex ſe moveri poffit, dicimus, actum ſuſcipit, ejus rei, quæ efficitur, cauſæ magis oportet eſſe animalis definitionem, quòd funt. naturaliter vivat, quàm quòd ex ſemoveri poffit Locais à fine. Rurſus à fine fit propofitum, an juftitia bona Non eft autem hæc definitio animalis, quòd natu fit, fiet argumenratio talis. Si beatum eſſe, bo- raliter vivat: ne hæc quidem, quæ minùs vide num eſt, & juſtitia bona eſt; hic eſt enim juſtitiæ tur effe definitio, quod ex ſe inoveripoſſit, ani finis, ut qui ſecundum juſtitiam vivit, ad beati- malis definitio eſſe paranda eſt. Quæſtio de defi rudinem perducatur. Maxima propoſitio, cujus nitione. Propoſitio maxima. Si id quod magis finis bonus eft, ipſum quoque bonum eft. Locus videbitur ineſſe non ineſt, ne illud quidem à fine. quod minus ineffe videtur, inerit. Locus ab eo Loctus a for Ab eo verò, quæcujuſque forma eſt,ità non po- quod eſt inajus. tuiſſe volare Dædalum, quoniam nullasnaturalis A minoribus verò converſo modo. Nam fi eft locus à formæ pennas habuiſſet.Maxima propoſitio, tan- hominis definitio, animal grellibile bipes: cúm- mori. tìm quemque poffe, quantùın formapermiſerit. que id bipes videatur effe definitio hominis mi Locus à forma, nus. quàm animal rationale mortalc; fitque defi Loc tus ab effe, Ab'effectibus verò, & corruptionibus, &uſibus nitio ea hominis, quæ dicit animal grellibile bi Etibus, corrm- hoc modo: namn ti bonum eſt,domus, conſtru- pes, erit definitio hominis, animal rationale - ptionibus, &io bonum eſt, bonum eſt domus. Rurfus fi mortale. Quæſtio de definitione. Maxima propo ufibus., maluin eſt, deſtructio domus: bona eſt domus,& ficio: Si id quod minus videtur ineffe, ineſt: & fi bona eſt domus, mala eſt deſtructio domus. id quod magis videtur inefle, inerit. Multæ au Item ſi bonum eſt equitare, bonum eſt equus: & tem diverfitates locorum ſunt, ab eo quod eſſe fi bonum eſt equus, bonum eſt equitare. Eſt au- magis acminùs, argumenta miniſtrantium: quos tein primum quidem exemplum à generationi- in expoſitione Topicorum Ariſtotelis diligentius bus, quodidem ab effectibus vocari poteft. Sea perſequuti fumus. cunduin à corruptionibus, tertium ab ufibus. Item ex proportione: ut fi quæràtur, an ſorte Lucus ex pro Omnium autem maximæ propofitiones: cujus fint legendi in civitatibus magiſtratus, dicamus portione. effectio bonaeſt, ipfum quoque bonum eſt, & è minimè: quia ne in navibus quidem gubernator converfo: & cujus corruptio mala eſt, ipſum bo- forte præficitur: eſt eniin proportio, nain ut fele nuin eſt, & è converſo: &cujus uſus bonuseſt, habet gubernatorad navem, itamagiſtratus adci ipfum bonum eft, & è converſo. vitatem. Hic autem locus diftat ab eo, quod ex ſi Locus à com A coinmuniter autem accidentibus argumenta milibus ducitur. Ibi enim una res quæ cuilibet muniteracci- funt, quotiens ea ſumuntur accidentia, quæ re- & alii comparatur: in proporcione verò non eſt linquere ſubjectum,vel non poffunt, vel non ſo. limilitudo rerum, fed quædam habitudinis coin lent; utſi quis hoc inodo dicat: ſapiens non pa paratio. Quæſtio de accidenti proportione.Quod nitebit; pænitentia enim malum factum comita- in quaquereevenit, id in ejus proportionali eve tur: quod quia in ſapiente non convenit, ne poe- nire neceſſe eſt. Locus à proportione. nitentia quidein.Quæſtio de accidentibus.Propo Ex oppoſitis verò multiplexlocus eft. Quatuor Locus ex op fitio maxima: cui non ineft aliquid,ei neillud qui- enim libimet opponuntur modis; aut enim ut pofo ismulti dein, quod ejus eſt conſequens, ineffe poteſt. contraria adverfo ſeſe loco conſtituta refpiciunt: plex. Locus à coinmuniter accidentibus. aut ut privatio, & habitus: aut relatio: aut affir De lo cis ex Expeditisigitur locis his, qui ab ipſis terminis inatio &négatio. Quorum diſcretiones in co li srinfecus. in propofitfone poſitis, affumuntur: nunc de his bro qui de decem prædicamentis fcripruscſt,com dicendum eft, qui licet extrinfecuspoſiti, argu- meinoratæ ſunt; ab his hocmodoargumentanaſ menta tamen quæſtionibusfubminiftrant: hi ve ro ſunt vel ex rei judicio, vel ex ſimilibus, vel à A contrariis fi quæratur, an lit virtutis pro- Locus à con majore, vel à minore, velà proportione, velex prium laudari, dicam minimè: quoniam ne vitii trariis.; D cuntur. 570 Caſſiodorus Jocentu. habits. sione. Locus ex. ne. quidem vituperari. Quæſtio de proprio. Maxi- ſecundum proprii nominis fimilitudinem corr ma propoſitio: quoniam contrariis contraria fequuntur. conveniunt. Locus ab oppoſitis, id eft, ex con Mixti verò loci appellantur: quoniam ſi de ju- Qui mirtilo. ' trario. ſtitia quæritur, & à caſu, vel à conjugatis argu Locuus à pri Rurſus ſit in quæſtione pofitum: An ſit pro- menta ducuntui; neque ab ipſa propriè atque vatione prium oculos habentium videre, dicam miniinè: conjunctè, neque ab his quæ ſunt extrinſecus eos namque qui vident, aliàs etiam cæcos eſſe polica videntur trahi, fed ex ipſoruin calibus, id contingit. Nain in quibus eſt habitus,in eiſdem eſt, quadam ab iplis levi immutatione deductis: poteriteſſe privatio; & quod eſt proprium, non Jure igitur hi loci medii inter eos, qui ab iplis, poreſt àſubjecto diſcedere. Etquoniam venien- & eosquiſunt extrinfecus, collocantur. te cæcitate viſus abfcedit:non effe proprium ocu Reſtat locus à diviſione, qui tractatur hoc mo- Locus è divi. los habentium videre convincitur. Quæſtio de de. Omnis diviſio vel negatione fit, vel parti- fione fisvel proprio. Propofitio, ubi privatio adetle poteft tione; ut ſi quis ita pronuntiet: omne animal negatione,vel Partitione & habitus, proprium nonelt. Locus ab oppofi- aut habet pedes, autnon haber. Partitione verò, tis, ſecunduin habitum ac privationein. velut ſi quis dividat: omnis hoino aut ſanus, aut Zocus à rela. Rurſus ſit in quxſtione pofitum, an patris fit æger eft. Fit autem univerfa divifio, vel, ut ge proprium procreatorem eſſe, dicain rectè videri: neris in ſpecies, vel.totius in partes, vel vocis in quia filii eſt propriuin procrcatum efle; ut enim proprias ſignificationes, vel accidentis in ſubje ſeſe habet pater ad filium, ita procreatus ad pro- cta, velſubjecti in accidentia, vel accidentis in Creatorem. Quæſtio de proprio. Propofitiomaxi- accidentia. Quorum omnium rationemin meo ma: ad ſe relatorum propria, & ipſa ad ſe refe- libro diligentius explicavi, quem de diviſione Libram dedi runtur. Locus à relativis oppofitis. Locus ab af compoſui:atque idcircoad horuin cognitionem vifione com pour celſis formatione e Item fit in quæſtione politum, an lit ani- congrua petantur exempla. Fiunt verò argumen - dow negatione. malis proprium moveri, negem: quia nec tationes per diviſionem, tun ea ſegregatione,  Ed. in ani- inaniinati quidein eſt proprium non moveri. qux per negationem fit, cum ea quæ per parti mali. Quæſtio de proprio. Propofitio inaxiina: op- tionem. Sed qui his diviſionibus utuntur, aut di politorum oppoſitaeſſe propria oportere. Ló- re& tâ ratiocinatione contendunt: aut in aliquid cus ab ppolitis, ſecundum affirmationem ac impoſibile atque inconveniens ducunt, atque negationem; moveri enim & non moveri, ſe- ita id quod reliquerant, rurſus adſumunt. cundum affirmationem negationémque fibimmer Quæ faciliùs quiſque cognoſcer, li prioribus opponuntur. Analiticis operam dederit: horum tamen in præ Ex tranſſumptione verò hoc modo fit: cùm ex fentitalia præftabunt exempla notitiain. Sit in transJumptio. histerminis in quibus quæſtio conſtituta eft,ad quæſtionepropoſituin, an ulaorigo fit temporis: aliud quidem notius dubitatio transfertur; atque quod qui negare volet, id nimirum ratiocinatio ex ejus probationeea, quse in quæſtione ſunt po- ne firmabit mallo, modo effe ortum:ídque dire ſita, confirmantur; ut Socrates, cùin quid pof- &tâ ratiocinatione monftrabit, hocmodo: quo ſet in unoquoque juſtitia, quæreret; omnein niain mundusærernus eſt (id enim pauliſper ar tractatum ad reipublicæ tranſtulit inagnitudi- guinenti gratiâ concedatur ) mundus verò fine nem; atque ex co quodilla efficeret infingulis, tempore effe non potuit, teinpus quoque eſt æter etiani valere fitinavit. Qui locus à roro forſican num: ſed quod æternum eſt, carerorigine: tem eſſe videretur: ſed quoniam non inhæret in his, pus igitur orignem non habet. Atſi per impolli de quibus proponitur terminis, fed extra poſita bilitatein idem deſideretur oſtendi, dicetur hoc res, hoc tantum quianotior videtur, affumitur; modo. Sitempus habet origineni,non fuit ſemper idcirco ex tranſfumptionelocus id convenienti teinpus: fuit igitur, quando non fuit rempus, ſed vocabulo nuncupatus eft. Fit verò hæc tranſlum- fuiffe ſignificatio eſt temporis; fuit igitur tein prio &in nomine, quoties ab obfcuro vocabulo pus, quando non fuittempus: quod fieri non ad notius transfertur argumentatio, hoc modo; poteft; non igitur eſt ulluin temporisprincipiuin ut ſi quæratur, an philoſophus invideat, fitque pofitum. Namque, ut ab ullo principio cæpe ignotum quid philoſophi ſignificet nomen, dice- rit, inconveniens quiddam atque impoffibile mus ad vocabulum notius transferentes, non in- contingit fuiſſe teinpus, quando non fuerit videre qui ſapiens ſit; notius enim eſt fapientis tempus. Reditur igitur ad alterain partein, vocabuluin, quàm philofophi. Ac de his qui- quod origine careat: fed hæc quæ ex negatio dem locis qui extrinfecus aſſumuntur, idoncè di- ne diviſio eſt, cùm per eam quælibet argu ctuin eſt: nunc de mediis diſputabitur. menta ſumuntur, nequit fieri, ut utrumque fit,, quod affirinatione & negatione dividi De Mediis. tur: itaque ſublato uno, alterum manet; pofi tóque altero reliquum tollitur: vocaturque hic à Ex quibus Medii enim loci ſumuntur vel ex calu, vel ex diviſione locus, medius inter eos qui ab ipfis conjugatis, vel ex diviſione naſcentes. Caſus duci folent, atque eos qui extrinſecus adſumun Sumantur. Quid fit eſt alicujus nominis principalis inflexio in adver- tur. Cùm enim quæritur, an ulla temporis lit bium: uràjuſtitia inflectitur juſtè, cafus igitur origo, ſumit quidem eſſe originem; & ex eo pet Quid Conju- eſt juſtitia,id quod dicimus juftè, adverbium. propriamconſequentiam à re ipſa,quæ quæritur, Conjugata verò dicuntur, qux abeodein diver- htimpoſſibilitatis & mendacii fyllogiſmus;quo fo modo ducta Auxerunt:ut à juſtitia, juftum; concluſo reditur ad prius, quod verum eſſe ne hæc igitur inter ſe & cum ipſa juſtitia conjugara ceſſe eſt; fiquidem ad quod eioppofitum eſt, ad dicuntur, ex quibus omnibus in promptu lunt impoſſibile aliquid inconvenienſque perducit. argumenta. Namfi id quod juftum eft, bonum Itaque quoniam ex ipfa re, de qua quæritur, fieri eſt; & id quod juſtè eſt, benè eſt; & qui juftus fyllogiſmus folet, & quali ab iplis locus eft du eft, bonus cft, & juftitia bona eſt; hæc igitur cus: quoniam verò non in eo permanet, fed ad locis Medii Calus. gaid. politum De Dialectica. 577 BA tis li 1. nd 20 je 18 19 100. TOR: OK parti 17 10.3. pofitam redit, quafi extrinſecus fumitur: idcirco Quibus ita popofitis inſpiciatRus nunc cos lo: igitur hic à diviſione locus inter utrumque me cos', quos duduin extrinfecuspronuntiabamus Delocis eta dius collocatur. affuini; ea enim, quæ extrinſecus affumuntur, frempris,, of Loci ex par Ac verò hi qui ex partitione funiuntur, multi- non ſunt ita ſeparata atquedisjuncta, ut non ali nitione fum- plici funt modo. Aliquotiens enim quæ divi quandoquali è regione quadam, ca quæ quærun qua dintre pri,maisiplici duntur, fimul effe poffunt; ut fi vocem in figni- tar, afpiciant. Nam & funilitudines & oppofita frunt modo. ficationes dividamus, oinnes fimul eſſe poſſunt: ad ea lme dubio referuntur, quibus ſimilia vel op veluti cum dicimus amplector, aut actionein li polica funt, licet jure atqueordine videantur ex gnificat, aut paffionem; utrumque finul lignifi trinſecus collocata. Sunt autem hæc, ſimilitudo, care poteft. Aliquotiens velut in negationis mo- oppoſitio, magis,ac minus, rei judicium. In ſimi do, quæ dividuntur fimul eſſe non poffunt; ut litudine enimcum rei fimilitudo, tum propor fanus eſt, aut æger. Fitautein raciocinatio in tionis ratio continetur. Omnia enim fimilitudi priore quidem mododivilionis, tum quia omni- nem tenent. bus adeſt quodquæritur, vel non eft: tum verò Oppolica verò in concrariis, in privationibus; idcirco alicui adeſſe, vel non adeffe quod aliis ad in relationibus, in negationibus conſtant. Com ſit, vel minimè. paratio verò majoris ad minus quædam quali ſi Nec in his explicandis diutiùs laboramus, fi miliuin diffimilitudo eft; rerum enim per fe finni prioresReſolutorii, vel Topica diligentiùs inge- lium in quantitate diſcretio majus fecit ac minus, nium le& oris inftruxerint. Nam fi quæratur, Quod enim omni qualitate, omnique ratione utrum canis fubftantia fit, atque hæc divifio fiar: disjunctum eſt, id nullo modo poterit compara canis vel latrabilis animalis eſt velmasinx belluæ, ri. Exrei verò judicio quæ ſunt argumenta, quaſi vel cæleftis lideris nomen e demonftraretque per teſtinionium præbent, & ſunt inartificiales loci ſingula & canem latrabilem fubftantiam eflc,ma- atque omnino disjuncti; nec rem potius, quàm rinam quoquebelluam, & cælefte fidus ſubſtantiæ opinionem judiciúmque fectantes. Tranſſum poffe fupponi,nonftravit canem eſſe fubftantiam. ptionis verò locus nunc quidem in'æqualitate, Acque hic quidem ex ipfis in quæſtione propoſi- nunc verò in majoris minoriſve.comparatione tis; videbitur argumenta traxiſſe. At in talibus conſiſtit; aut enim adid quod eſt finile, aut ad id fyllogiſmis, aut fanus eſt aut æger: ſed fanus eft, quod eſt majus aut minus, fit arguinentorum raa non eft igitur ager: ſed fanus non eft, rgerigi- fionumque tranſſumptio. cur eſt; velica: liæger eft, fanus igitur non eſt; Hi verò loci quos mixtos eſſe prædiximus, aut De locismist velita: fi æger noneft, fanus igitureſt. Ab his ex caſibus, autex conjugatis, aut ex diviſionenaſ- sis. * M5$. in- quæ funt* extrinſecusſumptus eſt ſyllogiſmus,id cuntur: in quibus omnibus conſequentia, & re trinfecu. elt,ab oppoſitis. Idcirco ergo totus hic àdiviſio- pugnantia cuſtoditur. Sed ea quidem,quæ ex defi ne locus inter utrofque medius eſſe perhibetur: nitione, vel genere, vel differentia, vel caufis quia ſi negatione fit conftitutus, aliquo inodo arguinenta ducuntur, demonftratione maxiinè quidem ex ipfis fumitur, aliquo modo ab exte- fyllogiſinis vires atque ordinem ſubminiſtrant: tioribus venit. Si verò à particioneargumenta reliqua verò verifimilibus ex dialecticis. Atque ducuntur; nunc quidem ab ipfis, nunc verò ab hi loci maximè, qui in corum fubftantia ſunt, de exterioribus copiam præſtant: quibus in quæſtione dubitatur, ad prædicativos Etca Græci quidem Themiſtii diligentiſſimi ac fimplices:reliqui verò ad hypotheticos & con ſcriptoris ac lucidi, & omnia ad facultatem intel- ditionalesreſpiciuntfyllogiſmos. Partitio locou ligentiæ revocantis, talis locorum videtur effe Expeditis igitur locis,& diligenter tam defini partitio. Quæcùm ita fint, breviter mihi loca- tione, quàm exemplorum etiam luce parefactis, rum divifio coinmemoranda eſt, ut nihil præte- dicendum videtur, quomodohiloci maximarum rea relictum eſſe monftretur, quod non intra cam ſint differentiæ propoſitionum, idque brevi; ne probetur effe inclufum. De quo enim in quali- que enim longå diſputatione res eget. Omnes bet quæſtione dubitatur, id ita firınabitur argu- enimmaxiinæ propoſaiones,vel definitiones, in mentis; ut ea vel ex his ipfis fumantur, quæ in eo quòd ſunt maximæ, non differunt: ſed in ed quæſtione ſunt conſtirura, vel extrinfecus ducan- quòd hæ quidein à definitione, illæ verò à genere, tur vel quaſi in confinio horum pofita veſtigen- vel aliæ veniant ab aliis locis, & his jure differre; tur. Ac præter hanc quidem diviſionein nihil ex- hæque earum differentiæ eſſe dicuntur. tra inveniri poteſt: ſed ſi ab ipſis fumitur argu mentum, aut ab ipſoruin neceffe eſt ſubſtantia De Topicis. fumatur, aut ab his quæ ea conſequuntur, aut abhis quæinſeparabiliter accidunt,veleis adhæ- Topica ſunt argumentorum ſedes, fontes fen- Quid fire ſubſtantia ſeparari ſejungique fuum, origines dictionum. Itaque licet definire Topica. vel non poffunt, vel non folent. Quæ verò ab locum eſſe argumentiſedem: argumentum aucem corum fubftantiaducuntur, ca aut in deſcriptio- rationem, quæ reidubiæ faciat ħdem. Et funt ar- Quibus ex aut in definitione ſunt; & præter hæc, à no- gumenta aut in ipfo negotio, dequo agitur: aut rebus argi minis interpretatione. Quæ verò eavelur ſub- ducuntur exhis rebus, quæquodanmodoaffectæ menta ernano ftantias continentia conſequuntur, alia ſunt, vel ſunt ad id,de quo quæritur; & ex rebus aliis tra ut generis, vel differentiæ, vel integræ formæ, &tæ nofcuntur: aut certè affumuntur extrinſecus. vel fpecierum, velpartiumloco circaca, quæ in- Ergo hærentia loca argumentorum in eo ipfone- Ex locis han quirantur, alliſtunt. Item, vel caufæ, vel fines, gotio funttria,id eſt, à toto, à partibus, à nota. rentibus & vel effectus, vel corruptiones, vel uſus,vel quan A toto eft argumentum etiam,cùm definitio ad- ſunt tria. ticas, vel tempus, vel fubliſtendimodus. Quod hibetur adid, quod quæritur; ſicut ait Cicero, * Ed. exfc. verò propriè inſeparabile, vel adhærens, acci- Gloria eſt laus rectè fa &torum, magnorúmque in dens nuncupatur, id in communiter accidentibus rempublicam fama meritorum: * ecce quia gloria numerabitur. Et præter hæc quid aliud cuiquam totum eſt, per definitionem oſtendis, quid lis inelle pollit, non poteft invenici. gloria. Dddd firs 218 - am Timr. 578 Caffiodorus tredecim. Argumentum à partibus ſic; utputa, ſi oculus A repugnantibus arguinentum eſt, quando videt, non ideo totuin corpus videt. illud quod objicitur,aliqua contrarietate deftrui A nota autem fic ducitur argumentuin, quod tur; ut Cicero dicit:Is igitur non inodò à te per Græcè Etymologia dicitur: Siconſul eſt,qui con- riculo liberatus, ſed etiam honore ampliſſimodi ſulit reipublicæ, quid aliud Tullius fecit,cùm ad- tatus, arguitur domi ſuæ te interficere voluiffe. fecit fupplicio conjuratos? A cauſis argumentum eſt, quando ex conſuetu Exipfis rebus Gex rebus Nuncducunturargumenta & ex his rebus, quae dine communi res quæ tractatur, fieri potuiſſe aliis, e junt quodammodo affectæ ſunr adid, de quo quæri- convincitur; ut in Terentio: Ego nonnihil veri & ex rebus aliis tra &tæ nofcuntur: & funt tus ſuin dudum abs te Dave, ne faceres, quod loca tredecim, id eſt, alia à conjugatis, alia à ge- vulgus fervorum folet, dolis ut ine deluderes. nere, alia à forma generis, id eft, fpecie, alia à Ab effectibus ducitur argumentum, cùm ex his Limilitudine, alia à differentia, alia ex contrario, quæ facta ſunt, aliquid adprobatur; utin Virgi alia à conjunctis, alia ab antecedentibus, alia à lio: Degeneres animos timor arguit; nam timor conſequentibus, alia à repugnantibus, alia à cau- eſt caula, ut degener (ic animus, quod ciinoris fis, alia ab effectibus, alia à comparatione inino- effectum eſt. rumi, majorum, aut parium. A comparatione argumentuin ducitur, quando Primò ergo à conjugatis argumentum ducatur. per collationem perfonarum live caufarum, fen Conjugata dicuntur, cùm declinatur à nomine, tentiæ ratio confirmatur, & à majori ratione hoe & fit verbun; ut Cicero Verrem dicit everriſſe modo, ut in Virgilio: Tu potes unanimes arna provinciam: vel nomen à verbo, cùmlatrocinari rein prælia fratres. Ergo qui hoc in fratribus po dicitur latro: aut nomen à nomine; ut Terentius: teft, quanto magis in aliis?'A minorum compa Inceptio eſt amentium, haud amantium, ratione; ſicut Publius Scipio Pontificem maxi A genere argumentum eſt, quando à re gene- mum Tiberium Gracchum non mediocriter labe rali ad ſpeciem aliquam deſcendit: ut illud Virgi- factantem ſtatum reipublicæ privatus interfecit. lii, Varium & mutabile ſemper fumina: potuit A pariuin comparatione;lic Cicero, in Piſone &Dido, quod eſt ſpecies, varia & mutabilis nihil intereſſe, utrum ipſe conſul improbis con eſſe. Velillud Ciceronis, quod fecit argumen- cionibus, perniciofis legibus rempublicam vexer, tum, deſcendens à genere ad ſpeciem:Nam cùm an alios vexare pațiatur. omnium provinciarum ſociorúmque rationem Extrinſecus verò affumentur argumenta hæc, De Argu diligenter habere debeatis, tuin præcipuè Siciliæ, quæ Græci år give vocant, id eſt, inartificialia, meniis ex judices. quod teitimonium ab aliqua externa re fumitur frin'ecus afa fumptis. Aſpecie argumentumducitur, cùmgenerali ad faciendam fidem; & prius. quæſtioni fidem fpecies facit; ut illud Virgilii: A perſona, utnon qualifcuinque lit, ſed illa An non fic Phrygius penetrat Lacedæmonapa- quæ teitimonii pondus habet adfaciendam fi ftor? quia Phrygius paſtorſpecies eſt; & fi iftud dem, fed & morum probitate debet effe lauda ille unusfecis, & alii hoc Trojani generaliter fa- bilis. tere poffunt. A natura auctoritas eſt, quæ maxima virtute A ſimili argumentum eft, quando de rebus conſiſtit; & à tempore funt, quæ afferant aucto aliquibus fimilia proferuntur; ut Virgilius. ritatem; ut ſunt ingenium, opes, ætas, fortu Suggere tela inihi, nam nullum dextera fruftra na, ars, uſus, necellitas, concurſio rerum for Torſerit in Rutulos, fteterintque in corporc tuicaruin. Grajum A dictis fačtíſque majorum petitur fides: cùm Iliacis campis. priſcorum dicta factáque memorantur. A differentia argumentum ducitur, quando Et à tormentis fides probatur, poft quæ neme per differentiam aliquæ res feparantur; Virgilius: creditur velle mentiri. Non Diomedis equos, nec curruin cernis Achil lis. De Syllogiſmis. A contrariis argumentum ſumitur, quando res diſcrepantes fibimet opponuntur; ut Teren Prima figura modos haber quatuor, qui uni tius: Nam fi illum objurges, vitæ qui auxilium verfaliter vel particulariter affirmativam vel ne tulit, quid facies illi qui dederit damnum aut gativam concludent. malum? Secunda item quatuor modos, qui ab negativa A conjunctis autem fides petitur argumenti; concludent, five univerſaliter live particulariter. cùm quæ lingula infirma ſunt, fi conjungantur Tertia figura haber ſex modos, qui affirmative vim veritatis affumunt; ut, quid accedit ur tenuis vel negativè, ſed particulares facient copclufio ante fuerit, quid fi ut avarus, quid fi ut audax, nes. quid fi ut ejus, quiocciſus eſt, inimicus? Singula Ergo primæ figuræ modus primuseſt, qui con hæc quia non ſufficiunt, idcirco congregata po- ficitur ex duabus univerſalibus affirmativis, ha nuntur, ut ex multis junctis res aliqua confir- bens concluſionem univerfaliter affirmativain, hoc modo. Ab antecedentibus argumentum eft, quando Omne bonumeft amabile. aliqua ex his quæ priùs gefta funt, comproban Omne juftum eft bonum. tur; ut Cicero pro Milone:Cùm non dubitaverit Omne igitur juftum eft amabile. aperire quid cogitaverit, vos poteſtis dubitare Secundus modus figuræ primæ conficitur ex quid fecerit? præceſſit enim prædictio,ubi eft ar- univerſali abnegativa, & univerfali affirmativa, gumentum, & fecutuin eſt factum. habens concluſionem univerſaliter, hoc modo. A confequentibus verò arguinentum eſt, quan Nullus rifibilis eft irrationalis. do pofitam rem aliquid inevitabiliter conſequi Omnis homo eft riGbilis. tur; ut fi mulier peperit, cum viro concubuit. Nullus igitur homo eſt irrationalise. metur. De Dialectica. 579 Tertiusmodusprimæ figuræ eſt, qui conficitur gationem particularem concludit, hoc modo. ex univerſali affirinativa, & particulari affirma Quidam homo non eſt albus. tiva, particularem affirmativam concludens, hoc Omnis homo eft animal. modo. Quoddam igitur animal non eſt albumi Omne animal movetur. Sextus modus tertiæ figuræ eſt, qui ex univer Quidam homo eſt animal. ſali negativa, & particulari affirmativa particula Quidam igitur homo movetur. rem negativam concludir, hoc modo. Quartusmodusprimæ figuræ eſt, qui confi Nallus homo eft lapis. citur ex univerſali abnegativa, & particulari affir Quidain homo eſt albus. mativa, particularem abnegativam concludens, Quoddam igitur album non eſt lapis. hoc modo. Demonftrati ſunt omnes modi trium figuraru:n Nullum inſenſibile eſt animatumi categorici fyllogiſmi, licet quidam primæ figuræ Quidam lapis eft inſenſibilis. aliosquinque modos addiderint. Quidam igitur lapis non eſt animatus. Secundæ verò figuræprimus inodus eſt, qui ex De Paralogiſmis. univerſali abnegativa, & univerſali affirmativa Paralogiſmi verò primäe figuræ ita fiunt,ex prio concludit hoc modo univerſale abnegativum. ri affirmativa univerſáli, &fecunda negativa uni Nullum maluin eſt bonum. verfali. Omnis homo eft animal: nullú animal eſt Omne juſtum eſt bonum. lapis: nullus igitur homo lapis eſt. Et quiamuta Nullum igitur juftum eſt malum. to termino &univerfale & particulare concludet Secundæ verò figuræ ſecundus modus eſt, in & negativaļn & affirmativam: ob hoc eſt inutilis quo ex univerſalipriore affirmativa, & pofteriore approbatus idem paralogiſmus,quiex duabus ne univerſali abnegativa conficitur univerfalis abne- gativiş univerſalibus fit hoc, modo. Nullus lapis gativa concluſio, hoc modo., animal eft: nullum animal immobile eft: nullus Omne juftum eft æquum. igitur immobilis eft lapis. Nullum malum eſt æquum, Idem paralogiſmus, qui ex duabus particulari Nullum igitur malum eſt juſtum. bus affirmativis fit hocmodo: Quidam equus Tertius ſecundæ figuræ modus, qui ex priore animal eſt: quoddam animal bipes eſt: quidam univerſali negativa,& pofteriore particulari affir- igiturequusbipes eſt. Rurſum ex duabus parti inativa, negationem colligit particularem, hoc cularibus negativis họcmodo: Quidam homo al modo. bus non eft: quoddam album non movetur: qui Nullus lapis eſt animal. dam igitur homo non movetur. Quædam ſubſtantia eſt animal. Dein, fi prior affirmativa particularis, & ſecun Quædá igitur ſubſtantia non eſt lapis. da negativa particularis fuerit, hoc modo: Qui Quartus moduseſt ſecundæ figuræ, qui ex affir- dam equus animal eſt: quoddam animal quadru mativa priore univerſali, & pofteriore particu- pesnon eſt: quidam igitur equus quadrupes non lari negativa, particularem negationem conclu- elt. dit, hoc modo. Idem,li prior negativa particularis, ſecunda Omne juſtum eſt rectum. affirmativa fuerit particularis,hoc modo: Quidam Quidam homo non eft rectus. homo equus non eſt, quidam equus immobilis Quidam igitur homo non eſt juſtus. eſt; quidam igitur homo immobilis eſt. Primus modus tertiæ figuræ eſt, qui ex duabus Idem, fi major propofitio affirmativa fuerit uni univerſalibusaffirmativis, particularem affirmati- verſalis, & minor propoſitio negativa fuerit par vam concludit: quia univerſalem affirmativam ticularis, paralogiſmus erit, hoc modo: Omnis licet in particularem affirmativam converti, hoc homo animal elt, quoddam animal rationabile modo. non eít, quidam igitur homo rationabilis non eft: Omnis homo eſt animal. At verò ſi major fuerit propoſitio univerſalis Omnis homo eſt ſubſtantia. negativa, & minor particularis fuerit negativa; Quædain igitur ſubſtantia eſt animal. nullus poterit eſſe fyllogiſmus, hocmodo:Nuli Item ſecundus modus tertiæ figuræ eft, in quo lus lapis animal eſt, quoddam animal pinnatum ex univerſalinegatione & univerfali affirmacione eft, nullus igitur lapis pinnatuseſt. fit particularis negativa concluſio. Rurſus, li primafuerit particularis, ſecunda Nullus hoino eſt equus. verò univerſalis, & utræque affirmativæ propofi Omnis homo eſt ſubſtantia. tiones, non erit syllogiſmus, hoc modo: Qui Quædá igitur fubftantia non eft equus. dam lapis corpus eſt, omne corpus menfurabile Tertius modus člttertiæ figuræ, qui ex particu- eſt, quidam igitur lapis inenfurabilis eſt. lari & univerſali aftırmativis parcicularem affir Idem,liprima fuerit particularis propoſitione mativam concludit, hoc modo. gativa, & fecundauniverſalis negativa, non erit Quidam hoino eſt albus. fyllogiſmus, hoc modo: Quoddam animal bipes Omnis homo eſt animal. non eft, nullum bipes hinnibile eſt, quoddam -Quoddam igitur animal eſt album. igitur animal hinnibile non eſt; Quartus verò modus tertiæ figuræ eft, qui ex Idem, ſi prior affirmativa particularis, ſecunda univerſali &particulari affirmativis, particulare negativa univerſalis propolițio fuerit; ſyllogif, affirmativum concludit, hoc modo. mum non facit; hocmodo: Quidamn lapis inſen Omnis homo eſt animal. farus eſt, nullum inſenſatuin vivit, quidam igi Quidam homo eſt albus. tur lapis non vivit. Quoddam igitur album eſt animal. Idem, li prior negativa particularis propoſitio Quintus verò modus tertiæ figuræ eſt, qui ex faerit, & fecunda attirnativa univerſalis, para „particulari negativa, & univerſali affirınativa ne- logiſinus erit, hoc modo: Quoddam nigrunani. Dddd ij M cha 1 Caffiodorus non cſt. lis eft. anarum non eſt, omne animatum movetur, quod- Confirmationem, Reprehenſionem, Peroratio dam igitur nigrum non movetur. Et de finitis nem. Quæ partes inſtrumenta ſunt Rhetoricæ fa propolitionibus fyllogiſmus non fit, quia parti- cultatis: quoniam Rhetorica in omnibusſuisſpe culares fimiles ſunt. ciebus ineft, & ſpecies eidem inerunt. Nec po tiùs inerunt, quàm eiſdem ea, quæ peragunt, ad Omnes propofitiones his modis conftant. miniſtrabunt. Itaque & inJudiciali genere cau faruin neceffarius eft ordo Proemii, & Narra Id eſt, Simplices, ita. Contraria. tionis, atque cæteroru: n; & in Demonſtrativo, Omnis homo juſtuseſt. Nullus homojuſtus eſt. Deliberativóque neceſſaria ſunt. Opus auté Rhe- o "uis Rhero Quidam homo juſtus Quidam homo juſtus toricæ facultatis,docere & movere: quod nihilo- rice of move. eſt. minus iiſdem ferè rex inftrumentis, id eft oratio- re docere, Contradictoria. nis partibus, adıniniftratur. Partes autem Rho Omnis homo rationalis Nullus homo rationa- toricæ, quoniam partes ſunt facultatis, ipfæ quo eſt. que ſunt facultates; quocirca ipfæ quoque ora Quidam homorationa- Quidam hoino ratio- tionis partibus, quali inſtrumentis utentur. lis eft. halis non eft. Atque ut his operentur, eiſdem inerunt. Nam Ex utriſque terminis infinitis. Omnis non in exordiis niſi quinque ſint ſupradictæ Rhetori homo non rationalis eſt. Nullus non homo non cæ partes; utinveniat, eloquatur, diſponat, me rationalis eſt. Quidam non hoino non rationa- minerit, pronuntiet, nihil agit orator. Eoden lis eſt. Quidam non hoino non rationalis non eſt. quoque modo & reliquæ ferè partes inſtrumenti, Item ex infinito ſubjecto:Omnis non homo nili habeant omnes Rhetoricæ partes, fruſtra. Tationalis eft. Nullus non homo rationalis eſt. funt. Hujus autem facultatis effector, orator eſt: Quidam non homo rationalis eſt. Quidaın non cujus eft officium dicere appoſitè ad perſuaſio hoino rationalis non cft. nein: finis tum in ipſo quidem bene dixiſſe, id Item ex infinito prædicato: Omnis homo non eſt, dixiſſe appolitè ad perſuaſionem: altera rationalis eſt. Nullus hoino non rationalis eft. verò perſualifie. Neque enim fi qua impediant Quidam homo non rationalis eſt. Quidam homo oratorem, quominus perfuadear, facto officio, non rationalis non eſt. finem non elt confequutus:ſed is quidem, qui Item quæ conveniunt: Omnis homo rationalis officio fuit contiguus & cognatus, conſequitur, eſt. Nullus hoino non rationaliseſt. Onnis ho- facto officio. Is verò, qui extrà eſt, ſæpe non mo non rationalis eſt. Nullus homo non ratio- confequitur: neque tamen Rhetoricam ſuo fine nalis eit. Quidam homorationalis eſt. Quidam contentam,honore vacuavit.Hæc quidem ita ſunt homo non rationalisnon eſt. Quidam homo non mixta, ut Rhetorica infit fpeciebus, ſpecies verò rationalis eft. Quidam homo non rationalis non infint cauſis. eſt. Cauſarum verò partes ſtatus effe dicuntur: quos Canlari Item. Omne non animal non homo eſt. Nul- 'etia: aliis nominibus cum conſtitutiones, tum partes flares dicuntár, lum non animal non homo eſt. Quiddam non quæftiones nominare licet:qui quidem dividun animal non homo eſt. Quiddam non animalnon tur ita, ut rerum quoque natura diviſa eſt. Sedà fiones. homo non eſt. principio quæſtionum differentias ordiamur: Item converfæ ex prædicato infinito. Omne quoniain Rhetoricæ quæſtiones circunſtanciis non animal homo eſt. Nullum non animal homo involutæ ſunt omnes, aut in fcripti alicujus con eit. Quoddain non aniinal homo eſt. Quoddamn troverſia verfantur, aut præter fcriprum ex re ipſa... non animal hoino non eſt. fumunt contentionis exordium, Item converfæ ex infinitoſubjecto. Omne ani Et illæ quidem quæſtiones,quæ in ſcripro ſunt, Queflionesia pro quin mal non homo eſt. Nullum animal non homo quinque inodis fieri poffunt. Unoquidem, cùng eft. Quiddam animal non homo eſt. Quoddam hic ſcriptoris verba defendit, & ille ſententiains i polliams. aniinalnonhomo non eft. atque hic appellatur ſcriptum, & voluntas, Item propoſitiones indefinitæ. Homo juſtus Alio verò, fi inter fe leges quadain contrarieta eſt. Hoino juſtus non eſt. te diffentiunt, quarum ex adverſa parte aliæ de Indefinitarum propoſitiones cum ſubje& o in- fendunt, aliæ faciunt controverſiam; atque hic finito. Non hono juſtus eſt: Non homo juſtus vocatur ftatus legis contrariæ. non eſt. Tertio, cùin fcriptum, de quo contenditur, Ex prædicato infinito. Homo juſtus non eſt. fententiam claudit ambiguam: ambiguitas ex ſuo Homonon juſtus non eft. nomine nuncupatur. Ex utriſque terminis infinitis. Non homo Quarto verò, cùm in eo quod ſcriptum eſt,aliud non juſtus eſt. Non homo non juſtus non eſt. non fcriptum intelligirur; quodquia per ratioci Propoſiriones ſingulares vel individuæ. Plato nationein & quamdam ſyllogiſmiconſequentiam juſtus eſt. Plato juſtus non eſt. veſtigatur, ratiocinativus vel fyllogiſmnus di Ex infinito ſubjecto. Non Plato juſtus eſt. citur. Non Plaro juſtus non eſt. Quinto, cùm ſermo ſcriptuseſt, cujus non fa Ex infinito prædicato. Plato non juſtus eſt. cilè vis ac natura clareſcat,niſidefinitione detecta Platonon juſtus non eſt. lit; hic vocatur finis in ſcripro; quos omnes à ſe Ex utriſque terminis infinitis. Non Plato non differre, non eſt noſtri, operiſve rhetorici demon juftus eſt. Non Plato non juſtus non eſt. ftrare. Hæcautem ſpeculanda doctis, non rudi bus diſcenda proponiinus: quamvis de eorum De locis Rhetoricis. differentia in Topicorum commentis per tranſi- Quationes Rhetorice tum differuerimus. Rhetorica oratio habet partes ſex, Procinium, Earum autem conſtitutionum, quæ præter fcri- prin masina plices, fex. quod Exordiumcft, Nacrationein, Partitionem, ptum in ipfaruin rerum contentione lunt politæ, corum dinzi modis fica præter fcri habet partes De Dialectica. 581 1 ses. riaicialis ita differentiæ ſegregantur,ut rerum quoque ip- lem partem vergant, defenfionis copiam non mi farum natura divila lit. In oinni enim Rhetorica niftrant; ex eiſdem enim locis accalatio defenſió. quæſtione dubitatur, an ſit, quid ſit, quale fit; & que confiftit. propterhæc,an jure, vel more poſſit exerceri judi Si igitur perſona in judiciam vocatur, neque ciuin. Sed li factum; velres quæ intenditur ab facta:n, dictúmve ulluin reprehenditur, cauſa eſte adverſario,negatur, quæſtio eſt utrùm fit ea; quæ non poteſt. Nec verò factum, dictúinve aliquod conjecturalis conſtirutio nominatur. Quod fi in judicium proferri poteſt, li perſona non exi factum quidem eſſe conſtiterit,ſed quidnain ſit id ftet. Itaque in his duobus omnis judiciorum ra quod factum eſt, ignoretur: quoniam vis ejus tioverſatur, in perfona ſcilicet, atque negotia definitione monftranda eſt, finitiva dicitur con- Sed, ut dictum eft, perſona eſt, quæ in judicium ftitutio. Ac fi &effe conftiterit, & de rei defini- vocatur: negotium, factum, dictúmveperſone, tione conveniat, fed quale fit inquiratur: tunc propter quod reus ftatuitur. Perſona igitur & ne quia cui generi ſubjici debet ambigitur, genera- gotiamſuggerere arguinenta non poſſunt;de ipſis lis qualitas nuncupatur. In hac verò quæſtione enim quæſtio eſt: de quibus autem dubitatur, ea & qualitatis, & quantitatis, & compatationis dubitationi fidem facere nequeunt Argumen ratio verſatur. Sed quoniam de gènere quæſtio tum verò erit ratio rei dubiæfaciens fidem. Fa, eſt, ſecundum generis formam in plura neceffe ciunt autem negotio fidem ea, quæ ſunt perſo eſt hujusconſtitutionis membra diſtribui. nis ac negotiis attributa. Ac fi quando perſona Omniis quito Omnis eniin quæftio generalis, id eſt, cùm de 'negotio faciat fidem,velutſi credatur contra rem ftio generalis in duas difiri genere, & qualitate,vel quantitatequæritut facti, publicam fenfifle Catilinam,quoniam perſona bnisur par in duas tribuitur partes. Nam aut in præcerito eſt vitiorum turpitudine denotata: tunc non iiz quæritur de qualitate propoſiti, aut in præſenti, eo quod perſona eſt, & in judicium vocatur, fia aut in futuro. Si in præterito, juridicialis con dem negorio facit, ſed in eo quod ex attributis Ititutio nuncupatur: fi præſentis vel futuri tem- perſonæ quandam ſuſcipit qualitatem. Sed ut re poris teneat quæſtionem,negotialis dicitur. rúin ordo clariùs colliquefcat, de circumſtantiis Quæftio Fun Juridicialis verò, cujus inquiſitio præteritum arbitror eſſe dicendum. refpicit, duabuspartibus fegregatur. Aut enim De Circumftantiis. duabus parti. in ipfo facto vis defenfionis ineft, & abſolurà Circunſtantiæ ſunt, quæ convenientis fubftan. Detircnm. buslegrégie qualitas nuncupatur: Aut extrinfecus affumitur, tiam quæſtionisefficiunt. Nifienim fit qui fece Gancias para & affumptiva dicitur conſtitutio. rit, & quod fecerit, cauſáque cur fecerit, locus, situr Cicero. Sedhæc in partesquatuor derivatur: aut enim tempúſque quo fecerit,modus, etiain facultas; conceditur criinen, aur removetur, aut refertur, que li delint,cauſa non ſtabit. Has igitur circum aur, quod eſtultimum, comparatur. Conceditur ftantias in geinina Cicero partitur, ut eam quæ crinen, cùm nulla inducitur facti defenſio, ſed eſt, quis, circumſtantiam in attributis perſone venia poſtulatur. Id fieri duobus modis poreſt, ponat: reliquas verò circumſtantias in attributis circumftan fi depreceris, aut purges. Deprecaris,cùm nihil negotio conititaat. Et primùın quidem ex cir excufationis attuleris. Purgas, cùım facti culpa cumftantiis, eam quæ eft, quis, quam perfonæ tia titur, Quispada cicina his adſcribitur'; quibus obliſti obviarique non attribuit, ſecar in undecim partes. Nomen, ut in undecim poffit, neque tamen perſona ſint; id enim in Verres, natura ut barbarus, victus utamicusno- partes. aliam conſtitutionem cadit. Sunt autem hæc, im- biliuin, perſona ut dives, ſtudium ut Geometra, prudentia, caſus, atque necellitas. cafus ut exul, affectio ut amans, habitus ut ſa Removeturverd criinen, cùm ab eo, qui in- piens, conſilium, facta, & orationes. Eáque cellitur, transfertur in alium. Sed remotio cri- extra illud factum dictúmque ſunt, quæ nunc minis duobus fieri modis poteft: fi aur cauſa re- in judicium devocantur. Reliquas verò cir fertur, aut factum. Caufa refertur, cùm aliena cumſtantias, quæ funt, quid, cur, quando,ubi, poteftare aliquid factum eſſe contenditur: faćtum quomodo, quibus auxiliis, in attributis negocio verò, cumalius aut potuiffe, aut debuiffe facere ponit. Quid, &cur, dicenscontinentia cum ipfo demonſtratur. Atque hæc in his maximè valent, negotio: cur, in cauſa conſtituens; ea enim cauſa fi ejus nominis in nos intendatur actio, quòd non eſt uniuſcujuſque fa &ti, propter quam factaeſt * MSS.pottat fecerimus id, quod * oportuit fieri. Refertur cri Quid verò, ſecat in quatuor partes. În ſum- Quidfeceria men, cuin jultè in aliquem facinus commiſlum iam tacti, ut parentis occifio. Exhac maximè quatuorpars * MSS.com- effe * conceditur:quoniam is, in quem commif- locus fumitur amplificationis ante factum; ut senditat. fum ſit, injuriofusfæpe fucrit, atque id quod in- concitus rapuit gladium: duon fit; vehementer tenditur, meruit pati. percuſſit. Poſt factum; in abdita fepelivit. Quæ Comparatio eft, cùin propter meliorem utilio- omnia cùın lint facta, tamen quoniain ad geſtum réinve rem factum, quod adverſarius arguit, negotiuin, de quo quæritur, pertinent, non ſunt commiffum effe defenditur. Atque hæchactenus: eafacta, quæ in attributis perſonæ numerara nunc de inventione tractandum eft. ſunt. Illa enim extra negorium, quòd extra poſi ta perſonam informantia fidem ei negotio præ De Inventione ſtant, de quo verſatur intentio: hæc verò facta, quæ continentia ſunt cum ipfo negotio,ad ipſuni Etenim priùs quidem Diale & icos dedimus, negotium; de quo queritur, pertinent. nunc Rhetoricos promimus locos, quos ex attri Poftreinas verò quatuor circamftantias Cicero In perſona, butis perſonæ ac negotio venire neceſſeeſt. Per- ponit in geſtione negotii, quæ eſt ſecunda pars & negotio fona, quæ in judicium vocatur, cujus dictum ali- attributorum negotiis. Et eam quidem circuin quod factúmve reprehenditur. Negotium; fa- ſtantiam, quæ eſt quando, dividit in tempus, ut putCie to Cuando, dia conftitute of. cum dictumveperfonæ, propter quod in judi- modò fecit; & in occaſionem,ut cunctis dormien- in tempus, so cium vocatur. Itaque in his duobus omnis lo- tibus. Eam verò circunftantiam quæ eſt ubi, lo- in occafionč.. * MSS.excu- corum ratio conſtituta eſt; quæ enim habent* re. cum dicit; ut in cubiculo fecir: quomodo verò, ſarionis. prehenſionis occaſionem, eadem nili ad excuſabi ex circuinftantiis inoduin ur clain fecit: omnis loco. tum ratio > 1 582 Caffiodorus 1 mus. fed de vo 1 quibus auxiliis circumftantiam, facultatem ap- ita adhærebant, ut ſeparari non poſſint;ut locus, pellat, ut cuin multo exercitu. Quorum qui- tempus, & cætera, quæ geſtum negotium non dem locorum & fiex circumſtantia rerum, natu- relinquunt. tulis diſcretio clara eft:nos tarnen benevolentiùs Hæc verò, quæ ſunt adjuncta negotio, non in faciemus, ſi uberiores ad ſe ditferentias oſtenda- kærent ipſi negotio, ſed accedunt circuinitantiis, & tunc demum argumenta præſtant, cùm ad com Nam cùm ex circumſtantiis alia M. Tullius parationem venerint: ſunant verò argumenta propofuerit effe continentia cum ipfo negotio: non ex contrarietate, fed ex contrario;& non alia verò in geſtione negorii, atque in continen- ex ſimilitudine, ſed ex ſimili, ut appareat ex re tibus cuin ipſo negotiv: illum adnurneraverit lo- latione ſumi arguinenta in adjunctis negotio; & cum quem appellavit, duin fit sex ipſa prolatio- ea eſſe adjunéta negotio, quæ funt ad ipſum, de nis fignificatione idem videtur elle locushic,dum quo agitur,negotium affccta. fit, cum eo, qui eſt in geſtionenegotii; ſed non Conſecutio verò, quæ pars quarta eft eorum, ita sft: quia dum fit, illud eft, quod eo tempore quæ negotiis attributa ſunt, neque in,iplis ſunt açimiſum eſt, dum facinus perpetratur, ut per- rebus, neque rerum ſubſtantiam relinquunt,ne ouſſit. Ingetione verò negotii, ca ſunt, quæ & que ex comparatione reperiuntur: ſed rem geftam ante factum, & dum fit, & poft factum, quod vel antecedunt, vel etiam conſequuntur. Atque eſtum eſt continent;in omnibus enim tempus, hic locus extrinſecus eſt. Primum eniin in eo. locus, occafio,modus, facultas inquiritur, Rur- quæritur id, quod factum eſt, quo nomine ap ſus dum fit, factuin eft, quod adininiftratur, eft pellari conveniat: in quo non de re, negotium:qux verò funt in geſtione negotii, non cabulo laboratur. Qui deinde auctores ejus facti ſunt facta, fed facto adhærent; in illis enim, teni- &inventores, comprobatores, atque æinuli, id pus, occaſionem, locum, modum, facultatein, totum ex judicio, & quodam teſtimonio extrin facta eſſe conſenſerit: fed, ur dictum eſt, qux ſecus políto, ad ſublidium confluit argumenti. cuilibet facto adhærentia fint, atque in nullo Deinde &quæ ejus rei ſit ex conſueto pactio, ju modo derelinquant: quia quadam ratione ſubje- dicium, ſcientia, artificium. Deinde natura cta funt ipſi, quod geſtum eſt, negotio. ejus, quid evenire vulgò ſoleat: an inſolenter & Item ea quæ funt in geſtione negotii, finchis, rardhomines id ſuâ auctoritate comprobare, an quæ funtcontinentia cum ipfoncgotio, eſſe poſ- offendere in his conſueverint; &cætera quæ fas funt. Poteft eniin & locus, & tempus, &oc- ctum aliquod fimiliter confeftim, aut intervallo cafio, & modus, & facultas facti cujuſlibet intel- folent conſequi: quæ neceſſe eſt extrinſecus po ligi, etiamſi nemo faciat, quod illo loco; vel fita ad opinionein inagis tendere, quam ad ipfam, temporc, veloccaſione, vel modo, vel facultate rerum naturam. fieri poſſet. Itaque ea quæfunt in geſtione nego Itaque in hæcquatuor licet negotiis attributa, tii, line his quæ ſuntcontinentia cum ipfo nego- dividere; ut fint partim continentia cum ipſo ne tio, effe poffunt. Illa verò line his eſſe non pof- gotio, quæ facta eſſe ſuperiùs dictum eſt: partim ſunt; facèum enim præter locum, tempus, occa- in geſtionenegotii, quæ non effe facta, fed factis fionem, modum, facultatémque efle non pote- adhærentia dudum monſtravimus: partim adjun rir. Atque hæcfunt, quæ in attribucis perſona eta negotio; hæc, ut dictum eſt, in relatione ac negotio confiftunt, velut in Dialecticis locis ponuntur: partim geſtum negotium conſequun ea, quæ in ipfis cohærent, de quibus quæritur: tur; horum fides extrinſecus fuinitur. Ac de reliqua verò quæ vel funt adjuncta negotio, vel Rheroricis quidem locis ſatis dictum. negotium geſtuin conſequuntur, talia ſunt, qua Nunc illud eſt explicandum, quæ ſit his ſimi-. Quid fat diain Dialecticis locis ca, quæ ſecundum Themi- litudocum Dialecticis, quæ veròdiverſitas;quod hobertura corean ſtium quidem partim rei ſubſtantiam conſequun- cùm idoneè, convenientérque monſtravero,pro- Dialecticisfa tur, partim funt extrinfecus, partim verſantur poſiti operis explicetur intentio. Primò adeo ut militudo,que in mediis; ſecundum Ciceronem verò inter affe- in Dialecticis locis, ficut Themiſtio placet, alii verè diverfi &a numerara ſunt, vel extrinſecus polita." funt, qui in ipſis hærent, de quibus quæritur: tab. Sunt enim adjuncta negotio ipfa etiam quæ fi- alii verò affumuntur extrinſecus, alii verò inedii quajiilem fa dem faciunt quæſtioni, affecta quodammodo ad inter utroſque locati ſunt; ſic in Rhetoricis quo cinn gafiio. id, de quo quæritur, reſpicientia negotium, de que locis, alii in perſona atque negotio conſi quo agitur, hoc modo. Nam circumſtantix ſtunt, de quibus ex adverſa parte certatur: alii feprem quæ in attributis perſonæ, vel negotio, verò extrinfecus, ut hi qui geſtum negotium con numeratæ funt, hæc cum cæperintcomparari,& fequuntur: alii verò medii. quafi in relationem venire, fi quid ad ſe conti Quoruin proximi quidem negotio funt hi, qui nens referatur, vel ad id quod continet, fit aut ex circumſtantiis: reliqui in geſtione negotii ſpecies, aut genus: fi id referatur,quod ab eo lon- conſiderantur. Illi veròqui in adjunctis negotio gillime diſtet, contrariun: at ſi ad finem ſuum collocantur, ipſi quoque intermedios locos pos atque exitum referatur, tum eventuscft. liti ſunt: quoniam negotium, de quo agitur, qua Eodem quoque modo ad majora, & minora, dam affectione refpiciunt. Vel fi quis ea quidem & paria comparantur. Atque omnino tales loci quæ perſonis attributa ſunt, vel quæ continentia in his quæ funt ad aliquid conſiderantur. Namn ſunt cum ipfo negotio, vel in geſtione negotii majus,autminus, alit lunile, aut æquèmagnum, conſiderantur; his lumilia locis dicat, qui ab ipfis aut diſparatum, accedunt circumſtantüs, quæ in in Dialectica trahuntur, de quibus in quæſtionc attributis negotio atque perſonæ numeratæ ſunt; dubitatur. Conſequentia verò negotio ponat ex ut dum ipfæ circumftantiæ aliis comparantur, fiat trinſecus. Adjuncta verò inter utrumque conſti ex iis argumentum facti dictive, quod in judi- tuat. cium trahitur. Diſtat autem à ſuperioribus, quòd Ciceronis verò diviſioni hoc modo fic fimilis, ſuperiores loci, vel facta continebant, vel factis Nam ea quæ continentia ſunt cum ipſo negocio, Sunt adjun Eta ucgorio, ni, 1 De Dialectica. Dialecticus verò non ita velea quæ in geſtione negotii conſidecantur, in do aliquid ſpecialiter probant, ad Rhetores, Poë ipſis hærent, de quibus quæritur. Ea verò, quæ tas, Juriſperitóſque pertinent. Quando verò ge adjuncta ſunt, inter affecta ponuntur. Sed ea quæ neraliter diſputant,ad Dialecticosattinere manis geitum negotiuin conſequuntur, extrinfecus feſtum eit. collocata ſunt. Vel Gi quis ea quidem, quæ con Mirabile planè genusoperis, in unum potuiſſe tinentia ſunt cum ipfonegotio, in ipſis hærere colligi, quicquid mobilitas ac varietas humanæ arbitretur:affecta verò effe ea,quæ funt in geſtio- mentis in fenlîbus exquirendis per diverſas cauſas ne negotii, vel adjuncta negotio: extrinfecus porerat invenire; concludi liberuin ac volunta verò ea, quæ geftum negotium conſequuntur. riun intellectum. Nam quocumque ſe verterit, Nam jam illæ perfpicuæ communitates", quod quaſcumque cogitationes intraverir, in aliquid quidem ipſi penè in utriſque facultatibus verſan- corum quæ prædicta ſunt, neceſſe eſt ut huma tur loci, ut genus, ut pars, ut ſimilitudo, ut con- num cadat ingenium. trarium, ut majus, ac minus. Decommunicati Illud autem competens judicavimus recapitu bus quidem ſatis dictum. lare breviter, quorum labore in Latinum elo Differentiæ verò illæ funt, quòd Dialectici quium res iftæ pervenerint; ut nec auctoribus etiam thelibus apti funt: Rhetorici tantùm ad gloria ſua pereat, & nobis pleniffimè reiveritas hypotheſes, id eft, quæftiones informatas circum- innoteſcat. Iſagogen tranſtulitPatriciusBoëtius, ftantiis affumuntur. Nain ſicut ipfæ facultates à commenta ejus gernina derelinquens. Cate femetipfis univerſalitate, & particularitate di- gorias idem tranſtulit Patricius Boëtius, cujus ſtinctæ ſunt: ita earum loci ambitu, & contra commenta tribus libris ipfe quoque formavit. ctione diſcreti ſunt. Nam Dialecticorum loco-. Peri herinenias fuprà inemoratus Patricius tran rum major eſt ainbitus; & quoniam præter cir- ftulit in Latinum: cujus commenta ipſe duplicia cumſtantias funt quæ fingulares faciunt cauſas, minutillimâ diſputatione tractavit.Apuleius verò non modò ad theſes utilesſunt, verumetiam ad Madaurenſis ſyllogiſmos categoricos breviter argumenta, quæ in hypothefibus polita ſunt, eof- enodavit. Suprà memoratus verò Patricius de que locos qui ex circumftantiis conſtanc,claudunt fyllogiſmis hypotheticis lucidiflimè pertractavit. atque ambiunt. Itaque fit; ut ſeinper egeat Rhe- * Topica Ariftotelis,uno libro Cicero tranſtulit in Hæcdefuitin tor Dialecticis locis? Dialecticus verò fuis poflit Latinum, cujus commentaprofpe & oratque ama- MSS. effe contentus. tor Latinorum Patricius Boëtius octo libris expo Semper eget Rherorenim quoniam cauſas ex circumſtantiis fuit. Nam & prædictus Boëtius Patricius eadem* Rhetor D4- tractat, ex iifdem circumftantiis argumenta præ- "Topica Ariſtotelis octo libris in Latinum vertic lecticislocis, fumit, quæ neceſſe eſt ab univerſalibus, & ſupli- eloquiun. cioribus confirmari, qui ſunt Dialectici. Diale &ti Confiderandum eft autem, quòd jam,quia lo cus verò, qui prior eft, polteriore non eget, nifi cus ſe attulit in Rhetorica parte, libavimus quid aliquando incideritquæftio perfonæ; ut cuin fit interſit inter artein & diſciplinain, ne ſe diver incidensDialectico ad probandam fuam theſim, fitasnominun permixta confundat. Interartem Que fa diften Cáufam circumſtantiis inclufam, tunc demum & diſciplinai Plato, & Ariſtoteles, opinabiles artem dif Rhetoricis utatur locis. Itaque in Dialecticis lo- magiftri fæcularium litterarum, hanc differen- ciplinam ſee ' cis (fi ita contingit) à genere argumenta fumun- tiam eſſe voluerunt, dicentes: Arrem cflc habitu- cundem Plaa tur,id eft, ab ipſa generis natura: fedin Rheto- dinem operatricem contingentium, quæ fe & Sonem ricis ab eo generequod illi genus eſt, de quo agi- aliter habere poffunt: Diſciplina verò elt, quæ Vide prefer tur; nec ànatura generis, ſed à re fcilicet ipſa,quæ de his agit, quæ aliter evenire non poffunt tionem Nunc ergo ad Mathematicæ veniamus initium. Sed ut progrediatur ratio, ex eo pendet, quòd natura generis antè præcognita eſt; ut fi dubite De Mathematica. tur, an fuerit aliquis ebrius, dicitur, fi tefellere velimus, non fuifle: quoniam in eo nulla luxu- ' Mathematica, quam Latinè poſſumus dicere luid fitMara ries antecefferit. Idcirco nimirum, quia cum ku- doctrinalem, ſcientia eſt, qux abſtractam con- in quas para xuries ebrietaſis quaſi quoddam genus fit, cui fiderat quantirarem. Abſtracta enim quantitas tes dividalun luxuries nulla fuerit, ne ebrietas quidem fuit: dicitur, quâ intellectus à materia ſeparátur, vel ſed hoc pender ex altero. Cur enim fi luxuries ab aliis accidentibus; ut eſt par, impar, vel alia non fuit, ebrietas eſſe non potuit, ex natura ge- hujuſcemodi, quæ in ſola ratiocinatione tracta neris demonftratur, quod Dialectica ratio ſub- mus, hæc ita dividitur ” miniſtrat. Unde enim genus abeft, inde etiain fpecies abelle necefle eft:quoniam genus fpecics r Arithmeticain, non relinquit. Ec de fimilibus quidem, & de contràriis, eo Muſicam. Diviſio Matheina dem modo, in quibus maxima ſimilitudo eft in ticæ in ter Rhetoricos ac Dialecticos locos: Dialectica Geometriam.. eniin ex ipſis qualitatibus, Rhetorica ex quali 1 tatem ſuſcipentibus rebus argumentaveſtigat; ut Aſtronomian. Dialecticus ex genere, id eft, ex ipfa generis na tura: Rhetor ex ea re, quæ genuseft. Dialecti Arithmetica; eſt diſciplina quantitatis numera Quid fit cus ex ſimilitudine, Rhetor ex funili, id eft, ex bilis fecuuduin ſe. Aruthinetica. ta re, quæ fimilitudinem cepit. Eodem modo Mufia eſt diſciplina, quæ de numeris loqui- QuidMufica. ille ex contrarietate, hic ex contrario. tur, qui ad aliquid ſunt his, qui inveniuntur in Memoriæ quoque condendum eft, Topica Ora- ſonis. toribus, Dialecticis, Poëtis, & Juriſperitiscom Gcometria, eſt diſciplina magnitudinis immo- Quid Geomes muniter quidem argumentapræftare: fed quan- bilis & fornarum. rentia inter genus eſt, trii 384 Caffiodorus 1 didit. Inns. Quid fis A. Aſtronomia, eft diſciplina curſus cæleſtiain (i- tergunt, &ad illam inſpectivain contemplatio fronomia. derum, quæ figuras conteinplatur omnes, & ha- nem, fi tamen ſanitas mentis arrideat, Domino bitudines ftellaruin circaſe, & circa terram inda- largiente, perducunt.' gabili ratione percurrit. Quas ſuo loco paulò la Scire autem debemus Joſephum Hebræorum Abraham ciùs exponemus, ut commemoratarum rerum doctiſſimum, in libro primo Antiquitatum, ritu- primim Aris virtus competenter poffit oftendi. Modò de dif- lo nono dicere,Arichinericain, & Aſtronomiam ihmeticamen ciplinarumnominedifferainus. Abrahain primùm Ægyptiis tradidiffe; unde ſe Aftronomien Diſciplina Diſciplinæ ſunt, qux, licut jam di & um eft, mina ſuſcipientes (utfunt hoinines acerrimi in Ægypainte nunquam nunquam opinionibus deceptæ fallunt; & ideo genii) cxcoluiffe ſibi reliquas latiùs diſciplinas. opinionibus cali nomine nuncupantur,quia neceffariò ſuas re- Quasmeritò fan &i Patres noftei legendas ſtudio deceptæ fal gulas ſervant. Hænec intentione creſcunt,nec fillinis perſuadent: quoniam ex magna parte per Iubductione minuuntur, nec aliis varieratibus eas à carnalibus rebus appetitus noſter abſtrahi permutantur: ſed in vi propria permanentes, re- tur, & faciunt deſiderare, quæ, præftante Do gulas ſuas inconvertibili firmitate cuſtodiunt. mino, ſolo poſſumus corde reſpicere. Quocirca Has dum frcquenti meditatione revoluimus, fen- tempus eſt, ut deeis ſingillatin ac breviter diſſe Cum noftruin acuunt, limúmque ignorantix de- rere debeamus. De Arithmetica C49 Arith metica inter Scriptores fæculacium litterarum interdiccipli- faru efleformata;attamennulla corum,prætet Mathemati cas diſcipli metiiam eſſe volucrunt:propterea quòd Mufica, Credo trahens hoc initium, ut multi philoſo mis prima ju. & Geometria, &Aſtronomia, quæ fequuntur, photum fecerunt, ab illa ſententia prophetali, Sam 11. 21. indigent Arithmetica, ut virtutes ſuas valeant ex- quæ dicit: Omnia Deum menſura, numero, & plicare. Verbi gratia,ſimplum ad duplum, quod pondere difpofuiſſe habet Muſica, indiget Arithmetica: Geometria Hæc itaque confiftit ex quantitate diſcreta, čHY Arish verò, quod habet trigonuin, quadrangulum,vel quæ parit genera numerorum, nullo fibi com- metice conf his funilia, item indiget Arithmeticas Aſtrono- munitermino ſociata. V. enim ad x. vi. ad iiii. vii. lidt ex quar mia etiam, quòd habet in moru liderum nuineros ad iii. per nullam coinmunein terminuin alteru- titate difcre punctorum, indiget Arithinetica. Arithmetica trâ fibi focietate nectuntur. Arithmetica vecò di sa. Pithagora verò, urlit, neque Muſica, neque Geometria, citur, co quòd numeris præeſt Numerus verò, merica dica Arithmetia neque Aſtronomia egere cognoſcitur. Propterca cft ex inonadibus multitudo compofita; ut iii. V. tur,& que camlan.c. hisfons, & måter Arithmetica reperitur; quam X. xx. & cætera. Intentio Arithmeticæ elt doce- fit ejusinsects diſciplinam Pythagoras fic laudalle * probatur; re nos naturam abſtracti numeri, & que ei acci- tio. uromnia ſub numero, & menfura à Deo creata dunt; ut verbi gratia, parilitas, impacilitas, & firatur. fuiſſe incinoret, dicens: Alia in motu, alia in cætera. Cur Arith vit. * Ed. mon s Paritei pat. Pariter impat. Impariter par Prima diviſio numera Tvel par, qui eſt Numerus, qui congre gatio monaduneſt, ľ Primus& ſimplex. vel iinper, qui eſt. Secundus & compoſitus. Tertius mediocris, quiquodam modo primus, & incompoſitus, alio verò modo ſecundus, & (compofitus. Quid fit Par Par numerus eft, qui in duas partes æquales verbi gratia, xxiiii, in bis xii: xii, in bisyi:ſexo dividi poteft; ut ii. iii. vi.viii. x. & reliqui. in bis tres, & ampliùs non procedit. Quid impar. Impar numerus eſt, qui in duas partes æquales Primus & fimplex numerus eft, qui monadi- Quid primit dividi nullatenus poteft, ut iii. v. vii. viiii. xi.& c cammenſuram ſolam recipere poteſt; ut verbi & implex reliqui. gratia iii. v. vii. xis xiii. xvii. & his finilias Quidpariter Pariter par numerus eſt, cujus diviſio in dua Secundus & compoſitus numerus eft, qui non Quid fecur par bus æqualibus partibus fieri poteſtuſque ad mo- folùm monadicam menſuram, ſed &arithmeti doto come nada; ut verbi gratia lxiüi. dividitur in xxxii; cam recipere poteſt; ut verbi gratia, viiii. xv. xxi. poftmo xxxii, in xvi: & xvi, in viji: viii in iii:üii, & his ſimilia. in duo: ïi, verò in i. Mediocris numerus eſt, quiquodam modo fim Quid pariter Pariter impar numerus eſt, qui fimiliter fo- plex & incompoſitus efle videtur, alio verò ino- cris impar. lummodo in duas partes dividi poteft æquales; do fecundus & compoſitus, ut verbi gratia, viiii. utx, in v: xiiii, in vii: xviii, in viiii.& his fi- ad xxv. dum comparatus fuerit, primus eft & milia. incompoſitus: quia non habet communem nu Quid impari. Impariter par nuinerus eſt, qui plures diviſio- merum, niſi ſolum monadicum: ad xv. verò li nes, ſecundùm æqualitatem partium dividere comparatus fuerit, ſecundus eft & compofitus: poteft, non tamen uſque ad allem perveniat; ut quoniam ineſt illi communis numerus præter monadi. Quid Media ter par De Arithmetica. 383 mõnadicum, id eſt, ternarius'numerus, qui no- fexta pars, duo:quarta pars,tria: tertia pars,iii: vein menſurat terterni, & xv. ter quini. & duodecima pars unum; qui oinnes aſſumpti fiunt xvi. Altera divifio, de paribios, do imparibues Indigens nunerus eſt, qui & ipſe de paribus QuidIndigãs. numeris. deſcendit, quantitatis fuæ ſummain partiuin in feriorem habet; ut viii. cujus medietas, iiii: [ aut ſuperfluus. quarta pars, ii: octava pars, i; quæ fimul con gregatæ partes fiunt vii. aut par eſt. < aut indigens. Perfectus numerus eft, qui taten & ipfe de QuidPerfe Numerus. paribus deſcendit: is dum par ſit, omnes partes aut impar. į aut perfectus. Taas ſimul aſſumptas, æquales habet; ut vj. cu jus medietas, tria: tertia pars, ij: vj. pars únum. Quid Sriper. Superfluus numerus eſt, qui deſcendit de pari- Qux aſſumptæ partesfaciunt ipſum ſenariumnus fluis. bus, is dum par ſit, ſuperfluas partes quantitatis merum fuæ habere videtur; ut xii, habetmedietatem vie. Geti popolazione stanziata nella regione successivamente nota come Dacia Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento antica Roma è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. 1leftarrow blue.svgVoce principale: Storia della Dacia.  Geti era il nome che veniva dato dagli scrittori pre-Romani alla popolazione stanziata nella regione successivamente nota come Dacia, a centro nord dell'ultimo tratto del Danubio, dove aveva gli inizi l’antica Bulgaria.  I Geti erano parte del gruppo di genti indoeuropee, forse parte della famiglia tracica; è possibile che fossero tanto parte del popolo dei Daci o Tracchi, quanto che da questi siano stati a un certo punto assorbiti. Per gli autori romani i termini Daci e Gaetierano considerati in genere equivalenti, anche se Seneca indicava Geti come gli abitanti delle pianure della Valacchia[1], mentre Stazio indicava i Daci come gli abitanti dei territori montuosi e collinari della Transilvania[2]; inoltre distinguevano i Tyragetae, Geti stanziati vicino al fiume Nistro.  Storia Modifica Secondo Erodoto, i Geti erano "la più nobile e la più giusta di tutte le tribù traciche". Quando nel 514 a.C. i Persiani, guidati da Dario I, attuarono una campagna contro gli Sciti, le varie popolazioni dei Balcani si arresero al sovrano e lo lasciarono passare sui loro territori; solo i Geti opposero resistenza. I Geti in seguito furono sconfitti da Alessandro Magno nel 335 a.C. sulle rive del Danubio, nel corso della sua campagna nei Balcani; in quell'occasione, Alessandro per attraversare il Danubio si servì di zattere e di piccole imbarcazioni di pescatori, sorprendendo circa 4000 Geti, attaccati alle spalle, dopo aver attraversato il fiume.  Religione Modifica Come ci tramanda Erodoto, i Geti (alla fine del VI secolo a.C.) credevano nell'immortalità dell'anima e consideravano la morte un mero cambio di paese:   «Ecco in che consiste la loro fede nell'immortalità. Essi credono di non morire, e che chi muore vada dal Demone Salmoxis. Alcuni di essi chiamano questa stessa divinità Gebeleizi. Mandano ogni cinque anni uno di loro tratto a sorte, come messo a Salmoxis, ogni volta incaricandolo di recargli le loro richieste. Ed ecco come lo mandano. Alcuni, che hanno quest'incarico, se ne stanno con tre giavellotti; mentre altri afferrano le mani e i piedi dell'uomo che inviano, lo fanno ondeggiare, e lo scagliano in alto verso le punte dei giavellotti. Se viene trafitto e muore, ritengono propizia la Divinità; e se non muore, la colpa è del messo, che essi dichiarano malvagio. Gli muovono quest'accusa, e ne mandano un altro, al quale danno, mentre è ancora in vita, i loro incarichi.»  (Erodoto, Storie, IV, 94) Erodoto aggiunge anche che   «Inoltre scagliano, questi stessi Traci, frecce verso l'alto al cielo, contro il tuono e il fulmine, e minacciano quella Divinità, perché ritengono che fuori del loro non vi sia alcun altro Dio.»  (Erodoto, Storie, IV, 94) Accanto a Zalmoxis, un ruolo di rilievo tra le divinità gete era attribuito a Gebeleixis. Il primo sacerdote godeva di una posizione prominente in quanto rappresentante della divinità suprema, Zalmoxis, ed era anche il consigliere del re. Giordane nella sua Getica, attribuiva a Deceneo il titolo di sacerdote capo di Burebista. Modifica ^ Seneca, Phedra, 165-170. ^ Stazio, Silvae, I, 1, 7; III, 3, 169. ^ Giordane, Getica X, a cura di Mierow. URL consultato il 26 dicembre 2017 (archiviato dall' url originale  il 20 novembre 2009). Voci correlate Modifica Daci Dacia (regione storica) Traci Altri progetti Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Geti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Geti Collegamenti esterni Modifica Geti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata   Portale Antica Roma: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Antica Roma Storia della Dacia Daci popolazione indoeuropea  Dacia (regione storica) regione e regno dell'Europa orientale nel corso dell'antichità classica  Wikipedia Il contenuto Then Cyrus, king of the Persians, after a long interval of almost exactly six hundred and thirty years (as Pompeius Trogus relates), waged an unsuccessful war against Tomyris, Queen of the Getae. Elated by his victories in Asia, he strove to conquer the Getae, whose queen, as I have said, was Tomyris. Though she could have stopped the approach of Cyrus at the river Araxes, yet she permitted him to cross, preferring to overcome him in battle rather than to thwart him by advantage of position. And so she did.As Cyrus approached, fortune at first so favored the Parthians that they slew the son of Tomyris and most of the army. But when the battle was renewed, the Getae and their queen defeated, conquered and overwhelmed the Parthians and took rich plunder from them. There for the first time the race of the Goths saw silken tents. After achieving this victory and winning so much booty from her enemies, Queen Tomyris crossed over into that part of Moesia which is now called Lesser Scythia--a name borrowed from great Scythia,--and built on the Moesian shore of Pontus the city of Tomi, named after herself.  (63) Afterwards Darius, king of the Persians, the son of Hystaspes, demanded in marriage the daughter of Antyrus, king of the Goths, asking for her hand and at the same time making threats in case they did not fulfil his wish. The Goths spurned this alliance and brought his embassy to naught. Inflamed with anger because his offer had been rejected, he led an army of seven hundred thousand armed men against them and sought to avenge his wounded feelings by inflicting a public injury. Crossing on boats covered with boards and joined like a bridge almost the whole way from Chalcedon to Byzantium, he started for Thrace and Moesia. Later he built a bridge over the Danube in like manner, but he was wearied by two brief months of effort and lost eight thousand armed men among the Tapae. Then, fearing the bridge over the Danube would be seized by his foes, he marched back to Thrace in swift retreat, believing the land of Moesia would not be safe for even a short sojourn there. After his death, his son Xerxes planned to avenge his father's wrongs and so proceeded to undertake a war against the Goths with seven hundred thousand of his own men and three hundred thousand armed auxiliaries, twelve hundred ships of war and three thousand transports. But he did not venture to try them in battle, being overawed by their unyielding animosity. So he returned with his force just as he had come, and without fighting a single battle. Then Philip, the father of Alexander the Great, made alliance with the Goths and took to wife Medopa, the daughter of King Gudila, so that he might render the kingdom of Macedon more secure by the help of this marriage. It was at this time, as the historian Dio relates, that Philip, suffering from need of money, determined to lead out his forces and sack Odessus, a city of Moesia, which was then subject to the Goths by reason of the neighboring city of Tomi. Thereupon those priests of the Goths that are called the Holy Men suddenly opened the gates of Odessus and came forth to meet them. They bore harps and were clad in snowy robes, and chanted in suppliant strains to the gods of their fathers that they might be propitious and repel the Macedonians. When the Macedonians saw them coming with such confidence to meet them, they were astonished and, so to speak, the armed were terrified by the unarmed. Straightway they broke the line they had formed for battle and not only refrained from destroying the city, but even gave back those whom they had captured outside by right of war. Then they made a truce and returned to their own country. After a long time Sitalces, a famous leader of the Goths, remembering this treacherous attempt, gathered a hundred and fifty thousand men and made war upon the Athenians, fighting against Perdiccas, King of Macedon. This Perdiccas had been left by Alexander as his successor to rule Athens by hereditary right, when he drank his destruction at Babylon through the treachery of an attendant. The Goths engaged in a great battle with him and proved themselves to be the stronger. Thus in return for the wrong which the Macedonians had long before committed in Moesia, the Goths overran Greece and laid waste the whole of Macedonia.Cassiodoro. Cassiodoro Bruzi. Bruzi. Keywords: dialettica, Squillace, i geti e i goti – teodorico, eteodorico, virtu bellica, ardore guerriero, pagenesimo. Cassiodoro’s surname was Bruzi, from Brutti – he wrote a story of the Goths, but he mistook them for the Bulgarians (geti, gotti). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bruzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Buonafede – filosofia italiana – Luigi Speranza (Comacchio). Filosofo italiano. Grice: “You’ve got to love Buonafede; he is all into the longitudinal unity of philosophy, literally from Remo – he has chapters on the Ancient Romans, on philosophy from the first monarchy to the second, a chapter on Cicerone, and one of a lovely phrase, the Roman equivalent to the century of Pericles, ‘filosofia nel regno di Augusto,’ but also on later developments of Italian philosophy, even a chapter on Cartesianism in Italy, and how philosophy on the whole was ‘resurrected’ or ‘revitalised’ in Italy --. I once joked that philosophers should never give much credit to Wollaston – but Buonafede totally proves me wrong!” --  Essential Italian philosopher. Di familia nobile, studia a Bologna e Roma. Insegna a Napoli. Saggio, “Ritratti poetici, storici e critici di varj uomini di lettere – Appio Anneo de Faba Cromaziano” (Simone, Napoli)  -- opera accolta favorevolmente negli ambienti culturali napoletani frequentati da Buonafede, nella quale convivono giudizi critici su alcuni importanti esponenti della filosofia moderna (quali Machiavelli e Spinoza), con parziali accoglimenti di altri (Cartesio e Locke), in uno stile composito tra il barocco e l'arcadico. Insegna a Bergamo e Rimini. Membro nell'Accademia dell'Arcadia, assumendo il nome di Agatopisto Cromaziano con il quale diede alle stampe numerosi saggi. Insegna a Sulmona. Saggio “Della restaurazione di ogni filosofia ne’ secoli XVI, XVII e XVIII di Agatopisto Cromaziano” (Graziosi, Venezia – Societa Tipografica de classici italiani, Milano) -- particolarmente critica verso la filosofia sensista di Cartesio e Locke. Baretti: ebbe una violenta polemica con lui. Il “Saggio di commedie filosofiche”, contenente un testo in endecasillabi, “Il filosofo fanciullo” che, in uno stile comico, critica celebri filosofi dell'antichità riportando citazioni fuori dal contesto.Venivano beffeggiati, tra gli altri, Socrate, Democrito e Anassagora. Il saggio trova qualche apprezzamento. Baretti, scrittore e critico letterario torinese, in un numero del suo periodico la Frusta letteraria nel quale era solito firmarsi con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, espresse giudizi negativi sul Saggio del Buonafede trovandolo irrilevante e privo di comicità. Punto sul vivo, replica immediatamente con il libello, dai toni assai aspri, “Il bue pedagogo: novella menippee di Luciano da Fiorenzuola contro una certa Frusta pseudo-epigrafia di Aristarco Cannabue” (Luca).”. Gli rispose ancora Baretti con una nutrita serie di articoli, Discorsi fatti dall'autore della Frusta letteraria al reverendissimo padre don Luciano Firenzuola da Comacchio autore del Bue pedagogo, pubblicati su diversi numeri della Frusta.  La polemica, una delle più aspre e celebri delle cronache filosofiche italiane prosigue ancora.Fa pressioni verso i responsabili della Repubblica di Venezia affinché eliminassero gli articoli apparsi sulla Frusta e perché Baretti fosse poi espulso dallo Stato Pontificio quando si trasferì ad Ancona.  Il critico non fu lasciato tranquillo neppure quando fuggì in Inghilterra: l'irriducibile Buonafede lo accua allora di simpatie verso il protestantesimo. Il giudizio di Croce e piuttosto negativo, scrisse che la sua filosofia e il risultato di «un ingegno da predicatore e da predicatore mestierante, che ha un impegno da assolvere, un sentimento da inculcare, un nemico da abbattere» senza che possano distrarlo dal suo fine «né la ricerca della verità delle cose né l'ammirazione di quel che è bello».  Più positivo il giudizio di Natali nella voce redatta per l'Enciclopedia Italiana, lo giudica “uomo d'ingegno acutissimo, filosofo non volgare, spesso arguto e vivace e dotato di dottrina assai superiore a quella del Baretti. Altre opere: “Delle conquiste celebri esaminate col naturale diritto delle genti libri due di Agatopisto Cromaziano” (Riccomini, Lucca, Milano, Fondazione Mansutti); “Saggio di commedie filosofiche con ampie annotazioni di A. Agatopisto Cromaziano” (Faenza, pel Benedetti impressor vescovile, e delle insigni Accademie degl'illustrissimi sigg. Remoti e Filoponi); “Sermone apologetico di Tito Benvenuto Buonafede per la gioventù italiana contro le accuse contenute in un libro intitolato Della necessità e verità della religione naturale, e rivelata” (Benedini, Lucca); “Della malignità istorica: discorsi tre contro Pier Francesco Le Courayer nuovo interprete della Istoria del Concilio di Trento di Pietro Soave” (Bologna, per Lelio dalla Volpe impr. dell'Instituto delle Scienze); “Dell'apparizione di alcune ombre novella letteraria di Tito Benvenuto Buonafede” (Lucca, appresso Jacopo Giusti nuovo stampatore alla Colonna del Palio); “Istoria critica e filosofica del suicidio ragionato di Agatopisto Cromaziano” (Lucca, Stamperia di Vincenzo Giuntini, a spese di Giovanni Riccomini); “Versi liberi di Agatopisto Cromaziano messi in luce da Timoleonte Corintio con una epistola della libertà poetica..., Cesena, Società di Pallade per Gregorio Biasini al Palazzo Dandini); “Della istoria e della indole di ogni filosofia di Agatopisto Cromaziano” (Lucca, per Giovanni Riccomini); “Il genio borbonico, versi epici di Agatopisto Cromaziano nelle nozze auguste delle altezze reali di Ferdinando di Borbone, infante di Spagna e di Maria Amalia, arciduchessa infanta” (Parma, per Filippo Carmignani, stampatore per privilegio di sua altezza reale); “Della letteratura comacchiese lezione parenetica in difesa della patria di Agatopisto Cromaziano giuniore” (Parma, Bodoni). Opere di Agatopisto Cromaziano” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli). “Epistole tusculane di un solitario ad un uomo di città, Gerapoli); “Storia critica del moderno diritto di natura e delle genti di Agatopisto Cromaziano, fa parte della Biblioteca cristiano-filosofica decennio primo, consacrato alla divinità” (Firenze, nella Stamperia della Carità). Dizionario Biografico degli Italiani. Soffre di gotta e una caduta in piazza Navona aggrava le sue condizioni. La storiografia filosofica, Vestigia philosophorum”. Il medioevo e la storiografia filosofica, Rimini, Maggioli Editore. Fondazione Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa. Memorie istoriche di letterati ferraresi,  III, Ferrara. Ritratto di Appiano Buonafede. Assicurazione. Luigi Speranza, "Grice e Buonafede," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.  -- I Romani, fin d'allora che hanno le canne per tetti e un solco in luogo di fosse e di muraglie, esercitano la divinazione, con la cui guida ordi [Seneca I. c. Plinio Hist. Nat. lib. II, cap. 53. V. Lucrezio lib. V. (3) Macrobio Saturnal. lib. VII, cap. 13. V. Scipione Maffei ap pressoG. Lampredi l. c. Cassiodoro. lib. III Var. Ep. Museo Etrusco 1. II, tab. 15.  narono e nobilitaro noi rudimenti della loro pira teria. ROMOLO e insieme il fondatore e il primo augure di Roma. Uomini armati e rubatori conobbero che questa larva di religione e questa pretesa scienza del futuro puo aver influssi propizi, nelle loro spedizioni, siccome l'esito comprovo. Ed e veramente cosa ammirabile che una tanta puerilità, di cui gl’auguri istessi rideano, producesse vantaggi sì grandi alla fortuna romana. Presero adun que quei primi uomini la disciplina augurale dagli’etruschi, e non curarono altro. Furon dette as sai novelle della FILOSOFIA degl’aborigeni, de’ sabini, degl’Ausonj e d’altre genti di quelle contrade. Ma i critici le numerarono tra le favole. NUMA Pompilio, secondo regolo di quella feroce masnada, pensa di ammansarla con la religione e con la pace. Finse colloquj con le Muse, e divulga notturni congressi con la dea Egeria. Istitue sacerdoti agl’Id dii, e e egli stesso sacerdote. Scolge le vergini a Vesta, le quali serbasser perpetuo il fuoco nel centro d'un tempio rotondo. Vieta le immagini delle sostanze divine e i sacrifizi cruenti. Ordina gli auguri, gl’oracoli, le interpretazioni de' fulmini e di altri prodigj, e le funebri ceremonie e le placazioni de’ mani. Correno i mesi e l'anno secondo il corso del sole e della lupa. NUMA scrive libri sacri che furon seppelliti con lui, e niun potè leggerli. Consacra l'arcano e il silenzio con la istituzione della dea Tacita. Chiuse il tempio di Giano. Roma guerriera divenne pacifica e religiosa. In questi regolamenti di Numa sono cercati, e dicono anche ri trovati gl'indizi di molta filosofia. La finzione de' [Cicer. De Divinatione lib. I. 2. Cicer. I. c. G. Hornio Hist. Phil. lib. IV, сар. 3. T. Livio lib. I, cap. 8; lib. XL, cap. 29. Plutarco in Numa] prodigi e de’ secreti colloqui col cielo, e il silenzio è l'arcano e i sacrifici senza sangue, e le proibizioni di effigiare il divino, sono sembrate dottrine della setta di CROTONA; e sopra tutto il fuoco del tempio di Vesta è stato creduto un simbolo del sistema di questa setta, la quale insegna la stabilità del sole nel centro del nostro mondo. Il perchè corse già opinione che NUMA e stato discepolo di Pitagora; ma è stato poi osservato che questo filosofo vivea a CROTONA quando L. Bruto salva Roma dai tiranni. Onde piuttosto Numa ha dovuto ammaestrare Pitagora. Sebbene io non credo che un filosofo chiuso tra i monti di Calabria ha mai udito parlare d'un capo di ladroncelli ristretti fra i monti latini. Newton pensa che Numa prende il suo sistema celeste dagl’egiziani, osservatori antichissimi delle stelle. Ma io non so persuadermi che un pover uomo sabino estende il saper suo fino alla penetrazione degli ardui misteri d’Egitto. Reputo più verisimile che lo studio de gl’etruschi nelle meraviglie de' fuochi celesti, e la molto diffusa e popolarevenerazione del fuoco gui dassero Nụma alla istituzione di questo rito. Mime raviglio io bene come coloro che cercano il panteismo dappertutto, non hanno trovato nel fuoco centrale di Vesta il simbolo dell'anima del mondo, e di quelle altre del PORTICO e Spinoziane dottrine che pure si sforzano di trovare altrove con maggiore difficoltà. Forse si saranno contenuti da questa imputazione, perchè negl’oracoli e nell’altre divinazioni di Numa, e nelle mortuali placazioni e cerimonie si conoscono alcuni vestigi non dispregevoli [1 Plutarco. Livio I. c. Cicer. Tuscul. Disput. lib. I, 16; IV, 1. V. P. Bayle Dict. art, Pythagoras, e J. Brucker de Phil. Roman. yet. 3 ) De MundiSystemate] d'una libera provvidenza e d'una vera immortalità degl’animi separati dai corpi. Io ha quasi voglia di aggiunger qui, che per sentenza di Varrone gl'Iddii de' Romani e de' Latini prima ancora di Numa e di Romolo sono gl' Iddii di Frigia portati da Enea, quei di Frigia sono i medesimi di Samotracia tanto famosa per li suoi misteri che sono gli stessi d'Egitto; e siccome di questi mostreremo con qualche verisimilitudine che nascondeano la unità del divino e la immortalità degl’animi, così puo dirsi il medesimo della segreta dottrina del l'antico Lazio e de' primi Romani. Ma oltre le gravi difficoltà contro la venuta d'Enea in Italia, i.se veri critici potrebbono opprimermi con altre dubbiezze assai; onde ho deposto il desiderio di proporre le mie conghielture. Non è però male alcuno averle accennate.Questa è l'immagine della PICCOLA FILOSOFIA dei primi tempi di Roma, la quale appena apparita per lo pacifico genio di Numa, e dissipata dagl'ingegni guerrieri de' suoi successori, e per più secoli e esclusa ed anche abborrita, come nimica dell'austerità e della fortezza, da quei valorosi uomini che, intenti alla conquista del mondo, o non hanno ozio di volgersi alla filosofia, o pensano di non averne bisogno, o dubitarono che puo opporsi a quell'immenso latrocinio. Ritorneremo su questo argomento, e avremo copiosa materia di ragionare ovę riguarderemo quei tempi di Roma che dagli storici e dai politici furon detti molli e corrotti, e dagl’amici della filosofia sono onorati come. mansueti e sapienti. [Macrobio Saturnal. lib. III, cap. 4; P. Giurieu Hist. Cri tica Dogmat, Par. I] Il genio bellicoso di ROMOLO ammansato un poco dalla pacifica Egeria, che era il genio di Numa, nella signoria dei seguenti regoli di Roma torna alla primiera ferocità. Nè altramenle potea intervenire in una città e in un popolo composto di uomini violenti e perturbatori, e per delitti e per timor delle pene fuggitivi dalle lor terre, e riparati nella nascente città come nell'asilo delle scelleraggini; i quali assuefatti al sangue e alla rapina, se fosser mancate guerre esteriori, hanno infero cito contro le viscere della lor medesima società. Perchè e mestieri esercitarli senza riposo in im prese e rubamenti perpetui; e questa che parve prima necessità, divenne appresso costume, e e l'origine primaria della grandezza romana. Un popolo cosi funestamente educato non puo esser amico di alcuna filosofia: e veramente, come alcuna volta si offersero le opportunità d'introdurla, con molta ruvidezza la impedirono per timore che non ammollisse l'austerità militare, e non traviasse i cittadini dalla usurpazione del mondo. Nel [J. Brucker 1. c.] campo d'an uom consolare sono trovati sotterra alcuni manoscritti di filosofia attribuiti a Numa, e il pretore comando risolutamente che sono ab bruciati. Un altro pretore per consultazione del senato, e poco dopo anche i censori dichiarano, non piacere che soggiornassero nella città certi filosofi, maestri d'un genere di discipline diverse dalla consuetudine e dal costume de maggiori; per la qual novità i romani in torpidivano. Questo avvenne nel consolato di C. Fannio Strabone e di M. Valerio Messala; ed è ben degno di considerazione che quei grand'uomini avean già messa ad effetto gran parte del lor latrocinio. LA FILOSOFIA e ancora un genere di disciplina contrario alle loro consuetudini. In quel torno medesimo, e non so bene se poco prima o poco dopo, accadde una ambasceria ateniese de tre filosofi Carneade, Diogene e Critolao. Gl’ateniesi avendo saccheggiata Oropo città della Beozia, furono dai Sicioni con l'autorità de’ romani condannati in CCCCC talenti. Ma questa multa sembrando soperchia, spedirono a Roma i prefati filosofi per ottener condizioni più sopportabili. Nella dimora e nella espettazione di essere ascoltati dal senato, tenneno dotte assemblee nei cospicui luoghi di Roma, e ostentano dottrina incognita ed eloquenza inaudita alle orecchie romane. Critolao la usa erudita e rotonda, Diogene modesta e sobria, Carneade violenta e rapida. Ma comechè ognuno ottenne gran lode, l'accademico sopra tutti risveglia le meraviglie inu [Plinio lib. III, cap. 12. (2) A Gellio Noc. Att. lib. XV, cap. 2. (3) Vedi presso P, Bayle (artic. Carneade, not. N ) i litigj in-. torno a quest'epoca.] -sitate e fino i furori pubblici, massimamente degl’ottimati , che dimentica de' piaceri e rapita quasi fanatica di questa filosofia. E convien certo che molto singolar cosa e questa eloquenza di Carneade, mentre e detto che ora a guisa d'un fiume incitato e rapace sforza e svelle ogni cosa e seco rapiva l'uditore con grande strepito, e ora dilettando lo imprigiona, e per una parte manifestamente predando, e per un'altra rubanilo nascostamente, o con la forza o con la frode vince agl’animi più prepurati a resistere. Ma ciò che maggiormente rileva, da CICERONE medesimo maestro tanto eccellente di queste cose, e delto che ha pure desiderato di possedere la divina celerità d'ingegno e l'incredibil forza di dire e la copia e la varietà di Carneade, il quale in quelle sue disputazioni niuna sentenza difende che non prova, niuna oppugna che non mette a compiuta ruina. Consapevole di queste sue viltoriose veemenze, ardì, stabilita la giustizia in un giorno con molto copiosa orazione, distruggerla in un altro ALLA PRESENZA DI GALBA E DI CATONE MAGGIORE, in quella età oratori grandi alla maniera romana. Lattanzio ci serba in poche parole la sostanza di questa confutazione della giustizia. CARNEADE divide la giustizia in naturale e civile, e l'una e l'altra mise a niente. La *naturale* è giustizia, non è prudenza; la civile e prudenza, *non* e giustizia. La prudenza civile si varia secondo i tempi e i luoghi, e ogni popolo l'attempera a suo comodo. Questa prudenza è una inclinazione verso l'utilità che la giustizia della natura infuse in ogni animale, alla quale chi volesse ubbidire incorrerebbe in mille fro [1 ) Pausania lıb. VII. Plutarco in Catone Majore.A. Gellio lib.VII, cap. 14. Macrobio Saturnal. lib. I, cap. 5. (2) Numenio presso Eusebio Praep. Ev. lib. IV, cap. 8. (3) Cicerone De Oratore lib. II, 38; III, 18.] di. Moltissimi esempi dimostrano cosiffalta essere la condizione degl’uomini, che *volendo* essere giusti, sono imprudenti e stolti. Volendo essere *prudenti* e avveduti, sono *ingiusti*. Laonde non può concedersi una “giustizia” che è inseparabile dalla stoltezza. Nel quale proposito trascorse in queste parole abborrite dai conquistatori. Se i popoli fiorenti per signoria e i Romani oggimai possessori del mondo *vuoleno* esser *Giusti* restituendo l'altrui, doveno ritornare alle capanne e giacere nella miseria. CICERONE, che molto medita queste e più altre difficoltà di Carneade, le trascorre senza risposta. E altrove avendo statuito una giustizia naturale e un diritto naturale indipendente dall’istituzioni degl’uomini, prega l'Accademia e Arcesila e Carneade a volersi tacere, perchè assalendo queste ragioni, indurrebbono grandi ruine; e desidera ben molto di placar tali uomini, non ardisce rispingerli. Ma CATONE, censore uom di rigida innocenza e di antichi costumi e di senatoria e militare austerità, per le quali virtù era già nata e crescea la grandezza di Roma, udite queste ambigue e scandalose orazioni, e veduti i furori dell’ottimati romani, e considerate le conseguenze funeste alla fortuna della repubblica, le quali poteano sorgere da quella molle e licenziosa filosofia, prestamente e fortemente dimostra nel senato che non e bene sopportare più a lungo nella città quegl’ambasciatori filosofi che persuadeno quanto loro piacea, e confondeno il vero col falso, e alienano dalla robusta e antica istituzione l'ottimati [; 2 (1 ) Lattanzio lib. V, cap. 14, 16. V. P. Bay le I. c. G, H, et art Porcius, H. (2) Cicerone De Repub. presso S. Agostino De Civ. Dei lib. II, cap. 21, e Lallanzio I. c. (3 ) Ciceronc De Legib. lib. I.] e quindi e mestieri conoscere e risolvere di quella legazione, e tosto rimandando gl’ambasciatori ad istruire i greci, ricondurre l’ottimati romani ad ascoltar come dianzi i maestrati e la legge. Di questo modo CATONE parla, e gl’ambasciatori sono congedati. Non è però che questo CATONE e nimico del sapere, mentre è noto per la istoria ch'egli militando a Taranto ascolta volentieri da certo suo ospite pitagorico dottrine contrarie alla voluttà, e crebbe nell'amore della frugalità e della continenza. Indi e interprete della legge, e difensore e accusatore instancabile del foro, e filosofo di orazioni e di cose rustiche e delle origini romane, nelle quali opere mostra copia e gravità di dottrina; e, in breve, tutta la sua vita distribue tra la milizia e tra le leggi e le lettere, e tra la più austera pratica della virtù e la persecuzione più violenta de vizi. Onde e detto che le sue guerre perpetue contro i malvagi costumi non sono alla repubblica meno utili delle vittorie di SCIPIONE contro i nimici. Il perchè non credo io già che CATONE per odio di Carneade o per altra malevolenza abborrisse la filosofia relativistica. Ma piuttosto perchè la militare e severa indole di Roma ne' suoi dì così domanda, e perchè l'esempio di questo relativismo ammollita e scaduta in mezzo a tanto lusso di filosofia forse lo spaventa. E siccome CATONE e per natura inclinato all'eccesso de' rigori, parla forse più for leinente che non sente; e nella guisa che esagerando dicea che le adultere sono avvelenatrici ile' loro mariti, e che tutti i medici sono da 5. [(1 ) Plinio lib. VII, cap. 30. Plutarco in Catone. (2) Cicerone de Ci. Or. 17. Tito Livio lib. XXXIX, 41. C. Nie pote Frag. Vitae Catonis. Plutarco I. c. (3) Seneca Ep. 87: (4 ) Quintiliano lib. V, 11. ] fuggirsi, dacchè aveano giurato di uccidere tutti i romani. Così per avventura ingrande gl’abborrimenti di tutta la filosofia, e dice a suo figliuolo: Pensa che io parli da vate: indocile ed iniquissima è la generazione de' elleni. Quando avverrà che quella gente a noi dia le sue lettere, saremo tutti corrotti e perduti. Di queste sue amplificazioni, oltre il suo amore per la disciplina pitagorica, può essere argomento lo studio che CATONE mette negli scrittori e nelle lettere greche non solamente piu tarde, quando le medita avidamente, come chi vuole estinguere una lunga sete, ma nella sua pretura di Sardegna, e ancor prima; poichè, per testimonianza di Plutarco, CATONE parla agl’ateniesi per un interprete. Potea parlar greco, se avesse volute. Suoi libri sono ornati e ricchi di opinioni, di esempi e di istorie fonti, e di sentenze morali. Da questi riscontri io deduco che CATONE disprezzando i Greci in pubblico e leggendoli in privato, non e tanto nimico loro quanto ostenta; e che meditando e usando ne' suoi componimenti opinioni filosofichi, è chiaro che vi sono dunque in Roma i libri di filosofia, e che non sono incognite le opinioni filosofichi a quella età, e quindi prima della ambasciata de tre filosofi vi era tra i Romani qualche tintura di filosofia. Frattanto Furio, Lelio, Scipione e altri di genti patrizie furon del numero di que' l’ottimati accesi nell'amore delle dottrine filosofiche, i quali venuti a assunti al comando degl’eserciti che soggiogavan la Grecia, prese da' greci [(1 ) Plinio lib. XXIX, cap. 1. (2 ) Plinio I. c. Plutarco l. c. (3) Cicerone De Senectute 1, 8. Val. Massimo lib. VIII, cap. 10. Plutarco I, c. Aurelio Vittore De Viris Illustr,] e al governo delle provincie conquistate, hanno agio di veder da vicino e di ascoltare i valenti uomini di temperamento filosofico, coi quali strinsero dimestichezza, e vollero finanche averli compagni nelle lor case, nei viaggi enelle medesime spedizioni militari. Cosi leggiamo che SCIPIONE AFFRICANO vuole aver seco assidua mente in casa e nella milizia insiem con Polibio, filosofo singolare e grande uomo di Stato e di guerra, anche Panezio filosofo del Portico. E questi un Rodiano ingenuo e grave, il quale salito ai primiluoghi del Portico, oltre alcun altro componimento, scrive i libri lodatissimni degl’uffizi secondo quella disciplina; ma non gli piacque la divinazione del Portico e l'apatia, e le spine della disputa e l'asprezza delle parole e l'orror de costum; e più gentilmente e umanamente fiolsofo, non così legandosi a Zenone e quegl’altri, che non ama anche Aristotele Senocrate e Teofrasto e Dicearco, e non ammira Platone come divino e sapientissimo e santissimo e come l'Omero de' filosofi, sebben quella sua or poetica, or ambigua immortalità degl’animi non gli tornasse a grado. E dunque PANEZIO uno filosofo del PORTICO modesto e libero e degno della famigliarità di SCIPIONE, il quale erudito in questa temperata dottrina del PORTICO e mansuetissimo ed umanissimo; e riparlendo la sua vita tra la milizia e la filosofia, sali per fama di valore e di lettere fra i massimi amplificatori della gloria di Roma. Ad illustre ed esimia indole aggiungendo la ragione e la dottrina, e assiduamente conversando col medesimo Panezio e con Diogene – del PORTICO --  e con altri eruditissimi uomini, sono in compagnia di Scipione pre [(1 ) Cicerone Acad. Quaest. lib. II, 33; De Fin. lib. 1, 2, et IV, 9,28; De Off. lib. II, 14; III, 2; Tusc. Disp. lib. I, 32; De Div. lib. I, 3, 7; JI, 42; Or. pro Murena 33; De Or. lib. III; De Nat.: Deor. lib. I, II. A. Gellio Noc. At. lib. XII, 5. Suida v.Panaetius.] clari e singolari per modestia e per continenza L. Furio e C. Lelio cognominato Sapiente. Si accostarono a Panezio e a questi medesimi studi L. Filippo e C. Gallo e P. Rutilio e M. Scauro e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevola, e altri soinmi uomini nella repubblica, e massimamente i giureconsulti; i quali invitati da lanta luce di esempi e dalla magnificenza e dal metodo della morale del PORTICO, pensano che niun'altra potesse congiungersi più co modamente alla giureprudenza romana. In queste narrazioni è facile a vedersi che la filosofia del PORTICO entra la prima in Roma con molto nobil fortuna. E quantunque Carneade esulta sopra i compagni suoi, quando non però si ha a prender partito, quei medesimi che lo ascoltano con tanto furore, si rivolgeno alla disciplina del PORTICO; la quale benchè non puo mostrar tra i Romani una successione continua di maestri e grande strepito di scuole e di libri, mostra iudizi cospicui della riverenza in cui e tenuta e; tra gli altri il grande Pompeo, che approdato a Rodi vuole ascoltar Possidonio da Apamea – del Portico di primo nome, che ha cattedra in quella isola, e recatosi alla sua casa, vietà prima che il littore percotesse la porta, e per somma testificazione d'onore comando che si abbassassero i fasci. Indi entrato, vide Possidonio giacere gravemente per dolori in tutta la persona, e salutatolo con onorifiche parole gli dice, molto molesto.essergli per quella sua malattia non potere ascoltarlo. Ma tu veramente puoi, risponde Possidonio, nè io concede mai che il dolore fuccia che [(1 ) Cicerone De Or. II; De Fin. II; Or. pro Archia. (2) Cicerone Or. pro Murena; De Or. Il; in Bruto 30, 31. V. Vincenzo Gravina De Or. Juris cap. 57, 59; Giovanni Schiltero Manud. Phil. Moralis ad Jurispr. cap. 1, 3; D. Westphal De Stoa Juriscon. Rom.; Everardo Ottone De Stoica Juriscons.Philosophia. d 296 ] un tanto uomo sia venuto indarno a vedermi. E cosi giacendo disputa gravemente e copiosamente, che niente era buono, salvo l'ONESTO. E intanto ardendo pure come per fiaccole il dolore, spesso dice. Niente fai, o dolore: sebbene tu sia molesto, io non confesso mai che tu sia male. Pompeo si congedò richiedendo il filosofo se niente volesse ordinargli. E Possidonio risponde – “Rem gere praeclare, atque aliis prestare me mento.” Cicerone poi lo ascoltà come scolare, e M. Marcello si tenne in grande onore di condurlo a Roma, ove e in altissima estimazione per li suoi libri della Natura degl'Iddii, degl’uffizi, della divinazione, e per altrenobili scritture che andarono a male, e poichè e cultor non vulgare dell'astronomia, ha gran lode nella composizione di quella sua sfera, la quale in ognuna delle sue conversioni rappresenta nel sole, nella luna e ne' pianeti quello che si fa in cielo nel giorno e nella notte. Possidonio adunque dopo Panezio e ornamento grande e propagator sommo della fortuna del Portico tra i Romani. Altri filosofi di minor nome sostennero la medesima fatica, e accompagnarono e amınaestrarono altri Romani, che molto si dilettarono di quella disciplina; e tra questi non è giusto tacere di Q. Lucilio BALBO, divenuto del Portico eguale ai Greci medesimi, cosicchè Cicerone nei Dialoghi della Natura degļId dii gli diede a sostenere le parti della teologia del Portico. Ma niuno tra i Romani, nè forse pure tra i Greci agguaglia la persuasione, la pratica e la costanza del Portico di CATONE UTICENSE, onde ottenne da Cice [(1 ) Cicerone Tusc. Disp. lib. II,25.Plinio Juniore Ep.lib. VI, 30. (2) De Nat. Deor. lib. I, 3. (3) Suida v. Possidonius.Aieveo (lib. XIV) lo dice famigliare di Scipione domator di Cartagine; ma è anacronismo. (4) Cicerone De Div.lib.1, 3;De Nat.Deor. lib.1,44;ad Att. XVI, ep. 11; De Off. lib. I, 45. (5) Cicerone De Nat. Deor. lib. II, 34.]  rone il nome di perfetto del Portico, che in tanti uomini di quel genere ricordati e variamente lodati nelle sue opere non avea saputo ancora concedere a veruno. E di vero parve che la natura medesima si dilettasse ad organizzare in quest'uomo uno singolare filosofo del Portico; perciocchè è fama che fino dalla puerizia con la voce e col volto mostra ingegno se rio, rigido, intrepido, inflessibile alle lusinghe e alle minacce, e fin d'allora spirante immobilità nell'amor della patria. Ha famigliari e maestri Antipatro Tirio e Atenodoro Cordilione, uom solitario e alieno dai rumori e dalle corti; e dappoi tende sempre dimestichezza con altri filosofi del Portico, e con la forza della istituzione conferma ed accrebbe la natura già molto propensa, e non per la disputa, ma per la vita e del Portico. Entrato nei maestrati della repubblica e negli strepiti del foro e della milizia, usa tal forma di parlare e di vivere, che le meraviglie sono grandissime di tutti i Romani, massimamente che di quei di oramai era mutata e corrotta ogni cosa. Con una voce la cui intensione e forza e inesausta, parla al popolo e al senato non eleganze e novità, ma ragioni giuste, piane, brevi, severe e degne della disciplina del Portico e di Catone. Le usanze sue non eran dissimili dalle parole, e con forti esercitazioni si addestra a sostenere il calore e la neve col capo ignudo, e a viaggiare a piedi in ogni stagione. Nella guerra civile, in mezzo alla militare licenza, e temperante, e combatte con fortezza congiunta a prudenza, e ottenne lodi e onori, che rifiuta. Eletto tribuno de' soldati per la Macedonia, e simile ai soldati nelle fatiche; ma nella grandezza dell'animo e nella forza dell'eloquenza e maggiore di tutti i [(1 ) Cicerone Praef. ad Parad. Strabone lib. VII, XI, XIV.] capitani. Visild l’Asia per conoscer l'indole di quelle terre e i costumi degli uomini, e per conquistare il solitario Atenodoro Cordilione, filosofo del Portico, che riputa la più ricca di tutte le prede. Ritornato a Roma, divide il suo tempo tra Atenodoro e la repubblica. Non cura di esser questore prima di aver conosciute a fondo tutte le leggi questorie; e in quel maestrato corrotto pessimamente tante cose muta per la giustizia e per la salute della repubblica, che nell'amore della giustizia e della temperanza e tenuto maggiore di tutti i romani. Nel senato e sem pre il primo a venire e l'ultimo a ritirarsi. Dalla sua solitudine di Lucania, ove si era raccolto per viver tranquillamente tra i libri e i suoi filosofi, desidera il tribunato della plebe unicamente per resistere ai magnati prepotenti, e in questa ardua contenzione dimostra giustizia, fede, candore, magnanimità; a segno che Cicerone con molta licenza di giuochi agitando la filosofia del Portico di Catone nella causa di Murena, incorse il biasimo di rettorica dissolutezza; di che però l'uomo apato non si commosse per niente, e solamente ammonì un poco il licenzioso giuocatore con quelle brevi ma significanti parole: Buoni Iddii ! Noi abbiam pure il ridicolo Console; e poi nella congiurazione Catilinaria vi gilanteinente lo soccorse, come amico di lai e delle repubblica. Ma si accrebbero fuor d'ogni termine le invidie, le emulazioni e le violenze de' cittadini potenti, e i consigli di perder la patria e la libertà preponderarono ad ogni virtù. CATONE resistè for temente; e mentre altri erano Pompejani e altri Cesariani, Catone persevera ad esser repubblicano. Si attenne poi a Pompeo come a MALE MINORI, e guer reggid e parla da grande soldato e da filosofo. Dopo la battaglia farsalica, nella successione continua delle disgrazie e nella ruina di tutte le cose si ripara ad Utica, dice ai suoi che provvedessero a sè medesimi con la fuga o con altri consigli, entra nel bagno, e poi cende lietamente e disputa co' suoi filosofi, e sostenne, il solo sapiente esser libero. Coricatosi lesse due volte il Fedone, dormi ancora, e svegliato si uccise. Con molta prolissità si è voluto disputare delle cagioni del suicidio di Catone; il che secondo il pensier mio si è fatto assai vanamente. Perocchè dalle cose fin qui raccontate si conosce, senza bisogno di tante disputazioni, che il nimico alle porte, la dignità e la libertà perduta, la speranza del fine de' mali presenti e del riposo futuro, e il sistema e il costume del Portico e romano sono le cagioni palesi di quel suicidio. A queste cagioni e aggiunta la trasfusione degl’animi nell'anima del mondo, ossia il divino immerso necessariamente e indivisibilmente nella materia; il che fu raccolto non solamente dalla indole del sistema del Portico, ma da quelle parole che Lucanio presta a Catone -- Iupiter est quodcumque vides, quocumque moveris -- per cui il prode Collin alloga Catone tra i panteisti. Maperchè quel verso può essere più del poeta che di Catone, e perchè posto ancora che sia di questi, può aver senso che il divino è presente per tutto, e in fine per chè la teologia del Portico non è così empia come al cuni immaginarono, secondochè dianzi abbiam detto, perciò non possiamo acconsentire al panteismo di Catone. Sebben fosse propizia e luminosa, così come si [(1 ) CiceroneOrat. pro Murena; Paradox. I. Plularco in M. Ca tone Uticensi. Seneca Ep. 14, 24,95; et De Provid. (2 ) Lattanzio lib. III, c. 18. Siollio Hist. Ph. mor. Gentil. S 177. J. Brucker De Phil. Romanor. S XXIII. (3) Phars. lib. IX, 580. (4 ) De la liberté de penser. G. F. Buddeo De l’Ath. et de la superst. cap. J, S 22. J. Brucker l. c.] è divisato, la fortuna della scuola del Portico tra i romani; tulta volta non è da pensarsi che ad altre sette mancassero affatto gli amici; che anzi alcuni furono che indifferentemente estimaron tutte le scuole, e quelle parti preser da esse, che più sembraron concordi a certe forme di verità, a cui avean l'animo assuefatto. Così L. Licinio Lucullo nella Grecia e nell'Asia, mentre sostenea il peso del governo de' popoli e mentre vincea Tigrane e Mitridate, coltiva le buone lettere e conversa coi filosofi; e dappoichè ebbe trionfato, mise a guadagno le ricchezze predate, e dai militari peccati raccolse piaceri e felicità. Si congedd dai turbamenti della guerra e della repubblica, e tutto ri volto a pensieri di riposo edificò ville e palagi di meraviglioso lavoro e d'incredibil magnificenza, e intese a pranzi e a cene e ad ogni guisa di amenità, di eleganza e di delizia; nelle quali mollezze se tra le acclamazioni degli uomini dilicati incorse ne' biasimi degli animi austeri, certamente ottenne l'applauso di tutti, allorchè di tanto ama la filosofia che raccolta a gran costo insigne copia di libri compose una biblioteca di pubblico uso, e edifica stanze e portici e scuole, e le dedicò in domicilio delle Muse e della pace e in ospizio dei greci maestri, che fuggendo i tumulti di guerra si riparavano a Roma. Per questo egregio uso gli sono quasi perdonate e quasi rivolte a lode le ruberie della guerra. Egli dissimile da que' signori che prendono per sè il pensiere di comperare le biblioteche, e lasciano alirui il pensiere di leggerle, pose gran parte delle sue delizie ne' libri e nelle consuetudini coi dotti e filosofi uomini, e ascolto ed esa minò ogni genere di filosofia, e molto ebbe in pregio e in continua familiarità Antioco Ascalonita, uom di robusto parlare e principe in quei giorni  dell’Accademia, il quale si argomenta a mettere in amicizia con lei i filosofi del Portico e del Lizio. E a LUCULLO piaceano questi pensieri: onde Cicerone, amico e lodatore magnifico di lui, nel Dialogo intitolato al suo nome gl'impone la difesa dell’Accademia. Con questa magnificenza e splendore di esempj non solo la casa di Lucullo, ma Roma istessa e quasi ripiena di filosofi, tra i quali altri si attennero al genio riconciliatore di Antioco, altri spaziarono nella liberlà del relativismo di un ‘schiavo’ come Carneade, altri si accostarono ad altri maestri, e niuno in tanta copia d'ingegni elevati, di cui Roma egregiamente fiorisce in quella età, seppe aspirare a nuovi principati nella filosofia, mentre affettavano pure il principato istesso del mondo. Molti han fatto le meraviglie come i Romani, così nimici di servitù e così avidi di signoria, sono poi tanto propensi a servire nella filosofia, in cui agli eccelsi animi dee parer tanto bello il regnare. Ma non è meraviglia niuna che uomini intenti perpetuamente ad infinito dominio non avesser ozio di componer nuovi sistemi, e volendo pure esser filosofi seguisser gl’antichi per brevità. M. Giunio BRUTO, nato verisimilmente dagli amori furtivi di Servilia e di Giulio Cesare, che percio molto lo ama e lo dicea figliuol suo, venne a massimo nome nella istoria di Roma non solamente perchè fu tra i sommi repubblicani e tra quei fer rei uomini che nè per lusinghe di beni nè per terrore di mali si piegano, e all' onesto, al giusto e al vero sacrificano la gratitudine, i benefattori, i consanguinei e sestessi. Ma perchè grandemente ama la filosofia, e quasi tutti i filosofi nella [(1 ) Cicerone nel lib. II o IV Acad. Quaest. Lucullus. Plutarco in Lucullo. Svelopio in Julio 83.] sua età rinomati ascoltò, e tutte le sette conosce, e si attenne poi alla vecchia Accademia, la mezzana e la nuova non molto approvando, ed e an miratore di Antioco, e Aristone di lui fratello ha compagno e domestico. Per questi studj con insigne amore coltivati nella gravità immensa, quasi nella oppressione continua de' civili e dei militari negozi e delle turbazioni e degli estreini pericoli, egli adornd la filosofia col sermone latino, talche non rimase a desiderarsi altro dai Greci; e oltre i componimenti di eloquenza e d'istoria, scrive i libri della Virtù e degli Uffizi; ed è memoria che desse opera a cose letterarie fino in mezzo al inaggior émpito di guerra e in quella gran notte che anda innanzi alla battaglia farsalica. In questa congiunzione de' gravissimi affari e della filosofia e nel lo studio di tutti i filosofi Bruto imita Lucill. Ma non vuole già imitarlo nell'abbandonamento della repubblica e nel termine della dignità e della gloria tra i molli ozj e i senili piaceri; che anzi amd meglio imitare CATONE UTICENSE, fratello di sua madre, e a somiglianza di lui filosofò per la vita, ed ha animo grande e libero dalle cupidigie e dalle vo luttà, e tanto costante ed immobile nella fede e nell'amor della patria e nella sentenza dell'onesto e del giusto, che per difesa di questi principj non sentà ribrezzo di mettere il pugnale nelle viscere di Giulio Cesare suo benefattore e suo padre, e poi nella perdizione della libertà e di tutte le cose romane metterlo nelle sue viscere istesse. Alcune belle quistioni sono agitate in questi propositi. E prima [(1) Cicerone De Cl. Oraloribus 97; Acad. Quaesi. lib. I, 3. Plutarco in Bruto. (2) Cicerone Acad. Quaest. I. c. (3) Cicerone Tusc. Disp. V, 1; De Fin. lib. III. Seneca Consol. ad Helviam 9, e Ep. 95. Plutarco I. c. V. gli Storici Romani.] se Bruto malvagiamente fa cospirando alla morte di Cesare; la quale investigazione richiedendo un diligente esame dei diritti e dell’obbligazioni di Cesare e di Roma; e una esatta idea del usurpatore e del tiranno, e dei doveri e de' limiti del patrizio e del cittadino non può esser nè breve nè affaccevole al nostro istituto. In secondo luogo, se Bruto puo essere escusato allorchè nella ruina della buona causa giunto al mal passo di uccidersi con le sue mani, vitupera la virtù esclamando con gli ultimi fiati: Infélice virtù ! io ti cre dea una realità e sei un nome. Tu vai schiava della fortuna, che è più forte di te. Bayle presto a Bruto alcune difese che secondo me non posson molto piacere; e la difesa migliore è che quelle parole non pajon di Bruto; sì perchè Plutarco, diligente narratore di tutte le avventure della sua vita, niente racconto di quella esclamazione, sì perchè non è verisimile che un tanto uomo in così corte parole dicesse assurdità e contraddizioni; chè tale certamente è negare la realità alla virtù, e poi affermare che ella è meno forte e che è schiava della fortuna, il che senza stoltezza non può dirsi di cose che non esistono. In terzo luogo, e quistione se Bruto avesse a numerarsi tra i filosofi del Portico. È stato detto che il Portico di Bruto è un sogno. E veramente risguardando l'auto rità delle parole citate di Cicerone e di Plutarco Bruto abbracciò l’Accademia; ma siccome dai medesimi filosofi è detto che si dilettò in tutte le dottrine de' filosofi e ammira Antioco famoso conciliatore del Portico coll'Accademia e col Lizio [ (1 ) Dione lib. XLVII. Floro lib. IV, cap. 7. (2) Art. Brutus, C, D. (3 ) Paganido Gaudenzio De Phil. Rom.. 25. J. Brucker l. c. S XIII.] e perchè d'altronde è noto che parlò e scrisse gli Uffici in istile del Portico, ed e iinitatore e lodatore di Catone, e lo imita finanche nel suicidio, che è la più ardua di tutte le imitazioni. Io credo bene che abbracciasse or l'una, or l'altra sente za, come gli venne a grado, e il Portico forse più spesso e più fortemente di tutte. VARRONE, a similitudine di Lucullo e di Bruto, gli studi della filosofia coltiva insieme coi pensieri e con le opere militari e cittadine. Ma veduto il naufragio della repubblica, e campato per maraviglia dall'ira di Cesare e dalla proscrizione de' Triumviri, si ripara di buo n'ora, come in un porto, nell'ozio delle lettere e della filosofia, e tutto intero s'immerse in questa beata tranquillità. Cosicchè avvennero gli estremi cangiamenti di Roma e la compiuta ruina della libertà della dominazione assoluta di OTTAVIANO, ed egli nascosto nella sua biblioteca, e intento a com [(1) Cicerone ad Att. lib. XII, ep. 46. Seneca ep. 95. Plutarco e i citati dinanzi. (2) Plutarco in Bruto et in Catone Minore. Val. Massiino l. IV, cap. 6.porre sempre nuovi libri, che si numerarono fino a qualtrocentonovanta, appena si avvide di tanti movimenti, e passando la sua vita in ogni maniera di filosofie divenne il più dotto ed universale uomo, che non i Latini solamente, ma i Greci ancora avesser mai conosciuto. Ed e detto di lui che innumerabili cose avendo lette, e meraviglia come gli fosse rimasto ozio di scrivere, e che pure lante cose avea scritte, quante appena può credersi che alcuno abbia mai lette. Altre lodi si leggon di lui; e noi ine desimi in questa gran lontananza di età, come vogliamo esaltare la vastità della sapienza di alcuno, usiam dirlo “un Varrone”. Ma niuna commendazione agguaglia quella di Cicerone, il quale amico ed ammiratore essendo del valentuomo, conoscee e aduna le opere di lui in quel magnifico elogio. I tuoi libri, o Varrone, noiperegrinie vagabondi nella nostra città, quasi come forestieri, ridussero a casa, perchè alfine potessimo chi e dove siamo conoscere. Tu la età della patria, tu le descrizioni de tempi, tu i diritti delle cose sagre e de' sacerdoti, tu la domestica e la bellica disciplina, tu la sede delle regioni e de' luoghi, tu delle cose umane e delle divine i nomi, i generi, gli ufficj, le cagioni ci palesasti, e la luce grandissima spargesti ne' no stri poeti e nelle latine lettere e nelle parole; e tu istesso un vario poema ed elegante per ogni maniera componesti, e la filosofia in molti luoghi in cominciasti assai veramente per iscuoterci, mapoco per ammaestrarci. Nel medesimo dialogo, in cui [(1 ) Cicerone Acad. Quaest. I; Tusc. Disp. I, e altrove. Se neca Cons. ad Helviam. Arnobio adv. Gentes lib. V. S. Agostino De Civ. Dei lib. IV et VI, e altri. V. Popeblount Cens. cel. Aut.; G. A. Fabrizio Bibl. Lat. tom. I. (2) Cicerone Acad. Quaest. lib. III. BUONAFede. Isi. Fil. Vol. JI. 20] Cicerone loda Lanto nobilmente il suo amico, gli assegna ancora la difesa dell’Accademia, e lo colloca nelle parti di Antioco e di Bruto. Ove si vede la falsità o almeno la inesattezza di coloro che lo misero tra il Portico. Perchè sebbene se condo il sistema di conciliazione Varrone puo amare inolte dottrine del Portico, ne potea amare ancora di altre scuole, e non dovea dirsi del Portico assolutamente. Molto meno e poi da numerarsi tra i dubitatori dell’Accademia sul tenue fondamento d'una sua satira intitolata le “Eumenidi”, in cui gli uomini erano accusali d'insensatezza; e su quel l'altra dottrina sua, che niuna stranezza venne mai nell'animo agl'infermi deliranti, la quale non fosse affermata da qualche filosofo, il che molte volte suol dirsi anche da uomini che certo non sieguon Carneade e Pirrone. Ma non e giusto per al cun modo condurlo stoltamente ad accrescere l'ar mento degl’atei, perchè insegna molte favole es servi nella religione de' suoi di, che offendeano la dignità e la natura degl'Iddii imınortali. Impe rocchè egli queste cose insegnando, distinse gl'Id dii in favolosi, civili e filosofici; e parve bene che contro tutti avesse a ridire, e non senza ragione; ma pure afferma che i primi erano del teatro, secondi della città, e i terzi del mondo; e mostrò che disputava contro le favole poetiche, cittadine e filosofiche, non contro gl'Iddii, e parve che avesse gran voglia di onorare i filosofici, quando fosser purgati dalle fiuzioni, mentre li disse, i Numi del mondo. Di que' tanti libri di M. Varrone non ri [(1 ) Cicerone l. c. () L. Cozzando De Mag. Ant. Phil. I. III. G. A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II. (3) Uezio De la Forblesse de l'Esprit humain liv. I, ch. 14. (4) S. Agostino De Civ. Dei (5 ) S. Agostino I. c.] mangono altro che i nomi o alcuni frammenti delle intichità divine ed umane, e della forma della filosofia, e della lingua latina, della vita del popolo romano, delle Ebdomade, de' Poeti, e delle Origini sceniche, e delle Menippee, per le quali fu cognominato Menippeo e cinico Romano del Cinargo, e delle Cose rustiche, che sole vennero a noi salve dall' in giuria del tempo. Questi furono i più cospicui Sincretisti romani, ai quali si potrebbe aggiungere ancor CICERONE, il quale vaga per varie filosofie, e tenta riconciliazioni di sistemi; ma perchè ama con molta parzialità i metodi dell’Accademia, lo allogheremo tra que' filosofi romani che si attenneno a certe scuole, e ora amarono i placiti da CROTONA, ora I LIZIO, ora L’ORTO, ora IL PORTICO, siccome si è detto, ora altre guise di filosofia. Molta fu veramente la fama della filosofia di CROTONA; ma fosse colpa sua o d'altrui, sofferse dissipazioni e disgrazie che la misero ad oscurità. Tutta volta i Romani udirono qualche novella di Pitagora, al lorchè nella guerra sannitica persuasi dall'oracolo di Apollo Pizio a dedicare in celebre luogo della città una statua al più forte e l'altra al più sapiente de Gre ci, l'una innalzarono ad Alcibiade e l'altra a Pitagora: il che facendo, mostrarono, secondo l'avviso di Plinio, di non sapere nè la civile nè la filosofica istoria di Grecia. Dopo quella dedicazione non è meno ria che i Romani tenessero alcun conto di Pitagora, se non quando il maggior Catone ascolta il Pitago rico Tarantino, e nella medesima età il Calabrese ENNIO appare alcune dottrine pitagoriche in quella terra ove Pitagora insegna, e le sparse nel [(1 ) Cicerone Tusc. Disp. l. I. S. Agostino De Civ. Dei lib. XII, cap. 4, cap (2 ) Plinio lib. XXXIV, cap. 6. ] suo poema, nel quale ardì sognare che l'anima di Omero era passata in lui. Ma non persuase di que ste idee nè Catone a cui insegna la filosofia, nè P. Scipione Africano di cui godè la famigliari tà, nè altri Romani che udirono volentieri i suoi versi eroici e lo tennero sommo epico senza voler essere pitagorici. Io però vorrei che meglio si esaminasse se un poeta per alquanti versi che senton di Pitagorismo possa trasformarsi in filosofo pitagorico. Potrebbe parere che questa metempsicosi somigliasse quella di Omero in Ennio. P. NIGIDIO Figulo tuttochè e riputato vicino alla universale dottrina di Varrone, ed e senatore e pretore e amico intimo e consigliere e compagno nei grand affari di Cicerone, che molto lo riverì, come acre investigatore de' segreti della patura e uomo dottissimoe santissimo, e come quello che dopo i nobili Pitagorei polea rinnovare la lor disciplina quasi estinta, non si sa che persuadesse niuno, e fu stretto a ridurre la sua grande sapienza fisica e matematica e astrologica alle indovinazioni de' ladri che talvolta rubavan le borse de' suoi amici, e a componer gli oroscopj d’OTTAVIANO e del Triumvirato, e a disegnare la rapidità del cielo con gli avvolgimenti della ruota del vasajo, donde ottenne il so prannome di “Figulo”. Le quali avventure non so no veramente degne d'un senatore e d'un pretore pitagorico, ma posson forse mostrare che si pochi [(1 ) Cicerone pro Murena 14; Acad. Quaest. I; De Fin. I, e altrove. Persio Sat. VI. V. Vossio De Hist. Latinis, e A. Baillet Jugem. (2) Cicerone Fragm. de Universitate. S. Agostino De Civ. Dei lib. V, cap: 3; Ep. fam. lib. IV, ep. 13. Plutarco in Cicero ne. A. Gellio, Macrobio Saturn. lib. II, cap. 12; VI, cap, 8. Apulejo in Apolog. Dione lib. XLV. Svetonio in Augusto 94: Lucano Phars. I, 639. V. P. Bayle art. Nigidius. ICO LER] affari di scuola esercitaron questo Nigidio, ed ebbe tanto vuoto nella vita, che gli storici amici della sua gloria pensarono bene a riempierlo di favole. Non è questa la prima nè l'ultima panegirica istoria colpevole di supplementi favolosi. A confermazione della tenue fortuna di questo filosofo da CROTONA e scritto, che avendo egli composti i libri degl’animali, de gl’uomini, delle viscere, delle vittime, degl’auguri, de' venti, della Sfera grecanica, e di altri moltiplici argomenti, per la cui abbondanza fu quasi eguale a Varrone, ove però le scritture di questo si divulgarono e si lessero assai, le Nigidiane per la sottigliezza e per la oscurità giacquero abbandonate; e l'autore poi avendo seguite le parti di Pompeo, per timore di Cesare muore in esilio volontario. Poco appresso Anassilao Larisseo professa la setta di CROTONA, ed esplorando i segreti della natura per la medicina e per uso di certe sue magiche me raviglie, e con le sue scoperte armirabili venendo in sospetto di magia e forse uccidendo i malati più che gli altri medici con meno segreti, e d’OTTAVIANO condannato all'esilio. La filosofia di CROTONA ebbe adunque assai avversa fortuna tra i Romani in questa età. Il Lizio ottenne qualche migliore, ma non molto illustre accoglienza; perchè sebbene Catone e Crasso e Pisone e Cicerone istes so non abborissero i uomini del Lizio, e nelle memorie di questi tempi sieno ricordati con onore Andronico Rodiano e Demetrio e Alessandro Antiocheno e Stasea Napoletano e Cratippo Mitileneo maestro del figlio di Cicerone e di altri nobili romani; tuttavolta per le narrate disgrazie e depravazioni dei libri del Lizio, o per quali In: TIK ita pi V Ci I Jedi (1 ) Eusebio in Chr. Plinio lib. XIX,cap. 1; XXVIII, cap. 2; XXXV, cap. 15. Irenco lib. I, cap: 7. Epifanio Haer. 34. V. Vos. sio De Idol. lib. I, 6; Fabrizio Bibl. Graec. vol. I.] che fossero altre cagioni, il nome del Lizio fuori di molto pochi era, per testimonianza di Cicerone, ignoto ai filosofi de' suoi giorni. Ma L’ORTO quantunque spesso ripresi e più spesso calunniati e singolarmente flagellati da quella sottile eloquenza di Cicerone, che sapea persuadere finanche il falso quando volea, pure in onta di tanto travaglio videro assai Romani di nome e di opere illustri non arrossirsi di essere DALL’ORTO. Lucio della tanto antica e nobile famiglia Torquata, e G. Vellejo sostenitore delle ragioni dell’ORTO nel dialogo della Natura degli Iddii di Cicerone, e principe dell’ORTO che allora erano in Roma, e C. Trebazio, como di somma scienza nel Diritto civile, a cui Cicerone intitola la Topica, e L. Papirio Peto, egregio oratore e soldalo, e L. Saufeio e T. Albuzio e C. Amafanio, e più altri numerati da Gassendo, furono nobilissimi DALL’ORTO (2). Ma C. Cassio e T. Pomponio “Attico” per singolarità di fama e d'ingegno emerge splendidamente dalla folla degli altri. Il primo e quel prode assassino di Cesare, che nell'ardor dell' assalto ad uno de' congiurati che dietro a lui si aslenza dal ferire, dice: Feriscilo anche per mezzo alle mie viscere. Egli vincitore de' Parti e soldalo di primo valore e sommo DELL’ORTO, parla secondochè l'émpito militare e le disperazioni della sua scuola lo animavano, e per gli stessi principj nella perdita della battaglia e della libertà si fa uccidere, e si uccise egli medesimo con quello stesso pugnale con cui ferito Cesare, ed e acclamato e pianto come l'ultimo de' Romani. Alcune avventure filosofiche di que [(i ) Cicerone Topic.Praef. V. P. Bayle art. Cratippus; J. Bru cker De Phil. Rom. & XXIV, XXV. (2) De Vila et mor. Epicuri lib. II, cap. 6. (3) Aurelio Vittore De Vir. III. (4 ) Plutarco in Caesare, in M. Antonio, in Bruto.] st'uomo domandano qualche riflessione. Bruto vide uno spettro d'inusitata grandezza, e interrogato chi fosse, risponde – “Io sono il tuo mal genio, o Bruto: tu mi rivedrai a Filippi; ove lo rivide e fu vinto.” Di questa apparizione Bruto ha discorso con Cassio, il qual dice, non esser credibile che vi fossero genii, ed esser nostre immaginazioni; e quando pure vi fossero, nè aver figure di uomini, nè forza che giun ga a noi. Ma sarebbe pur bene che fossero, aggiun se, acciocchè noi condottieri di bellissimi e santissimi fatti andassimo forti non solamente per fanti e cavalli e navi, ma per la protezion degl' Iddii. Bruto si consolo per questo discorso. Ma CASSIO medesimo ha la sua visione, e parve che consolatore degli altri non sapesse consolare sè stesso. Nella giornata di Filippi vide Giulio Cesare in sembiante sovrumano e minaccioso che a tutta briglia venne a combattere contro lui, ed egli spaventato disse – “Che ci rimane più oltre, se è stato poco averlo ucciso?” -- Di lui è anche raccontato che nel giorno della uccisione di Cesare invoca l'a nima e l'ajuto del grande Pompeo, e che rivedendo insieme con Bruto le truppe romane, dice loro: “GlIddii, che prendon cura delle guerre giuste, vi rendan premio di tanta fede. Noi abbiam prese tutte le giuste misure: il rimanente si aspetta dalla vostra virtù e dagl Iddii favorevoli. Se essi vorranno, noi vi ricompenseremo della grand'opera di questa vitloria.” Le siffatte visioni e preghiere divote non parvero proprie d’un filosofo dell’ORTO, il quale se non affatto rifiutava i fantasiuni, certo non co noscea gli animi immortali e la provvidenza de [(1 ) Plutarco in Brulo. (2) Val. Massimo lib. I, сар. ult.' (3 ) Plutarco in Caesare et in Bruto. (4) Appiano Aless. Bell. Civ. lib. IV.] gl'Iddii; onde quelle apparizioni e invocazioni o voglion tenersi per favole del popolo e degli storici, o per fanatismi di Cassio, il quale agitato dalla grandezza de' casi lascia trasportarsi nelle idee e nelle parole comuni, e si scorda di essere DALL’ORTO. Io non dissento da questi pensieri; maquanto agl'Id dii e alla provvidenza io desidero ehe i miei leggitori si ricordino di quanto abbiam disputato in questo argomento esaminando la teologia dell’ORTO con quella diligenza che abbiam saputo maggiore; e non diffido che le preghiere di Cassio possano porgere alcun nuovo indizio della provvidenza non affatto distrutta nel sistema dell’ORTO. Tito Pomponio Attico e il più sincero e il più costante ornamento della scuola dell’ORTO; e se Cassio ed altri con lui troppo s'immersero nel comore e nel fumo di Roma, e deviano dal piacere e dalla felicità che sono i fini dell'ORTO, ATTICO fermamente rivolto a queste mire, già prima nelle turbazioni di Silla si riparò ad Atene, e ascoltando Fedro e Zenone Sidonio visse tranquillamente negli ozj e negl’orti d'Epicuro, e con la gravità ed umanità dell'ingegno ottenne tanta benevolenza, che dai Greci ha statue e dai Romani il bel soprannome di Attico; indi ritornato alla patria, si allontana dagl’onori offerti e da tutti gli affari civili, e niuna parte prendendo nelle contese de' potenti, e ser bandosi amico de litiganti, e usando fede con tutti e liberalità e cortesia, non si sa ben dire se più e amato o riverito; e vivendo a sè medesimo e non per ostentazione d'ingegno, ma per governo della vita filosofando, campo dalla proscrizione di tanti cittadini, e caro ai vincitori menò vita riposata e luminosa; alla quale però nè il suo genero Agrip [(1 ) P. Bayle art. Cassius Longinus (Cajus) Primo.] pa, nè il progenero Tiberio, nè il pronipote Druso dieder tanto splendore quanto la intima amicizia di Cicerone, le cui Lettere e i libri della Vecchiezza e delle Leggi lo consecrarono alla immortalità. In questa beatitudine di vita e preso dalla dissenteria e dalla febbre. Ubbidì prima ai medici inutilmente, e poi sperimentata l'ostinazione del male, alla presenza di alcuni amici suoi, Voi siete buoni testimonj, disse, della cura e diligenza mia nel difendere in questo tempo la mia sanità. Io ho dunque soddisfatto al debito mio. Ri mane ora che io provveda a me stesso. Voglio che voi il sappiate. Imperocchè ho statuito di non volere più oltre alimentare il mio male; perchè in questi giorni truendo innanzi la vita col cibo, ho accresciuto i dolori miei senza speranza di sanità. Per la qual cosa io prima vi domando che il mio consiglio approviate; indi che non vogliate sforzarvi a dissuadermi. Dette queste cose con tale co stanza di voce e di vollo che parea non uscisse dalla vita, ma da una casa per passare ad un'altra, gli amici piansero e pregarono, ed egli le lagrime e le preghiere compresse con un ferino silenzio. Così avendo digiunato due di, la febbre cessa; inè mutò proposito per questo, ed essendo a mezza via, non volle tornare indietro e anda oltre digiu nando, e muore ragionatamente secondo i principi dell’ORTO, e non già come Cassio impetuosamente e a mal tempo. Questo inumano errore di moda e di scuola e in Attico error di ragione ee di gran d'uomo. Tito LUCREZIO Caro, inferiore certo ad Attico e a quegli altri nella dignità della vita, ma nella poe [(1 ). Cicerone De Fin. e nelle Epistole ad Attico e altrove. C. Ni pote in Artico. Seneca Ep. 21. (2 ) C. Nipote I. c.] lica gloria de componimenti dell’ORTO maggiore di quanti fiorirono in quella scuola. Nella elà di Cicerone e di Attico vide anch'egli Atene, e ascolta Fedro e Zenone e visse negl’Orti d’Epicuro, e per mostrare a Roma i suoi progressi nella guisa più dilettevole, scrive in esametri latini sei libri della Natura delle Cose, ne' quali fu delto non essere meraviglia che profondesse tutte le empietà e le pazzie dell’ORTO, perciocchè gli avea composti ne' corti intervalli di ragione che gli rimaneano al quanto liberi dalla frenesia contratta per certa be vanda amorosa. Ma noi invitiamo ancora qui i leggitori nostri a volersi ridurre a memoria le ragioni altrove disputate contro i malevoli dell’ORTO, le quali secondo la nostra estimazione posson molto valere contro gli oppressori di Lucrezio. Non sarebbe difficile una dissertazione, giacchè le dissertazioni sembrano facilissimi affari, ove si prova che Lucrezio non e il più pazzo de' poeti, e non sarebbe difficile un'altra in cui si mostrasse che molti filosofi furon più pazzi di questo poeta. Ma non so se queste dissertazioni con tutta la bizzarria de'loro titoli, che sogliono pur essere di qual che raccomandazione, potrebbono riuscir dileltose a chi le componesse e a chi le ascoltasse. Imperoc chè sarebbe necessità recitar molti di que' versi dell’ORTO che secondo il ruvido carattere della scuola non sono i più molli e i più eleganti, e non sono poi tanto chiari da mettervi fondamento sicuro. Noi adunque, senza pretendere in dissertazioni, direm così per passaggio,come gli fu dato a colpa di vio lata religione ch'egli attribuisse alla natura degl'Id dii il godimento di somma pace e la divisione dai [(1 ) Eusebio in Chr. V. G. A. Fabrizio Bibl. Lat. vol. I; P. Bayle art. Lucrece.] dolori e dai pericoli nostri, e che insegna non aver essi bisogno di noi, nè esser presi da benevolenza o da ira; e che giacendo la vita degli uomini sotto grave religione, la quale dal cielo mostra il capo con orribil risguardo soprastante ai mortali, un uom greco fu il primo che ardì levar gli occhi contro di lei e resistere. Lui nè la fama degl'Iddii, nè i fulmini nè i minacciosi romori del cielo raffrenarono; che anzi l'acre virtù del suo anino s'irritò, e ruppe le strette porte della natura, e con la vivida forza della mente vinse e tras corse oltre i confini del mondo, e misurò tutto l'Immenso; e c'insegnò quello che può nascere e quello che non può, e quali sieno le potestà e i termini fermi delle cose. Onde la religione a sua vicenda è calpestata dai nostri piedi, e la vittoria ci aggua glia al Cielo. Ma si è già detto abbastanza al irove che le divine tranquillità possono avere nel sistema dell’ORTO sensi non affatto distrutlori di ogni provvidenza; e veranente lasciando pure stare Deslandes, che fa una pielosa predica a Lucrezio per questo disprezzo suo della religione, è ben molto che Bayle non abbia saputo ve dere che la religione, contro cui Lucrezio usa qui tanto disprezzo, non è altro che quella superstizio ne che insieme con altre scellerate opere insegna ai Greci le vittime umane; onde egli dopo la descrizione d'Ifigenia all' altare conchiude: che tanto di mali potè la religione persuadere. Io certo non ar direi affermare che Lucrezio insegnasse la Provvidenza ove scrisse, una certa forza nascosta strito lare le cose umane, e sembrare che conculchi e 1 [(1 ) T. Lucrezio De Rer Nat. lib. I. (2) Deslandes Hist. De la Phil. tom. III. (3) P. Bayle I. c. E.] prenda in ludibrio i fasci e le scuri; o dove in voca V'enere origine e regolatrice di tutta la natura, o dove implora l'ajuto della governante Fortuna nei disordini e nelle ruine del mondo Ma non ardirei pure accusarlo d’ateismo, e im porgli più errori di quelli che secondo la sentenza nostra abbiamo veduti nel suo maestro dell’ORTO, di cui fu seguace tanto rigido, che permettendosi il suicidio in quella filosofia, egli neusò a suo agio, e si uccise di propria mano. È stata opinione che C. Giulio Cesare, uomo di estraordinaria forza d'ingegno e di cuore, sebbene potendo ottener' somma gloria dalle lettere e dalla filosofia, volesse averla piuttosto dalla politica e dalle arme, tuttavia non isdegnasse alcuna volta di starsi tra i filosofi, e gli piacesse di essere dell’ORTO. Im perocchè dicono che parlando al senato non dubitò di affermare ardimentosamente, di là dalla morte non esservi tormento nè gaudio; e non ebbe poi timore per voglia e comodo suo di tagliar boschi sacri e di seguir le sue imprese contro gli avvisi de sacerdoti e della religione. Ma a dir vero, que sti non sono i caratteri propri dell'Orto: e poi si potrebbe dubitare se Cesare così parlasse al senato, come Sallustio lo fa parlare; e se così ta gliasse gli alberi sacri, come Lucano con la poetica licenza racconto; e date eziandio per vere queste leggende, è molto ben noto che anche Cicerone, usando della rettorica volubilità, predica talvolta pubblicamente la mortalità degli animi senza essere [(1 ) De Rerum Nat. lib. V, 1225. V. Rondel Vila Epicuri. (2) De Rer. Nat. lib I; V, 105. (3) V.G.F. Reimanno Hist. Ath. cap. XXXVII, $ 5. (4 ) Sallustio De Bello Catilivario 51. (5) Lucano Phars. lib. III. Svetonio in Cesare 59, 81.] dell’ORTO, anzi senza recarsi ascrupolo di predicarne la immortalità in altre pubbliche orazioni, ove il bi sogno della causa lo domandasse. Così gli oratori romani costumavano, e agli stessi metodi Cesare ubbidi; e così pur fece nell'affare de'presagi e della religione, mentre se è scritto che talora trasscura le romane superstizioni, è scritto ancora che spesse volte le uso, e parve che le avesse per ve re. Molto meno io poi ardirei imporre a Cesare l'ORTO, perchè fu accusato di osceni amori con Nicomede re di Bitinia, e perchè molte nobili donne romane e alcune reine corruppe, e perchè e detto la moglie di tutti i mariti e il marito di tutte le mogli, e perchè sostenne assai altre infauna zioni di lascivo costume; le quali oltrechè possono essere alterate dalla malevolenza e dalla effrenatezza popolare di Roma, che le lodi e i trionfi de gran d'uomini solea contaminare con le satiriche licenze, non posson poi essere argomenti di doltrine dell’ORTO, giacchè nè l’ORTO professa questa dis solutezza, nè la corruzion de costumi è buon argomento per la corruzione delle massime; e siccome non sarebbe buon discorso dai regolati costumi di Cassio e di Attico didurre che non sono dell’ORTO, così non sarebbe pure conchiuder che Cesare era per la sregolatezza de'suoi. Piuttosto si potrebbe raccogliere alcun indizio dell’ORTO dalla replicata avversione che Cesare mostrò verso i costumi di Catone, contro cui scrive due libri intitolati gli “Anti-catoni” L’ORTO e il giurato nimico del [(1 ) Cicerone Orat. pro Cluentio et pro Rabirio. (2) Plutarco e Svetonio in Caesare. Floro lib. IV, cap. 2. Dione lib. XLII. V. P. Bayle art. César. (3 ) Svetonio in Caesare 49 e segg. (4 ) Svetonio I. c. Plutarco in Cicerone V. Adriano Baillet Des Satires personelles,.ou des Anti, Entr. I, S 1. 7 318] PORTICO, e Catone e grande del Portico. Pare adun que che Cesare non puo prorompere a tanta avversità contro tutti i costumi di Catone senza essere dell’ORTO. Vaglia questo come può il meglio. Ma qualunque fosse la setta di Cesare, certamente il solo pensiere di correggere il calendario Romano disordinato dalla negligenza de' sacerdoti, e l'Anno “Giuliano”, che Giulio da a tanta parte di mondo, mostrano in lui genio filosofico e gusto di astronomia. Quella versatile eloquenza di cui gli avvocati e i pubblici parlatori di Roma usano nella varietà e lalora nella contraddizione delle cause, e la origine primaria dell' applauso in cui venne tra i Romani la filosofia dell’Accademia; la quale insegnando a disputare per tutte le parti, e colorendo di probabilità il pro e il contro, e somıninistrando argomenti per tutti i casi, e molto opportuna a quella eloquenza forense che potea dirsi la grande e forse la prima via delle soinme fortune. Sembra adunque ben detto che la filosofia del PORTICO per la gravità degli uffizj e de' principj sociali fu tra i Romani la disciplina de' giudici, de' legislatori e de' giureprudenti; L’ORTO e lo studio quasi domestico e privato di uomini desiderosi di vivere Jictamente; CROTONE e il LIZIO sono la cura di pochi; l’Accademia confusa al Portico si riputa degna de' sacerdoti, e l'accademica e la delizia de causidici e degli oratori; siccome, a dir vero, pare che fusse pure in altre terre e in altre età, e che sia ancor nella nostra. È però mestieri avvertire che parlando di accademica filosofia, non vuole intendersi un pirronismo effrenato, che forse non ebbe esistenza salvo ne' capricci di uomini esageratori; ma un temperato genere di filosofare per cui si esa minano i placiti di tutte le scuole, e si sceglie il buono, e si cerca il vero, e si crede di trovar solo il probabile,e secondo questo si governa la vita. Cicerone fu il ipaggior lume di questa filosofia tra i Romani; il quale con la forza d'una singolare eloquenza e con l'abbondanza della dottrina e con la varietà de' libri così la nobilitò egli solo, che gli altri furon dimenticati. Ma egli sarà ben tale da po ter valere per tutti. Mentre io ora mi accosto a que sto sommo maestro del nobil parlare, e vedo che la eccellenza della sua lode e la grandezza degli ob bligbi nostri domanderebbono eloquenza pari alla sua, sento vergogna della mia lontananza da quel sublime esemplare, e volentieri sfuggirei per ros sore il difficile incontro, se la vergogna non fosse vinta dalla necessità. Cicerone, arpinate, o che suo padre fosse purgatore di panni e i suoi avi cultori  di ceci, o che la sua gente avesse origine dai che nascesse onorato dagli oracoli e dai prodigj, o all' uso comune nel silenzio degl' Iddii e nell'ordine della natura, siccome variamente si racconta. Niente più e niente meno fu il medesimo uomo non molto cospicuo tra i soldati, non affatto pic ciolo tra i filosofi, grande tra i maestrati e tra i consoli, massimo tra gli oratori. Nell'adolescenza e appresso nella età anche matura amò i poeti e scrisse versi, de' quali rimangon frammenti biasi mati più del dovere, e coltivò le lettere  e [(1 ) Plutarco in Ciceroue. Dione lib. XLVI. V. G. A. Fabrizio Bibl. Lat. vol. II.] la eloquenza. Cresciuto. si accostó ai filosofi. Ascoltỏ gli Epicurei per disprezzarli allora e dap poi, senza averli forse intesi. Conversò con IL PORTICO e con IL LIZIO, e apprese i luoghi e i fonti del disputare, e altre loro dottrine non ab borri: ma singolarmente coltivo gli Accademici per amore di quella versatile e forense eloquenza di cui abbiam detto. Su questi fondamenti, con quel buon metodo non inteso dai nostri pedanti, appog. giò e poi confermò viemaggiormente la sua arle oratoria. Presa la toga virile si attenne ai giore consulti. Militò un poco nella guerra Marsi cana, e venuta la pace ritornò molto volentieri alle lettere. Vive dimesticamente con Diodoro stoi co eruditissimo, frequenta Molone oratore Rodia no, e Ortensio, che era il primo parlatore di Roma: non trascurò fino di apprender le più gen tili eleganze del dire da Cornelia, da Lelia e da altre dame romane, colà imparando eloquenza ove altri ora sogliono disimpararla: non fu giorno che non usasse nuove diligenze erudite, e non decla masse e disputasse ora con parole latine, ora con greche. Trasse nel vulgare di Roma alcune scritture di Protagora e di Senofonte e altre di Platone, e singolarmente il Timeo, di cui ci rimane una parte, per la quale conosciamo che Platone po trebbe sopportarsi tradotto da Cicerone, laddove non si può nelle versioni di altri. Ci rimangono [(1 ) Cicero pro Archia I. Plutarco l. c. Svetonio de Cl. Ret. 2. Vossio De Poel. Lal. V. Andrea Scollo Cicero a calumniis vin. dicatus. (2) Cicerone De Off.lib. I, 1; II, 1; Ep. fam. lib. XIII, ep. I et 16; Paradox. I; De Or. lib. III, 28; Tusc. Disp. lib. II, 2; in Bruto 90; De Nat. Deor. e altrove. Plutarco I. c. (3 ) Cicerone in alcuni luoghi citati, e De Fio. lib. V, el De Div. II; e vedi i Frammenti, Plutarco 1. c. Quintiliano l. 1, 2; III, 1; X, 5. S. Agostino De Civ. Dei lib. V, cap. 8.] pure alcuni frammenti di sue traduzioni diOmero, le quali non ci nojano come quelle degl' interpreti nostril. Istruito da tante esercitazioni e animato da questi presidj, nel suo venticinquesimo anno, che era il seicento settantaunesimo di Roma (2) non dubitò di mostrarsi nella luce del Foro, e agitd la sua prima causa, che alcuni dicono esser quella in difesa di Sesto Roscio Amerino, contro la vo lontà di Silla, e ne uscì vincitore con tanta ammi razione, che niuna altra causa parve poi superiore al suo patrocinio. Ma poichè Silla raffrenatore di Mitridate e domatore di Mario era in quei giorni dittatore e quasi signore assoluto delle vite e delle cose romane, fu voce che Cicerone temendo la ira di quel fiero autore delle proscrizioni, rifuggisse in Grecia. Altri pensarono che si desse a viaggiare per ricuperare la sanità afflitta per troppa veemen za nella declamazione (5). Comunque fosse, visitò Atene e molto usd col famoso Sincretista Antioco, e visse congiunto a Pomponio Attico con quella amicizia che durò tra loro fino alla morte. In que sto viaggio verisimilmente fece iniziarsi nei misteri Eleusini, de' quali così parld come se la loro so stanza fosse l'unità d'Iddio e la immortalità degli animi (6). Tale fu l'avviso nostro nella esposizione del sistema arcano d'Egitto, e tale è del dotto Warburton e del Middleton, il che molto consola [(1 ) Cicerone in alcuni luoghi citati, e De Fin. I. V, e De Div. II; e vedii Frammenti. Plutarco I. c. Quintiliano I. I, 2; III, 1; X, 5. S. Agostino De Civ. Dei lib. V, cap. 8. (2) V. Middleton Vita Cicer. lib. I. (3) Cicerone in Bruto 91. Middleton I. c. (4) Plutarco l. c. (5) Cicerone in Bruto. Cicerone De Nat. Deor. lib. I, 42; De Leg. lib. II, 14; Tusc. Disp. lib. I, 15. BUONAFEDE. Ist. Filos. Vol. II. 21] le nostre conghietture. Da Atene navigò nell'A sia, e conversò cogli oratori e coi filosofi di quelle terre, e sopra tutti con Possidonio; e declamo in greco nel mezzo a nobil frequenza con tale fecondità, che i greci oratori piansero il loro destino, per cui non solamente le fortune, ma le arti e le scienze dalla Grecia trapassavano a Roma. Silla morì, e Cicerone restaurato nella sanità ritornò alla patria, ove fu prima negletto come un grecolo scolastico; ma poi eguagliando e spesso vincendo la gloria di Cotta e di Ortensio oratori lodatissimi di quella età, rimosse Roma dalla sua negligenza, e ottenne prestamente la questura ed ebbe in sorte la Sicilia, ove avendo ricevuto lodi e onori inusitati, s'im maginò che tutta Roma fosse piena della sua glo ria. Masbarcato a Pozzuolo in tempo che grande era il concorso di molti uomini romani, ebbe il dispetto di vedersi ignoto, e conchiuse adirato che iRomani aveano le orecchie sorde e gli occhi acuti. Dopo questa mortificazione, grave di vero in uomo perduto nella fantasia della gloria, egli deliberò di battere assiduamente il Foro e i pubblici luoghi, e starsi tuttodì presente a quegli occhi acuti che dif finivano le sorti de' cittadini ambiziosi. Agitò cause nobilissime, e fu edile, pretore e console non meno per favore degli ottimati, che per giudizio del Popolo. Egli ricevè la repubblica piena di sollecitudini,e non vi erano mali che i buoni non temessero e i ribaldi non aspettassero. I tribuni e Catilina e i suoi compagni teneano consigli di ruina. Ma Cicerone li compresse e salvò la repubblica  [Warburton Della divina Legazione di Mosè vol. I. Middle ton I. c. (2) Plutarco I. c. (3) Div. in Verr. I, et lib. II, 2; pro Planco 26. Plutarco i. c. (4) Cicerone in più luogbi, e Plutarco l. c. (5) Sallustio De Bello Calilinario e gli altri Storici Romaui.] ze Tire! Per la grandezza dell'opera venne a somma grazia de' patrizi e del popolo, e fu acclamato padre della patria; e poco appresso vinto dalla invidia e dalla frode di P. Clodio, fu spinto in esilio, e le sue ville incendiate e le sue case con ogni sostanza arse e saccheggiate. Andò errando con animo assai abbat tulo per l'Italia e per la Grecia, nel che mostrd di essere più oratore che filosofo; finanche richia mato per pubblico consenso, e restaurati i suoi danni per sentenza del senato, ritornò a Roma, incontrato da tutte le città, e portato, siccom'e gli raccontò, sulle spalle di tutta l'Italia. Ebbe in provincia la Cilicia, e parve che volesse eser citar nella guerra le arti della pace. Ma come si accese la discordia civile, egli seguendo le parti di Pompeo, e pretendendo in valor militare, dopo la sconfitta farsalica si pentì d'esser soldato e ricuso di guerreggiare più oltre; cosicchè il giovin Pom peo sdegnato di quella codardia, lo avrebbe uc ciso se Čatone non lo campava (2). Venne poi a riconciliazione con Cesare, e nella mutazione della repubblica, che assai gli gravava nell'animo, si ri volse alle lettere e alla filosofia, e istruì nobili gio vani romani, e leggendo e scrivendo libri passò la maggior parte de' suoi giorni nella dolcezza degli studj e nei silenzi della sua villa Tusculana.Ritorno anche ad Atene per alleggerimento di noja e per la memoria delle passate esercitazioni. In questo spazio ripudid Terenzia, e mend in moglie una ricca donzella, e pianse puerilmente la morte di Tullio la, e ripudid la nuova moglie perchè non volle 702 ber che V. i luoghi di Cicerone presso Francesco Fabrizio nella Vita di Cicerone. [Plutarco I. c. et in Caesare. Dione lib. XXXVIII. Vellejo lib. 11. Cicerone Or. pro Domo sua ct post Rcd. ad Quir, et post Red. ad Sen. e altrove. (2) Plutarco lic. 1 pianger con lui. elle quali avventure fu accusato di amori sozzi é ridicoli, e di animo debole per temperamento o per anni (1 ). Con tutti questi do mestici fastidj avrebbe potuto esser felice, se avesse perseverato nell' amore del letterato ozio e dellafilosofia. Ma dopo l ' assassinamento di Cesare gli piacque di rientrare nella tempesta civile, e sebbene non fosse tra i congiurati, si attenne al loro portito, e M. Antonio già suo pernico irritò mag giormente con le Filippiche. Dopo varie vicende si compose il Triumvirato, e Cicerone ne fa la vit tima più sacra e più pianta da Roma, già ridotta a pochi, e da tutta la posterità. Egli poichè ebbe udita la fama della proscrizione, fuggì prima al mare e s'imbarcò con venti contrarj, onde presa terra a Circejo, tra molti pensieri niuno piacendogli quanto la morte, disegno di recarsi a Roma e uccidersi nella casa istessa di Cesare per versare sopra l'in grato la vendetta del suo sangue. Indi persuaso da nuovi pensieri navigò ancora e prese pur terra,e nojato del mare e della vita, lo morrò, disse, in quella patria che spesse volte'ho conservata; e non morendo pur questa volta, si adagi ) e dormà nella sua villa Formiana. Mentre i suoi domestici spa ventati dal romor de' soldati lo guidavano a forza verso il mare, apparvero i carnefici, contro cui i servi si prepararono a combattere. Cicerone co mandd che stessero: guardò con fermo occhio gli assassini e singolarmente il lor condottiere Popilio Lena, che reo di parricidio era stato difeso e salvato da lui: sporse dalla letlica il capo, e, Fale, [Cicerone Tusc. Disp. lib. I, 1; De Off. lib. II, 1, 2; e in più Lettere ad Allico e ai suoi amici. Plutarco I. c. V. l'Orazione al tribuita a Sallustio. — Donato (in VI Eneid. ) accomoda a Cice rone quel verso diVirgilio: Hic thalamos invasit Natac velitos que hymeneos. V. P. Bayle art. Tullie, 0. disse, l'opera' vostra, e quello prendelo, di che avete bisogno: l'ingralo " Popilio con parricidio maggiore del primo gli recise il capo e le mani, e recò l'iniquo fardello ad Antonio, il quale con gran festa affisse su i rostri quel capo sublime e onorato e quelle mani benefiche, spettacolo miserabile e argomento di pianto ai buoni Romani e di trastullo agli schiavi, ai traditori e ai tiranni (1 ). Nell'anno di Roma settecendecimo e di Cicerone sessanta qualtresimo avvenne questa tragedia, in cui si vide la morte di Cicerone e della repubblica. Daquesto tenore distudj e di vita non solamente si può conoscere che Cicerone era pieno d'un de siderio smoderato di gloria, che lo rendea forte e magnanimo nella buona sorte e timoroso e pian gente nella disgrazia (onde Cristina di Svezia, con una regia libertà che sarebbe licenza in uomini pri vati, usava dire, Cicerone essere il solo poltrone che fosse capace di grandi cose ); ma si pud an cora scorgere facilmente che il sommo fine poli tico di Cicerone fu l'acquisto delle maggiori for tune nella repubblica: che due essendo i mezzi per giungervi, la scienza militare e la oratoria, e co noscendo egli di valer poco nella prima, comechè molto si tormentasse per giungervi, si attenne vi gorosamente alla seconda; e che egli avendo sen tenza, niuno essere oratore perfetto il quale non abbiascienza di tutte le grandi cose, vago per qua Junque facoltà, e sopra tutto per le opinioni di ogni filosofia, e tutto questo adunamento di dottrine in dirizzo al suo desiderio di essere oratore perfet to (2). Questo studio è palese nelle sue opere, le (1 ) T. Livio Epit. 121. Plutarco in Cicerone et in Antonio. Svetonio in Augusto. [Vellejo II,8, 65, 66.Dione lib. XLVII. Ap piano lib. IV. Seneca Súas. I et VI. V. Massiino lib. V, 3. Floro PADOV,6. (2) Cicerone De Or. lib. I, 6; II, 2.] quali a ragionatori severi appariscono più eloquenti che filosofiche, e mostrano maggior cura del bel dire che del corretto pensare. Cicerone adunque sempre intento alla eloquenza e sempre caldo d'una immaginazione vivace e feconda e d'una voglia ine sausta di meraviglie rettoriche, e sempre frettoloso per la moltitudine dei gra rissimi affari, trascorse e quasi sfiorò le nozioni filosofiche, e divenne gran dissimo nel dipingere, nell'adornare e nel persua dere; ma nel vigore del discorso e del giudizio e nelle sottili distinzioni del vero e del falso parve che le più volte l'oratore fosse smisuratamente più grande del filosofo. Gli è però vero che nel silen zio delle lettere forensi e senatorie, e nell'ingenuo ozio in cui la usurpazione di pochi lasciava i grandi uomini di Roma, Cicerone ottenne dalla disgrazia questa utilità, che riposatamente e liberamente me dità e scrisse argomenti filosofici, e massima mente si esercitò nella parte teologica e morale cui appartengono i libri notissimi della Natura degl'Id dii, della Divinazione, del Fato, del Sogno di Sci pione, dei Fini, della Vecchiezza, dell'Amicizia, delle Leggi, degli Uffizj, le Disputazioni Tuscula ne, i Paradossi Stoici e le Quistioni Accademiche; nelle quali si argomentd particolarmente a distrug gere i greci sistemi alla maniera di Carneade, e pa lesò il suo. Coopose ancora l'Ortensio ossia l'Am monizione alla Filosofia, e i libri della Repubbli ca, che sono perduti (2). Ma per quanto ozio egli avesse e per quanto meditasse, non seppe mai di vezzarsi dall'esagerato linguaggio oratorio, e di lui usd pomposamente nella esposizione de sistemi e delle ragioni filosofiche; e poi vi aggiunse i suoi [Cicerone De Off. lib. II, 1, 2. (2) Cicerone ne fa memoria, De Fin. I. I; De Div. I. II; Tusc. Disp. lib. III. S. Agostino De Civ. Dei e Lattanzio in più luoghi.] amori e i suoi odj per certe scuole, e questi an cora rettoricamente amplifico; e per giunta di am biguità gli piacquero le platoniche forme de' dialo ghi e le accademiche dispute e le confutazioni per ogni parte e gl'inclinamenti ora ad un lato, ora ad un altro; donde risultarono equivoci e dubbj e opi nioni diverse intorno alla filosofia. Ma noi pensia mo di poter mettere alcun ordine in tanto invi luppo ragionando di questa guisa. - Non fram mezzo alle pompe eloquenti delle orazioni e alle asluzie forensi, e non tra le epistole di complimen lig di raccomandazioni, di condoglienze, di affari, nè tra i parlamenti e i dialoghi di uomini ora epi curei, ora stoici, ora peripatetici passionati, è da cercarsi la filosofia di Cicerone, siccome alcuni fe cero e fanno incautamente, ma è giusto rintrac ciarla in que' luoghi delle sue opere filosofiche ove egli parla in persona e sentenza sua propria. —Cio statuito, ascoltiamo Cicerone medesimo, il quale senza equivocazione e mistero alcuno ci racconta ch'egli professa la filosofia della nuova Accademia; perciocchè a coloro che si meravigliavano come egli principalmente approvasse quellafilosofia che toglie la luce e quasi sparge una nottesopra le co se, e protegesse impensatamente una disciplina de serta, egli risponde: « Non imprendiamo già noi « il patrocinio di cose deserte. Questo metodo, per « cui si disputa di tutto e non si giudica aperta « mente di niente, nato da Socrate, ripetuto da « Arcesilao, confermato da Carneade, invigorì fino u alla nostra età; il qual metodo ascolto essere u ora abbandonato in Grecia, il che io credo av « venuto non per vizio dell'Accademia, ma per pi u grizia degli uomini: mentre se gran cosa è ap prendere alcuna disciplina, quanto è maggiore u apprenderle tutte ! la qual cosa è necessario che quelli facciano, i quali hanno proposto per la investigazione del vero disputare contro tutti i « filosofi e a favore di tutti; e questa difficile fa « coltà non penso io di avere acquistata, solamente u penso di averla seguita. Nè già noi a questa gui u sa filosofando, riputiamo, niente esser vero, ma piuttosto al vero essere congiunto il falso con « tanta rassomiglianza, che manchi il certo criterio « di giudicare e di assentire; dalle quali dottrine siegue questo precetto, nolto essere il probabi le, il quale benchè non sia bene compreso, non « pertanto avendo certo uso insigne ed illustre, « dee governare la vita del savio. E altro ve: « Io vorrei (egli dice ) non a nome di Attico, di Balbo o di Vellejo, ma a suo, che fosse ben u conosciuta la nostra sentenza; imperocchè non « siamo noi vagabondi nell'errore, nè manchiamo « di quello che è da seguirsi; poichè quale sarebbe « la mente e quale la vita, tolta la regola del di sputare e del vivere? Ma noi, ove gli altri dicono u alcune cose certe, alcune incerte, dissentendo da essi, altre diciamo probabili, altre improbabili. « Perchè adunque non potrò attenermi al proba « bile e riprovare il contrario, e dechinando dalle « arroganti affermazioni, fuggire la temerità, che « è tanto lontana dalla sapienza? Ma i nostri Ac « cademici disputano contro ogni sentenza, peroc « chè questo lor probabile non può risplendere se « non si fa contesa per l' una parte e per l'al « tra (2). » Oltreacciò egli c’invita a leggere le sue Quistioni Accademiche, ove questi propositi erano esaminati più diligentemente (3); cosicchè può dirsi che quando egli ne'suoi Dialoghi disputa [Cicerone DeNat. Deor. lib. I, (3) De Off. lib. II, 2; Tusc. Disp. I. I,9; Ii, 3; De Div. I. II, 3. (3) Cicerone II. cc. Acad. Quaest. lib. II, 3. 5.] per le parti accademiche, parla in propria perso na, e quindi par fuori di ogni dubitazione che egli è nel metodo di quegli Accademici che ogni cri terio poneano nella probabilità. Di qui s'intende com ' egli ora si attemperava agli Stoici, ora ai Pla tonici, ora ai Peripatetici, senza abbandonar l'Ac cademia; perché ove cercava i doveri dell'uomo e le leggi sociali, trovava maggiore probabilità nelle dottrine del Portico; e dove investigava i principi delle cose e trattava la psicologia e la teologia, credea forse trovarla maggiore nel Platonismo e nel Peripato (1 ); e dove di queste e di altre filo sofie disputava e ne bilanciava le vantate eviden ze, sospendea il giudizio ed era Accademico; e così pure quando persuadeva il popolo e il senato, pas sava a grande suo comodo nelle sentenze contra rie, e non avea ribrezzo alcuno di contraddirsi ac cademicamente. La moda del Foro era di potere essere Accademico Probabilista, ed egli serviva alla scena, e lo era con gli altri. Cicerone adunque così disposto tratto di tutte le parti della filosofia ove più diligentemente, ove meno. E certamente egli coltivò la logica e la in segnò con gran cura ne' suoi Libri Rettorici, ma a sua maniera, vuol dire per servigio della eloquen za e del Foro. Parve chepensasse con Socrate non essere molta la utilità della fisica per la probità e beatitudine della vita. Conobbe tuttavia i mag giori sistemi antichi, e vide nella rimota vecchiaja della filosofia certe nozioni che si vantano scopri menti di questi ultimi tempi, come il moto della terra, gli antipodi, la gravitazione o attrazione uni versale, che tiene il mondo nell'ordine (3). Ma nella [De Off. lib. I, 2, 3; Tusc. Disp. lib. 21. (2) De Nat. Deor. lib. 1, 21; Acad.' Quaest. lib. II, 39. (3 ) De Nat. Deor. II, 45; Acad. Quaest. II, 38.] naturale teologia e nella morale pose ogni sua cu ra. « È fermissimo argomento della esistenza d'Id « dio (egli dice ) che niuna gente sia tanto fiera e « niun uomo tanto crudele, che non serbi nell' a. w nimo la opinion degl'Iddii;e questo consenso di a tutte le genti dee riputarsi una legge di patu « ra (1 ). La bellezza del mondo e l'ordine delle cose « celesti stringe a confessare una prestante ed eter a na natura, e un fabbricatore e moderatore della « grand' opera (2), il quale è da immaginarsi come « una mente sciolta e libera e segregata da ogni « componimento mortale, che tutto sente e muo « ve, ed è fornita di moto sempiterno (3), e come a un maestro e signore che le celesti e le terrene « ed umane cose e tutto l'Universo amministra, sen « za la cui provvidenza quale tra gli uomini sarebbe « pietà, quale santità, qual religione? le quali virtù tolte, sorgerebbe il disordine e la confusion della u vita, e non rimarrebbe società alcuna nel genere « umano (4). Io così mi persuado e così sento, che « tanta essendo la celerità degli animi e tanta la « memoria delle cose passate e la prudenza delle future, e tante le arti e le scienze e le scoperte, quella natura che le contiene non può esser mor « tale (5); e semplici essendo gli animi e senza mi « stura, é movendosi per sè medesimi, nè possono « dividersi e dissiparsi, nè cessare di moversi; ed « essendo celesti e divini e sempre desiderosi della - immortalità, non possono essere ingannati dachi « li produsse, e debbono essere eterni (6). E quindi [Cicerone Tusc. Disp. lib. I, 13; De Nat. Deor. III, 3. (2) De Div. II,72; Tusc. I, 29. (3) Tusc. Disp. I, 27. (4 ) De Fin.IV, 5; Acad. Quaest. I, 8; De Nat. Deor. I, 2, 44; I1, 66; III, 36; Fragm. De Repub. III. (5) De Senectute. (6 ) De Senect. et Tusc. I, 27, 29.] gmni su stenza 1: anto fra serbi mi Consen ne deres ante de erator& ginarsi az ata dan ente en (3), es e le to pinista i miniars le quali pfusica ja nelset si senta je tapis denta 1 comechè Cerbero tricipite e il fremito di Cocito u e il tragitto di Acheronte sieno favole senili, deb « bon perd rimanere dopo la morte i premj e le pe. ne, e quelle due socratiche vie per cui gli empj si « dividono e i buoni si congiungono agl' Iddii (1). ” - Su questi grandi principj egli collocò l'edifizio del naturale diritto e di tutta la morale; e primie ramente dalla eterna ragione e volontà' di Dio, e dalla comune ragione degli uomini, e dalla natura e relazion delle cose dedusse la origine e la realità e l'autorità e la obbligazion d'un naturale e pub blico diritto. - « La legge (egli dice ) è un eterno impero che governa l'Universo con la sapienza del comandare e del proibire, ed è la mente di « Dio che costringe e divieta; e non solamente è più antica della età de' popoli e delle città, ma eguale a quell' Iddio che difende e regge i cieli e « le terre. La mente divina non può esser senza ra gione, nè la ragione divina può esser senza la « forza di fermare le cose giuste e le ingiuste. Una legge sempiterna fu sempre e una ragione appog u giata alla natura delle cose; la quale non allora che fu scritta, cominciò ad esser legge, ma al « lora che nacque, e nacque insieme con la mente divina; il perchè la legge vera e primaria, idonea á a comandare e a proibire, è la diritta ragione del « sommo Giove (2); la quale non è legge scritta, « ma nata, e la quale non abbiamo imparata, non ricevuta, non letta, ma l'abbiamo attinta dalla « medesima natura e dalla comune intelligenza, per u cui giudichiamo il diritto e il torto, è l'onesto « e il turpe; imperocchè estimar queste cose dalla BST PEN ne par 2017 depositse. Em opinione, non dalla natura, è stoltezza (3). [Tusc. 1,5,6, 21, 30; De Ainic. 4; De Nat. Deor. II, 2. (2) De Leg. II, 4, 5. (3) Pro Milone; De Leg. I, 10, 15. zar. 1,1 Io non posso astenermi dalla ricordanza di quelle parole memorabili di Cicerone nel terzo libro della Repubblica, le quali da Lattanzio ci furono conser vate (1 ). — La retta ragione è certamente la vera legge consentanea alla natura diffusa in tutti, co « stante, sempiterna, la quale comandando chiama « al dovere, e ci spaventa dalla frode vielando. « Niente è lecito toglier da lei, niente cangiare, e « molto meno abborrirla. Nè dal senato, nè dal popolo possiamo essere sciolti da questa legge, w nè altro dichiaratore o interprete è da cercarsi; « nè altra legge è ad Atene, altra a Roma, ma ella « sola ed una, sempiterna ed immutabile governa « in ogni tempo tutte le genti, e uno è il comune « quasi maestro e comandante di tutti, Iddio. Egli è di questa legge l'inventore, il disputatore, il pro mulgatore, al quale chi non obbedisce fugge sè « stesso e disprezza la natura dell'uomo, e per que « sto istesso paga massime pene, quantunque sfugga « tutti quegli altri eventi che si riputano supplizj." - Oltre questi nobili conoscimenti della origine, del fondamento, della realità, della forza, della im mutabilità delle leggi naturali, Cicerone conobbe la utilità della religione nella società; di che niuno vorrà dubitare (egli dice ) che intenda come sien molte le cose che si ferman col giuramento, e quan ta salute apportino le religioni de' patti, e quanti sieno distolti dalla scelleraggine per timore del di vino supplizio, e quanto sia santa la società di que' citladini che fra loro interpongon gl'Iddii come giu dici e testimonj (2). Egli conobbe ancora la sanzio ne ossia la intimazion della pena contro i violatori, senza cui le leggi non avrebbon forza di obbligare, (1 ) Lallanzio Div. Inst. lib. VII, cap. 8. De Leg. lib. II, 7.ma diverrebbono avvisi e consigli; e non ebbe so lamente quella sanzione come una conseguenza aa turale della colpa, ma come una vera imposizion di castigo, se non in questa, certo nella vita av venire, siccome già sopra abbiam divisato (1 ). Co nobbe egli non meno quella così semplice e cosi vera divisione del codice della umanità in doveri verso Dio, verso noi medesimi e verso la società; e insegnò che la filosofia dono e ritrovamento di vino ci erudisce nel culto degl'Iddii, e poi nel diritto degli uomini posto nella società del genere umano: che l'uouo non è nato a sè solo; che anche parte di lui ne domanda la patria e parte gli amici: che gli uomini sono prodotti per gli uomini acciocchè si giovino a vicenda; e che debbono ricevendo e dando permutare gli uffizj, e con le arti, con le le facoltà stringere la compagnia degli uomini con gli uomini (2). — Questa succinta immagine della giure prudenza e della morale di Cicerone offre nella sua medesima brevità una idea molto elevata e molto magnifica e superiore a quante opere di antichi uo mini giunsero a noi in questo argomento, e forse a quante mai furono composte prima di lui. Tutta volta non è già vero che la morale Ciceroniana con tenga una disciplina compiuta, e discenda con per fetto ordine e verità in tutti i particolari; percioc chè anzi con buon accorgimento fu avvertito essere diffettuosa in assai parti necessarie, e gli argomenti nella maggior parte esser trattati leggiermente, e per decisioni assai rigide palesarsi che il severo giu reprudente non conoscea i verj principj donde po teano di dursi gli scioglimenti di certi casi (3 ). Ma con tutto ciò neppure è vero che Cicerone ne' suoi opere, con [Ubner Essai sur l'Hist. du Droit Nat. Par. I, S 12. (2) Tusc. Dis. 1, 26: De Oll. I, 7. (3) G. Barbeyrac Pret, à Pufendorf.] 0 trattati di morale fosse un Pirronista, e nelle sue dispute di naturale teologia un distruttore di tutte le religioni. La primaimputazione assume per fon damento che Cicerone avendo statuiti i principi della morale, prega l'Accademia di Arcesila e di Carneade perturbatrice di tutte queste cose a ta cersi, perchè volendo assalire i principj che sem bran così bene composti, fara troppe ruine, e desi dera placarla, e non ardisce rimoverla (1 ). La se conda accusazione è dedotta da quello spirito di dubitazione che domina in tutte le sue opere e sin golarmente nei libri della Natura degl Iddii, ove mostra gran voglia di confutare e deridere tutte le antiche dottrine della Divinità, e concede alla fine tutti i trionfi all'Accademico Cotta. Al che si ag. giunge unagrande incostanza e può dirsi contrad dizione nell'affare gravissimo della immortalità de gli animi; perciocchè in molte epistole sue, nelle quali scopertamente parlava co' suoi amici, o du bita di quella immortalità, o rappresenta la morte come l'ultimo de' mali e il fine delle sensazioni e di tutte le cose (2). Noi, per quello che dinanzi si è avvertito, dobbiam consentire che Cicerone fu Accademico, e non altro conobbe che sole proba bilità; nel che certo errò gravemente, e grande fra gilità iufuse in tutto il suo sistema teologico e mo rale: tuttavolta perchè al suo probabile diede la forza e l'autorità che noi diamo al vero e all' evi dente, riparò un poco il dauno che fin d'allora il Probabilismo minacciava. Fuori di questo errore, egli molte affermò di quelle medesime verità che [Ciecrone De Legibus l. 13. V. G. Barbeyrac l. c. (2) Ep. Fam. lib. V, 16, 21; lib. VI, 3, 4, 21; Ad Attic. IV, 10; e altrove. V. P. Bayle art. Spinoza, M., e Cont. des Pens.div. 105; A. Collin De la liberté de penser; G. F. Buddeo De l'Athéisme ch. I, 22.] noi stessi affermiamo, e nel naturale Diritto molte ne vide di quelle ancora che furon vantate come scoprimenti del nostro fortunato secolo, di che po tremmo tenere amplissimi discorsi se qui fosse luo go. Egli veramente sparse assai dubbi e molte risa sulle teologie antiche, e non era nel torto. Tenne ancora ragionamenti ipotetici intorno alla immor talità degli animi; e alcuna volta scrivendo a tali che la negavano, si attemperò alle loro opinioni per consolarli e persuaderli più speditainente. Per altro, quando fu sciolto da siffatti riguardi, parlò di que sti argomenti con quella dignità che abbiam rac contata.Adunque nè Cicerone fu di quegli Ateinè di quei Pirronisti esagerati che non conoscono Di vinità e moralità nè vera nè probabile. Non si vuol qui tralasciare che la scuola pirronica o scettica, sia che fosse oscurata dalla modestia e serietà del l'Accademia, sia che la fama di negligenza, di stra nezza e di stolidità la mettesse a pubblico disprez zo, non ebbe accoglienza niuna tra i Romani; di forma che uncerto Enesidemo da Gnosso intorno all'età di Cicerone avendo tentato in Alessandria di sollevare dalla dimenticanza lo Scetticismo, e con questo intendimento avendo scritti più libri pirronici, che intitold a L. Tuberone uoino prima rio tra i Romani, nè gli sforzi dello scrittore nè l'autorità del Mecenate valsero a far leggere que libri e a persuadere amore per quella filosofia. Donde si prende un nuovo argomento che Cicero ne, il quale raccolse tutti gli applausi di Roma, non potè essere Pirronista. Per questa descrizione della romana filosofia si conosce che tutto lo splendore di lei si restrinse alla età di Cicerone, e si rinnova. [Menagio in Laertium lib. IX, 62 e 116. J. Brucker De Phil. Rom. cap. I, S XXVIII. quella meraviglia come i grandi uomini appariseo no insieme ad un tratto, e poi sopravviene la bar barie che li prevenne. Prima di quei dotti uomini che vissero in compagnia di Ciceroneo poco prima, i Romani eran tutt'altro che filosofi. Dappoi dechino la filosofia, come la eloquenza e la latinità. Noi an cora siccome abbiam ricevuto, così possiamo tras mettere alla posterità gli esempi vicini e forse pre senti di queste subite mutazioni. Prima che Cicerone, compiuta la sua questura partisse dalla Sicilia, aind di conoscere le rarità di quella isola, e visitò singolarmente Siracusa, città per gloria di armi e dilettere nobilissima. Quivi presso la porta Agrigentina tra i vepri e gli spineti vide una colonnetta, nella quale era la figura di una sfera e d'un cilindro, e per tai segni scoperse quello essere il sepolcro diArchimede, e mostran dolo ai Siracusani che l'ignoravano, molto si ral legrò che se un uomo Arpinate non avesse disco perto il monumento di quell' acutissimo cittadino, essi per avventura sarebbon rimasti al bujo. Da questa narrazione prendiamo opportunità di ono rare Archimede Siracusano, il quale tuttochè av volto in un silenzio ingrato degli antichi e dei mo derni scrittori e in una negligenza che move lo sde gno, anche tra i pochi e dispersi frammenti appa. risce il maggiore di quanti matematici e meccanici avanzino nelle memorie di tutta l'antichità. Forse (1 ) Cicerone Tusc. Disp. lib. V, 23.alcuni si meraviglieranno che noi disordinatamente prendiamo a scrivere di Archimede dopo Cicerone, che fiorì quasi due secoli dopo di lui. Ma sappiano cotesti autori cronologisti che non abbiamo finora trovato parte più opportuna ove allogare un uomo che non ebbe vaghezza di setta alcuna nè greca ne romana, e la ebbe piuttosto di essere filosofo da sè; e poi sappiano che senza bisogno non vogliamo essere rigoristi in cronologia, e sappiano in fine che se è pur un errore trasportare la memoria di Ar chimede a dugento anni dappoi, io credo certo che sia errore molto più grande trasportarla nel vuoto, siccome gli Stoici della filosofia usaron finora. Nac que adunque questo divino ingegno, siccome Cice rone (1 ) lo nomina, intorno all'anno ccccLvII di Roma; e o ch'egli fosse della regia stirpe di Gerone re di Siracusa (2), o che fosse un umile omuncolo fatto chiaro dalla verga e dalla polvere, vuol dire dalla geometria (3), o che fosse nudo di ricchezza e solamente pago di ben intendere i cieli e le ter re (4 ), non superbo e non depresso per niente di quelle varie fortune, cercò nella sapienza la nobiltà e la grandezza della sua sorte. Le matematiche pure e le applicate all'utile della patria e alla felicità della vita furono la sua cura perpetua. Nella mi sura delle grandezze curvilinee, argomento allora nuovo o poco famigliare agli anteriori matematici, aperse incognite strade e immaginò metodi fecon di, che appresso germogliarono ampiamente e fu rono i semi e, per testimonianza di Giovanni Wal lis, i fondamenti di tutte le invenzioni onde si vanta la nostra età. Sono già note le sue scoperte nelle [Tusc. Disp. I. (2) Plutarco in Marcello. (3) CiceroneTusc. Disp. V, 23. (4 ) Silio Italico de Bello Pun. lib. XIV, ] misure e nelle proporzioni della sfera e del cilin dro, di cui tanto si compiacque, che volle scolpite nel suo sepolcro quelle due figure come caratteri di singolar distinzione. Sono ancor note le sue spe culazioni intorno alla conoide e alla sferoide, e la quadratura della parabola, e le proprietà delle spi rali; e queste cose, onde si crede che molto si di latassero i confini dell'antica geoinetria, Archimede Irattò in libri che tuttavia esistono, quali sono, della Sfera e del Cilindro, della dimensionedel Cir colo, della Conoide e della Sferoide, del Tetra: 0 nismo, della Parabola, delle Linee spirali, a cui come opera teoretica si può aggiungere l'Arenario Ossia del Numero delle arene; nel quale trattato, supponendo ancora che l'Universo ne fosse pieno, calcolo quel numero contro l'opinione di tali che lo riputavano infinito. Lode eguale e forse mag giore ottenne Archimede allorchè le astrazioni geo metriche condusse alla pubblica utilità; e sebbene io non sappia indurmi a credere ch'egli fosse il creatore della meccanica, mentre studiò pure in Egitto, ove ognun sa che la meccanica non potea esser negletta; tuttavolta egli fu certamente assai benemerito di questa facoltà. Nei due celebri suoi libri che tuttavia esistono, l'uno intitolato degli Equiponderanti, e l'altro dei Galleggianti, ovvero delle cose che nuotano o che si traggono per li fluidi, egli stabilì i principj statici ed idrostatici, ai quali dicono che siamo debitori della presenteesten sione de' nostri scoprimenti; e aggiungono che Ar chimede istesso dando assai contrassegni di altis sima penetrazione in questo genere di studj, mo [Claudio Francesco de Chales in Cursu Math. tom. I, de Progressu Maibes.; Giammaria Mazzucchelli Notizie intorno ad Archimed ”, e Moniucla Ist. delle Malem. lib. IV. (2) Montucla l. c.] strò che avrebbe potuto pervenire a questa nostra estensione medesima, se non si fosse rivolto ad al tri pensieri (1 ). Il re Gerone avendo affidata ad un artefice una massa di oro perchè lavorasse una co rona dedicata agl' Iddii, venne a sospetto che il buon artefice gli avesse fatto furto; onde impose ad Archimede che studiasse di conoscere la verità. È fama che il matematico entrato nel bagno si avvide che quanto del corpo suo entrava nell'acqua, tanto ne usciva; donde preso lo svoglimento della qui stione, uscì fuori tutto ignudo e correndo gridava per via expriua evprzo, ho trovato ho trovato; e se condo questo esperimento immerse la corona in un vaso pieno di acqua; indi successivamente v'immerse due masse di egual peso, l'una di oro, l'altra di ar gento, ed esaminò quant'acqua spandessero i tre corpi, e quindi conobbe quello che investigava(3). Ma questo metodo, quando pur fosse possibile, non è sembrato, e non è veramente degno della elevazione di Archimede; nè egli per così poco sa rebbe fuggito via ignudo, nè Gerone avrebbe det to che dopo così gran prova tutto era da credersi ad Archimede. È dunque più verisimile e più de gno di lui, che avendo già egli nel suo Trattato de' Galleggianti stabilito questo principio: i corpi immersi in un fluido vi perdono tanto del proprio peso, quanto è un volume loro eguale del'fluido; di qui raccogliesse che l'oro siccome più compatto vi perda meno del suo peso e l'argento più, e un misto dell'uno e dell'altro in ragione del suo com ponimento. Bastava dunque pesare nell' aria e nel l'acqua la corona e le due masse di oro e di ar gento per ferinare quanto ciascuna perdeva del [Montucla l. c. (2 ) Vitruvio lib. IX, cap. 3.] proprio peso, e dopo questi passi il problema non avea più difficoltà per un uomo come Archimede. Questo fecondo principio valse al valentuomo per la scoperta di molte verità idrostatiche, le quali po trebbono leggersi nel lodato suo libro, se a questi dì non fossero molto divulgate (1 ). Ben quaranta invenzioni meccaniche si onorano col nome di Ar chimede (2); ma solamente alcune vanno errando disperse negli scritti di antichi autori, e non fuor di ragione può credersi che secondo lo stile usitato molte si abbian volute render mirabili col prestito di un gran nome. Dicono di Archimede la chioc ciola, strumento ingegnosissimo e utilissimo, per cui usando la propensione medesima del grave alla caduta si produce la sua elevazione, e con tale or degno s'innalzano le acque ove bisogna, e si asciu gano le navi e le terre (3). Sono però alcuni che lo credon più antico di Archimede (4). L'organo idraulico portò già il nome di Archimede (5); ma questo grato arnese benchè dia segno di musica perizia, è piuttosto un gioco dilettevole che un ri trovamento sublime. Laforza infinita e la moltipli cazione delle girelle furono poste fra le invenzioni di Archimede; ma altri affermano, altri negano,? niuno ha migliori argomenti. Dammi fuori di qui ove io fermi i piedi, e moverò dal suo luogo la terra, disse Archimede a Gerone. E veramente ap presso ai suoi principj si posson in teoria immagi nar macchine le quali rendano idonea una potenza minima a sollevare un peso inassimo (6 ). Nella pra [Vedi Mazzucchelli e Montucla II. cc. (2) Parpo lib. VIII. Pr. VI, prop. 10. (3 ) Diodoro lib. I et V. Ateneo lib. V. (4) V. Catrou e Roville Hist. Rom. tom. VIII. (5) Tertulliano De Animo. (6) Plutarco in Marcello: Dic ubi consistam; caclum terramque movebo.] tica Archimedle volle dar segno a Gerone che avreb be saputo mettere ad effetto le sue promesse, e pri mieramente una grandissima nave tutta carica, la quale non potea moversi senza molta fatica e as sai numero di uomini, egli solo qutto e sedente, senza sforzo alcuno e coll' ordinario impulso della mano aggirando l'ordegno suo, mosse e guidd co me gli piacque; indi per comandamento del me desimo principe avendo disegnata e messa a per fezione una molto maggiore e inolto meravigliosa nave, nella quale oltre le parti usitate in siffatti la. vori, e tutte di estraordinaria sontuosità e grandez za, vi erano giardini e peschiere e cisterne e acque correnti e sale e bagni e fino una biblioteca, e poi vi sorgeano olto gran torri armate, e ai loro luo ghi erano baliste e mani ferrate e altri strumenti da guerra per gli assalti e per le difese, e di smo derato carico e di molto popolo era grave, Archi mede non ostante la enormità di tanta mole, che tutti i Siracusani insieme non valsero a smovere, fece per certo ingegno suo che il solo Gerone la traesse in mare. È stato detto che questi rac conti ridondino di gran favola, il che pud benesser vero; ma non penso che vi sia fondamento alcuno di affermarlo. Vedute queste meravigliose opere il Re Siracusano sapientemente avvisò di esercitare la stupenda fecondità di questo Genio tutelare di Si racusa, e lo pregò a comporre ogni genere di mi litari strumenti per riparo del regno e per offesa dell' inimico. Archimede, buon amico del suo Re e della sua patria, siccome i sapienti sono o debbono essere, ubbidì volentieri. Questi ritrovamenti bel lici furono inutili, mentre Gerone visse nella pace e nell'amicizia de' Romani. Ma lui morto, arse una (1 ) Plutarco in Marcello. Ateneo lib. V. guerra molto crudele, e Siracusa fu assediata dal console Marco Claudio MARCELLO, nobile capitano e rinomato per Viridomaro re de' Galli ucciso, e più per Annibale da lui sconfitto più volte. Egli con oste gravissima e con gran forza di navi e con macchine e con militari stratagemmi e con la fama di prode e felice soldato strinse e assalì Siracusa per terra e per mare. In tanta fierezza di arma mento i Siracusani furono presi da tacita paura e da terrore. Archimede solo non ismarrì, e vepne con le sue macchine a ricomporre i cuori dissipati de cittadini, e a sostenere la patria, e a mostrare a Marcello che un filosofo potea esser maggiore del Re de' Galli e di Annibale, e bilanciarsi con la forza e con la fortuna istessa di Roma. Per scienza e per avvedutezza di questo uomo le muraglie di Si racusa erano guernite di copia incredibile di bale stre, di catapulte e di altri macchinamenti per lan ciar dardi e palle e sassi di ogni grandezza, e da vi cino e da lontano, secondo tutti i bisogni. Vi erano ordegni che facendo cadere grossissime travi cari che di pesi immensi sopra le galee e le navi nimi che, le abissava subitamente nelle acque. Vi erano ancora certe mani di ferro con le quali si abbran cavano quelle navi e quelle galee e si levavano per aria, e poi si lasciavancadere tutte subito con som mersione e ruina, e altre volte si traevano a terra e si aggiravano e si stritolavano nelle rupi, su cui stavanle mura della città. Dietro queste mura, che in più luoghi erano pertugiate, stavano scorpioni tesi a cogliere i nemici, che per isfuggire dai lan ciamenti lontani si avvicinavano, onde non rima nea luogo sicuro dalle offese; e Marcello colpito da tutti i lati senza saper d'onde e come, usa va dire: Questo geometra Briareo sorpassa ben molto i Giganti centimani; tante sono le vibrazioni sue contro di noi. I Romani in terra e in mare erano anch'essi molto ben provveduti di macchine mi litari, e singolarmente sopra otto galee levavano certo congegno nominato per similitudine sambu ca, con cui agguagliavano le mura e poteano in trudersi nella citlà. Ma il Briareo Siracusano lanciò alcuni sassi gravi oltre a seicento libbre, e battute quelle sambuche, le rovesciò con grande strepito e danno (2). In somma un solo vecchio geometra rendè Siracusa invincibile, e confuse il valore di Roma e il miglior capitano che ella avesse in que' giorni (3 ). Gli assalitori furono stretti a rimetter molto della loro baldanza e ridurre ad un lungo blocco quella tanta vivacità di assalti. Appresso non si parld più di Archimede, e Siracusa fu pre sa, e il suo invito difensore, quasi dimentico della patria e di sè stesso e ozioso nella pubblica ruina, si fece ammazzare per fatua ostinazione nel dise gno d' una figura di geometria. Io non so bene se sia troppa offesa di gravi narratori gettare tra le fa vole queste sconnessioni attribuite al più connesso uomodel mondo. Forse per liberare Archimede da cosiffatte inezie e quasi deserzioni nel maggiore bi sogno della patria, alcuni pensarono di riempiere questo vuoto col meraviglioso racconto dell'incen dio delle navi di Marcello con gli specchi ustorj. Un medico riputato grande (4), un istorico medio cre (5) e un picciol poeta (6) furono i divulgatori di quel famoso incendio. Ma la tenue autorità di cosiffatti uomini non vale per niente a fronte del [Livio lib. XXIV. Polibio Excerp. lib. VIII, 5. Plutarco ). c. V. il cav. Folard nel suo Commento sopra Polibio. (2) Polibio e Plutarco II. cc. (3) Cicerone De Fin. V. Livio lib. XXV, 31; e altri. (4 ) Galeno De Teinp lib. III, cap. 2. (5) Zonara tom. I, lib. IX. (6 ) Tzetze Hist. XXXV, chil. II. sana,] silenzio di Livio, di Polibio e di Plutarco, i quali diligentemente avendo scritto della guerra siracu non avrebbono mai taciuto unavvenimento tanto stupendo, e insieme di tanto ammaestramento nell'arte della guerra, così nel guardarsi da quegli specchi incendiari, come per usarne contro i nimi ci; e certo io credo che se quel terribil metodo fosse stato veramente messo ad effetto, non sareb bono mancati imitatori, e l'armata navale di Mar cello non sarebbe stata la sola incendiata. Noi me. desimi, studiosissimi quanto altri di spopolare il mondo con le militari invenzioni, non avremmo, io credo, all'economico e facile artifizio di Archimede anteposti altri dispendiosi e incomodi metodi. Molti veramente hanno studiato assai nella catottrica per trovar modo di suscitare quel funesto esperimento, e alcuni son giunti a provare che certo con un solo specchio di convessità continua o sferica o parabo lica non era possibile quell' incendio in tanta di stanza, ma era ben possibile con molti specchi pia ni; e tra altri in questi ultimi giorni il Buffon com pose uno specchio formato diquattrocento specchi così disposti, che tutti riflettevano i raggi ad un punto comune; e questo adunamento nella distanza di centoquaranta piedi liquefaceva il piombo e lo stagno in corto tempo, e in distanza maggiore in ceneriva il legno, il che parve che mostrasse pos sibile il metodo di Archimede (1 ): ciò non ostante queste pratiche per ostacoli non superabili giaccion neglette, e le nostre armate navali si distruggono a vicenda con altro, che con raggi di sole. Non è le cito partire dalla istoria di Archimede senza dire alcuna cosa de' suoi studj astronomici, e di quella [A.Kircker Ars magna lucis et umbrae lib. X, P. III. Buf fon Mém. de l'Acad. 1948. V. Montucla I. c. t 1] tanto celebre sfera e tanto lodata dai poeti, dagli oratori, dagli stoici e, ciò che più vale, dai filo sofi. Era questa una macchina o di rame o di bronzo o di vetro, la quale o a forza di aria o di acqua, o di ruote e di molle e di pesi o di forza magnetica, o di altri ingegni movendosi, esprimeva tutti i rivolgimenti e i fenomeni celesti, senza eccet tuarne finanche i tuoni e i fulmini (2); e secondo alcuni rappresentava questi movimenti secondo il sistema Copernicano. Le quali cose, se sono vere, come possono essere, attese le altre grandi opere di quest'uomo, e massiinamente perchè egli si compiacque assai di questo lavoro e di lui solo volle lasciar memoria alla posterità con un libro intitolato Spheropeia, che si è poi smarrito, pos siamo raccogliere con nuovo argomento, se altri pur ne mancassero, che nelle scienze più utili l'an tichità davvero ne sapea almen quanto noi(4 ). Mol. te edizioni furono promulgate delle opere di Archi mede, e illustri uomini o in tutto o in parte le ador narono con somma diligenza, fra i quali si distin sero assai Gianalfonso Borelli, Giovanni Wallis, Isacco Barow, Andrea Tacquet e Evangelista Tor ricelli (5 ). Oltre le pubblicate vi è memoria di al tre scritture di Archimede, che si dicono ascose in qualche biblioteca, come della Frazione del cir colo, della Prospettiva e degli Elementi di Mate matica; o perdute affatto, come de' Numeri, della Meccanica, degli Specchi comburenti, della Nave [Ovidio Fast. II e VI. Claudiano Epigr. Cicerone De Nat. Deor. II; Tusc. I. Sesto Empirico con. Math. VIII. Lattanzio lib. II, 5. Franc. Giunio Cath.'Archit. mechan. ec. Cardano, Vos. sio, Kircker, e altri molti. (2) V. G. Mazzucchelli I. c. (3) Girolamo Cardano De Subtilitate lib. XVII. Pappo in Prooemi. lib. VIII. (5) v. G.A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II. G. Mazzucchelli 1. c.] di Gerone, della Archiettura, degli Elementi Co nici, delle Osservazioni celesti. E nel proposito di questa ultima opera è bene ricordarci che Ma crobio accenna certo metodo con cui Archimede pensò di avere misurate le distanze della terra dai pianeti e dalle stelle, e di queste di quelli fra loro. Ma qual fosse quel metodo non è scritto, che sa rebbe molto grato a sapersi. — In questa breve, ma non iscorretta nè vana immagine degli studj di Ar chimede noi vediam un uom serio, che non dise gna sistemi sul vuoto e non fa calcoli inutili, e non va sempre oltre senza saper dove vada; ma che studia le forze e gli effetti della natura, e trascura l'ignoto e si ferma sul certo, e di questo usa per utilità de' suoi cittadini e per accrescimento della pubblica felicità. Invitiamo a rallegrarsi quei filo sofi e quei matematici che somiglian questo grande esemplare. E preghiamo a correggersi quegli altri che pensano sempre e non operan mai, e mentre divagano per sentieri che non riescono a fine al cuno, e mentre ostentano linguaggi che il più de gli uomini e talvolta essi medesimi non intendono, non sanno poi levare un peso di alquante libbre,o tenere un po' d'acqua disordinata senza impoverir le famiglie e le città, e senza amplificare i mali con la perversità de' rimedj. Dopo la battaglia di Azzio C. Cesare Ottaviano Augusto divenuto re senza prenderne il nome, chiuse [Fu stamprlo un libro da Giovanni Gogava degli Specchi Ustorj, da lui tradotto dall'arabo, e un altro intitolato Lemma ta; ma non sono estimati degni di Archimede. - Montucla e Mazzucchelli II. cc. il tempio di Giano e arò la pace e le lettere. La sua età ebbe ed ha tuttavia la lode del più collo e più letterato tempo di Roma; al qual vanto io so certo che Lucullo e Attico e Cicerone repugnerebbono, e non so come non repugniamo noi stessi. Impe rocchè gli è ben vero chenon solamente Roma era già assuefatta alla filosofia e non potea divezzarsi così d'improvviso, e che Augusto anch'egli secondo la consuetudine romana fu amico de filosofi ed en trò vincitore in Alessandria tenendo per la mano il filosofo Areo, per cui amore non distrusse quella città, e poi ebbe assai caro Atenodoro di Tarso e lo ascolid attentamente (1 ), e quindi avvenne che la filosofia seguì a coltivarsi nella nuova' dominazione, e per costume e per desiderio di applauso e per cortigianeria fiorirono a quei di molti uomini sapienti: tutta volta io non so vedere in quella età i gran simulacri che si videro nel fine della repub blica, e vedo anzi che come tutti i costumi ro mani, così anche la filosofia piegò a mollezza, e quindii poeti assunser la toga filosofica e otten nero gli applausi maggiori, a tal che la istoria let teraria della età di Augusto sarebbe assai tenue senza questi poeti, de' quali adunque sarà mestieri scrivere in primo e quasiin unico luogo. Publio Virgilio Marone, nato nel contado man tovano, con estraordinario ingegno poetico studiò di piacere ad Augusto e a Roma; e conoscendo che a riuscire nel suo desiderio era mestieri condire le sue poesie con dottrine filosofiche, così fece, e salì alla gloria di Bucolico e di Georgico eguale ai Greci, e di Epico secondo alcuni riguardi mag giore di Omero (2), e quello che è ora nel nostro (1 ) Svetonio in Augusto et Claudio. Plutarco in Antonio. Se neca Cons. ad Helviam. Luciano in Macrob. Zosimo lib. I, cap. 6. (2) A. Baillet Jug. des Scayans t. IV, des Poét. Lat. proposito,di poeta filosofo. Mainvestigandosi poi di quale filosofia si dilettasse, insorser varie sen tenze. Alcuni lodissero Epicureo, perchè ascolto Si rone maestro di quella scuola, e perchè un tratto racconto che l'orto Cecropio spirante aure soavi di fiorente sapienza lo cingea con la verde ombra (1); e altrove condusse Sileno briaco a cantare come nel gran vuoto si adunassero i semi delle terre, dell'aria, del mare e del fuoco (2); e in altri versi nomninò felice colui che potè conoscere le cagioni delle cose, e calpestò tutti i timori e il Fato ine sorabile e lo strepito dellavaro Acheronte (3): nelle quali parole l'Epicureismo parve evidente ad al cuni; mentre ad altri l'orto Cecropio e il peda gogo di Bacco e i semi nel vuoto parvero equivoci e scherzi di poesia, e il Fato e l'Acheronte calpe stati e comuni ad altre filosofie non sembrarono argomenti di Epicureismo; massimamente perchè nello stesso tenore di canto il poeta disse anche felice colui che conosce gl’iddii agresti Pane e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle (4), che di vero non erano cose epicuree. Per queste difficoltà fu soggiunto che Virgilio potea esser Platonico là dove insegnò il compimentodella età vaticinata dalla Si billa Cumana, e il grande ordine de' secoli, e i mesi dell'anno grande di Platone, e il ritorno di Astrea e di Saturno e degli aurei giorni (5); il quale mescolainento io non credo certo che Platone po tesse mai riconoscer per suo. Si abbandonò adun [Virgilio Ceiris. Servio in Ecl. VI. P. Gassendo De vila Epi. curi lib. I, cap. 6. G. A. Fabrizio Bibl. Graec. vol. II, et Bibl. Lat. lib. I, cap. 4, S 4. (2) Virgilio Ecl.VÍ, 31. (3 ) Georgic. II, 490. (4) Georg. ivi, 493. (5) Ecl. IV, 5. V. Servio in h. I.; Paganino Gaudenzio De Phil. Rom. cap. 174; J. Brucker De Phil. sub Imp. $ II.] que questo pensiere, e fu estimato che Virgilio era stoico, perchè narrò che vedute le ingegnose opere delle api, alcuni aveano detto esservi parte della mente divina in esse, e Dio scorrere per tutte le terre e per li tratti del mare è per lo cielo pro fondo, e dar vita a tutti i nascenti, e tutti a lui ritornare e risolversi in lui, e non esser luogo d morte, e tutti vivere nel numero delle stelle e nel l'alto cielo (1 ). Ma se Virgilio ci narra che altri di ceano queste sentenze, non le dicea dunque egli stesso. Anche nel sesto libro della Eneide, che è il più magnifico e più profondo di tutto il poema, Virgilio conduce Anchise a filosofare della origine e natura del mondo e degli uomini; e questa tro jana filosofia senzamolti discernimenti fu messa a conto del poeta. Uno spirito dice il Trojano, in ternamente alimenta il cielo, le terre, i mari e la luna e le stelle, e una mente infusa per le mem bra agita tutta la mole, e al gran corpo si mesce. Quindi scaturiscon tutti i viventi, in cui è ignea forza e origine celeste, per quanto i nocenti corpi non li ritardano, e le terrene e mortali membra non gli affievoliscono; onde avviene che desiderano e temono e godono e si dolgono, e non mirano al l'alto, chiusi datenebre e in carcere oscuro. Dopo la morte soffrono i supplicj degli antichi peccati: indi son ricevuti nell'ampio Eliso,finchè per lungo tempo si tolgan le macchie, e ritorni puro l'etereo senso e il fuoco del semplice spirito. Compiuto il giro di mille anni, un İddio convocava gli animi in grandeschiera al fiume Leteo, perchè dimen tiche rivedano il cielo, e comincino a desiderare i ritornamenti ne' corpi (2). Così parld Anchise, e [Georg. IV, 220. (2) Æneid. lib. VI, 719.] Virgilio fu accusato di Ateismo stoico da uomini cheinsegnando sempre a non precipitare i giudi zj, li precipitarono essi medesimimolto più spesso che non può credersi (1). Ma primieramente l'A teismo stoico è una falsa supposizione, siccome ab biarno veduto in suo luogo; e poi le parole spirito e mente she è infusa e che alimenta le cose, e il foco e l'etereo senso sebben possano avere sentenza stoica, la possono anche avere di altre scuole che fecero uso di simili formule. Inoltre quelle parole sono miste agli Elisi e al fiume della Oblivione, e al millesimo Anno, e all'Iddio evocatore degli animi smemorati, ma immortali a rigore; le quali giunte non sono stoiche per niente. E in fine siccome Vir gilio apertamente ammonì, le antecedenti parole della Georgica, che parvero stoiche, essere dial tri; così dovrà dirsi in queste della Eneide, quando egli ancora non lo dicesse. Ma disse pure che eran di Anchise, il quale qualunque uomo si fosse, e fosse ancora una favola, certamente non era Virgilio. Dopo queste considerazioni, io molto mi sdegno che uo mini non vulgari citino tutto giorno questidue passi come una tessera dell'Ateismo stoico e dello Spi nozismo, e mi sdegno ancor più che si producano come un argomento della empietà di Virgilio. Non essendo adunque plausibile questa attribuzione, fu immaginato da altri che Virgilio amasse il Pitago rismo, e da altri, che molto sanamente sentisse delle cose divine; il che io non saprei come potesse pro varsi (2 ). Ma un autor celebre prese a mostrare che lo scopo di quell' incomparabile sesto libro della (1 ) R. Simon Bibl. crit. P. Bayle Cont. des Pensécs sur les Co mètes. G.G. Leibnitz Théodicée disc. prél. G. Gundling. Gun dliogiao. P. XLIV, S 8. J. Brucker L. c. (2) Lattanzio lib. 1.5.R. Cudwort System. intell. cap. IV, S 19; Cap. V, sect. IV, S 29.Eneide era la dipintura simbolica del sistema de misterj Eleusini e della unità di Dio, e de' premj e delle pene nella vita avvenire(1).A persuaderci di questo nuovo pensamento il valente autore con molto studiati riscontri d'antichità e con bell'appa rato di dottrine incomincia ad insegnarci che la Eneide non è già una favola inutile da raccontarsi ai fanciulli o da rappresentarsi agli oziosi nelle lun ghe sere d'inverno, ma è un sistema di politica e di morale e di legislazione, per cui si vuol dilet tarc e istruire Augusto che è l'Enea e l'eroe del poema, e insieme tutto il mondo romano, e anche il genere umano intero. Per la qual cosa il poeta assumendo il carattere di maestro in Etica e di le gislatore, usa i vaticini e i prodigi per contestazione della Provvidenza, e introduce ilsuo eroe intento ai sacrifici e agli altari e portatore degl' Iddii nel Lazio, e pieno di tanta religione, che a taluno, cui piaceva di averne meno, sembrò che Enea fosse più idoneo a fondareunmonastero,che un regno (2). L'amicizia, l'umanità e le altre virtù sociali entrano nel sistema di legislazione, e la Eneide n'è piena. Vi entrano ancora i premj e le pene dopo la morte, e il poeta ne fa amplissime narrazioni. Orfeo, Er cole,Teseo celebri legislatori furono iniziati nei mi steri, e le loro iniziazioni si espressero simbolica mente con le discese loro all'inferno. Cosi Enea le gislatore del Lazio si fa discendere all' inferno per significare la sua iniziazione negli arcani Eleusini, ne' quali è noto che Augusto ancora era iniziato. E veramente è grande la similitudine Ira le ceri monie eleusine ei riti della discesa di Enea all in ferno. Il Mistagogo o Gerofanta, ora maschio, ora (1 ) Warburlou Diss. de l'Initiation aux mystères. (2) S. Euremond presso il Warburton. femmina, era il condottiere de proseliti, e la Si billa è la guida di Enea. Proserpina era la Deità de' misterj, ed è la reina dell' inferno Virgiliano; negl'iniziati si volea l'entusiasmo, e in Enea lo vuol la Sibilla. Nel ramo d'oro sono figurati i rami di mirto dorati, che gl'iniziati portavano e di cui si tessevan corone. L antro, l'oscurità, le visioni, i mostri, gli ululati, le formole Procul esto, profa ni, si trovan comuni ai misterj e alla Eneide, come sono ancora comuni il Purgatorio, il Tartaro e gli Elisi e le esecrazioni contro gli uccisori di sè me desimi, contro gli Atei e contro altri malvagi. Di cendo queste ineffabili cose, Virgilio domandaprima la permission degl' Iddii: E voi, egli dice, Numi dominatori degli animi, e voi tacite Ombre,e tu Caos, e tu Flegetonte, luoghi ampiamente taciturni per tenebre, concedete ch'io parli le cose ascoltate, e col favor vostro divulghigli arcani sommersi sotto la profonda terra e la caliginc (1 ). Questa preghiera dovea ben farsi da chi sapea gli spaventosi divieti che gl'iniziati sofferivano di non divulgar mai la tremenda religion dell'arcano. Da quesli, che erano i piccioli misterj, passa Virgilio ai grandi significati nella beatitudine degli Elisi. Enea si lava con pura acqua, che era il rito degl' iniziati, allorché dai piccioli erano elevati ai grandi misterj. Fatta la lu strazione, il pio Trojano e l'antica sacerdotessa pas sano ai luoghi dell'allegrezza, e alle amene ver dure dei boschi fortunati e alle sedi beate, ove i campi dal largoaere sono vestiti di purpureo lilme, e conoscono il loro sole e le loro stelle. I legisla tori, i buoni cittadini, i sacerdoti casti, gl’inven tori delle arti, e tutti que' prodi che ricordevoli di sè stessi fecero con le opere egregie che altri si ri (1 ) Æncid. VI, 264. cordasser di loro, quivi coronati di candida benda soggiornano. Queste immagini erano mostrate ne' grandi misteri, come qui negli Elisi. Adunque le pene e i premj della vita futura erano ! argo inento della istituzione Eleusinia e del sesto canto di Virgilio. Finalmente la confutazione del Poli teismo e la unità di Dio era figurata nello spirito interno alimentatore, e nella mente infusa alle mem bra di tutta la mole, di che i nostri pii metafisici agguzzaron tanti commenti. Così disse il dotto Inglese, a cui rendiamo onor grande per la erudi zione e per l'ingegno, e mediocre per la rigorosa verità. Ma comechè non consentiam seco in tutta la serie de' confronti, non sappiam discordare che in quel libro diVirgilio e in tutto il suo poema non sieno palesi gl'insegnamenti delle sociali virtù, de' premj e delle pene future, e talvolta non apparisca alcun indizio di sublime dottrina nel sommo argo mento dell' unica Divinità. Ora per la varietà di queste sentenze intorno alla filosofia di Virgilio, e perchè già sappiamo che i begli spiriti e gli ora tori di Roma nel torno di questa età trovavano as sai comoda quella filosofia, nella quale era usanza prendere da tutte le scuole il verisimile e l'accon cio alle opportunità, e non si metteano a colpa oggi essere Stoici e domane Epicurei, e talvolta l'uno e l'altro insieme nel medesimo giorno; perciò noi portiamo sentenza che ancora i poeti (lasciando stare quegli che strettamente cantarono alcuna par ticolare filosofia, come Lucrezio e forse Manilio ) usarono le mode istesse de' begli spiriti e degli ora tori; e servendo alla scena e al gusto dominante e al comodo, e volendo piacere al genio superficiale di Augusto e della sua corte, filosofarono alla gior [Encid. VI, 630.] nata e misero nei loro poémi quella filosofia che l'argomento e il diletto chiedeano, pronti a met terne: un'altra in bisogno diverso. Se noi vorremo domandare ai nostri poeti, come trattino la filoso fia nei loro componimenti, risponderanno che gli aspergono di Stoicismo quando parlano ai nostri Catoni, di Epicureismo quando lusingano i dame rini e le fanciulle, di Platonismo quando adulano le pinzochere, senza però giurare nelle parole di quelle scuole, anzi senza aver mai conosciuto a fondo i loro sistemi. A tale guisa io ho per fermo che poetasse Virgilio, e gli altri poeti della età di Angusto. Questo genere d' uomini fu sempre uso a fingere molto e a dir quello che accomoda e piace, piuttosto che quello che sentono. Quanto alla mo rale di Virgilio, tuttochè sia stata da alcuni solle vata a grandi altezze (1 ), e sia veramente superiore assai alle dissolutezze degli altri poeti di quella età, si vede in essa talvolta questo genio di scena e di comodo poetico e di pubblico diletto. Non dispia ceano a Roma le vittime umane; piaceano assai gli amori, e sommamente le conquiste e il sangue de' nemici. Quindi egli conduce il suo eroe, chedicono essere il maestro della morale virgiliana, ad inmo lare i prigionieri, a sedurre e tradire Didone, ad uccider Turno supplichevole, a turbare e conqui star le altrui terre; e allorchè prese a lodare M. Clau dio Marcello figlio di Ottavia sorella di Augusto, tutta quella amplissima laudazione che fece pian gere il zio e svenire la madre e che arricchì il poe ta, si rivolse finalmente nella cavalleresca e guer riera virtù (2) a cui non so se la filosofia non af [Lodovico Tommasini Méthode d'étudier chrétiennem. les Poéles. R. le Bossu Du Poéme Épique ch. IX. (2 ) Du Hainel Diss. sur les Poésies de Brebeuf.Jacopo Peletier Ari Puélique V. A. Baillet Jug. des Savans. Des Poétes Lalios.] fatto cortigiana vorrà senza molte restrizioni con cedere questo bel nome.Si potrebbono amplificar molto le querele filosofiche; ma in tanta copia di ornamenti e di lodi è giusto usar moderazione ue? biasimi. ORAZIO, amico intimo e am miratore di Virgilio, fu non meno di lui ornamento sommo della età di Augusto. Parve che questi due incomparabili ingegni dividesser fra loro il regno poetico, e fedelmente si contenessero nei limiti sta biliti, e l'uno non entrasse mai nella provincia del l'altro. Orazio adunque ceduta la poesia bucolica, georgica ed epica a Virgilio, assunse la satirica, la epistolare e la lirica; e cosi' i due amici potendo essere sommi in tutti questi generi, amarono me glio esserlo in generi diversi senza emulazione e senza invidia. Questi, che posson dirsi i Duumviri della poesia latina, ebbero, siccome in parte si è veduto, campi amplissimni ove seminare le filosofi che doltrine. Ma Orazio, per lo genio spezialmente della satira e della epistola, gli ebbe anche mag giori, ed egli usò di questo comodo assai diligen temente per piacere ad Augusto, a Mecenate e a sè stesso, e alla età sua e alla seguente posterità. Dappriina educato nelle lettere romane, visitare Atene. Mi avvenne, egli dice, di essere nu drito a Roma, e quiviimparare quanto nocesse ai Greci l'ira –Achille. La buona Atene mi condusse ad arte migliore, e a discernere il diritto dal torto, e a cercare il vero nelle selve di Accademo. Ma i duri tempi mi rimosser dal dolce luogo, e il ca lore della guerra civile mi spinse a quelle arme che non furono eguali alle forze di Augusto. Umile par tü da Filippi con le penne recise e privo della casa volle poi (1 ) Encicl. VI. furono ag e del fondo paterno: l'audace povertà mi strinse a far versi (1 ). E altrove non ha ribrezzo di raccon tare che nella sconfitta Filippica militando nelle parti diBruto, fuggi e gettò lo scudo (a). Così mal concio venne a Roma, e nato ad altro che a spar gere il sangue degli uomini e il suo, divenne poeta, ed ebbe parte non infima nell' amicizia di Mecenate e di Augusto, dai quali ottenne soccorsi alla sua povertà. Da queste avventure fu raccolto che Ora zio erudito nelle selve di Accademo era dunque Ac cademico. Ma questo sembrando poco, giunte quelle altre parole di Orazio: La sapienza è il principio e il fonte dello scrivere rettamente, e le carte socratiche possono dimostrarlo (3). Ove si vede l'amor suo grande alle dubitazioni di So crate, che forse somigliavano quelle di Arcesila e di Carneade. In una bellissima epistola a Mecenate, la quale è certo scritta nella vecchia età di Orazió o nella prossima alla vecchiaja, lo sciolgo per ten po, egli dice, il cavallo che invecchia, acciò non faccia rider le genti ansando e cadendo nella fine del corso. Depongo i versi e gli altri sollazzi. Le mie cure e le mie preghiere si rivolgono al vero e all onesto.Adunoe compongo dottrine per usarle in buon tempo. E perchè niun mi domandi a quale guida e a quale albergo miattenga, io, non istretto a giurare nelle parole di alcun maestro, vado ove mi menano i venti. Ora sono agile e m'immerso negli affari civili,ora custode e seguace rigido della vera virtù, ora furtivamente scorro ne' precetti di Aristippo, e le cose a me sottopongo, e non voglio io essere sottoposto alle cose (4). Ove non oscura [Orazio Epist. I. II, 2. (2 ) Carm. lib. II, Ode VII. (3) De Arte Poet. (4 ) Ep. lib. I, !. ] diente si vedono i pensamenti d' un uomo che pren de secondo le occasioni quello che più gli torna a piacere dalle sette diverse. Fu aggiunto ch'egli acre mente derise gli Stoici in più luoghi (1 ), il che era secondo il costume accademico; e che secondo il medesimo uso affermò e negò le istesse dottrine sen za eccezione delle più solenni, come la esistenza degl' Iddii, i prodigj, le cose del mondo avvenire, la provvidenza, il fine dell' uomo; donde non sola mente dedussero le idee accademiche di Orazio, ma ancora il suo pirronismo. A queste osservazioni se vorremo sopraggiungere il genio del secolo e il co. modo dell'Accadernia, e quel di più che abbiam detto della filosofia di Virgilio, non sembrerà in giusto consentire alle accademiche propensioni di Orazio; non mai perd ad un pirronismo esagerato, di cui non possiamo avere alcun fondamento; anzi lo avremo in opposito guardando a tante risolute sentenze sue, e all'abborrimento di tutti i più dotti Romani contro quella estremità; e non ha similitu dine di vero che un uom tanto destro ed elegante volesse esporsi al disprezzo di tutta Roma senza proposito alcuno. Ma comechè le cose ragionate fin qui sembrino bene congiunte a verità, alcuni pur sono che vorrebbono Orazio epicureo (2). Raccolse le altrui ragioni e aggiunse le sue per convincerlo di Epicureismo teoretico e pratico Francesco Al garotti in un suo Saggio della vita di quel poeta. Insegna egli adunque che molti sono i luoghi epi curei ne' versi di Orazio, perciocchè scrisse in una sua satira di certo strano prodigio che potea ben crederlo un Giudeo circonciso, non egli, perchè avea [Satyr. lib. I, 3; 11, 3. (2) P. Gassendo De Vita Epicuri lib.II, cap. 6.G.A. Fabrizio Bibl. Lat. lib. I, cap. 4. Reimanuo Hist. Alh. cap. 37. Stollio Hist. Pbil. mor. Geni. J. Brucker I. e. S III.] porco del apparato che gl' Iddii menan giorni sicuri e non mandan gid essi dall'alto tetto del cielo le meravi. glie della natura (1 ). E in una epistola a Tibullo: Come tu vorrai ridere, guarila me pingue e nitido gregge epicurco (2). Ma se queste ed al tre parole epicuree vagliono a fare Orazio epicu reo, varranno adunque le stoiche, le peripatetiche, le socratiche, le platoniche, lequali sono pur molte ne' suoi versi, a renderlo scolare di quegli uomini; e queste varietà non potendo comporsi in uno senza che egli fosse Accademico, o se vogliamo Eclettico a buona maniera, adunque io non so altro dedurre salvochè quello che dianzi abbiamo riputato simile al vero. Oltre a questo abbiam poi una molto so lenne abiurazione dell'Epicureismo in una sua ode, che è di questa sentenza: Già scarso e rado ado rator degl' Iddii, erudito in sapienza insana errai; ora mi è forza ritornare indietro. Vedo Iddio che gli umili cangia coi sommi, e attenua il grande, e mette a luce l'oscuro, e gode toglier l'altezza di colà e qui collocarla (3 ). E abbiano ancora un an tiepicureismo in quelle sue magnifiche parole: lo non morrò intero, e la massima parte di me evi terà la morte. La maggior forza però è, siegue a dire il valente Algarotti, che si vede la conformità grande tra i precetti di Épicuro e le massime e le pratiche di Orazio. L'uno e l'altro predicarono che de' pubblici affari non dee inframmettersi il sapien te, che ha da abborrire le laidezze dei Cinici, efug. gire la povertà e lasciare con qualche opera din gegno memoria dopo sè, e non farmostra delle cose suc, e dover essere amatore della campagna, e non [Satyr. lib. 1,5. (2) Epist. lib. I, 4. (3) Od. lib. I, 34. (4) Od. lib. III, 30.1] tenere uguali le peccata, e amare la filosofia, e non temere la morte e non darsi pensiere della sepol tura (1 ). Ma, secondochè io estimo, questa forma di argomentazione è cosi burlevole, come sarebbe quell altra, che Orazio fosse epicureo perchè avea il naso e gli occhi come avea Epicuro; senza dir poi che questo discorso medesimo potrebbe abu sarsi per intrudere Orazio in qualunque scuola; per chè nel vero molti altri maestri erano in Grecia e fuori, che insegnavano doversi fuggire i pubblici affari e le lordure ciniche e la povertà, e amare la campagna e il piacere e la utilità, e non brigarsi della morte e del sepolcro. Adunque non pud es ser provato che Orazio fosse epicureo, perchè disse molte parole o usate dagli Epicurei insieme con al tri, o anche rigorosamente epicuree, nella guisa che non può provarsi che fosse stoico o peripatetico, perchè disse molte sentenze prese dal Peripato é dal Portico; e ritorna quello che di sopra fu detto, questa indifferenza per tutte le scuole e quest'uso appunto di ogni placito che torni a comodo, pro vare solamente la filosofia accademica di Orazio. Trar poi le frasi oscene ei costumi dissoluti di Ora zio a prova di Epicureismo, con pace di chiunque io dico che questa diduzione non è consentanea al vero sistema epicureo, nè all'umano. Abbiam già veduto altrove che il legittimo orto epicureo non era quella terra immonda che alcuni si finsero, e possiamo veder facilmente che, riunpetto a molte oscenità sentenziose di Orazio, moltissime parole sue sono gravi, austere e diritte per narrazione dei contraddittori medesimi (2). E vediamo tutto dì che [Laerzio in Epicuro. Orazio Epist. lib. I, 1, 10, 17; lib. II, 2. Salyr. lib. II, 4. Od. lib. III, 20, 30, e altrove. (2) F. Algarolii Saggio sopra Orazio. V. Francesco Blondel Comp.dePindare et d'Horace. L. Tominasini Mélode d'étudier ec. A. Baillet I. c.] se la depravazione delle parole e de' costumi fosse argomento di Epicureismo, oggimai sarebbe epicu. rea tutta la terra. Stabiliamo per compimento di questo esame, che se vorremo da tutti gli scherzi canori de' poeti raccogliere inconsideratamente i si stemi e le vite loro, comporremo piuttosto poemi che istorie. Spargiamo dunque fiori, non spine, so pra il sepolcro del più filosofo di tutti i poeti. P. Ovidio Nasone Sulmonese fiori alquanti anni dopo Orazio, nella età anch' egli di Augusto; al quale comunquepotesse piacere per la fecondità e per la vivezza, dispiacque per la lascivia de' versi, o piuttosto, siccome alcuni pensarono e come Ovi dio medesimo disse, per aver veduto imprudente mente una certa colpa che volle tacere, e si para gond ad Atteone che fu preda a' suoi cani, percioc chè vide senza pensarvi Diana ignuda (1 ); e questa Diana parve a taluno Giulia sorpresa nelle brac cia di Augusto suo padre (2), e altri indovinarono altri arcani di oscenità. Ma è molto più giusto ta cere ove tacque Ovidio medesimo, tuttochè punito ed esigliato alle rive dell'Eusino fosse pienissimo d'i ra, che fa parlare pur tanto la generazione irrita bile de' poeti. Questo ingegno, nato per la poesia, amoreggio, e pianse in versi, e fu antiquario, e se gretario degli eroi e delle eroine anche in versi, e disse le mutazioni delleforme in nuovi corpi dalla origine del mondo fino a' suoi tempi; e sempre in versi, perchè s'egli prendea a scriver prose, usci vano versi spontanei suo malgrado. Nel molto nu mero de' suoi poemi il più reputato per serietà e per certo condimento filosofico è quello che ha per titolo le Metamorfosi; delle quali benchè sia stato (1 ) Ovidio De Ponto lib. II, el. IX; lib. III el. III. Tristium II et lll, e altrove. (2) V. P. Bayle art. Ovide, B, K. detto che sentono la decadenza della buona Lati nità e preparano il mal gusto che poi sopravven ne, e mostrano il fasto giovanile (1 ), noi pensiamo di poter dire che sono certamente menogiovenili delle altre poesie di Ovidio, e ch' egli medesimo, il qualepotea giudicarne quanto i nostri critici dili cati, le tenne in gran conto, e poichè l' ebbe com piute, Io, disse, ho tratta a fine un'opera che nè l'ira di Giove, nè il fuoco, nè il ferro, nè la vo race vecchiaja potrà abolire. Quel giorno che sul corpo solamente ha diritto, metta amorte quando vorrà lo spazio diquesta vita incerta. Con la parte migliore di me volerò sopra le stelle, e il nome no stro sarà indelebile. Dovunque la romanapotenza nelle terre vinte si estende, sarò letto dalla bocca del popolo; e se niente hanno di vero i presagi de' vati, viverò per fama nella eternità de' secoli (2). Senza involgerci ora nell' esame delle virtù poeti che diquesto componimento, o epico o ciclico ch'ei voglia dirsi, o di una azione o di mille, o contra rio ad Omero e ad Aristotele, o favorevole ai poe tici libertinaggi, di che gli scrittori dell'arte sapran no disputare;noi diremo piuttosto della meraviglia grande che questo poema eccitò con le narrazioni di tanti mutamenti di forme, i quali non si seppe mai bene che cosa significassero. Chi dicesse che questi sono delirj d'un poeta infermo per febbre, direbbe forse lo scioglimento più facile della qui stione, ma non il più verisimile, nè il più cortese alla fama e all'ingegno di Ovidio. Onde vi ebbe chi disse, sotto quelle metamorfosi ascondersi la serie Jelle mutazioni della nostra terra, e un certo siste ma di storia naturale (3); il che parendo poco ido (1 ) V. A. Baillel l. c. (2) Metamorph. lib. XV. (3) Roberto Stooekio Act. Erud. 1907. G. A. Fabrizio Bibl. Lat. vol. II. neo a spiegare tutte quelle favole, fu soggiunto che le idee di Pitagora, di Empedocle e di Eraclito e la mitologia e la opinione corrente a quel tempo sono le chiavi di quello enimma. Il perspicace War burton immagindche le metamorfosi sorgono dalla metempsicosi; e che siccome questa è la condotta della Provvidenza dopo la morte, così quelle lo sono per lo corso della vita: e in fatti Ovidio dapprima espone le metamorfosi come castighi della scelle raggine, e poi introduce nell'ultimo libro Pitagora ad insegnare ampiamente la metempsicosi (1 ). Que sto è il più ragionevole aspetto che possa prestarsi a quel poema; e se per molte gravi difficoltà non è forse affatto vero, meriterebbe di essere per la bellezza del pensiere e per onore del nostro poe ta. Già altrove abbiamo parlato con qualche dili genza della famosa cosmogonia e teogonia di Ovi dio, e della diversità sua dagli altri sistemi de' poeti greci, e del Dio anteriore al Caos e agl'Iddii sub alterni, il quale è Uno e Anonimo nella descri zione Ovidiana. Diciamo ora alcuna cosa del l'accennato luogo delle Metamorfosi ove Pitagora è introdotto ad insegnare il suo sistema della me tempsicosi, accompagnato coi pensieri di Eraclito e di Empedocle; imperocchè ivi è scritto che gli uomini attoniti per la paura della morte temono Stige e le tenebre, ei nomi vani e gli argomenti de' poeti, e i falsi pericoli del mondo: che le anime non muojono, ma lasciando la prima sede vivono e alloggiano in nuove case: che tutto si muta, niente finisce: che lo spirito erra, e di colà viene qui, e di qui altrove, e occupa tutte le membra, e dalle fiere trascorre ne' corpi umani, e da questi in quel 6) Warburton Diss. IX. (2) Metamorp. lib. I. V. il cap. XVII e XVIII di questa Istoria. le, e non si estingue in tempo veruno: che niente è fermo in tutto il giro, e ogni cosa scorre a so miglianza di fiume, e ogni vagabonda immagine si forma (1 ). Chiunque vorrà legger tutta intera que sta prolissa narrazione, potrà conoscere che qui ve ramente parla Pitagora; ma poi tanto vi parla an cora Empedocle ed Eraclito, e tanto Ovidio me desimo, che finalmente non s'intende chi parli. A dunque il nostro poeta non puddirsi professore di niuna di queste sette, e pare molto più giusto pen sare ch'egli o era Accademico, o niente. La serie di questi poeti e il genio di Augusto e del secolo appresentano un sistema quasi generale di filosofia accademica, e perciò non si può ameno di ripren dere la franchezza del Deslandes e di altri, che senza pensare più oltre affasciano insieme Augusto, Me cenate, Agrippa, Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibul lo, Properzio, Livio, e tutti gli altri grandi uomini di quella età, e li dicono Epicurei. Si vorrebbe separare da questa general regola M. Manilio, il quale intitold ad Augusto un poema delle Cose Astronomiche, e si mostro contrario agli Epi. curei e favorevole agli Stoici; e, Chi vorrà credere, disse, che il mondo e tante moli di opere sieno pro dotte da corpuscoli minimi e da cieco concorso? Una natura potente per tacito animo e un Iddio è infuso nel cielo, nella terra e nel muré, e go verna la gran mole, e il mondo vive per movimento d'una ragione, e lo Spirito Uno abita tutte le par ti, e inaffia l’orbita intera, la quale si volge per Nume divino, ed è Iddio, e non siadunò per magisterio di fortuna. Per queste e per altre parole [Metamorp. XV. Deslandes Hist. cril. de la Philos. Gassendo. Manilio Astronom.] di Manilio fu immaginato ch'egli non era accademico, ma del Portico e panteista e precursore dello Spinoza. No irichiamiamo a memoria le cose dette qui degli altri poeti del tempo d’Ottaviano, e più innanzi del Portico, e affermiamo che un verso o due che involti in dubbi e in equivoci possono sen tir forse un poco del Portico, non fanno uno perfetto del Portico, e quando pur lo facessero, uno del Portico non è un panteista nè uno Spinoziano. Se le ingiurie de' secoli, che dispersero tanta parte della storia di Livio non avessero affatto distrutti i suoi dialoghi istorici insieme e filosofici, e i suoi libri in cui scrive espressamente della filosofia, io credo che noi potremmo conoscere la filosofia della età d’OTTAVIANO molto più chiaramente che per tutte le immagini poetiche, e inoltre potremmo vedere a quale sistema si attene Ottaviano stesso. Ma non rimanendo altro di lui che parte della sua storia, i curiosi ingegni hanno voluto raccoglier da essa un qualche assaggio della sua filosofia; e alcuni lo hanno dileggiato come un superstizioso narrator di miracoli assurdi e un uom credulo e popolare. Ma per le clausole filosofiche apposte a molte narra zioni di prodigi, e per la fede istorica onde ri putò necessario raccontare le pubbliche opinioni e i casi scritti negli annali e nelle memorie antiche, fu molto bene difeso. Toland, vaneggiando di volerlo difendere assai meglio, lo grava della maggior villania; perocchè lo fa tanto poco superstizioso, che lo trasforma in ateo, e poi lo com [Collin De la liberté de penser. Gio. Toland Orig. Ju daic G. L. Mosemio ad Cudwort System. int. cap. 4, S 20. J. Brucker 1. c. S V. (2) SenecaEp.100. G.A.Fabrizio Bibl. Lat. vol. I. )(3) Lipiec 20.Gxva] mendo come uomo di buon senno e di esquisito giudizio, e come un saggio filosofo e un ingegno elevato. Queste arditezze furono confutate ampiamente. E noi lasciando pure da parte molte altre sentenze di Livio, lo confuteremo con una sola, ove di certi tempi romani disse. Non ancora era venuta la negligenza del divino, che ora tiene il nostro secolo, nè ognuno a forza ďinterpretazioni si forma como di giuramenti e leggi, ma piut tosto ai giuramenti e alle leggi si accomodavano i costume. Queste parole non sono del catechismo degli’atei. Agatopisto Cromaziano, di Buonafede. Appiano Buonafede. Tito Benvenuto Buonafede. Keywords: storiografia filosofica, criteria – storia neutral della filosofia – il primo filosofo romano – in lingua latina – previo all’ambasciata di Carneade – the patronizing tone of classicist Johnson Murford. Each man is the architect of his own fortunes – Appio -- -- filosofia antica, filosofia romana antica. Filosofo: addito a reflessioni generali sulla vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonafede” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Buonamici – you scratch my back -- etymologia di muovere --  corpi in movimento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: There are many Buonamici, so you have to be careful – this one is a genius – he taught at Pisa, in the M. A. programme, both Aristotle’s Poetics – imitazione, il tragico, -- and his ‘motus’ – Galileo happened to be his tutee, and the rest is the leaning tower!” Frequenta lo Studio di Firenze, dove segue il corso del l'umanista Vettori (si conservano alcune lettere scambiate tra i due). Filosofo naturale e latinista, si ispira molto agli antichi testi che commenta (Aristotele, Nicomaco…). Tutore di Galilei a Pisa. Altre opere: “De Motu libri X, quibus generalia naturalis philosophiae principia summo studio collecta continentur, necnon universae quaestiones ad libros de physico auditu, de caelo, de ortu et interitu pertinentes explicantur, multa item Aristotelis loca explanantur et Graecorum, Averrois, aliorumque doctorum sententiae ad theses peripateticas diriguntur, apud Sermartellium (Firenze); Discorsi poetici nella accademia fiorentina in difesa d'Aristotile. Appresso Giorgio Marescotti (Firenze); “De Alimento libri V, B. Sermartellium juniorem” (Firenze). Galilei, De motu antiquiora” “Quaestiones de motu elementorum”.  Gentiluomo Fiorentino, e Medico, Lettore di Filosofia con gran concorso di Scolari nell'Università di Pifa. In detta Università avendo Giulio de' Libri altro Profesfore tacciato il Buonamici, come quello che citaffe testi falfi, questi una mentita gli diede; ed effendo state gettate da alcuno in fua scuola certe cor na, il Buonamici così diffe: Si vede che costui debbe avere in tafa grande a b éondanza di questa mercanzia, poichè ne porta qua. Egli v insegnò quaranta tre anni » e letto aveva due volte tutto San T o m m a f o, e in ultimo gli erano pagate quattrocento feffanta piastre di provvifione. Il buon gusto nelle belle Lettere congiunse allo studio delle facoltà più gravi; fu Accademico Fiorenti no (4); e godette della stima de Granduchi di Toscana, da quali, ficco me eglisteffoafferma(6), findagiovinettofunodritoeornatodigradiono revoli. Morì ad Orticaja vicino a Dicomano, ove, ficcome anche alle P a n cole, aveva un Podere; e lasciò tutto il fuo ad uno Speziale. Fu recitatadaAttilioCorfiinquellaPievefulCadavereun’Orazionfunera V. II. P. IV. - Вbble, Poccianti, Catal. Script. Florentin. Salvini, Fasti, Buonamici, Dife.orf.Poetici,DiscorsoVIII.pag іЯў. annoverò fra i principali Peripatetici di quello Studio. (7) Salvini, Fasti cit. pag. 355. (3) Poccianti, loc. cit. di Firenze nel Tom. VI. Par. IV. a car. 55. e fegg. Ove Bianchini, Ragionamenti intorno a' Granduchi,   le, e a’ 27. di Maggio nell' Accademia Fiorentina altra Orazione funerale venne recitata da Tommafo Palmerini. Di lui hanno parlato con lode diverfi Scrittori citati dall'Autore delle N o tizie Letter. ed Istoriche dell'Accademia Fiorentina (9), e dal P. Negri (1o), il qual ultimo noi fiam di parere che sbaglj, ove fra gli autori che hanno parlato del Buonamici registra anche il Crescimbeni, il quale non di questo, m a di Gio. Francesco Buonamici di Prato ha parlato, ficcome nell' articolo diquest'ultimodiremo:.IlnostroFrancescofcriffediverfeOpere, lequali, febbene da alcuni fieno d'ofcurità tacciate (11), fanno conofcere il fuo fape re, la fua fingolare dottrina, e la sua cognizione anche della Lingua Greca. Eccone il Catalogo: - I. Francifci Bonamici Florentini e primo loco Philosophiam ordinariam in almo Gymnasio Pifano profitentis De Motu Libri X. quibus generalia naturalis Philoso phie principia fummo studio collećfa continentur - Nec non universe Questiones ad Libros de Physico Auditu, de Cælo, de Ortu és Interitu pertinentes, explican tur. Multa item Aristotelis loca explanantur, či Græcorum Averrois, aliorumque Dostorum Fententie ad Thefes peripateticas diriguntur ec. Florentiæ apud Bartho lomeum sermartellium1591.infogl.Fu affailodatoilmetododiquest'Opera, di cui il Piccolomini era uno de' principali ammiratori. II. Discorsi Poetici detti nell'Accademia Fiorentina in difesa d'Aristotile. In Firenze per Giorgio Marescotti,  con Dedicatoria a Baccio Valori fegnata dalle Pancole. In questi Difcorfi, che fono VIII. risponde alle oppofizioni fatte dal Castelvetro ad Aristotile. III. De alimentis Libri V. ubi multe Medicorum Tententie delibantur, ở cum Aristotele conferuntur. Complura etiam Problemata in eodem argumento notantur, ở quibusdamexGræcaLeếtionepriftinusnitorrestituitur.Venetiis, Florentie apud Bartholomeum Fermartellium Juniorem 16o3. in 4. IV. Una sua Lezione fatta sopra ilSonetto del Petrarca, che incomincia: Quando 'l Pianeta che diffingue l'ore, - nell’Accademia Fiorentina sotto il Consolato di Tommaso d el Nero a fi conserva a penna in Firenze nel Cod.  della Libre ria Strozziana. V. Lećiiones super I. és 11. Meteororum. Queste Lezioni fopra l’argomento delle meteore (cui affermava il medefimo Buonamici, per testimonianza di Monfig. Sommai, d' aver per difficilistimo, rispetto alla difesa d' Aristotile che giudicava effere stato mirabile nelle cofe che appariscono al fenfo »,ma nell’altre affai ambiguo) efiftevano a penna in Firenze nella Libreria de Si gnori Gaddi fra Codici mís, paffati, per compera fattane da Francesco I.I m eradore felicemente regnante, e Granduca di Toscana, nella Laurenziana al Cod. 8o5. num. 2. - VI. Filippo Valori scrive che lascia delle fue fatiche fopra la Metafifi ca, ed altro, la quale Metafifica poffeduta da diverfi, ebbe in Roma qualche difficoltà a stamparsi per alcune cofe Filosofiche stampate anche ne Libri De motu, ficcome afferma il suddetto Monfig. Sommai. Il Poccianti famen Z1OI) C (8)CosìaffermailSalvinine Fasticit.acar.355. stentia penna nel Tom. III. delle nostre Memorie MSS. Non foppiamo Pertanto con qual fondamento Negri acar.835.fia fferma che al Buonami comancava distin nell’ degli scrittori Fiorent. acar.188. aflerifcache zione, e chiarezza, e che diventasse fempre più oscuro, in detta Accademia fu Attilio Corficheinfuamortere- perchè pigliava le fue Lezioni, e le andava ritoccando, e cita l’Orazione funerale quando il Corfila recitò sulca ripulendo, e comeegliintendeva, epresupponevailmede davere nella Pieve, ove fu depositato. fimo degli altri, a poco a poco le ridase inintelligibili, A car.214. febbenefettenel fondamento femprefaldoelefue Lezio (1o) for.degliScrittoriFiorentini,pag;187. Ol niantichefonolemigliori. tre gli Scrittori citati dal Negri parla con lode di lui anche Filippo Valori ne’ Termini di mezzo rilievo ec, a Caľ,  Si vegga Filippo Valori ne” Termini cit. a car. 7. In alcune Memorie scritte da mano di Monfig. Girola mo Sommaī, ed inferite nelle Schede Magliabechiane efi Catalog. della Libreria Capponi, Lipenio, Bibl. real. Medica, pag. i1.Salvini,Fafficit.pag zoz. in foglio volante. (17) Loc. cit (18) oservaz, fopra i Sigilli antichi (19) Efistono presso di noi nel Tom. III. delle nostre - Memorie mfs. a car.  (zo) Descrizione della Provincia del Mugello BUONAMICI. zione de commentar. in Logica mở Ethicam lasciati dal nostro Autore; il Negri accenna un fuo Tractatus Logice esistente ms. nella Libreria del Palazzo Ducale de' Medici, il quale è indirizzato a Lelio Torello Giureconful to, e incomincia: Multa profećio, variaque_ec; e ilchiariffimo Sig. Domeni co Maria Manni (18) fa ricordanza d'una Cronica fcritta a mano da Francesco Buonamici esistente nella Libreria Gaddi pure in Firenze. Dalle schede Magliabechiane comunicateci dal chiariffimo Sig. Canonico Angiolo Maria Bandini apprendiamo ch'era opinione che il Cavaliere Aquilani aveffe molti Scritti e Opere da stamparfi del nostro Autore. D a ciò che abbiamo fin qui detto ci fembra di poter afferire che il nostro Autore sia diverso da quel Dottor Francesco Buonamici il quale ha il suo deposito nella Chiefa del Piviere di S. Babila detto anche S. Bavello e S. Bambello nella Provincia del Mugello in Toscana, il quale di tutta la sua eredità lascia che foffe fatto un fondo per mantenimento a Pisa di tre giovani parte di S. Gaudenzio, e parte di Dicomano con obbligo di addottorarfi, del quale fa menzione il Dott. Giuseppe Maria Brocchi(2o), ma senzaaccennarefefiaScrittored'Operaalcuna. V” è stato anche un Francesco Giuseppe Buonamici, di cui fi ha alle stampe un Elegia, ed un Epigramma in Lingua Latina per la nascita di Giacomo Augusto Lorenzo Ferdinando Maria figlio d'Amedeo del Pozzo ec. In Milano. Francesco Buonamici. Keywords: corpi in movimento, Aristotele, filosofia naturale, Galilei, razionalismo, aristotelismo pisano, de imitazione – aristotele – poetica – mimica – de motu – muggerbrydge --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonamici” – The Swimming-Pool Library.

 

Buonarroti. Grice: “Some call him Michelangelo, but that’s rude!” --  See the study of Buonarroti’s Moses by Freud, “filosofia”

 

Grice e Buonsanti –vector – il vettore -- implicatura di ‘animale’ – ‘non umano’ --  filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrandina). Filosofo italiano. Grice: “I like Buonsanti; Strawson calls him a veterinarian, but I call him a philosopher,, for surely he is a philosophical zoologist – he philosoophised, like Aristotle did, on the comparative physiology and anatomy of ‘human’ and pre-human.!” Esponente di spicco della storia della medicina veterinaria italiana ed europea è stato una delle figure più rappresentative della Scuola veterinaria milanese.  Diresse l'Enciclopedia medica italiana edita da Vallardi e La Clinica veterinaria (di cui fu anche fondatore).  Altre opere: Dizionario dei termini antichi e moderni delle scienze mediche e veterinarie Manuale delle malattie delle articolazioni Trattato di tecnica e terapeutica chirurgica generale e speciale La medicina Veterinaria all'Estero, organizzazione dell'insegnamento e del servizio sanitario. Dizionario Biografico degli Italiani. Nicola Lanzillotti Buonsanti. Keywords: etimologia di ‘veterinario’ -- animale; filosofia e medicina nella Roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Buonsanto – pratico -- prammatica del discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Vito dei Normanni). Filosofo italiano. Grice: “Buonsanto is a good one – I call him the Italian Wittgenstein; he talks of a reasoned grammar (grammatical ragionata) and not of rules but regoletta – and he like Austin speaks of the genius (il genio) del linguaggio – he speaks of a ‘philosophical approach’ to grammar – of ‘proposizioni’ and the rest – of etimologia, and sintassi, so he is into implicature!”  Filosofo pontaniano italiano. Nato nella cittadina salentina nell'allora via Vento (oggi via Cesare Battisti), qui compie i suoi primi studi classici. Fattosi domenicano, non ancora ventenne, entra nel convento dei Padri predicatori di San Vito dei Normanni, ove si dedica allo studio della filosofia scolastica.  Diventando educatore, si distingue per le sue idee innovatrici nei metodi didattici, diventando ben presto un vero luminare del pensiero pedagogico della cittadina. Diventa anche un attivo sostenitore del movimento repubblicano, e insieme al notaio Carella, porta dalla vicina Brindisi un albero di naviglio per piantarlo, in segno di libertà, nella piazza antistante il Castello. Le sue convinzioni, però, lo costringono a fuggire da San Vito ed egli ripiega prima a Ostuni e poi a Martina Franca, da cui raggiunge, da ultimo, il convento di San Domenico a Napoli, dove muore.  La città natale ha dedicato al suo nome una scuola media cittadina.  Dizionario Biografico degli Italiani. Altre opere: “Etica iconologica”; “Il sistema metrico”; “Geografia” “Storia del Regno di Napoli”; “Antologia Latina”; “Sistema d'istruire i giovanetti”. By planting the tree, Buonsanti meant that he wanted peace. Etica iconological: children learn by imitating: ‘sistema per educare i giovinetti” – If we are looking for a typical Latin root for acting (or not acting,a s in the prototype of the ‘lazy Latin lover’) we should search for the ‘agire’ root, that gives us action. Qua philosophers, we are interested in that branch of philosophy that deals with action. Which one is it? Cannot be ‘morals’ because ‘ethos’ or mos is costume, rather than action. Analytic philosophers speak of ‘philosophy of action’ – Grice: “But not I”. Grice: “In my ‘Actions and Events’ I elaborate on this. I find that the vernacular English is ‘do’ – and that we need a special interrogative. Socrates in Athens whatted? He drank hemlock. Quandum – at what time – ubi – at what place, quia – for what reason (all from Aryan qw- root) are each examples of such an interrogative. Grice: “Latin is better equipped than English with the range of interrogatives whose function is to inquire, with respect to any of the ten categories, which item WITHIN the category would lend its name to achieve the conversion of an open sentence into the expression of a alethically or practically satisfactory utterance.  Each of these interrogatives (‘quando’, ubi, quia) have an INDEFINITE counterpart. Corresponding to ‘ubi’ is ‘unum ubi’. Corresponding to quod ‘unum quod’ – and so on. There is the occasion when the utterer requires not a pro-NOUN, but a pro-VERB, parallel to the two kinds of a pro-noun (interrogative and indefinite). A pro-verb is used or serves to make an inquiry about an indefinite reference to one of ten categories of items which a PREDICATE (P), qua epi-thet, ascribes to a subject (S), in a way exactly parallel to the familiar range of a pronoun. Just as the question, ‘WHERE [Ubi] did Socrates drink the hemlock’ is answered by ‘In Athens’,  consider the yes-no question,  ‘Socrates WHATTED in 399?’. The question might be answered by ‘Yes’ – And given the principle of conversational helpfulness, if one is in a position to specify what VERB we would use to express, we do just that. ‘Drank’. And more specifically, ‘Drank the hemlock.’ And given that Socrates did drink the hemlock in 399 B. C. as the answer just reminds us, we say: ‘There! I *knew* that Socrates SOME-WHATTED in 399 B. C.” The Romans lacked our ‘do’ – which was a good thing for them, for they were able to avoid our constant abuse of ‘do’ – the Roman equivalent would be ‘agire’ --. By way of a periphrasis – by which we can come close to the roman way. We ask, for example, WHAT did Socrates DO in 399 B.C.?’ In its capacity as PART (along with ‘what’) of a make-shift pro-VERB, the very  English ‘do’ –not a German thing, even! – can STAND IN FOR (be replaceable by) ANY English VERB – or phrasal verb or verb phrase (‘put up’)  whatsoever. Cf. pro-verb – do as proverb. They herd cattle, and raise corn, as we used to do. HereVito Buonsanti. Vito Buonsanto. Keywords: prammatica del discorso, Peirce, icon, Grice, iconic, iconologia, eicon, icon: Peirce, icon, Grice, iconic, iconologia, eicon, icon,  pratico e prasso are cognate praktikos dalla radice per --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Buonsanto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Burgio – the goths in Italy – Romans contra Goths – la guerra gotica in Italia -- dialettica ostrogota – filosofia ostrogota – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo Italiano. Grice: “You gotta love Burgio: my favourite of his philosophical pieces are his study on the tradition, development and problems of ‘dialettica’ – from Athenian onwards – and his explorations of contractualism, since I’ve been called one – a contractualist I mean, as so was Grice [G. R. Grice].” --  Alberto Burgio Deputato della Repubblica Italiana LegislatureXV Legislatura Gruppo parlamentareRifondazione Comunista CoalizioneL'Unione CircoscrizioneLombardia 3 Incarichi parlamentari giunta per il regolamento; XI Commissione (Lavoro pubblico e privato); Commissione esaminatrice del premio Lucio Colletti dal 28 luglio 2006 Dati generali Partito politicoPRC Titolo di studioLaurea in lettere e filosofia Professionedocente universitario Alberto Burgio (Palermo), filosofo..  Nato a Palermo il 13 maggio 1955, dal 1993 insegna Storia della filosofia presso l'Bologna. È stato eletto deputato al Parlamento della Repubblica alle elezioni politiche del 2006 (XV legislatura).   Si è occupato prevalentemente di storia della filosofia politica e di filosofia della storia con studi su Rousseau e l'idealismo classico, la teoria della storia tra Kant e Marx e il marxismo italiano (Labriola e Gramsci), il razzismo e il nazismo.  Altre opere: “Filosofia politica: eguaglianza, interesse comune, unanimità” (Napoli, Bibliopolis). Rousseau, la politica e la storia. Tra Montesquieu e Robespierre, Milano, Guerini); “Robespierre” (Napoli, La Città del Sole); “Italia pre-aria” (Bologna, Clueb); “L'invenzione dell’ario” Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma, manifestolibri); “Nel nome dell’ario. Il razzismo nella storia d'Italia” (Bologna, Il Mulino); “Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, Roma, DeriveApprodi); “Struttura e catastrophe” Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti); La guerra dell’ario, Roma, manifestolibri); Gramsci storico. Una lettura dei "Quaderni del carcere", Roma–Bari, Laterza); “La forza e il diritto. Sul conflitto tra politica e giustizia” (Roma, DeriveApprodi); Guerra. Scenari della nuova "grande trasformazione", Roma, DeriveApprodi); “Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, a cura di, Macerata, Quodlibet); Escalation. Anatomia della guerra infinita, (Roma, DeriveApprodi); “Il contrattualismo” (Napoli, La Scuola di Pitagora); “Dia-lettica, co-loquenza:Tradizioni, problemi, sviluppi” (Macerata, Quodlibet); “Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, Roma, DeriveApprodi); “Manifesto per l'università pubblica” (Roma, DeriveApprodi); “Senza democrazia. Un'analisi della crisi, Roma, DeriveApprodi); “Nonostante Auschwitz. Il ritorno del razzismo in Europa, Roma, DeriveApprodi); “Rousseau e gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento, Roma, DeriveApprodi); “Il razzismo, con Gianluca Gabrielli, Roma, Ediesse); “Identità del male. La costruzione della violenza perfetta” (Milano, FrancoAngeli); “Gramsci. Il sistema in movimento, Roma, DeriveApprodi); “Questioni tedesche, a cura di, Mucchi, Modena,  («dianoia»). “Orgoglio e genocidio. L'etica dello sterminio nella Germania nazista” (Roma, DeriveApprodi); “Il sogno di una cosa. Per Marx, Roma, DeriveApprodi); “Critica della ragione razzista, Roma, DeriveApprodi. Any Oxford philosophy tutor who is accustomed to setting essay topics for his pupils, for which he prescribes reading which includes both passages from Plato or Aristotle and articles from current philosophical journals, is only too well aware that there are many topics which span the centuries; and it is only a little less obvious that often substantially  66  Paul Grice  similar positions are propounded at vastly differing dates. Those who are in a position to know assure me that similar correspondences are to some degree detectable across the barriers which separate one philosophical culture from another, for example between Western European and Indian philosophy. I GOTI.  il l/F) (fa  figlili;  WT'I Tr»acjed Lia lirica, in quattro atti     STEFANO INTERDONATO   MUSICA DEL MAESTRO   Iflfiii lillff!   DA lUPPHftSEINTAHSl   AL TEATRO NUOVO  DI PADOVA   STAGIONE DI PIERA e MILANO   STABILIMENTO MUSICALE DI F. LUCCA. A Teodorico, fondatore della Signoria dei Goti in  Italia, successe la figlia Amalasunta. Donna di animo virile, di bellezza non comune, ed amante della romana civiltà, e odiata  dai principali signori goti che ligi alle antiche costumanze vedevano di mal occhio la nuova regina  mostrare clemenza verso i vinti e prediligere usi e  costumi che secondo essi avrebbero finito col corrompere i vincitori degl’Eruli e dei Romani. Amalasunta , a cui fu tolta la tutela del proprio figlio Alarico che poi dopo alcuni mesi perde miseramente la vita, credette di rassodare la propria autorità sposando uno dei più potenti signori della sua Corte a  nome Teodato, ma questi appena salito sul trono si  unì ai nemici di lei, l'accusa di illecite tresche, le  tolse ogni autorità e quindi la relega in un castello  sul lago di Perugia dove poi la fece secretamele  uccidere.   Così la storia. PERSONAGGI ATTORI. AMALASUNTA, regina de' Goti SigS Antonietta tfricei Baratiti  TEODATO, signore goto , suo   cugino , . Sig. Francesco Pandolpii   SVENO, giovane patrizio romano Sig. Filippo Patierno ftfcw •   LAUSCO, capo de' guerrieri . Sig. p ao lo Medini   SVARANO , altro capo de' guer-  rieri Sig. Luigi Calcaterra   GUALTIERO , guerriero goto ,   amico di Sveno .... Sig. Luigi Vistarmi     Guerrieri, Araldi, Sacerdoti, Signori goti, Congiurati,   Damigelle della Regina, Uomini e Donne del popolo.   Trombettieri, Paggi.     La scena è nei primi tre atti in Pavia.  Nel quarto atto sul lago Trasimeno.     Epoca anno 534 dell' era cristiana.     Il virgolato si omette.     ATTO PRIMO   SCENA PRIMA.   Atrio colonnato nel Castello di Pavia. Ai lati alti e lunghi por-  tici che si perdono nelV oscurità. Un raggio di luna batte sulle  mura del Castello che si vede nel fondo. — Il davanti della  scena è interamente immerso nell' ombra.   Molli guerrieri goti dormono sdraiati sul terreno. l«ausco è  in piedi appoggiato ad una colonna, immobile e pensieroso.  Dal fondo s'avanzano cautamente Tediato e Svarano.   Teo. (a bassa voce)   Lausco?...  Lau. ics.) _ Sì.   Teo. Gessò la festa?   Lau. (additando i guerrieri)   Guarda... dormono costor.  Sva. Tutto tace.   Teo. L'ora è questa   Che anelava il mio furor!  Aborrito, disprezzato,   Alla terra e al ciel nemico.  Quando l'astro del mio fato  Parve a un tratto impallidir,  Sovra il capo d'Alarico  Imprecando la sventura  Solitario in queste mura  M'affidai nell'avveniri  (o Lausco) Tremi tu?...  Lau. Non tremo mai!   Teo. Ei mi offese e m'oltraggiò,   lo d'ucciderlo giurai.  Sei fedel?  Lau. L'ucciderò.   Sva. Quando l'opra tia compita   Ci vedrem?    Teo. Del trono al pie.   Lau. Tu proteggi la mia vita;   Io lo scettro appresto a te.   (entra rapidamente nell'interno del Castello)  Teo. (dopo un istante di silenzio, guardando attorno con ter-  rore e prestando ascolto)   Perchè tremo?... nulla sento...  Sva. (a bassa voce)   S'ei fallisse il colpo?  Teo. Ah no!   (si sente un grido)   Sva. Parmi un grido...   Teo. (con ansia terribile) Oh qual tormento!   (grida confuse nelV interno del Castello)  Sva. Ah! L'uccise!   Teo. (con gioia feroce) Io regnerò!   (partono rapidamente, mentre i guerrieri destati dalle grida  balzano in piedi e afferrano le loro armi.)  Guerrieri, poi Sveno.   Alcuni guerrieri   Qual suono!... l'udiste?  Altri guerrieri Confuso lamento   Sull'ali del nembo - per l'etra echeggiò.   (Sveno si precipita sulla scena pallido, coi capelli in di-  sordine, colla spada sguainata)  Tutti Tu, Sveno? Ove corri?  Sve. Tremate! Egli è spento.   Dei regi l'erede trafitto spirò!  Tutti Trafitto Alarico!  Alcuni guerrieri All'armi!   Altri guerrieri terrore!   Ma parla... rispondi! chi fu l'uccisore?  Sve. Della notte nel silenzio   Era immersa la natura...     PRIMO  Non s' udia fra queste mura  Che del gufo l'ulular...  Quando un grido orrendo, atroce  M'empie il core di spavento...  Ah, quel grido ancor lo sento  Al mio orecchio risuonar.  Tutti Era il grido della morte   Che venia fra queste porte.  Sve. Corro al prence... di sangue cosparso,  Un pugnale avea fitto nel petto!...  Non profferse il suo labbro alcun detto...  Sol la mano mi strinse... e spirò!  Guerrieri (brandendo ferocemente le spade)  Morte, morte all'indegno uccisore!  Si ricerchi... fuggir non ci può!  (entra Teodato e si confonde fra i guerrieri)  Sve. Maledetto il parricida,   D'Alarico l' uccisori  Di celarsi invan s'affida,  Di sfuggire al mio furor!  Tutti All'armi, guerrieri! s'esplori ogni loco...  Già l'alba nel cielo propizia spuntò.  Di ferri recinto -qui tratto fra poco  Fra strazii perisca - chi sangue versò!  (partono in varie direzioni, Sveno va per seguirli)   Teoclato e Sveno.   Teo. Sveno, t'arresta.   Sve. Da me che vuoi?   Teo. Giovane, ascolta; parlar ti vo'.  D'ira sfavillano gli sguardi tuoi  Ma in core leggerti ben io lo so.   (con sarcasmo)  Tu Romano, tu figlio d'Italia   Ch'ora è serva e che un di fu regina,  / Goti 2     Puoi dei Goti temer la rovina,  D'Alarico alla morte tremar?  Folle! Invano celare presumi  L'empia gioia che tutto t'invade,  Tu che privo di patria e di numi  Qui un asilo venisti a cercar!  Svfi. {con alterigia)   E che vuoi dire?  Tr0 D'Alarico estinto   "' Or chi sul trono ascenderà, noi sai?  D'imbelle donna sulla chioma cinto  Il diadema fatale or tu vedrai.  SvE.D'Amalasunta?(co« impeto) Mai più degna mano   Trattò lo scettro!... ^ .  Tfo. (sogghignando) Ne più bella!   • v Insano!   SvE.   Solo ed orfano reietto  Sull'avel del padre estinto,  Senza pane, senza tetto,  Io vivea di ceppi avvinto-  Quando un angiolo di Dio  Quasi in sogno m'appari...  E pietoso al dolor mio  I miei ceppi infranse un di.  Or che cinto di perigli  Sovra il trono assiso egli e.  Sfido l'uom che mi consigli  Di tradire onore e fé!  Teo Una minaccia suonano   Questi tuoi detti, o Sveno?  So che per me terribile  Odio tu nutri in seno!  Sve. Odio?... t'inganni. - Sprezzo   Mi desta un traditor. -  Teo. Ne avrai condegno prezzo (raffrenandosi)   Della regina il cor!  Sve. Trema... ah trema! Potrebbe a un mio detto  Il tuo capo cadere al mio pie. -Finché l'ira raffreno nel petto,   Va, t'invola lontano da me!  Teo. (Egli l'ama ! Ogni sguardo, ogni detto (da sé)   Il suo amore disvela per lei.   Vendicarmi fin d'ora potrei,   Ma la sorte matura non è!)  Sve. Altro a dirmi t'avanza?  Teo. E l'odio mio   Dunque, $veno, non temi?  Sve, Io?... Lo desio! -   (partono da opposti lati)   Steca sala nel Castello di Pavia; in fondo un gran verone  dal quale si vede la pianura e in lontananza l'Appennino;  due porte laterali.   Amalasunta sola.   Ama. (guardando dal verone)   Ecco la luce... Coi suoi raggi il sole  Le tenebre disperde; e tu svanisci  Fatai notte che a me toglievi il figlio,  Unica speme del mio core!... Oh, come  Sulla fronte mi pesa questa triste  Aurea corona!...  [Alcune giovinette che passano sulla via, cantano in lontananza)  Cono esterno (Un giorno in quest'ora  Per via m'incontrò.  Spuntava l'aurora  Quand' ei mi baciò.  È bello il suo viso,  Mi piace il suo cor,  Mi piace quel riso  Che parla d'amor!)  Ama. (prestando ascolto)   ...Air opra usata allegre  Quelle fanciulle avviansi cantando. -  Come sfavilla in quelle voci tutto  Il contento dell'anima!... Io qui soffro!  Un abisso ritrovo in ogni loco,  In ogni sguardo un tradimento... Ahi lassa!  Coro esterno (come sopra)   »(Di gemme e castelli  » Se il ciel mi privò,  «Degli anni più belli  » La fé mi lasciò. -   »E tu, o giovinezza,   «Che allieti il mio cor,   «Mi doni l'ebbrezza,   • Mi doni l'amor!)  (il canto si perde in lontananza)  Ama. Eppure un dì di rosee   Sembianze rivestita  Dono del cielo agli uomini  Mi si pingea la vita: -  Quando tra feste e gaudii  Col nero crin gemmato  I giorni miei trascorrere  Potea del padre allato.  Or fra le tristi tenebre  Presso all'aitar di Dio  Con disperati aneliti  La morte invoco anch'io.  «Or che svanir le liete  «Larve di pace e amor,  «Or che si pasce l'anima  «Di lutto e di dolor!  (parte)   SCENA II.   Lausco e Svarano entrano cautamente.   Sva. La vedesti?   Lau. Piangeva; e quel pianto   Un inferno nel petto mi desta.  Sva. E che pensi?  Lau. Che a compier ci resta   Di Teodato il volere. -  Sva. Frattanto   Simulare ne giova. - Il mistero,   Della mente nasconda il pensiero. -  Lau. Per lei scampo più in terra non v'ha;-   S' essa cede, perduta sarà.-     14 ATTO   La gente romana - prostrata ed inulta   Che un tempo sui mondo - superba regnò,  Caduta nel fango -ci sprezza, c'insulta,  Al giogo ribelle - piegarsi non può.  Ma il ferro del barbaro,   Forier di sventura   Al suolo atterrando   Di Roma le mura,   L' Italica terra   Di sangue inondò!  Costei che di sensi -romani è nutrita  Il brando dei padri - vorrebbe spezzar;  Clemente redimer - la schiatta aborrita,  Sul trono con essa - chiamarla a regnar.  Ma il ferro del barbaro   Ancor non è infranto;   Foriero per gli empii   Di lutto e di pianto,   Più splendido al sole   S'appresta a brillar!  A ina lasunta, Lansco e Svarano~   Lai. (inchinandosi in umile atteggiamento)  Alla regina messaggier m'invia  li consesso dei prenci e dei guerrier.   Ama. Parla, signor.   Lau. Nella parola mia   De' tuoi fedeli udrai franco il pensier!  Una nemica parricida mano  A noi il re, a te toglieva il figlio.  A che celarlo? Il tradimento insano  Cinge il trono di lutto e di periglio.  (marcato)   Di questo scettro che ora stringi... puoi  L'immane pondo sostener tu sola?     il   Ama. Mal t'intendo, guerrier... Da me che vuoi?   Oscura giunge a me la tua parola.  Lau. Su quel trono a te d'accanto   Cinga un prence la corona.   Se fìnor la madre ha pianto,   La regina or dee regnar.  Ama. (quasi parlando a sé stessa)   Dunque, o schiava, tergi il pianto!   Su, di fiori t'incorona!   Pronta è 1' ara; non di pianto,   Questa è l'ora d'esultar!...   Di mio figlio dal letto di morte   Voi volete condurmi all'aitar?   Sceglier dunque m?è forza un consorte,   Queste bende funèree squarciar?  Sva. E possente adorata re ina   Sovra i Goti regnar tu potrai;   Poiché salva da certa rovina   In tal guisa l'Italia sarà.  Lau. Del sangue dei regi   Prescelto dal fato,   Vi ha un prence che al trono   Sol puote aspirar.  Ama. Chi è desso? rispondi!  Lau. S'appella Teodato.   Ama. Teodato dicesti?...   (da sé) (Mi sento mancar!)  Lau. Neil' ombra e nel silenzio,   Solo col suo pensiero,   Visse del mondo immemore,   Fido alla patria e al re.   Non è guerrier, ma a reggere   Il contrastato impero,   l fidi tuoi ten pregano,   Devi innalzarlo a te !  Ama. Non fia mai !   Sva. Che parli, o regina?   Ama. Io noi deggio.  Lau. Da certa rovina   Puoi tu sola la patria salvar!  Sva. Bada, o donna ! Secreta, possente  Dei Romani l'astuzia congiura.  Se sul trono regnar vuoi secura,  No, mei credi, non devi esitar.  Lau. Che risolvi ?  Ama. Noi deggio.   Lau. (deposto l'umile atteggiamento e minaccioso)  Al comun voto  Amalasunta ceda! -A te pon mente!  Ama. E tanto ardisci ? - Parti !  Lau. Ancor m'udrai ! -   Avvi un romano in questa corte: -ha nome  Svenoe tu 1' ami!  Ama. (da sé) (Cielo!)   Lau. (afferrandola per la mano) Incauta, trema!  Se esiti o nieghi, in questo istesso istante  Sarà Sveno dannato a orrendo scempio.  Della morte del figlio a tutti innanzi   10 qui l'accuserò !   Ama. (con impeto) Menzogna infame!   Egli è innocente... e tu lo sai '  Lau. Che importa ?   Sva. Egli è romano. - Qui ciascun 1' aborre.   11 popolo è a noi ligio - e speri invano!  Ama. Ahimè!...   Sva. Risolvi.   Ama. (dopo un istante d'esitazione)   Ebbene... ei fìa salvato.  A me consorte, sarà re Teodato.  a 5  Sva. Dell'impero dei Goti la stella  S' oscurava nell' italo cielo.  Ma fra breve più fulgida e bella  La vedranno i nemici brillar,  E nel fango dovranno gli ignavi,  Sempre schiavi, servire e tremar!        Lau. (Io trionfo! Più fulgida e bella (da sé)  La mia stella risplende nel cielo.  La perduta possanza che anelo  Sol Teodato a me puote ridar.  E nei fango dovranno gli ignavi,  Sempre schiavi, servire e tremar !)  Ama. Ahi, s'oscura, tramonta mia stella (da sé)  Che finora brillò senza velo.   Signor, tu che regni nel cielo   1 miei passi tu devi guidar,   E redenti dovranno gli ignavi ,   Non più schiavi , al mio nome acclamar !   (alle ultime parole Sveno compare in fondo alla scena. —  Lausco e Svarano escono gettando su Sveno uno sguardo  di trionfo)    Aniala«uiita e Sveno.   Sve. Grida di gioia risuonar qui sento.  Ama. (Ah, tutto ignora.) [da sé)  Sve. Eppure d' Alarico   L' inulta salma nell' ave! non scese.  Ama. Chi del figlio a me parla?... In queste soglie  Sanguigna luce spanderan fra breve  A sacrileghe nozze le votive  Faci d'Imene. - A che mi guardi ? Il fato  A me 1' impone ; sarà re Teodato.  Sve. (arretrando con grido di dolore) Ah!   Ama. Tu piangi? Io asciutto ho il ciglio.  Mai non piange una regina.  Della patria nel periglio  Ogni affetto tacer de.  Quel poter che mi trascina  D'altro amore è in me più forte,  Affrontar saprei la morte...  Se la patria il chiede a me.  Sve. »Tu spezzasti mie catene,  «Vita, onori a te degg' io.  »Ogni avere ed ogni bene  »Che beasse il pensier mio.  Tutto è sciolto. - Un dì saprai  Se t'amò quest'infelice,  Ma quel giorno, o traditrice,  Io vederlo non potrò.  Alla tomba or mi trascina  Questo amor di me più forte,  Sotto i colpi della sorte  L'alma affranta si spezzò!...  (si ode il suono di una marcia funebre)   Coro esterno   (Neil' avello dei padri discendi  Dormi in pace, figliuolo dei re.  Prega il ciel che i presagi tremendi  Sian dai Goti sviati per te.  La tua vita ha troncato il destino,  Sulla reggia or si libra il dolor.  Piombi almeno lo sdegno divino  Sovra il capo all'infame uccisori)  Ama. (con voce straziante)   Ah... quelle voci!... Son le preci estreme...  Sovra la tomba di mio figlio... Io manco...  (lasciandosi cadere quasi svenuta sopra una sedia)  Sve. (con disperata ironia)   In te ritorna... Le funeree faci  Alle tue nozze pronube, domani  Risplenderanno !... In te ritorna! Esulta!  CORO esterno (allontanandosi gradatamente)  (Nell'avello dei padri discendi,  Dormi in pace, figliuolo dei re.  Prega il ciel che i presagi tremendi  Sian dai Goti sviati per te.  La tua vita ha troncato il destino,  Sulla reggia or si libra il dolor.  Piombi almeno lo sdegno divino  Sovra il capo all' infame uccisori)    Ama. (quasi in delirio)   Dove sono ?... Ah, già fissato,  Scritto in cielo è il fato mio!  Non dagli uomini , da Dio,  La pietà sperar si de!  Sve. Tu dagli uomini, da Dio,  Maledetta sei da me!     Una sala nel Castello di Pavia. — Una porta in fondo.  Teodato solo.   Teo. E ancor non riede... Inebbriante meta  Cui da tanti anni ascosamente anelo,...  Splendida larva di mie notti, alfine  Io ti raggiungo!... Pur mi costi!... A mezzo  Volgea la notte, ed io sognava... ahi, truce  Terribil sogno! - Mi cingea la chioma  La corona regale, e sovra il trono  D'Amalasunta al fianco io m'era assiso  Al sinistro chiaror delle pallenti  Faci di morte... e innanzi a me sorgea  Dell'ucciso Alarico insanguinato  L'orrido spettro, e mi guardava come  Quando nei petto il suo pugnai gli infisse  Lausco!... e con la man parea dal soglio  Strapparmi a forza!... ed io tremava. - Oh vile  Debolezza dei core!... D'un delitto  A me che monta, se ciascun l'ignora?  No, più non tremo. - Già la notte sparve  E con essa svanir fantasmi e larve!  Nei cupo orrore di notte bruna  Quando la luce nel ciel fuggì,  Fosca sibilla fin dalla cuna  A me lo scettro predisse un dì.  E da quel giorno speme funesta  Per anni ed anni rinchiusi in cor;  E nel silenzio d'aspra foresta  Solo, spregiato, vissi fìnor.  Sangue mi costa quel serto, è vero:  Ma la mia sorte compir si de. Colpe e delitti sprezza il pensiero  Se ad essi è premio poter di re.  Se al soglio stendere la man poss'io  Che a me il destino - vaticinò,  Sui vinti popoli - lo scettro mio  Dall'Alpi al Brennero - distenderò!   SCENA li.   Laureo, £ varano e Teodato.   Lau. Possente è quest'oro che tutto conquide!  Teo. Che rechi?   Sva. Trionfi ; - la sorte ci arride.   L\u. La credula plebe venduta esultò.   Il trono or t'aspetta.  Teo. Calcarlo saprò.   Lau. «Ma pria che tu cinga la chioma del serto,  »0 prence, rammenta chi un trono t'ha offerto.  «Dell'opra tremenda qual premio sperai,  «Teodato, scordarlo potresti?  Teo. » Giammai.   Sva. «Non scordar quella notte e il pugnale   «Che nell'ombra celato ferì.  Lau. «Non scordar che un destino fatale   «Nello stesso delitto ci unì.  Teo. Io la mente, le braccia voi siete   In quest'opra di sangue e d'orror;  Se compirla, o guerrieri, saprete  A voi dono possanza e tesor!  » Cadde Alarico. - Ma quel sangue è poco,  «Altri deve saziar l'ira del seno.  Lau. «Altri?... t'intendo.  Teo. «Amalasunta e Sveno...   Nella pianura di Pavia, commosse  S'adunano le turbe. - Amalasunta  Oggi il serto mi cinge!  Sva. «I miei guerrieri   «Io stesso condurrò.     l jA u. «Popolo e prenci   »A1 tuo trionfo acclameranno.  Sva. Quando   L'ora fìa giunta, la fatale accusa  Profferisca il tuo labbro!  ^ AU - A noi la cura   Lascia del resto.  Teo. La superba donna   Ed il suo drudo, d'uno stesso colpo  Atterrati cadranno. - mia vendetta!  Ad essi morte...  ^AU. Il soglio a te s'aspetta.   Teo., Lau. e Sva. (a tre)   Sol d'Italia, di luce funesta  Splendi in questo bel giorno sereno.  L'atra gioia che m'arde nel seno,  La mia sorte rischiara così.  Potrò alfine, a me intorno prostrata,  Calpestarti, empia turba di schiavi.  Vili e ignavi! Già l'ora è sonata,  Di vendetta già corrono i dì.  (partono per opposti lati)   SCENA HI.   La gran pianura di Pavia: si scorge a grande lontananza la città  presso a cui scorre il Ticino, e più lontano ancora la ca-  tena degli Appenini. Da un lato s'innalzerà un trono for-  mato di trofei d'armi.   Sveno, indi Gualtiero.   GuA.Chi veggio?... Sveno... in questo loco? stolto!   Fuggi! t'invola ai colpi della sorte!   Altro scampo non hai... Taci?  Sve. Io t'ascolto.   Non ti comprendo.  Oua. E che mai speri?   Sve. Morte!   Agli infelici altro non resta in terra.   Così tradirmi!... Iniqua donna!     TERZO W   Gua. E sei   Uomo... e guerriero!  Sve. Un dì lo fui! - M'atterra   Or la sventura. - Ahimè!... perchè vivrei?...  (con 'profonda tristezza)  Della sua fede immemore  E dell'amor giurato,  Essa i legami infrangere  Volle del mio passato.  Ma nel troncar quei vincoli  Ch'eterni io pur credea,  Senza pietà la rea  Anche il mio cor spezzò.  Fonte d'amare lagrime  È l'avvenir, lo sento.  Verranno per la misera  I dì del pentimento.  Ma di quel giorno infausto,  Forse lontano ancora ,  La sanguinosa aurora,  Gualtiero, io non vedrò!  [squilli di trombe; sì comincia a sentire in lontananza il suono   di una marcia trionfale che si va sempre più avvicinando)  Gua. Odi?  Sve. {con rabbia) Ei trionfa!... Folgori   Non ha per gli empi il cielo!  Or gli omicida ammantansi  Della virtù col velo.  Gua. Che parli?   Sve. Un fero dubbio   Mi tormentava il petto.  Ora in certezza cangiasi  L' orribile sospetto.  Gua. Che far vorresti?   Sve. Nulla.   Io spettator - qui resto.  Gua. Ti uccidi!   Sve. Il voto è questo   Più ardente del mio cor! Al suono di marcia trionfale si avanzano i guerrieri, i principi,  i sacerdoti, i congiurati, il popolo. — Indi preceduti da una  schiera di guardie Amalasunta e Teodato rivestiti  delle insegne reali; poi Lausco, Starano ed altri guer-  rieri. Sveno e Gualtiero si confondono tra la folla; il  popolo manda grida festive.   Coro generale   Giunta è l'ora - dei Goti la stella   S'oscurava nell'italo cielo;   Ma fra breve più fulgida e bella   La vedranno i nemici brillar.   E nel fango dovranno gli ignavi   Sempre schiavi - servire e tremar!  Lau., Sva. e Congiurati (a bassa voce tra di loro)  (Nel silenzio, nell'ombra celati   Già a piombare la folgore è presta...   Dee quel serto di luce funesta   Di Teodalo sul capo brillar.   Pronti all'opra; già l'ora è suonata;   Gli empi schiavi dovranno tremar!)  Ama. (dal trono)   Popolo e prenci, udite il mio pensiero   Or tutti voi che a me giuraste fé,   Del mio talamo a parte e dell'impero   Ognun saluti in Teodato il Re!  Tutti Viva, viva Teodato! Rintroni   Tutta Italia di canti e di suoni;   E dei Rardi l'accento ispirato   Dica al mondo i dettami del fato!  Teo. (in piedi sul trono)   Su, mescete in colmi nappi!   La mia gioia ognun divida.   Ogni volto qui sorrida   Del contento del suo re! Lau. Sva. e Coro   Su, libiamo e repente rintroni  Tutta Italia di canti e di suoni ;  E dei Bardi l'accento ispirato  Narri al mondo i dettami del fato!  Sve. (slanciandosi di mezzo alle turbe  Or tutti ascoltatemi:  Vo' bevere anch'io!  Le tazze spumeggiano,  Esulta il cor mio.  Qui dove è sepolta  La salma tradita,  Unirò, i sacrileghi,  La morte alla vita!...  Ama. Sciagurato!   Teo. Quai detti! Che sento!   Tutti Vanne, fuggi: raffrena il tuo accento!  Sve. Di cantici e suoni (con impeto)   Rintroni la reggia,  Il vin che rosseggia  È sangue d'un re!  Su, datemi un calice,  Lo vuole il destino;  Al prence assassino (additando Teodato)  Bevete con me!...  Teo. (alzandosi furibondo)   Ah... è troppo! - Guerrieri! Addotto in ceppi  Ei venga, e tosto sia dannato a morte!  Ama. (gettandosi ai piedi di Teodato)   Deh, pietade, pietà della sua sorte!  Ei delira, infelice.  Guerrieri e Popolo A morte! A morte!  Teo. (con voce terribile respingendo Amalasunta)  Per lui preghi? Invan lo speri.  Temi or tu lo sdegno mio.  Tutti io leggo i tuoi pensieri,  E tuo sposo e re son io!  (* guerrieri si slanciano contro Sveno)  Ama. Deh, fermate, o ciel!...   Teo. Popolo!   Sve. indegno!   Teo. L'ultima ora per gli empi suonò!   donna, io t'accuso! (ad Amalasunta)   (al popolo) Per sete di regno  Del sangue del figlio costei si macchiò !  Ama. cielo, e tu il soffri!?  Lau., Sva. e Congiurati (tumultuando)   Discenda dal trono!  Di cingere il serto più degna non è!  Sve. Ah, l'empio trionfa!  Tutti Non speri perdono!   Discenda dal trono!  Congiurati Teodato fia re!   Ama. (strappandosi la corona e calpestandola)  M'uccidete! il patibolo è presto.  Ecco il serto... ai miei pie lo calpesto!  Ma tu, vile che esulti, paventa!  Già la folgore piomba su te!  Sve. Sì, m'uccidi ! Ma larva cruenta (a Teodato)  Me nei sogni, alle veglie vedrai!  Sì, m'uccidi, ma ovunqne ne andrai  Ombra irata verronne con te!  Teo., Lau., Sva., Congiurati e Coro   Traditori, tremate! Egual sorte  Vi riserba al supplizio, alla morte!  Empii entrambi! Tremendo, funesto,  Vi colpisce lo sdegno del re!  (Amalasunta e Sveno sono trascinati dai guerrieri, mentre  il popolo ed i Congiurati acclamano Teodato.)  Sala semidiroccata di un castello sul lago Trasimeno. In fondo  a destra una scalinata conduce alla terrazza di una vecchia  torre da cui traspare un lembo di cielo, solcato da neri nu-  voloni. - A sinistra pure sul fondo due porte le quali apren-  dosi lasciano vedere il lago. - È notte tempestosa. Una lam-  pada rischiara debolmente la scena.   Amalasunta seduta, immersa in un cupo silenzio:  alcune Damigelle le stanno intorno.   Dam. (parlando fra loro)   Oh, come rugge la tempesta!... Udite?...  Con sinistro fragor, del lago i flutti  Solleva il vento sibilando, e l'etra  La folgore rischiara...  Ama. Ahi... triste idea!...   Dam. Favella seco stessa... Ah, la ragione  L'infelice smarriva, il dì fatale  Che qui all' esiglio la dannar.  Ama. Lo sento...   Me chiama il figlio... e, nel lenzuol funebre  Avvolto, un uomo gli è d'accanto..: oh il veggio!  Sveno... Sveno tu sei!... Che parli?... E puoi  Maledirmi così?... Ah no, non fìa!...  Troppo il vivere è grave all'alma mia!...  Dam. Geme e soffre... l'atroce sventura [fra loro)  Di sua mente il sereno offuscò.  Così buona, sì candida e pura  Già tremendi dolori provò, (le Dam. partono)  Ama. (inginocchiandosi)   Signor, che col sangue hai redento  Dei mortali feroci il destino,  D'una misera ascolta il lamento,  Su lei volgi lo sguardo divino.     Figlio, amici, corona perdei!...  Deh, mi togli, o Signor, questa vita.  Tu che padre pei miseri sei,  Deh, perdona alla donna tradita!  (si sente un fragore d'armi che va sempre -più avvicinandosi)   SGENA II.   Sveno seguito da alcuni guerrieri romani ed Amalasuitta.  SvE. (accorrendo ad Amalasunta)   Ti riveggo... oh gioia!  Ama. (indietreggiando con terrore) Ognora  La sua larva appar così!...  Sve. Di salvarti è tempo ancora...   Per salvarti io venni qui!  Oh quante montagne stanotte ho varcato,  Per aspri sentieri, dei lampi al chiarori  »Tra gli ermi dirupi la mano del fato  »I passi guidava del mio corridori  Coll'oro corruppi gli sgherri inumani;  Dell'empio i disegni svelarono a me...  Fra poco a svenarti verranno gli insani...  Qui corsi a salvarti o morire con te.  Ama. Deh, taci!... vaneggi... che parli di morte?   Quest' oggi serena ci arride la sorte.  Sve. (con affetto e rapidamente)   Vieni... fuggiam! Propizia  É la tempesta a noi.  Vieni... i miei fidi attendono,  Salvare ancor ti puoi!  In altre terre profughi  Scampo securo avremo.  Là, ignoti al cielo e agli uomini,  Vivere ancor potremo!  (dal fondo entra Gualtiero)  Ama. (sempre delirando e sorridente)   Taci... che l'onda aspetta...  Azzurro è il ciel sereno...  Sull'agile barchetta,  Vieni, ci culli il mar'   Vedi, soave e placido  Tramonta il sole, o Sveno...  Della mia vita il tramite  Voglio così troncar!  Sve. (disperatamente)   Infelice!... non m'ode... o sventura!  Ah, ritorna in te stessa!...  Gua. (che in quel frattempo avrà spiato dalla porta in capo  allo scalone, accorrendo rapidamente)   V affretta!  Già d'armati risuona il fragor!  Sve. (tentando trascinare Àmalasunta)   Vieni... ah vieni!  Ama. (abbandonandosi sulla sedia)   La lieve barchetta...  Sovra il mare ci culli...  Gua. Oh terror!   Sve. A forza si tragga!...  Alcuni Romani (accorrendo da una porta laterale)  È tardi! t'arresta!  Già cinto è il castello.  Sve. La morte ci resta!   Coro di Goti (interno)   S'atterrin le porte!  Gua. Più speme non v'è!   Sve. (sguainando la spada)   Guerrieri, a pugnare venite con me!  {Sveno getta un ultimo sguardo sopra Àmalasunta quasi  assopita, e parte con Gualtiero ed i guerrieri)   Si ode il lontano cozzo delle armi ed il fragore della pugna.  Damigelle accorrendo atterrite.   Dam. Regina, regina. Deh, sorgi... ti desta;   Non odi dell'armi la furia funesta?  Ama. Voi piangete?... sul mio ciglio   Ora il pianto inaridì...   (t7 rumore si va sempre più avvicinando)  Non sapete?... Aveva un figlio...  Era bello... eppur morì!..,  (molti romani attraversano la scena fuggendo nella mas-  sima confusione e gridando)  Guerrieri romani   Fuggite! I nemici già infranser le porte!...  Fuggite! v' attende terribile morte.  (partono; le donne fuggono anch'esse; la scena resta deserta)  Ama. (sempre immobile e sorridente)   Dalla madre l'han diviso;   Poca terra il ricoprì.  E la madre dell' ucciso  Più non piange da quel dì!...  (il fragore della mischia è al colmo. Sveno mortalmente  ferito si precipita sulla scena, e va a cadere ai piedi  di Amalasunta. — Sul limitare della porta in fondo  compare Teodato colla spada sguainata, seguito da  Lausco e Svarano.)  Amalasunta, Sveno» Teodato, Lausco, Svarano.   La scena è rischiarata dai lampi.   Ama. (nel vedere Sveno moribondo, quasi destandosi da un  sogno)  Tu Sveno!... che miro?...  Sve. (con voce morente) Salvarti... voli' io...   L'estremo sospiro... tu accogli... del cor...  Ama. (alzando le mani al cielo disperatamente)   morte, a che tardi?  Teo. (con feroce ironia, avanzandosi)   Fia pago il desio!...  La morte che chiedi, io t'arreco!  Sve. (tentando sollevarsi) Oh furor !   Teo. Col tuo drudo ai danni miei  Qui tessevi inganni ancora. In mia possa alfine or sei...  Di tua morte è giunta l'ora!...   (sguainando il pugnale)   Questo ferro, ah tu noi sai,  Il tuo figlio uccise un dì!  [Sveno con supremo sforzo a/ferrando la spada si solleva  per slanciarsi su Teodalo, ma fatti alcuni passi ricade  al suolo e muore, - La tempesta rumoreggia colla mas-  sima violenza)  TEp. {gettando il suo pugnale ai piedi di Amalasunta)  Or lo prendi. - A te il serbai,  Or che il fato si compi !  Ama. (afferrando il pugnale e sollevandosi in tuono profetico  e solenne)   Godi!... ma ascoltami:  Vicina a morte,  Io la tua sorte  Predico a le!  Ancora un anno...  Poscia al cospetto  Del cielo - giudice  T aspetto - o Re!  (si uccide e va a cadere presso il cadavere di Sveno.)  Lau., Sva.   Un anno!  Teo. (tremante) I delitti han forse un confine   Che il piede dell'uomo varcare non può?...  Guerrieri Goti (prorompendo sulla scena con faci ed armi  insanguinate)  Del sangue degli empi-rosseggian le sale;  Già cadder svenali -dal nostro pugnale,  E il popol di schiavi - che Italia rinserra  Fra i re della terra - Teodato acclamò! Alberto Burgio. Keywords: dialettica ostrogota, filosofia ostrogota, filosofia aria, filosofia occidentale – Grice: the east and west --. “Those in a position to know” ostrogoto, longobardo, ario, ariano, mistica, scuola di mistica, lingua, religione, l’italia longobarda, l’italia ostrogota --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Burgio” – The Swimming-Pool Library.

 

Burtiglione.  

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